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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GIUGNO 2019

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aggiornamento al 28.06.2019

aggiornamento al 18.06.2019

aggiornamento all'11.06.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 28.06.2019

ã

PARCO ADDA NORD: le indagini penali avviate tempo addietro (si leggano i precedenti: AGGIORNAMENTO AL 30.06.2017 AGGIORNAMENTO AL 17.07.2017 AGGIORNAMENTO AL 31.07.2017 AGGIORNAMENTO AL 30.09.2017 AGGIORNAMENTO AL 10.10.2017) arrivano, pian piano, alla conclusione...

ENTI LOCALI: Assunse l’amante, rinviato a giudizio l’ex direttore del Parco Adda Nord.
L’architetto ultrasessantenne Giuseppe Minei è accusato di turbativa d’asta, abuso di ufficio e falso. Il dibattimento si aprirà il prossimo 10 ottobre. Anche la donna che l’ex direttore del parco fece assumere, Francesca Moroni, sarà processata.

Con l’accusa di aver pilotato la nomina, creando «artificiosamente» un posto di lavoro per la donna con cui «era legato da una stabile relazione affettiva», facendole, quindi, ottenere prima «l’assunzione e poi la progressione funzionale ed economica»,
Giuseppe Minei, ultrasessantenne architetto ed ex direttore del Parco Adda Nord è stato rinviato a giudizio a Milano per turbativa d’asta, abuso di ufficio e falso. Reato, il primo, che costerà il processo anche lei, Francesca Moroni, di 26 anni più giovane di lui. Il dibattimento si aprirà il prossimo 10 ottobre davanti al Tribunale di Milano.
A deciderlo è stato il gup Giusy Barbara che ha accolto la richiesta del pm Giovanni Polizzi, titolare delle indagini, e la proposta di patteggiamento, pena sospesa, di un terzo imputato, mentre la posizione di un quarto indagato era stata stralciata per la richiesta di archiviazione. L’inchiesta condotta dalla Squadra mobile, era partita in seguito di un’ispezione dell’Agenzia Regionale Anticorruzione.
La vicenda per cui oggi i due sono finiti a giudizio riguarda in particolare le presunte «manovre» di
Minei —nel capo di imputazione di parla di «complessiva strategia»— per fare in modo che la giovane, pure lei architetto, e di cui in precedenza era stato il capo nel Comune di Trucazzano, nell’hinterland milanese, nel 2014 vincesse un concorso nel Comune di Treviglio, contiguo al Parco.
Concorso in cui la donna, secondo la ricostruzione, si piazzò seconda per essere, quindi, «ripescata» dalla graduatoria da lui ed essere infine, tra il 2015 e il 2016, assunta e promossa all’interno dell’Ente che allora
Minei guidava (13.06.2019 – tratto da e link a https://milano.corriere.it).

ENTI LOCALI: Fece assumere amante, entrambi a giudizio. Pm Milano, creò per lei il posto e poi la promosse.
Con l'accusa di aver pilotato la nomina, creando "artificiosamente" un posto di lavoro per la donna con cui "era legato da una stabile relazione affettiva", facendole, quindi, ottenere prima "l'assunzione e poi la progressione funzionale ed economica",
Giuseppe Minei, ultrasessantenne architetto ed ex direttore del Parco Adda Nord è stato mandato a giudizio a Milano per turbativa d'asta, abuso di ufficio e falso. Reato, il primo, che costerà il processo anche lei, Francesca Moroni, di 26 anni più giovane di lui. Il dibattimento si aprirà il prossimo 10 ottobre davanti al Tribunale di Milano.
A deciderlo è stato il gup Giusy Barbara che ha accolto la richiesta del pm Giovanni Polizzi, titolare delle indagini, e la proposta di patteggiamento, pena sospesa, di un terzo imputato, mentre la posizione di un quarto indagato era stata stralciata per la richiesta di archiviazione (13.06.2019 - tratto da e link a www.ansa.it).

"A questo punto sorge una domanda spontanea": il Parco Adda Nord ha deliberato, o meno, di "costituirsi parte civile" nel processo per vedersi riconosciuto, in caso di condanna, quantomeno il danno all'immagine?

 
 

Regione Lombardia:
sulla "fungibilità" tra opere di urbanizzazione 1^ e 2^ ai fini dello scomputo dei corrispondenti oneri urbanizzativi.
La Corte dei Conti si è "ravveduta" ... ora, possiamo stare tranquilli.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In caso di realizzazione diretta da parte dell’operatore di opere di urbanizzazione primaria aventi un valore maggiore rispetto a quelli di urbanizzazione secondaria è possibile scomputare indistintamente il valore di dette opere dagli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
La convenzione urbanistica non può prevedere che la quota di contributo concernente il costo di costruzione possa essere assolta attraverso la realizzazione diretta da parte dell’operatore di opere concordate con l’amministrazione comunale perché la legge non lo prevede.
Giusta la soppressione dell'avverbio "distintamente" di cui all'art. 46, comma 1, lett. b), della L.R. n. 12/2005 [ad opera dell’articolo 21, comma 1, lettera h, della legge regionale 7 del 2010  (ndr: ex "Progetto di Legge -PdL- 0431" di iniziativa del Presidente della Giunta regionale nella cui relazione consiliare di accompagnamento si evince inequivocabilmente la ratio legis)], ed anche in sintonia con la legislazione nazionale in materia, la realizzazione di opere di urbanizzazione può essere scomputata dagli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, cumulativamente senza distinzione, a prescindere dalla tipologia di opere effettivamente eseguite dal privato, salvo clausole diverse e più onerose contenute nella convenzione urbanistica.
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Con riferimento all'interrogativo se la convenzione urbanistica può prevedere che la quota di contributo sul costo di costruzione possa essere totalmente assolta attraverso la realizzazione diretta da parte dell’operatore di opere concordate con l’amministrazione comunale la risposta è negativa, poiché la legge non lo prevede e ciò contrasterebbe con il principio di legalità.
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Il sindaco del comune di Trescore Balneario (BG) ha richiesto alla Sezione un parere sull’interpretazione dell’articolo 16 del DPR 380 del 2001 (Testo Unico sull’edilizia), in merito allo scomputo totale o parziale degli oneri di urbanizzazione per la realizzazione diretta delle opere.
Chiede inoltre se, con riferimento all’articolo 46, comma 1, lettera b), della legge regionale 12 del 2005, sia possibile, con la realizzazione diretta a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria, la corresponsione al comune della eventuale differenza, nel caso in cui gli oneri risultino inferiori a quelli previsti.
La richiesta è articolata in due distinti quesiti.
Nel primo si domanda se, nel caso di realizzazione diretta da parte dell’operatore di opere di urbanizzazione primaria aventi un valore maggiore rispetto a quelli di urbanizzazione secondaria, sia possibile “scomputare indistintamente il valore di dette opere dagli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
Nel secondo se la convenzione urbanistica può prevedere che la quota di contributo concernente il costo di costruzione possa essere “totalmente assolta” attraverso la “realizzazione diretta da parte dell’operatore di opere concordate con l’amministrazione comunale.
...
2. La questione dell’utilizzazione dei proventi dei cosiddetti oneri di urbanizzazione e relative sanzioni è stata ripetutamente scandagliata da questa Corte.
Si richiamano in particolare le deliberazioni di questa Sezione (parere 09.02.2016 n. 38, parere 23.03.2017 n. 81 e, da ultimo, parere 20.12.2017 n. 372, dal cui esame è possibile ricostruire il complesso quadro normativo, che è di seguito sinteticamente richiamato ai fini dell’inquadramento della risposta ai quesiti formulati e il parere 23.02.2015 n. 83, in cui è trattata una fattispecie analoga a quella sollevata nei quesiti in esame.
3. I quesiti richiamano indirettamente l’articolo 4 della legge 847 del 1964 (urbanizzazione primaria) e l’articolo 44 della legge 865 del 1971 (urbanizzazione secondaria).
La legge 847 del 1964 autorizza i comuni a contrarre mutui ai sensi della legge 167 del 1962 per realizzare, tra l’altro, le opere di urbanizzazione primaria e secondaria [rispettivamente lettere b) e c) dell’art. 1], come specificate nell’articolo 4 della legge stessa.
Le opere di urbanizzazione primaria, indicate nell’art. 4, sono: a)
strade residenziali; b) spazi di sosta o di parcheggio; c) fognature; d) rete idrica; e) rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas; f) pubblica illuminazione; g) spazi di verde attrezzato.
Queste sette fattispecie sono elencate nel comma 7 dell’articolo 16 del TU sull’edilizia.
A queste vanno aggiunti gli
impianti cimiteriali (ai sensi dell’articolo 26-bis del decreto-legge 415 del 1989 convertito dalla legge 38 del 1990) e le reti telefoniche (circolare 31.03.1972, n. 2015 del ministero dei lavori pubblici), non indicati nel TU.
Più recentemente (art. 6, comma 3-bis, legge n. 164 del 2014) è stata aggiunta la lettera g-bis), anch’essa non indicata nel TU, relativa alle
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli articoli 87 e 88 del codice delle comunicazioni elettroniche, (decreto legislativo 01.08.2003, n. 259, e successive modificazioni), e opere di infrastrutturazione per la realizzazione delle reti di comunicazione elettronica ad alta velocità in fibra ottica in grado di fornire servizi di accesso a banda ultra-larga effettuate anche all'interno degli edifici.
Di “cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai comuni sulla base dei criteri definiti dalle regioni”, parla, infine, il comma 7-bis dell’art. 16 del TU sull’edilizia, introdotto dall’articolo 40, comma 8, della legge 166 del 2002.
Le opere di urbanizzazione secondaria sono state introdotte con la richiamata novella del 1971, che ha integrato l’art. 4 della legge 847 del 1964, specificando gli interventi la cui indicazione era stata prevista dalla richiamata lettera c) dell’art. 1.
Si tratta di: a)
asili nido e scuole materne; b) scuole dell'obbligo (“nonché strutture e complessi per l’istruzione superiore all’obbligo”); c) mercati di quartiere; d) delegazioni comunali; e) chiese e altri edifici religiosi; f) impianti sportivi di quartiere; g) centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie; h) aree verdi di quartiere (“Nelle attrezzature sanitarie sono ricomprese le opere, le costruzioni e gli impianti destinati allo smaltimento, al riciclaggio o alla distruzione dei rifiuti urbani, speciali, pericolosi, solidi e liquidi, alla bonifica di aree inquinate”).
Le otto fattispecie, integrate dai richiami tra le parentesi, sono riportate nel comma 8 dell’articolo 16 del più volte richiamato TU.
 4. La distinzione tra le opere di urbanizzazione primaria e secondaria (e dei connessi oneri), che i comuni ogni cinque anni aggiornano, secondo quanto dispone il comma 5 dell’articolo 16 del TU, sulla base dei “riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale”, assume sia nella legislazione risalente, sia nelle più recenti innovazioni, una connotazione che non presenta distinzioni sotto il profilo del trattamento finanziario.
In altre parole, la struttura dell’opera da realizzare implica interventi di urbanizzazione di diversa natura, cui è associato un onere a carico dell’operatore, periodicamente rivisto dai comuni in base al loro costo. Anche l’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle che la regione definisce per classi di comuni su parametri che non distinguono tra le due tipologie (comma 4 del richiamato articolo 16).
La classificazione tipologica e funzionale delle diverse attrezzature e degli impianti, delle opere di urbanizzazione tra primarie e secondarie non si riferisce a un carattere di priorità delle diverse opere, che sono, tutte, indispensabili e tra loro interconnesse e complementari, quanto piuttosto alla più o meno immediata funzione strumentale rispetto ai singoli manufatti (o nuove destinazioni d’uso) cui accedono e alla successione temporale con la quale generalmente vengono realizzate.
La distinzione strutturale attiene a un diverso profilo e si ritrova in un altro punto del richiamato TU (articolo 2, comma 12), dove le opere di urbanizzazione primaria sono configurate come presupposto del permesso a costruire. Si afferma, infatti, che il suo rilascio “è comunque subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte del comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all'impegno degli interessati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell'intervento oggetto del permesso”.
 5. Com’è noto, infatti, il rilascio del permesso di costruire da parte di un’amministrazione comunale comporta per il privato la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione (art. 16, comma 1, del TU).
L'articolo 10 del testo unico elenca gli interventi soggetti a permesso di costruire: interventi di nuova costruzione; interventi di ristrutturazione urbanistica; interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (la zona A è quella che comprende le parti di territorio aventi agglomerati urbani di carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante degli agglomerati stessi).
6. L’utilizzo dei proventi in esame, è stato oggetto di ripetuti interventi del legislatore, che ha reintrodotto, da ultimo, uno stringente vincolo di destinazione (comma 460 della legge 232 del 2016), come esaminato da questa Sezione nel parere 23.03.2017 n. 81 e nel parere 20.12.2017 n. 372.
Anche in questo caso la fattispecie è stata trattata senza operare alcuna distinzione tra oneri derivanti da urbanizzazione primaria e secondaria. Lo stesso si può rinvenire nella precedente legislazione.
Nel parere 09.02.2016 n. 38, in cui è ricostruito il processo normativo, si afferma che <<Prima dell’attuale “contributo per permesso di costruire”, i Comuni riscuotevano … gli “oneri di urbanizzazione” previsti dalla legge n. 10 del 1977, che subordinava la concessione edilizia alla corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione (art. 3). I proventi delle concessioni erano versati in un conto corrente vincolato presso la tesoreria del comune ed erano espressamente destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, all'acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali di cui all'art. 13, “nonché, nel limite massimo del 30 per cento, a spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale” (art. 12, come modificato dall’art. 16-bis del decreto legge n. 318 del 1986, convertito con modificazioni dalla legge n. 488 del 1986)>>.
Negli anni seguenti, fino alle richiamate disposizioni della legge di bilancio per il 2017, la copiosa attività normativa (ampiamente ricostruita nel richiamato parere 09.02.2016 n. 38), ha modificato più volte la destinazione dei proventi in esame,
senza mai distinguere tra la loro origine primaria o secondaria.
 7.
L’uniformità sotto il profilo finanziario degli oneri di urbanizzazione condurrebbe il ragionamento sistematico a propendere per l’ammissibilità dello scomputo in maniera indistinta degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, qualora il titolare del permesso di costruire abbia realizzato direttamente opere di urbanizzazioni primarie d’importo maggiore rispetto a quanto dovuto in base ai parametri tabellari.
La più recente giurisprudenza amministrativa sembra muoversi in sintonia con il ragionamento finora svolto, come emerge dalla decisione del Tar Campania-Salerno (sentenza 31.01.2017 n. 179): <<
Fatte queste necessarie premesse, vengono in considerazione il primo e secondo motivo di ricorso, suscettibili di trattazione congiunta, coi quali si contesta quanto affermato dall’ufficio a proposito della riconducibilità del diritto allo scomputo alle sole opere di urbanizzazione primaria e con esclusione, quindi, di quelle di urbanizzazione secondaria, lamentando la violazione dell’art. 16 d.P.R. n. 380/2001. Ebbene, va evidenziato, come dedotto in ricorso, che secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione di discostarsi in questa sede, “può ammettersi anche la scomputabilità del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria dall'importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di cui trattasi, non ravvisandosi ragioni ostative alla compensazione tra obbligazioni intercorrenti tra i medesimi soggetti e nascenti dal medesimo rapporto convenzionale: difatti lo scomputo, totale o parziale, della quota di contributo dovuta in caso di realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione deve essere effettuato senza distinzione tra opere di urbanizzazione primaria e secondaria, atteso che la mancata distinzione nella sede legislativa specifica (art. 11 l. 28.01.1977 n. 10) delle due categorie di opere vieta all'interprete di introdurre una siffatta distinzione” (cfr. TAR Toscana-Firenze, sez. III, 11.08.2004, n. 3181; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.07.2005 n. 4015; TAR Sicilia-Catania, sez. I, 02.02.2012 n. 279.>>.
 8. Nella stessa direzione può essere articolato il ragionamento se si considera la legge regionale 12 del 2005 che, all’articolo 46 (Convenzione dei piani attuativi), disciplina la convezione alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruzione che dispone “la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere devono essere esattamente definite; ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti [
distintamente] per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al piano attuativo, nonché all'entità ed alle caratteristiche dell'insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale”.
Orbene,
proprio l’avverbio distintamente è stato soppresso dall’articolo 21, comma 1, lettera h, della legge regionale 7 del 2010  (ndr: ex "Progetto di Legge -PdL- 0431" di iniziativa del Presidente della Giunta regionale nella cui relazione consiliare di accompagnamento si evince inequivocabilmente la ratio legis) per cui, anche in sintonia con la legislazione regionale, la realizzazione di opere di urbanizzazione può essere scomputata dagli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, cumulativamente senza distinzione, a prescindere dalla tipologia di opere effettivamente eseguite dal privato, salvo clausole diverse e più onerose contenute nella convenzione urbanistica.
 9.
Il nuovo codice degli appalti (decreto legislativo numero 50 del 2016), che ha dato inquadramento sistematico alle tipologie di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, insieme al consolidato orientamento del giudice amministrativo e alla novellata legislazione regionale, porta questa Sezione al superamento di precedenti orientamenti giurisprudenziali.
Il rispetto dei principi costituzionali “di tutela del paesaggio, del suolo, del territorio e dell’ambiente in cui si sviluppa la persona umana” e la protezione degli “imprescindibili valori di vita e salute”, è garantito dalla considerazione dell’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria come presupposto al rilascio del permesso di costruzione.
In altre parole,
se non sussistono, o non possono essere realizzate, non si può costruire. In questo si fonda la distinzione strutturale, che appare compatibile con il trattamento unitario dello scomputo.
 10.
Con riferimento al secondo quesito -se la convenzione urbanistica può prevedere che la quota di contributo sul costo di costruzione possa essere totalmente assolta attraverso la realizzazione diretta da parte dell’operatore di opere concordate con l’amministrazione comunale– la risposta è negativa, poiché la legge non lo prevede e ciò contrasterebbe con il principio di legalità (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 14.05.2018 n. 154).

...e correlata giurisprudenza amministrativa sempre in materia di "fungibilità":

EDILIZIA PRIVATA: Vale la regola della scomputabilità del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria realizzate dal lottizzante dall'importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di cui trattasi, talché l’eccedenza dell’importo già corrisposta nella forma di oneri di urbanizzazione secondaria scomputati mediante la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione (primarie e/o secondarie) prescinde dalla tipologia delle opere stesse.
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2. Con la prima doglianza la ricorrente lamenta il mancato scomputo, nell’impugnata determinazione avente ad oggetto il conguaglio dovuto, dell’eccedenza di importo per oneri di urbanizzazione secondaria conteggiata in relazione alla concessione edilizia del 2003 (euro 18.265,6).
Il rilievo è fondato.
Premesso che in forza della concessione edilizia sono stati addebitati dal Comune oneri di urbanizzazione secondaria per euro 99.156,11, superiori a quelli dovuti in relazione alla attuale destinazione d’uso (euro 80.890,51), il Collegio osserva quanto segue.
Gli oneri di urbanizzazione secondaria furono originariamente scomputati a fronte della realizzazione, da parte del lottizzante, di una strada di allacciamento alla viabilità primaria (si veda l’art. 3 della convenzione, costituente il documento n. 13 allegato al ricorso), ovvero di un’opera funzionale sia alla destinazione industriale che a quella commerciale.
Non vale pertanto a giustificare l’atto impugnato l’indirizzo interpretativo, invocato dalla difesa del Comune di Prato, secondo cui la quota corrisposta di oneri di urbanizzazione concernenti la destinazione originaria può essere detratta da quanto dovuto attualmente solo nella parte in cui attiene ad opere di urbanizzazione fruibili anche nell’ambito della nuova destinazione, in quanto nel caso di specie le opere di urbanizzazione realizzate in forza dello scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria sono fruibili anche per la nuova destinazione.
In ogni caso, vale la regola della scomputabilità del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria realizzate dal lottizzante dall'importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di cui trattasi (TAR Toscana, III, 11.08.2004, n. 3181), talché l’eccedenza dell’importo già corrisposta nella forma di oneri di urbanizzazione secondaria scomputati mediante la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione (primarie e/o secondarie) prescinde dalla tipologia delle opere stesse.
Pertanto, l’eccedenza di oneri di urbanizzazione secondaria può essere detratta dall’importo degli oneri di urbanizzazione primaria attualmente dovuti in relazione alla mutata destinazione d’uso (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASecondo consolidato orientamento giurisprudenziale, “può ammettersi anche la scomputabilità del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria dall'importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di cui trattasi, non ravvisandosi ragioni ostative alla compensazione tra obbligazioni intercorrenti tra i medesimi soggetti e nascenti dal medesimo rapporto convenzionale: difatti lo scomputo, totale o parziale, della quota di contributo dovuta in caso di realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione deve essere effettuato senza distinzione tra opere di urbanizzazione primaria e secondaria, atteso che la mancata distinzione nella sede legislativa specifica (art. 11 l. 28.01.1977 n. 10) delle due categorie di opere vieta all'interprete di introdurre una siffatta distinzione”.
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Deve tuttavia rilevarsi che la predetta convenzione limita espressamente il diritto allo scomputo ai “soli oneri di urbanizzazione primaria”.
Questa Sezione ha avuto infatti modo di osservare che “l'art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l'art. 11, comma 1, della legge n. 10/1977) consente al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e previste in una convenzione o in un atto unilaterale d'obbligo. La concessione edilizia è, infatti, normalmente onerosa, tranne le tassative ipotesi di gratuità. Gli oneri di urbanizzazione sono previsti, infatti, a carico del costruttore, quale prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione di al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della collettività che scaturiscono dagli interventi di edificazione”.
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II.1. Fatte queste necessarie premesse, vengono in considerazione il primo e secondo motivo di ricorso, suscettibili di trattazione congiunta, coi quali si contesta quanto affermato dall’ufficio a proposito della riconducibilità del diritto allo scomputo alle sole opere di urbanizzazione primaria e con esclusione, quindi, di quelle di urbanizzazione secondaria, lamentando la violazione dell’art. 16 d.P.R. n. 380/2001.
Ebbene, va evidenziato, come dedotto in ricorso, che secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione di discostarsi in questa sede, “può ammettersi anche la scomputabilità del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria dall'importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di cui trattasi, non ravvisandosi ragioni ostative alla compensazione tra obbligazioni intercorrenti tra i medesimi soggetti e nascenti dal medesimo rapporto convenzionale: difatti lo scomputo, totale o parziale, della quota di contributo dovuta in caso di realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione deve essere effettuato senza distinzione tra opere di urbanizzazione primaria e secondaria, atteso che la mancata distinzione nella sede legislativa specifica (art. 11 l. 28.01.1977 n. 10) delle due categorie di opere vieta all'interprete di introdurre una siffatta distinzione” (cfr. TAR Toscana Firenze, sez. III, 11.08.2004, n. 3181; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.07.2005 n. 4015; TAR Sicilia-Catania, sez. I 02.02.2012 n. 279).
Deve tuttavia rilevarsi, come controdedotto dalla difesa comunale, che la predetta convenzione (artt. 6.3 e 14) limita espressamente il diritto allo scomputo ai “soli oneri di urbanizzazione primaria”. Questa Sezione ha avuto infatti modo di osservare che “l'art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l'art. 11, comma 1, della legge n. 10/1977) consente al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e previste in una convenzione o in un atto unilaterale d'obbligo. La concessione edilizia è, infatti, normalmente onerosa, tranne le tassative ipotesi di gratuità. Gli oneri di urbanizzazione sono previsti, infatti, a carico del costruttore, quale prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione di al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della collettività che scaturiscono dagli interventi di edificazione” (TAR Campania-Salerno, sez. I, 09.01.2015, n. 28).
Non si riviene, quindi, agli atti il necessario elemento volontaristico, riconducibile all’Amministrazione comunale, di guisa che non può configurarsi il preteso diritto allo scomputo.
I motivi in esame vanno quindi respinti in base alla stesse disposizioni convenzionali invocate da parte ricorrente a sostegno della sua pretesa (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2017 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 
 

L'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio non è una ristrutturazione edilizia "minore", sicché non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività ma abbisogna del permesso di costruire.

EDILIZIA PRIVATA: Apertura di porte e di finestre sul prospetto di un edificio: disciplina.
L’apertura di porte e di finestre sul prospetto di un edificio va sempre qualificato come intervento di ristrutturazione edilizia comportante modifica dei prospetti, assoggettato (tuttora) al regime del permesso di costruire ex art. 10, primo comma, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, non modificato dal decreto legge “Sblocca Italia” 12.09.2014 n. 133, convertito in legge 11.11.2014 n. 164.
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Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il Condominio di Via ... n. 12 ha agito per l’annullamento della determinazione dirigenziale rep. n. 3231 del 06.11.2017, di irrogazione delle sanzioni demolitoria e pecuniaria per interventi edilizi asseritamente abusivi realizzati nel suddetto fabbricato condominiale, nonché degli altri atti in epigrafe indicati.
Nello specifico, gli interventi sanzionati si sono sostanziati nella realizzazione di un foro di 12 cm. di diametro per consentire il passaggio di una tubazione in polipropilene del diametro di 11 cm, utilizzata per convogliare i reflui fognari alla rete condominiale, nonché nella realizzazione di una porta sul prospetto posteriore del fabbricato, con affaccio sul cortile interno, di accesso secondario al medesimo.
...
4. Non meritano, per contro, accoglimento le deduzioni dirette a sostenere l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui ingiunge il ripristino dello stato dei luoghi relativamente alla realizzazione della porta sul prospetto posteriore del fabbricato, con affaccio sul cortile interno, di accesso secondario al medesimo.
4.1. Il Collegio premette, al riguardo, che sono estranei al presente giudizio i profili eminentemente privatistici inerenti al contenzioso insorto tra la ricorrente e la controinteressata, oggetto, peraltro, del giudizio instaurato innanzi al giudice ordinario, rilevando, in via esclusiva, la legittimità dell’operato dell’amministrazione.
4.1. Il Collegio non valuta suscettibili di positivo apprezzamento le deduzioni della parte ricorrente con le quali è stata sostenuta la risalenza della realizzazione della porta in questione all’epoca della edificazione del fabbricato, con conseguente esclusione della sottoposizione al regime del permesso di costruire.
E, invero, nessuno degli elementi prodotti in giudizio, inclusa la relazione redatta da tecnico di parte depositata dalla difesa del Condominio ricorrente in data 18.04.2019, sono idonei a comprovare la circostanza asserita, con conseguente esclusione anche della richiesta istruttoria volta a sollecitare il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio, venendo in rilievo un onere probatorio gravante in via diretta sul condominio ricorrente.
4.2. Si evidenzia, infatti, che la porta in questione non figura rappresentata nel progetto presentato negli anni ’50 per la sopraelevazione del fabbricato e che le circostanze evidenziate nella relazione tecnica depositata in data 18.04.2019, a firma dell’Ing. Ze., segnatamente riferite alla assenza di alterazioni dei materiali costruttivi anche con riferimento alla pavimentazione, non rivestono i connotati della significatività, venendo in rilievo non già la costruzione della parete bensì l’apertura di un varco nella stessa, con conseguente non alterazione dei materiali costruttivi del muro.
Del pari, non consta in atti che detta porta abbia mai costituito l’unico accesso all’area cortilizia ed all’attiguo fabbricato in proprietà della controinteressata, risultando, anzi, dalla documentazione depositata dalla difesa di quest’ultima in data 30.03.2018 l’esistenza di un accesso da altro ingresso, sicché tale circostanza priva di significatività anche l’elemento costituito dalla originaria destinazione del fabbricato attiguo, pure quanto alla utilizzazione dei locali lavatoi ubicati sul lastrico solare dello stesso e successivamente demoliti.
Ai fini che ne occupano, inoltre, non può riconnettersi valenza probatoria alla mail della Sig.ra Co. prodotta dalla difesa di parte ricorrente, afferendo la narrazione ivi riportata ad eventi molto risalenti rappresentati de relato e non supportati da evidenze obiettive. La circostanza, infine, che non sia stato reperito, neppure a seguito di accesso, il progetto originario del fabbricato non costituisce esimente idonea ad elidere l’onere probatorio gravante sulla parte, potendo, invece, rilevare ad altri fini, per quanto attiene, in particolare, l’ulteriore contestazione incentrata sulla violazione del principio di proporzionalità relativamente alla irrogazione della sanzione pecuniaria.
5. Esclusa, dunque, la realizzazione dell’opera in epoca precedente alla legge urbanistica n. 1150 del 1942, il Collegio rileva che legittimamente l’amministrazione comunale ha disposto l’ordine di ripristino con riferimento alla porta in questione.
5.1. Si evidenzia, infatti, che
l’apertura di porte e di finestre sul prospetto di un edificio va qualificato -sempre- come intervento di ristrutturazione edilizia comportante modifica dei prospetti, assoggettato (tuttora) al regime del permesso di costruire ex art. 10, primo comma, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (cfr: Corte di Cassazione penale, III Sezione, 20.05.2014 n. 30575), non modificato dal decreto legge “Sblocca Italia” 12.09.2014 n. 133 (convertito in legge 11.11.2014 n. 164), che (per quanto qui interessa) si limita a ricomprendere nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria, di cui all’art. 3, primo comma, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, quelli (insussistenti nel caso di specie) consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico, purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione di uso.
5.2. E, invero, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza anche del Giudice di Appello (Cons. St., n. 3173 del 2016; id. 380 del 2012),
l’apertura di porte finestrate e di finestre sul prospetto di un edificio va qualificato -sempre- come intervento di ristrutturazione edilizia comportante modifica dei prospetti, assoggettato (tuttora) al regime del permesso di costruire ex art. 10, primo comma, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (cfr: Corte di Cassazione penale, III Sezione, n. 30575 del 2014) (
TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 17.06.2019 n. 7818 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività.
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3.6.Resta, dunque, il fatto così come descritto nella sentenza impugnata che si iscrive a pieno titolo nella fattispecie di reato contestata atteso che, secondo l'interpretazione sistematica degli artt. 3, lett. d), 10, comma 1, lett. c), 22, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, come modificati dall'art. 30, comma 1, lett. a), c) ed e), dl. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013, e, da ultimo dall'art. 17, comma 1, lett. d), d.l. n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalle legge n. 164 del 2014, e 3, comma 1, lett. f), n. 2), d.l. n. 222 del 2016, gli interventi edilizi che, come nel caso di specie, comportano l'ampliamento della volumetria preesistente all'esterno della sagoma esistente l'apertura di nuovi pareti finestrate, possono essere realizzati solo con permesso di costruire o altro titolo equipollente trattandosi di interventi classificabili come di "nuova costruzione" ai sensi della lettera e.1) dell'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 38632 del 31/05/2017, Molari, Rv. 270826) e comunque non di ristrutturazione cd. "minore" (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Limongi, Rv. 259905, secondo cui, l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività; nello stesso senso, da ultimo, Sez. 3, n. 921 del 10/10/2017, dep. 2018, Carenza, n.m.; Sez. 3, n. 38853 del 05/04/2017, Zizzi, n.m.) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.09.2018 n. 41256).

EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo all'apertura delle finestre nel muro perimetrale, questa Corte ha costantemente affermato trattarsi di un intervento che necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività, configurando un'opera comportante la modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia minore.
Ciò, peraltro, in adesione alla lettera dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di interventi subordinati a permesso di costruire, in forza del quale lo stesso provvedimento è richiesto -tra l'altro- per quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti.

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4. Manifestamente infondata, poi, risulta anche la seconda doglianza del Ca., relativa alle cd. opere minori.
Premesso che l'intero motivo -in esito ad una completa disamina delle norme di riferimento in punto di titoli abilitativi- pare concernere soltanto la realizzazione del bagno nel sottoscala, per la quale la Corte di appello ha pronunciato sentenza di assoluzione, escludendo il mutamento di destinazione d'uso; ciò premesso, si osserva comunque che, con riguardo all'apertura delle finestre nel muro perimetrale, questa Corte ha costantemente affermato trattarsi di un intervento che necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività, configurando un'opera comportante la modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia minore (tra le altre, Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Limongi, Rv. 259905; Sez. 3, n. 38338 del 21/05/2013, Cataldo, Rv. 256381).
Ciò, peraltro, in adesione alla lettera dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di interventi subordinati a permesso di costruire, in forza del quale lo stesso provvedimento è richiesto -tra l'altro- per quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti.
E ferma restando, infine, la violazione paesaggistica comunque riscontrata anche nel caso di specie, tale da integrare anche la violazione dell'art. 181 di cui alla rubrica. In ordine, infine, all'abbattimento del muro di confine, la Corte di appello -non espressamente contestata al riguardo, in assenza di considerazioni sul punto- ha evidenziato ancora non solo il necessario titolo abilitativo, assente, ma anche l'incidenza dell'intervento sul bene paesaggistico tutelato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.01.2018 n. 921).

EDILIZIA PRIVATAL'esecuzione di interventi comportanti la modifica dei prospetti non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie "minori" e, come tale, richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire, non essendo sufficiente il mero rilascio della denuncia di inizio attività.
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1. I ricorsi sono solo parzialmente fondati e, dunque, devono essere accolti per quanto di ragione.
2. Muovendo dal primo motivo di censura, con il quale i ricorrenti si dolgono di una serie di profili concernenti la ritenuta illegittimità degli atti amministrativi emessi da Ba.Zi., giova preliminarmente rilevare l'infondatezza della tesi difensiva secondo cui l'intervento edilizio de quo, consistito nella realizzazione, in luogo di una finestra, di una porta di accesso/uscita al primo piano, protetta da un anta in metallo e pennellatura in vetro, posta a circa due metri di altezza dalla sede stradale, avrebbe potuto essere eseguito attraverso una super-D.I.A. ai sensi dell'art. 22, comma 3, lett. a), del d.p.r. n. 380 del 2001.
Infatti, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, l'esecuzione di interventi comportanti, come nel caso in esame, la modifica dei prospetti, non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie "minori" e come tale richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire, non essendo sufficiente il mero rilascio della denuncia di inizio attività (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, dep. 11/07/2014, Limongi, Rv. 259905; Sez. 3, n. 38338 del 21/05/2013, dep. 18/09/2013, Cataldo, Rv. 256381; Sez. 3, n. 834/2009 del 04/12/2008 dep. 13/01/2009, P.M. in proc. Della Monica, Rv. 242160; Sez. 3, n. 1893/2007 del 14/12/2006, dep. 23/01/2007, Cristiano, Rv. 235871).
Rilascio del permesso di costruire che, nel caso di specie, si imponeva, secondo quanto correttamente riferito dalle sentenze di merito, anche alla luce dell'art. 10, lett. h), del regolamento edilizio comunale, a mente del quale dovevano ritenersi assoggettate a licenza di costruzione le opere seguenti: "aperture, chiusura modifica di ingressi esterni, finestre balconi" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.08.2017 n. 38853).

IN EVIDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Il comune può ordinare la bonifica dei luoghi ai sensi del codice stradale.
Spetta al proprietario della strada garantire la sicurezza della circolazione. Quindi se vengono rinvenuti rifiuti su una strada dell'Anas il comune deve ordinare la pulizia e il ripristino dei luoghi.
In via generale, sono illegittimi gli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione di tale sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’amministrazione procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente motivazione.
Sotto questo profilo è stato infatti ripetutamente affermato che
la disciplina contenuta nel predetto art. 192 del 2006 è improntata ad una rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, non residuando al riguardo alcuno spazio per una responsabilità oggettiva, posto che per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturito l’abbandono illecito di rifiuti occorre quantomeno la colpa, e che tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione -per l’appunto- ad un’eventuale responsabilità solidale del proprietario dell’area
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A ben vedere la giurisprudenza è pervenuta a tale conclusione nel rilievo che
il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, al fine di impedire ad estranei di penetrare nell’area e di abbandonarvi i rifiuti: la richiesta di un impegno di tale entità -infatti- travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media che è alla base della stessa nozione di colpa.
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L'abbandono di rifiuti lungo una strada statale configura una fattispecie del tutto particolare, posto che risulta del tutto infondato l’assunto del giudice di primo grado, secondo il quale l’obbligo per Anas S.p.a. di rimuovere i rifiuti in questione non sarebbe imposto “da alcuna norma di legge o regolamentare o di altra natura”.
Qui il regime di responsabilità del soggetto proprietario viene infatti per contro a fondarsi in via esplicita ed inequivoca sulla disciplina contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della strada), con specifico riguardo alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze che è ivi affermato in capo ai soggetti che ne sono proprietari o concessionari.
Più precisamente, il comma 1, lett. a), di tale articolo pone a carico degli enti proprietari la “manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”, nel mentre il susseguente comma 3 precisa che “per le strade in concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che sia diversamente stabilito”.
Tra la disciplina di ordine generale contenuta nell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 e quella specifica per i soggetti proprietari e concessionari di strade contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 viene pertanto ad instaurarsi un rapporto di specialità, contraddistinto dalla sussistenza nell’ordinamento di una norma puntuale che, al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione stradale, impone in via diretta al soggetto proprietario o concessionario della strada di provvedere alla sua pulizia e, quindi, di rimuovere i rifiuti depositati sulla strada medesima e sulle sue pertinenze.
Tale obbligo può ben correlarsi anche alle concorrenti necessità dell’incolumità pubblica, nonché all’esigenza di evitare pregiudizi all’ambiente e a tutti coloro che sono insediati nel territorio, e deve pertanto essere fatto rispettare -in caso di inadempienza del proprietario o del concessionario- dall’amministrazione comunale, in quanto istituzionalmente tenuta a esercitare tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, anche con precipuo riguardo ai servizi resi alla comunità e all’assetto e all’utilizzazione del territorio medesimo.
Se così è, condivisibilmente il Comune ha dunque emesso il provvedimento impugnato nei confronti di Anas S.p.a., e ciò proprio in quanto quest’ultima è istituzionalmente e inderogabilmente obbligata a mantenere la pulizia della strada da essa gestita e delle sue pertinenze.
In tal senso la disciplina dell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 si configura quale parametro normativo per l’individuazione del profilo della colpa presupposto in via generale dall’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006; e la disciplina medesima, proprio in quanto è direttamente presupposta dalla mera circostanza della proprietà ovvero del rapporto concessorio del soggetto inderogabilmente preposto alla sua osservanza, neppure necessita di essere direttamente richiamata dai provvedimenti di rimozione dei rifiuti emessi dalle autorità comunali, essendo –per l’appunto– insito ex lege nella stessa qualità dell’ente indicato quale proprietario o concessionario della pubblica strada la conseguente necessità di ottemperare all’obbligo di legge ad esso comunque imposto.
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1.1. In data 29.01.2008 gli agenti del Corpo Forestale dello Stato hanno eseguito un sopralluogo in località Beneficio del Comune di San Giuseppe Vesuviano (NA), accertando ivi la presenza di una consistente quantità di rifiuti abbandonati nei pressi di una stradina laterale alla Strada Statale n. 268, di proprietà dell’Anas S.p.a. e da essa adibita a viabilità di servizio.
La circostanza è stata accertata contestualmente anche da personale dipendente dall’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Campania (A.R.P.A.C.) e dal Comune di San Giuseppe Vesuviano.
In dipendenza di ciò, con ordinanza n. 22 dd. 28.02.2008 il Responsabile del Servizio Urbanistica, Gestione Territorio, Progettazioni–LL.PP. e Catasto del Comune di San Giuseppe Vesuviano, “vista la comunicazione ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 dalla quale si rileva che in data 29.01.2008” il Corpo Forestale dello Stato “ha proceduto al sequestro penale anche a carico di ignoti di circa 60 mc. di rifiuti speciali ex art. 155 del d.lgs. 152 del 2006, costituiti prevalentemente da rifiuti provenienti da demolizioni, materiale plastico di vario genere, pneumatici ed onduline presumibilmente contenenti amianto, insistenti all’interno delle particelle nn. 204 - 1387 - 1384 - 1382 del foglio n. 6 del N.C.T. del Comune di San Giuseppe Vesuviano – Contrada Beneficio” , “visto l’art. 192 (divieto di abbandono) del d.lgs. 03.04.2006, n. 154, commi 1-2-3 e 4” e “viste le visure catastali dalle quali si evince che le predette particelle sono di proprietà Anas”, ha ordinato all’Anas S.p.a., “nella persona del legale rappresentante, dipartimento Centro 1, viale Kennedy 17 Fuorigrotta-Napoli, di provvedere ad horas alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti sopra citati, perché pericolosi per la pubblica incolumità, ed alla bonifica del luogo, nel più breve tempo possibile, onde evitare disagi alla popolazione nonché all’ambiente, previo dissequestro da parte dell’Autorità Giudiziaria”: il tutto con la rituale avvertenza che “la mancata ottemperanza … oltre a quanto stabilito dal Codice Penale, vedrà costretta quest’Amministrazione a provvedere in danno del soggetto obbligato al recupero delle somme anticipate, come previsto dal d.lgs. 152 del 2006”.
1.2. Con ricorso proposto sub R.G. 3167 del 2008 innanzi al TAR per la Campania, Sede di Napoli, Anas S.p.a. ha chiesto l’annullamento di tale provvedimento, deducendo al riguardo il difetto di notificazione del provvedimento medesimo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 e dell’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997, n. 22, eccesso di potere per difetto dei fatti e dei presupposti, nonché violazione degli artt. 13, 7 e 21 del d.lgs. 22 del 1997 ed eccesso di potere per difetto dei presupposti sotto ulteriore profilo.
1.3. In tale primo grado di giudizio si è costituito il Comune di San Giuseppe Vesuviano, concludendo per la reiezione del ricorso.
1.4. Con sentenza n. 6101 dd. 23.06.2008, resa a’ sensi degli allora vigenti artt. 21 e 26 della l. 06.12.1971 n. 1034 e successive modifiche, la Sezione V dell’adito TAR ha accolto il ricorso avuto riguardo -in via assorbente- alle dedotte censure di violazione e falsa applicazione dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 e degli artt. 14, 13, 7 e 21 del d.lgs. 22 del 1997, nonché di eccesso di potere per difetto dei fatti e dei presupposti.
Il giudice di primo grado ha in tal senso affermato che “l’art. 14, comma 3, del d.lgs. 22 del 1997 … permette l’emissione dell’ordinanza di rimozione anche nei confronti di soggetti, quali il proprietario del terreno e soggetti che vi hanno diritti reali o personali di godimento, a titolo di responsabilità solidale, unicamente nel caso che essi siano imputabili a titolo di dolo o cola. Come già evidenziato dalla giurisprudenza di questo Tribunale (tra le altre, sentt. n. 1618 del 2005, 2016 del 2005, 1273 del 2008), dalla quale non vi è motivo di discostarsi, nel caso in esame non ricorre nessuno dei presupposti previsti dal citato art. 14 del d.lgs. 22 del 1997, atteso che la presenza di rifiuti nell’area di competenza dell’Anas non è imputata all’Ente, quale responsabile in solido con l’autore dell’abbandono, né in via diretta, a titolo di dolo o di colpa. In particolare, non è possibile affermare che la stessa Anas sia tenuta a salvaguardare il proprio territorio da qualsiasi forma di discarica prodotta da ignoti, non provenendo tale obbligo da alcuna norma di legge o regolamentare o di altra natura”.
L’adito TAR ha compensato integralmente tra le parti le spese e gli onorari di causa.
2.1. Con l’appello in epigrafe il Comune di San Giuseppe Vesuviano chiede ora la riforma di tale sentenza, deducendo al riguardo error in iudicando in relazione all’art. 14 del dlgs. 22 del 1997 e all’art. 192 del d.lgs. 192 del 2006.
L’appellante insiste in tal senso sulla sussistenza della colpa in capo all’Anas S.p.a. in ordine alla mancata rimozione dei rifiuti nell’area di sua proprietà, e ciò anche con riguardo a quanto disposto dall’art. 14 del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della Strada).
...
3.1. Tutto ciò premesso, l’appello va accolto.
3.2. Va premesso che in tema di abbandono dei rifiuti, l'art. 14 del d.lgs. n. 22/1997 (cd. "decreto Ronchi") invero stabiliva che il proprietario dell’area utilizzata per l’abbandono abusivo di rifiuti fosse tenuto a provvedere al loro smaltimento solo a condizione che ne fosse dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell’illecito per aver posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, escludendo conseguentemente che la norma configurasse un’ipotesi legale di responsabilità oggettiva.
Tale disciplina è stata abrogata per effetto dell’art. 264, comma 1, lettera i), del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, il cui art. 192 riproduce il tenore dell’abrogato art 14, con riferimento quindi alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario dell’immobile in cui è avvenuto l’abbandono, ma in più integra il precedente precetto precisando che l’ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente “in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” (cfr. sul punto, ad es., Cons. giust. amm. Sicilia, Sez. giurisd., 23.05.2012, n. 460).
Il Collegio non ignora -ed, anzi, condivide- il principio di ordine generale affermato al riguardo dalla giurisprudenza, secondo il quale sono illegittimi gli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione di tale sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’amministrazione procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente motivazione.
Sotto questo profilo è stato infatti ripetutamente affermato che la disciplina contenuta nel predetto art. 192 del 2006 è improntata ad una rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, non residuando al riguardo alcuno spazio per una responsabilità oggettiva, posto che per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturito l’abbandono illecito di rifiuti occorre quantomeno la colpa, e che tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione -per l’appunto- ad un’eventuale responsabilità solidale del proprietario dell’area (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 19.03.2009 n. 1612 e 25.08.2008 n. 4061).
A ben vedere la giurisprudenza è pervenuta a tale conclusione nel rilievo che il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, al fine di impedire ad estranei di penetrare nell’area e di abbandonarvi i rifiuti: la richiesta di un impegno di tale entità -infatti- travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media che è alla base della stessa nozione di colpa (cfr., ex plurimis,: Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2005, n. 935); e in tale situazione, quindi, e senza che sia stato comprovata la sussistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l’abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo per i proprietari sarebbe inesigibile proprio in quanto riconducibile -si ribadisce- ad una responsabilità oggettiva non contemplata dalla legge (cfr. ibidem).
La presente fattispecie si configura -peraltro- del tutto particolare, posto che risulta del tutto infondato l’assunto del giudice di primo grado, secondo il quale l’obbligo per Anas S.p.a. di rimuovere i rifiuti in questione non sarebbe imposto “da alcuna norma di legge o regolamentare o di altra natura”.
Qui il regime di responsabilità del soggetto proprietario viene infatti per contro a fondarsi in via esplicita ed inequivoca sulla disciplina contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della strada), con specifico riguardo alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze che è ivi affermato in capo ai soggetti che ne sono proprietari o concessionari.
Più precisamente, il comma 1, lett. a), di tale articolo pone a carico degli enti proprietari la “manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”, nel mentre il susseguente comma 3 precisa che “per le strade in concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che sia diversamente stabilito”.
Tra la disciplina di ordine generale contenuta nell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 e quella specifica per i soggetti proprietari e concessionari di strade contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 viene pertanto ad instaurarsi un rapporto di specialità (così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 14.03.2019, n. 1684), contraddistinto dalla sussistenza nell’ordinamento di una norma puntuale che, al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione stradale, impone in via diretta al soggetto proprietario o concessionario della strada di provvedere alla sua pulizia e, quindi, di rimuovere i rifiuti depositati sulla strada medesima e sulle sue pertinenze.
Tale obbligo può ben correlarsi anche alle concorrenti necessità dell’incolumità pubblica, nonché all’esigenza di evitare pregiudizi all’ambiente e a tutti coloro che sono insediati nel territorio, e deve pertanto essere fatto rispettare -in caso di inadempienza del proprietario o del concessionario- dall’amministrazione comunale, in quanto istituzionalmente tenuta a esercitare tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, anche con precipuo riguardo ai servizi resi alla comunità e all’assetto e all’utilizzazione del territorio medesimo (cfr. art. 13 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Se così è, condivisibilmente il Comune ha dunque emesso il provvedimento impugnato nei confronti di Anas S.p.a., e ciò proprio in quanto quest’ultima è istituzionalmente e inderogabilmente obbligata a mantenere la pulizia della strada da essa gestita e delle sue pertinenze.
In tal senso la disciplina dell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 si configura quale parametro normativo per l’individuazione del profilo della colpa presupposto in via generale dall’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006; e la disciplina medesima, proprio in quanto è direttamente presupposta dalla mera circostanza della proprietà ovvero del rapporto concessorio del soggetto inderogabilmente preposto alla sua osservanza, neppure necessita di essere direttamente richiamata dai provvedimenti di rimozione dei rifiuti emessi dalle autorità comunali, essendo –per l’appunto– insito ex lege nella stessa qualità dell’ente indicato quale proprietario o concessionario della pubblica strada la conseguente necessità di ottemperare all’obbligo di legge ad esso comunque imposto.
4. Dall’accoglimento del ricorso in epigrafe consegue, in riforma della sentenza impugnata, l’integrale reviviscenza del provvedimento impugnato in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 13.06.2019 n. 3967 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

URBANISTICAL'approvazione del piano di lottizzazione “non è un atto dovuto, anche se il progetto sia conforme al piano regolatore generale, ma costituisce comunque espressione di potere discrezionale dell'autorità chiamata a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi fra quest'ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza”.
In sostanza, la mera astratta conformità urbanistica del piano di lottizzazione, non esclude la possibilità di una piena valutazione dei contenuti di quest'ultimo e ciò perché altrimenti si finirebbe con lo snaturare finanche la funzione di indirizzo politico spettante all’organo consiliare, che è appunto l’unico soggetto deputato dal legislatore, anche regionale, all’approvazione dello strumento attuativo.
Pertanto, il Consiglio Comunale esercita pur sempre poteri di pianificazione del territorio comunale e non di semplice riscontro della conformità del piano allo strumento generale.
Ne consegue che al Consiglio Comunale va riconosciuto ampio potere discrezionale nella valutazione delle soluzioni proposte, quand’anche conformi agli strumenti urbanistici primari.
L'assenza di discrezionalità caratterizza semmai il successivo rilascio del titolo edilizio una volta del piano di lottizzazione sia stato approvato e non certo l'approvazione dello strumento attuativo, la cui previsione da parte delle norme tecniche d'attuazione risponde proprio all'esigenza di consentire una valutazione discrezionale in ordine al concreto assetto che si intende imprimere al territorio.
In ossequio ai principi generali, l'esercizio di potere discrezionale deve ovviamente essere accompagnato da congrua motivazione, che nel caso di specie, contrariamente a quanto prospettato in ricorso, è espressamente enunciata prima nella unitaria dichiarazione di voto dei singoli consiglieri e poi nella parte finale dell’atto impugnato.
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Ritiene il Collegio che il ricorso sia infondato.
Invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, dal quale il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi, contrariamente a quanto prospettato in ricorso, l'approvazione del piano di lottizzazione “non è un atto dovuto, anche se il progetto sia conforme al piano regolatore generale, ma costituisce comunque espressione di potere discrezionale dell'autorità chiamata a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi fra quest'ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza” (cfr. in termini, Tar Calabria–Catanzaro, sez. I, 06/06/2008, n. 624; Consiglio di Stato, sez. IV, 19/09/2012, n. 4977 e la giurisprudenza ivi richiamata).
In sostanza, la mera astratta conformità urbanistica del piano di lottizzazione, non esclude la possibilità di una piena valutazione dei contenuti di quest'ultimo e ciò perché altrimenti si finirebbe con lo snaturare finanche la funzione di indirizzo politico spettante all’organo consiliare, che è appunto l’unico soggetto deputato dal legislatore, anche regionale, all’approvazione dello strumento attuativo.
Pertanto, il Consiglio Comunale, nell’esercizio delle funzioni attribuite dall’art. 14 l.r. n. 71/1978, esercita pur sempre poteri di pianificazione del territorio comunale e non di semplice riscontro della conformità del piano allo strumento generale.
Ne consegue che al Consiglio Comunale va riconosciuto ampio potere discrezionale nella valutazione delle soluzioni proposte, quand’anche conformi agli strumenti urbanistici primari.
L'assenza di discrezionalità caratterizza semmai il successivo rilascio del titolo edilizio una volta del piano di lottizzazione sia stato approvato e non certo l'approvazione dello strumento attuativo, la cui previsione da parte delle norme tecniche d'attuazione risponde proprio all'esigenza di consentire una valutazione discrezionale in ordine al concreto assetto che si intende imprimere al territorio.
In ossequio ai principi generali, l'esercizio di potere discrezionale deve ovviamente essere accompagnato da congrua motivazione, che nel caso di specie, contrariamente a quanto prospettato in ricorso, è espressamente enunciata prima nella unitaria dichiarazione di voto dei singoli consiglieri e poi nella parte finale dell’atto impugnato (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 12.06.2019 n. 1432 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Nota sulle modifiche al codice dei contratti (ANCI, 24.06.2019).
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Al riguardo si legga:
  
Codice dei contratti, la nota dell'Anci sulle modifiche introdotte dalla Legge Sblocca-cantieri. I principali contenuti d’interesse del Capo I della legge n. 55/2019 (25.06.2019 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Legge 14.06.2019 n. 55 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 18.04.2019 n. 32, recante disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici” (Consulta Regionale Ordini Ingegneri Lombardia, nota 19.06.2019 n. 200/2019 di prot.).
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Al riguardo si legga:
  
Sblocca-cantieri, Ingegneri Milano: la preventiva autorizzazione scritta per tutte le zone sismiche è una follia. Finzi (Ordine degli Ingegneri di Milano): “Si bloccano tutte le opere compresa la messa in sicurezza del patrimonio edilizio scolastico. Basta a norme scritte da chi non ha esperienza sul campo” (24.06.2019 - link a www.casaeclima.com).
   ● Sblocca-cantieri e interventi strutturali in zone sismiche: gli Ingegneri lombardi denunciano criticità. Alcune criticità non consentiranno agli Ordini territoriali degli Ingegneri di espletare le proprie funzioni istituzionali di legge quali garantire la tutela delle prestazioni degli iscritti, coadiuvare le amministrazioni pubbliche nell’interesse della committenza pubblica e privata (21.06.2019 - link a
www.casaeclima.com).

APPALTI: Legge 14.06.2019, n. 55, di conversione del DL 18.04.2019, n. 32 (c.d. decreto “SBLOCCA-CANTIERI”) GURI n. 140 del 17.06.2019 - Esame e commento (ANCE, 18.06.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATALINEE GUIDA SULLA DISCIPLINA DELLE TERRE E ROCCE DA SCAVO - nota ANCE di analisi alla guida SNPA (ANCE, giugno 2019).

EDILIZIA PRIVATAELIMINAZIONE DELLE BARRIERE ARCHITETTONICHE PER NON VEDENTI E IPOVEDENTI AI SENSI DEL DPR N. 503/1996, DEL DM N. 236/1989 E DEL DPR N. 380/2001 - NECESSITÀ DI PREVEDERE ACCORGIMENTI E MISURE IDONEE IN SEDE PROGETTUALE E DI TENERE CONTO DELLE ESIGENZE DELLE PERSONE NON VEDENTI E IPOVEDENTI – INFORMATIVA PER GLI ORDINI TERRITORIALI E ATTIVITÀ DI SENSIBILIZZAZIONE DEGLI ISCRITTI ALL’ALBO (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 28.05.2019 n. 387 - link a http://cni-online.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Quali leve per la rinascita dei centri urbani? (ANCE, 21.06.2019).
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   INCENTIVI SPECIFICI PER LE IMPRESE DEL MEZZOGIORNO: - Bonus investimenti Sud - Sgravio contributivo per l’occupazione nel Mezzogiorno - Resto al Sud - Zone franche
  
INCENTIVI GENERALI PER L’INTERO SISTEMA PRODUTTIVO: - Iper e super ammortamento - Nuova Sabatini - Credito d’imposta formazione - Mini IRES - Credito d’imposta in Ricerca e Sviluppo
   INCENTIVI PER LA RIGENERAZIONE URBANA: - Incentivi alla valorizzazione edilizia - Sismabonus per gli acquisti - Sismabonus  - Ecobonus

EDILIZIA PRIVATASismabonus sull'acquisto di unità immobiliari antisismiche (ANCE, giugno 2019).
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Al riguardo si legga:
  
DL Crescita: sismabonus esteso alle zone a rischio sismico 2 e 3. Da Ance la guida riepilogativa “Sismabonus sull’acquisto delle unità immobiliari antisismiche” (21.06.2019 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICILa responsabilità nell'appalto - Rassegna di giurisprudenza (ANCE, 20.05.2019).
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Al riguardo si legga:
  
La responsabilità nell’appalto: il punto sulla giurisprudenza. Dall'Ance la rassegna di giurisprudenza aggiornata al 20.05.2019 (29.05.2019 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, maggio 2019).

EDILIZIA PRIVATASISMA BONUS: LE DETRAZIONI PER GLI INTERVENTI ANTISISMICI (Agenzia delle Entrate, febbraio 2019).

VARILE AGEVOLAZIONI FISCALI SULLE SPESE SANITARIE (Agenzia delle Entrate, settembre 2018).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Chiarimenti e linee guida in materia di collocamento obbligatorio delle categorie protette. Articoli 35 e 39 e seguenti del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 - Legge 12.03.1999, n. 68 - Legge 23.11.1998, n. 407 - Legge 11.03.2011, n. 25 (direttiva 24.06.2019 n. 1/2019).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 28.06.2019, "Disposizioni in merito alla proroga dei termini assegnati al commissario regionale del Parco Adda Nord con d.g.r. n. XI/577 del 01.10.2018" (deliberazione G.R. 21.06.2019 n. 1784).

APPALTI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 26.06.2019 "Patto di integrità in materia di contratti pubblici della Regione Lombardia e degli enti del sistema regionale di cui all’all. A1 alla l.r. 27.12.2006, n. 30" (deliberazione G.R. 17.06.2019 n. 1751).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 25.06.2019 n. 147, suppl. ord. n. 24, "Ripubblicazione del testo del decreto-legge 18.04.2019, n. 32, coordinato con la legge di conversione 14.06.2019, n. 55, recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici»".

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 24.06.2019 "Approvazione della disciplina per il riconoscimento delle spese dei consorzi di bonifica per la realizzazione delle opere di bonifica e irrigazione (art. 95, comma 5-bis, l.r. 31/2008), delle opere di difesa del suolo (artt. 28, 29 e 30 l.r. 4/2016) e delle attività di gestione del reticolo idrico principale (art. 23 l.r. 37/2017)" (deliberazione G.R. 10.06.2019 n. 1730).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 22.06.2019 n. 145 "Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo" (Legge 19.06.2019 n. 56).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 25 del 21.06.2019, "Modifiche alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale)" (L.R. 18.06.2019 n. 11).

EDILIZIA PRIVATA -URBANISTICAProposta di Progetto di Legge “MISURE DI SEMPLIFICAZIONE E INCENTIVAZIONE PER LA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE, NONCHE’ PER IL RECUPERO DEL PATRIMONIO EDILIZIO ESISTENTE. MODIFICHE E INTEGRAZIONI ALLA LEGGE REGIONALE 11.03.2005, N. 12 (LEGGE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO) E AD ALTRE LEGGI REGIONALI (deliberazione G.R. 17.06.2019 n. 1741).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: M. T. Massi, Le nuove soglie per appalti di lavori, servizi e forniture e i criteri di aggiudicazione (25.06.2019 - tratto da www.fondazioneifel.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Berti, Diritto di accesso e diritto di informazione del giornalista (24.06.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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ABSTRACT
Il diritto di accesso ai dati ed ai documenti amministrativi rappresenta uno strumento fondamentale per la effettiva realizzazione ed attuazione del “diritto di informazione” del giornalista, che è diritto tutelato dalla Costituzione, dalle Convenzioni internazionali, dai Trattati dell’Unione europea e dalla stessa legislazione nazionale.
Lo strumento più consono a realizzare tale diritto è l’accesso civico generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, D.Lgs. 33/2013 (introdotto dal D.Lgs. 97/2016), mentre non più attuale e proficuo appare l’utilizzo dell’accesso documentale ex L. 241/1990.
A prescindere dalla soluzione che si voglia dare, in via generale, alla dibattuta e controversa questione della c.d. “funzionalizzazione” dell’accesso civico generalizzato, l’interesse pubblico insito nell’esercizio dell’attività giornalistica ed il peculiare statuto professionale del giornalista sono tali da rendere inesigibile e non giustificabile un controllo in sede amministrativa ed in sede giudiziale in ordine alla finalità dell’istanza di accesso presentata dal giornalista, dovendo ammettersi una sua legittimazione soggettiva generale all’esercizio di tale diritto, ferme restando le limitazioni stabilite dall’art. 5-bis D.Lgs. 33/2013 ed il controllo sulle “modalità di esercizio” del diritto, in conformità ai principi di “buona fede e correttezza”.
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Sommario: 1. Introduzione. - 2) La legittimazione del giornalista all’accesso documentale ex Legge 241/1990. - 3) La legittimazione del giornalista all’accesso civico generalizzato ex art. 5, comma 2, D.Lgs. 33/2013. - 3.1) Le norme a tutela del c.d. “diritto di informazione” del giornalista. - 3.2) La riserva di Legge in tema di “restrizioni” della “libertà di informazione” del giornalista. - 3.3) L’interesse pubblico connaturato all’esercizio dell’attività giornalistica. - 4) Conclusioni.

APPALTI: E. Leonetti, Sblocca-cantieri: le principali novità sui contratti pubblici dopo la conversione (20.06.2019 - tratto da www.fondazioneifel.it).

APPALTICodice Appalti e motivo facoltativo di esclusione dalle gare: nuova sentenza della Corte Ue.
Secondo la Corte di giustizia europea la norma di cui all’articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici non è idonea a preservare l’effetto utile del motivo facoltativo di esclusione previsto dalla direttiva 2014/24/UE (...continua) (20.06.2019 - link a www.casaeclima.com).

APPALTILegge Sblocca-cantieri: esclusione dalle gare per irregolarità fiscali solo se accertate. Come richiesto dall'Ance, è stata ripristinata l’esclusione dalle gare d’appalto unicamente nell’ipotesi di irregolarità fiscali e contributive “gravi e definitivamente accertate” secondo la formulazione originaria, già contenuta nel Codice dei contratti pubblici (20.06.2019 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: M. Lipari, Il rito superspeciale in materia di ammissioni e di esclusioni (art. 120, co. 2-bis e 6-bis del cpa) va in soffitta. E, ora, quali conseguenze pratiche? (20.06.2019 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: - 1. La soppressione del rito superspeciale di cui all’art. 120, commi 2-bis e 6-bis del CPA. - 2. Le ragioni della riforma e la scelta della decretazione d’urgenza. Un coro (quasi) unanime di entusiastica approvazione: un rafforzamento del diritto di difesa? - 3. Una soppressione davvero necessaria? - 4. Il regime transitorio. I processi iniziati dopo l’entrata in vigore della riforma. - 5. La sanatoria delle preclusioni maturate nel previgente regime processuale. - 6. I problemi aperti. La tutela degli interessi strumentali e la questione dei ricorsi incrociati reciprocamente escludenti. L’impugnazione della propria esclusione. - 7. Resta la mera facoltà di impugnazione immediata del provvedimento recante le ammissioni e le esclusioni? La giurisprudenza della CGUE e la comunicazione del provvedimento. - 8. I ricorsi finalizzati alla corretta determinazione della platea dei concorrenti e la “cristallizzazione” delle medie: un caso di persistente onere di immediata impugnazione del provvedimento recante le ammissioni e le esclusioni?

APPALTI - EDILIZIA PRIVATALegge Sblocca-cantieri: riepilogo delle principali novità. Il focus del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (19.06.2019 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: I vincoli e le distanze nell’edilizia: Vincoli (A. Piola) - Esempi di distanze nell'edilizia (A. Antico) (17.06.2019 - tratto da www.amministrativistiveneti.it).

EDILIZIA PRIVATA: D. Chinello, Presupposti e requisiti dell’ordinanza di demolizione di opere abusive (15.06.2019 - tratto da www.amministrativistiveneti.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Antoniol, La confisca edilizia (15.06.2019 - tratto da www.amministrativistiveneti.it).

APPALTISblocca-cantieri: fino al 31/12/2020 disciplina semplificata per i lavori di manutenzione. La disciplina semplificata è finalizzata a consentire l'affidamento dei lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria sulla base del progetto definitivo e l’esecuzione a prescindere dall'avvenuta redazione e approvazione del progetto esecutivo (11.06.2019 - link a www.casaeclima.com).

SICUREZZA LAVORO: B. Camparada, Divagazioni storiche sui coordinatori per la sicurezza (giugno 2019 - tratto da www.insic.it).

APPALTI: M. Terrei, I VERBALI DI GARA NELL’ERA DELLE PIATTAFORME ELETTRONICHE DI NEGOZIAZIONE (giugno 2019 - tratto da www.ambintediritto.it).
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Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il verbale. Breve descrizione di carattere generale. – 2.1. sulla forma del verbale - 3. Il soggetto verbalizzante. - 4. I contenuti e le formalità delle verbalizzazioni. - 5. La redazione del verbale. - 6. Il verbale nella normativa Appalti. - 7. La funzione assegnata dalla norma alle Piattaforme Elettroniche di Negoziazione. - 7.1. Le norme tecniche dei sistemi telematici nella Direttiva e nel Codice. – 7.2. Circolare n. 3 del 06.12.2016 dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID). – 7.2.1. Circolare n. 3/2016 AGID – Appendice. – 7.2.2. I sistemi telematici di acquisto e le norme tecniche. Una riflessione sul verbale - 8. Le procedure di esame e valutazione delle offerte con l’avvento delle Piattaforme Elettroniche di Negoziazione. – 8.1. L’avvio della seduta di gara. – 8.2. l’accesso alla Piattaforma e l’avvio della seduta di gara. – 8.3. La pubblicità delle sedute di gara. - 8.4. l’analisi della documentazione amministrativa. - 8.5. l’analisi dell’offerta tecnica. - 8.6. l’analisi dell’offerta economica. - 9. Le procedure di valutazione dell’anomalia. – 10. I verbali di gara nel MePA (Mercato elettronico della Pubblica Amministrazione). - 11. Conclusioni.

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATA: Dal 2018, gli “oneri di urbanizzazione” cesseranno di essere un’entrata genericamente destinata a investimenti, per tornare a essere un'entrata vincolata per legge, con tutte le conseguenze del caso.
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Il sindaco della Città di Segrate (MI) ha richiesto alla Sezione un parere sulla possibilità di utilizzare negli esercizi 2018 e 2019 quota dei proventi derivanti da “oneri di urbanizzazione” e “monetizzazione di aree a standards”, per l’estinzione anticipata di mutui, assunti in precedenza, esclusivamente, per il finanziamento di spese d’investimento finalizzate alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al fine di sostenere il piano di riequilibrio (Piano) richiesto dal comune.
A tale scopo ha precisato nella richiesta che, nell’ambito del Piano il comune intende attuare, nel corso degli esercizi 2018 e 2019, “una significativa operazione di riduzione del debito residuo” (mutui in corso di ammortamento assunti precedentemente con istituti bancari per la realizzazione di opere pubbliche), per “l’alleggerimento della rigidità strutturale del bilancio”.
L’ammontare di proventi che si propone di impiegare a tale fine è di 10 milioni con riferimento agli oneri di urbanizzazione (2018 e 2019) e 4 milioni in relazione alla “monetizzazione di aree a standards” (2018). Si esclude esplicitamente il finanziamento con questi proventi “dell’indennizzo dovuto all’istituto mutuante a fronte del recesso anticipato del contratto”.
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Con specifico riferimento alla richiesta oggetto la presente pronuncia, non può essere, in pendenza dell’esame del Piano di riequilibrio, essere considerata ammissibile, pur presentando profili sostanziali che meritano di essere considerati.
In tal senso, ferme restando le ragioni dell'inammissibilità del quesito sotto il profilo oggettivo, a ogni buon conto questa Sezione ricorda che
la questione dell’utilizzazione dei proventi dei cosiddetti oneri di urbanizzazione e relative sanzioni è stata ripetutamente scandagliata da questa Corte (si richiamano in particolare il parere 09.02.2016 n. 38 ed il parere 23.03.2017 n. 81 di questa Sezione), dal cui esame è possibile ricostruire il complesso quadro normativo. Il quesito richiama espressamente l’art. 4 della legge 847 del 1964 (urbanizzazione primaria) e l’art. 44 della legge 865 del 1971 (urbanizzazione secondaria).
Come si evince dalla richiesta di parere, di questi mutui, assunti per eseguire gli investimenti di cui al punto precedente e in questo momento in fase di ammortamento, il comune vorrebbe, per un ammontare complessivo pari a 14 milioni di euro, operare un’estinzione anticipata, utilizzando quota equivalente di proventi derivanti da oneri di urbanizzazione e da monetizzazione di aree a standard.
Un aspetto rilevante del quesito attiene quindi al grado di libertà che l’ordinamento vigente consente al comune nell’impiego di queste risorse.
Il legislatore, come rileva anche il comune nella nota di richiesta del parere, è intervenuto di recente sul punto, con l’art. 1, commi 460 e 461, della legge 232 del 2016 (legge di bilancio 2017), che prescrive la destinazione esclusiva e senza vincoli temporali (dal 01.01.2018) dei “proventi dei titoli abitativi edilizi e delle sanzioni previste” a specifiche fattispecie dallo stesso indicate.
Con la legge richiamata (comma 460)
è stato ripristinato uno stringente vincolo di destinazione, dal 2018, per “i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico sull’edilizia” (DPR 380 del 2001), che “sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all’acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l’insediamento di attività di agricoltura nell’ambito urbano”.
Da ultimo, con il decreto legge 148 del 2017 (decreto fiscale collegato alla manovra di bilancio per il 2018)
il legislatore è nuovamente intervenuto sul punto, integrando le fattispecie previste nel comma 460 con le “spese di progettazione per opere pubbliche".
La richiamata norma inserita nella legge di bilancio per il 2017, indica, dopo la modifica del decreto legge 148 del 2017, otto fattispecie esplicitamente individuate, cui destinare “esclusivamente e senza vincoli temporali” i proventi “dei titoli abitativi edilizi e delle sanzioni”.
Si reintroduce quindi, con il richiamato comma 460 della legge di bilancio per il 2017, un vincolo di destinazione dell'entrata ritornando, in pratica, alla logica dell’originaria legge 10 del 1977 (cosiddetta legge Bucalossi). Dal 2018, gli “oneri di urbanizzazione” cesseranno di essere un’entrata genericamente destinata a investimenti, per tornare a essere un'entrata vincolata per legge, con tutte le conseguenze del caso, come rilevato nel parere 23.03.2017 n. 81 di questa sezione.
Se da un lato il vincolo introdotto, esclusivo e permanente, non sembra consentire impiego diverso, non si possono non richiamare le molteplici analogie tra le fattispecie richiamate nel citato comma 460 e l’oggetto stesso dei mutui, contratti per il finanziamento di spese d’investimento finalizzate alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Inoltre, sotto un diverso profilo non si può non rilevare che l’impiego di entrate per la riduzione di spese della medesima natura, sia per il titolo (entrate in conto capitale contro spese in conto capitale), sia per la durata (entrate temporanee contro spese temporanee) contrasta con la tendenza alla dequalificazione della spesa che la Corte ha più volte rilevato in senso negativo (v. fra le ultime, sul punto, le deliberazioni nn. 382/2015/PRSE; 360/2015/PRSE; 160/2015/PRSE; 155/2015/PRSE; 152/2015/PRSE).
Nella stessa direzione si muove il richiamo alla deliberazione n. 317/2011/PAR sezione Lombardia sul rimborso del recesso anticipato, di cui si esclude, seguendo le indicazioni della Corte, la contabilizzazione nel titolo III.
Il divieto di utilizzare la riduzione di spese in conto capitale per alimentare corrispondentemente spese correnti (e, specularmente, l’utilizzo di entrate in conto capitale per sostenere spese correnti) trova la sua ratio nell’esigenza di non peggiorare il risparmio pubblico (risultato differenziale tra entrate correnti e spese correnti), mentre, com’è noto, tali spostamenti non producono effetti sul saldo netto da finanziare (risultato differenziale tra entrate e spese finali).
Nel senso di evitare la dequalificazione della spesa è anche il richiamo all’art. 1, comma 443, della legge 228 del 2012 (legge di stabilità per il 2013), che consente, in applicazione dell’art. 162, comma 6, del TUEL, la destinazione dei proventi da alienazione di beni patrimoniali disponibili, alla esclusiva copertura di spese d’investimento, ovvero, per la parte eccedente, alla riduzione del debito (la norma è richiamata in correlazione alla natura di entrata patrimoniale dei proventi da “monetizzazione di aree a standard”, classificata nel Titolo IV, entrate in conto capitale).
La necessità di sostenere il piano di riequilibrio attivato con deliberazione del consiglio comunale numero 1 del 13.02.2017, e successivamente approvato con deliberazione consiliare n. 19 del 12.05.2017 (e rettificato con successiva deliberazione n. 21 del 19/05/2017), attualmente in fase di istruttoria (Piano di riequilibrio 2017–2026), non può non far rilevare come la procedura di riequilibrio pluriennale si configura come “una terza fattispecie che si aggiunge” a quelle già previste dal TUEL, relative rispettivamente agli enti in condizioni strutturalmente deficitarie e a quelli in situazioni di dissesto finanziario.
In altre parole la situazione debitoria, cui il Piano deve fornire “una quantificazione veritiera e attendibile”, intesa in senso largo, nelle molteplici dimensioni assunte dallo squilibrio finanziario, diventa il punto cruciale sul quale focalizzare la governance finanziaria. Tutte le energie amministrative e contabili devono essere quindi spese, una volta valutati positivamente i presupposti, nel tentativo di evitare il dissesto, che diviene un percorso obbligato al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 244 del TUEL.
Si rileva pertanto, in conclusione, la coesistenza di due problematiche, indotte, la prima, dalla legge di bilancio per il 2017, che reintroduce il vincolo di destinazione sugli “oneri di urbanizzazione”, e, la seconda, dalla normativa sul riequilibrio pluriennale (art. 243-bis del TUEL), finalizzata al superamento di una situazione di grave precarietà finanziaria (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 20.12.2017 n. 372).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: - i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. “oneri di urbanizzazione”) possono essere destinati anche al finanziamento di spese correnti nei limiti degli utilizzi stabiliti, per il 2017, dall’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n. 208 e per 2018 e gli esercizi seguenti dall’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232;
   - i proventi derivanti “dalla monetizzazione di aree a standard” possono essere destinati solo a spese di investimento secondo quanto stabilito l’art. 46, comma 1, della legge regionale 11.03.2005, n. 12;
   - i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili possono essere destinati, di regola, solo alla copertura di spese di investimento o alla riduzione dell’indebitamento ai sensi dell’art. 1, comma 443, della legge 24.12.2012, n. 228 e dell’art. 56-bis, comma 11, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Tali entrate possono essere utilizzate anche per il finanziamento di spese correnti esclusivamente nelle ipotesi eccezionali previste dall’art. 255, comma 9, del TUEL ove l’ente versi in situazione di dissesto; dall’art. 243-bis, comma 8, lett. g), del TUEL ove l’ente abbia fatto ricorso alla procedura di riequilibrio pluriennale; dall’art. 2, comma 4, del DM 02.04.2015 per il ripiano del maggior disavanzo di amministrazione derivante dal passaggio al nuovo sistema contabile armonizzato

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Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Sala Comacina (CO) formula una richiesta di parere riguardante le entrate destinabili al finanziamento di spese correnti, ponendo i seguenti quesiti:
   1. è possibile utilizzare per l’anno 2017 a finanziamento delle spese correnti, oltre agli oneri di urbanizzazione, anche i proventi derivanti da monetizzazione di aree sempre inerenti il rilascio di permessi a costruire pertanto direttamente collegati agli oneri di urbanizzazione?
   2. è possibile utilizzare tali proventi (oneri di urbanizzazione e monetizzazione di aree) a finanziamento delle spese correnti anche nel bilancio pluriennale per gli anni 2018-2019?
   3. è possibile utilizzare proventi da alienazione di un terreno di proprietà comunale, già deliberata nel 2016 in corso di procedura di gara, per finanziare la spesa corrente nel bilancio pluriennale 2018-2019?
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La risposta ai quesiti formulati dal Comune è ricavabile dalla lettura dei principi generali e delle specifiche disposizioni di legge che, nel quadro dell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, fissano il regime di utilizzazione e di destinazione delle entrate iscritte a bilancio.
Il principio dell’”unità”, compreso tra i principi contabili generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 (allegato 1) e a cui gli enti locali devono conformare la gestione finanziaria, dopo avere affermato che “è il complesso unitario delle entrate che finanzia l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la totalità delle sue spese durante la gestione” -aggiunge che– “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento”.
Lo stesso principio stabilisce ancora che “i documenti contabili non possono essere articolati in maniera tale da destinare alcune fonti di entrata a copertura solo di determinate e specifiche spese, salvo diversa disposizione normativa di disciplina delle entrate vincolate”.
Viene quindi ribadito, in via generale, il divieto di finanziare spese correnti con entrate in conto capitale che trova giustificazione anche nell’esigenza di assicurare il mantenimento degli equilibri di bilancio degli enti locali espressa dall’art. 162, comma 6, del decreto legislativo 10.08.2000, n. 267 (TUEL).
L’utilizzazione di entrate in conto capitale per finanziamento di spese correnti, in deroga al principio sopra richiamato, può essere autorizzata solo da specifiche disposizioni di legge quali sono state quelle che, nell’ultimo decennio, hanno riguardato i proventi derivanti dai c.d. “oneri di urbanizzazione”.
Rinviando al parere 09.02.2016 n. 38 di questa Sezione per una approfondita analisi sulla natura di tali entrate e sull’evoluzione legislativa dell’utilizzazione delle stesse, si richiamano di seguito le disposizioni in vigore per gli anni 2017 e 2018 e seguenti, attinenti alla richiesta di parere.
L’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n. 108 (legge di stabilità per il 2016) dispone che “per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all'articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo unico, possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche”.
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232 (legge di bilancio per il 2017), dispone viceversa che “a decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano”.
Ne viene che i proventi in parola, per la componente cui è da riconoscersi natura di entrata in conto capitale, (cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 09.02.2016 n. 38, cit.), nel 2017 potranno essere destinati totalmente al finanziamento delle spese correnti elencate dalla legge di stabilità per il 2016 in deroga al principio di generica destinazione a spese di investimento.
A decorrere dal 01.01.2008, viceversa, le entrate derivanti dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi e dalle relative sanzioni dovranno essere destinate solo agli specifici utilizzi, attinenti prevalentemente a spese in conto capitale, stabiliti dalla legge di bilancio per il 2017.
Per effetto della predetta legge, in altri termini, dal 2018 i proventi da “oneri di urbanizzazione” cesseranno di essere entrate con destinazione generica a spese di investimento per divenire entrate vincolate a determinate categorie di spese ivi comprese le spese correnti, limitatamente agli interventi di manutenzione ordinaria sulle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Del mutato quadro legislativo, nel senso sopra descritto, il Comune dovrà tenere conto nella predisposizione del bilancio di previsione 2017-2019.
Diversa è la disciplina degli dei proventi derivanti dalla c.d. “monetizzazione di aree a standards”, consistente nel versamento al Comune di un importo alternativo alla cessione diretta delle aree necessarie alle opere di urbanizzazione, la cui destinazione è viceversa demandata alla legislazione regionale.
Per la Lombardia l’art. 46, comma 1, della legge regionale 11.03.2005, n. 12 stabilisce al riguardo che “i proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica”.
Il vincolo di destinazione specifica stabilito dalla fonte regionale sopra richiamata esclude pertanto che tali proventi, in conformità alla loro natura di entrate in conto capitale, possano essere destinati al finanziamento di spese correnti.
Né si può ammettere un’applicazione analogica delle disposizioni di legge prima citate sull’utilizzazione di proventi derivanti dagli oneri di urbanizzazione.
Questa Sezione, con il
parere 26.06.2006 n. 6, si è già pronunciata sulla questione nei termini che si riferiscono di seguito: “Occorre tuttavia osservare che mentre il contributo di costruzione risulta un provento connesso al rilascio del permesso di costruire commisurato, secondo quanto disposto dall’art. 16 DPR 380/2001, a tariffe determinate dal Consiglio Comunale i proventi della monetizzazione trovano fondamento nelle convenzioni che consentono a soggetti privati obbligati a cedere la proprietà di aree a favore dei Comuni di corrispondere, in alternativa totale o parziale, una somma commisurata all’utilità̀ economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non superiore al costo di acquisto di altre aree avente analoghe caratteristiche.
La monetizzazione costituisce un’obbligazione alternativa alla cessione da parte dei privati di aree che potrebbero risultare non utili ai fini dell’interesse pubblico.
Pertanto tale entrata non può che essere classificata, al titolo IV –Entrate derivanti da alienazioni, da trasferimenti di capitale e da riscossione di crediti– e, come tale, essere destinata al finanziamento di spese di investimento, ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1 lett. a) della legge regionale 11.03.2005, n. 12 alla realizzazione degli interventi previsti nel Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese correnti costituirebbe un manifesto depauperamento del patrimonio comunale, configurando un evidente pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’ente locale
”.
Che le entrate in conto capitale siano destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento impedisce poi che, di regola, i proventi derivanti dall’alienazione di beni patrimoniali possano essere utilizzati per finanziare spese correnti.
Il principio, è ribadito anche dall'art. 1, comma 443, della legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013) che recita: "in applicazione del secondo periodo del comma 6 dell'art. 162 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, i proventi da alienazioni di beni patrimoniali disponibili possono essere destinati esclusivamente alla copertura di spese di investimento ovvero, in assenza di queste o per la parte eccedente, per la riduzione del debito".
Si richiama anche l’art. 56-bis, comma 11, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98 nel testo modificato dall’art. 7, comma 5, del decreto-legge 19.06.2015, n. 78 ove si stabilisce che “in considerazione dell'eccezionalità della situazione economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di riduzione del debito pubblico, al fine di contribuire alla stabilizzazione finanziaria e promuovere iniziative volte allo sviluppo economico e alla coesione sociale, è altresì destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato, con le modalità di cui al comma 5 dell'articolo 9 del decreto legislativo 28.05.2010, n. 85, il 10 per cento delle risorse nette derivanti dall'alienazione dell'originario patrimonio immobiliare disponibile degli enti territoriali, salvo che una percentuale uguale o maggiore non sia destinata per legge alla riduzione del debito del medesimo ente. Per gli enti territoriali la predetta quota del 10% è destinata prioritariamente all'estinzione anticipata dei mutui e per la restante quota secondo quanto stabilito dal comma 443 dell'articolo 1 della legge 24.12.2012, n. 228. Per la parte non destinata al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato, resta fermo quanto disposto dal comma 443 dell'articolo 1 della legge 24.12.2012, n. 228”.
Disposizioni speciali che, in deroga al principio generale confermato anche dalla disciplina sopra richiamata, consentano in via eccezionale di utilizzare entrate derivanti dall’alienazione di beni patrimoniali disponibili per finanziare spese correnti, sono quelle previste per le esigenze di risanamento dell’ente locale nelle ipotesi di dissesto (art. 255, comma 9, del TUEL), di ricorso alla procedura di riequilibrio pluriennale (art. 243-bis, comma 8, lett. g) o di ripiano dal maggior disavanzo derivante dal riaccertamento straordinario dei residui nel passaggio al nuovo sistema contabile armonizzato (art. 2, comma 4, del DM 02.04.2015 “Criteri e modalità di ripiano dell'eventuale maggiore disavanzo di amministrazione derivante dal riaccertamento straordinario dei residui e dal primo accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità, di cui all'articolo 3, comma 7, del decreto legislativo n. 118 del 2011”).
Alla luce delle predette considerazioni è possibile affermare, in risposta ai quesiti formulati nella presente richiesta di parere, che:
   - i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. “oneri di urbanizzazione”) possono essere destinati anche al finanziamento di spese correnti nei limiti degli utilizzi stabiliti, per il 2017, dall’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n. 208 e per 2018 e gli esercizi seguenti dall’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232;
   - i proventi derivanti “dalla monetizzazione di aree a standard” possono essere destinati solo a spese di investimento secondo quanto stabilito l’art. 46, comma 1, della legge regionale 11.03.2005, n. 12;
   - i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili possono essere destinati, di regola, solo alla copertura di spese di investimento o alla riduzione dell’indebitamento ai sensi dell’art. 1, comma 443, della legge 24.12.2012, n. 228 e dell’art. 56-bis, comma 11, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Tali entrate possono essere utilizzate anche per il finanziamento di spese correnti esclusivamente nelle ipotesi eccezionali previste dall’art. 255, comma 9, del TUEL ove l’ente versi in situazione di dissesto; dall’art. 243-bis, comma 8, lett. g), del TUEL ove l’ente abbia fatto ricorso alla procedura di riequilibrio pluriennale; dall’art. 2, comma 4, del DM 02.04.2015 per il ripiano del maggior disavanzo di amministrazione derivante dal passaggio al nuovo sistema contabile armonizzato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 23.03.2017 n. 81).

EDILIZIA PRIVATA: Oneri di urbanizzazione. Destinazione e qualificazione delle entrate derivanti dai permessi di costruzione e dalle relative sanzioni.
Un sindaco ha chiesto un parere in merito alla possibilità di continuare a destinare i proventi da concessioni edilizie e relative sanzioni al finanziamento delle spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale contabilmente inserite nella spesa corrente.
I magistrati contabili della Lombardia hanno ricordato che l’allocazione in bilancio e la conseguente corretta utilizzazione delle entrate derivanti dai contributi per il rilascio dei permessi di costruire è stata oggetto di ripetute modifiche da parte del legislatore.
Di recente, la legge n. 208/2015, entrata in vigore il giorno 01.01.2016, è intervenuta in materia, stabilendo che “per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all’articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo unico” –le quali, per espressa previsione del successivo comma 4-ter, spettano al comune e sono destinate esclusivamente alla demolizione ed alla rimessione in pristino delle opere abusive, nonché all’acquisizione ed all’attrezzatura di aree destinate a verde pubblico–, “possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche” (art. 1, comma 737).
Tale disposizione contiene una specifica previsione facoltizzante, circa la destinazione dell’entrata, di cui l’ente, nella propria autonomia, potrà dunque avvalersi negli anni 2016 e 2017 e viene a configurare un’espressa disciplina, parzialmente derogatoria rispetto al regime ordinario d’imputazione di detti proventi, che tuttavia conferma a contrario, sotto il profilo concettuale, la tendenziale annoverabilità degli stessi, quantomeno pro parte, fra quelli di parte capitale (tanto che per destinare integralmente tali entrate a spese di parte corrente il legislatore ha ritenuto necessario dettare una disposizione ad hoc) (commento tratto da www.self-entilocali.it).
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Il Sindaco del Comune di Cernusco sul Naviglio (MI) –dopo aver ricordato il contenuto precettivo:
   a) dell’
art. 49, comma 7, della legge n. 449 del 1997 (che ammette la destinazione di alcuni proventi delle concessioni edilizie e delle relative sanzioni al finanziamento delle spese di manutenzione del patrimonio comunale);
   b) dell’art. 2, comma 8, della legge n. 244 del 2007 (che ha invece stabilito, per gli anni 2008, 2009 e 2010, la possibilità di destinare i proventi delle concessioni edilizie e delle relative sanzioni, nella misura non superiore al cinquanta per cento, al finanziamento delle spese correnti e, in misura non superiore al venticinque per cento, esclusivamente alle spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale);
   c) dell’art. 2, comma 41, della legge n. 11 del 2010 (recte: del decreto legge n. 225 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 11 del 2010); dell’art. 10, comma 4-ter, del decreto legge n. 35 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 64 del 2013, e dell’art. 1, comma 536, della legge n. 190 del 2014 (che hanno progressivamente prorogato la vigenza di tale previsione sino a tutto il 2015)– ha posto alla Sezione il seguente quesito:
  
se, in mancanza di analoga previsione per il 2016, in considerazione della (asseritamente) non abrogata previsione di cui all’art. 49, comma 7, della legge n. 449 del 1997, sia possibile per l’ente continuare a destinare i proventi da concessioni edilizie e relative sanzioni, secondo la previsione da ultimo riportata, al finanziamento delle spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale contabilmente inserite nella spesa corrente.
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1.- In via preliminare, la Sezione precisa che la decisione di procedere ad una determinata spesa attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, pertanto, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente; spetta altresì all’ente procedere alle attività amministrative e giuscontabili conseguenti alla qualificazione della spesa, oggetto del presente parere.
2.- Ciò posto, si osserva che la richiesta attiene ad un complesso normativo già ampiamente scandagliato dalle Sezioni regionali di questa Corte (v., sistematicamente, la
deliberazione 27.11.2013 n. 123 della Sezione regionale di controllo per la Basilicata e la deliberazione n. 168/2013/PAR della Sezione regionale di controllo per il Piemonte). A fini di chiarezza e coerenza sistematica, è necessario muovere da quanto affermato nelle richiamate deliberazioni.
In esse, in particolare, s’era già rilevato che l’allocazione in bilancio e la conseguente corretta utilizzazione delle entrate derivanti dai contributi per il rilascio dei permessi di costruire è stata oggetto di ripetute modifiche da parte del legislatore. Prima dell’attuale “contributo per permesso di costruire”, i Comuni riscuotevano infatti gli “oneri di urbanizzazione” previsti dalla legge n. 10 del 1977, che subordinava la concessione edilizia alla corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione (art. 3).
I proventi delle concessioni erano versati in un conto corrente vincolato presso la tesoreria del comune ed erano espressamente destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, all'acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali di cui all'art. 13, “nonché, nel limite massimo del 30 per cento, a spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale” (art. 12, come modificato dall’art. 16-bis del decreto legge n. 318 del 1986, convertito con modificazioni dalla legge n. 488 del 1986).
L’art. 49, comma 7, della legge n. 449 del 1997, senza novellare il testo del predetto art. 12, ha stabilito, come s’è visto, che i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni “di cui all'articolo 18 della legge 28.01.1977, n. 10, e successive modificazioni” (cioè relative ai lavori assentiti prima dell’entrata in vigore della predetta legge) e “all'articolo 15 della medesima legge, come sostituito ai sensi dell'articolo 2 della legge 28.02.1985, n. 47” (relative cioè, in generale, alle opere soggette al novellato regime concessorio) potevano essere destinati “anche” al finanziamento di spese di manutenzione del patrimonio comunale. Tale previsione non fissava alcun limite all’impiego e non indicava la natura, ordinaria o straordinaria, della manutenzione.
In quel contesto si era già chiarito che tale ultima disposizione, in virtù di un’interpretazione logico-sistematica (basata sulla locuzione “anche”), permetteva nella sostanza un superamento delle soglie d’impiego di cui all’art. 12 della legge n. 10 del 1977 e quindi veniva ad affiancarsi ad essa (v. ancora quanto ricordato dalla Sezione regionale di controllo per la Basilicata nella
deliberazione 27.11.2013 n. 123).
3.- L’art. 136, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 ha successivamente abrogato espressamente, nel ridisciplinare interamente la materia, anche l’art. 12 della legge n. 10 del 1977; l’art. 16, comma 1, ha al contempo introdotto il contributo per il rilascio del permesso di costruire, commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione. Tale contributo –come emerge dall’ermeneusi congiunta dell’art. 12, primo comma, e dell’art. 16, secondo comma, del medesimo testo unico– mira in primis a bilanciare il costo derivante all’ente dal consumo del territorio, sub specie in particolare della realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria necessarie ad inserire il realizzando immobile nel tessuto urbano (fatto sta che è rimessa al privato la facoltà di realizzare parte di tali opere a scomputo del predetto contributo).
In definitiva, come questa Sezione ha già avuto modo di rilevare, la natura del contributo di costruzione è pertanto assimilabile a quella dei precedenti oneri, poiché il pagamento di entrambi è motivato dal rilascio della concessione, ora permesso, ad eseguire interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio (deliberazione n. 1/pareri/2004).
A parere di altre Sezioni regionali di questa Corte e condivise da questa Sezione l’intervento normativo organico di settore, rappresentato dal citato testo unico, ha determinato la tacita abrogazione –in via consequenziale– anche del citato art. 49, comma 7, della legge n. 449 del 1997, in quanto nel sistema normativo così ridefinito gli espressi riferimenti normativi contenuti nel predetto comma 7 venivano inevitabilmente a “cadere nel vuoto”; ciò ha determinato l’ulteriore conseguenza, in mancanza di una diversa ed espressa previsione di legge, del venir meno della relativa facoltà, ivi stabilita, di destinazione dei proventi riscossi a titolo di contributi per il rilascio del permesso di costruire (v. ancora Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
deliberazione 27.11.2013 n. 123; Sezione controllo Piemonte, deliberazione n. 168/2013/SRCPIE/PAR).
Tale interpretazione trova altresì conferma nella circolare 07.04.2004, n. 39656, della Ragioneria Generale dello Stato, la quale ha affermato che, alla luce del novellato quadro normativo, “
i proventi derivanti dalle concessioni edilizie non sono più soggetti al vincolo di destinazione per chiara espressione di volontà del legislatore, che ha voluto attribuire agli enti locali piena discrezionalità nell'utilizzo di tali risorse, evidenziandone così la loro natura tributaria”.
Tale constatazione, privando del presupposto interpretativo l’argomentazione avanzata dall’ente nella formulazione della richiesta di parere, già di per sé permette di risolvere la relativa questione di diritto; tuttavia, interpretando in termini sostanziali detta richiesta, questa Sezione ritiene di dover prendere posizione circa la destinazione a bilancio di dette entrate, questione effettivamente oggetto del dubbio del comune istante; ciò implica la necessità di esaminare la natura giuridica di tali entrate e la relativa disciplina giuridica complessiva.
4.– Al riguardo, si deve ricordare che, in conseguenza del venir meno di un’espressa destinazione, s’era in quel contesto sottolineato che l’entrata derivante dal rilascio dei permessi di costruire finisse per confluire nel totale delle entrate –ed in particolare, s’è ritenuto, in quelle di natura tributaria– che intrinsecamente sono destinate a finanziare il totale delle spese, secondo il principio dell’unità di bilancio (art. 162, comma 2, T.U.E.L.), con l’ulteriore conseguenza della riallocazione di queste risorse, in considerazione del venir meno del predetto vincolo legislativo di destinazione di cui all’art. 12 della legge n. 10 del 1977 e ss.mm.ii., tra quelle che contribuiscono complessivamente a determinare gli equilibri di bilancio ex art. 193, comma 3, del T.U.E.L. (cfr. ancora questa Sezione, deliberazione 1/parere/2004; cfr. altresì la predetta circolare della Ragioneria Generale dello Stato ed il Principio contabile n. 2, par. 20, dei “Principi contabili per gli Enti locali” elaborati nel 2004, principio che ha ritenuto detta entrata ascrivibile al Titolo I dell’Entrata, cioè alle entrate tributarie).
Peraltro, se tale allocazione da un lato, in quel medesimo contesto, ha portato a considerare astrattamente l’entrata come liberamente disponibile per il finanziamento (anche) di spese correnti, dall’altro, essa non ha fatto venir meno la natura intrinsecamente aleatoria e irripetibile della risorsa stessa, natura che trova una conferma nella specifica forma di accertamento per essa prevista dei Principi contabili del 2004 (accertamento effettuato sulla base degli introiti effettivi); pertanto tale risorsa, anche nel sistema derivante dall’entrata in vigore del d.P.R. n. 380 del 2001, non avrebbe comunque potuto essere destinata a finanziare spese correnti consolidate e ripetibili, come ripetutamente rilevato anche da questa Sezione (v. fra le ultime, sul punto, le deliberazioni nn. 382/2015/PRSE; 360/2015/PRSE; 160/2015/PRSE; 155/2015/PRSE; 152/2015/PRSE).
5.– Sul punto il legislatore è successivamente intervenuto più volte ed ha delineato un complessivo orientamento, composto dal susseguirsi di disposizioni aventi un’efficacia temporalmente limitata, che deve essere in questa sede attentamente valutato:
   a) già con l’art. 1, comma 43, della legge n. 311 del 2004, il legislatore ha infatti ritenuto opportuno reintrodurre limiti all’utilizzo dei proventi delle concessioni edilizie per il finanziamento delle spese correnti, stabilendo che “(i) proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, possono essere destinati al finanziamento delle spese correnti entro il limite del 75 per cento per l’anno 2005 e del 50 per cento per il 2006”;
   b) con l’art. 1, comma 713, della legge n. 296 del 2006 ha poi stabilito che dette entrate, per l'anno 2007, potessero essere utilizzate per una quota non superiore al 50 per cento per il finanziamento di spese correnti e per una quota non superiore ad un ulteriore 25 per cento esclusivamente per spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale;
   c) con l’art. 2, comma 8, della legge n. 244 del 2007
ha infine disposto che detti proventi, per gli anni 2008, 2009 e 2010, potessero essere utilizzati per una quota non superiore al 50 per cento per il finanziamento di spese correnti e per una quota non superiore ad un ulteriore 25 per cento esclusivamente per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale;
   d) l’efficacia di tale ultima disposizione è stata successivamente estesa agli anni 2011 e 2012 dal comma 41 dell'art. 2 del decreto legge n. 225 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 10 del 2011; agli anni 2013 e 2014 dal comma 4-ter dell’art. 10 del decreto legge n. 35 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 64 del 2013, ed in ultimo a tutto il 2015 dal comma 536 dell'art. 1 della legge n. 190 del 2014.
Al contempo, il comma 3 dell’art. 4 della legge n. 10 del 2013 –con una previsione entrata in vigore il 16.02.2013 e tuttavia già abrogata a far data dal 01.01.2015 ad opera dell’art. 77, comma 1, lett. g), del decreto legislativo n. 118 del 2011, come modificato dal decreto legislativo n. 126 del 2014– ha stabilito, con una disposizione d’indole generale, che “
(l)e maggiori entrate derivanti dai contributi per il rilascio dei permessi di costruire e dalle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinate alla realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione, di recupero urbanistico e di manutenzione del patrimonio comunale in misura non inferiore al 50 per cento del totale annuo”.
Tale ultima disposizione, sia pure già espressamente abrogata ad opera del legislatore, è stata fatta oggetto d’interpretazione da parte delle Sezioni regionali di controllo di questa Corte (v. in particolar modo Sezione controllo Piemonte, deliberazione n. 168/2013/PAR).
In quella sede s’è chiarito che,
in assenza di una proroga delle disposizioni prima richiamate (facoltizzanti l’impiego di detti proventi per la parziale copertura della spesa corrente), si sarebbe necessariamente determinata l’impossibilità di procedure ad un’imputazione siffatta: infatti l’obbligo di destinare i proventi a sole spese di investimento sarebbe derivato direttamente dall’art. 162, comma 6, del T.U.E.L., nel testo all’epoca vigente, e dall’art. 9, comma 1, lett. b), dalla legge n. 243 del 2012, il quale stabilisce l’obbligo di perseguire un equilibrio di bilancio inteso non solo come saldo non negativo, in termini di competenza e di cassa, tra le entrate finali e le spese finali, ma anche quale saldo non negativo, sempre in termini di competenza e di cassa, tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale delle rate di ammortamento dei prestiti.
Ne conseguiva che
il richiamato comma 3 dell’art. 4 della legge n. 10 del 2013 veniva qualificato in definitiva come una previsione vincolante una quota dei proventi in parola a “determinate spese correlate al tipo di entrata, ma pur sempre nell’ambito di una destinazione complessiva a spese di investimento; in quest’ottica ne conseguiva ulteriormente, secondo quanto affermato dalla Sezione regionale, che il riferimento a spese di “manutenzione del patrimonio comunale, in quella previsione contenuto, dovesse essere comunque interpretato nel senso di riferirsi, per avere interventi effettivamente così finanziabili, ad opere “di manutenzione straordinaria del patrimonio”.
Tale ultima interpretazione –successivamente, come s’è detto, privata di base legale in virtù dell’abrogazione del richiamato comma 3 dell’art. 4– è comunque indice –unitamente al predetto orientamento legislativo, letto a contrario– di un’evoluzione del quadro normativo nel senso del progressivo riconoscimento, ai proventi collegati all’assentimento dell’attività edificatoria, della natura di entrata di parte capitale.
6.- Tuttavia
tale complessiva qualificazione, valida nel suo significato generale, deve essere declinata in maniera più analitica, a parere di questa Sezione, a seconda delle diverse componenti in cui concretamente si articola l’entrata derivante dal rilascio dei permessi di costruire, componenti mantenute distinte, come si vedrà, anche dal principio 3.11. dell’Allegato 4/2 al decreto legislativo n. 118 del 2011.
In effetti, secondo quanto già affermato da questa Corte (v. Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 219/2015/PAR) –peraltro sulla scorta anche dell’ampia giurisprudenza amministrativa resa in materia (v. in generale TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.05.2014, n. 464; Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 25.03.2011, n. 469; Consiglio di Stato, sez. V, 23.01.2006, n. 159)– va specificamente rilevato che il contributo collegato all’assentimento dell’attività edilizia si compone invero di due distinti elementi:
  
uno, di natura contributiva, afferente alle spese per l’urbanizzazione del territorio, e che costituisce pertanto una modalità di concorso del privato agli “oneri sociali” derivanti dall’incremento del carico urbanistico;
  
l’altro, di natura impositiva, conseguente invece all’aumento della capacità contributiva del titolare dell’opera, in ragione dell’incremento, in virtù dell’assentimento dell’attività edilizia, del patrimonio immobiliare detenuto da quest’ultimo soggetto; mentre il contributo sul costo di costruzione consiste in una prestazione patrimoniale ascrivibile alla categoria dei tributi locali, in quanto il prelievo non si basa, come nel caso degli oneri di urbanizzazione, sui costi collettivi derivanti dall’insediamento di un nuovo edificio, ma sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato dall’intervento edilizio stesso, gli oneri propriamente di urbanizzazione sono invece ascrivibili alla categoria dei “corrispettivi di diritto pubblico” e sono, conseguentemente, dovuti in ragione dell’obbligo del privato di partecipare ai costi delle opere di trasformazione del territorio di cui in definitiva si giova.
Come s’è detto, tale natura “corrispettiva” emerge con evidenza da più indici normativi, sia derivanti dalla possibilità di scomputare le opere pubbliche realizzate dal privato dagli oneri dovuti, sia connessi alla possibilità di escludere specifiche attività edilizie, in determinate ipotesi, dal versamento dal contributo sul costo di costruzione, ma non dal versamento degli oneri di urbanizzazione (v. le ipotesi contemplate dagli artt. 17 e 18, da un lato, e dall’art. 19, dall’altro, del d.P.R. n. 380 del 2001; cfr. altresì l’art. 43, comma 2-ter, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005).
Quanto alla corretta allocazione in bilancio e utilizzazione delle entrate derivanti dal rilascio dei permessi di costruire, in generale e sul presupposto dell’assenza di specifiche normative applicabili, non può dunque che muoversi dal riconoscimento di tale natura duale dell’entrata, peraltro affermata, nell’àmbito dell’armonizzazione, anche dal principio 3.11. dell’Allegato 4/2 al decreto legislativo n. 118 del 2011, come modificato dal decreto legislativo n. 126 del 2014, il quale correttamente evidenzia che “(l)'obbligazione per i permessi di costruire è articolata in due quote”:
(l)a prima (oneri di urbanizzazione) è immediatamente esigibile, ed è collegata al rilascio del permesso al soggetto richiedente, salva la possibilità di rateizzazione (eventualmente garantita da fidejussione),
la seconda (costo di costruzione) è esigibile nel corso dell'opera ed, in ogni caso, entro 60 giorni dalla conclusione dell'opera” medesima, con le relative conseguenze in tema d’accertamento ed imputazione (infatti “la prima quota è accertata e imputata nell'esercizio in cui avviene il rilascio del permesso, la seconda è accertata a seguito della comunicazione di avvio lavori e imputata all'esercizio in cui, in ragione delle modalità stabilite dall'ente, viene a scadenza la relativa quota”; cfr. al riguardo anche gli artt. 38, comma 7-bis, e 43 ss. della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005).
Alla luce di tale considerazione, sempre in generale e sul presupposto dell’assenza di specifiche normative applicabili (cioè nell’ottica in cui è stata emessa la richiesta di parere),
si deve conseguentemente rilevare che le entrate connesse al versamento degli oneri di urbanizzazione hanno necessariamente natura di entrate di parte capitale, derivando in definitiva dal “consumo” del suolo, cioè dall’irreversibile (almeno in linea tendenziale) impiego di un bene pubblico, ed essendo intrinsecamente destinate alla realizzazione di opere, volte al razionale e salubre impiego dello stesso, destinate comunque ad incrementare il “patrimonio immobiliare” dell’ente, sub specie di realizzazione (diretta o indiretta) di beni rientranti nelle categorie, a seconda delle evenienze, del demanio (ad es. strade, piazze, acquedotti, v. gli artt. 822, secondo comma, e 824 c.c.), o del patrimonio indisponibile (v. al riguardo l’art. 826, terzo comma, c.c.).
In tali ipotesi infatti si verte nell’ambito di entrate naturalmente destinate all’incremento dei beni annoverabili nel “patrimonio” latamente inteso dell’ente e che, come tali, devono essere rappresentate nel bilancio; in particolare la naturale allocazione di tali entrate è dunque tra le risorse di parte capitale, ordinariamente utilizzabili solo per spese di investimento, salvo le eccezioni di legge (art. 162, comma 6, del T.U.E.L.; v. per la nozione d’investimento l’art. 3, comma 18, della legge n. 350 del 2003).
Quanto invece alle entrate connesse al versamento dei contributi sul costo di costruzione, la natura tributaria delle stesse le fa invece necessariamente riconfluire, come già rilevato da questa Sezione nella deliberazione n. 1/pareri/2014, nel totale delle entrate che, come tali, in virtù del principio dell’unità di bilancio (art. 162, comma 2, del T.U.E.L.), finiscono coll’esser destinate a finanziare il totale delle spese, con l’ulteriore conseguenza della riallocazione di queste risorse tra quelle che contribuiscono complessivamente a determinare gli equilibri di bilancio ex art. 193, comma 3, del T.U.E.L.
La diversa modalità d’accertamento e d’imputazione delle due “quote dell’entrata induce a ritenere che non vi sia invero rischio di commistione fra le stesse (v. ancora il principio 3.11. dell’Allegato 4/2 al decreto legislativo n. 118 del 2011, come modificato dal decreto legislativo n. 126 del 2014).
Discorso analogo –sempre sui medesimi presupposti prima indicati– deve essere fatto anche per le entrate connesse alle sanzioni in materia edilizia, stante la natura intrinsecamente “accessoria” delle stesse rispetto alla disciplina sostanziale la cui violazione risulta tramite esse sanzionata (arg. ex Corte costituzionale, sentenze nn. 350 e 365 del 1991; 307 e 362 del 2003): da un’attenta ricostruzione del dato normativo s’evince infatti come alcune di tali sanzioni si ricollegano alla realizzazione di opere di “straordinaria amministrazione”, di modo che seguono la propria intrinseca natura di entrate latamente di parte capitale (cfr. ad es. gli artt. 31, comma 4-ter, e 33, comma 6, del d.P.R. n. 380 del 2001), mentre altre svolgono funzioni diverse, di deterrenza o di oblazione (v. gli artt. 33, comma 2; 34, comma 2; 36, comma 2; 37, commi 1, 2, 3, 4 e 5; 38, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001), che necessariamente le avvicinano a quel fenomeno impositivo/tributario che genera entrate destinate a coprire, per il principio dell’unità del bilancio, la generalità delle spese.
7.- Peraltro, la recente legge n. 208 del 2015, entrata in vigore il giorno 01.01.2016, è intervenuta in materia, stabilendo che "
(p)er gli anni 2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all'articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo unico” –le quali, per espressa previsione del successivo comma 4-ter, spettano al comune e sono destinate esclusivamente alla demolizione ed alla rimessione in pristino delle opere abusive, nonché all'acquisizione ed all'attrezzatura di aree destinate a verde pubblico–, “possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche” (art. 1, comma 737).
Tale disposizione contiene una specifica previsione facoltizzante, circa la destinazione dell’entrata, di cui l’ente, nella propria autonomia, potrà dunque avvalersi negli anni 2016 e 2017 e viene a configurare un’espressa disciplina, parzialmente derogatoria rispetto al regime ordinario d’imputazione di detti proventi, che tuttavia conferma a contrario, sotto il profilo concettuale, la tendenziale annoverabilità degli stessi, quantomeno pro parte, fra quelli di parte capitale (tanto che per destinare integralmente tali entrate a spese di parte corrente il legislatore ha ritenuto necessario dettare una disposizione ad hoc).
8.- Spetta al Comune di Cernusco sul Naviglio, sulla base dei principi espressi dalla giurisprudenza contabile, oltre che da questo stesso parere, valutare la fattispecie concreta al fine di addivenire, nel caso di specie, al migliore esercizio possibile del proprio potere di autodeterminazione in riferimento alla corretta copertura della spesa, nel rispetto del quadro legislativo ratione temporis di volta in volta applicabile, anche in considerazione della natura propria dello specifico intervento concretamente realizzato (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 09.02.2016 n. 38).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGOCambio turno.
Domanda
È possibile per un dipendente chiedere autonomamente il “cambio turno”? Come funziona?
Risposta
Premesso che la fattispecie non è normata da alcuna disciplina di contratto e di legge, il cambio turno non esiste dal punto di vista giuridico, per cui l’unico soggetto che legittimamente può regolamentare in materia è il datore di lavoro (dirigente) nell’esercizio dei suoi poteri conferitegli dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
La regolamentazione va inserita nel disciplinare sull’orario di lavoro e non richiede alcuna partecipazione sindacale diversa dalla sola informazione.
Ciò detto, le motivazioni che legittimano il cambio turno sono definite e perimetrate dal datore di lavoro che deve tenere conto del rischio che conduce un abuso di questo istituto.
Non sono le motivazioni personali generiche dei lavoratori a prevalere sull’esigenza di rispettare le condizioni legittimanti l’indennità di turno (in proposito si legga la delibera della Corte dei Conti Molise n. 25/2016).
Un utilizzo incontrollato di cambi turni può far venire meno la legittimità della corresponsione della relativa indennità, producendo ad esempio un disequilibrio tra turni mattutini e pomeridiani nell’arco del mese, è quindi dovere e compito del datore di lavoro monitorare e regolamentare un corretto e proprio utilizzo del cambio turno.
Tale ipotesi, del resto, è certamente riconducibile ad una forma di flessibilità, non normata, e che per questa ragione richiede di essere regolamentata tenuto conto di quanto sopra (27.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIIl codice CPV e il nuovo strumento di ricerca sul MEPA.
Domanda
La prassi nel nostro ente è quella di procedere agli acquisti su MePa partendo da un prodotto specifico, con invito rivolto a tutti gli operatori iscritti. Tuttavia all’ultima procedura ha partecipato il solo fornitore che ha pubblicato a catalogo il prodotto specifico.
Ci sono modalità operative che garantiscono una maggior partecipazione?
Risposta
L’approvvigionamento su MePa partendo da un prodotto specifico presuppone, in ogni caso, la verifica circa la corretta allocazione del catalogo pubblicato dall’operatore nella corrispondente categoria di abilitazione di cui agli specifici capitolati tecnici.
Ogni capitolato (cfr. allegati al Capitolato d’oneri su MePa) contiene la descrizione delle prestazioni che possono essere offerte dagli operatori che si abilitano per quel particolare bando, consistenti in un elenco di CPV, ovvero quei codici numerici che mirano a standardizzare mediante un unico sistema di classificazione gli appalti pubblici, e che offrono uno strumento adeguato in ordine alla corretta individuazione dell’oggetto dell’affidamento.
Al momento il sistema MePa non procede ad una verifica circa il corretto caricamento del prodotto da parte dell’operatore, che nel caso di specie potrebbe aver inserito un bene informatico, ad esempio un computer portatile
[1], in un bando di abilitazione diverso, ad esempio quello “Arredi [2]. In questo caso gli operatori invitati non avevano la disponibilità del prodotto richiesto, con la conseguenza che non solo la concorrenza è stata falsata, ma la Stazione Appaltante non ha potuto effettivamente confrontare più offerte per ottenere il prezzo migliore.
Con riferimento al quesito sopra riportato, salva l’ipotesi di prestazione richiesta con caratteristiche o prezzo non sostenibili, si può ipotizzare che il problema derivante dalla mancata partecipazione, nonostante il numero altissimo degli invitati (tutti gli abilitati alla categoria) sia stato determinato da un errato caricamento.
(...continua) (26.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAlcuni dipendenti di questo Comune chiedono informazioni circa la abrogazione dell'istituto del nulla osta alla mobilità presso altri Enti di cui si è parlato nell'ambito dei provvedimenti sulla "concretezza".
Quale è la normativa di riferimento?

Nella Gazzetta Ufficiale n. 145 del 22.06.2019 è stata pubblicata la L. 19.06.2019, n. 56 "Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell'assenteismo" (cosiddetta "legge concretezza") che entra in vigore il 07.07.2019.
L'art. 3, comma 4, della citata norma prevede "Al fine di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, per il triennio 2019-2021, fatto salvo quanto stabilito dall'articolo 1, comma 399, della legge 30.12.2018, n. 145, le amministrazioni di cui al comma 1 possono procedere, in deroga a quanto previsto dal primo periodo del comma 3 del presente articolo e all'articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001, nel rispetto dell'articolo 4, commi 3 e 3-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101 …".
La norma in questione prevede:
   1) una deroga temporanea, anche se ampia (2019-2021) relativamente alla necessità della preventiva determinazione di avvio delle procedure di reclutamento (art. 35 TUPI);
   2) una deroga all'attivazione delle procedure di mobilità obbligatoria di cui all'art. 30. Tali deroghe sono facoltative e non riguardano il c.d "nulla osta" alla mobilità che, pertanto, rimane adempimento necessario nell'ambito delle procedure di mobilità.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 30.03.2001, n. 165
D.L. 31.08.2013, n. 101
L. 19.06.2019, n. 56, art. 3
(26.06.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità tra carica di assessore e consigliere per padre e figlio.
Domanda
A seguito delle elezioni comunali del 26.05.2019 è risultato eletto un consigliere comunale. Il sindaco, costituendo la Giunta, ha nominato assessore esterno il padre del consigliere.
Si determina il caso di conflitto d’interesse tra consigliere ed assessore? Chi dei due deve lasciare la carica?
Risposta
Il caso in esame –a prescindere da ragioni di opportunità che saranno state valutate, si immagina, dal sindaco prima di procedere alle nomine– non comporta nessuna causa di incompatibilità o situazione di conflitto d’interesse, né per il consigliere comunale (figlio), né per il padre (assessore esterno).
Le norme a cui occorre fare riferimento per l’esame della situazione sono le seguenti:
   • articoli da 63 a 67 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recante: “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali";
   • Capo IV (articoli da 10 a 12) del decreto legislativo 31.12.2012, n. 235, recante “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190”;
   • articolo 1, comma 42, della legge 06.11.2012, n. 190;
   • articoli 46, comma 2 e 47, del TUEL 267/2000;
   • articolo 1, comma 137, della legge 07.04.2014, n. 56 (25.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Articolazione orario lavoro.
Domanda
Abbiamo la necessità di aprire lo sportello al pubblico anche il sabato modificando quindi l’orario di lavoro a due dipendenti. Avrei bisogno di sapere cosa dobbiamo fare per procedere in tal senso?
Risposta
La modifica dell’articolazione dell’orario di lavoro è oggetto di confronto con le parti sindacali. La dinamica del confronto è indicata all’art. 5 del contratto che riportiamo di seguito:
   1. Il confronto è la modalità attraverso la quale si instaura un dialogo approfondito sulle materie rimesse a tale livello di relazione, al fine di consentire ai soggetti sindacali di cui all’art. 7, comma 2, di esprimere valutazioni esaustive e di partecipare costruttivamente alla definizione delle misure che l’ente intende adottare.
   2. Il confronto si avvia mediante l’invio ai soggetti sindacali degli elementi conoscitivi sulle misure da adottare, con le modalità previste per la informazione. A seguito della trasmissione delle informazioni, ente e soggetti sindacali si incontrano se, entro 5 giorni dall’informazione, il confronto è richiesto da questi ultimi. L’incontro può anche essere proposto dall’ente, contestualmente all’invio dell’informazione. Il periodo durante il quale si svolgono gli incontri non può essere superiore a trenta giorni. Al termine del confronto, è redatta una sintesi dei lavori e delle posizioni emerse.
   3. Sono oggetto di confronto, con i soggetti sindacali di cui all’articolo 7, comma 2:
      a) l’articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro;
      b) i criteri generali dei sistemi di valutazione della performance;
      c) l’individuazione dei profili professionali;
      d) i criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi di posizione organizzativa;
      e) i criteri per la graduazione delle posizioni organizzative, ai fini dell’attribuzione della relativa indennità;
      f) il trasferimento o il conferimento di attività ad altri soggetti, pubblici o privati, ai sensi dell’art. 31 del D. Lgs. n. 165/2001;
      g) la verifica delle facoltà di implementazione del Fondo risorse decentrate in relazione a quanto previsto dall’art. 15, comma 7;
      h) i criteri generali di priorità per la mobilità tra sedi di lavoro dell’amministrazione;
      i) negli enti con meno di 300 dipendenti, linee generali di riferimento per la pianificazione delle attività formative.
A seguire e a confronto concluso (30 giorni) va redatta una determina dirigenziale (20.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Rotazione e partecipazione del pregresso affidatario in diversa veste giuridica (come mandatario di un RTI).
Domanda
Sono sempre più numerosi i quesiti in tema di rotazione. Soprattutto sull’intensità del criterio e se questo possa estendersi anche al caso in cui il pregresso affidatario chieda di essere invitato ad un procedura negoziata per una prestazione identica alla precedente (per cui risulta contraente della stazione appaltante) ma in forma giuridica differente ovvero non singolarmente ma in raggruppamento. L’appaltatore, si legge nel quesito, ritiene che in questo caso non gli si possa opporre la rotazione.
È possibile avere un riscontro?
Risposta
La questione della rotazione costituisce espressione di una delle problematiche maggiormente sentite dai RUP e dagli stessi appaltatori. Inutile rammentare che la giurisprudenza e la stessa ANAC risultano particolarmente sensibili alla problematica interpretando in modo radicale l’alternanza tra le imprese.
La motivazione dell’alternanza poggia sull’esigenza di evitare che il pregresso affidatario (anche se diventato tale in virtù di una gara pubblica) possa avvantaggiarsi dell’esperienza di gestione dell’appalto della c.d. rendita di posizione derivante dall’essere stato contraente e, quindi, di essere ben in grado di intercettare –a differenza degli altri appaltatori– i desiderata della stazione appaltante.
La rotazione deve operare nel caso di successione di appalti della medesima tipologia e, generalmente, a prescindere dagli importi. Opera nel caso in cui, ad una prima aggiudicazione per gara pubblica segua una procedura negoziata e non al contrario.
La rotazione può subire dei contingentamenti/deroghe nel caso in cui la stazione appaltante si sia dotata di un proprio regolamento in cui abbia previsto della fasce di importo (pertanto potrebbe non operare nell’ambito della stessa fascia di importo anche se si tratta della medesima prestazione/lavoro già acquisito).
Negli altri casi, per evitare la rotazione (sia sul precedente aggiudicatario sia sui soggetti già invitati) è necessario che il RUP operi con avvisi pubblici a manifestare interessi (o direttamente con bando di gara) aperti senza limitazione alcuna sulle partecipazioni.
Venendo alla questione posta nel quesito, in tempi recentissimi la stessa ANAC ha escluso che il pregresso affidatario possa riproporre la propria candidatura per la successiva aggiudicazione della stessa tipologia di appalto partecipando in diversa forma giuridica (ad esempio come mandatario di un raggruppamento).
In questo senso, con il parere n. 422/2019, l’autorità anticorruzione –secondo una indicazione preziosa per il RUP– ha chiarito che in relazione alla “gara per lavori afferenti alla medesima categoria e fascia di importo” l’eventuale partecipazione del pregresso affidatario “anche se nella veste di mandante di un R.T.I. (rectius concorrente in raggruppamento), ponendosi in contrasto con il principio di rotazione”, determinerebbe una violazione di legge.
Pertanto, in siffatte ipotesi la deroga è possibile solo con adeguata motivazione del RUP che non può che essere fondata o sulla esiguità di proposte (appaltatori) nel mercato e nella competitività delle offerte (sempre che nel precedente appalto abbia ben operato senza rilievi) (19.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIQuesto Ministero si trova spesso di fronte a contestazioni su vizi procedurali collegati alla non corretta applicazione del preavviso di rigetto sia nei procedimenti ad istanza di parte che in quelli d'ufficio.
Quale è la corretta applicazione della norma anche eventualmente alla luce della giurisprudenza?

La giurisprudenza formatasi in merito alla applicazione dell'art. 10-bis (comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza), il cosiddetto "preavviso di rigetto" è una fra le più copiose dalle massime si possono ricavare alcuni principi fondamentali.
Ad esempio si sottolinea la diversità strutturale e di finalità fra la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo (art. 7, L. 07.08.1990, n. 241, applicabile ai procedimenti d'ufficio) ed il preavviso di rigetto previsto (art. 10-bis , applicabile ai procedimenti ad istanza di parte). In merito alla applicazione dell'istituto alle SCIA a mio avviso esso non trova applicazione in quanto non costituiscono procedimenti ad istanza di parte.
Tuttavia il recente Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 21.05.2019) 27.05.2019, n. 3453 l'ha ritenuto applicabile ad una specifica ed "anomala" segnalazione certificata, quella prevista dall'art. 87-bis, D.Lgs. 01.08.2003, n. 259.
Il preavviso di rigetto:
   - ha lo scopo di far conoscere all'amministrazione procedente le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco; tuttavia, tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l'annullamento del provvedimento nei casi in cui il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità.
Quindi, il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto non comporta l'automatica illegittimità del provvedimento finale, quando, in ipotesi, possa trova applicazione l'art. 21-octies della stessa legge, secondo il quale il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
   - attiva una fase endoprocedimentale e la sua attivazione interrompe i termini per concludere il procedimento. I termini inizieranno nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni del privato o, in mancanza, dalla scadenza del termine di dieci giorni assegnato per la presentazione delle predette osservazioni.
   - è strumento fondamentale di tutela dell'interessato e non deve essere applicato in modo formale (o addirittura formalistico). Da ciò la giurisprudenza ne deduce la inapplicabilità ai casi in cui l'interessato non avrebbe margini per dimostrare un diverso esito dell'istruttoria;
  - stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, o altri procedimenti analoghi di natura speciale.
La PA quindi:
   - nel provvedimento conclusivo (negativo) che segue alla fase di preavviso di provvedimento negativo deve esplicitare le ragioni che intende porre a fondamento del proprio diniego integrarandole con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall'interessato nell'ambito del contraddittorio;
   - non ha un obbligo di puntuale motivazione e/o confutazione delle controdeduzioni presentate a seguito del preavviso di rigetto dell'istanza, di cui all'art. 10-bis, L. 07.08.1990, n. 241, poiché le ragioni ostative all'accoglimento delle medesime ben possono evincersi dalla motivazione del provvedimento di diniego emanato a conclusione del procedimento.
Alla luce di questo quadro giurisprudenziale, in estrema sintesi, se ne deduce l'importanza dell'istituto (obbligatorio, ma senza conseguenze automatiche di illegittimità) nei procedimenti ad istanza di parte; la sua attivazione comporta la riapertura dei termini del procedimento e l'avvio di una ulteriore fase endoprocedimentale di analisi delle ragioni di diniego, da svolgere anche con decisione semplificata.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 10-bis
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. IV, 17.05.2019, n. 3190 - Cons. Stato Sez. VI, 24.04.2019, n. 2627 - Cons. Stato Sez. VI, 03.04.2019, n. 2203 - Cons. Stato Sez. III, 22.02.2019, n. 1236 - Cons. Stato Sez. VI, 01.02.2019, n. 801 - Cons. Stato Sez. VI, 18.01.2019, n. 484 - Cons. Stato Sez. IV, 11.01.2019, n. 256 - Cons. Stato Sez. V, 22.10.2018, n. 6024 - Cons. Stato Sez. V, 09.10.2018, n. 5793 - Cons. Stato Sez. IV, 27.09.2018, n. 5562 - Cons. Stato Sez. VI, 27.09.2018, n. 5557 - Cons. Stato Sez. IV, 28.062018, n. 3984
(19.06.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il responsabile per la transizione al digitale.
DOMANDA:
Qual è la procedura da seguire per la corretta nomina del responsabile per la transizione al digitale nel nostro comune e quali sono le sue competenze?
RISPOSTA:
In riferimento a quanto richiesto, la Circolare del Ministro per la Pubblica Amministrazione n. 3 dell’01/10/2018 -emanata per sollecitare tutte le Amministrazioni Pubbliche a individuare al loro interno il Responsabile per la Transizione al Digitale (RTD) previsto dal CAD- costituisce una utile guida per gli enti che, nonostante l’obbligo di effettuare tale adempimento a partire dal 14.09.2016 (art. 17 CAD), non vi abbiano ancora provveduto.
Ancora persiste forse l’opinione che si tratti di un ulteriore adempimento burocratico e non di una figura essenziale, chiamata a svolgere un ruolo centrale per la concreta applicazione nei territori, degli indirizzi dettati dall'AgID (Agenzia per l’Italia Digitale). Un passaggio significativo è rappresentato dal fatto che la figura è di diretta nomina del vertice dell’Amministrazione. Nel caso di un Comune, essa deve essere diretta emanazione del Sindaco e della Giunta (questo aspetto è sintomatico della chiara volontà del legislatore di ricondurre immediatamente al vertice dell’amministrazione la governance della transizione al digitale.
Per questa sua caratteristica, il Responsabile per la transizione al digitale:
   - In quanto ufficio dirigenziale (per legge) sarà sovraordinato, nelle sue attività, alle altre figure apicali, compreso il Segretario Generale.
   - In quanto figura interna all’Amministrazione non può essere un consulente esterno.
   - il Responsabile dovrà essere dotato di competenze in materia organizzativa/manageriale, informatica e di informatica giuridica.
Un errore da evitare dovrebbe essere quello di far ricadere la nomina su tre tipologie di soggetti: i responsabili dei CED o “dell’informatica”; i Segretari Generali; i dipendenti privi di specifiche competenze.
E’ stato a tal proposito fatto notare che nell’ambito della P.A. non è consueto imbattersi in figure professionali in grado di sommare le competenze informatiche e quelle organizzative/manageriali. Manca infatti nei titolari di competenza informatica, anche se di alto livello, vuoi una cultura organizzativa che un potere tale da indirizzare le scelte di cambiamento necessarie. Per contro le figure professionali con capacità e poteri organizzativi, molto spesso, finiscono con l’esercitarli in modo burocratico.
Restando in ambito organizzativo, lo stesso CAD prevede la possibilità per le amministrazioni diverse dalle amministrazioni dello Stato di esercitare le funzioni di RTD anche in forma associata. Tale opzione organizzativa, raccomandata specialmente per le PA di piccole dimensioni, può avvenire in forza di convenzioni o, per i Comuni, anche mediante l’unione di comuni. La convenzione disciplinerà anche le modalità di raccordo con il vertice delle singole amministrazioni. Le funzioni dovranno riguardare un unico ufficio dirigenziale, fermo restando il numero complessivo degli uffici.
Riepilogando, una volta nominato, il RTD:
   1) risponde direttamente all’organo di vertice politico (nel caso dei Comuni al Sindaco) o, in sua assenza, a quello amministrativo dell’ente (Segretario comunale);
   2) pone in essere tutte le azioni necessarie per la realizzazione di servizi pubblici rivisitati in un’ottica che ne preveda la piena integrazione con le nuove tecnologie;
   3) pianifica e coordina gli acquisti di soluzioni e sistemi informatici, telematici e di telecomunicazione, al fine di garantirne la compatibilità con gli obiettivi di attuazione dell’agenda digitale e con quelli stabiliti nel piano triennale;
   4) garantisce la piena operatività della propria attività, costituendo tavoli di coordinamento con gli altri dirigenti dell’amministrazione, proponendo l’adozione di circolari e atti di indirizzo sulle materie di propria competenza (ad esempio in materia di approvvigionamento di beni e servizi);
   5) ha il potere di avvalersi dei più opportuni strumenti di raccordo e consultazione con le altre figure coinvolte nel processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione (responsabili per la gestione, responsabile per la conservazione documentale, responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, responsabile per la protezione dei dati personali).
Si ritiene utile infine segnalare che la figura del “Difensore civico per il digitale” per ciascuna pubblica amministrazione, non è più necessaria in quanto la nuova versione del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) ha introdotto il Garante Unico per i diritti digitali, correggendo la precedente versione che prevedeva un difensore civico per ogni pubblica amministrazione.
L’aspetto nuovo consiste nel fatto che la figura diventa unica per tutto il territorio nazionale (art. 17, comma 1-quater, del CAD con le modifiche introdotte dal Decreto Legislativo n. 217 del 13.12.2017 entrato in vigore il 27.01.2018), potendocisi avvalere del Difensore Civico Digitale unico e indipendente istituito presso l'AgID. Qualora già nominato occorrerà revocarlo non avendo più ragion d’essere (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: La distanza minima per il portico.
DOMANDA:
E' stata depositata istanza di sanatoria edilizia ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i. per un portico costruito in aderenza al fabbricato principale, realizzato con tre pilastri in legno, con copertura in tavolato e aperto su tre lati; l'intervento ricade in zona classificata dal P.I. vigente, "C1" residenziale.
Il portico risulta realizzato a ml 5,00 dal confine di proprietà e a 7,00 ml dall'edificio residenziale dei confinanti; la parete del fabbricato confinante, opponente e fronteggiante il portico oggetto di sanatoria, risulta cieca cioè con assenza di luci e vedute. Premesso che questo Comune deve ancora adottare il R.E.T., il cui termine in Veneto è stato prorogato fino al 31.12.2019, in base al vigente Regolamento Edilizio comunale, artt. 3-5, la realizzazione di un “portico” comporta, in particolare, incremento della superficie coperta e conseguentemente l'obbligo del rispetto della distanza sia dai confini che dai fabbricati; inoltre lo stesso regolamento edilizio prevede che la distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, sia pari a minimo ml 10,00 mentre quella tra pareti entrambe non finestrate sia pari a minimo ml 6,00.
Il tecnico progettista dichiara che la parete di un portico deve essere considerata cieca in quanto non presenta ne luci ne vedute, e pertanto il portico realizzato risulta sanabile.
Alla luce delle varie sentenze di TAR, C.d.S. e Cassazione, sul tema della applicazione del D.M. 1444/1968 - distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, si chiede se ai fini dell'applicazione del suddetto D.M. 1444/1968, e quindi del sopra citato regolamento edilizio, la parete di un “portico” possa essere considerata “parete finestrata”, e pertanto con l'obbligo del rispetto dei minimi 10.00 ml inderogabili, o possa essere considerata “parete cieca”, e quindi, con l'obbligo del rispetto dei minimi 6,00 ml previsti dal regolamento edilizio comunale, in presenza di pareti opponenti entrambe non finestrate.
RISPOSTA:
Con riferimento alla questione sollevata nel quesito posto, si rileva che la Cassazione civile, a partire dalla sentenza n. 27418 del 13.12.2005, ha superato il proprio precedente orientamento, secondo cui la distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate di edifici antistanti non sarebbe applicabile alla diversa situazione di un portico aperto fronteggiante l’edificio in costruzione (Cass. 17.12.1993 n. 12506), affermando che la verifica della distanza legale fra costruzioni deve essere effettuata tenendo conto del porticato secondo la regola del vuoto per pieno.
In particolare, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di distanze tra edifici «al fine di verificare il rispetto della distanza legale nelle costruzioni, qualora una di esse sia provvista di porticato aperto, con pilastri allineati al muro di facciata, deve tenersi conto anche del porticato, secondo la regola del “vuoto per pieno”, in quanto, anche nel caso in cui tra i pilastri del porticato non siano realizzate pareti esterne di collegamento, la fabbrica possiede i requisiti di consistenza, solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo che ne fanno una costruzione, soggetta alla disciplina sulle distanze» (in questo senso, Cass. civ., sez. II, 06.05.2014 n. 9679; Cass. civ., 26.07.2013, n. 18119; Cass. civ., 14.03.2011 n. 5934; Cass. civ. 13.12.2005, n. 27418). Il suddetto orientamento è stato richiamato e condiviso anche dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, Adunanza delle Sezioni Riunite del 03.02.2017, numero 339/2017 e data spedizione 02.05.2017; Tar Toscana, Firenze, sez. III, 23.12.2014, n. 2153; Tar Toscana, Firenze, sez. III, 09.01.2017, n. 2).
Infatti, nella sopra citata pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana è stato ribadito e precisato quanto segue: «Ritiene questo Consiglio che la distanza tra edifici vada calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano, e comunque in relazione a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela; essa va computata in relazione a tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, ivi compresi i porticati aperti, secondo il criterio del “vuoto per pieno” (salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene)».
Alla luce della giurisprudenza sopra citata ed in considerazione anche del fatto che, in base al vigente Regolamento Edilizio comunale, la realizzazione di un “portico” comporta incremento della superficie coperta e conseguentemente l'obbligo del rispetto della distanza sia dai confini che dai fabbricati, l’applicazione del D.M. 1444/1968 nonché del sopra citato regolamento edilizio comporta l’obbligo del rispetto dei minimi 10.00 ml inderogabili tra il “portico” in questione e l’edificio residenziale dei confinanti (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità di un amministratore locale.
Non sussiste alcuna causa di incompatibilità per un consigliere comunale che svolge la propria attività di lavoratore dipendente presso altro comune, qualora i due enti locali (unitamente ad altri comuni) abbiano in essere diverse convenzioni per la gestione in forma associata delle proprie funzioni e servizi. Ciò anche qualora l’indicato consigliere comunale venisse nominato assessore presso il medesimo comune.
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di eventuali cause di incompatibilità per un consigliere comunale che svolge la propria attività di lavoratore dipendente, non titolare di posizione organizzativa, presso altro comune, considerato che i due enti locali (unitamente ad altri Comuni) hanno in essere diverse convenzioni per la gestione in forma associata delle proprie funzioni e servizi. Ciò specie qualora l’indicato consigliere comunale venisse nominato assessore presso il medesimo comune.
In via preliminare si ricorda che le cause di incompatibilità degli amministratori locali, in quanto limitative del diritto di elettorato passivo garantito dall’articolo 51 della Costituzione, hanno carattere tassativo e non possono quindi essere applicate a situazioni non espressamente previste.
Ciò premesso si ritiene che la fattispecie prospettata non integri alcuna causa di incompatibilità prevista dalla legge
[1].
In particolare, la norma che potrebbe in astratto venire in rilievo è l’articolo 60, comma 1, num. 7), in combinato disposto con l’articolo 63, comma 1, num. 7), del D.Lgs. 267/2000, la quale prevede una situazione di ineleggibilità/incompatibilità tra l’essere dipendente di un comune ed il rivestire la carica di consigliere comunale del medesimo comune. Nel caso in esame l’amministratore locale è dipendente giuridicamente di altro comune rispetto a quello presso il quale svolge il proprio mandato elettivo.
Né ha rilievo per l’eventuale insorgenza della causa di incompatibilità il fatto che tra i Comuni interessati sussistano delle convenzioni per l’esercizio associato delle funzioni comunali: si osserva, infatti, che ai fini della sussistenza della indicata causa di incompatibilità ciò che conta è esclusivamente il rapporto di dipendenza giuridica non rilevando il fatto che l’effettiva attività svolta possa essere resa anche nell’interesse del comune presso cui svolge il proprio mandato elettivo.
Si ricorda, altresì, al riguardo, che la convenzione è una forma collaborativa tra enti locali la quale è inidonea a far sorgere entità distinte ed autonome rispetto ai comuni che si associano. Ciò anche qualora il testo convenzionale preveda l’istituzione di uffici comuni ai quali affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all’accordo, i quali possono definirsi come articolazioni interne, prive di personalità giuridica.
Tali conclusioni non mutano anche qualora l’indicato consigliere comunale venisse nominato assessore dal proprio sindaco. Non è dato, infatti, ravvisare, con riferimento alla fattispecie in riferimento, l’esistenza di cause di incompatibilità ulteriori valevoli per i soli assessori comunali.
Per questi ultimi il legislatore statale ha, invece, dettato una previsione specifica all’articolo 78, comma 3, TUEL il quale recita: “I componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato”.
La norma disciplina la particolare situazione in cui potrebbe venire a trovarsi un assessore comunale al quale venga conferita la delega in materia di edilizia, urbanistica e lavori pubblici e che, al contempo, svolga la propria attività professionale nel medesimo territorio da esso amministrato e relativamente allo stesso ambito di materia cui si riferisce la delega assessorile ricevuta.
Premesso che la norma non introduce alcuna causa di incompatibilità né è prevista alcuna sanzione specifica in caso di sua violazione
[2], si rileva che essa in ogni caso non verrebbe in rilevo nel caso di specie atteso che l’amministratore locale svolge attività di lavoro dipendente e non autonomo.
In particolare, anche qualora questi venisse nominato assessore con delega in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici e, al contempo, svolgesse la propria attività di lavoratore dipendente nello stesso ambito della delega conferitagli dal sindaco[3] non risulterebbe integrata la fattispecie sopra descritta: soltanto esigenze di opportunità, da valutarsi in relazione all’effettiva attività svolta e ad ogni altra circostanza del caso concreto, potrebbero deporre a favore di soluzioni che siano rispettose delle esigenze di imparzialità e di buona amministrazione che sempre devono connotare l’agère della pubblica amministrazione.
Per completezza espositiva si segnala, infine, anche il disposto di cui all’articolo 78, comma 2, TUEL, applicabile a tutti gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, secondo cui essi “devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.”
Anche tale previsione non introduce alcuna causa di incompatibilità ma individua alcune fattispecie generatrici di conflitto di interesse la presenza delle quali impone un obbligo di astensione in capo all’amministratore locale che eventualmente si venga a trovare in una delle situazioni indicate dalla norma citata.
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[1] Per completezza espositiva si segnala che non vengono in rilievo nel caso in esame le cause di inconferibilità previste dal decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190” atteso che in tale sede non si contemplano cause ostative al conferimento della carica di assessore.
[2] Resta tuttavia per i soggetti coinvolti la personale responsabilità politica nei confronti del corpo elettorale ed eventualmente la responsabilità deontologica nei confronti dell’ordine di appartenenza.
[3] Sul presupposto che, come riferito dall’Ente, tutte le funzioni comunali sono svolte in convenzione tra i comuni in riferimento di talché l’attività lavorativa svolta potrebbe riguardare anche quella propria degli altri Comuni in convenzione
(06.06.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAI lavori possono ritenersi iniziati ove implichino il concentramento di mezzi e di manodopera, la messa a punto dell'organizzazione del cantiere, l'innalzamento di elementi portanti, lo scavo e il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna o almeno l'esecuzione di scavi preordinati al getto delle fondazioni, non risultando idonei ad evitare la decadenza del titolo autorizzatorio, invece, semplici sbancamenti di terreno.
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Come sopra accennato, il fulcro giuridico-fattuale della complessiva vicenda provvedimentale è costituito dalla verifica in ordine al decorso del termine di 12 mesi per l’inizio dei lavori che avrebbe determinato l’automatica decadenza della determinazione provinciale di approvazione del progetto.
Sul punto va premesso in diritto che, secondo la consolidata giurisprudenza anche riferita ad interventi de quibus, i lavori possono ritenersi iniziati ove implichino il concentramento di mezzi e di manodopera, la messa a punto dell'organizzazione del cantiere, l'innalzamento di elementi portanti, lo scavo e il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna o almeno l'esecuzione di scavi preordinati al getto delle fondazioni, non risultando idonei ad evitare la decadenza del titolo autorizzatorio, invece, semplici sbancamenti di terreno (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI 19.09.2017 n. 4381 e 30.09.2013 n. 4855; sez. V, 15.07.2013 n. 3823; TAR Valle d'Aosta, sez. I, 18.04.2018 n. 26; TAR Veneto, sez. II, 12.03.2015 n. 299).
Nel caso di specie, per un verso, gli esiti dell’istruttoria condotta dall’ente provinciale e trasfusi nella motivazione del provvedimento impugnato risultano in linea con tali assunti, disvelando compiutamente l’assenza di tali indici dimostrativi; per altro verso, le opposte argomentazioni di parte ricorrente, peraltro condotte non sul piano controfattuale ma di indiretti indizi giuridico-formali, non si presentano idonei a superare tali evenienze istruttorie.
Ed, invero, quanto al primo aspetto, dagli atti richiamati nella motivazione del provvedimento decadenziale e da quelli versati in atti (verbali e supporti fotografici di entrambe le parti) emerge sia l’assenza di esecuzione di scavi di fondazione e, a fortiori, di realizzazione di opere murarie, sia la stessa propedeutica organizzazione del cantiere, venendo in rilievo una non significativa opera di sbancamento, recinzione dell'area con minima strumentazione e peraltro sgombra di altri mezzi d'opera, di materiali di costruzione e di maestranze.
Ne deriva che –ribadito il principio di diritto per cui il concetto di “inizio dei lavori”, ai fini del termine di cui all'art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 (al quale, alla luce della previsione ex art. 24, comma 2, della l.r. Veneto n. 3/2000, va ricondotta la norma del successivo comma 4, specificamente inerente al termine di inizio dei lavori di realizzazione degli impianti di gestione dei rifiuti) non si riferisce a qualsiasi lavoro preordinato ad una costruzione edilizia, bensì a quelle opere e lavori prima citati che la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto necessari ed idonei ad evitare la decadenza del titolo autorizzatorio– nel caso di specie appare congruamente istruita e sufficientemente motivata la determinazione provinciale.
Né, quanto al secondo profilo, in senso opposto convincono gli argomenti di parte ricorrente, incentrati, come detto, non sul medesimo piano di prova dei fatti (attraverso la documentata descrizione di lavori in concreto eseguiti ed idonei ad impedire la decadenza del titolo autorizzatorio, anche attraverso ulteriori profili di convincimento, quali documenti contabili del cantiere), ma sul confronto con precedenti ordini di sospensione adottati dal comune e con la correlativa ricaduta in punto di imputabilità del ritardo.
Orbene, in senso contrario s’osserva come “l’inizio dei lavori” richiamato in precedenti provvedimenti comunali inibitori della loro ulteriore prosecuzione, per un verso, rileva sul diverso piano di misure cautelari attivate proprio per effetto del timore di un loro incipiente avvio (e non già, come ai fini qui in esame, di significativo mutamento dell’area per effetto dell'impianto del cantiere e della esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio); per altro verso ed in correlazione col precedente assunto, come ivi comunque vengano in rilievo meri interventi di sbancamento e lavori di movimento terra.
Quanto infine all’ulteriore richiamo alle citate ordinanze comunali di sospensione dei lavori, quali ipotesi di impedimento oggettivo e scusabile ad eseguire i lavori di realizzazione dell'impianto (factum principis), in disparte la mancata richiesta di proroga, s’osserva in senso contrario come nell’impugnato atto compiutamente si dia conto della neutralizzazione dei relativi periodi e di un puntuale computo sia dell’ampio termine precedente che di quello residuo, superandosi altresì il richiamo a quella situazione di incertezza giuridica che, in ogni caso, lungi dal costituire ulteriore causa di sospensione automatica del termine, avrebbe al più legittimato una richiesta di proroga mai presentata.
Ne discende, pertanto, la congruità istruttorio-motivazionale degli atti impugnati e di riflesso l’infondatezza della spiegata domanda risarcitoria stante l’inconfigurabilità nella specie di un danno ingiusto eziologicamente riconducile ad un non corretto esercizio della funzione amministrativa (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.06.2019 n. 755 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: VIA, VAS E AIA – Artt. 12 e 13 l.r. Valle d’Aosta n. 3/2018 – Illegittimità costituzionale – Provvedimento unico regionale introdotto nel cod. ambiente da d.lgs. n. 104/2017 – Natura unitaria – Frazionamento del contenuto del provvedimento di Via – Contrasto con l’assetto unitario e onnicomprensivo del provvedimento unico.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 12, 13, della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 20.03.2018, n. 3: il provvedimento unico regionale, introdotto nel cod. ambiente dal d.lgs. n. 104 del 2017, è finalizzato a semplificare, razionalizzare e velocizzare la VIA regionale, nella prospettiva di migliorare l’efficacia dell’azione delle amministrazioni a diverso titolo coinvolte nella realizzazione del progetto. Detto istituto non sostituisce i diversi provvedimenti emessi all’esito dei procedimenti amministrativi, di competenza eventualmente anche regionale, che possono interessare la realizzazione del progetto, ma li ricomprende nella determinazione che conclude la conferenza di servizi.
Il provvedimento unico ha, dunque, una natura per così dire unitaria, includendo in un unico atto i singoli titoli abilitativi emessi a seguito della conferenza di servizi che, come noto, riunisce in unica sede decisoria le diverse amministrazioni competenti, e non è quindi un atto sostitutivo, bensì comprensivo delle altre autorizzazioni necessarie alla realizzazione del progetto. Esso rappresenta il «nucleo centrale» di un complessivo intervento di riforma che vincola anche le regioni a statuto speciale, in quanto norma fondamentale di riforma economico sociale, riproduttiva –in aggiunta– di specifici obblighi internazionali in virtù della sua derivazione comunitaria.
La normativa regionale si pone dunque in contrasto con la disciplina statale, laddove fraziona il contenuto del provvedimento di VIA, limitandosi a contenere le informazioni e le valutazioni necessarie a stimare e a contenere l’impatto ambientale del progetto autorizzato. Nella disciplina posta dalla Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste, il provvedimento di VIA è, infatti, autonomo rispetto agli altri atti autorizzatori connessi alla realizzazione dell’opera, in evidente deroga all’assetto unitario e onnicomprensivo del provvedimento unico previsto dall’art. 27-bis del cod. ambiente.

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VIA, VAS E AIA – Art. 10 l.r. Valle d’Aosta n. 3/2018 – Illegittimità costituzionale – Ruolo meramente consultivo e marginale della conferenza di servizi – Contrasto con l’art. 27-bis del d.lgs. n. 152/2006.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 20.03.2018, n. 3: tale disposizione prevede che i soggetti competenti in materia territoriale e ambientale possano esprimere il loro parere anche «nell’ambito della conferenza di servizi indetta dalla struttura competente».
La conferenza di servizi è dunque relegata, dalla legge regionale impugnata, a un ruolo meramente consultivo e marginale, secondo una previsione che contrasta con il disegno normativo prefigurato dall’art. 27-bis del cod. ambiente.

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VIA, VAS E AIA – Art. 16 l.r. Valle d’Aosta n. 3/2018 – Illegittimità costituzionale – Allocazione dei procedimenti di VIA tra Stato e Regioni – Livello di protezione uniforme sul territorio nazionale.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, della legge reg. Valle d’Aosta n. 3 del 2018 e dell’Allegato A alla medesima legge regionale, e degli allegati ivi contenuti, limitatamente ai numeri 2), 3), 4), 5), 7), 8), 9) 10), 11), 17), 18), 19), 20) dell’Allegato A, e ai numeri 2.a), 2.e) 2.g), 2.h), 7.e), 7.g), 7.j), 7.m), 7.r) dell’Allegato B.
La nuova distribuzione di competenze tra Stato e Regioni, operata dal d.lgs. n. 104 del 2017, va considerata tra gli aspetti fondamentali della riforma in tema di VIA e di assoggettabilità a VIA, istituti chiave per la tutela dell’ambiente, la quale necessita di un livello di protezione uniforme sul territorio nazionale. Il d.lgs. n. 104 del 2017 (in particolare, gli artt. 5, 22, 26) ha sostituto gli Allegati alla Parte II del cod. ambiente, e così realizzato una nuova allocazione dei procedimenti di VIA tra Stato e Regioni, ampliando il novero dei procedimenti di competenza statale.
Da tali premesse discende l’illegittimità costituzionale delle norme che interferiscono con i procedimenti che il cod. ambiente riserva allo Stato, indicando tipologie di progetti non perfettamente corrispondenti alle fattispecie contenute nel d.lgs. n. 152 del 2006, o prevedendo soglie dimensionali inferiori a quanto previsto dalla disciplina statale senza contestualmente stabilire “limiti” massimi idonei ad evitare sovrapposizioni (Allegato A, numeri 2, 3, 9, 17, 18, 19 e 20; Allegato B, numeri 2a, 2e, 2g, 2h, 7e, 7g, 7j, 7m e 7r).
A conclusioni analoghe deve giungersi per i procedimenti che la legge regionale sottopone a VIA regionale o a verifica regionale di assoggettabilità a VIA non indicati dagli Allegati alla Parte II del cod. ambiente (Allegato A, numeri 4, 5, 7, 8, 10 e 11). Anche tali fattispecie sono illegittime in quanto si allontanano dalla disciplina statale, la quale, in virtù della competenza esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma lettera s) Cost., richiede una uniformità di trattamento normativo nella allocazione dei procedimenti tra Stato e Regioni
(Corte Costituzionale, sentenza 19.06.2019 n. 147 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Valutazione di impatto ambientale (VIA), la Consulta boccia norme della Valle d'Aosta.
Secondo la Corte costituzionale varie disposizioni della legge regionale valdostana n. 3/2018 sono illegittime. La disciplina della VIA rientra nella competenza esclusiva dello Stato.
La disciplina della Valutazione di impatto ambientale (VIA) rientra nella competenza esclusiva statale in materia di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
Lo ha ribadito la Corte costituzionale nella sentenza 19.06.2019 n. 147.
Con questa sentenza la Consulta ha:
   1) dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 10, 12, 13, della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 20.03.2018, n. 3, recante «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Modificazioni alla legge regionale 26.05.2009, n. 12 (Legge europea 2009), in conformità alla direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (Legge europea regionale 2018)»;
   2) dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, della legge reg. Valle d’Aosta n. 3 del 2018 e dell’Allegato A alla medesima legge regionale, e degli allegati ivi contenuti, limitatamente ai numeri 2), 3), 4), 5), 7), 8), 9) 10), 11), 17), 18), 19), 20) dell’Allegato A, e ai numeri 2.a), 2.e) 2.g), 2.h), 7.e), 7.g), 7.j), 7.m), 7.r) dell’Allegato B.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della suddetta legge della Regione autonoma Valle d’Aosta, per contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione con riferimento ad alcune disposizioni del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 recante «Norme in materia ambientale» (cod. ambiente), e in particolare, agli artt. 7-bis e 27-bis e agli Allegati II, II-bis, III, IV, alla Parte II del menzionato cod. ambiente
(20.06.2019 - commento tratto da https://www.casaeclima.com).

APPALTI: Omessa dichiarazione da parte del concorrente di tutte le condanne penali eventualmente riportate.
Nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate all’affidamento di un appalto pubblico, l’omessa dichiarazione da parte del concorrente di tutte le condanne penali eventualmente riportate comporta senz’altro la sua esclusione dalla gara, perché in tal modo viene impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità: valutazione che ad essa sola compete e che non può esserle potestativamente preclusa dall’autodeterminazione dell’interessato (fattispecie relativa all’omessa dichiarazione di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex artt. 444, 445 c.p.p) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.06.2019 n. 1396 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2.1. Quanto ai motivi con i quali le ricorrenti censurano la propria esclusione dalla gara, è sufficiente rilevare che:
   - la lex specialis prescriveva che ciascun soggetto munito del potere di rappresentanza dell’operatore economico partecipante alla gara indicasse tutte le sentenze iscritte sul casellario giudiziale anagrafico storico ed anche quelle per cui sia stato concesso il beneficio della non menzione (v. il Modello 2, lettera b, allegato all’istanza di ammissione alla procedura, sub doc. 14 della produzione di AM.Sp. S.S.D. a r.l.);
   - è incontestato che l’amministratore unico della mandataria -OMISSIS- ha omesso di dichiarare l’esistenza a suo carico di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 444, 445 c.p.p) del g.i.p. del Tribunale di Milano, divenuta irrevocabile il 29.04.2012, per fatti di bancarotta fraudolenta in concorso ex artt. 110 c.p. e 223 del r.d. n. 267/1942, commesso il 12.10.2006 in Milano;
   - secondo l’orientamento giurisprudenziale condiviso dal Collegio, nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate all’affidamento di un appalto pubblico, l’omessa dichiarazione da parte del concorrente di tutte le condanne penali eventualmente riportate comporta senz’altro la sua esclusione dalla gara, perché in tal modo viene impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità: valutazione che ad essa sola compete e che non può esserle potestativamente preclusa dall’autodeterminazione dell’interessato;
   - la stazione appaltante, quindi, ha correttamente escluso le ricorrenti dalla gara ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c) e lett. f-bis) del d.lgs. n. 50/2016;
   - le censure, pertanto, vanno respinte.

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un foro di 12 cm. di diametro per consentire il passaggio di una tubazione in polipropilene del diametro di 11 cm, utilizzata per convogliare i reflui fognari alla rete condominiale, non rientra nel regime del permesso di costruire.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, sono ricomprese nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.

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Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il Condominio di Via ... n. 12 ha agito per l’annullamento della determinazione dirigenziale rep. n. 3231 del 06.11.2017, di irrogazione delle sanzioni demolitoria e pecuniaria per interventi edilizi asseritamente abusivi realizzati nel suddetto fabbricato condominiale, nonché degli altri atti in epigrafe indicati.
Nello specifico, gli interventi sanzionati si sono sostanziati nella realizzazione di un foro di 12 cm. di diametro per consentire il passaggio di una tubazione in polipropilene del diametro di 11 cm, utilizzata per convogliare i reflui fognari alla rete condominiale, nonché nella realizzazione di una porta sul prospetto posteriore del fabbricato, con affaccio sul cortile interno, di accesso secondario al medesimo.
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2. Il ricorso merita parziale accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
3. Come esposto nella narrativa in fatto, con il provvedimento impugnato sono state sanzionate due opere, la prima delle quali costituita dalla realizzazione sul muro del fabbricato di un “foro” di 12 cm. di diametro per consentire il passaggio di una tubazione in polipropilene del diametro di 11 cm., utilizzata per convogliare i reflui fognari alla rete condominiale.
3.1. Giova evidenziare che in esecuzione dell’ordinanza cautelare, con deliberazione assembleare del 19.03.2019 il Condominio ha deliberato di provvedere al ripristino della tubazione originaria, essendo stata la realizzazione del foro determinata dalla necessità di fronteggiare un danneggiamento, risalente agli anni ’90, dell’ultimo tratto discendente della condotta fognaria.
A prescindere dalla suddetta deliberazione, di per sé inidonea, in assenza della esecuzione dell’intervento di ripristino a determinare una sopravvenuta carenza di interesse, in pa
rte qua, dell’impugnativa, il Collegio rileva che, sul piano edilizio e fermi ulteriori aspetti di conformità estranei al presente giudizio, la realizzazione della tubazione in questione e l’apertura dell’esiguo foro che vengono in rilievo non rientra nel regime del permesso di costruire.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, sono ricomprese nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
L’opera posta in essere –la quale, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della controinteressata non integra un “manufatto”– rientra in quest’ultima categoria, con conseguente illegittimità, in parte qua, della determinazione adottata dall’amministrazione (
TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 17.06.2019 n. 7818 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo” in capo ai proprietari dell’abuso.
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6. Neppure meritano accoglimento le deduzioni del Condominio ricorrente incentrate sul lungo tempo decorso tra la realizzazione delle opere e l’adozione del provvedimento impugnato.
6.1. In conformità all’orientamento espresso dalla giurisprudenza (avallato dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8 del 2017), il Collegio ritiene di rimarcare che poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo” in capo ai proprietari dell’abuso.
7. Con deduzione articolata in via di subordine, il Condominio ricorrente ha censurato l’irrogazione della sanzione pecuniaria, quantificata dall’amministrazione in ventimila euro, con espressa impugnazione, in parte qua, della delibera dell’assemblea comunale n. 44 del 2011, non essendo stata prevista alcuna diversificazione correlata alla gravità degli abusi contestati nell’ambito dei variegati interventi rientranti nella categoria della ristrutturazione edilizia.
7.1. La censura merita accoglimento in quanto sia tenuto conto dell’esiguità dell’abuso sia alla luce del complesso delle circostanze emergenti in atti, anche riferite al mancato reperimento presso gli uffici dell’amministrazione del progetto originario del fabbricato, deve concludersi per l’assoluta sproporzione ed irragionevolezza della sanzione.
Del pari, meritano accoglimento le deduzioni articolate avverso la sopra indicata deliberazione, nella parte in cui al punto 6), lett. a), dispone l’applicazione di una sanzione pecuniaria dai 15.000,00 ai 25.000,00 euro per tutte le opere che secondo la classificazione dell’art. 9, comma 5, delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano Regolatore, siano riconducibili alla “categoria di intervento RE2 e/o a cambi di destinazione d’uso” e ciò in quanto –a prescindere dal contrasto, non oggetto di specifica deduzione da parte del Condominio ricorrente, con le superiori fonti di rango legislativo primario, relativamente al cumulo di sanzioni, già evidenziato in numerose pronunce di questa Sezione (cfr., ex multis, n. 5231 del 2019)– la previsione si ponte in palese violazione del generale canone di proporzionalità, stante l’assimilazione di differenti fattispecie senza adeguata graduazione in rapporto alla consistenza ed alla gravità dell’abuso .
8. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso merita parziale accoglimento, nei limiti e nei termini sopra indicati (
TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 17.06.2019 n. 7818 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICADestinazione di un’area a standard.
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Urbanistica - Servitù di uso pubblico - Destinazione di un’area a standard – Uti cives.
La destinazione di un’area a standard è finalizzata mediante una servitù di uso pubblico alla fruizione della stessa da parte dell’intera collettività indistinta dei cittadini (uti cives) e non all’uso limitato (uti singuli) da parte dei soli utenti delle unità immobiliari in relazione alle quali è sorto l’obbligo della dotazione degli standard (1).
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   (1) Il comune di Flero autorizza nel 1982 una lottizzazione (capannoni industriali) ottenendo in cambio aree a standard: verde, parcheggi pubblici, magazzino comunale.
Di fatto però negli anni le ditte proprietarie dei capannoni utilizzano quegli spazi pubblici (parcheggi e aree esterne al magazzino comunale) come spazio di manovra per gli autotreni pesanti che accedono ai capannoni per consegnare o ritirare merce.
Nel 2014 il comune –verificato che gli standard sono sovrabbondanti– aliena mediante asta pubblica parte dei parcheggi e il magazzino ad una società LAI, la quale mediante recinzione delimita la sua nuova proprietà.
A questo punto le Ditte, private degli spazi esterni di manovra, insorgono avanti al TAR Brescia che accoglie il ricorso.
Il punto decisivo secondo il TAR è che, nonostante gli standard a parcheggio siano stati ceduti al Comune e svolgano la funzione di parcheggi destinati alla collettività, in concreto, il loro uso nel tempo li avrebbe trasformati in “piazzali di manovra” con la tolleranza del Comune e che, comunque, la convenzione di lottizzazione del 1982 andrebbe interpretata nel senso che la previsione di realizzazione e cessione di parcheggi pubblici in ambito produttivo implica la facoltà di utilizzazione degli stessi spazi come aree di manovra per le ditte lottizzanti.
Su appello del comune e della Lai la sentenza annotata disattende radicalmente questa statuizione.
Il Collegio non pone in dubbio che dette aree siano state utilizzate per un consistente arco temporale anche e soprattutto per queste finalità prettamente private delle imprese del comparto, né pone in dubbio che la recinzione dell’area possa costituire un potenziale intralcio alle manovre dei conducenti dei camion per l’accesso alle aziende, ma ribadisce che le aree standard sono state acquisite dal Comune per finalità pubbliche, e non come spazi di manovra degli autoarticolati, e la circostanza che poi siano state utilizzate anche o soprattutto per tali finalità a servizio delle imprese non fa venire meno la destinazione giuridicamente loro impressa e la conseguente facoltà per il Comune di alienare gli immobili nel rispetto delle norme di legge (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.06.2019 n. 4069 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: La corretta inquadratura giuridica della convenzione di lottizzazione.
La convenzione di lottizzazione è inquadrabile negli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990 che, inserendosi nell’alveo dell’esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l’applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazione e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica.
Di conseguenza, la lottizzazione costituisce esercizio consensuale di un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni ed oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che s’impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva.
Le convenzioni urbanistiche, in ragione della possibile sopravvenienza di interessi pubblici, vanno sempre considerate rebus sic stantibus, fermo restando che il potere di variazione dello strumento generale richiede una adeguata motivazione sulla necessità di sacrificare le eventuali legittime aspettative maturate in capo ai privati.
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Su un piano generale, il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede convenzione di lottizzazione, tanto più quando, come nel caso di specie, la convenzione sia abbondantemente scaduta, con l’unico limite, oltre al naturale dovere di motivazione ai sensi dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, costituito dalla necessità di rispettare i cc.dd. standard urbanistici che, nella pianificazione generale, attengono ai rapporti massimi tra spazi edificabili e spazi riservati all’utilizzazione per scopi pubblici e sociali.
Tali standard, infatti, previsti in un limite minimo inderogabile dall’art. 3 D.M. n. 1444 del 02.04.1968 (che indica i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi), assolvono ad una funzione di equilibrio dell’assetto territoriale e di salvaguardia dell’ambiente e della qualità di vita.

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In sostanza, risulta persuasiva la doglianza con cui l’appellante ha censurato la sentenza del primo giudice laddove ha ritenuto che il Comune non avesse adeguatamente motivato le proprie scelte, muovendo da un presupposto del tutto errato, vale dire che oggetto dell’alienazione siano piazzali o spazi di manovra posti all’esclusivo servizio dei lottizzanti.
La convenzione di lottizzazione è inquadrabile negli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990 che, inserendosi nell’alveo dell’esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l’applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazione e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica.
Di conseguenza, la lottizzazione costituisce esercizio consensuale di un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni ed oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che s’impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva (cfr. Cons. Stato, IV, 08.07.2013, n. 3597).
Le convenzioni urbanistiche, in ragione della possibile sopravvenienza di interessi pubblici, vanno sempre considerate rebus sic stantibus, fermo restando che il potere di variazione dello strumento generale richiede una adeguata motivazione sulla necessità di sacrificare le eventuali legittime aspettative maturate in capo ai privati.
Su un piano generale, pertanto, il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede convenzione di lottizzazione, tanto più quando, come nel caso di specie, la convenzione sia abbondantemente scaduta, con l’unico limite, oltre al naturale dovere di motivazione ai sensi dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, costituito dalla necessità di rispettare i cc.dd. standard urbanistici che, nella pianificazione generale, attengono ai rapporti massimi tra spazi edificabili e spazi riservati all’utilizzazione per scopi pubblici e sociali.
Tali standard, infatti, previsti in un limite minimo inderogabile dall’art. 3 D.M. n. 1444 del 02.04.1968 (che indica i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi), assolvono ad una funzione di equilibrio dell’assetto territoriale e di salvaguardia dell’ambiente e della qualità di vita.
Alla generica possibilità di trasformare la destinazione urbanistica delle aree acquisite, salvo il rispetto dei cc.dd. standard urbanistici, si aggiunga nello specifico che, nell’atto di cessione della aree in data 02.12.1998, in adempimento della “convenzione per l’attuazione del piano di lottizzazione Lugo – n. 24 zona industriale”, le parti hanno preso atto “che il Comune di Flero diviene libero ed assoluto proprietario degli immobili acquistati, può ritenerli, disporne e dare agli stessi, secondo l’opportunità ed in ogni tempo, quella destinazione che, nel proprio e nel pubblico interesse, reputa maggiormente utile, senza che se ne possa muovere opposizione o pretesa alcuna da parte degli alienanti, i quali dichiarano altresì di rinunciare per sé ed i propri aventi causa a qualsiasi diritto di retrocessione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.06.2019 n. 4068 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di una tettoia, peraltro di non ridotte dimensioni, comportando trasformazione edilizia del territorio (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001), si caratterizza quale intervento di nuova costruzione a tutti gli effetti, con ogni conseguenza in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve pertanto essere individuato nel permesso di costruire: la mancanza del previo permesso legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, la quale costituisce atto dovuto per l’amministrazione comunale.
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... per l'annullamento:
   a) dell’ordinanza dirigenziale del Comune di Acerra n. 47 del 07.07.2011, recante la demolizione di tettoia in legno avente superficie di circa 36 mq. ed altezza media di circa 2,85 ml., realizzata in aderenza ad unità abitativa ubicata nel territorio comunale alla Via ... n. 8 (Parco Minturno);
...
Considerato che le prefate doglianze non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate:
   aa) come risulta dalle emergenze processuali, è smentito in fatto che la ricorrente abbia prodotto una DIA al fine di assentire la realizzazione della tettoia in questione. In data 12.05.2011, la medesima ha presentato presso gli uffici comunali una mera “segnalazione di inizio lavori” per il 13 maggio successivo priva di ogni allegato tecnico, la quale non può assolutamente essere assimilata ad una formale DIA per carenza delle minime allegazioni documentali e del minimo intervallo temporale previsti dalla legge. Ne deriva che tale “segnalazione” non è equiparabile al titolo edilizio abilitativo invocato dalla ricorrente e non è idonea a coprire l’avvenuta realizzazione della tettoia, che rimane abusiva ed assoggettabile a trattamento sanzionatorio;
   bb) la realizzazione di una tettoia, peraltro di non ridotte dimensioni come nel caso di specie, comportando trasformazione edilizia del territorio (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001), si caratterizza quale intervento di nuova costruzione a tutti gli effetti, con ogni conseguenza in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve pertanto essere individuato nel permesso di costruire: la mancanza del previo permesso legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, la quale costituisce atto dovuto per l’amministrazione comunale (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. IV, 14.09.2016 n. 4310; TAR Campania Napoli, Sez. III, 28.04.2016 n. 2167) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 17.06.2019 n. 3345 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenza urbanistica accolta dalla giurisprudenza amministrativa è meno ampia di quella civilistica.
In tale ottica, gli elementi che caratterizzano la pertinenza urbanistica sono, da un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l’assetto del territorio, e, dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale tra il manufatto e l’edificio principale, con la conseguente incapacità per il primo di essere utilizzato separatamente ed autonomamente rispetto al secondo.
Pertanto, un’opera può definirsi accessoria nei riguardi di un’altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme.
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... per l'annullamento:
   a) dell’ordinanza dirigenziale del Comune di Acerra n. 47 del 07.07.2011, recante la demolizione di tettoia in legno avente superficie di circa 36 mq. ed altezza media di circa 2,85 ml., realizzata in aderenza ad unità abitativa ubicata nel territorio comunale alla Via ... n. 8 (Parco Minturno);
...
Considerato che le prefate doglianze non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate:
   aa) come risulta dalle emergenze processuali, è smentito in fatto che la ricorrente abbia prodotto una DIA al fine di assentire la realizzazione della tettoia in questione. In data 12.05.2011, la medesima ha presentato presso gli uffici comunali una mera “segnalazione di inizio lavori” per il 13 maggio successivo priva di ogni allegato tecnico, la quale non può assolutamente essere assimilata ad una formale DIA per carenza delle minime allegazioni documentali e del minimo intervallo temporale previsti dalla legge. Ne deriva che tale “segnalazione” non è equiparabile al titolo edilizio abilitativo invocato dalla ricorrente e non è idonea a coprire l’avvenuta realizzazione della tettoia, che rimane abusiva ed assoggettabile a trattamento sanzionatorio;
   bb) la realizzazione di una tettoia, peraltro di non ridotte dimensioni come nel caso di specie, comportando trasformazione edilizia del territorio (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001), si caratterizza quale intervento di nuova costruzione a tutti gli effetti, con ogni conseguenza in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve pertanto essere individuato nel permesso di costruire: la mancanza del previo permesso legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, la quale costituisce atto dovuto per l’amministrazione comunale (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. IV, 14.09.2016 n. 4310; TAR Campania Napoli, Sez. III, 28.04.2016 n. 2167);
   cc) contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, la tettoia in questione non è assimilabile a mera pertinenza dell’unità abitativa, configurandosi invece come manufatto autonomo, il quale, comportando trasformazione del territorio, necessitava del preventivo rilascio del permesso di costruire e non della DIA. Invero, la nozione di pertinenza urbanistica accolta dalla giurisprudenza amministrativa è meno ampia di quella civilistica.
In tale ottica, gli elementi che caratterizzano la pertinenza urbanistica sono, da un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l’assetto del territorio, e, dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale tra il manufatto e l’edificio principale, con la conseguente incapacità per il primo di essere utilizzato separatamente ed autonomamente rispetto al secondo; pertanto, un’opera può definirsi accessoria nei riguardi di un’altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.01.2016 n. 19; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 14.09.2016 n. 4310).
Ebbene, ad avviso del Collegio, nella specie non è ravvisabile la sussistenza della prima delle due condizioni integranti l’ipotesi della pertinenza urbanistica. Infatti, quanto all’aspetto quantitativo-dimensionale, si evidenzia, in via assorbente, che si tratta nello specifico di costruzione di dimensioni importanti (all’incirca 36 mq. x 2,85 ml. di altezza media) che, occupando una vasta zona di superficie, è idonea a modificare in maniera rilevante l’esistente assetto territoriale (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 17.06.2019 n. 3345 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, non necessita di particolare motivazione, potendosi ritenere adeguata e autosufficiente la motivazione quando già solo siano rinvenibili la compiuta descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro esecuzione in assenza o difformità dal permesso di costruire e l’individuazione della norma applicata, come ravvisabile nel caso di specie, ogni altra indicazione –ad esempio in tema di caratteristiche dimensionali o di collocazione temporale degli illeciti edilizi– esulando dal contenuto tipico del provvedimento..
Inoltre, si rileva che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; ne discende che essi sono sufficientemente motivati con riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore obbligo motivazionale.

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   dd) infine, il Collegio osserva che, secondo la condivisibile giurisprudenza amministrativa prevalente, l’ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, non necessita di particolare motivazione, potendosi ritenere adeguata e autosufficiente la motivazione quando già solo siano rinvenibili la compiuta descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro esecuzione in assenza o difformità dal permesso di costruire e l’individuazione della norma applicata, come ravvisabile nel caso di specie, ogni altra indicazione –ad esempio in tema di caratteristiche dimensionali o di collocazione temporale degli illeciti edilizi– esulando dal contenuto tipico del provvedimento (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 30.05.2017 n. 2870 e 28.01.2016 n. 538; TAR Campania Napoli, Sez. VI, 23.01.2012 n. 315).
Inoltre, si rileva che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; ne discende che essi sono sufficientemente motivati con riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore obbligo motivazionale (cfr. Consiglio di Stato, A.P., 17.10.2017 n. 9; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n. 3750) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 17.06.2019 n. 3345 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATANel modello legale dell’ordinanza di demolizione non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto.
Non è richiesta, pertanto, una specifica motivazione in quanto il presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell’opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.

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L’onere della prova in ordine all’epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato o l’estraneità rispetto all’abuso commesso dai precedenti proprietari e non sul Comune che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla.
Sicché, la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è sufficiente a tal fine, essendo necessari inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto.
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I primi due motivi -che possono essere congiuntamente esaminati in quanto intimamente connessi- sono infondati alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui nel modello legale dell’ordinanza di demolizione non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto; non è richiesta, pertanto, una specifica motivazione in quanto il presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell’opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 08.01.2018, n. 27; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 03/07/2018, n. 4400; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 25/09/2017, n. 1469).
Ne consegue che, a fronte di quanto accertato dall’amministrazione comunale intimata in ordine all’esecuzione dell’opera in assenza di titolo abilitativo, risultano inconferenti le argomentazioni di parte ricorrente in ordine a pregressi procedimenti di sanatoria o richieste di autotutela tuttavia mai conclusi con determinazioni esplicite e/o implicite da parte della predetta amministrazione in senso favorevole per la ricorrente.
Allo stesso modo il mancato riscontro alle istanze presentate nel mese di dicembre 2018 dalla ricorrente (nota prot. 26029 del 01/12/2018 di accesso agli atti e nota prot. 25590 del 06/12/2018) se può denotare un atteggiamento poco rispettoso del principio di buon andamento della p.a., giammai può incidere sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione che, come detto, costituisce atto dovuto.
Quanto al terzo motivo, va richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale l’onere della prova in ordine all’epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato o l’estraneità rispetto all’abuso commesso dai precedenti proprietari e non sul Comune che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla (cfr. TAR Sicilia Catania Sez. II, Sent., 18.03.2019, n. 578; TAR Campania Napoli, Sez. II, 14.01.2019, n. 190 e sez. VIII, 26.01.2012, n. 405; TAR Piemonte, 01.06.2009 n. 1564; TAR Sicilia-Palermo, sez. III, 26.10.2005, n. 4099).
Sotto tale profilo, la ricorrente non fornisce alcuna seria prova atta a dimostrare che tutte o parte delle opere contestate sarebbero state realizzate prima del 1976.
Vero è che il perito di parte nella perizia allegata al ricorso afferma che “… dalla comparazione delle foto e dal rilievo aerofotogrammetrico si evince con chiarezza che al 1976 le discenderie erano state realizzate, che il fabbricato denominato “vano piccolo” era stato costruito. (…) Per quanto riguarda la costruzione denominata “vano grande” nella aerofoto e nella restituzione grafica della S.A.S. TD si rileva un muro. La signora Pi. (supportata anche da altri testimoni) negli atti notori degli anni ’80 ha dichiarato l’esistenza di un fabbricato (…)".
Tuttavia, in mancanza di altri elementi, tale rilievo, per come formulato, sembra più una congettura di parte ricorrente che una effettiva contestazione di quanto verificato dal Comune intimato.
A ciò si aggiunga che, secondo condivisibile giurisprudenza, neanche la dichiarazione sostitutiva di atto notorio è sufficiente a tal fine, essendo necessari inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto (ex plurimis TAR Sicilia Catania Sez. I, 28.02.2019 n. 374; TAR Sicilia Catania Sez. I, 25.01.2018, n. 204; Consiglio di Stato, V, 20.08.2013, n. 4182; VI, 05.08.2013, n. 4075; IV, 23.01.2013, n. 414; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 03.08.2012, n. 1761).
Infine il Collegio rileva che, per giurisprudenza costante, l’art. 15 della L.r. n. 78/1976 “va interpretato restrittivamente, con la conseguenza che debbono ritenersi impianti destinati alla diretta fruizione del mare soltanto quelli che debbono, oggettivamente e per loro stessa natura, essere collocati in prossimità del mare o della costa, quali ad esempio gli stabilimenti balneari, i pontili, i porti, le darsene, i ricoveri dei natanti ecc., tenuto conto, peraltro, che tale norma derogatoria si riferisce alla “diretta fruizione” del mare e quindi esclude espressamente tutto ciò che con l’uso del mare abbia una relazione semplicemente indiretta (…)” (C.G.A. sez. giur., 14.03.2014 n. 133; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 23.02.2019 n. 530) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 17.06.2019 n. 1623 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

LAVORI PUBBLICI: Natura tipicamente discrezionale che connota la procedura del c.d. project financing.
Il TAR Milano evidenzia la natura tipicamente discrezionale che connota la procedura del c.d. project financing in quanto, una volta dichiarata di pubblico interesse una proposta di realizzazione di lavori pubblici e individuato il promotore privato, l'Amministrazione non è tenuta a dare corso all’ulteriore fase della procedura di gara costituita dal confronto concorrenziale tra i vari operatori economici per l'affidamento della relativa concessione; tale scelta, infatti, costituisce una tipica manifestazione di discrezionalità amministrativa nella quale sono implicate ampie valutazioni in ordine all'effettiva esistenza di un interesse pubblico alla realizzazione dell'opera, tali da non potere essere rese coercibili nell'ambito del giudizio di legittimità se non in presenza di vizi logici, di manifesta irragionevolezza, carenza di motivazione o travisamento dei fatti.
Ne deriva, secondo il TAR, che il promotore, anche a seguito della dichiarazione di pubblico interesse della proposta, non acquisisce alcun diritto all'indizione della procedura rimanendo, all'opposto, titolare di una mera aspettativa non tutelabile rispetto alle insindacabili scelte dell'Amministrazione; nella presentazione del progetto, del resto, vi è un'assunzione consapevole di rischio da parte del promotore a che lo stesso non venga poi in concreto realizzato, con la conseguenza che l'abbandono del progetto da parte dell’Amministrazione non integra in capo al proponente alcuna pretesa risarcitoria e nemmeno indennitaria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 17.06.2019 n. 1388 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
10.29. Va rigettata anche la domanda risarcitoria proposta con lo stesso gravame, sia perché sfornita di prova (anche tenuto conto che nel periodo in questione la società è stata affidataria in proroga della gestione dei parcheggi, non avendo dunque subito alcun danno) sia perché, per quanto sopra rilevato, non è ravvisabile alcuna violazione del canone di buona fede, tale da configurare, neppure astrattamente, una responsabilità precontrattuale in capo al Comune con specifico riferimento all’abbandono della procedura di finanza di progetto.
Va infatti rilevato che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente evidenziato la natura tipicamente discrezionale che connota la procedura del c.d project financing in quanto, una volta dichiarata di pubblico interesse una proposta di realizzazione di lavori pubblici ed individuato il promotore privato, l'Amministrazione non è tenuta a dare corso all’ulteriore fase della procedura di gara costituita dal confronto concorrenziale tra i vari operatori economici per l'affidamento della relativa concessione (TAR Molise sez. I 20.07.2018, n. 476; TAR Veneto, sez. I, 16.02.2018, n. 184).
Tale scelta, infatti, costituisce una tipica manifestazione di discrezionalità amministrativa nella quale sono implicate ampie valutazioni in ordine all'effettiva esistenza di un interesse pubblico alla realizzazione dell'opera, tali da non potere essere rese coercibili nell'ambito del giudizio di legittimità se non in presenza di vizi logici, di manifesta irragionevolezza, carenza di motivazione o travisamento dei fatti (Cons Stato, sez. VI, 21.06.2016, n. 4177), che, come detto, tenuto conto della motivazione esposta nella delibera n. 203/2012, nel caso di specie il Collegio non ha ravvisato.
Ne deriva che il promotore, anche a seguito della dichiarazione di pubblico interesse della proposta, non acquisisce alcun diritto all'indizione della procedura rimanendo, all'opposto, titolare di una mera aspettativa non tutelabile rispetto alle insindacabili scelte dell'Amministrazione.
Nella presentazione del progetto, del resto, vi è un'assunzione consapevole di rischio da parte del promotore a che lo stesso non venga poi in concreto realizzato (TAR Friuli Venezia Giulia 18.02.2019, n. 74; Cons. Stato, sez. III, 20.03.2014, n. 1365), con la conseguenza che l'abbandono del progetto da parte dell’Amministrazione non integra in capo al proponente alcuna pretesa risarcitoria e nemmeno indennitaria.
Nel caso di specie inoltre il provvedimento gravato è intervenuto in una fase non solo prodromica della procedura, ma anche in un momento in cui la procedura stessa era stata sospesa da due anni.
10.30. Quanto alla domanda volta ad ottenere l’indennizzo ai sensi dell’art. 21-quinquies L. 241/1990, tenuto conto di quanto appena rilevato in ordine alle caratteristiche della procedura in questione e alla posizione del privato, ad avviso del Collegio non è neppure astrattamente ipotizzabile la pretesa di un indennizzo, considerato che non è individuabile un “provvedimento amministrativo ad efficacia durevole”, come richiesto dalla disposizione invocata (TAR Friuli Venezia Giulia 18.02.2019, n. 74 cit.), su cui abbia inciso la successiva decisione dell’Amministrazione.

EDILIZIA PRIVATA: Interventi abusivi realizzati su immobile esistente - Aumento della volumetria dell'immobile - Concessione in sanatoria parziale - Effetti - Esclusione - Integrale conformità alla disciplina urbanistica - Necessità - Non è consentito scindere e considerare separatamente i singoli componenti - Artt. 10, 36, 44, e 45 d.P.R. 380/2001.
In tema di sanatoria, l'opera edilizia abusiva deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti, l'inammissibilità di una «sanatoria parziale», dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare gli interventi eseguiti nella loro integrità.
Sicché, gli interventi, eseguiti su un unico fabbricato in un contesto unitario andavano considerati nella loro globalità e non potevano essere sanati o assentiti in via meramente parziale, non valendo perciò il titolo conseguito come autorizzazione in sanatoria ai sensi dell'art. 36 d.P.R. 380/2001.

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Reati edilizi - Abbassamento del piano di calpestio - Aumento dell'altezza e della volumetria del fabbricato - Assenza di permesso di costruire - Mutazione della destinazione da rurale ad abitativa - Reato di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 - Configurabilità.
In materia urbanistica, configura il reato di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001, la realizzazione in assenza di permesso di costruire, all'interno dell'immobile l'abbassamento del piano di calpestio dei locali posti al pian terreno con conseguente aumento dell'altezza dei medesimi e dunque della volumetria del fabbricato mutandone, inoltre, la destinazione da rurale ad abitativa (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.06.2019 n. 26285 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICAL'obbligazione di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione assunta da colui che stipula una convenzione edilizia ha natura "propter rem", nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia; la natura reale dell'obbligazione in esame riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione avvalendosi della concessione rilasciata al loro dante causa.
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In tema di limiti soggettivi del giudicato, gli artt. 1306 e 1310 c.c. -che con riferimento alle obbligazioni solidali, e quindi a un rapporto con pluralità di parti ma scindibile, prevedono che i condebitori i quali non abbiano partecipato al giudizio tra il creditore e altro condebitore possano opporre al primo la sentenza favorevole al secondo (ove non basata su ragioni personali)- costituiscono espressione di un più generale principio, operante a fortiori con riguardo a rapporti caratterizzati da inscindibilità, secondo cui alla parte non impugnante si estendono gli effetti derivanti dall'accoglimento dell'impugnazione proposta da altre parti contro una sentenza sfavorevole emessa nei confronti di entrambi.
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In tal senso la giurisprudenza è ferma nel ritenere che l'obbligazione di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione assunta da colui che stipula una convenzione edilizia ha natura "propter rem", nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia; la natura reale dell'obbligazione in esame riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione avvalendosi della concessione rilasciata al loro dante causa (Cass. civ., sez. III, 20/08/2015, n. 16999; id., sez. II, 27/08/2002, n. 12571; TAR Campania, Napoli, sez. II, 09/01/2017, n. 187).
Si è altresì precisato che, in tema di limiti soggettivi del giudicato, gli artt. 1306 e 1310 c.c. -che con riferimento alle obbligazioni solidali, e quindi a un rapporto con pluralità di parti ma scindibile, prevedono che i condebitori i quali non abbiano partecipato al giudizio tra il creditore e altro condebitore possano opporre al primo la sentenza favorevole al secondo (ove non basata su ragioni personali)- costituiscono espressione di un più generale principio, operante a fortiori con riguardo a rapporti caratterizzati da inscindibilità, secondo cui alla parte non impugnante si estendono gli effetti derivanti dall'accoglimento dell'impugnazione proposta da altre parti contro una sentenza sfavorevole emessa nei confronti di entrambi (Cass. civ., sez. II, 24/10/2018, n. 26992) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.06.2019 n. 847 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Commissione di concorso. Sanzionabile la nomina del commissario di concorso che abbia commesso anche in passato taluno dei reati contro la pubblica amministrazione.
Alla giurisprudenza contabile ora si affianca anche la giurisprudenza amministrativa nel colpire con l'annullamento il provvedimento di nomina del commissario di concorso che sia stato, anche in passato, colpito da uno dei reati previsti contro la P.A.
In questo caso, pertanto, l'Amministrazione avrebbe violato una norma primaria quale quella dell'art. 35-bis, D.Lgs. n. 165 del 2001 che considera preclusiva, alla nomina a membro di commissione coloro che abbiano commesso taluno dei reati contro la pubblica amministrazione, di cui al Capo I, Titolo II, Libro II, del codice penale.
In merito alla giurisprudenza contabile, rilevano i giudici amministrativi come in diverse occasioni sono stati condannati per danno erariale il comportamento scorretto della Commissione cui sia ascrivibile l'annullamento delle operazioni contrattuali, aprendo la porta a responsabilità amministrative da parte del dirigente che ha, in questa occasione, nominato un componente colpito da un reato contro la pubblica amministrazione.
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1. La ricorrente ha partecipato al concorso per esame a 500 posti di notaio, bandito con Decreto Dirigenziale del 21.04.2016, pubblicato nella G.U. n. 33 del 26.04.2016.
2. Ha superato le prove scritte ed è stata ammessa a sostenere l’esame orale, che si è svolto il giorno 07.05.2018.
3. Al termine del colloquio la Commissione ha valutato la candidata “inidonea”, assegnandole il punteggio complessivo di 70 (30 - Diritto Civile, Commerciale e Volontaria Giurisdizione; 20 - Ordinamento del Notariato e degli Archivi Notarili; 20 - Disposizioni concernenti i Tributi sugli Affari).
4. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio la dott.ssa -OMISSIS- ha impugnato il verbale della Commissione del 07.05.2018 ed ogni atto connesso, presupposto o conseguenziale.
5. Il Ministero della Giustizia si è costituito in giudizio per resistere al ricorso.
6. Alla camera di consiglio del 18.07.2018 il Collegio ha respinto la domanda cautelare formulata dalla ricorrente.
7. Con motivi aggiunti depositati il 27.02.2019 essa ha anche articolato un ulteriore motivo a sostegno della impugnazione, deducendo in particolare l’illegittimità degli atti impugnati per violazione dell’art. 35-bis del D. L.vo 165/2001, violazione dei principi generali di trasparenza e di imparzialità dell’azione amministrativa, difetto assoluto di motivazione, in relazione alla circostanza che
uno dei commissari che aveva interrogato la ricorrente risultava essere stata condannata, con sentenza n. 1247 della Cassazione Penale, Sez. V, del 24.10.1994, depositata in cancelleria il giorno 11.01.1995 (allegata in atti), per il reato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, ex art. 319, c.p., ragione per cui la ricorrente deduceva che essa non avrebbe mai dovuto far parte della Commissione esaminatrice che l’aveva dichiarata inidonea.
...
8. In applicazione del principio “della ragione più liquida” il Collegio procede ad esaminare, prioritariamente, il ricorso per motivi aggiunti, a mezzo del quale gli atti in epigrafe indicati sono stati censurati anche per vizio di formazione della Commissione, in relazione al fatto che tale Commissione, che per prima ha condotto l’esame orale della dottoressa -OMISSIS-, era stata integrata con un componente, la Notaio -OMISSIS-, che risultava avere un precedente penale per corruzione, per atti contrari ai doveri d’ufficio, punito ai sensi dell’art. 319 del codice penale. Tale censura, ove accolta, avrebbe carattere assorbente e determinerebbe l’immediata soddisfazione dell’interesse della ricorrente, con sopravvenuto difetto di interesse al ricorso introduttivo del giudizio.
8.1. Precisa il Collegio che la ricorrente non ha indicato, in maniera espressa, quale oggetto della domanda di annullamento, il decreto di nomina di tale componente; tuttavia si può ritenere implicita, nella censura articolata con i motivi aggiunti, la impugnazione di tale atto, impugnazione da intendersi, peraltro, circoscritta ai soli limiti dell’interesse della ricorrente. Quanto alla presunta tardività del ricorso, il Collegio osserva che non è nota la data in cui la ricorrente è venuta a piena conoscenza delle circostanze che fondano i motivi aggiunti (della condanna penale che aveva attinto la -OMISSIS-), le quali non sono di pubblico dominio e che pertanto non consentono di formulare alcuna presunzione di conoscenza.
8.2. La ricorrente ha dedotto la illegittimità della nomina della Notaio -OMISSIS-, quindi, quale componente della Commissione esaminatrice, per violazione dell’art. 35-bis del D.L.vo 165/2001, violazione dei principi generali di trasparenza e di imparzialità dell’azione amministrativa, difetto assoluto di motivazione
8.3. Secondo la difesa erariale il disposto dell’art. 35-bis del D.L.vo 165/2001, secondo cui “1. Coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale: a) non possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l'accesso o la selezione a pubblici impieghi;…….”, non troverebbe applicazione al concorso notarile, non trattandosi di selezione diretta alla instaurazione di un pubblico impiego.
8.4. Il Collegio considera, in primo luogo, che
qualsiasi commissione esaminatrice che venga nominata ed incardinata, in ottemperanza a norme di legge, con atto proveniente da una amministrazione pubblica, svolge un ruolo evidentemente ritenuto, dall’ordinamento giuridico, rilevante, tanto da potersi affermare che una tale commissione è investita di un munus publicum, ancorché l’attività che essa è chiamata a svolgere non sia, in concreto, destinata alla instaurazione di rapporti di pubblico impiego: anche in tal caso, infatti, la commissione, e per essa i relativi componenti, sono temporaneamente incardinati nella pubblica amministrazione, di volta in volta individuata dalle norme di legge di riferimento.
8.4.1.
Tale considerazione trova conferma nella giurisprudenza contabile, la quale ha già dibattuto e riconosciuta la responsabilità per danno erariale dei membri di commissione di concorso al cui scorretto operato sia ascrivibile l’annullamento delle operazioni concorsuali (ex: Corte dei Conti, sez. giur. Lazio, sentenza n. 18 del 10.01.2018); la medesima responsabilità pare comunque potersi estendere anche ai membri di commissione incaricati di sovrintendere agli esami di idoneità professionale, il cui operato é ascrivibile, e danneggia, l’Amministrazione che li nomina.
8.5. Così inquadrata l’attività delle commissioni esaminatrici nominate ai sensi di norme di legge,
è evidente che sussiste l’esigenza che i relativi membri rispondano a determinati requisiti di onorabilità e moralità -che si declinano, tra l’altro, anche nella assenza di precedenti penali- al fine di garantire la correttezza dell’operato della attività della commissione stessa: e questo a prescindere dalla tipologia di funzioni o attività che i soggetti esaminati e/o selezionati saranno chiamati a svolgere (libera professione, impiego pubblico, esecuzione di un contratto pubblico, collaudo tecnico, etc. etc.).
8.6.
Considerando che l’art. 35-bis del D.L.vo 165/2001 considera preclusiva, alla nomina a membro di commissione, la commissione di taluno dei reati contro la pubblica amministrazione, di cui al Capo I, Titolo II, Libro II, del codice penale, l’applicazione di tale norma a qualsiasi commissione esaminatrice, che abbia le caratteristiche sopra delineate, appare assolutamente coerente: e ciò proprio per la ragione che simili commissioni esaminatrici possono considerarsi espressione di una pubblica amministrazione.
8.7. Per le ragioni dianzi indicate la citata norma può considerarsi espressione di un principio generale applicabile anche al concorso notarile, che si celebra per iniziativa e sotto il controllo del Ministero della Giustizia, il quale bandisce il concorso e nomina i membri della Commissione.
8.8. Il Decreto del Ministro della Giustizia, a mezzo del quale la notaio -OMISSIS- è stata chiamata a comporre la Commissione del concorso notarile bandito con Decreto Dirigenziale del 21.04.2016, pubblicato nella G.U. n. 33 del 26.04.2016, è pertanto illegittimo perché, in applicazione del sopra ricordato principio e tenuto conto della condanna penale definitiva riportata dalla citata Notaio (condanna che neppure consta essere stata superata da una successiva sentenza di riabilitazione), quest’ultima giammai avrebbe potuto essere nominata a ricoprire tale ruolo.
9. Il decreto di nomina della Notaio -OMISSIS- deve pertanto essere annullato nei soli limiti dell’interesse della ricorrente.
10. Atteso, poi, che la stessa Notaio -OMISSIS- ha partecipato al consesso che condusse l’esame orale oggetto di impugnazione, va anche annullato il verbale della prova orale n. 662 del 07.05.2018, riguardante appunto la ricorrente.
11. Per le ragioni dianzi esposte vanno accolti i motivi aggiunti in epigrafe indicati, mentre va dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse il ricorso introduttivo del giudizio.
12. In accoglimento della presente decisione il Ministero provvederà a riconvocare la Commissione di concorso, previa sostituzione della -OMISSIS-, affinché la ricorrente possa essere riammessa a sostenere nuovamente il colloquio orale (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 11.06.2019 n. 7598 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA- “La realizzazione di una tettoia aperta su tutti i lati configura un intervento di ristrutturazione edilizia che non crea volumetria né incide sui prospetti, e rientra pertanto nella disciplina della segnalazione certificata di inizio attività, con conseguente applicazione, in caso di violazione dell'art. 22 del d.p.r. n. 380/2001, della sanzione pecuniaria prevista dall'art. 37, pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi. In tal caso deve pertanto considerarsi illegittima la più grave sanzione demolitoria, prevista dall'art. 33 e riservata agli interventi di più rilevante impatto urbanistico non assentiti o realizzati in totale difformità”;
   - “Una tettoia, per caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione funzionale –in quanto struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico urbanistico– è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio”;
   - “In materia urbanistica, il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e di due superfici verticali contigue presupposto carente quando la costruzione consista in una tettoia in legno aperta su tre lati, rientrante, piuttosto, nel concetto di bene pertinenziale ossia di struttura a servizio di un'altra, sottratta, come tale, al computo del carico urbanistico”;
   - “Per la realizzazione di una tettoia aperta su tre lati non è, in linea di principio, richiesto il permesso di costruire, essendo sufficiente la presentazione di una denunzia di inizio attività atteso che le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti, costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono”.
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La conferma si ricava dall’esame della giurisprudenza, nella quale si rinvengono le seguenti affermazioni di principio:
   - “La realizzazione di una tettoia aperta su tutti i lati configura un intervento di ristrutturazione edilizia che non crea volumetria né incide sui prospetti, e rientra pertanto nella disciplina della segnalazione certificata di inizio attività, con conseguente applicazione, in caso di violazione dell'art. 22 del d.p.r. n. 380/2001, della sanzione pecuniaria prevista dall'art. 37, pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi. In tal caso deve pertanto considerarsi illegittima la più grave sanzione demolitoria, prevista dall'art. 33 e riservata agli interventi di più rilevante impatto urbanistico non assentiti o realizzati in totale difformità” (TAR Calabria–Catanzaro, Sez. I, 23/03/2018, n. 729);
   - “Una tettoia, per caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione funzionale –in quanto struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico urbanistico– è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 13/12/2017, n. 5867);
   - “In materia urbanistica, il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e di due superfici verticali contigue presupposto carente quando la costruzione consista in una tettoia in legno aperta su tre lati, rientrante, piuttosto, nel concetto di bene pertinenziale ossia di struttura a servizio di un'altra, sottratta, come tale, al computo del carico urbanistico” (TAR Sardegna, Sez. II, 16/01/2015, n. 183);
   - “Per la realizzazione di una tettoia aperta su tre lati non è, in linea di principio, richiesto il permesso di costruire, essendo sufficiente la presentazione di una denunzia di inizio attività atteso che le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti, costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono” (TAR Umbria, Sez. I, 29/01/2014, n. 82) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.06.2019 n. 976 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa posa in opera di:
   -  n. 3 container in lamiera grecata utilizzati come deposito;
   - n. 2 baracche in lamiera, rispettivamente utilizzate come locale tecnico per le caldaie delle docce ed ex sede del bar (la prima poi rimossa e la seconda inutilizzata);
   - n. 1 box metallico con serramenti in vetro, appoggiato al terreno e utilizzato come biglietteria,
a latere ed a servizio (non temporaneo) del campo di calcio necessita del preventivo permesso di costruire.
E’ principio generalmente condiviso e accolto dall’intestato TAR quello secondo il quale <<la precarietà o meno dell'opera non va desunta unicamente sulla base del criterio se queste siano stabilmente infisse o meno al suolo, ma anche sulla base di un criterio ulteriore, di natura finalistica, attinente alla destinazione dell'opera. Se questa è destinata a durare nel tempo, non ha più il carattere della temporaneità. Per quanto riguarda la facile amovibilità, si reputa che tale non sia più l'opera che necessita di un vero e proprio lavoro di smontaggio>>.
Peraltro, <<in relazione alla connotazione sostanziale dei manufatti, la precarietà delle strutture può essere accertata con la contemporanea presenza di due requisiti, uno strutturale e l'altro funzionale; da un lato, infatti, l'opera non deve costituire trasformazione urbanistica del territorio e non deve essere costituita da intelaiature infisse al pavimento o alla parete dell'immobile, cui deve essere semplicemente addossata, né deve essere chiusa in alcun lato, dall'altro, occorre guardare alla destinazione d'uso dell'opera, sicché una struttura destinata a dare una utilità prolungata nel tempo non può considerarsi precaria; in conclusione, detta temporaneità deve essere apprezzata con criterio oggettivo avuto riguardo all'oggetto della costruzione nei suoi obiettivi dati tecnici e deve, dunque ricollegarsi alla sua destinazione materiale, che ne evidenzi un uso realmente precario o temporaneo per fini specifici e cronologicamente specificati>>.
In tal senso, <<la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico ma temporalmente limitato del bene: infatti, ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una costruzione, che esclude la necessità del rilascio di un titolo edilizio, si deve prescindere dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data dal manufatto dal costruttore e si deve, invece, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale>>.
Pertanto, <<le strutture precarie e astrattamente rimovibili, nel caso in cui siano funzionali a soddisfare esigenze stabili e durature nel tempo e siano, dunque, idonee ad alternare lo stato dei luoghi, devono essere considerate nuove costruzioni ai fini edilizi e quindi necessitanti di un titolo autorizzatorio>>.
Va confermato, quindi, che <<al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata. Pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire. Invero, “il carattere di precarietà di una costruzione non va desunto dalla possibile facile e rapida amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione appaia destinata a soddisfare una necessità contingente ed essere poi prontamente rimossa, a nulla rilevando la circostanza che l'impiego del bene sia circoscritto ad una sola parte dell'anno, ben potendo la stessa essere destinata a soddisfare un bisogno non provvisorio ma regolarmente ripetibile”>>.
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La Società S.C.D. Li. 1922 (d’ora in poi “Li.”), titolare, in forza di concessione sottoscritta con la FIGC in data 14.09.1960, del diritto di utilizzare il campo da calcio con annesse gradinate e locali spogliatoi, sito in Via Solimano a Genova, nel quartiere di Struppa, lungo le sponde del Torrente Bisagno, su sedime, in parte demaniale ed in parte comunale, al fine di implementare le infrastrutture a corredo del campo di calcio in concessione (in particolare i locali siti all'interno delle gradinate, ritenuti non sufficienti a garantire le esigenze della Società), provvedeva a collocare dei moduli prefabbricati, asseritamente non ancorati al terreno e amovibili.
Nell'anno 2007, in particolare, la Società procedeva al posizionamento, nella parte demaniale e privata dell'area in uso, dei seguenti manufatti:
   - n. 3 container in lamiera grecata utilizzati come deposito;
   - n. 2 baracche in lamiera, rispettivamente utilizzate come locale tecnico per le caldaie delle docce ed ex sede del bar (la prima poi rimossa e la seconda inutilizzata);
   - 1 box metallico con serramenti in vetro, appoggiato al terreno e utilizzato come biglietteria.
Le suddette opere venivano fatte oggetto di verbale ispettivo prot. n. 923184/AE del 07.12.2007 (fascicolo SAP 209/2007), al quale seguiva, in data 02.12.2008, il provvedimento prot. n. 445929 con il quale veniva ingiunto a Li. di demolire le predette opere edilizie in quanto mantenute senza titolo.
Con istanza datata 14.04.2009, n. 2018/2009, Li. presentava domanda per l'accertamento di conformità dei suddetti box. Il procedimento di sanatoria veniva archiviato in senso negativo con prot. n. 65201 del 23.02.2010 per motivi procedimentali, stante la mancata presentazione di documentazione richiesta dal Comune per il completamento dell'iter istruttorio.
In data 30.04.2012, con prot. n. 136731, il SAP comunicava il riavvio del procedimento relativo alla demolizione dei manufatti sopra indicati, dando atto dell'intervenuta demolizione della baracca in lamiera a due falde utilizzata come locale tecnico.
Nel campionato 2014/2015 di Eccellenza della Liguria, Li. raggiungeva la promozione in Serie D, massima serie dilettantistica, determinando così un passaggio da un campionato a base regionale ad uno a base interregionale.
La Società presentava, quindi, un progetto di messa in sicurezza e riordino del campo sportivo al fine di ottenere l'omologazione dello stesso da padre della Lega.
La procedura di omologazione veniva instaurata avanti la Commissione di Vigilanza del Comune di Genova per l'ottenimento dell'autorizzazione ai sensi degli artt. 68-80 del TULPS, richiesta dal predetto Regolamento.
La Società medio tempore manteneva i manufatti predetti posizionati all'interno del sedime.
In data 21.01.2016 il personale ispettivo dello SUE effettuava un ulteriore accertamento sull'area verbalizzando la persistenza dei manufatti nei luoghi.
In data 06.05.2016, trascorsi oltre 4 anni dalla comunicazione di riavvio del procedimento n. 209-07, veniva notificato a Li. il provvedimento prot. 126608 del 12.04.2016, notificato il 06.05.2016, il quale, rilevando la mancata regolarizzazione dei box presenti nell'area dal 2007, ordinava il ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 150 giorni, ai sensi dell'art. 51, comma 1, l.r. n. 16 del 2008.
...
1. In ordine al primo motivo di impugnazione.
E’ principio generalmente condiviso e accolto dall’intestato TAR quello secondo il quale <<la precarietà o meno dell'opera non va desunta unicamente sulla base del criterio se queste siano stabilmente infisse o meno al suolo, ma anche sulla base di un criterio ulteriore, di natura finalistica, attinente alla destinazione dell'opera. Se questa è destinata a durare nel tempo, non ha più il carattere della temporaneità. Per quanto riguarda la facile amovibilità, si reputa che tale non sia più l'opera che necessita di un vero e proprio lavoro di smontaggio>> (TAR Bolzano, sez. I, 16/10/2015, n. 315).
Peraltro, <<in relazione alla connotazione sostanziale dei manufatti, la precarietà delle strutture può essere accertata con la contemporanea presenza di due requisiti, uno strutturale e l'altro funzionale; da un lato, infatti, l'opera non deve costituire trasformazione urbanistica del territorio e non deve essere costituita da intelaiature infisse al pavimento o alla parete dell'immobile, cui deve essere semplicemente addossata, né deve essere chiusa in alcun lato, dall'altro, occorre guardare alla destinazione d'uso dell'opera, sicché una struttura destinata a dare una utilità prolungata nel tempo non può considerarsi precaria; in conclusione, detta temporaneità deve essere apprezzata con criterio oggettivo avuto riguardo all'oggetto della costruzione nei suoi obiettivi dati tecnici e deve, dunque ricollegarsi alla sua destinazione materiale, che ne evidenzi un uso realmente precario o temporaneo per fini specifici e cronologicamente specificati>> (TAR Emilia Romagna, sez. II, 29/11/2017, n. 783).
In tal senso, <<la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico ma temporalmente limitato del bene: infatti, ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una costruzione, che esclude la necessità del rilascio di un titolo edilizio, si deve prescindere dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data dal manufatto dal costruttore e si deve, invece, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale>> (TAR Puglia, sez. dist. Lecce, sez. I, 17/07/2018, n. 1174).
Pertanto, <<le strutture precarie e astrattamente rimovibili, nel caso in cui siano funzionali a soddisfare esigenze stabili e durature nel tempo e siano, dunque, idonee ad alternare lo stato dei luoghi, devono essere considerate nuove costruzioni ai fini edilizi e quindi necessitanti di un titolo autorizzatorio>> (TAR Lombardia, sez. II, 07/02/2018, n. 354).
Va confermato, quindi, che <<al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata. Pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire. In termini, ex multis, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842; TAR Campania, sez. dist. Salerno, Sez. I, 13.11.2013 n. 2240; TAR Campania, Sez. VII, 25.03.2013 n. 1626; TAR Puglia, Sez. II, 31.08.2009, n. 2031, in cui si legge che “il carattere di precarietà di una costruzione non va desunto dalla possibile facile e rapida amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione appaia destinata a soddisfare una necessità contingente ed essere poi prontamente rimossa, a nulla rilevando la circostanza che l'impiego del bene sia circoscritto ad una sola parte dell'anno, ben potendo la stessa essere destinata a soddisfare un bisogno non provvisorio ma regolarmente ripetibile (TAR Emilia Romagna, 14.01.2009, n. 19)”>> (C. Stato, sez. IV, 07/12/2017, n. 5762).
Nel caso di specie i manufatti prefabbricati in contestazione si trovano in loco quanto meno già dal 2007, atteso che il Comune ha accertato per la prima volta la loro realizzazione a seguito del sopralluogo del 10.09.2007 di cui al verbale di accertamento prot. n. 923184/AE del 07.12.2007.
Tenuto conto che è la stessa ricorrente ad aver sottolineato come dalla stagione successiva alla 2014/15 la presenza dei predetti prefabbricati è risultata e risulta tuttora necessaria per l’utilizzo delle strutture da gioco, risulta evidente la natura non meramente temporanea e precaria dei manufatti in questione, la cui idoneità ad alterare lo stato dei luoghi risulta evidente, trattandosi di un vero e proprio volume, ancorché non ancorato al terreno.
Precisata la natura non meramente precaria dei manufatti, va rammentato che ai sensi dell’art. 51, l.r. n. 16 del 2008, (recante interventi abusivi realizzati da privati su suoli di proprietà dello Stato o di Enti pubblici) <<1. qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti privati, di interventi in assenza di permesso di costruire o di DIA obbligatoria o alternativa al permesso di costruire ovvero in totale o parziale difformità dai medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di Enti pubblici, il responsabile dello SUE ordina al responsabile dell’abuso la demolizione o il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi dell’articolo 56, dandone comunicazione all’ente proprietario del suolo. 2. Resta fermo il potere di autotutela dello Stato e degli Enti territoriali, nonché quello di altri enti pubblici, previsto dalla normativa vigente>>.
Secondo il Comune, attesa la natura non temporanea dei manufatti, non si tratta di interventi sottoposti a mera Scia.
Parte ricorrente, invece, come più sopra rammentato, richiama a sostegno del ricorso gli artt. 21-bis, lett. a) e 21, lett. h, l. r. n. 16 del 2008.
Al riguardo, ai sensi dell’art. 21-bis, l.r. n. 16 del 2008 (recante “interventi urbanistico-edilizi soggetti a comunicazione di inizio dei lavori e a SCIA”) <<1. sono soggetti a SCIA di cui all’articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni ed integrazioni, con contestuale possibilità di inizio dei lavori dalla data di presentazione, i seguenti interventi, purché conformi alla disciplina della strumentazione urbanistico-territoriale e del regolamento edilizio vigenti e/o operanti in salvaguardia e delle normative di settore, fra cui quelle igienico-sanitarie, ambientali, di sicurezza e di prevenzione incendi, fermo restando l’obbligo di corredare la SCIA delle prescritte autorizzazioni, pareri od altri atti di assenso comunque denominati, ove gli interventi interessino aree od immobili sottoposti a vincoli paesaggistici, culturali o ambientali, nonché del versamento del contributo di costruzione nei casi previsti dall’articolo 38: a) l’installazione di manufatti leggeri, diversi da quelli di cantiere, di qualunque genere e destinazione d’uso purché non infissi stabilmente al suolo e finalizzati a soddisfare dimostrate esigenze temporalmente circoscritte di durata non superiore a un anno>>.
Ai sensi dell’art. 21, l.r. n. 16 del 2008 (recante attività urbanistico-edilizia libera), invece, <<1. costituiscono attività edilizia non soggetta a permesso di costruire, né a DIA obbligatoria né a SCIA, purché effettuati nel rispetto delle normative di settore e, in particolare, delle disposizioni contenute nel d.lgs. 42/2004 e successive modificazioni ed integrazioni e delle norme dei piani e dei regolamenti attuativi dei parchi: h) l’installazione di manufatti o l’occupazione di aree per esposizione o deposito di merci o materiali soggetti a concessione amministrativa per esigenze temporanee di utilizzo del suolo pubblico di durata non superiore ad un anno>>.
Nessuna delle due su estese ipotesi è applicabile nel caso di specie perché, come già detto, si tratta di manufatti finalizzati a soddisfare esigenze potenzialmente non di durata meramente annuale o infrannuale.
Trattandosi, quindi, di una costruzione non rientrante né nelle ipotesi di attività edilizia libera, né in quelle per le quali è prevista la “mera” Scia, avrebbe dovuto essere ottenuto il permesso a costruire ovvero la Scia in alternativa al permesso di costruire.
Il motivo di ricorso, quindi, deve esser respinto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.06.2019 n. 530 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino.
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Il principio secondo il quale <<è illegittima l'ordinanza comunale recante l'ingiunzione di demolizione di opere edilizie "sine titulo" realizzate e adottata in pendenza di un procedimento volto, nella sostanza, a creare i presupposti per la sanatoria dell'intero complesso edilizio produttivo nel quale le opere suddette sono allocate>> non è applicabile se è vero, come è vero, che l’efficacia “sospensiva” dell’istanza di sanatoria può trovare applicazione esclusivamente quando si tratti di un procedimento di “effettiva sanatoria” ai sensi dell’art. 36, d.lgs. n. 380 del 2001, procedimento finalizzato, cioè, ad accertare la c.d. doppia conformità dell’opera e, quindi, la rispondenza della stessa alle norme edilizie ed urbanistiche vigenti al momento della realizzazione e delle domanda di sanatoria.
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Sul terzo motivo di impugnazione.
Al riguardo, deve richiamarsi il principio, condiviso dalla prevalente giurisprudenza, al quale accede anche l’intestato TAR, secondo cui <<il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino>> (C. Stato, sez. VI, 05/11/2018, n. 6233).
Nel caso di specie, occorre, poi, sottolineare che dal 2007 in poi il Comune ha provveduto ad eseguire tre sopralluoghi, notificare due comunicazioni di avvio del procedimento, un diniego di sanatoria e due ordinanze di demolizione, sicché non è nemmeno possibile affermare, in fatto, che sia maturato in capo a parte ricorrente un effettivo affidamento in ordine alla legittimità o, comunque, al mantenimento delle opere in contestazione.
Il motivo di ricorso, quindi, deve essere respinto.
In ordine al quarto motivo di impugnazione.
Al riguardo, secondo il Comune di Genova, in primo luogo, non vi è certezza che i manufatti abusivi siano oggetto del progetto presentato ai fini dell’omologazione del campo di gioco; in secondo luogo, il progetto non risulta essere stato omologato e non è stata presentata alcuna istanza di sanatoria in relazione ai manufatti in questione.
Sul punto, va sottolineato come non sia applicabile alla fattispecie in esame il principio secondo il quale <<è illegittima l'ordinanza comunale recante l'ingiunzione di demolizione di opere edilizie "sine titulo" realizzate e adottata in pendenza di un procedimento volto, nella sostanza, a creare i presupposti per la sanatoria dell'intero complesso edilizio produttivo nel quale le opere suddette sono allocate>> (TAR Marche, Sez. I, 08/04/2014, n. 424).
Infatti, l’efficacia “sospensiva” dell’istanza di sanatoria può trovare applicazione esclusivamente quando si tratti di un procedimento di “effettiva sanatoria” ai sensi dell’art. 36, d.lgs. n. 380 del 2001, procedimento finalizzato, cioè, ad accertare la c.d. doppia conformità dell’opera e, quindi, la rispondenza della stessa alle norme edilizie ed urbanistiche vigenti al momento della realizzazione e delle domanda di sanatoria.
Nel caso di specie, la pendenza di un procedimento amministrativo in certo modo connesso con l’eventuale procedimento di sanatoria ex art. 36 t.u. sopra citato, non reiterato, non è sufficiente a giustificare la “sospensione” degli effetti dell’ordinanza di demolizione, fermo restando, peraltro, che, si rammenta ulteriormente, si tratta di manufatti esistenti da molti anni privi di titolo alcun titolo e per il quale non ne è certa (non avendo il Comune già proceduto al relativo esame) la legittimità.
Pertanto anche tale motivo deve essere respinto.
1.4. Conclusivamente, il ricorso deve essere respinto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.06.2019 n. 530 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGOCassazione, l'incarico di posizione organizzativa non è un diritto.
In tema di rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione, non è configurabile un diritto all'incarico di posizione organizzativa per i responsabili di struttura apicale ex VIII qualifica funzionale, in coerenza con il principio della rotazione degli incarichi e in virtù del carattere discrezionale del conferimento.

Questo è quanto si afferma nell'ordinanza 10.06.2019 n. 15555 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
La vicenda
Protagonista della controversia è un dipendente di un comune siciliano, responsabile quale ingegnere capo dell'area "opere pubbliche" e "urbanistica e territorio" del comune, al quale dopo la privatizzazione del pubblico impiego veniva sottratta la responsabilità di una delle due aree.
Il dipendente riteneva però che, per il solo fatto di essere stato assunto prima della privatizzazione del pubblico impiego, «quale vincitore di un concorso implicante la titolarità di una posizione apicale», con inquadramento nella ex VIII qualifica funzionale, lo stesso avrebbe avuto diritto all'assegnazione e mantenimento dell'incarico di posizione organizzativa.
Pertanto, l'ingegnere impugnava la mancata attribuzione dell'incarico ritenendo di essere stato vittima di un demansionamento da parte dell'ente datore di lavoro.
La decisione
I giudici di merito non accoglievano tale richiesta e lo stesso fa la Cassazione nel giudizio di ultima istanza. Per i giudici di legittimità, infatti, la tesi del dipendente non convince, «non potendo leggersi la disciplina relativa al conferimento dell'incarico di posizione organizzativa, per l'insanabile contrasto con il principio della rotazione degli incarichi dirigenziali e della temporaneità degli stessi, nel senso della configurabilità di un diritto all'incarico in capo a ciascun responsabile di struttura apicale con inquadramento nella ex VIII qualifica funzionale».
Il conferimento dell'incarico, piuttosto, puntualizza la Corte, è «espressione del potere discrezionale dell'amministrazione datrice» e, conseguentemente, è insussistente, in relazione a tale mancato conferimento, qualunque ipotesi di demansionamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.06.2019).
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CONSIDERATO
   - che, con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 52 d.lgs. n. 165/2001, 2103 c.c., 3 e 4, all. A al CCNL 31.03.1999 per il comparto Regioni ed Enti locali e dei principi generali in materia di inquadramento e classificazione del personale nella P.A. in una con il vizio di omessa insufficiente e contraddittoria motivazione riguardo alle mansioni proprie della categoria D assegnate al ricorrente, imputa alla Corte territoriale la mancata considerazione dell'incidenza limitativa del potere discrezionale dell'amministrazione datrice ai fini del conferimento dell'incarico di posizione organizzativa del percorso professionale del ricorrente, che, in coerenza con l'evoluzione del sistema di inquadramento, attualmente lo colloca, quale ex VIII qualifica funzionale, nel livello D3 superiore al livello D1 cui poteva accedere, in quanto ex VII qualifica funzionale, il dipendente investito dell'incarico di posizione organizzativa, atteso che il discrezionale esercizio del potere di conferimento del predetto incarico qualificato come apicale con preferenza verso il soggetto con inquadramento inferiore implica l'assegnazione al ricorrente di una posizione non coerente con l'inquadramento superiore cui ha diritto, implicante l'attribuzione in suo favore della posizione apicale;
   - che, con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 52 d.lgs. n. 165/2001, 2103 c.c., 11 CCNL 31.03.1999, 51, comma 3-bis, l. n. 142/1990 come recepito dalla legge regionale n. 48/1991 e 15 CCNL 22.1.2004, il ricorrente censura la decisione della Corte territoriale sotto il medesimo profilo dell'inconfigurabilità di un potere discrezionale di assegnazione degli incarichi dirigenziali con specifico riferimento ai "piccoli comuni" privi delle qualifiche dirigenziali contestando la ritenuta applicabilità alla fattispecie dell'art. 109, comma 2,d.lgs. n. 267/2000;
   - che nel terzo motivo la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 c.c., 2, 3 e 97 Cost., 52 d.lgs. n. 165/2001, 1418 c.c. e 21 septies I. n. 241/1990 è prospettata ancora una volta in relazione alla negazione del carattere discrezionale del potere dell'amministrazione di conferimento dell'incarico di posizione organizzativa ed alla qualificazione del comportamento concretatosi nella mancata attribuzione dell'incarico al ricorrente come in contrasto con gli obblighi di correttezza e buona fede e dunque quale comportamento inadempiente fonte di un obbligo risarcitorio;
   - che, con il quarto motivo, rubricato con riferimento alla
violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., il ricorrente
imputa alla Corte territoriale il malgoverno delle regole sull'onere
della prova, per aver dichiarato il ricorrente tenuto all'assolvimento di quell'onere in relazione alla dedotta
condizione di inattività in cui sarebbe stato costretto
dall'amministrazione,
   - che con il quinto motivo, sotto la rubrica "Violazione degli artt. 2043 c.c., 2103 c.c., 115, comma 2, c.p.c., 2727 c.c. 2729 c.c. e del principio della corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.)" il ricorrente lamenta l'incongruità, a suo dire tale da sfiorare la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, della motivazione addotta dalla Corte territoriale a fondamento della decisione di rigetto della pretesa risarcitoria e data dal difetto della stessa allegazione del fatto/demansionamento da provare, sostenendo di aver fornito tale prova e di aver pertanto diritto al risarcimento richiesto quantificabile, quanto alle componenti non patrimoniali, anche in via presuntiva;
   - che tutti gli esposti motivi in cui si articola l'impugnazione qui formulata, discendono dalla riproposizione di una ricostruzione della vicenda per la quale il ricorrente sarebbe stato vittima di un demansionamento all'atto dell'attribuzione dell'incarico di posizione organizzativa con riferimento ad entrambe le relative aree ("Opere pubbliche" ed "Urbanistica e Territorio") individuate all'interno del settore tecnico del Comune, al dipendente che in precedenza condivideva detta posizione con il ricorrente, per essere questi incaricato di posizione organizzativa con riguardo all'area "Opere pubbliche" ed il primo con riguardo all'area "Urbanistica e Territorio" e ciò, in primo luogo, in quanto l'attribuzione a questi di una posizione gerarchicamente sovraordinata quando, viceversa, l'evoluzione della disciplina in materia di inquadramento era tale da attestare il possesso da parte del ricorrente, nell'ambito del medesimo livello D, di un
grado superiore, D3 rispetto al D1, da riconoscersi al collega, era tale da collocarlo in una posizione deteriore rispetto a quella apicale da sempre rivestita e che non poteva essergli sottratta ed, in secondo luogo, in quanto a tale ridimensionamento era comunque conseguita una emarginazione rispetto all'attività dell'ufficio spinta fino al punto di non consentirgli l'esercizio delle mansioni e ridurlo in una condizione di totale inattività, situazioni entrambe tali da legittimare l'azionato diritto al risarcimento del danno patrimoniale ed extrapatrimoniale subito;
   - che, in ragione di ciò, tutti i predetti motivi, suscettibili, giacché, per quanto detto, frutto di una specifica ricostruzione della vicenda, di essere qui trattati congiuntamente, si rivelano infondati non valendo a confutare (se non, addirittura, sottraendosi al confronto con) la diversa impostazione data alla fattispecie dalla Corte territoriale sul corretto presupposto della non interferenza del conferimento dell'incarico di posizione organizzativa con la problematica dell'inquadramento, del resto resa comunque irrilevante in ragione dell'omogeneità della posizione professionale all'interno delle varie categorie, che caratterizza il vigente sistema di classificazione del personale, valendo la distinzione all'interno di ciascuna di dette categorie sul piano della mera posizione economica, impostazione per la quale, in coerenza con il principio della rotazione degli incarichi dirigenziali e, dunque, della loro intrinseca temporaneità invalso a seguito della privatizzazione del lavoro pubblico, la Corte territoriale valorizza correttamente l'inconfigurabilità di un diritto all'incarico ed il carattere discrezionale del conferimento, escludendo che esso possa incidere in senso limitativo sulla posizione gerarchica e funzionale di coloro che non ne sono investiti e tanto meno sull'esercizio delle loro comuni mansioni, secondo quanto dedotto in aggiunta dal ricorrente, ma dalla Corte territoriale ritenuto non solo non provato, rilievo ampiamente motivato con riferimento all'esito dell'istruttoria, cui il ricorrente ha opposto la sola infondata censura dell'arbitraria inversione dell'onere della prova, assumendo che a fronte della deduzione relativa alla condizione dell'inattività fosse l'amministrazione datrice onerata della prova del fatto contrario, ma altresì neppure allegato nel suo concreto atteggiarsi quale danno/conseguenza, rilievo al quale il ricorrente si limita ad opporre l'apodittica affermazione dell'assolvimento da parte sua dell'onere di allegazione e prova e del suo diritto al risarcimento da determinarsi anche sulla base di presunzioni;

EDILIZIA PRIVATALa determinazione e la liquidazione del contributo di costruzione costituisce, invero, esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta all’Amministrazione comunale per il rilascio del titolo autorizzatorio, nell’ambito di un rapporto obbligatorio tra quest’ultima e il privato.
Ciò implica che, ferma restando l’efficacia del provvedimento concessorio, il Comune ha sempre, in ipotesi, la possibilità di provvedere alla rideterminazione del contributo dovuto (se erroneamente liquidato) e alla conseguente richiesta di pagamento, con il solo limite dell’intervenuta prescrizione.

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Quanto al terzo motivo, con cui si censura la violazione dell’art. 9 della legge n. 10 del 1977, si osserva che, seppure il Comune avesse errato nel valutare la gratuità della concessione edilizia, tale aspetto non inficerebbe comunque la valenza autorizzatoria dell’atto.
La determinazione e la liquidazione del contributo di costruzione costituisce, invero, esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta all’Amministrazione comunale per il rilascio del titolo autorizzatorio, nell’ambito di un rapporto obbligatorio tra quest’ultima e il privato; ciò implica che, ferma restando l’efficacia del provvedimento concessorio, il Comune ha sempre, in ipotesi, la possibilità di provvedere alla rideterminazione del contributo dovuto (se erroneamente liquidato) e alla conseguente richiesta di pagamento, con il solo limite dell’intervenuta prescrizione (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 30.08.2018, n. 12).
Pertanto, le ricorrenti non hanno interesse alla doglianza sollevata con il motivo in esame (TAR Marche, sentenza 10.06.2019 n. 382 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività edilizia - Rifiuti di demolizione - Ricondurre i materiali alla categoria dei sottoprodotti - Terre e rocce da scavo - Esclusione - Artt. 184-bis, 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, si deve escludere che i materiali di demolizione possano essere ricondotti alla categoria dei sottoprodotti, perché essi non scaturiscono da un processo di produzione, bensì dalla demolizione dell'edificio, ovvero da un'attività antitetica alla produzione (Cass., Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015; Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 23/01/2015; Sez. 3, n. 42342 del 09/07/2013; Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012).
Nel caso di specie, manca uno specifico riferimento al complesso del ciclo produttivo e alla destinazione iniziale dei materiali scaricati, non potendosi attribuire alcuna rilevanza fatto che vi fossero tra questi anche terre e rocce da scavo, la cui commistione con i rifiuti di demolizione rende inapplicabile la disciplina di maggiore favore prevista per tale categoria di materiali (ex multis, Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.06.2019 n. 25316  - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - DIRITTO DEL LAVORO - Assunzione di un dirigente a tempo determinato - Procedura pubblica - Disciplina degli incarichi dirigenziali - Potestà esclusiva dello Stato - Possesso dei requisiti di accesso alla dirigenza - Formazione universitaria e postuniversitaria, pubblicazioni scientifiche e concrete esperienze di lavoro - Attività svolta in organismi ed enti pubblici o privati - Almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali - Art. 19, c. 6, d.l.gs. n. 165/20011.
In materia di assunzione di un dirigente a tempo determinato, trova applicazione l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, nella specie comma 6, in quanto la disciplina degli incarichi dirigenziali per quanto attiene ai profili normativi del rapporto è materia attratta all'ordinamento civile, e in quanto tale rimessa alla potestà esclusiva dello Stato dall'art. 117, secondo comma, lett I, Cost. (cfr., sentenze Corte cost. n. 324 del 2010, n. 62 del 2019).
Pertanto, la competenza statale esclusiva in materia di «ordinamento civile» vincola gli enti ad autonomia differenziata anche con riferimento alla disciplina del rapporto di lavoro con i propri dipendenti, così come affermato dalla Corte costituzionale (sentenze n. 231 del 2017, n. 77 del 2013).
Nella specie è stato interpretato l'art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, correttamente l'alternatività tra:
   - l'attività svolta in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali;
   - il conseguimento di una particolare "specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza".
Sicché, nell'interpretare il secondo requisito alternativo il giudice di appello afferma, altresì correttamente, in ragione della lettera della disposizione e della ratio legis, anche in ragione del confronto tra i testi normativi succedutisi nel tempo, che la concreta esperienza di lavoro deve coesistere con quella scientifica e deve essere dirigenziale o ad essa equiparabile
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 07.06.2019 n. 15514 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOLegittimo il licenziamento del dipendente che viola le norme di comportamento.
Legittimo il licenziamento per chi abusa del proprio ruolo con atti apertamente contrari ai propri doveri di ufficio - come nel caso della dipendente di un Comune che aveva favorito la pratica del rilascio della carta di identità in favore di cittadino extracomunitario, in cambio di danaro. Basta la violazione delle norme di comportamento, indipendentemente dalla rilevanza penale dei fatti.

Lo ha stabilito, con la sentenza n. 909/2019, il TRIBUNALE di Milano (tratta da www.segretaricomunalivighenzi.it).
La ex dipendente di un Comune alle porte di Milano, dopo essere stata sottoposta a procedimento penale per atti contrari ai doveri d'ufficio, veniva licenziata con preavviso dall'ente. La stessa aveva impugnato il licenziamento, deducendone l'illegittimità e chiedendo per l'effetto la reintegrazione in servizio; in quanto -a sua detta- il procedimento penale fonte del licenziamento avrebbe condotto il Gip a non confermare l'arresto per assenza di prova certa e concreta della condotta criminosa ascrittale.
Il Comune aveva chiarito che l'ex dipendente era stata licenziata in relazione all'accertata violazione delle norme del Codice di comportamento del pubblico dipendente, indipendentemente dalla rilevanza penale dei fatti.
Il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso. Il giudice ha affermato: «i fatti, indipendentemente dalla loro rilevanza e qualificazione penale, appaiono non soltanto accertati ma di rilevanza disciplinare tale da giustificare e sorreggere appieno il provvedimento del licenziamento, comminato. (…). Indipendentemente dai profili di rilievo penale della condotta, risulta difficilmente contestabile la commissione di atti apertamente contrari ai propri doveri di ufficio, con abuso del proprio ruolo, (…), la deviazione rispetto alle regole sui tempi e luoghi di inoltro e lavorazione della richiesta, la consapevolezza dell’abnormità del provvedimento amministrativo per la cui adozione la stessa si adoperava».
Il giudice ha ritenuto, quindi, che i comportamenti dell'ex dipendente fossero da considerare: «in palese contrasto con i più elementari doveri alla base del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici e delle norme regolamentari di cui al d.p.r. 62/2013 (Codice di Comportamento dipendenti pubblici), poiché connotate da evidente abuso della propria posizione (…). Tali condotte appaiono indiscutibilmente integrare quelle violazioni dei doveri di comportamento ai sensi dell’art. 3, comma 7, lett. i), CCNL 11/04/2018, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto, anche in relazione a quanto previsto dall’art. 55-quater Legge n. 165/2001, che riconduce a gravi e reiterate violazioni dei codici di comportamento, ex art. 54, c. 3, la sanzione del licenziamento».
Su queste basi il Tribunale di Milano ha considerato legittima e congrua la sanzione, rigettando il ricorso e condannando la ricorrente anche al pagamento di tutte le spese del giudizio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAutotutela senza limiti di tempo nell’annullamento delle progressioni di carriera.
Il TAR Abruzzo-Pescara, con la sentenza 06.06.2019 n. 152, ha fornito una rilevante interpretazione che delinea il perimetro applicativo del potere di autotutela da parte degli enti locali. Più in particolare, viene precisato il presupposto temporale dell'esercizio di questa potestà amministrativa.
La fattispecie
Un Comune aveva stabilito di coprire un posto vacante in pianta organica mediante concorso interno, in quanto la posizione lavorativa richiedeva una professionalità acquisibile esclusivamente all'interno dell'ente.
A distanza di diversi anni, veniva disposto l'annullamento in autotutela del concorso, motivando la scelta con la priorità attribuita all'interesse pubblico alla copertura del posto tramite concorso aperto all'esterno, ossia attraverso una procedura selettiva volta a garantire l'accertamento della professionalità richiesta e l'accesso a soggetti estranei all'ente. La posizione giuridica del destinatario dell'atto veniva così derubricata a interesse recessivo rispetto al prevalente interesse pubblico.
Inesistenza del limite temporale
Il ricorso formulato dal vincitore del concorso interno, leso dal provvedimento amministrativo per quanto riguarda l'avanzamento di carriera, appuntata sull'inosservanza del termine per l'esercizio dell'autotutela contemplato dall'articolo 21-nonies, comma 1, della legge 241/1990 e sulla connessa carenza motivazionale, in ragione del suo legittimo affidamento e consolidamento della posizione acquisita, è stato disatteso dai giudici abruzzesi.
Questi si sono basati sulla disposizione grazie alla quale il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, «entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
E, invero, alla luce del chiaro tenore letterale della norma, i magistrati affermano il principio di diritto secondo cui la specifica limitazione temporale massima consentita dei 18 mesi non si applica ai provvedimenti –come nel caso di specie– di progressione in carriera.
Essi, difatti, non rientrano nelle categorie di «atti autorizzativi», non essendo provvedimenti con cui la Pa rimuove un limite per l'esercizio di un'attività privata, o di «atti attributivi di vantaggi economici», giacché il miglior trattamento retributivo conseguente alla progressione non è la conseguenza diretta del provvedimento di nomina o comunque un beneficio riconosciuto dalla Pa, bensì un corrispettivo della prestazione lavorativa maggiormente qualificata.
Interesse pubblico prevalente
Per il Tar, nella fattispecie, sussisterebbero i presupposti per i quali la legge subordina il potere di autotutela della Pa in ragione della rilevanza degli interessi di tutela in concreto perseguiti. In particolare, l'interesse pubblico all'annullamento d'ufficio di un'illegittima progressione (o assunzione) di un dipendente pubblico, prevalente sulle altre posizioni per quanto consolidate, deve considerarsi in re ipsa e il suo accertamento non richiede una particolare motivazione, posto che l'atto oggetto di autotutela produce un danno permanente per la Pa in termini di esborso di denaro pubblico senza titolo, con ingiustificato vantaggio per il dipendente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.06.2019).
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SENTENZA
Il motivo è infondato.
Invero, con la delibera gravata l’amministrazione ha ben esplicitato le ragioni di illegittimità della procedura di reclutamento per violazione delle norme imperative ivi richiamate, sicché emerge la prevalenza accordata all’interesse pubblico, sotteso alla predetta disciplina normativa, a che il reclutamento del personale nelle pubbliche amministrazioni avvenga secondo la regola del pubblico concorso aperto agli esterni, salva la riserva di posti prevista dalla legge in favore degli interni, in ossequio ai principi di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa garantiti dall'art. 97 della Costituzione.
Nel caso in esame, peraltro, l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione, in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati può dirsi certamente attenuato e adeguatamente soddisfatto attraverso il rinvio alle disposizioni imperative in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio dello ius poenitendi.
A tanto va anche soggiunto che
nessun affidamento sulla stabilità del posto di lavoro acquisito o sull’avanzamento in carriera può vantare colui che risulti vincitore di una selezione pubblica in deroga al principio costituzionale del pubblico concorso (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 04.03.2015, n. 1078).
In ogni caso nella comparazione del contrapposto interesse e nella salvaguardia dell’affidamento ingenerato l’amministrazione si è fatta carico di far salva la posizione economica del ricorrente precisando che dalla espletata autotutela non venivano messi in discussione la conservazione del trattamento economico percepito in relazione alle attività e funzioni fino ad allora espletate.
Né la dedotta violazione dell’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 merita condivisione in relazione alle ulteriori censure prospettate.
Non rileva difatti la circostanza che il provvedimento sia stato adottato oltre il termine di diciotto mesi come introdotto a partire dall’entrata in vigore della legge n. 124/2015 di modifica dell’art. 21-nonies poiché la disposizione in parola si riferisce a provvedimenti di natura diversa, ossia a quelli autorizzativi o attributivi di vantaggi economici.
La progressione in carriera tramite concorso non può certo ascriversi alla categoria dei provvedimenti con cui l’amministrazione rimuove un limite per l’esercizio di un’attività privata, quali sono quelli autorizzativi. Del pari non si verte in ambito di provvedimenti attributivi di vantaggi economici poiché il miglior trattamento retributivo che consegue alla progressione in carriera non è la conseguenza diretta del provvedimento di nomina e non è comunque un beneficio riconosciuto dall’amministrazione ma un corrispettivo rispetto ad una prestazione maggiormente qualificata resa dal dipendente.
Sussistono, nel caso di specie, i presupposti alla cui presenza la legge subordina il potere di autotutela dell’amministrazione “sub specie” di annullamento degli atti amministrativi, in ragione della rilevanza degli interessi di tutela in concreto perseguiti e richiamati nel provvedimento impugnato.
Per giurisprudenza pacifica
è “in re ipsa” l’interesse pubblico, connotato da specificità, concretezza ed attualità, all’annullamento d’ufficio di un’illegittima assunzione o progressione di un dipendente pubblico e non è richiesta una particolare motivazione, dal momento che l’atto oggetto di autotutela produce un danno permanente per l’amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo con ingiustificato vantaggio per il dipendente; né in tal caso rileva il tempo trascorso dall’emanazione del provvedimento illegittimo, considerato che l’interesse pubblico predetto prevale sulle posizioni –per quanto consolidate– del dipendente (cfr. Cons. St., sez. VI, 24.11.2010 n. 8215 e 16.03.2009 n. 1550; sez. V, 17.09.2010 n. 6980, 22.03.2010 n. 1672 e 31.12.2008 n. 6735).
Del resto a più riprese la Corte Costituzionale ha sancito il “principio in base al quale
la progressione nei pubblici uffici deve avvenire sempre per concorso (sent 109/2011, che richiama le sentt. 7/2011 e 478/1995) che costituisce la modalità “ordinaria” di provvista del personale delle amministrazioni pubbliche, nel rispetto degli artt. 3,51 e 97 Cost., con la precisazione che esso vale sia per le prime assunzioni sia in relazione all’attribuzione di un inquadramento di livello superiore di personale già in servizio presso la pubblica amministrazione. Il principio del pubblico concorso può andare incontro a eccezioni, ma solo per peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico che consentono al legislatore di derogare al principio costituzionale del concorso pubblico” (sent. 195/2010).
Risulta quindi meritevole di positiva valutazione l’interesse fatto proprio dalla delibera impugnata di ristabilire l’ordine violato onde pervenire alla copertura del posto attraverso procedure selettive volte a garantire l’accertamento della professionalità richiesta per il corrispondente profilo e l’accesso anche da personale esterno.
Sulla base delle sovraesposte considerazioni, il ricorso va respinto.

PUBBLICO IMPIEGOAnzianità di servizio, il trasferimento penalizza la progressione economica.
È legittima la scelta dell'amministrazione comunale di riconoscere la progressione economica unicamente ai dipendenti che abbiano maturato una anzianità minima a una certa data. Il discrimine, previsto dal contratto integrativo, è infatti «coerente con una scelta di valorizzazione del personale che sviluppa la propria carriere all'interno di quel comparto».

La Corte di Cassazione - Sez. lavoro, ordinanza 05.06.2019 n. 15281, ha così respinto il ricorso di due dipendenti pubbliche trasferite presso l'amministrazione capitolina e provenienti, l'una, da un Comune della Provincia, l'altra, da un Centro regionale per ciechi, a cui era stata revocata l'attribuzione della classe economica perché al 31.12.2016 (data indicata nel contratto integrativo) non godevano della prescritta anzianità. E cioè: almeno un anno di servizio nella «posizione economica inferiore» all'interno della stessa l'amministrazione. Anzi, precisa la Corte, all'epoca non erano neppure state trasferite, dal momento che il passaggio effettivo era avvenuto soltanto nella primavera dell'anno successivo.
Nel passaggio dei lavoratori da un ente all'altro, spiega la decisione, la garanzia del mantenimento del trattamento economico e normativo «non implica la parificazione con i dipendenti già in servizio presso il datore di lavoro di destinazione». Mentre «l'anzianità di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità comporterebbe peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto dal lavoratore trasferito».
«L'anzianità pregressa, invece -prosegue la Corte-, non può essere fatta valere per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa disciplina applicabile al cessionario, né può essere opposta al nuovo datore per ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché l'ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti (non delle aspettative) già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della cessione del contratto».
Una lettura, continua la Cassazione, confermata dalla Corte di Lussemburgo che ha ribadito come lo scopo della direttiva (2001/23/CE) sia «solo quello di assicurare il mantenimento dei diritti già acquisiti dai lavoratori trasferiti» e che «l'anzianità maturata presso il cedente non costituisce di per sé un diritto di cui i lavoratori possano avvalersi nei confronti del cessionario».
In conclusione, per la Sezione Lavoro «non si tratta dell'attribuzione di un peggioramento retributivo al momento del passaggio da un'amministrazione all'altra per effetto del mancato riconoscimento dell'anzianità maturata presso il cedente (stigmatizzato ed escluso nelle pronunce a Sezioni unite oltre che nella decisione della Corte di Giustizia UE n. 108/10) ma di una scelta delle parti collettive dell'amministrazione di destinazione di attribuire rilievo all'esperienza professionale maturata presso quel comparto e così di riconoscere la progressione economica solo in favore di quei dipendenti che entro un'indicata data avessero maturato un'anzianità di almeno un anno nella posizione economica inferiore» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGOProgressioni orizzontali. E' legittima l'esclusione del dipendente dalla progressione orizzontale che per mobilità volontaria non abbia raggiunto i requisiti stabiliti nel bando.
La Cassazione, con due recenti sentenze, è intervenuta sulla legittimità dell'esclusione del dipendente che per mobilità volontaria sia transitato presso altra amministrazione.

Il primo caso riguarda la decorrenza della progressione orizzontale avvenuta quando il dipendente era in servizio presso l'amministrazione di partenza ma è stato escluso perché non più in servizio alla data di attivazione della progressione orizzontale.
Il secondo caso riguarda il dipendente che transitato per mobilità volontaria era stato escluso in quanto non aveva maturato l'anzianità di servizio presso il Comune procedente alla data della progressione orizzontale, a nulla rilevando il pregresso svolgimento delle identiche funzioni presso la precedente amministrazione.
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Considerato che:
1.1. con il primo motivo le ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.);
lamentano che la Corte territoriale nell'escludere la continuità giuridica in caso di mobilità volontaria prevista dall'art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 avrebbe disatteso il principio affermato da Cass., Sez. Un., 10.11.2010, n. 22800 ed ancora da Cass., Sez. Un., 12.01.2011, n. 503 e da Cass. 27.08.2014, n. 18416, principio riconosciuto anche dalla Corte di Giustizia UE 06.09.2011 n. 108/2010;
1.2. con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ. in relazione all'interpretazione dell'art. 40 del c.c.d.i. del Comune di Roma ed all'art. 2.1. del c.c.d.;
rilevano che l'interpretazione corretta non potesse essere che nel senso di dare rilievo anche alla precedente anzianità e ciò anche perché la norma pattizia non faceva alcun espresso riferimento all'anzianità maturata presso il Comune di Roma;
2.1. i motivi da trattarsi congiuntamente in ragione dell'intrinseca connessione sono infondati;
2.2. questa Corte ha già ritenuto, condivisibilmente, che in tema di passaggio di lavoratori ad una diversa amministrazione, le disposizioni normative che garantiscono il mantenimento del trattamento economico e normativo, non implicano la parificazione con i dipendenti già in servizio presso il datore di lavoro di destinazione (v. Cass. 03.08.2007 n. 17081; Cass. 17.07.2014, n. 16422);
la prosecuzione giuridica del rapporto, infatti, se da un lato rende operante il divieto di reformatio in peius, dall'altro non fa venir meno la diversità fra le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo, diversità che può essere valorizzata dal nuovo datore di lavoro, sempre che il trattamento differenziato non implichi la mortificazione di un diritto già acquisito dal lavoratore;
2.3. muovendo da detta premessa questa Corte (v. Cass. 17.09.2015, n. 18220; Cass. 25.11.2014, n. 25021; Cass. 03.11.2011, n. 22745; Cass. 18.05.2011, n. 10933; Cass., Sez. Un., 10.11.2010, n. 22800) ha evidenziato che l'anzianità di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto dal lavoratore trasferito;
2.4. l'anzianità pregressa, invece, non può essere fatta valere da quest'ultimo per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa disciplina applicabile al cessionario (Cass., Sez. Un., n. 2280/2010 cit. e Cass. n. 25021/2014 cit.), né può essere opposta al nuovo datore per ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché l'ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti (non delle aspettative) già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della cessione del contratto;
il nuovo datore, pertanto, ben può ai fini della progressione di carriera valorizzare l'esperienza professionale specifica maturata alle proprie dipendenze, differenziandola da quella riferibile alla pregressa fase del rapporto (v. Cass. n. 17081/2007; Cass., Sez. Un., n. 22800/2010; Cass. 22745/2011 citate e, in relazione all'impiego privato, Cass. 25.03.2009, n. 7202);
2.5. le. conclusioni alle quali questa Corte è pervenuta trovano conforto. nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo che, a prescindere dalla applicabilità o meno al trasferimento di attività che qui viene in rilievo della direttiva 2001/23/CE, deve orientare nell'interpretazione della norma interna con la quale il legislatore ha adeguato il diritto nazionale a quello dell'Unione (l'art. 2112 cod. civ. è stato modificato dal d.lgs. n. 18 del 2001, in attuazione della direttiva 98/50/CE, poi sostituita dalla direttiva 2001/23/CE);
la Corte di Giustizia con la recente pronuncia del 06.04.2017 in causa C-336/15, ha ribadito che lo scopo della direttiva è solo quello di assicurare il mantenimento dei diritti già acquisiti dai lavoratori trasferiti e che l'anzianità maturata presso il cedente non costituisce di per sé "un diritto di cui i lavoratori possano avvalersi nei confronti del cessionario, ciò nondimeno essa serve, se del caso, a determinare taluni diritti pecuniari dei lavoratori, che pertanto devono essere salvaguardati, in linea di principio dal cessionario allo stesso modo del cedente" (punti 21 e 22 nei quali la Corte richiama le sentenza 06.09.2012 Scattolon, C108/10 e 14.09.2000, Collino e Chiappero, C-343/98);
2.6. sicché può risultare irrilevante, ai fini della progressione di carriera, l'anzianità maturata presso l'ente di provenienza, ove, come nella specie, in sede di contrattazione decentrata integrativa presso il nuovo datore di lavoro, si sia inteso valorizzare, ai fini di una progressione economica, l'esperienza professionale specifica maturata alle dipendenze di tale datore e cristallizzata ad una determinata data, distinguendola da quella riferibile alla pregressa fase del rapporto (v. anche Cass. 03.05.2018, n. 10528);
2.7. è così immune da vizi l'interpretazione della Corte territoriale dell'art. 40, comma 3, del c.c.d.i. del Comune di Roma, sottoscritto il 18.10.2005 (prevedente testualmente che: "Sono ammessi a partecipare alle selezioni i dipendenti che alla data di svolgimento della selezione: - hanno maturato un'anzianità di servizio effettivo con rapporto di lavoro a tempo indeterminato di almeno due anni; - non abbiano riportato sanzioni disciplinari definitive superiori alla censura nel biennio precedente") in lettura combinata con il punto 2.1. del c.c.d.i. sottoscritto in data 26/09/2007 per la quantificazione e ripartizione del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività per l'anno 2007 (prevedente che l'Amministrazione attiverà il procedimento per la progressione economica orizzontale "per tutti i dipendenti che alla data del 31.12.2006 abbiano maturato un'anzianità di almeno un anno nella posizione economica inferiore"), nel senso di elevare la qualità di dipendente del Comune di Roma alla data del 31.12.2016 a discrimine ai fini del riconoscimento economico, in quanto coerente con una scelta di valorizzazione del personale che sviluppa la propria carriera all'interno di quel comparto;
2.8. non si tratta, dunque, dell'attribuzione di un peggioramento retributivo al momento del passaggio da un'amministrazione all'altra per effetto del mancato riconoscimento dell'anzianità maturata presso il cedente (stigmatizzato ed escluso nelle pronunce di questa Corte a Sezioni unite invocate dalle ricorrenti oltre che nella decisione della Corte di Giustizia UE n. 108/10) ma di una scelta delle parti collettive dell'amministrazione di destinazione di attribuire rilievo all'esperienza professionale maturata presso quel comparto e così di riconoscere la progressione economica solo in favore di quei dipendenti che entro un'indicata data avessero maturato un'anzianità di almeno un anno nella posizione economica inferiore;
2.9. peraltro la correttezza dell'interpretazione della Corte territoriale, ossia che l'anzianità richiesta fosse quella maturata alle dipendenze. del Comune .di Roma, emerge proprio dal richiamato punto 2.1. del c.c.d. che, avuto riguardo alle esperienze dei dipendenti cristallizzate al 31/12/2006, non poteva certo rivolgersi a coloro che, come le ricorrenti, a quella data non erano dipendenti dell'ente (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 05.06.2019 n. 15281).
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CONSIDERATO:
   - che, con il primo motivo, così rubricato "Erronea motivazione per errata interpretazione del disposto dell'art. 8, comma 9 del CCDI del 19.02.2001 del Comune di Milano", la ricorrente lamenta a carico della Corte territoriale il travisamento del testo dell'art. 8 del contratto integrativo del Comune di Milano in base al quale l'attivazione delle progressioni orizzontali avrebbe seguito la decorrenza delle prime posizioni economiche appartenenti alle categorie A, B, C e D, risalenti all'01.04.1999, allorché la Es. risultava essere ancora in servizio presso il Comune di Milano;
   - che, con il secondo motivo, così rubricato "Vizio di ultrapetizione per erronea valutazione delle risultanze processuali ed eccezioni" la ricorrente imputa alla Corte territoriale la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato per aver fondato la decisione di rigetto della domanda sul convincimento del mancato possesso da parte della ricorrente medesima dei requisiti richiesti per la progressione orizzontale, dato questo mai fatto oggetto di, contestazione da parte del Comune di Milano, limitatosi a sostenere l'esclusione della ricorrente dalla relativa selezione per non essere in servizio alla data indicata del 19.02.2001;
   - che il primo motivo deve ritenersi inammissibile alla stregua dell'orientamento accolto da questa Corte (cfr., da ultimo Cass. 31.05.2017, n. 13802) secondo cui ai sensi dell'art. 63 d.lgs. n. 165/2001 e dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 40/2006, la denuncia della violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro è ammessa solo con riferimento a quelli di carattere nazionale, per i quali è previsto il peculiare regime di pubblicità di cui all'art. 47, comma 8, d.lgs. n. 165/2001, mentre i contratti integrativi , attivati dalle dalle amministrazioni su singole materie e nei limiti stabiliti dal contratto nazionale, tra i soggetti e con le procedure negoziali;
   - che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell'amministrazione interessata, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al comparto, con la conseguenza che la loro interpretazione è riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizio di motivazione, nei limiti fissati dall'art. 360, n. 5, c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis;
   - che parimenti inammissibile si rivela il secondo motivo alla luce dell'orientamento accolto da questa Corte per il quale, anche qualora venga dedotto un error in procedendo, rispetto al quale la Corte è giudice del "fatto processuale", l'esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall'estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità, sicché la parte non è dispensata dall'onere imposto dall'art. 366, n. 6, c.p.c. di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell'errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, permanendo anche in tale ipotesi l'esigenza che la Corte venga posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura, senza dover procedere, anziché alla loro verifica, alla loro ricerca (cfr. Cass. nn. 15367/2014 e 21226/2010) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 29.05.2019 n. 14687).

APPALTI: Accesso civico – Esclusione dell’accesso civico nella materia degli appalti pubblici – Inconfigurabilità – lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti in materia di accesso.
L’art. 53 del “Codice dei contratti” nella parte in cui esso rinvia alla disciplina degli artt. 22 e seguenti della l. 241/1990, non può condurre alla generale esclusione dell’accesso civico della materia degli appalti pubblici.
Il d.lgs. n. 97/2016, successivo sia al “Codice dei contratti” che –ovviamente– alla legge n. 241/1990, sconta un mancato coordinamento con quest’ultima normativa, sul procedimento amministrativo, a causa del non raro difetto, sulla tecnica di redazione ed il coordinamento tra testi normativi, in cui il legislatore incorre.
Non può, dunque, ipotizzarsi una interpretazione “statica” e non costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti in materia di accesso allorché, intervenuta la disciplina del d.lgs 97/2016, essa non risulti correttamente coordinata con l’art. 53 codice dei contratti e con la ancor più risalente normativa generale sul procedimento: sarebbe questa la strada per la preclusione dell’accesso civico ogniqualvolta una norma di legge si riferisca alla procedura ex artt. 22 e seguenti L. 241/1990.
Una interpretazione conforme ai canoni dell’art. 97 Cost. deve invece valorizzare l’impatto “orizzontale” dell’accesso civico, non limitabile da norme preesistenti (e non coordinate con il nuovo istituto), ma soltanto dalle prescrizioni “speciali” e interpretabili restrittivamente, che la stessa nuova normativa ha introdotto al suo interno.

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Accesso civico – Perseguimento di procedure di appalto trasparenti - Prevenzione e contrasto della corruzione.
Con riferimento alle procedure di appalto, la possibilità di accesso civico, una volta che la gara sia conclusa e viene perciò meno la tutela della “par condicio” dei concorrenti, non risponde soltanto ai canoni generali di “controllo diffuso sul perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 5, co. 2 cit. d.lgs. 33).
Vi è infatti, a rafforzare in materia l’ammissibilità dell’accesso civico, una esigenza specifica e più volte riaffermata nell’ordinamento statale ed europeo, e cioè il perseguimento di procedure di appalto trasparenti anche come strumento di prevenzione e contrasto della corruzione
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.06.2019 n. 3780 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Impianto di depurazione comunale - Trattamento delle acque reflue urbane - Superamento dei limiti tabellari - Disciplina applicabile - Legge n. 36/2010 - Artt. 323, 328, e 54 e 1161 cod. nav. - Artt. 133, 136, 137, c. 6, d.lgs. n. 152/2006.
Con riferimento allo scarico di acque reflue industriali, il superamento dei limiti fissati dalla tabella 3 integra reato, a norma dell'art. 137 d.lgs. n. 152 del 2006 nel testo oggi vigente, solo ove esso riguardi le sostanze indicate nella tabella 5 dell'allegato 5 alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006.
In particolare, l'art. 137, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006, come modificato dalla legge n. 36 del 2010, prevede la sanzione penale esclusivamente nel caso in cui lo scarico avente ad oggetto acque reflue industriali riguarda una o più sostanze indicate nella tabella 5 dell'Allegato 5 alla parte terza del T.U.A., con superamento dei valori limite indicati nella tabella 3, identiche condotte relative ad altre sostanze non costituiscono più reato e rientrano nell'ipotesi di cui all'art. 133, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale, salvo che il fatto costituisca reato, punisce con la sanzione amministrativa lo scarico di materie estranee alla tabella 5 con superamento dei limiti indicati nelle tabelle dell'Allegato 5
(Cass. Sez. 3, n. 11884/2014).

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Scarico da depuratore convogliante le acque reflue urbane e scarico di acque reflue industriali - Assenza di elementi di prova - Mero illecito amministrativo - Giurisprudenza.
Lo scarico da depuratore convogliante le acque reflue urbane, in assenza di elementi di prova forniti dal P.M. circa la prevalenza di reflui di natura industriale, deve essere ritenuto a natura mista ed i relativi reflui vanno qualificati come scarichi di acque urbane, con la conseguenza che la condotta di scarico senza autorizzazione, non integra il reato di cui all'art. 137, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006, ma un mero illecito amministrativo (Sez. 3, n. 1870 del 26/11/2015, dep. 2016, Copeti).
Mentre, con riferimento all'incidenza dei valori limite per lo scarico di acque reflue industriali deve essere applicato anche in caso di scarico di acque reflue urbane da parte dei gestori di impianti di trattamento delle stesse, sia per ragioni di ordine testuale, sia per ragioni sistematiche.

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Tutela delle acque dall'inquinamento - Scarico di acque reflue industriali e/o urbane - Inapplicabilità delle sanzioni di cui all'art. 137, c. 5 e 6, d.lgs. n. 152/2006 - VIA VAS AIA - Autorizzazione integrata ambientale.
In materia di tutela delle acque dall'inquinamento, ritenere che il gestore di impianti di trattamento delle acque reflue urbane il quale, nell'effettuazione dello scarico, supera i valori-limite previsti dalla tabella 3 dell'Allegato 5 alla parte terza del medesimo decreto in relazione a sostanze diverse da quelle indicate nella tabella 5 del medesimo Allegato 5, sia soggetto alle sanzioni di cui all'art. 137, commi 5 e 6, d.lgs. n. 152 del 2006, significa riservare allo stesso un trattamento significativamente deteriore rispetto a quello previsto a carico del titolare di autorizzazione integrata ambientale, e così accogliere una soluzione non agevole da giustificare in termini di ragionevolezza e di proporzione.
Inoltre, l'inapplicabilità delle sanzioni di cui all'art. 137, commi 5 e 6, d.lgs. n. 152 del 2006 non implica lacune nel sistema sanzionatorio, perché, in ogni caso, è prevista dal sistema una consistente sanzione amministrativa.
Fattispecie: residui da metabolismo umano
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.06.2019 n. 24797 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATALa norma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta. Di conseguenza, il rispetto della distanza minima imposto dalle richiamate prescrizione è obbligatorio anche per i tratti di parete che siano in parte prive di finestre.
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1.1. = Il motivo è fondato per la ragione di cui si dirà.
Secondo la Corte distrettuale le nuove distanze ex DM n. 1444 del 1968 non varrebbero per le nuove pareti finestrate nella parte in cui non siano antistanti (quindi non si sovrappongono) (pag. 6 della sentenza) alla parete del vicino.
Epperò così ragionando la sentenza impugnata si è posta in contrasto con l'orientamento di questa Corte secondo cui la norma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta. Di conseguenza, il rispetto della distanza minima imposto dalle richiamate prescrizione è obbligatorio anche per i tratti di parete che siano in parte prive di finestre (Cass. 20.06.2011, n. 13547; Cass. 28.08.1991, n. 9207).
La sentenza, avendo disatteso tali principi, è, perciò, incorsa nella censurata violazione di legge e va cassata. La Corte distrettuale dovrà, cui la causa verrà rinviata dovrà procedere ad un nuovo esame dei fatti di causa ed individuare la norma applicabile, attenendosi agli indicati criteri interpretativi (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 04.06.2019 n. 15178).

SEGRETARI COMUNALIAi segretari la qualifica dirigenziale dopo due anni di servizio.
Prima del 2001, il segretario comunale conseguiva la qualifica dirigenziale solo dopo diversi passaggi di carriera, anche in considerazione della classe del Comune presso cui prestava servizio. Con il contratto nazionale del 16.05.2001 la disciplina è stata modificata in modo che il segretario comunale può conseguire la qualifica dirigenziale appena compiuto il primo biennio di servizio.

Sono queste le conclusioni cui è giunto il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la sentenza 04.06.2019 n. 7178.
Il caso
Un segretario comunale ha partecipato alla selezione per la copertura dei posti vacanti di giudice presso le commissioni tributarie regionali e provinciali e si è visto attribuire un punteggio inferiore a causa del mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale richiesta nel bando.
La commissione, infatti, nel procedere alla valutazione dei titoli, ha riconosciuto la qualifica dirigenziale al segretario partecipante solo a partire dalla data del contratto 16.05.2016, mentre per il periodo di servizio pregresso non gli è stato assegnato alcun punteggio. In seguito, su istanza di autotutela, la commissione ha modificato la graduatoria riconoscendo esclusivamente l'ulteriore periodo dal 20.03.1999 e non dal 20.03.1997 come da richiesta del segretario comunale. In considerazione del presunto inadempimento da parte della commissione, il segretario ha proposto ricorso al Tar .
La conferma dei giudici amministrativi
Il collegio amministrativo ha rigettato il ricorso del segretario e accolto le motivazione della commissione. Il segretario ha dichiarato, nella domanda di partecipazione al concorso, di aver ottenuto la fascia B (equiparata a dirigente) solo a partire dal 20.03.1999. Non può, quindi, essere accolta la motivazione del segretario secondo cui avrebbe dovuto essere computato anche il periodo pregresso del servizio prestato dal 20.03.1997 e quindi attribuito il punteggio previsto per la «qualifica di primo dirigente e dirigente superiore».
Infatti, precisano i giudici, fino al 2001 la qualifica di dirigente per il segretario comunale si conseguiva solo dopo diversi passaggi di carriera, e in considerazione della classe del Comune presso cui si prestava servizio. Solo con il contratto di categoria del 16 maggio 2001 la disciplina è stata modificata cosicché il segretario comunale consegue ormai la qualifica dirigenziale appena compiuto il primo biennio di servizio.
Il collegio rileva, tuttavia, come le eccezionali ragioni di difficoltà interpretative rilevabili nella materia suggeriscono la compensazione delle spese di giudizio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Responsabilità e limiti del direttore lavori - Diligenza in concreto - Tutela la posizione del committente nei confronti dell'appaltatore - Vigilanza sulla conformità a quanto stabilito nel capitolato di appalto ed al progetto - Obbligo continuo di vigilanza - Esclusione - APPALTI - Responsabilità dell’appaltatore - Difformità o vizi dell’opera - Cattiva esecuzione dei lavori riferibile all'appaltatore - Esclusiva responsabilità dell'appaltatore sulla esecuzione delle opere - Giurisprudenza.
Il direttore dei lavori è titolare di una obbligazione di mezzi e non di risultati fermo restando che, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, il suo comportamento dev'essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligenza in concreto, posta la necessità d'impiegare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione e nel perimetro delle sue competenze, il risultato che il committente si aspetta di conseguire (Cass., 30/09/2014, n. 20557).
Pertanto, il direttore dei lavori, assume la specifica funzione di tutelare la posizione del committente nei confronti dell'appaltatore, vigilando che l'esecuzione dei lavori abbia luogo in conformità a quanto stabilito nel capitolato di appalto e quindi al progetto, fermo l'obbligo di intervento quando quest'ultimo presenti riconoscibili fattori di rischio (Cass., 15/06/2018, n. 15732); da questo, e proprio per questo, non deriva a suo carico né una responsabilità per cattiva esecuzione dei lavori riferibile all'appaltatore, né un obbligo continuo di vigilanza anche in relazione a condotte marginali, sicché, in assenza di un qualche indice che faccia supporre che l'appaltatore sia stato sottoposto dal committente a direttive così stringenti da sottrargli qualsiasi possibilità di autodeterminazione, l'appaltatore rimane esclusivo responsabile dell'esecuzione delle opere previste ovvero dei danni conseguenti a negligenza nell'attuazione medesima
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 29.05.2019 n. 14751 - link a www.ambientediritto.it).

SEGRETARI COMUNALI:  Nessun taglio all'assegno che «compensa» le perdite del segretario trasferito in mobilità ad altre funzioni.
Dato il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito in caso di mobilità o trasferimento del segretario comunale presso altro ente pubblico, l'eventuale differenza economica deve essere conservata mediante corresponsione di un assegno ad personam da riassorbire mediante i successivi rinnovi contrattuali, ovvero attraverso emolumenti disposti dalla contrattazione collettiva per la generalità dei dipendenti.
Al di fuori di queste ipotesi, l'amministrazione di destinazione o cessionario, non ha alcun titolo per riassorbire l'assegno ad personam in caso di svolgimento delle funzioni vicarie di dirigente la cui disciplina ed indennità sono rimesse alla contrattazione integrativa e, quindi, al di fuori delle ipotesi di riassorbimento.

Queste sono le indicazioni confermate dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nell'ordinanza 29.05.2019 n. 14688.
La vicenda
Un segretario comunale era transitato per mobilità presso un ente pubblico non economico (Inail) con diritto a conservare, all'atto del passaggio, le indennità percepite al momento del trasferimento, di reggenza e di reggenza a scavalco, di direttore generale, mediante integrazione con un assegno ad personam corrispondete alla differenza tra il più favorevole trattamento economico maturato nel precedente ruolo e quello spettante presso l'amministrazione di destinazione.
Dopo il conferimento dell'incarico di dirigente vicario presso una sede provinciale, l'ente pubblico aveva negato la maggiorazione stipendiale in quanto, a suo dire, assorbita dall'assegno ad personam già percepito dall'ex segretario. Non essendo state accolte le ragioni dell'ente pubblico, né dal Tribunale di primo grado né dalla Corte di appello, il ricorso è giunto in Cassazione.
In particolare l'ente pubblico si è lamentato del fatto che i giudici di appello non abbiano correttamente considerato come la legge 88/1989 autorizzi la contrattazione collettiva a individuare posizioni funzionali di particolari rilievo, comprendenti anche l'esercizio di funzioni vicarie, da attribuire ai funzionari della categoria direttiva, tanto da poter far rientrare gli emolumenti attribuiti in via generale a tutti i dipendenti con le stesse qualifiche.
Quindi non avrebbe fondamento l'affermazione della Corte territoriale per cui quell'indennità non sarebbe annoverabile tra gli emolumenti attribuiti in via generale dall'amministrazione ricevente a tutti i dipendenti aventi la qualifica interessata e con la conseguenza della non computabilità della stessa ai fini dell'assorbimento dell'assegno ad personam.
La conferma della Cassazione
Al contrario di quanto sostenuto dall'ente, la Corte di appello ha fatto corretto riferimento a quanto stabilito dal giudice di legittimità, in quanto non sarebbero computabili ai fini dell'assorbimento dell'assegno ad personam spettante, in funzione del mantenimento del trattamento economico maturato al dipendente transitato per mobilità ad altra amministrazione, gli emolumenti che non siano attribuibili in via generale dall'amministrazione ricevente a tutti i dipendenti aventi la medesima qualifica del dipendente.
L'ente è, invece, pervenuto a conclusioni opposte considerando che l'indennità di funzioni vicarie sarebbe attribuibile in via generale a tutti i dipendenti della ottava e della nona qualifica, mentre le disposizioni legislative, richiamate dall'ente, fanno espresso rinvio alle disposizioni della contrattazione decentrata per la concreta disciplina delle posizioni funzionali e non alla contrattazione collettiva che non ha assolutamente esteso a tutti i dipendenti queste indennità (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGOIllegittimo il licenziamento del dipendente in caso di compartecipazione della Giunta comunale con funzioni dispositive e non additive.
Ad un dipendente comunale nell'anno 2010, condannato in via definitiva per disastro colposo e omicidio colposo plurimo e aggravato in relazione al crollo di una scuola comunale ed alla conseguente morte di ventotto persone, veniva irrogato il licenziamento senza preavviso per i medesimi fatti che ne avevano portato alla condanna penale.
Il Tribunale di primo grado e la Corte di Appello ritenevano, tuttavia, il licenziamento illegittimo in quanto adottato comunque dalla Giunta Municipale, la quale non aveva alcun titolo ad intervenire nel procedimento disciplinare previsto dall'art. 55-bis, D.Lgs. n. 165 del 2001, né tanto meno, ad imporre decisioni all'organo competente, in via esclusiva, ad adottare i provvedimenti disciplinari.
A seguito di ricorso in Cassazione avverso la sentenza dei giudici di appello, i giudici di Piazza Cavour (sentenza n. 11632 del 2016) rinviavano la sentenza alla Corte di appello per una nuova valutazione, in quanto non ogni interferenza di organi esterni all'U.P.D. fosse da considerare giuridicamente rilevante, tale essendo solo quella integrante una decisiva -nel senso di sostitutiva e non meramente additiva- compartecipazione del soggetto estraneo all'adozione del provvedimento, con conseguente inammissibile sostanziale trasferimento della competenza deliberativa dall'organo competente ad un diverso organo, sicuramente non competente.
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4. I motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, sono infondati.
La Corte territoriale ha correttamente applicato il principio di diritto enunciato da questa Corte e, esaminata tutta la sequenza degli atti del procedimento disciplinare oltre che la portata dei singoli atti (il provvedimento di licenziamento aveva richiamato espressamente la delibera di Giunta Municipale del 30.09.2010 e la determinazione dirigenziale n. 594 dello stesso giorno e le motivazioni in tali atti indicate anche con riferimento alla gravità dei delitti commessi), ha ritenuto che la delibera di Giunta, lungi dal risultare del tutto neutra rispetto alla gestione del procedimento e al suo interno o dall'avere valenza meramente additiva, avesse integrato una decisiva compartecipazione del soggetto estraneo al processo decisionale e così quella interferenza stigmatizzata da questa Corte di legittimità, tale da spostare illegittimamente la competenza deliberativa dall'organo competente ad un diverso organo, sicuramente non competente.
A tale ricostruzione della Corte territoriale, compiutamente svolta attraverso l'esame degli atti e delle espressioni in essi utilizzate ('ove riterrà' ed 'eventuale sanzione' contenute nel verbale dei lavori dell'UPD, 'dover disporre l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso' contenuta nella delibera di Giunta n. 105 del 30.09.2016 ed ancora 'esecuzione della delibera giuntale' contenuta nella determinazione dirigenziale n. 594/2010), ritenute significative di una valutazione discrezionale rimessa all'organo incompetente, il ricorrente si limita a contrapporre una propria diversa lettura dei fatti di causa.
Ma ciò è inammissibile in sede di legittimità.
Non può, infatti, il ricorrente per cassazione sollecitare un nuovo giudizio di merito su risultanze documentali già considerate dalla Corte territoriale né denunciare come omesso esame di un fatto la mancata valutazione di elementi istruttori laddove il fatto storico (e cioè, nella specie, la deviazione dallo schema legale del procedimento realizzata attraverso l'interferenza decisionale dell'organo incompetente) è stato valutato in tutti i suoi aspetti (v. Cass., Sez. U., 07.04.2014, n. 8053).
Ed allora la censura suggerisce esclusivamente una rivisitazione delle emergenze processuali affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata. Ma non può il ricorso per cassazione enucleare un vizio rilevante a termini del nuovo art. 360, n. 5, cod. proc. civ. dal mero confronto tra le risultanze istruttorie, vale a dire attraverso un'operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti in sede di legittimità (v. Cass., Sez. U., n. 8053/2014 cit.).
Sotto altro profilo va rilevato che non risulta neppure prospettata la violazione dei criteri ermeneutici dettati dall'art. 1362 e ss. cod. proc. civ. che presidiano l'esegesi degli atti di natura negoziale posti in essere nell'ambito del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, il che consente di tenere ferma la lettura degli atti come effettuata dalla Corte territoriale.
5. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza 29.05.2019 n. 14679).

APPALTIL'offerta migliorativa in violazione della legge di gara non esclude dall'appalto.
La violazione della legge speciale di gara che consiste in un'offerta finanziariamente migliorativa non produce l'esclusione (automatica) dall'appalto.

È questo il principio di diritto affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 29.05.2019 n. 3606, intervenuta in materia di procedura di gara.
La fattispecie
Nel caso particolare, la gara era stata indetta da una società in house di un Comune, mediante avviso pubblico per manifestazioni di interesse all'affidamento del servizio di gestione di parcheggio a pagamento. Per aggiudicarsi la gestione, l'operatore economico aveva offerto –oltre a un aumento sul prezzo base– modalità di pagamento in favore della stazione appaltante diverse da quelle previste dalla legge di gara.
In particolare, s'impegnava a versare in via anticipata già al primo mese di ciascun quadrimestre i corrispettivi dei 4 mesi, quando invece l'esborso era dovuto mensilmente, con lo scopo di prestare un miglior servizio alla Pa, beneficiaria così di consistenti anticipazioni di denaro a fronte della privazione anzitempo da parte dell'offerente di somme versate a titolo di corrispettivo per controprestazioni non ancora eseguite.
Esclusione illegittima
Facendo buon governo del principio civilistico (articolo 1184 del codice civile) secondo cui l'apposizione di un termine (e quindi anche la rateizzazione) si presume effettuata nell'interesse del debitore, i giudici amministrativi hanno statuito l'illegittimità dell'esclusione dalla gara atteso che la violazione pur perpetrata ha comportato un'offerta migliorativa a vantaggio esclusivo della stazione appaltante.
La censura di eccesso di potere per irragionevolezza dell'eliminazione trova inoltre avallo nell'assenza di una convincente motivazione sulla possibile rilevanza di un interesse pubblico al rispetto dei termini indicati nella legge di gara, ossia alla percezione dei canoni con cadenza mensile anziché in maniera anticipata. Risulta, invero, priva di pregio la giustificazione fondata sulla mera vincolatività delle prescrizioni della lettera d'invito in relazione a una astratta salvaguardia del superiore interesse a garantire il mantenimento degli equilibri economico-finanziari dell'ente, ove si ometta l'accertamento circa la (in)congruenza delle più vantaggiose modalità solutorie offerte rispetto a questa finalità.
D'altronde, a parere della Collegio, se, per assurdo, la lex specialis avesse obbligatoriamente escluso pagamenti anticipati, la previsione sarebbe stata radicalmente irrazionale e contraria proprio all'interesse pubblico.
Pronuncia equitativa
Circa la misurazione del danno subìto dalla mancata aggiudicazione della gara, se ne ritiene legittima la quantificazione in via equitativa, tenuto conto della tipologia del contratto (essendo, in specie, impossibile prevedere l'utile effettivo conseguibile dall'eventuale affidamento del servizio di parcheggio, e dunque il danno risarcibile) nonché del periodo di gestione del servizio già trascorso (oltre la metà) al momento della pubblicazione della sentenza.
Assenza di litisconsorzio pubblico
Quanto alla legittimazione processuale passiva, viene negata l'instaurazione di un litisconsorzio necessario tra l'ente locale e la partecipata in house. Con estensione analogica dell'interpretazione resa sulla diversa fattispecie delle procedure svolte in forma aggregata da un soggetto per conto/nell'interesse di altri enti, i magistrati di Palazzo Spada disconoscono in capo al Comune socio la qualità di contraddittore necessario, dovendosi il giudizio d'impugnazione promuovere (sul fronte pubblico) solo contro l'amministrazione adottante gli atti di gara illegittimi, cioè la società in house, che costituisce autonomo centro di imputazione dei rapporti giuridici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICACostituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
   a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento;
   b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
   c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo;
   d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
   e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
La giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio: il cd “
lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo la detta impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico, essendo stato raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi/attuativi.
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Nemmeno “i lotti interclusi”, in carenza delle opere di urbanizzazione primaria, quale la rete fognante, possono essere realizzati “con la mera previsione di un ulteriore ennesimo impianto individuale di discarica a dispersione”.
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L
a giurisprudenza si è spinta a puntualizzare il bisogno di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, anche "allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse e urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia, onde essa potrebbe essere rinvenuta finanche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata”.
Comunque, più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale della regola sottesa al c.d. “
lotto intercluso”, in assenza di strumento attuativo, deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del comune che, semmai, ove intenda rilasciare il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione, anche in relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel p.r.g..

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Il contenzioso si incardina, quindi, sulla possibilità di procedere, nello specifico e particolare caso in questione, all’edificazione attraverso un intervento diretto.
Parte ricorrente ritiene che, di fatto, l’area in questione sia assimilabile alla zona B, possibilità in concreto esclusa dall’amministrazione resistente, che afferma, invece, nel provvedimento impugnato che l’area ricada in zona territoriale omogenea C e che il lotto d’interesse non possa ritenersi “intercluso urbanisticamente”; su tale presupposto, il Comune ha proceduto all’impugnato diniego.
A tal riguardo, giova ricordare che costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale, come ricordato da recente giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.11.2014, n. 5488; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 02.03.2017, n. 352), sono:
   a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n. 300);
   b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
   c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
   d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
   e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880).
La giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo la detta impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699), essendo stato raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi/attuativi.
...
Sul punto, pur prendendo atto della effettivamente “incomprensibile” situazione rilevata dal consulente (ossia dell’assenza dell’impianto fognario su area PEEP), va tuttavia specificato, per quel che qui interessa, che la giurisprudenza ha affermato che nemmeno “i lotti interclusi”, in carenza delle opere di urbanizzazione primaria, quale la rete fognante, possono essere realizzati “con la mera previsione di un ulteriore ennesimo impianto individuale di discarica a dispersione” (TAR Sardegna, Cagliari, n. 664/2013; Cons. St., sez. V, n. 3880/2013; cfr. anche TAR Catania, sez. I, 19.02.2018, n. 391 che ha affermato che “non appare superfluo rilevare, inoltre, che non può dirsi con certezza che, come sostenuto dalla ricorrente, l’intera zona sia già interamente urbanizzata vista l’assenza di rete idrica e fognaria di competenza del Comune …”).
...
Il Collegio osserva che, pure a fronte delle opere descritte dal consulente che danno contezza dello stato attuale di urbanizzazione dell’area, non è dimostrato che risulti esclusa l’esigenza, avvertita nel provvedimento impugnato, di “un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione incomplete …”.
D’altra parte la giurisprudenza si è spinta a puntualizzare il bisogno di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, anche al fine ricordato dal Comune ossia “allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse e urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia, onde essa potrebbe essere rinvenuta finanche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata” (C.S., sez. V, n. 5450 del 2011 e giurisprudenza ivi richiamata; C.S. sez. IV, n. 1906/2018).
Comunque, più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale della regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza di strumento attuativo, deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del comune (cfr. Cons. St., sez. IV, 01.08.2007, n. 4276; Cons. St. sez. IV, 10.06.2010, n. 3699), che, semmai, ove intenda rilasciare il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione, anche in relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel p.r.g. (cfr. Cons. St. sez. V, 27.10.2000, n. 5756; sez. V, 08.07.1997, n. 772, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699).
Per quanto sopra esposto, il Collegio ritiene che non sussistono i requisiti, come dalla giurisprudenza descritti, necessari per poter configurare il lotto intercluso, con la conseguenza che il provvedimento di diniego impugnato è esente dai vizi denunciati in merito a tale profilo
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 29.05.2019 n. 1313 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALe dichiarazioni di atto di notorietà da parte di soggetti terzi, costituendo un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, sono insuscettibili di assurgere al rango di prove e possono, al più, rappresentare meri indizi, che, però, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non sono idonei a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione comunale circa la repressione dell'abuso edilizio.
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2.2. Il quadro probatorio allestito dall’amministrazione comunale resistente a suffragio della propria determinazione declinatoria non risulta menomato dalle contrarie allegazioni attoree (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.h).
Ed invero, la Di Do. si è limitata ad esibire una risalente riproduzione fotografica che, solo marginalmente, e del tutto indecifrabilmente, ritrae l’area attinta dall’intervento de quo, nonché dichiarazioni di atto di notorietà da parte di soggetti terzi, le quali, costituendo un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, sono insuscettibili di assurgere al rango di prove e possono, al più, rappresentare meri indizi, che, però, in mancanza –come, appunto, nella specie– di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non sono idonei a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2018, n. 3143; 22.08.2018, n. 5030)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.05.2019 n. 860 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo all’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989, la giurisprudenza ha chiarito che la sfera applicativa delle agevolazioni da essa contemplate, in considerazione delle finalità della legge e in relazione al suo carattere eccezionale e derogatorio, non può estendersi al di fuori delle ipotesi normativamente predeterminate.
Ha, conseguentemente, statuito che la prevista deroga agli strumenti urbanistici è da reputarsi operante, solo quando i parcheggi siano realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali ubicati al piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi –e, quindi, i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche–, se non vengano a ciò adibiti i locali (preesistenti) ubicati al piano terra di un fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei fabbricati.
Ora, la nozione di “sottosuolo” postulata dal citato art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989 non può che considerarsi di stretta interpretazione, non potendo attingere le ipotesi –contemplate dall’art. 4 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni– di parcheggi parzialmente fuori terra (sia pure per non oltre cm 80 rispetto al piano di campagna), ossia, in sostanza, seminterrati.
Una opposta interpretazione ‘estensiva’ colliderebbe, infatti, con i generali principi interpretativi, in virtù dei quali una disciplina normativa deve essere riguardata nel complesso delle sue disposizioni, nel contesto sistematico di riferimento e secondo canoni di logica.
Essa non determinerebbe (solo) l’ampliamento (certamente possibile) della disciplina di favore dettata dalla normativa statale (in precipua funzione di decongestionamento della viabilità urbana senza consumo del suolo mediante creazione di ulteriori volumetrie fuori terra), per agevolare (comunque entro limiti precisi) la realizzazione di parcheggi pertinenziali, ma determinerebbe lo svuotamento dei principi fondamentali contenuti nella l. n. 122/1989 –oltre che nel d.p.r. n. 380/2001–, ponendosi, così, in contrasto con tutte le disposizioni di legge volte a garantire un armonioso ed ordinato sviluppo del territorio.
Oltre a confliggere con le disposizioni contenute nella legislazione statale di riferimento, essa risulterebbe, peraltro, anche illogica: non è ipotizzabile che il pianificatore locale possa indiscriminatamente derogare alla disciplina primaria per consentire la realizzazione in deroga di cubature esterne da destinare a parcheggio, posponendo una pluralità di interessi pubblici e privati rilevanti e tutelati dall’ordinamento ad un interesse che, seppur rilevante, non può, di certo, essere considerato sempre prioritario.
Ciò posto, l’art. 4 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni (avente, all’evidenza, natura regolamentare, suscettiva di generale e reiterata applicazione in rapporto al manifestarsi delle attività edificatorie), laddove interpretato nel senso di consentire (anche) la realizzazione di parcheggi pertinenziali parzialmente fuori terra non computabili nella volumetria edificabile, va, dunque, disapplicato dall’adito giudice amministrativo, alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nonché in omaggio al principio di gerarchia delle fonti (cfr. Cons. Stato secondo cui si tratterebbe non già di una disapplicazione in senso proprio, bensì “del risultato conseguente alla ricerca della normativa applicabile al caso concreto, in naturale applicazione dei principi che regolano i rapporti tra le fonti del diritto”), in quanto confliggente con la richiamata disciplina statale di rango primario; cosicché è con esclusivo riguardo al parametro di giudizio da quest’ultima fornito che i provvedimenti impugnati vanno sindacati e, quindi, reputati in concreto legittimi, in quanto recanti determinazioni inibitorie e declinatorie coerenti con l’anzidetta disciplina statale di rango primario.

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5. A quanto sopra è appena il caso di soggiungere, ad ulteriore ripudio delle tesi attoree, che, anche a voler ammettere, per assurdo, che il garage abusivo de quo fuoriuscisse rispetto al piano di campagna nella sua originaria conformazione per non più dei cm 80 consentiti dall’art. 4 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni, esso non avrebbe potuto considerarsi perciò solo legittimo.
Tanto, alla stregua di un duplice ordine di considerazioni.
   a) Innanzitutto, perché la disposizione pianificatoria dianzi richiamata assimila ai manufatti interrati i manufatti fuoriuscenti dal piani di campagna entro il limite di quota pari a cm 80 ai soli fini del computo della superficie utile, e non anche della volumetria.
   b) Poi, perché, ad opinare diversamente, la disposizione in parola confliggerebbe col dettato e con la ratio dell’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989.
In particolare, a tenore della richiamata disposizione legislativa: «I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi, ove i piani urbani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente».
Con riguardo a tale norma, la giurisprudenza ha chiarito che la sfera applicativa delle agevolazioni da essa contemplate, in considerazione delle finalità della legge e in relazione al suo carattere eccezionale e derogatorio, non può estendersi al di fuori delle ipotesi normativamente predeterminate (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2006, n. 1608).
Ha, conseguentemente, statuito che la prevista deroga agli strumenti urbanistici è da reputarsi operante, solo quando i parcheggi siano realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali ubicati al piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi –e, quindi, i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche–, se non vengano a ciò adibiti i locali (preesistenti) ubicati al piano terra di un fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei fabbricati (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2004, n. 1662; 29.03.2006 n. 1608; sez. IV, 11.11.2006, n. 6065; 26.09.2008 n. 4645; TAR Lazio, Roma, sez. I, 16.04.2008, n. 3259).
Ora, la nozione di “sottosuolo” postulata dal citato art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989 non può che considerarsi di stretta interpretazione, non potendo attingere le ipotesi –contemplate dall’art. 4 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni– di parcheggi parzialmente fuori terra (sia pure per non oltre cm 80 rispetto al piano di campagna), ossia, in sostanza, seminterrati.
Una opposta interpretazione ‘estensiva’ colliderebbe, infatti, con i generali principi interpretativi, in virtù dei quali una disciplina normativa deve essere riguardata nel complesso delle sue disposizioni, nel contesto sistematico di riferimento e secondo canoni di logica.
Essa non determinerebbe (solo) l’ampliamento (certamente possibile) della disciplina di favore dettata dalla normativa statale (in precipua funzione di decongestionamento della viabilità urbana senza consumo del suolo mediante creazione di ulteriori volumetrie fuori terra), per agevolare (comunque entro limiti precisi) la realizzazione di parcheggi pertinenziali, ma determinerebbe lo svuotamento dei principi fondamentali contenuti nella l. n. 122/1989 –oltre che nel d.p.r. n. 380/2001–, ponendosi, così, in contrasto con tutte le disposizioni di legge volte a garantire un armonioso ed ordinato sviluppo del territorio.
Oltre a confliggere con le disposizioni contenute nella legislazione statale di riferimento, essa risulterebbe, peraltro, anche illogica: non è ipotizzabile che il pianificatore locale possa indiscriminatamente derogare alla disciplina primaria per consentire la realizzazione in deroga di cubature esterne da destinare a parcheggio, posponendo una pluralità di interessi pubblici e privati rilevanti e tutelati dall’ordinamento ad un interesse che, seppur rilevante, non può, di certo, essere considerato sempre prioritario.
Ciò posto, l’art. 4 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni (avente, all’evidenza, natura regolamentare, suscettiva di generale e reiterata applicazione in rapporto al manifestarsi delle attività edificatorie: sul punto, cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2013, n. 4607; sez. III, 16.04.2014, n. 1955; sez. IV, 17.11.2015, n. 5235; 19.01.2018, n. 332; TAR Lazio, Roma, sez. II, 04.01.2016, n. 25; TAR Campania, Salerno, sez. II, 07.02.2017, n. 215), laddove interpretato nel senso di consentire (anche) la realizzazione di parcheggi pertinenziali parzialmente fuori terra non computabili nella volumetria edificabile, va, dunque, disapplicato dall’adito giudice amministrativo, alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nonché in omaggio al principio di gerarchia delle fonti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.01.1992, n. 154; sez. VI, 29.04.2005, n. 2034; 02.03.2009, n. 1169; sez. IV, 16.02.2012, n. 812, secondo si tratterebbe non già di una disapplicazione in senso proprio, bensì “del risultato conseguente alla ricerca della normativa applicabile al caso concreto, in naturale applicazione dei principi che regolano i rapporti tra le fonti del diritto”), in quanto confliggente con la richiamata disciplina statale di rango primario; cosicché è con esclusivo riguardo al parametro di giudizio da quest’ultima fornito che i provvedimenti impugnati vanno sindacati e, quindi, reputati in concreto legittimi, in quanto recanti determinazioni inibitorie e declinatorie coerenti con l’anzidetta disciplina statale di rango primario.
6. A questo punto, osserva il Collegio che gli scrutinati rilievi di non conformità urbanistica dell’intervento rispetto alle previsioni degli artt. 74 e 77 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni ed al paradigma normativo vigente in materia di parcheggi pertinenziali, nonché di inammissibilità della ‘sanatoria con prescrizioni’ (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.6.a-c) costituiscono, in rapporto a quelli ulteriori –di mancata individuazione dell’appartamento in rapporto di pertinenzialità col garage, di incongruenza tra la documentazione grafica e fotografica esibita dalla Di Do., di inosservanza delle distanze minime tra fabbricati e di omesso pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.6.d-g)– nuclei motivazionali del tutto autosufficienti e si rivelano, quindi, suscettibili di sorreggere, di per sé, il provvedimento declinatorio del 01.03.2018, prot. n. 15217.
Fondandosi, quest’ultimo, su una motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli profili su cui esso risulta basato avrebbe potuto comportare l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio del medesimo (cfr., in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2882; 08.06.2007, n. 3020; sez. V, 28.12.2007, n. 6732; sez. IV, 10.12.2007, n. 6325; sez. V, 17.05.2018, n. 2960; TAR Lazio, Roma, sez. I, 08.01.2008, n. 73; sez. II, 28.01.2008, n. 608; 10.03.2008, n. 2165; 23.04.2008, n. 3505; 14.05.2008, n. 4127; 01.07.2008, n. 6346; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.03.2008, n. 1102; Salerno, sez. II, 18.03.2008, n. 313; Napoli, sez. I, 17.06.2008, n. 5943; sez. III, 09.09.2008, n. 10065; sez. V, 05.08.2008, n. 9774; sez. VII, 06.08.2008, n. 9861; sez. I, 07.10.2008, n. 13437; sez. VIII, 05.05.2011, n. 2485; 01.09.2011, n. 4272; 26.04.2013, n. 2162; 09.10.2013, n. 4520; 06.03.2014, n. 1370; Salerno, sez. II, 23.03.2015, n. 660; Napoli, sez. VIII, 02.07.2015, n. 3483; TAR Liguria, Genova, sez. II, 11.04.2008, n. 543; 26.11.2008, n. 2041; sez. IV, 12.11.2013, n. 2511; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 27.10.2008, n. 1847; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 17.06.2008, n. 314; Bologna, sez. I, 01.02.2017, n. 54; TAR Puglia, Bari, sez. I, 11.10.2012, n. 1756; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 30.05.2013, n. 1193).
Una simile implicazione demolitoria risulta neutralizzata dalla circostanza che l’operato dell’amministrazione si è rivelato immune da vizi, laddove correttamente è stata rilevata l’insussistenza delle condizioni di conformità urbanistico-edilizia in rapporto alle previsioni degli artt. 74 e 77 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni ed al paradigma normativo vigente in materia di parcheggi pertinenziali, nonché l’inaccoglibilità della ‘sanatoria con prescrizioni
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.05.2019 n. 860 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso civico generalizzato, la richiesta massiva non va rigettata perché «intralcia» l'azione della PA.
L'accesso civico generalizzato non è soggetto ai limiti previsti dalla legge 241/1990, e non richiede pertanto la titolarità di un interesse strumentale alla tutela della posizione giuridica del richiedente. Si tratta di una forma di accesso ben più ampia di quella prevista dalla legge sul procedimento amministrativo e risulta azionabile da chiunque, senza la previa dimostrazione della sussistenza di un interesse attuale e concreto per la tutela di situazioni rilevanti, senza dover motivare la richiesta e con la sola finalità di consentire una pubblicità diffusa e integrale dei dati, dei documenti e delle informazioni che sono considerati, in base alle norme, come pubblici e quindi conoscibili.

Questo il principio che ha affermato il TAR Campania-Napoli, Sez. VI, con la sentenza 26.05.2019 n. 2486, nell'esaminare il ricorso di un cittadino contro il diniego di un'istanza di accesso particolarmente ampia e diffusa, avente a oggetto un lungo elenco di documenti in materia edilizia (si veda anche Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 28 maggio).
Il fatto
Per tutelare la propria posizione giuridica rispetto a un altro giudizio in corso, il ricorrente ha chiesto al Comune copia:
   • di tutte le licenze commerciali di qualunque natura rilasciate dall'ente locale;
   • di tutti i certificati di agibilità di dette attività commerciali (alberghi, ristoranti, negozi, eccetera);
   • delle domande di condono non ancora evase ovvero a cui non è stata ancora concessa la sanatoria in relazione a immobili in cui vengono esercitate attività commerciali per le quali è stata rilasciata licenza di commercio;
   • di tutte le continuità d'uso rilasciate per immobili sottoposti a pratica di condono non ancora esaminata e concessa.
La richiesta è estremamente vasta e indefinita, tanto da indurre il Comune a opporre un diniego motivato dal fatto che l'accoglimento dell'istanza sarebbe stata una causa d'intralcio al corretto disimpegno dell'azione amministrativa.
Inoltre, secondo l'ente una simile istanza massiva non può essere rispondente al soddisfacimento di un interesse con valenza pubblica, ma appare confinata a un mero bisogno conoscitivo di carattere egoistico e individuale.
L'analisi della Tar
Per quanto riguarda l'intralcio all'azione amministrativa che potrebbe effettivamente comportare, un'istanza di accesso riguardante una mole smisurata di documenti, il Tar eccepisce che il Comune ha motivato in modo insufficiente l'atto di diniego, senza cioè indicare l'eventuale pregiudizio arrecato a interessi pubblici o privati, e facendo un generico riferimento a «un carico di lavoro per l'amministrazione in grado di interferire con il buon funzionamento della stessa».
Tenuto conto di ciò, l'ente pubblico non avrebbe dovuto procedere al rigetto definitivo dell'istanza, bensì attivare un dialogo formale con il soggetto interessato, rappresentando a quest'ultimo l'esigenza di delimitare il proprio ambito di conoscenza entro limiti più contenuti. Di conseguenza, il Tar ha annullato il provvedimento impugnato, ordinando una nuova interlocuzione procedimentale tra il Comune e il richiedente con le finalità sopra enunciate (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.05.2019).

INCARICHI PROFESSIONALIIl Comune deve l’onorario all'avvocato anche se l'impegno di spesa è scoperto.
Non è nullo l'impegno di spesa assunto dal Comune nei confronti di un avvocato senza copertura finanziaria, se l'incarico per la partecipazione dell'ente locale a una controversia giudiziaria è stato deliberato.
La Corte di Cassazione - Sez. I civile, con la ordinanza 22.05.2019 n. 13913, ha rigettato il ricorso di un Comune che si opponeva al pagamento di un maggior importo per il compenso professionale derivante da patrocinio. Le spese di giudizio non sono, infatti, determinabili a priori e vanno coperte attraverso l'imputazione al capitolo di bilancio «spese processuali».
La copertura
Non ha avuto quindi rilievo in termini di illegittimità che l'avvocato sia stato incaricato con determina del responsabile dell'ufficio amministrativo comunale il quale rinviava la copertura e la determinazione del compenso all'approvazione del bilancio di previsione e al progetto di parcella da trasmettere a cura del legale unitamente al parere di congruità dell'ordine degli avvocati.
Invocato l'articolo 191 del Tuel, a sostegno della tesi dell'invalidità della determina in assenza di corrispondente impegno di spesa, il Comune -dice la Cassazione- avrebbe dovuto dimostrare i punti dolenti dell'iter amministrativo seguito per l'attribuzione dell'incarico senza previa determinazione del compenso e del successivo conseguente stanziamento di risorse per pagare la prestazione professionale.
La forma scritta
Il Comune sosteneva, inoltre, l'invalidità dell'atto di conferimento dell'incarico anche per l'assenza della forma scritta -richiesta ad substantiam per gli atti della Pa- sulla determinazione del compenso da riconoscere al professionista. I giudici di legittimità oltre ad aver rilevato l'indeterminabilità preventiva di quanto dovuto per il patrocinio sul punto della forma scritta sembrano accogliere l'argomento del controricorso secondo il quale la stipula per iscritto della procura alle liti integra la forma prescritta del contratto di patrocinio.
Il compenso
La successiva determinazione da parte dell'ente del compenso, all'atto di approvazione dei capitoli di spesa, non è esplicitamente illustrata dal Comune per giustificare la congruità del compenso e soprattutto la vincolatività di tale determinazione. Non è stata fornita la dovuta prova documentale di un accordo vincolante sul punto del compenso tra ente locale e avvocato. Non poteva quindi lamentarsi il Comune per la mancata preventiva determinazione del compenso professionale in caso di procura alle liti in quanto non scatta la nullità delle delibere degli enti locali per omissione dell'indicazione della spesa.
Sono, infatti, affette da nullità quelle che implicano spese certe e definitive. E non quelle che comportano spese non determinabili. Neanche rileva sulla legittimità della notula presentata dal professionista con visto di congruità dell'ordine che vi sia stata una copertura per un compenso inferiore in base al bilancio successivamente approvato all'incarico.
Niente impedisce -anche a fronte dell'utilità derivata dai compiti professionali svolti a vantaggio del Comune- che si tratti di pagamento parziale del compenso non definito con liquidazione successiva nella sua interezza e in rispondenza alle tariffe professionali (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2019).
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MASSIMA
10. Con l'unico motivo di ricorso il Comune di Lariano contesta la decisione del tribunale perché fondata su una lettura esclusivamente privatistica dell'incarico professionale e non ha considerato, disattendendo così oltre al dettato legislativo menzionato nella rubrica del ricorso, anche l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. S.U. n. 13831 del 25.06.2005 e seguenti) secondo cui gli enti pubblici possono assumere validamente e vincolativamente obbligazioni nei confronti di un professionista solo se la delibera di affidamento dell'incarico professionale contenga la determinazione dell'ammontare del compenso dovuto e dei mezzi per farvi fronte.
La inosservanza di tali prescrizioni determina la nullità, rilevabile di ufficio, della delibera che si estende al contratto di opera ed esclude la sua idoneità a costituire titolo per il pagamento del compenso. Nel caso di specie secondo il Comune ricorrente è pacifico che non sia intervenuto alcun accordo per la determinazione del compenso e pertanto la domanda di pagamento di una somma ulteriore rispetto a quella corrisposta doveva essere respinta.
11. Con il controricorso l'avv. Fi. eccepisce l'inammissibilità del motivo di ricorso rilevando che la nullità derivata del contratto di opera professionale non è mai stata eccepita o rilevata nel corso del giudizio. Nel merito l'avv. Fi. rileva che anche se il giudice del merito avesse verificato di ufficio la validità dell'obbligazione assunta dal Comune ai sensi dell'art. 191 T.U.E.L., unica norma fra quelle richiamate dal ricorrente ancora in vigore, avrebbe riscontrato che:
   a) la determina comunale di conferimento di incarico n. 242 del 01.06.2006 attesta la volontà dell'ente locale di richiedere al professionista la sua prestazione d'opera;
   b) sussiste una stipulazione in forma scritta costituita dalla procura alle liti che, secondo la giurisprudenza (Cass. civ. sez. II, n. 10707 del 15.05.2014), integra i requisiti della forma scritta ad substantiam del contratto di patrocinio;
   c) non è mancata la determina di impegno di spesa da parte dell'ente locale dato che il Comune con la determina n. 192 del 27.07.2006 ha provveduto in tal senso se pure in misura insufficiente rispetto alla richiesta di compenso del professionista e ha, ai sensi del combinato disposto dell'art. 191, c. 4, e dell'art. 194 del T.U.E.L., assunto una valida obbligazione per l'intero compenso parzialmente fuori bilancio ma ugualmente vincolante per la utilità e l'arricchimento che ne sono derivati all'amministrazione comunale.
12. Come rilevato dal Procuratore Generale, la validità della delibera secondo i parametri normativi di cui al T.U.E.L. (art. 191), come costantemente interpretati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. 13831/2005, 10640/2007, 18144/2008, 26657/2014) non è venuta in discussione nel giudizio di merito in quanto non si è trattato di un profilo sollevato d'ufficio dai giudici del merito né prospettato dalla difesa del Comune.
Ciò non impedisce il rilievo in questo giudizio di tale questione - che appartiene ab origine, e sia pure indirettamente, al thema decidendum della controversia, consistente nella determinazione del compenso spettante al professionista e nella verifica e della validità dell'impegno assunto dalle parti.
Tuttavia in conformità a quanto argomentato dal P.G. nella sua requisitoria deve rilevarsi che spettava al Comune -nel momento in cui ha voluto prospettare tale questione, proponendo su di essa il ricorso per cassazione,- consentire la verifica del procedimento di formazione della volontà dell'ente sia per ciò che riguarda la decisione del Comune di conferire l'incarico professionale all'avv. Fi. (accertamento che è ormai incontroverso sulla base della più volte citata determinazione n. 242/2006 e del successivo rilascio della procura alle liti). Sia per ciò che riguarda l'impegno di spesa conseguente all'incarico.
Ma sotto questo ulteriore profilo la proposizione dell'eccezione di nullità avrebbe richiesto, da parte del Comune, una acquisizione documentale che non vi è stata nel giudizio di merito laddove l'amministrazione comunale per giustificare la corresponsione di un compenso inferiore a quello corrispondente al giudizio di congruità dell'ordine professionale avrebbe dovuto dimostrare il contenuto e la vincolatività dell'accordo relativo al compenso e del suo corrispondente recepimento nella determinazione relativa all'impegno di spesa. Quanto alla mancanza di un accordo preventivo sul compenso, ritenuta esplicitamente dal giudice dell'appello, il Comune non ha proposto impugnazione. Quanto all'impegno di spesa, anche in questa fase del giudizio, è rimasto non chiarito quale sia stato l'importo assunto definitivamente dal Comune con la determinazione n. 192 del 27.07.2006.
Né è dirimente considerare, come lo stesso avv. Fi. riconosce nel controricorso, che l'impegno di spesa assunto con la determinazione in questione del luglio 2006 fu inferiore alla successiva richiesta contenuta nella parcella vistata dal Consiglio dell'ordine del 26.09.2006. Infatti ben potrebbe essere stato l'impegno di spesa determinato nella determinazione del precedente mese di luglio corrispondente a un primo e non esaustivo esborso previsto dal Comune in funzione della attività del professionista.
A tale proposito va richiamata la giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. S.U. n. 11098 del 26.07.2002) secondo cui
la nullità di diritto per gli impegni di spesa assunti senza attestazione della copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio finanziario, non afferisce alle deliberazioni aventi ad oggetto la partecipazione degli enti territoriali a controversie giudiziarie, tenuto conto che le spese giudiziarie non sono concettualmente determinabili all'atto della relativa assunzione e che le stesse sono da imputare al capitolo di bilancio "spese processuali", concernente in genere gli oneri per le liti attive e passive, trovando in tale voce sufficiente copertura.
In generale, secondo la giurisprudenza di legittimità,
la nullità, sancita dalla legge, per le delibere degli enti locali come conseguenza dell'omessa indicazione della spesa ivi prevista e dei mezzi per farvi fronte, riguarda solo le delibere implicanti un esborso di somme certe e definitive, e non è applicabile nel caso di spesa non determinabile al momento della relativa assunzione (Cass. civ., sez. III, n. 17056 dell'11.07.2017) e sotto questo profilo è pacifico che con la determina del giugno 2006 si diede atto della volontà dell'amministrazione di riconoscere la notula definitiva con il visto di congruità del C.O.A. e di disporre la copertura finanziaria a seguito dell'approvazione del bilancio di previsione per l'anno 2006.

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva - Mediante modifica di destinazione d'uso di immobili - Frazionamento di un complesso immobiliare - Fattispecie: albergo o struttura assimilata per finalità turistico-ricettiva adibita a residenziale - Art. 11, L.R. Emilia Romagna n. 16/2004 - Artt. 30, 44, D.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Configura il reato di lottizzazione abusiva la modifica di destinazione d'uso di immobili oggetto di un piano di lottizzazione attraverso il frazionamento di un complesso immobiliare, di modo che le singole unità perdano la originaria destinazione d'uso alberghiera per assumere quella residenziale, atteso che tale modificazione si pone in contrasto con lo strumento urbanistico costituito dal piano di lottizzazione.
Quel che rileva, dunque, non è il regime proprietario della struttura, ma la configurazione della stessa (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o struttura assimilata per finalità turistico-ricettiva (come nel caso di specie), ed una configurazione siffatta deve essere caratterizzata dalla "concessione in locazione delle unità immobiliari ad una generalità indistinta ed indifferenziata di soggetti e per periodi di tempo predeterminati". Difettando la quale, non si ha più destinazione/utilizzazione (per l'appunto) turistico-ricettiva, bensì residenziale
(per un diffuso richiamo giurisprudenziale, tra le altre, Sez. 3, n. 4248 del 15/01/2019, Diana+altri).

...
Reati urbanistici - Case e appartamenti per vacanze ed intento lottizzatorio abusivo - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Pianificazione del territorio - Violazione di legge e della volontà della P.A..
In materia urbanistica, configura il reato di lottizzazione abusiva aggirare la norma di cui all'art. 11, L.R. Emilia Romagna n. 16/2004, vendendo singoli appartamenti con finalità turistico-ricettiva a soggetti privati, che a questo punto nessuno potrebbe vietare di stabilirsi in via permanente, in spregio allo spirito della legge e della volontà della P.A. al momento della pianificazione del territorio, appare evidente sintomo dell'intento lottizzatorio abusivo, alla luce della definizione dell'art. 30, d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.05.2019 n. 22038 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Lottizzazione cartolare.
Non si può escludere che il contratto di locazione, in quanto costitutivo di un diritto personale di godimento in capo al conduttore, assicuri a quest’ultimo la disponibilità materiale e il godimento dell’immobile e pertanto possa integrare, al pari degli atti di compravendita, uno degli elementi costitutivi della fattispecie della lottizzazione cartolare (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 3215 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
8.1. Occorre premettere alla disamina dei rilievi sollevati dalla parte appellante che il provvedimento impugnato in prime cure, siccome risalente ad epoca antecedente all’intervento del testo unico edilizia, d.P.R. n. 380 del 06.06.2001, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 20.10.2001, soggiace alla disciplina, ratione temporis vigente, di cui alla legge n. 47 del 1985, il cui art. 18 (rubricato “Lottizzazione”) non presenta però significative differenze rispetto alla normativa intervenuta dopo pochi mesi con la promulgazione del Testo unico sull’edilizia (D.P.R. n. 380/2001 e successive modifiche ed integrazioni).
Ne consegue che la disamina dei rilievi sollevati, sebbene calibrati con riferimento al citato articolo 18, ben può giovarsi delle riflessioni giurisprudenziali maturate con riguardo alla disciplina posteriore di cui al menzionato Testo unico.
Orbene,
la lottizzazione abusiva è oggi disciplinata dall’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 06.06.2001, dal quale si evince che tale illecito si consuma nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
In particolare, a norma del succitato art. 30, comma 1 “
si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
E’ ben noto tuttavia che
la fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di c.d. lottizzazione “materiale” o “sostanziale”, che si realizza attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori.
In particolare, come evidenziato da questo Consiglio,
siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa in rapporto agli standard apprestabili (Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416).
Per altro verso, dalla formulazione della medesima norma è possibile evincere che
tale illecito può assumere anche le sembianze della cd. lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
8.2. Premesso il doveroso inquadramento giudico della vicenda di causa, non resta che transitare alla disamina dei rilievi di parte appellante, evidenziando che, dal tenore del provvedimento impugnato, è dato inferire che l’Amministrazione ha configurato la fattispecie lottizzatoria nella sua duplice veste sia materiale, alla luce delle consistenze edilizie riscontrate in loco, sia cartolare, integrata dall’adozione degli “atti equivalenti” di cui discorre la norma con conseguente frazionamento del terreno in lotti soggetti a distinto ed autonomo godimento.
8.3. Non coglie nel segno il primo motivo di appello, con il quale si lamenta che il Tribunale avrebbe dovuto attribuire rilievo patologico alla mancata notifica nei riguardi del proprietario/ricorrente di primo grado dell’ordinanza impugnata, in quanto la notificazione, in ossequio ad un consolidato insegnamento giurisprudenziale, consiste in un’attività partecipativa, di integrazione dell’efficacia, estrinseca alla formazione della volontà dell’Amministrazione.
Proprio in ordine alla denunciata omessa notificazione ad uno dei comproprietari di un’ordinanza comunale che contestava la realizzazione della fattispecie della lottizzazione abusiva, questo Consiglio, di recente, ha confermato “la diffusa giurisprudenza di primo grado secondo cui tale omissione non incide sulla legittimità del provvedimento repressivo, ma unicamente sulla sua efficacia, determinandone l’inopponibilità al comproprietario pretermesso, ed eventualmente incidendo sull’opponibilità della successiva acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale (questione, quest’ultima, che in ogni caso deve essere lo stesso soggetto pretermesso a far valere) (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2016, n. 26).
8.4. Infondato risulta anche il secondo motivo di appello, con cui si insiste nel ravvisare il vizio di eccesso di potere assumendo l’evidente falsità ed errore nei presupposti del provvedimento.
L’appellante, infatti, ritiene che i tre contratti di locazione stipulati a partire dal 1994, che hanno determinato la divisione del terreno oggetto della controversia in quattro lotti, non possono essere equiparati alla vendita, né fatti rientrare nella categoria dei c.d. “atti equivalenti” che il comma 7 dell’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001 equipara alla vendita.
In realtà l’attività negoziale è presa in considerazione dalla norma quale strumento per il perseguimento dell’intento lottizzatorio e, quindi, quale indice della sussistenza di tale intento, il quale deve peraltro trovare conferma anche in altre circostanze, che rendano evidente la non equivocità della destinazione a scopo edificatorio; ne consegue che
non è decisiva la qualificazione giuridica dell’attività negoziale secondo gli schemi contemplati dalla disciplina civilistica quanto piuttosto la sua possibile preordinazione allo scopo edificatorio.
Non si può escludere che il contratto di locazione, in quanto costitutivo di un diritto personale di godimento in capo al conduttore, assicura a quest’ultimo la disponibilità materiale ed il godimento dell’immobile e pertanto può integrare, al pari degli atti di compravendita, uno degli elementi costitutivi della fattispecie della lottizzazione cartolare.
Per quanto poi attiene alla posizione giuridica del proprietario della res data in locazione non deve essere trascurato il fatto che questi assume, dopo la stipula del contratto, doveri di controllo, cura e vigilanza in modo da non solo mantenere un effettivo potere fisico sull’entità immobiliare locata, ma anche di avvedersi della realizzazione dell’abuso così da impedirne la realizzazione o agevolarne la rimozione non appena venutone a conoscenza. La condizione giuridica che compete al locatore ed il coacervo di poteri che ne derivano fanno sì che questi ben poteva avvedersi dell’abusiva trasformazione dei terreni in senso edilizio e ciò consente di escludere, in termini di adeguata verosimiglianza, che possa ravvisarsi l’asserita buona fede dell’appellante.
Né la fattispecie di cui all’art. 30 richiede che l’Amministrazione effettui una indagine sulla ricorrenza dell’elemento psicologico della mala fede.
Si afferma, infatti, da parte di condivisibile giurisprudenza che è sì necessaria l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario, dal quale possa desumersi la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere (Consiglio di Stato, sez. VI, 18.03.2019, n. 1759), ma occorre prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti giacché l’illecito si fonda sul dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 26/2016 cit.).
Ne consegue che nemmeno possono essere valorizzate in questa sede le pronunce del giudice civile, assunte a seguito delle procedure di sfratto attivate dai proprietari del fondo nei riguardi dei conduttori, così come documentato nel corso del presente giudizio, trattandosi di vicende che attengono ai rapporti interprivati e che alcun rilievo hanno ai fini della verifica della fattispecie lottizzatoria.
8.5. Infondate sono anche le ulteriori critiche sollevate dall’appellante, suscettibili di trattazione congiunta per il loro stesso tenore. Sul punto, l’appellante contesta che sussistano i presupposti per configurare la fattispecie lottizzatoria nella sua veste materiale per la ridotta consistenza delle opere rinvenute sul terreno oltre che per le modeste dimensioni dei lotti derivanti dalla stipula dei contratti di locazione.
Anche tali rilievi non risultano convincenti, dovendosi quindi confermare le osservazioni rese dal Tribunale conducenti alla legittimità dell’ordinanza impugnata in prime cure.
Basti pensare al fatto che le opere edilizie insistenti sulle aree sono numerose e significative sul piano edilizio (ad es. tettoie, box con fornelli e acqua corrente adibiti ad ufficio, manufatto in legno di mt. 15 x 4, etc.), tanto che appaiono oggettivamente incompatibili con la destinazione agricola dell’area così da integrare la contestata fattispecie lottizzatoria.
Gli interventi che danno luogo a lottizzazione possono, peraltro, sostanziarsi tanto in opere edilizie quanto in opere di urbanizzazione, ossia, ad esempio, nella realizzazione di manufatti, soprattutto se suscettibili di stravolgere, per le relative caratteristiche, la destinazione del suolo, siccome avulsi da ogni connessione funzionale con quest’ultima (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2010, n. 3475).
La fattispecie richiede quindi una visione globale di approccio alla fattispecie (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.03.2013, n. 1809) che prescinda da una valorizzazione rapsodica ed atomistica dei singoli manufatti, siccome destinati ad assumere rilievo nella loro complessiva consistenza.
Nel caso di specie viene in evidenza che il fondo è stato interessato, oltre che dalla stipula di atti interprivati in grado di provocarne il frazionamento in termini funzionali, dalla realizzazione di opere edilizie che, come correttamente osservato dal Tribunale, appaiono complessivamente preordinati alla destinazione dei singoli lotti per finalità non coerenti con la originaria vocazione agricola dell’area.
Tali concorrenti profili fattuali della vicenda sono stati congiuntamente valorizzati nel quadro motivazionale dell’atto impugnato in prime cure, ove si discorre di “atti equivalenti” alludendo così proprio ai contratti di locazione a suo tempo stipulati dal signor Fa..
Ne consegue che non può essere condiviso quanto lamentato in appello a proposito dell’asserita discordanza tra la motivazione dell’ordinanza e le considerazioni del Tribunale a sostegno della decisione reiettiva, in entrambi i casi infatti focalizzate sui contratti di locazione intercorsi tra la proprietà e i lottisti.
9. In conclusione, l’appello in esame è infondato e deve essere respinto.

URBANISTICAIl piano di lottizzazione (o altro strumento di pianificazione attuativa) e lo schema di convenzione ad esso allegato costituiscono atti distinti ma giuridicamente connessi, la cui approvazione non può che avvenire contestualmente da parte dell'unico organo al quale, nell'ambito dell'ente locale, è attribuito l'indirizzo politico-amministrativo in relazione alla pianificazione del territorio, e cioè da parte del Consiglio comunale.
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Il Collegio osserva che secondo quanto ormai pacificamente affermato dalla giurisprudenza, «Il piano di lottizzazione (o altro strumento di pianificazione attuativa) e lo schema di convenzione ad esso allegato costituiscono atti distinti ma giuridicamente connessi, la cui approvazione non può che avvenire contestualmente da parte dell'unico organo al quale, nell'ambito dell'ente locale, è attribuito l'indirizzo politico-amministrativo in relazione alla pianificazione del territorio, e cioè da parte del Consiglio comunale» (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09/10/2017, n. 2366; Consiglio di Stato sez. IV, 03/01/2017, n. 4; Consiglio di Stato sez. IV, 15/05/2017, n. 2256; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 18/04/2017, n. 591).
Considerato, dunque, che nella fattispecie la determinazione finale sulla chiesta approvazione del proposto Piano di lottizzazione è stata adottata dal Responsabile ad interim dello Staff Edilizia ed Urbanistica e non dal Consiglio Comunale di Pace del Mela, il dedotto vizio di incompetenza è fondato e, per l’effetto, il ricorso va accolto e l’impugnato provvedimento va annullato (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 20.05.2019 n. 1201 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'affidamento di mansioni dirigenziali temporanee non incide sull'indennità di buonuscita.
La Suprema Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con l'ordinanza 17.05.2019 n. 13431, ha ribadito il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite in materia di liquidazione della buonuscita al dipendente pubblico cessato dal servizio con mansioni superiori, senza aver conseguito la qualifica di dirigente.
Più precisamente, le Sezioni Unite hanno risolto la controversia della giurisprudenza di legittimità statuendo che, nel regime di indennità di buonuscita spettante, ai sensi degli artt. 3 e 38 del Dpr 1031/1973, al dipendente pubblico cessato dal servizio con incarico dirigenziale temporaneo di reggenza, ai sensi dell’art. 52, Dlgs 165/2001, nella base di calcolo dell’indennità va considerato lo stipendio relativo alla qualifica di appartenenza e non quello corrisposto per il temporaneo esercizio delle mansioni di dirigente (Cass., Sez. Un., 14.05.2014, n. 10413; Cass. 24.11.2016, n. 24099).
Il caso in esame riguarda un dipendente pubblico che aveva intimato all’Inpdap il pagamento delle differenze retributive per le mansioni superiori svolte, diritto che gli era stato riconosciuto con sentenza passata in giudicato.
Il Tribunale di Benevento e, successivamente, la Corte d’Appello di Napoli avevano rigettato l’opposizione, avverso il decreto ingiuntivo, proposta dall’Inps. Secondo la Corte territoriale, in ossequio al principio espresso dalla stessa Cassazione con sentenza n. 9646/2012, l’indennità di buonuscita dei dipendenti statali, pur realizzando una funzione previdenziale, aveva natura retributiva e, alla luce del principio di proporzionalità di cui all’articolo 36 della Costituzione, doveva essere commisurata all’ultima retribuzione percepita, anche se relativa a mansioni superiori, purché svolte con pienezza di poteri e responsabilità.
L’Inps ha proposto ricorso per Cassazione contestando che l’espressione “stipendio” va riferita a quello maturato dal lavoratore alla data di cessazione del rapporto per la qualifica di appartenenza, non certo a quello percepito per incarichi di qualifica superiore a carattere temporaneo.
La Cassazione ha ritenuto il motivo fondato, ricordando che le Sezioni Unite sono intervenute a comporre il contrasto giurisprudenziale, formatosi all’interno della Sezione Lavoro, enunciando il principio di diritto in base al quale “nella base di calcolo dell’indennità va considerato lo stipendio relativo alla qualifica di appartenenza e non quello corrispondente per il temporaneo esercizio delle superiori mansioni di dirigente” (Sez. Un., 14.05.2014, n. 10413).
La successiva giurisprudenza, infatti, si è unanimemente conformata alla posizione delle Sezioni Unite, considerando come retribuzione, utile ai fini del calcolo delle prestazioni previdenziali erogate dall’Inps, unicamente lo stipendio lordo, eventuali assegni personali ed altre competenze a carattere fisso e continuativo, escludendo dal computo tutte le indennità ed i compensi corrisposti a titolo di trattamento accessorio, quali le differenze retributive per mansioni superiori, la cui peculiare disciplina, nel pubblico impiego contrattualizzato, è stata introdotta dall’articolo 25, Dlgs 80/1998 e, poi, trasfusa nell’articolo 52, Dlgs 165/2001.
Il legislatore ha inteso escludere che l’attribuzione di mansioni superiori possa avere alcun effetto sulla carriera del dipendente e ha limitato il diritto a percepire il trattamento economico corrispondente alla qualifica superiore, temporaneamente ricoperta, al periodo di svolgimento effettivo della prestazione.
Le relative attribuzioni stipendiali, pertanto, non dipendono dalla qualifica di appartenenza e dall’anzianità di servizio, ma costituiscono voci retributive collegate all’effettività ed alla durata della prestazione superiore e sono prive di effetti ai fini dell’inquadramento del lavoratore nella qualifica superiore.
D’altronde, riconoscere l’incidenza dell’incarico di reggenza sul calcolo dell’indennità di buonuscita, equivarrebbe ad attribuire un valore ultrattivo alle mansioni superiori, sia per il passato che per il futuro, dal momento che il diritto alla buonuscita si consegue quando la prestazione è cessata. Inoltre, si finirebbe per riconoscere implicitamente che, nella rotazione degli incarichi dirigenziali, possa essere favorito il dipendente che va in quiescenza durante lo svolgimento della reggenza, rispetto a chi ha svolto l’incarico in un momento diverso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019).

ATTI AMMINISTRATIVINiente risarcimento da ritardo se l'Ente può ancora provvedere.
Non può essere proposta l'azione di risarcimento per danno da ritardo sull'istanza di adeguamento delle tariffe, rivolta all'autorità d'ambito del servizio idrico, se quest'ultima può ancora provvedere.

Il TAR Sardegna, Sez. I, con la sentenza 10.05.2019 n. 399, fa il punto sulla fattispecie del danno da mero ritardo che causa danni non risarcibili ma solo indennizzabili.
Il fatto
La società affidataria della gestione del servizio idrico integrato in Sardegna, sulla base della convenzione stipulata con l'autorità d'ambito (oggi ente di governo dell'ambito della Sardegna, Egas), ha chiesto l'accertamento dell'illegittimità del silenzio dell'Egas in ordine alla mancata adozione dei provvedimenti, compresi quelli di adeguamento delle tariffe, occorrenti per formalizzare l'affidamento alla ricorrente della gestione della rete idrica. Ha domandato altresì la condanna dell'Egas al risarcimento del danno subito per il ritardo nell'adozione dei provvedimenti.
La giurisprudenza
L'articolo 2-bis della legge 241/1990, introdotto dall'articolo 7 della legge 69/2009, ha dato configurazione normativa al danno da ritardo, prima delineato dalla giurisprudenza amministrativa.
In base al comma 1 del predetto articolo «Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». Al «danno da ritardo» sono riconducibili l'ipotesi in cui sia stato tardivamente adottato il provvedimento richiesto, quella in cui il procedimento si sia concluso (tardivamente) con un provvedimento legittimo, ma negativo; e la mera inerzia dell'amministrazione, protratta oltre la durata del termine fissato per la conclusione del procedimento.
Le ultime due fattispecie integrano il danno da «mero ritardo», che prescinde dall'accertamento della spettanza del bene della vita finale.
La giurisprudenza ha riconosciuto rilevante l'inadempimento del generico dovere, sorto in relazione al «contatto procedimentale», e ha evidenziato come il danno possa consistere nelle perdite economiche, subite in conseguenza della scorrettezza del comportamento tenuto dalla amministrazione, indipendentemente dalla spettanza del bene della vita.
Dopo l'entrata in vigore dell'articolo 2-bis della legge 241/1990 essa ha apprezzato l'orientamento restrittivo: occorre accertare la spettanza del bene vita per poter riconoscere una tutela risarcitoria al danno da ritardo dell'azione amministrativa.
L'analisi del Tar
Secondo i giudici gli atti riservati all'autorità d'ambito, previsti dagli articoli 15, comma 7 e 39, della convenzione vigente tra Abbanoa Spa ed Egas, postulano dei contenuti che implicano valutazioni tecniche riservate, da effettuare dopo ulteriori e complessi accertamenti istruttori.
I provvedimenti da adottare costituiscono espressione di valutazioni tecnico-discrezionali per le quali si applicano svariate regole tecniche, caratterizzate anche dalla opinabilità nella scelta dei procedimenti tecnici da seguire.
Pertanto il giudice non può pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa e sulla spettanza del provvedimento favorevole e non può formulare una valutazione sostitutiva, sia pure soltanto a fini risarcitori.
I giudici sardi hanno sottolinea che, nel caso di attività amministrativa discrezionale e del danno da ritardo, serve un giudizio del giudice, che deve apprezzare in termini probabilistici l'attribuzione dell'utilità oggetto del provvedimento.
Ma quando, come nella fattispecie, l'amministrazione ha ancora la possibilità di provvedere il giudice non può sostituirsi alle valutazioni riservate alla Pa esprimendo un giudizio prognostico sulla spettanza del provvedimento e, quindi, sull'esito del procedimento in termini favorevoli per il privato. In questi casi l'azione risarcitoria è inammissibile, ma può essere riproposta solo dopo l'emanazione del provvedimento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.06.2019).
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SENTENZA
13. - Il ricorso è infondato.
14. - La ricorrente invoca l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990, secondo cui «Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento».
Come è noto, la norma disciplina il c.d. “danno da ritardo”, espressione con la quale ci si riferisce sia all’ipotesi in cui l’amministrazione abbia tardivamente adottato il provvedimento richiesto, sia all’ipotesi in cui il procedimento si sia concluso (tardivamente) con l’emanazione di un provvedimento negativo, pur se legittimo; sia, infine, all’ipotesi di mera inerzia dell’amministrazione, ossia il caso in cui l’inerzia dell’amministrazione si sia protratta oltre la durata del termine normativamente previsto per la conclusione del procedimento (le due ultime ipotesi integrano le figure del c.d. danno da “mero ritardo”).
Nell’esame della norma richiamata,
il riferimento all’ingiustizia del danno induce a ritenere che anche la fattispecie di responsabilità dell’amministrazione descritta dall’art. 2-bis sia inquadrabile nel modello aquiliano di cui all’art. 2043 c.c., che secondo l’indirizzo dominante (quantomeno nella giurisprudenza amministrativa, conforme alla sentenza della Cassazione n. 500 del 1999) rappresenta il punto di riferimento fondamentale per la responsabilità civile dell’amministrazione in tema di danni cagionati dall’illegittima attività amministrativa (per tutte, si veda Consiglio di Stato, Sez. V, 18.06.2018, n. 3730).
15. - Sicché,
ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria, incombe in capo alla ricorrente l’onere di dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi tipici della fattispecie di responsabilità, ossia:
   a) il fatto illecito costituito da una condotta antigiuridica della P.A., rappresentata dall’attività amministrativa illegittima;
   b) l’evento dannoso, e cioè il danno ingiusto rappresentato dalla lesione della situazione sostanziale protetta di cui il privato è titolare;
   c) il nesso di causalità tra illegittimità e danno;
   d) l’elemento soggettivo, nel senso che l’attività illegittima deve essere imputabile all’amministrazione (all’apparato amministrativo, come viene spesso precisato) a titolo di dolo o colpa.

Accanto agli elementi descritti,
la giurisprudenza richiede altresì (sulla scia della citata pronuncia della Cassazione del 1999) la verifica della spettanza del bene della vita che il privato intende acquisire alla propria sfera giuridica attraverso l’esercizio del potere e l’emanazione del provvedimento amministrativo richiesto (nonché, secondo certe ricostruzioni, oggetto sostanziale dell’interesse pretensivo fatto valere dal privato). Verifica che, secondo gli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati, deve essere condotta (nel caso di attività amministrativa discrezionale) attraverso la formulazione di un giudizio prognostico del giudice, che deve apprezzare in termini probabilistici l’attribuzione dell’utilità oggetto del provvedimento.
16. -
Anche nell’ipotesi di inerzia dell’amministrazione, la risarcibilità del danno derivante dalla violazione del termine per provvedere postula un’indagine circa la spettanza del provvedimento richiesto e, quindi, un esito del procedimento in termini favorevoli per il privato.
17. - E, anzi,
si deve sottolineare come il quadro normativo rilevante per l’esame della questione dei limiti entro i quali è ammesso il risarcimento del danno da ritardo impone di escludere la risarcibilità del danno da “mero ritardo”, riconducibile alla mera violazione del termine per la conclusione del procedimento [e ciò per entrambe le ipotesi: del danno lamentato per la violazione del termine procedimentale, in assenza dell’emanazione del provvedimento richiesto dal privato; del danno lamentato pur dopo un provvedimento negativo divenuto definitivo e incontestabile].
18. - In primo luogo, occorre tenere conto che la fattispecie del danno da mero ritardo è trattata dalla legge come fattispecie autonoma produttiva di danni, alla quale, nondimeno, la legge sul procedimento non ricollega un’obbligazione risarcitoria secondo la schema dell’art. 2043, ma solo un indennizzo (art. 2-bis, comma 1-bis: «Fatto salvo quanto previsto dal comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo […]»). Previsione, come noto, mai attuata, ma indicativa della separata considerazione riservata dall’ordinamento all’ipotesi del danno da mero ritardo (che, pertanto, potrà essere riconosciuto solo quando la disposizione legislativa troverà attuazione).
19. - Se, invece, si esamina la riconducibilità del danno da mero ritardo all’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 2-bis, cit., la valutazione negativa che investe la risarcibilità nel caso in cui la richiesta di provvedimento afferisca all’esercizio di poteri amministrativi discrezionali, trova fondamento, in specie, nel divieto per il giudice di pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati dall’amministrazione (art. 34, comma 2, del cod. proc. amm.); cui si ricollega la norma di cui all’art. 31, comma 3, in tema di azione avverso il silenzio, che consente al giudice di valutare la fondatezza della pretesa «solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione».
Per cui, sempre che si tratti di poteri discrezionali,
quando l’amministrazione (anche a seguito di accertamento dell’obbligo di provvedere in sede di accoglimento del ricorso contro il silenzio, come nel caso di specie) ha ancora la possibilità di provvedere, il giudice non può sostituirsi alle valutazioni riservate alla p.a. esprimendo un giudizio prognostico circa la spettanza del provvedimento. In questi casi, dunque, l’azione risarcitoria per il danno da ritardo è inammissibile e potrà essere riproposta solo dopo l’emanazione del provvedimento.
20. -
L’orientamento prevalente è conforme alla soluzione cui si è pervenuti, sottolineandosi come il risarcimento del danno da ritardo non può essere avulso da una valutazione concernente l’effettiva spettanza del bene della vita anelato dal privato, con la conseguenza che il presupposto dell’ingiustizia del danno, richiesto ai fini del risarcimento, si ritiene integrato soltanto ove risulti soddisfatto l’interesse pretensivo fatto valere dal privato (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.07.2018, n. 4260; Cons. Stato, Sez. IV, 08.02.2018, n. 825; Cons. Stato, Sez. IV, 17.01.2018, n. 240; Cons. Stato, Sez. IV, 23.06.2017, n. 3068; oltre a Cons. Stato, Ad. Plen., 15.09.2005, n. 7).
Il che comporta il riconoscimento che l’interesse alla tempestività dell’azione amministrativa non è configurabile come interesse autonomamente protetto ma assume una rilevanza meramente procedimentale, ed è, in quanto tale, insuscettibile di fondare una pretesa risarcitoria in assenza del riferimento all’interesse di natura pretensiva e al bene della vita sotteso.
Pertanto,
non è condivisibile la giurisprudenza secondo cui la disposizione dell’art. 2-bis, l. 241/1990 avrebbe riguardo anche alla tutela del bene della vita costituito dal tempo dell’azione amministrativa, avente natura sostanziale, autonoma e distinta dalla correlata situazione di interesse legittimo (Cons. Stato, Sez. V, 21.06.2013, n. 3407; Cons. Stato, Sez. V, 28.02.2011, n. 1271; Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, 04.11.2010, n. 1368), con conseguente risarcibilità del danno da mero ritardo.

EDILIZIA PRIVATA: Opera precaria finalizzata a consentire l’utilizzo non transitorio del bene.
In ambito edilizio anche la realizzazione di interventi strutturalmente precari, ma funzionalmente necessari per consentire l’utilizzo non transitorio del bene, vanno preceduti dal rilascio di un titolo idoneo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.05.2019 n. 1035 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4. Con la prima doglianza si assume l’illegittimità degli atti comunali impugnati, giacché a loro fondamento sarebbe stata posta la circostanza che i lavori realizzati mediante c.i.l.a., anche a sanatoria, non sarebbero ascrivibili ad attività di manutenzione straordinaria, ma rientrerebbero nell’attività di ristrutturazione edilizia, trattandosi della realizzazione di un insieme sistematico di opere che sarebbe assentibile soltanto mediante un permesso ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 (c.d. accertamento di conformità).
4.1. La doglianza è infondata.
Il provvedimento comunale del 27.09.2017 evidenzia l’avvenuta realizzazione nell’immobile di proprietà della ricorrente, tra gli altri interventi, della tamponatura delle aperture a piano seminterrato lato cortile interno, con conseguente modifica delle facciate, e di aperture di collegamento fra i depositi.
La parte ricorrente ha sostenuto che la tamponatura, consistente nella sovrapposizione esterna alla porta e a quasi tutte le finestre di un pannello rimovibile allo scopo di mettere in sicurezza l’area, non avrebbe determinato alcuna chiusura o rimozione definitiva di porte o finestre (all. 12 al ricorso).
Tuttavia,
va ribadito che in ambito edilizio anche la realizzazione di interventi strutturalmente precari, ma funzionalmente necessari per consentire l’utilizzo non transitorio del bene, vanno preceduti dal rilascio di un titolo idoneo (cfr., sul punto, TAR Lombardia, Milano, II, 07.02.2018, n. 354).
Da ciò discende che nella fattispecie de qua, avuto riguardo all’insieme delle opere realizzate, si è al cospetto di una ristrutturazione edilizia necessitante di un titolo abilitativo non surrogabile con una mera comunicazione di inizio lavori asseverata (c.i.l.a.).
L’esigenza di un titolo edilizio scaturisce anche dalla perdurante vigenza della dichiarazione di inagibilità del 27.07.2012, che espressamente impone di procedere alla previa ristrutturazione dell’immobile prima di poterne nuovamente ottenere l’agibilità (all. 4 al ricorso). Il mancato rispetto di un tale passaggio determina l’illegittimità delle attività edilizie poste in essere dalla ricorrente in base a delle c.i.l.a., peraltro tardive, in quanto relative ad opere già eseguite.
In senso opposto non rileva l’avvenuto rilascio del permesso di costruire in sanatoria n. 139/2017 del 29.06.2017 (all. 6 al ricorso), tenuto conto che nella relazione di sopralluogo (all. 3 del Comune) si chiarisce che i lavori effettuati risultano difformi anche dalle previsioni del predetto permesso in sanatoria, che comunque non contiene alcun riferimento né ai subalterni oggetto di intervento (ciò generando una obiettiva incertezza, visto che, come evidenziato al precedente punto 1, non tutte le unità immobiliari sono state dichiarate inagibili), né alla dichiarazione di inagibilità, che quindi non si può ritenere implicitamente superata.

APPALTI SERVIZIServizio idrico integrato, vietata la partecipazione di privati nella società in house
Non si può affidare in via diretta la gestione del servizio idrico integrato a una società in house con la partecipazione di capitali privati, sia pure non in grado di esercitare un'influenza determinante sulla governance societaria.

Questo il principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere 07.05.2019 n. 1389, formulato a riscontro del quesito posto dal presidente della Regione Piemonte per sapere se gli enti di governo operanti sul territorio regionale possono affidare il servizio idrico a società in house con una partecipazione privata senza controllo o potere di veto.
La cornice giuridica
Le fonti normative inerenti il quesito sono di diversi livelli, e vanno dall'ambito locale a quello comunitario.
Sul piano regionale, l'articolo 7 della Lr 13/1997 ha previsto che le autorità d'ambito affidano la gestione del servizio idrico integrato nelle forme previste dall'articolo 22, comma 3, lettere b) ed e), della legge 142/1990, come integrato dall'articolo 12 della legge 498/1992, e dall'articolo 25, comma 1, della legge 142/1990.
Come si può notare, la disposizione appare superata perché richiama norme di legge da tempo abrogate, per cui nel parere la Sezione osserva che il riferimento va oggi inteso alle disposizioni comunitarie e nazionali vigenti in materia, ossia alle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, recepite in Italia sia con il Dlgs 50/2016 (codice dei contratti), sia con il Dlgs 175/2016 (testo unico in materia di società a partecipazione pubblica).
Questi ultimi interventi hanno modificato la nozione dell'in house providing tramandata dalla giurisprudenza comunitaria, che presupponeva sempre e comunque la proprietà interamente pubblica del soggetto in house, aprendo la strada a una possibile partecipazione minoritaria di capitali privati.
Nello specifico, l'articolo 12, comma 1, lett. c) della direttiva 2014/24/UE –recepita dal legislatore nazionale con i decreti legislativi sopra richiamati– ha ravvisato la possibilità dell'affidamento in house se «nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata».
Per quanto riguarda in particolare il servizio idrico integrato, la normativa in questione non sembra coordinarsi con il codice dell'ambiente Dlgs 152/2006, ove l'articolo 149-bis, comma 1, stabilisce che «l'affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente pubbliche (…) comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell'ambito territoriale ottimale».
Di qui il quesito posto ai giudici di Palazzo Spada in ordine alla composizione del capitale della società in house del settore del servizio idrico, un ambito che, oltretutto, risulta escluso dalla disciplina comunitaria in ragione dell'importanza fondamentale che riveste il bene dell'acqua per la vita dell'uomo.
Come si legge nel considerando n. 40 della direttiva 2014/23/Ue, «le concessioni nel settore idrico sono spesso soggette a regimi specifici e complessi che richiedono una particolare considerazione data l'importanza dell'acqua quale bene pubblico di valore fondamentale per tutti i cittadini dell'Unione. Le caratteristiche particolari di questi regimi giustificano le esclusioni nel settore idrico dall'ambito di applicazione della presente direttiva».
L'analisi dei giudici
A fronte di ciò, il Consiglio di Stato ribadisce che per l'in house providing la norma europea non ha inteso autorizzare in generale la partecipazione dei privati, ma ha disposto un rinvio alle specifiche disposizioni di legge che «prescrivono» (e dunque impongono) una siffatta partecipazione.
La partecipazione privata, ancorché senza controllo o potere di veto, deve pertanto ritenersi compatibile con l'in house providing solamente quando è obbligatoria, e non facoltativa, in ragione di valutazioni effettuate dal legislatore interno.
Una simile interpretazione restrittiva punta a scongiurare uno scenario che veda la partecipazione diretta di un operatore economico privato al capitale della persona giuridica controllata in esito all'aggiudicazione di un appalto pubblico senza gara, situazione questa che finirebbe per offrire al privato un indebito vantaggio rispetto ai concorrenti.
In altre parole, anche se per la normativa sopravvenuta è astrattamente consentita la partecipazione diretta di capitali privati nella società in house, a livello interno nessuna disposizione (in materia di servizio idrico, ma non solo) la prescrive in forma obbligatoria, con l'effetto che, almeno per ora, il nuovo modello per l'autoproduzione di servizi appare destinato a restare sulla carta (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.06.2019).

URBANISTICA: Discrezionalità nell’approvazione di un piano attuativo.
In sede di approvazione di un piano attuativo all’Amministrazione comunale spetta un’ampia discrezionalità valutativa che non verte solo sugli aspetti tecnici della conformità o meno del piano attuativo agli strumenti urbanistici di livello superiore, ma coinvolge anche l’opportunità di dare attuazione, in un certo momento e a determinate condizioni, alle previsioni dello strumento urbanistico generale, sussistendo fra quest’ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza.
Ciò perché la pianificazione attuativa costituisce pur sempre espressione della potestà pianificatoria, seppur declinata in ottica più specifica e operativa, con la conseguente sussistenza dei margini di discrezionalità che ad essa si correlano; l’ampia discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione –che, peraltro, incide anche in ordine alla minor pregnanza del generale obbligo di motivazione– implica che la scelta operata sia sottratta al sindacato di legittimità, non potendo il giudice amministrativo interferire con le decisioni riservate all’Amministrazione se non nei limiti della verifica della loro manifesta irragionevolezza, illogicità ovvero arbitrarietà e senza poter procedere ad un esame del merito della scelta pianificatoria
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13. Con il primo motivo del ricorso si assume l’illegittimità del diniego di approvazione della proposta di Piano attuativo presentato da Fo. S.r.l., poiché motivata esclusivamente con la pendenza di un ricorso avverso il vigente strumento urbanistico e in ragione della accertata incompatibilità della predetta proposta con l’attuale destinazione urbanistica, nonostante sia stata formulata “in variante” al P.G.T.
13.1. La doglianza è infondata.
Il diniego della Giunta comunale è stato motivato con il contrasto della proposta di Piano attuativo con l’attuale destinazione del P.G.T., con il richiamo alla controdeduzione formulata in sede di approvazione del P.G.T. con cui non sono state condivise le osservazioni della ricorrente e con la pendenza del ricorso avverso il Piano approvato.
Tali motivazioni, contrariamente a quanto ritenuto in sede di ricorso, appaiono sufficienti per negare l’approvazione di un Piano attuativo, tanto più che gli stessi interventi sono stati proposti in variante allo strumento urbanistico generale (nella cui fase di approvazione erano già stati prospettati, ma l’Amministrazione non aveva ritenuto di accoglierli).
In tal senso, la giurisprudenza ha chiarito che in sede di approvazione di un Piano attuativo all’Amministrazione comunale spetta un’ampia discrezionalità valutativa che non verte solo sugli aspetti tecnici della conformità o meno del piano attuativo agli strumenti urbanistici di livello superiore, ma coinvolge anche l’opportunità di dare attuazione, in un certo momento e a determinate condizioni, alle previsioni dello strumento urbanistico generale, sussistendo fra quest’ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza; ciò perché la pianificazione attuativa costituisce pur sempre espressione della potestà pianificatoria, seppur declinata in ottica più specifica e operativa, con la conseguente sussistenza dei margini di discrezionalità che ad essa si correlano; l’ampia discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione –che, peraltro, incide anche in ordine alla minor pregnanza del generale obbligo di motivazione– implica che la scelta operata sia sottratta al sindacato di legittimità, non potendo il giudice amministrativo interferire con le decisioni riservate all’Amministrazione se non nei limiti della verifica della loro manifesta irragionevolezza, illogicità ovvero arbitrarietà e senza poter procedere ad un esame del merito della scelta pianificatoria (da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 01.02.2019, n. 222; TAR Lombardia, Brescia, II, 03.01.2019, n. 5).
13.2. Pertanto, ciò determina il rigetto della predetta censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.05.2019 n. 1022 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

URBANISTICALa natura delle osservazioni –quali meri atti di collaborazione dei privati rispetto all’attività pianificatoria di cui è titolare l’Amministrazione– rende irrilevante la posizione dei soggetti che le hanno formulate, essendo compito dell’Autorità procedente verificarne la condivisibilità e accoglierle o meno, sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale, da cui discende la diretta imputabilità della scelta all’Ente pubblico.
Ugualmente non può essere richiesto all’Amministrazione un rafforzato obbligo motivazionale –al di fuori di ipotesi ben precise, non ricorrenti nella fattispecie de qua– bastando il riscontro della coerenza di quanto recepito con gli indirizzi generali stabiliti nelle linee guida dello strumento urbanistico.
Del resto, «le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse …».
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A tal fine va precisato che la natura delle osservazioni –quali meri atti di collaborazione dei privati rispetto all’attività pianificatoria di cui è titolare l’Amministrazione– rende irrilevante la posizione dei soggetti che le hanno formulate, essendo compito dell’Autorità procedente verificarne la condivisibilità e accoglierle o meno, sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale, da cui discende la diretta imputabilità della scelta all’Ente pubblico.
Ugualmente non può essere richiesto all’Amministrazione un rafforzato obbligo motivazionale –al di fuori di ipotesi ben precise, non ricorrenti nella fattispecie de qua– bastando il riscontro della coerenza di quanto recepito con gli indirizzi generali stabiliti nelle linee guida dello strumento urbanistico.
Del resto, «le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse …» (TAR Lombardia, Milano, II, 08.01.2019, n. 38; 06.08.2018, n. 1945; altresì, TAR Toscana, I, 06.09.2016, n. 1317) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.05.2019 n. 1022 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

URBANISTICALe previsioni contenute nel Documento di Piano non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione; a tal fine è necessario l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole di dettaglio, dovrà definire in maniera puntuale il quadro giuridico ad essi applicabile, con norme aventi carattere prescrittivo.
Per gli ambiti del tessuto urbano consolidato, invece, l’art. 10, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce al Piano delle Regole la definizione delle modalità di intervento e dei parametri da rispettare negli interventi di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre, che le indicazioni contenute nel Piano delle Regole hanno carattere vincolante e producono effetti diretti sul regime giuridico dei suoli e non hanno termini di validità (art. 10, commi 5 e 6, della legge regionale n. 12 del 2005).
Del resto la disciplina contenuta nella legge regionale n. 12 del 2005 riserva al Documento di Piano ed ai singoli Piani attuativi la definizione degli indici urbanistico-edilizi dei soli ambiti di trasformazione e non anche degli ambiti territoriali compresi nel tessuto urbano consolidato, da assoggettare al Piano delle Regole.

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Le previsioni contenute nel Documento di Piano non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione, con la conseguenza che le aree (di che trattasi) non possono trovare la propria disciplina nelle tavole del Piano delle Regole.
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3. Con la terza doglianza si assume l’illegittima inclusione delle aree di cui ai mappali 4 e 75 nel Piano delle Regole, con effetti diretti e vincolanti sul regime dei suoli e senza termine di validità, piuttosto che nel Documento di Piano che contiene previsioni di natura programmatica, concretizzabili soltanto all’esito dell’approvazione di uno specifico piano attuativo.
3.1. La doglianza è infondata.
Pur essendo non del tutto lineare quanto stabilito dall’Amministrazione con riguardo ai mappali n. 4 e n. 75, va evidenziato che la disciplina giuridica dell’Ambito di trasformazione strategica non può che essere contenuta nel Documento di Piano, dove si rinvengono le relative prescrizioni, mentre l’inclusione dello stesso nelle tavole del Piano delle Regole non ha alcun effetto giuridicamente significativo, come dimostrato anche dalla circostanza che nel predetto Piano non è contenuta alcuna prescrizione applicabile agli Ambiti di trasformazione, a differenza di quanto previsto dal Documento di Piano (cfr. art. 13 N.T.A. Unificate, all. al ricorso).
Difatti i contenuti del Documento di Piano attinenti alla disciplina degli ambiti di trasformazione sono stabiliti dall’articolo 8, comma 2, lettera e, della legge regionale n. 12 del 2005. La disposizione prevede, in particolare, che il Documento di Piano «individua, anche con rappresentazioni grafiche in scala adeguata, gli ambiti di trasformazione, definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le vocazioni funzionali e i criteri di negoziazione, nonché i criteri di intervento, preordinati alla tutela ambientale, paesaggistica e storico-monumentale, ecologica, geologica, idrogeologica e sismica, laddove in tali ambiti siano comprese aree qualificate a tali fini nella documentazione conoscitiva».
Le previsioni contenute nel Documento di Piano non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione; a tal fine è necessario l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole di dettaglio, dovrà definire in maniera puntuale il quadro giuridico ad essi applicabile, con norme aventi carattere prescrittivo (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 06.02.2018, n. 347; 05.12.2014, n. 2971).
Per gli ambiti del tessuto urbano consolidato, invece, l’art. 10, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce al Piano delle Regole la definizione delle modalità di intervento e dei parametri da rispettare negli interventi di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre, che le indicazioni contenute nel Piano delle Regole hanno carattere vincolante e producono effetti diretti sul regime giuridico dei suoli e non hanno termini di validità (art. 10, commi 5 e 6, della legge regionale n. 12 del 2005; in giurisprudenza, TAR Lombardia, Milano, II, 06.02.2018, n. 347).
Del resto la disciplina contenuta nella legge regionale n. 12 del 2005 riserva al Documento di Piano ed ai singoli Piani attuativi la definizione degli indici urbanistico-edilizi dei soli ambiti di trasformazione e non anche degli ambiti territoriali compresi nel tessuto urbano consolidato, da assoggettare al Piano delle Regole (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 06.02.2018, n. 347; 01.02.2011, n. 330).
3.2. Ne discende il rigetto anche della predetta doglianza.
4. Con l’ultima doglianza si assume la totale vanificazione del diritto di proprietà del ricorrente in ragione della retinatura degli Ambiti della trasformazione strategica, che imporrebbero soltanto la soluzione legata alla delocalizzazione dell’attività svolta sul terreno di Fo. S.r.l.
4.1. La doglianza è infondata.
Va premesso e ribadito che le previsioni contenute nel Documento di Piano non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione, con la conseguenza che le aree di cui ai mappali n. 4 e n. 75 non possono trovare la propria disciplina nelle tavole del Piano delle Regole (cfr. precedente punto 3.1).
In ogni caso l’acquisto del terreno da parte di Fo. ha determinato il venir meno della questione, atteso che la valutazione dell’interesse a porre in essere delle operazioni di valorizzazione sul predetto compendio va affrontata in un contesto affatto differente e molto più ampio (come dimostrato dall’avvenuta presentazione della proposta di Piano attuativo).
4.2. La censura pertanto va respinta.
5. In conclusione, all’infondatezza delle censure segue il rigetto del ricorso introduttivo.
6. La domanda risarcitoria deve essere respinta in ragione dell’accertata legittimità degli atti impugnati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.05.2019 n. 1022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI - URBANISTICA: La deliberazione che ha aumentato il valore del terreno ai fini I.C.I. «lstante la generalità delle sue previsioni, la sua applicabilità ad una serie indeterminata di casi e difettando di una valenza immediatamente ed autonomamente imperativa (da riconoscersi invece esclusivamente all’atto impositivo del tributo applicativo di quelle previsioni), al di là di ogni ragionevole dubbio, ha pertanto natura di atto generale e, (…) per effetto di quanto disposto dall’articolo 13 della legge n. 241 del 1990, si sottrae al generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi».
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L’edificabilità di un’area, ai fini della determinazione della base imponibile, da effettuare in base al valore venale e non a quello catastale, deve essere desunta dalla qualificazione attribuitale nel Piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione dello stesso da parte della Regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi.
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7. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti –proposto avverso la deliberazione che ha aumentato il valore del terreno ai fini I.C.I.–, lo stesso è infondato.
8. Con la prima censura si assume che il Comune, nel determinare i valori attuali delle aree fabbricabili, avrebbe fatto riferimento, senza alcuna valida giustificazione, alle quotazioni massime desunte dalla banca dati dell’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del Territorio.
8.1. La doglianza è infondata.
Nella relazione allegata alla delibera impugnata si chiarisce che «dei due valori minimo e massimo presenti nelle quotazioni suddette, nel nostro caso assumeremo le quotazioni “Max” in quanto la presente valutazione è orientata alla determinazione del valore venale di terreni su cui verranno realizzati dei fabbricati di nuova costruzione nella tipologia più richiesta dal mercato immobiliare» (all. 5 del Comune, pag. 5).
Ciò appare satisfattivo dell’obbligo di motivazione imposto all’Amministrazione, considerata l’ampia discrezionalità di scelta tra i valori che si collocano all’interno della cornice individuata dall’Osservatorio. Oltretutto la parte ricorrente non ha contestato puntualmente i criteri individuati, limitandosi ad un generico rilievo, non ammissibile in questa sede.
Da ultimo, va pure sottolineato come «la delibera, stante la generalità delle sue previsioni, la sua applicabilità ad una serie indeterminata di casi e difettando di una valenza immediatamente ed autonomamente imperativa (da riconoscersi invece esclusivamente all’atto impositivo del tributo applicativo di quelle previsioni), al di là di ogni ragionevole dubbio, ha pertanto natura di atto generale e, (…) per effetto di quanto disposto dall’articolo 13 della legge n. 241 del 1990, si sottrae al generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi» (Consiglio di Stato, V, 10.09.2014, n. 4587).
8.2. Ciò determina il rigetto della censura.
...
10. Con la terza censura del primo ricorso per motivi aggiunti si assume che il lasso temporale cui applicare il valore per le aree fabbricabili è stato illegittimamente individuato nella misura massima di cinque anni, mentre di fatto il compendio non sarebbe per nulla appetibile per l’insediamento produttivo, visto che la parte interessata –ossia Arti Grafiche– non avrebbe manifestato alcun interesse a trasferirvi la propria attività, anche in ragione degli ingenti costi da affrontare in siffatta eventualità, rendendo per questo non coerente la qualificazione dell’area edificabile con quanto previsto dalla normativa di settore (art. 2, comma 1, lett. b, del D.Lgs. n. 504 del 1992).
10.1. La doglianza è infondata.
La scelta dell’Amministrazione di individuare in cinque anni il termine temporale per la stima del valore del bene ai fini I.C.I. si giustifica con la necessità di dover indicare un dato specifico e obiettivo, non potendosi omettere un tale elemento assolutamente necessario per poter procedere al calcolo dell’importo dovuto. Del resto la parte ricorrente si è semplicemente limitata a criticare in modo generico la prescrizione, senza puntualizzare e chiarire l’alternativa che si sarebbe dovuta legittimamente adottare.
Quanto poi alla edificabilità dell’area ai fini dell’applicazione del criterio della base imponibile fondato sul valore venale, va considerato edificabile il suolo che rientra nello strumento urbanistico generale anche solo adottato dal Comune, sebbene non ancora approvato, non essendo determinante l’effettiva e concreta possibilità di sfruttamento edificatorio, ma essendo sufficiente la semplice astratta potenzialità edificatoria (art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito con legge n. 248 del 2006).
Difatti secondo la giurisprudenza della Cassazione, l’edificabilità di un’area, ai fini della determinazione della base imponibile, da effettuare in base al valore venale e non a quello catastale, deve essere desunta dalla qualificazione attribuitale nel Piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione dello stesso da parte della Regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi (Cass. civ., VI, 07.09.2018, n. 21761; 13.01.2017, n. 715).
Oltretutto, le vicende che hanno riguardato il compendio in oggetto –ossia l’acquisto dello stesso da parte della società Fontanile– dimostrano, sebbene ex post, l’infondatezza della tesi attorea in relazione alla non appetibilità dello stesso per l’insediamento di un’attività.
10.2. Ciò determina il rigetto anche della predetta censura.
11. In conclusione, anche il primo ricorso per motivi aggiunti deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.05.2019 n. 1022 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

URBANISTICA: Prescrizioni del PGT e attinenza con l'interesse urbanistico.
Se è vero che l’oggetto delle regole dettate dal piano urbanistico non può essere limitato alla disciplina della trasformazione fisica del territorio, è anche vero, da altro lato, che non si può prescindere del tutto dall’interesse urbanistico, dovendosi ritenere indispensabile, affinché il piano possa dettare la sua regolazione, la sussistenza di un qualche collegamento con tale interesse (come ad esempio la necessità di far sì che l’attività esercitata sul territorio –sebbene non determinante la sua trasformazione fisica– non causi una alterazione dei carichi tale renderla urbanisticamente insostenibile in ragione dello squilibrio che essa crea rispetto alle dotazioni esistenti quali parcheggi, strade ecc.).
E', pertanto, da escludere che il PGT possa dettare prescrizioni che riguardano l’attività di spandimento di fertilizzanti su suolo agricolo giacché non si vede quale attinenza abbia tale attività con l’interesse urbanistico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 02.05.2019 n. 986 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
16. Ritiene il Collegio che queste censure siano fondate per le ragioni di seguito esposte.
17. La disciplina riguardante l’utilizzo in agricoltura dei fanghi derivati dal processo di depurazione delle acque reflue è contenuto nel d.lgs. 27.01.1992, n. 99 che ha dato attuazione alla direttiva 86/278/CE. Lo scopo dichiarato dall’art. 1 di tale decreto è, innanzitutto, quello di assicurare che l’attività di spandimento dei fanghi non provochi effetti nocivi sul suolo, sulla vegetazione, sugli animali e sull'uomo.
Altro scopo dischiarato è quello di incoraggiare l’attività di spandimento, in quanto volta al recupero di un materiale che, in base all’art. 127, primo comma, del d.lgs. n. 152 del 2006, è classificato come rifiuto e che, quindi, dovrebbe essere altrimenti smaltito.
18. Proprio al fine di preservare questi interessi, il d.lgs. n. 99 del 1992 stabilisce i requisiti che i fanghi ed i terreni agricoli debbono possedere affinché si possa procedere allo spandimento e sottopone lo svolgimento di tale attività ad autorizzane regionale e a controllo provinciale, nonché a previa comunicazione al comune.
19. L’art. 6, n. 3), del d.lgs. n. 99 del 1992 prevede poi espressamente che spetta alle regioni il compito di stabilire <<…le distanze di rispetto per l'applicazione dei fanghi dai centri abitati, dagli insediamenti sparsi, dalle strade, dai pozzi di captazione delle acque potabili, dai corsi d'acqua superficiali…>>.
20. Come si vede questa norma a chiara nell’attribuire alle regioni e non ai comuni la competenza ad individuare le distanze minime da rispettare con riferimento ad alcuni punti sensibili quali abitazioni, corsi d’acqua ecc.
L’attribuzione alle regioni, e non ai comuni, della competenza ad individuare i limiti distanziali applicabili all’attività di spandimento dei fanghi è dovuta al fatto che il legislatore statale vuole far sì che la materia trovi una disciplina uniforme, perlomeno, a livello regionale onde evitare che la suddetta attività (come detto da incoraggiare in quanto volta al recupero di un rifiuto) venga ingiustificatamente ostacolata per interessi particolaristici.
21. Valorizzando le disposizioni appena illustrate,
una parte della giurisprudenza afferma che la disciplina dello spandimento dei fanghi è da ricondurre alla disciplina dei rifiuti e che quest’ultima è, a sua volta, da collocare –secondo l’insegnamento costante della Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 24.07.2009, n. 249)– nell'ambito della materia tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Si è quindi ritenuto che, siccome nessuna norma statale conferisce ai comuni potestà regolamentare in materia ambientale e, più in particolare, in materia di spandimento fanghi per uso agricolo, gli stessi comuni non possano emanare atti di normazione secondaria che abbiano ad oggetto tale materia.
Ancora più in dettaglio, si è escluso poi che i comuni possano regolare l’attività di spandimento dei fanghi attraverso l’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, per sua natura finalizzato alla disciplina degli interventi di trasformazione fisica del territorio
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 15.10.2010, n. 7528; TAR Lombardia Milano, sez. II, 04.04.2012, n. 1006; id. 25.05.2009, n. 3848).
22.
A questo orientamento se ne contrappone però un altro il quale –proprio in considerazione del fatto che la portata della normativa contenuta nel d.lgs. n. 99 del 1992 è connotata dalla finalità di tutela ambientale e che, quindi, la sua finalità è quella di assicurare la compatibilità dell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura con tale valore– non esclude che l’attività in questione, ove attenga anche ad ulteriori profili di interesse pubblico, possa essere oggetto di regolamentazione e disciplina da parte di altri soggetti cui è normativamente attribuita competenza.
23.
Sulla base di queste considerazioni, si è quindi affermato che, per stabilire se i comuni possano o meno intervenire in materia con i loro strumenti di pianificazione, occorre far riferimento alla normativa regionale riguardante il governo del territorio e verificare quale sia l’ambito delle competenze da essa delineato.
24. In Regione Lombardia, il riferimento è, quindi, alla legge regionale n. 12 del 2005 la quale, all’art. 10, indica i contenuti del piano delle regole (che costituisce una componente del piano di governo del territorio).
E siccome tale norma attribuisce al piano delle regole il compito di individuare le aree destinate all’agricoltura e di dettare per esse la disciplina d’uso, di valorizzazione e di salvaguardia, nonché il compito di individuare le aree di valore paesaggistico-ambientale e di dettare per esse ulteriori regole di salvaguardia e di valorizzazione, si deve ritenere, secondo questo orientamento giurisprudenziale, che il potere di disciplina attribuito al comune in sede di pianificazione urbanistica del territorio non sia più limitato al solo, isolato aspetto della trasformazione fisica dello stesso, ma possa più in generale riferirsi anche alla regolamentazione delle attività su di esso esercitabili, tenendo conto della loro sostenibilità anche sotto il profilo ambientale, paesaggistico ed ecologico.
In sostanza, in base a questa tesi,
l’individuazione di una fascia di rispetto entro la quale è vietato lo spandimento dei fanghi si risolve in una attività di “zonizzazione” che costituisce tipico esercizio del potere di pianificazione urbanistica il quale, come detto, può considerare interessi che non attengono esclusivamente al territorio quale fatto fisico ma altresì ad ulteriori interessi pubblici, concorrenti ed interferenti, quali quelli della tutela e della sostenibilità paesaggistica ed ambientale (cfr. Consiglio di Stato sent. n. 2986 del 2015 cit.).
25.
Ritiene il Collegio che, pur essendo condivisibile l’affermazione secondo cui non può escludersi la possibilità per altri soggetti pubblici diversi dalla regione di intervenire nella materia che occupa qualora vengano in rilievo interessi affidati alla loro cura, sia preferibile aderire alla tesi più restrittiva seguita dal primo orientamento.
26. In proposito, si deve osservare che, come illustrato, la tesi che ammette la possibilità per i comuni di regolare l’attività di spandimento dei fanghi parte dalla premessa che la normativa statale che disciplina la materia (la quale, come visto, attribuisce alle regioni la competenza di individuazione delle distanze dai centri abitati) ha di mira la tutela del valore ambiente e che, quindi, altri soggetti pubblici diversi dalle regioni (fra cui i comuni) possono intervenire per tutelare gli interessi loro affidati diversi da quello ambientale.
27. Quando però passa ad analizzare il quadro delle competenze delineate dalla legge regionale n. 12 del 2005, la tesi in questione non ricava da tale legge l’esistenza di un interesse diverso da quello ambientale che consentirebbe ai comuni di intervenire nella materia di cui si discute. Essa valorizza al contrario proprio il fatto che questa legge affida allo strumento urbanistico comunale il compito di perseguire (anche) l’interesse ambientale ed afferma, di conseguenza, che l’attività di zonizzazione può avere come scopo non solo quello di assicurare l’ordinata trasformazione fisica del suolo agricolo, ma anche quello di assicurare la sostenibilità ambientale delle attività umane che si esercitano su di esso.
28. La prima obiezione alla tesi in argomento è quindi che, in questo modo, la legge regionale avrebbe affidato ai comuni la tutela dell’interesse ambientale sovvertendo il quadro delle competenze delineato dalla legge statale che, in base all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., ha competenza esclusiva in materia e che, come visto, per ragioni di tutela ambientale, affida alle regioni e non ai comuni il compito di individuazione delle fasce di rispetto entro le quali è vietata l’attività di spandimento fanghi.
29. A questo proposito si ricorda che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 63 del 24.03.2016, ha chiarito che la legge regionale n. 12 del 2005, in quanto disciplina la pianificazione urbanistica, attiene senz’altro alla materia “governo del territorio” e che, quindi, tale legge regionale non può perseguire finalità che esorbitano da tale ambito.
Si deve pertanto ritenere che la Regione non possa dettare norme legislative dirette esclusivamente alla tutela dell’ambiente (materia che rientra nell’ambito della competenza esclusiva statale), e ciò ovviamente neppure per attribuirne la competenza amministrativa ai comuni affinché la esercitino in sede di pianificazione urbanistica.
30.
Sembra pertanto preferibile ritenere che, in realtà, la legge regionale n. 12 del 2005 non abbia attribuito agli strumenti di pianificazione comunale il compito di dettare autonome norme finalizzate alla tutela ambientale, ma abbia attribuito loro il diverso compito di recepire e specificare (laddove vi siano margini) le disposizioni contenute nelle fonti statali e regionali.
In questo senso deve essere letto, secondo il Collegio, l’art. 10, comma 4, lett. b), della legge regionale n. 12 del 2005 il quale è vero che affida allo strumento urbanistico il compito di dettare le regole di salvaguardia e valorizzazione delle aree paesaggistico-ambientale ed ecologiche, ma specifica anche che queste regole debbono essere “ulteriori” e <<…di attuazione dei criteri di adeguamento e degli obiettivi stabiliti dal piano territoriale regionale, dal piano territoriale paesistico regionale e dal piano territoriale di coordinamento provinciale>>.
31.
Da un punto di vista più generale, si deve poi escludere, a parere del Collegio, che la norma contenuta nel n. 1), lett. a), del citato art. 10 della legge regionale n. 12 del 2005 (la quale prevede che il piano delle regole detta le norme di valorizzazione e salvaguardia delle aree agricole) possa consentire allo strumento urbanistico di disciplinare ogni attività umana che si svolge sul suolo agricolo indipendentemente da ogni sua attinenza con l’interesse urbanistico, giacché in tal modo si dilaterebbe a dismisura l’ambito di competenza dei piani i quali potrebbero così intervenire in qualsiasi materia (tutte le attività umane si svolgono sul territorio), interferendo con le competenze attribuite dalla Costituzione e dalla legge agli altri soggetti.
32. E’ pertanto opinione del Collegio che,
se è vero che l’oggetto delle regole dettate dal piano urbanistico non può essere limitato alla disciplina della trasformazione fisica del territorio, è anche vero, da altro lato, che non si può prescindere del tutto dall’interesse urbanistico, dovendosi ritenere indispensabile, affinché il piano possa dettare la sua regolazione, la sussistenza di un qualche collegamento con tale interesse (come ad esempio la necessità di far sì che l’attività esercitata sul territorio –sebbene non determinante la sua trasformazione fisica– non causi una alterazione dei carichi tale renderla urbanisticamente insostenibile in ragione dello squilibrio che essa crea rispetto alle dotazioni esistenti quali parcheggi, strade ecc.).
33.
Sembra pertanto da escludere che lo strumento urbanistico possa dettare prescrizioni che riguardano l’attività di spandimento di fertilizzanti su suolo agricolo giacché non si vede quale attinenza abbia tale attività con l’interesse urbanistico. Analoghe considerazioni valgono riguardo alle prescrizioni contenute nella Carta di Fattibilità Geologica che, ai sensi dell’art. 57 della legge regionale n. 12 del 2005, costituisce una componente del PGT e che, quindi, non può travalicare i limiti che sono propri di tale strumento.
34. In ogni caso, va poi osservato che,
anche qualora si dovesse ritenere che la legge regionale n. 12 del 2005 abbia attribuito agli strumenti urbanistici comunali il compito di dettare norme autonome per la tutela dell’interesse ambientale, non si può ammettere che tale interesse trovi nel piano una regolazione contrastante con quella dettata dalla fonte regionale, cui la legge statale attribuisce specifica competenza in materia.
Non ci si può quindi esimere dal rilevare il contrasto della norma contenuta nell’art. 35, comma 6, lett. b), delle NTA del Piano delle Regole (che individua la fascia di 500 metri entro la quale è vietata l’attività di spandimento fanghi) rispetto a quella contenuta nella DGR n. 5269 del 2016 emanata in attuazione dell’art. 6, n. 3), del d.lgs. n. 99 del 1992, la quale, a differenza della precedente DGR n. 7/15944 del 2003, non indica più un limite minimo ma individua una limite fisso pari a 100 metri dal perimetro del centro abitato.
Si richiama in proposito quanto illustrato in precedenza circa la precisa volontà del legislatore nazionale di attribuire alle regioni, e non ai comuni, la competenza ad individuare i limiti distanziali applicabili all’attività di spandimento dei fanghi in modo da assicurare alla materia una disciplina uniforme, perlomeno, a livello regionale ed evitare che la suddetta attività (come detto da incoraggiare in quanto volta al recupero di un rifiuto) venga ingiustificatamente ostacolata per interessi particolaristici.
35. Si deve pertanto ritenere che, come anticipato, le censure in esame siano fondate.
36.
La disposizione contenuta nell’art. 35, comma 6, lett. b), delle NTA del Piano delle Regole va dunque annullata nella parte in cui individua la fascia di 500 metri entro la quale è vietata l’attività di spandimento fanghi; va altresì annullata la Carta di Fattibilità Geologica allegata al PGT, nella parte in cui sottopone determinate classi di terreni da essa individuati alla previa valutazione, sotto il profilo idrogeologico, degli effetti derivanti dagli spandimenti di fanghi di depurazione sulla falda superficiale.
Vanno infine annullati gli atti del 26.09.2016 e del 18.10.2016 che, in applicazione delle su indicate disposizioni, hanno inibito alla ricorrente lo svolgimento dell’attività di spandimento fanghi.
37. In conclusione, per tutte le ragioni illustrate, va dichiarata la parziale irricevibilità del ricorso introduttivo nei limiti innanzi indicati. Per il resto il ricorso introduttivo ed i motivi aggiunti vanno accolti, nei sensi e per gli effetti sopra indicati.

EDILIZIA PRIVATAL’onere della prova in ordine a risalenza e alle consistenze edilizie contestate dall’amministrazione, per evitare sanzioni demolitorie ovvero per essere ammessi a procedure di sanatoria, incombe sul soggetto destinatario della sanzione ovvero su quello che ha richiesto la sanatoria e che lo stesso (onere) può essere invertito e spostato in capo all’amministrazione solo in presenza di produzione da parte del privato di “concreti elementi” idonei a far luogo all’inversione.
Ciò significa che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi -i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni- trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
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2. Il ricorso è infondato.
Va innanzitutto ricordato che per costante giurisprudenza, anche di questo Tribunale (cfr. TAR, Sicilia, Palermo, 23/02/2018, n. 461) rispetto alla quale non si ravvisano nel caso di specie ragioni per discostarsi, l’onere della prova in ordine a risalenza e alle consistenze edilizie contestate dall’amministrazione, per evitare sanzioni demolitorie ovvero per essere ammessi a procedure di sanatoria, incombe sul soggetto destinatario della sanzione ovvero su quello che ha richiesto la sanatoria (cfr. Cons. Stato, IV, 08.01.2013, n. 39, 17.09.2012, n. 4924; Tar Campania, Napoli, VI, 20.02.2014, n. 1122) e che lo stesso (onere) può essere invertito e spostato in capo all’amministrazione solo in presenza di produzione da parte del privato di “concreti elementi” idonei a far luogo all’inversione (sempre ex plurimus, Cons. Stato, IV, 13.01.2010, n. 45; V, 09.11.2009, n. 6984; Tar Campania, Napoli, VI, 20.02.2014, n. 1122; 06.11.2013, n. 4904; II, 30.04.2013, n. 2242; 04.12.2013, n. 5487, VII, 08.02.2013, n. 828; Tar Liguria, Genova, I, 04.12.2012, n. 1565).
Ciò significa che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi -i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni- trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione. Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 11.06.2018, n. 3527) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 683 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Funzione degli oneri di urbanizzazione.
Mentre il costo di costruzione rappresenta una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare, gli oneri di urbanizzazione svolgono la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria;
Essi sono pertanto dovuti nel caso di trasformazioni edilizie che, indipendentemente dall’esecuzione di opere, si rivelino produttive di vantaggi economici per il proprietario, determinando un aumento del carico urbanistico; tale incremento può derivare anche da una mera modifica della destinazione d’uso di un immobile, mentre può non configurarsi nell’ipotesi di intervento edilizio con oper
e (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.01.2019 n. 574 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
2. Il comune resistente deduce che l’esonero previsto dall’articolo 17 del d.P.R. 380/2001 per l’ampliamento di edifici unifamiliari non troverebbe applicazione al caso di specie, perché l’intervento edilizio di cui è questione è stato effettuato su un edificio originariamente bifamiliare; l’amministrazione sottolinea la natura eccezionale delle esenzioni dal contributo e richiama un precedente conforme pronunciamento di questo Tribunale.
3. L’argomento non coglie nel segno.
4. La controversia non verte sulla verifica della ricorrenza delle condizioni poste dal richiamato articolo 17 del Testo unico ai fini dell’esonero dal contributo di costruzione, ma investe una questione logicamente antecedente, ovvero la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione degli oneri di urbanizzazione previsti dall’articolo 16 del medesimo testo normativo.
5. Prevede tale disposizione che: “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
6.
Mentre il costo di costruzione rappresenta una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare, gli oneri di urbanizzazione svolgono la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria (TAR Piemonte, sez. I, 21.05.2018, n. 630).
Essi sono pertanto dovuti nel caso di trasformazioni edilizie che, indipendentemente dall’esecuzione di opere, si rivelino produttive di vantaggi economici per il proprietario, determinando un aumento del carico urbanistico. Tale incremento può derivare anche da una mera modifica della destinazione d’uso di un immobile, mentre può non configurarsi nell’ipotesi di intervento edilizio con opere.
7. Secondo consolidata e risalente giurisprudenza
il fondamento del contributo di urbanizzazione pertanto “non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa (Cons. Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; id. ex multis TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 04.05.2009, n. 3604; Cons. Stato, Sez. V, 21.12.1994, n. 1563).
Pertanto “la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini un incremento del peso insediativo con un'oggettiva rivalutazione dell'immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.04.2018, n. 449).
8. Nel caso di specie non può dirsi realizzato un aumento del carico urbanistico, atteso che gli esponenti hanno trasformato l’edificio bifamiliare in unifamiliare, riducendone anche la S.L.P. Non ricorre pertanto il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento degli oneri di urbanizzazione.
9. Ne consegue la fondatezza del ricorso, che deve essere accolto, con la condanna dell’amministrazione comunale resistente alla restituzione degli oneri di urbanizzazione indebitamente percepiti, pari ad euro 11.446,81, oltre agli interessi maturati dalla data di notificazione dell'atto introduttivo del presente giudizio.
Dispone infatti l’articolo 2033 cod.civ. che “
chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda”.
In assenza di prova contraria deve infatti presumersi la buona fede dell’amministrazione comunale. Non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria (conformi: TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 20.05.2019, n. 499 e le pronunce ivi richiamate; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 02.05.2019, n. 426).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di reati edilizi, si considerano in ogni caso eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire gli interventi che ricadono in zona paesaggisticamente vincolata e, in presenza di opere edilizie abusive in siffatte zone, risulta indifferente, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale.
Quel che consegue alla lettera dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, a mente della quale tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.

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3. I ricorsi risultano manifestamente infondati.
Muovendo dalla questione concernente la condotta come contestata in rubrica e poi riconosciuta in sentenza, osserva il Collegio che la stessa risulta già proposta in sede di appello, e lì affrontata con motivazione congrua, non certo illogica e, come tale, insuscettibile di censura; in particolare, la sentenza ha evidenziato che la violazione urbanistica contestata doveva per certo esser identificata nell'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, atteso che l'immobile oggetto degli abusi ricadeva pacificamente in area sottoposta a vincolo paesaggistico, come confermato dalla contestuale imputazione di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. E senza che rilevi -come invece contestato dal Le.- la mancata indicazione del provvedimento impositivo del vincolo stesso, in sé non necessaria come da costante giurisprudenza sul punto (per tutte Sez. 3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca, Rv. 261163).
Ancora, la sentenza ha rilevato -circostanza pacifica- che la rubrica per la quale è processo aveva ad oggetto opere non soltanto difformi rispetto al permesso di costruire rilasciato al Carenza (ad esempio, l'ampliamento della veranda per 12,90 mq. in più di quanto assentito), ma anche ulteriori, diverse ed in questo non previste; sì da integrare ulteriormente -attesa la presenza del vincolo- la contestata violazione dell'art. 44, comma 1, lett. c) in esame.
Non solo. La Corte di merito ha anche richiamato il costante e condiviso indirizzo giurisprudenziale -qui da ribadire- in forza del quale, in tema di reati edilizi, si considerano in ogni caso eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire gli interventi che ricadono in zona paesaggisticamente vincolata (Sez. 3, n. 37169 del 6/5/2014, Longo, Rv. 260181; Sez. 3, n. 1486 del 03/12/2013, P.M. in proc. Aragosa ed altri, Rv. 258297) e, in presenza di opere edilizie abusive in siffatte zone, risulta indifferente, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale; quel che consegue alla lettera dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, a mente della quale tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali (Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010, Santonicola ed altro, Rv. 246960) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.01.2018 n. 921).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale.
Il reato di pericolo previsto dall'art. 181 in esame non richiede, ai fini della sua configurabilità, un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite.

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5. In ordine, poi, alla contestazione da ultimo citata, osserva il Collegio che la motivazione stesa dalla Corte di merito risulta ancora congrua, priva di illogicità manifeste e, pertanto, non meritevole di censura.
In particolare, quanto all'accertamento di compatibilità paesaggistica di cui all'art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42 del 2004 (ripetutamente richiamato nei ricorsi), la sentenza ha evidenziato che lo stesso non poteva per certo comprendere tutti gli abusi riscontrati, atteso che -quanto all'ampliamento della veranda per 12,90 mq. in più rispetto all'assentito- questo aveva comportato la creazione di superfici utili e di volumi, come tali espressamente ostativi all'effetto estintivo di cui alla norma.
Sì da doversi confermare il costante indirizzo in forza del quale il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale (tra le molte, Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011, Falconi, Rv. 251640; Sez. 3, n. 13730 del 12/01/2016, Principato, Rv. 266955, relativa proprio alla realizzazione di un intervento edilizio che comportava l'aumento di superfici utili e volumi, con conseguente ritenuta inapplicabilità del condono ambientale nonostante l'intervenuto rilascio del parere di compatibilità paesaggistica; nell'occasione, peraltro, questa Corte ha evidenziato che «L'emissione del provvedimento di compatibilità ambientale da parte della Pubblica Amministrazione non elide il potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza dei presupposti del condono ambientale in termini di fatto e di diritto, e, nel caso di specie, la ricorrente, realizzando un nuovo vano, destinato ad un utilizzo abitativo, ha posto in essere un intervento che ha comportato aumento di superfici utili e volumi, con la conseguente inapplicabilità del condono ambientale, cui consegue anche l'inammissibilità del relativo motivo di ricorso, che con tali considerazioni ha omesso di confrontarsi». Negli stessi termini, si veda Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263978, in forza della quale in tema di reati ambientali, il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del reato di pericolo di cui all'art. 181 in esame, che non richiede per la sua integrazione un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in quanto il rilascio di tale provvedimento non implica "automaticamente" che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante" inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico tutelato).
E con l'ulteriore precisazione per cui il reato di pericolo previsto dall'art. 181 in esame non richiede, ai fini della sua configurabilità, un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite (per tutte, Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia, Rv. 263289); astratta idoneità che la Corte ha riconosciuto negli interventi in oggetto, anche in ragione delle loro dimensioni, e che non è possibile mettere in discussione in questa sede -come richiedono i ricorrenti citandone la «microconsistenza», trattandosi di valutazione di merito non ripetibile innanzi al Giudice di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.01.2018 n. 921).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica. Sì da non poter trovare applicazione l'art. 45, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, ripetutamente invocato, a mente del quale il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
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6. La sentenza ha di seguito evidenziato che «l'intervenuta e asseverata ottemperanza alle demolizioni indicate nel permesso di costruire in sanatoria (...) non equivale alla riduzione in pristino richiesta dall'art. 181, comma 1-quinquies, D.L.vo n. 42/2004 per l'estinzione del reato paesaggistico».
Orbene, trattasi, all'evidenza, di una valutazione in fatto, fondata sull'esame della documentazione prodotta in giudizio e non suscettibile di ulteriore considerazione in questa sede, come invece richiesto dalla difesa (invero, di tutti i ricorrenti); e con l'ulteriore precisazione, peraltro, che la stessa lettura del permesso di costruire in sanatoria -se consentita- permetterebbe di verificare non solo la relazione asseverata del geom. Pa. (più volta richiamata nei gravami a conferma della demolizione «di parte del vano soggiorno e cucina indicata in progetto come da abbattere»), ma anche la perizia a firma dell'ing. Pi., dalla quale «si evince l'impossibilità di ripristinare l'originaria situazione dei luoghi senza compromettere la staticità dell'intero manufatto». Ripristino, per contro, imposto dall'art. 181, comma 1-quinquies in oggetto come condizione per l'estinzione del reato.
7. Nei medesimi termini, poi, debbono esser dichiarate inammissibili le doglianze dei ricorsi Pa. e Le. con riguardo al permesso di costruire in sanatoria (da leggere -nell'ottica proposta- in uno con l'originario titolo abilitativo e con il nulla osta paesaggistico).
Osserva la Corte, infatti, che la sentenza impugnata -ancora con motivazione congrua e non censurabile- ha evidenziato l'assenza del requisito della doppia conformità di cui all'art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 (desunto dalla pacifica condizione dell'abbattimento degli abusi realizzati), come tale ostativo al rilascio del titolo in oggetto.
Sì da doversi ribadire il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale, in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (tra le altre, Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260973). Sì da non poter trovare applicazione l'art. 45, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, ripetutamente invocato, a mente del quale il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.01.2018 n. 921).

PUBBLICO IMPIEGO: La prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa dell'abuso d'ufficio, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge.
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3. Venendo, quindi, al secondo motivo di doglianza, con il quale è stato dedotto il vizio di violazione di legge e di motivazione in ordine alla configurabilità dell'elemento soggettivo del delitto di abuso d'ufficio, deve preliminarmente richiamarsi il consolidato indirizzo interpretativo secondo cui la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa in esame, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella, Rv. 267633; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, dep. 04/12/2013, P.M. e P.C. in proc. Scaramazza e altri, Rv. 258290; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, dep. 17/05/2013, Barla e altri, Rv. 255368) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.08.2017 n. 38853).

EDILIZIA PRIVATALe modifiche volumetriche, quando determinano l'ampliamento all'esterno della sagoma preesistente, qualificano l'intervento come "nuova costruzione" ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1, d.P.R. n. 380 del 2001. L'intervento di ristrutturazione, in buona sostanza, comporta pur sempre che la volumetria resti la stessa, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica (e, si deve ritenere, anche per l'eliminazione delle barriere architettoniche).
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La volumetria del fabbricato principale è stata aumentata mediante ampliamento della sagoma al piano attico.  Qesta premessa fattuale è necessaria a qualificare l'intervento di "ristrutturazione" del fabbricato principale come "nuova costruzione".

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L'intervento di demolizione e ricostruzione del manufatto di servizio può essere qualificato come "ristrutturazione" solo se viene rispettata la volumetria preesistente, altrimenti si versa nell'ipotesi della "nuova costruzione" (sotto il profilo dell'ampliamento dell'opera).

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5.3. Orbene, deve essere subito chiarito che le modifiche volumetriche, quando determinano l'ampliamento all'esterno della sagoma preesistente, qualificano l'intervento come "nuova costruzione" ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1, d.P.R. n. 380 del 2001 (in senso analogo, Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Soldano, Rv. 238462, secondo cui, qualora si ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra la ristrutturazione edilizia e la nuova costruzione). L'intervento di ristrutturazione, in buona sostanza, comporta pur sempre che la volumetria resti la stessa, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica (e, si deve ritenere, anche per l'eliminazione delle barriere architettoniche).
5.4. Nel caso di specie, come detto, la volumetria del fabbricato principale è stata aumentata mediante ampliamento della sagoma al piano attico. 
Su questa premessa fattuale (necessaria a qualificare l'intervento di "ristrutturazione" del fabbricato principale come "nuova costruzione"), il ricorrente non prende posizione (né mai lo ha fatto), ma si limita a dedurre che per il cambio di destinazione d'uso con opere è sufficiente la dichiarazione di inizio attività; questione, come detto, del tutto irrilevante ai fini della qualificazione dell'intervento, estranea alla "ratio decidendi" e alla stessa rubrica, anche se la natura abusiva dell'intervento stesso rileva, come si vedrà, al fine di escludere la natura pertinenziale del cd. "pro-servizio".
5.5. Allo stesso modo, l'intervento di demolizione e ricostruzione del manufatto di servizio può essere qualificato come "ristrutturazione" solo se viene rispettata la volumetria preesistente, altrimenti si versa nell'ipotesi della "nuova costruzione" (sotto il profilo dell'ampliamento dell'opera) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.08.2017 n. 38632).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza ha caratteristiche sue proprie diverse da quella contemplata dal codice civile e si sostanzia in un'opera che pur essendo preordinata ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e quindi non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato.
Sicché non costituisce pertinenza l'opera priva di propria individualità ed autonomia con la quale, per esempio, venga completamente racchiuso uno spazio aperto (balcone o terrazzo), creando così un tutto materialmente e giuridicamente unitario, che comporti soltanto una relazione interna di reciproco servizio nello ambito dell'edificio che lo comprende
(invero, l'ampliamento di un fabbricato preesistente, nella specie consistito nella realizzazione sul lastrico solare di una struttura di alluminio anodizzato di mq. 15, non può considerarsi pertinenza, ma diventa parte dell'edificio perché, una volta realizzato, ne completa la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di autonomia rispetto all'edificio medesimo; nel senso che le tettoie realizzate a copertura di lastrici non possono essere considerate pertinenze).
Non costituisce, inoltre, pertinenza la costruzione di una parte di edificio in ampliamento e adiacente a quello principale in quanto è evidente che tale vano può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente in altro modo (in verità, in materia edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza si richiede che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti).
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5.9. Costituisce insegnamento costante di questa Suprema Corte che, in materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza ha caratteristiche sue proprie diverse da quella contemplata dal codice civile e si sostanzia in un'opera che pur essendo preordinata ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e quindi non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato (Sez. 3, n. 18299 del 17/01/2003, Chiappalone, Rv. 224288).
Sicché non costituisce pertinenza l'opera priva di propria individualità ed autonomia con la quale, per esempio, venga completamente racchiuso uno spazio aperto (balcone o terrazzo), creando così un tutto materialmente e giuridicamente unitario, che comporti soltanto una relazione interna di reciproco servizio nello ambito dell'edificio che lo comprende (così, la risalente Sez. 3, n. 3831 del 14/02/1983, Toppi, Rv. 158762; nonché, più recentemente, ex plurimis, Sez. 3, n. 28504 del 29/05/2007, Rossi, Rv. 237138, secondo cui l'ampliamento di un fabbricato preesistente, nella specie consistito nella realizzazione sul lastrico solare di una struttura di alluminio anodizzato di mq. 15, non può considerarsi pertinenza, ma diventa parte dell'edificio perché, una volta realizzato, ne completa la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di autonomia rispetto all'edificio medesimo; nel senso che le tettoie realizzate a copertura di lastrici non possono essere considerate pertinenze, cfr. anche Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro, Rv. 257290; Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino, Rv. 247628; Sez. 3, n. 17083 del 07/04/2006, Miranda, Rv. 234193; Sez. 3, n. 40843 del 11/10/2005, Daniele, Rv. 232363); oppure venga realizzata una tettoia di copertura (Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro, Rv. 257290).
Non costituisce, inoltre, pertinenza la costruzione di una parte di edificio in ampliamento e adiacente a quello principale in quanto è evidente che tale vano può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente in altro modo (Sez. 3, n. 5465 del 09/12/2004, Bufano, Rv. 230846; cfr., altresì, Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253064, secondo cui in materia edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza si richiede che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.08.2017 n. 38632).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un progetto, formalmente denominato di variante, si presenta, ai fini della modificazione del computo degli oneri concessori, come indefettibile. Invero:
   - “La presentazione <di un progetto di variante> e di completamento delle opere già previste nella concessione edilizia in precedenza accordata è sufficiente a legittimare un ripensamento dell’Amministrazione <in ordine alla determinazione degli oneri di costruzione, per una nuova considerazione del carico urbanistico>; tuttavia il carico urbanistico non può essere legittimamente valutato in relazione all’intera opera –ivi compresa quella già quasi interamente realizzata sulla base del progetto originario– dovendosi, al contrario, accertare l’entità dell’aggravio in rapporto all’opera “nuova” costituita <dalla variante> e dal completamento successivo alla scadenza della concessione originaria”;
   - “È corretto l’operato dell’Amministrazione Comunale che, in presenza di mutamento di destinazione d’uso da industriale a commerciale di un complesso immobiliare, intervenuto nel decennio dal rilascio delle concessioni originarie, ha applicato il disposto di cui all’art. 10, comma 3, l. n. 10 del 1977 rideterminando gli oneri di urbanizzazione secondo i coefficienti vigenti <alla data di rilascio della variante> in relazione alla destinazione commerciale attribuita e non con riferimento alle tabelle parametriche in origine applicabili per gli impianti industriali”;
   - “Nell’ipotesi di sostanziale difformità tra il progetto edilizio posto a base della concessione edilizia ed <il progetto, formalmente denominato variante, che consiste in realtà in una nuova proposta progettuale, e sulla base del quale siano state effettivamente realizzate le opere>, è illegittima la pretesa del comune di riscuotere il contributo per il costo di costruzione relativo alla concessione suddetta”;
   - “Nel caso in cui un progetto autorizzato viene variato una o più volte in corso d’opera, cosicché alla fine risulta realizzata non quell’opera che originariamente era stata prevista, ma un’opera diversa, i contributi di cui all’art. 3 legge n. 10 del 1977 devono essere determinati in esclusivo riferimento a quest’ultima e non anche a quella originariamente autorizzata; pertanto essi verranno corrisposti ogni volta che viene autorizzato <un progetto (di) variante>, ma il comune nel determinarli dovrà tener conto dell’ammontare delle spese di urbanizzazione e dei costi di costruzione che l’opera <secondo il progetto variato> viene a comportare, computando naturalmente ciò che originariamente era già stato corrisposto per il medesimo titolo”.
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Conviene, in ogni caso, esaminare distintamente le censure, sollevate nell’atto introduttivo del giudizio.
Iniziando quindi da quelle, rivolte alla contestazione della pretesa dell’Amministrazione a riscuotere gli oneri concessori, come determinati in occasione del rilascio dell’originaria concessione edilizia, e in particolare dalla prima doglianza, volta ad evidenziare l’avvenuta riduzione, nel fabbricato realizzato, degli spazi per attività commerciali, con corrispondente incremento di quelli, destinati ad attività artigianali, sicché il Comune avrebbe dovuto, in tesi, procedere alla relativa rideterminazione, in diminuzione, degli oneri de quibus, si rileva come in ricorso sia stato affermata, ma non provata, la presentazione di “apposita istanza al fine di ottenere concessione edilizia in variante all’originario titolo edilizio”.
Detta affermazione è rimasta priva di riscontro probatorio, non essendo stato allegato all’atto introduttivo del giudizio, né depositato successivamente, alcun documento, atto a dimostrare l’avvenuta presentazione di tale titolo edilizio in variante; la circostanza, per di più, è stata espressamente negata dalla difesa dell’Amministrazione Comunale.
Orbene, in ossequio a principi pacifici, in tema di ripartizione dell’onere della prova (“Onus probandi incumbit ei qui dicit, non ei qui negat”), nell’assenza di dimostrazione circa la positiva produzione di un’apposita domanda di concessione edilizia in variante, la circostanza deve ritenersi, ai fini del presente giudizio, esclusa.
Ciò posto, condivisibile si presenta la tesi difensiva del Comune, secondo la quale la pretesa del ricorrente alla riduzione degli oneri concessori, e segnatamente del costo di costruzione, in relazione alla diversa destinazione d’uso finale di taluni spazi dell’immobile edificato, non può essere accolta, in difetto della presentazione d’idoneo progetto in variante, che desse conto dell’avvenuta diversa distribuzione degli spazi, rispetto a quello originario (su cui la richiesta dei medesimi oneri s’è fondata).
L’analisi della giurisprudenza in materia, infatti, consente di ricavare un indirizzo costante, per quanto, talora, implicito, secondo il quale la presentazione di un progetto, formalmente denominato di variante, si presenta, ai fini della modificazione del computo degli oneri concessori, come indefettibile:
   - “La presentazione <di un progetto di variante> e di completamento delle opere già previste nella concessione edilizia in precedenza accordata è sufficiente a legittimare un ripensamento dell’Amministrazione <in ordine alla determinazione degli oneri di costruzione, per una nuova considerazione del carico urbanistico>; tuttavia il carico urbanistico non può essere legittimamente valutato in relazione all’intera opera –ivi compresa quella già quasi interamente realizzata sulla base del progetto originario– dovendosi, al contrario, accertare l’entità dell’aggravio in rapporto all’opera “nuova” costituita <dalla variante> e dal completamento successivo alla scadenza della concessione originaria” (Cons. giust. amm. Sicilia – Sez. giurisd., 14/01/2009, n. 7);
   - “È corretto l’operato dell’Amministrazione Comunale che, in presenza di mutamento di destinazione d’uso da industriale a commerciale di un complesso immobiliare, intervenuto nel decennio dal rilascio delle concessioni originarie, ha applicato il disposto di cui all’art. 10, comma 3, l. n. 10 del 1977 rideterminando gli oneri di urbanizzazione secondo i coefficienti vigenti <alla data di rilascio della variante> in relazione alla destinazione commerciale attribuita e non con riferimento alle tabelle parametriche in origine applicabili per gli impianti industriali” (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 03/09/2008, n. 10035);
   - “Nell’ipotesi di sostanziale difformità tra il progetto edilizio posto a base della concessione edilizia ed <il progetto, formalmente denominato variante, che consiste in realtà in una nuova proposta progettuale, e sulla base del quale siano state effettivamente realizzate le opere>, è illegittima la pretesa del comune di riscuotere il contributo per il costo di costruzione relativo alla concessione suddetta” (TAR Liguria, Sez. I, 26/01/1993, n. 17);
   - “Nel caso in cui un progetto autorizzato viene variato una o più volte in corso d’opera, cosicché alla fine risulta realizzata non quell’opera che originariamente era stata prevista, ma un’opera diversa, i contributi di cui all’art. 3 legge n. 10 del 1977 devono essere determinati in esclusivo riferimento a quest’ultima e non anche a quella originariamente autorizzata; pertanto essi verranno corrisposti ogni volta che viene autorizzato <un progetto (di) variante>, ma il comune nel determinarli dovrà tener conto dell’ammontare delle spese di urbanizzazione e dei costi di costruzione che l’opera <secondo il progetto variato> viene a comportare, computando naturalmente ciò che originariamente era già stato corrisposto per il medesimo titolo” (TAR Emilia Romagna-Bologna, 11/06/1982, n. 302).
Il primo motivo di ricorso, pertanto, non merita accoglimento, non apparendo, al Collegio, sufficiente la produzione –in data 01.12.2014– da parte del ricorrente, di una relazione tecnica, dalla quale “s’evincono le destinazioni d’uso dei singoli spazi dell’immobile”; tanto in assenza, si ribadisce, di alcuna prova, circa la formalizzazione di tali modifiche di destinazione d’uso, in un progetto di variante, formalmente denominato tale, ritualmente presentato al Comune (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esame della giurisprudenza consente di enucleare un orientamento prevalente, nel senso dell’indefettibilità di un accordo, secondo talune massime anche informale, tra Amministrazione e privato, al fine d’ottenere lo scomputo parziale degli oneri in questione. Invero:
   - “L’art. 16, comma 2, d. P. R. n. 380 del 2001 (che ha riprodotto l’art. 11, comma 1, l. n. 10 del 1977) consente al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), <ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia accettata dal Comune> secondo le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e previste <in una convenzione o in un atto unilaterale d’obbligo>";
   - “La normativa in materia (art. 7, 11 e 13 l. n. 10 del 1977 ed ora art. 16 e 17 d.P.R. n. 380 del 2001) prevede solo in determinate ipotesi e <previa convenzione> la possibilità dell’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione mediante lo scomputo, totale o parziale, del contributo, per cui le somme versate per oneri di urbanizzazione non sono rimborsabili perché ciò non è previsto dalla legge”;
   - “L’art. 11, l. n. 10 del 1977, nel prevedere la possibilità per il titolare della concessione edilizia dello scomputo dal contributo delle somme relative a spese per opere di urbanizzazione direttamente realizzate, limita tale possibilità a quelle opere che il concessionario si sia obbligato ad eseguire e dispone espressamente che la possibilità medesima va esercitata <con le modalità e le garanzie stabilite dal comune>, sicché l’esenzione totale o parziale dal pagamento degli oneri di urbanizzazione è espressione di un’attività valutativa, di natura discrezionale, dell’amministrazione che si conclude <con un atto, anche di natura convenzionale, che fissi il tipo e l’entità delle opere ammesse dal comune alla realizzazione diretta da parte del titolare della concessione edilizia> nonché <l’importo economico da scomputare>, mentre l’esenzione in discorso non può mai derivare <dall’autonoma scelta unilaterale del concessionario>; peraltro, pur in assenza di un atto d’obbligo, l’amministrazione può tenere conto della domanda di scomputo delle opere già realizzate senza il previo dettato comunale ove sussista la relativa previsione, anche se solo in forma generica, nella concessione edilizia ovvero la discrezionale determinazione di accettazione “ex post” delle opere da parte del comune stesso”;
   - “Il diritto di scomputo non può configurarsi <in assenza quantomeno di una anche informale “accettazione”, da parte del Comune, dell’opera di urbanizzazione realizzata dal costruttore>, con la ineluttabile conseguenza che, in assenza di qualsivoglia partecipazione consensuale dell’Ente pubblico, anche solo “ex post”, gli oneri contributivi, così come determinati, vanno integralmente corrisposti”.
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Analogo discorso va operato, anche riguardo alla seconda censura dell’atto introduttivo del giudizio.
Anche in tal caso, difetta la prova di qualsivoglia atto convenzionale, intercorso tra Comune e ricorrente, circa la ripartizione della realizzazione degli oneri di urbanizzazione; più in radice, difetta anche la prova della stessa parziale realizzazione di detti oneri, da parte del medesimo ricorrente.
In ogni caso, anche a prescindere da tale ultimo aspetto, l’esame della giurisprudenza in argomento consente, anche in questo caso, di enucleare un orientamento prevalente, nel senso dell’indefettibilità di un accordo, secondo talune massime anche informale, tra Amministrazione e privato, al fine d’ottenere lo scomputo parziale degli oneri in questione:
   - “L’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (che ha riprodotto l’art. 11, comma 1, l. n. 10 del 1977) consente al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), <ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia accettata dal Comune> secondo le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e previste <in una convenzione o in un atto unilaterale d’obbligo" (TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 02/02/2012, n. 279);
   - “La normativa in materia (art. 7, 11 e 13 l. n. 10 del 1977 ed ora art. 16 e 17 d.P.R. n. 380 del 2001) prevede solo in determinate ipotesi e <previa convenzione> la possibilità dell’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione mediante lo scomputo, totale o parziale, del contributo, per cui le somme versate per oneri di urbanizzazione non sono rimborsabili perché ciò non è previsto dalla legge” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 03/08/2006, n. 1118);
   - “L’art. 11, l. n. 10 del 1977, nel prevedere la possibilità per il titolare della concessione edilizia dello scomputo dal contributo delle somme relative a spese per opere di urbanizzazione direttamente realizzate, limita tale possibilità a quelle opere che il concessionario si sia obbligato ad eseguire e dispone espressamente che la possibilità medesima va esercitata <con le modalità e le garanzie stabilite dal comune>, sicché l’esenzione totale o parziale dal pagamento degli oneri di urbanizzazione è espressione di un’attività valutativa, di natura discrezionale, dell’amministrazione che si conclude <con un atto, anche di natura convenzionale, che fissi il tipo e l’entità delle opere ammesse dal comune alla realizzazione diretta da parte del titolare della concessione edilizia> nonché <l’importo economico da scomputare>, mentre l’esenzione in discorso non può mai derivare <dall’autonoma scelta unilaterale del concessionario>; peraltro, pur in assenza di un atto d’obbligo, l’amministrazione può tenere conto della domanda di scomputo delle opere già realizzate senza il previo dettato comunale ove sussista la relativa previsione, anche se solo in forma generica, nella concessione edilizia ovvero la discrezionale determinazione di accettazione “ex post” delle opere da parte del comune stesso” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 04/07/2005, n. 1082);
   - “Il diritto di scomputo non può configurarsi <in assenza quantomeno di una anche informale “accettazione”, da parte del Comune, dell’opera di urbanizzazione realizzata dal costruttore>, con la ineluttabile conseguenza che, in assenza di qualsivoglia partecipazione consensuale dell’Ente pubblico, anche solo “ex post”, gli oneri contributivi, così come determinati, vanno integralmente corrisposti” (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, 11/12/2003, n. 15215).
Con riferimento a quanto emerge dall’ultima delle massime citate, nella specie il Comune, lungi dall’accettare, “ex post”, le opere d’urbanizzazione, asseritamente realizzate dal ricorrente, ha concluso per il respingimento del gravame, anche sotto tale aspetto: ne consegue, di necessità, il rigetto della censura (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: - “Secondo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente, l’art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in deroga alla vigente disciplina urbanistica, <concerne i soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi>, per i quali invece provvede l’art. 2, comma 2, della legge stessa che, nel novellare l’art. 41-sexies, l. fondamentale 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l’obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc di costruzione”;
   - “Le disposizioni ex art. 2 e 9, l. 24.03.1989 n. 122, in materia di realizzazione di parcheggi nel sottosuolo di edifici preesistenti o nei locali siti al piano terreno di questi ultimi, anche in deroga allo strumento urbanistico, possono concernere esclusivamente <fabbricati già esistenti> -all'evidente scopo di adeguarne la struttura alle finalità della l. n. 122 del 1989, qualora essa sia carente sotto questo profilo-, <ma non anche gli edifici in costruzione>, i quali già “ab initio” devono esser progettati, in coerenza con tali finalità”;
   - “La realizzazione di autorimesse e parcheggi destinati al servizio <di fabbricati esistenti> è soggetta ad autorizzazione gratuita esclusivamente se effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, conseguentemente non rientrano in tale disciplina di favore i manufatti realizzati con interramenti ottenuti per effetto del riporto di terra”;
   - “Per poter configurare una pertinenza ex art. 7 d. l. n. 9 del 1982, soggetta ad autorizzazione gratuita (e, in caso di realizzazione abusiva, alla sanzione amministrativa ex art. 10 l. n. 47 del 1985), è necessario <un obiettivo rapporto di strumentalità o di servizio rispetto ad un “edificio” esistente> e non già rispetto ad una “mera” attività economica”;
   - “L’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, che consente di realizzare gratuitamente “nel sottosuolo” parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è una norma che ponendosi in deroga “ (...) agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (...)” è di stretta interpretazione, per cui deve trovare rigorosa applicazione nelle sole fattispecie espressamente previste”.
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Passando, ora, ad analizzare la terza, devono del pari condividersi le deduzioni difensive del Comune, fondate, ancora una volta, sulla disamina della prevalente giurisprudenza, in tema di gratuità dell’edificazione di parcheggi pertinenziali, limitata solo in favore dei proprietari di unità immobiliari, già esistenti.
Possono richiamarsi, a tale proposito, le decisioni seguenti:
   - “Secondo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente, l’art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in deroga alla vigente disciplina urbanistica, <concerne i soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi>, per i quali invece provvede l’art. 2, comma 2, della legge stessa che, nel novellare l’art. 41-sexies, l. fondamentale 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l’obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc di costruzione” (TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 20/09/2013, n. 2192; conforme: Consiglio di Stato, Sez. IV, 16/04/2012, n. 2185);
   - “Le disposizioni ex art. 2 e 9, l. 24.03.1989 n. 122, in materia di realizzazione di parcheggi nel sottosuolo di edifici preesistenti o nei locali siti al piano terreno di questi ultimi, anche in deroga allo strumento urbanistico, possono concernere esclusivamente <fabbricati già esistenti> -all'evidente scopo di adeguarne la struttura alle finalità della l. n. 122 del 1989, qualora essa sia carente sotto questo profilo-, <ma non anche gli edifici in costruzione>, i quali già “ab initio” devono esser progettati, in coerenza con tali finalità” (Consiglio di Stato – Sez. V, 27/09/1999, n. 1185);
   - “La realizzazione di autorimesse e parcheggi destinati al servizio <di fabbricati esistenti> è soggetta ad autorizzazione gratuita esclusivamente se effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, conseguentemente non rientrano in tale disciplina di favore i manufatti realizzati con interramenti ottenuti per effetto del riporto di terra” (Cassazione penale, Sez. III, 09/05/2003, n. 26825);
   - “Per poter configurare una pertinenza ex art. 7 d. l. n. 9 del 1982, soggetta ad autorizzazione gratuita (e, in caso di realizzazione abusiva, alla sanzione amministrativa ex art. 10 l. n. 47 del 1985), è necessario <un obiettivo rapporto di strumentalità o di servizio rispetto ad un “edificio” esistente> e non già rispetto ad una “mera” attività economica” (TAR Liguria, Sez. I, 26/11/2012, n. 1503);
   - “L’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, che consente di realizzare gratuitamente “nel sottosuolo” parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è una norma che ponendosi in deroga “ (...) agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (...)” è di stretta interpretazione, per cui deve trovare rigorosa applicazione nelle sole fattispecie espressamente previste” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 13/07/2011, n. 4234).
Anche la predetta doglianza deve essere, pertanto, disattesa (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il computo degli oneri di urbanizzazione costituisce provvedimento di per sé vincolato, che va emesso sulla base di parametri prestabiliti e che, pertanto, non richiede una specifica motivazione sulla determinazione delle relative somme.
Il calcolo dei contributi concessori dovuti costituisce attività vincolata, non autoritativa, che si fonda sull’applicazione automatica di regole di calcolo previste da fonte normativa, senza alcun contenuto di discrezionalità. Pertanto, non sussiste al riguardo l’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 3, l. n. 241 del 1990 per i provvedimenti amministrativi, ed eventuali vizi di carattere formale recedono di fronte alla verifica, anche in sede giurisdizionale, dei presupposti che rendono ragione della pretesa pecuniaria.
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Né miglior sorte può essere riservata alla quarta, in cui si lamenta il difetto d’adeguata motivazione dell’atto, con cui il Comune ha quantificato oneri (e sanzioni) dovute dal ricorrente.
Valga, a tale riguardo, il richiamo della giurisprudenza dominante, secondo la quale:
   - “Il computo degli oneri di urbanizzazione costituisce provvedimento di per sé vincolato, che va emesso sulla base di parametri prestabiliti e che pertanto non richiede una specifica motivazione sulla determinazione delle relative somme” (Consiglio di Stato, Sez. V, 21/05/2014, n. 2606);
   - “Il calcolo dei contributi concessori dovuti costituisce attività vincolata, non autoritativa, che si fonda sull’applicazione automatica di regole di calcolo previste da fonte normativa, senza alcun contenuto di discrezionalità. Pertanto, non sussiste al riguardo l’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 3, l. n. 241 del 1990 per i provvedimenti amministrativi, ed eventuali vizi di carattere formale recedono di fronte alla verifica, anche in sede giurisdizionale, dei presupposti che rendono ragione della pretesa pecuniaria” (TAR Toscana, Sez. III, 06/04/2010, n. 928).
In conclusione, la determinazione degli oneri concessori, come effettuata dal Comune di Pontecagnano Faiano, con la nota specificata in epigrafe, si sottrae alle censure di parte ricorrente (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora il titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a garanzia del versamento dei contributi, una polizza fideiussoria priva del beneficio di preventiva escussione dell’obbligato principale, ai sensi dell’art. 1227, secondo comma, c.c., che pone a carico del creditore i danni che questi avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, non possono essere applicate le sanzioni previste dall’art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47, per il caso di omesso o ritardato versamento dei contributi, ove l’amministrazione creditrice, violando i doveri di correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel chiedere al garante il pagamento delle somme dovute.
Il ritardato pagamento dei contributi afferenti al rilascio del permesso di costruire, ove il titolare del permesso stesso abbia presentato fideiussione a prima richiesta a garanzia della corresponsione delle rate delle somme dovute, non comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 3, l. n. 47 del 1985 per ritardato pagamento, in quanto il Comune, decorsa la scadenza fissata per il pagamento di ciascuna rata, è tenuto a chiedere il pagamento al fideiussore, in quanto l’amministrazione deve rendere meno gravosa la posizione del debitore nell’adempiere all’obbligazione.
Ove il titolare della concessione edilizia (ora, permesso per costruire) abbia stipulato fideiussione a garanzia del pagamento dei relativi contributi ed il garante abbia comunicato al comune l’impegno a versare “a prima richiesta” gli importi non corrisposti dal concessionario, deve ritenersi illegittima, in base all’art. 1227, comma 2, c.c., l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 3, l. 28.02.1985 n. 47, per il ritardo nel versamento del contributo edilizio, nel caso di mancata cooperazione del comune creditore all’adempimento dell’obbligazione.
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Sulle somme indebitamente riscosse a titolo di contributi urbanistici ex art. 3, l. 28.01.1977 n. 10 spettano gli interessi legali dalla data della domanda di restituzione, ma non anche la rivalutazione monetaria, trattandosi di un’obbligazione di restituzione d’indebito oggettivo.
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Diversamente deve ritenersi, quanto alla pretesa, dello stesso Comune, di ottenere dal ricorrente il pagamento delle sanzioni, ex art. 3 l. 47/1985.
A tal proposito, carattere decisivo, con assorbimento d’ogni altro profilo di doglianza, riveste la considerazione della censura, in cui s’è posto in risalto come il ricorrente avesse prestato garanzia fideiussoria a prima richiesta, non prevedente la necessità d’escutere preventivamente il debitore principale, onde, in casi del genere, le sanzioni applicate risultano prive di valida giustificazione, come ritenuto dalla giurisprudenza, cui la Sezione ritiene di aderire.
Si premette che la presentazione di tale garanzia fideiussoria costituisce un dato acquisito al processo, essendo stata la circostanza affermata dal ricorrente e non negata dalla difesa dell’Amministrazione Comunale, che ha, anzi, esibito copia della relativa polizza (si legga l’art. 7 della stessa, sull’esclusione del “beneficium excussionis”).

Si tengano, allora, presenti le seguenti massime:
   - “Qualora il titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a garanzia del versamento dei contributi, una polizza fideiussoria priva del beneficio di preventiva escussione dell’obbligato principale, ai sensi dell’art. 1227, secondo comma, c.c., che pone a carico del creditore i danni che questi avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, non possono essere applicate le sanzioni previste dall’art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47, per il caso di omesso o ritardato versamento dei contributi, ove l’amministrazione creditrice, violando i doveri di correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel chiedere al garante il pagamento delle somme dovute” (Consiglio di Stato, Sez. I, 17/05/2013, n. 11663);
   - “Il ritardato pagamento dei contributi afferenti al rilascio del permesso di costruire, ove il titolare del permesso stesso abbia presentato fideiussione a prima richiesta a garanzia della corresponsione delle rate delle somme dovute, non comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 3, l. n. 47 del 1985 per ritardato pagamento, in quanto il Comune, decorsa la scadenza fissata per il pagamento di ciascuna rata, è tenuto a chiedere il pagamento al fideiussore, in quanto l’amministrazione deve rendere meno gravosa la posizione del debitore nell’adempiere all’obbligazione” (TAR Toscana, Sez. III, 27/09/2012, n. 1564);
   - “Ove il titolare della concessione edilizia (ora, permesso per costruire) abbia stipulato fideiussione a garanzia del pagamento dei relativi contributi ed il garante abbia comunicato al comune l’impegno a versare “a prima richiesta” gli importi non corrisposti dal concessionario, deve ritenersi illegittima, in base all’art. 1227, comma 2, c.c., l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 3, l. 28.02.1985 n. 47, per il ritardo nel versamento del contributo edilizio, nel caso di mancata cooperazione del comune creditore all’adempimento dell’obbligazione” (TAR Lazio–Latina, 13/11/2006, n. 1660; conforme: TAR Campania–Napoli, Sez. II, 21/05/2008, n. 4856).
L’accoglimento del ricorso, sotto il profilo dianzi evidenziato, comporta che il Comune resistente dovrà scomputare, dall’importo richiesto al ricorrente, quello per le prefate sanzioni.
Quanto alla richiesta, genericamente formulata nell’epigrafe del ricorso, di dichiarare l’obbligo del Comune di procedere alla restituzione delle somme, indebitamente percepite, oltre interessi e rivalutazione monetaria, è evidente che la stessa potrà riguardare, giusta le considerazioni che precedono, soltanto gli importi, già eventualmente versati, dal ricorrente, a titolo di sanzioni ex art. 3 l. 47/1985, importi che, in tale eventualità, gli dovranno, evidentemente, essere restituiti, ovvero dovranno essere scomputati dalle somme, richieste a titolo di oneri concessori (ove non ancora pagate).
Su tali somme (dovute a titolo di sanzioni), ove eventualmente (e nella parte) da rimborsare, andranno calcolati gli interessi legali, dalla data della domanda giudiziale, sino al soddisfo, mentre andrà esclusa, invece, la rivalutazione monetaria (“
Sulle somme indebitamente riscosse a titolo di contributi urbanistici ex art. 3, l. 28.01.1977 n. 10 spettano gli interessi legali dalla data della domanda di restituzione, ma non anche la rivalutazione monetaria, trattandosi di un’obbligazione di restituzione d’indebito oggettivo” – Consiglio di Stato, Sez. V, 05/06/1997, n. 591) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La convenzione di lottizzazione rappresenta un istituto di complessa ricostruzione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale. Tuttavia la giurisprudenza è concorde nel ritenere che esso sia frutto dell’incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal codice civile.
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle ipotesi in cui alcuni contenuti dell’accordo vengono proposti dall’Amministrazione in termini non modificabili dal privato, essendo evidente che una tale evenienza non esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso di invalidità del contratto.
Ora, la puntuale e dettagliata descrizione degli obblighi inerenti gli oneri di urbanizzazione contenuta nella convenzione, escludono che essi non siano il risultato di una libera negoziazione tra le parti, e debbano, invece, ascriversi alla determinazione unilaterale del comune che, peraltro, avrebbe fatto illegittima applicazione delle tariffe comunali, non ancora adeguate alle nuove tabelle regionali.
Depongono in senso contrario alla tesi della società appellante una serie di circostanze, quali, in primo luogo, quella della data di sottoscrizione della convenzione, avvenuta il 13.06.2002 e, quindi, quando le nuove tabelle regionali erano state adottate da oltre due anni.
Depongono, ancora, in tale senso le precise e minuziose prescrizioni in tema di tipologia e quantificazione di opere di urbanizzazione e, soprattutto, la disposizione, contenuta all'ultimo comma dell’art. 9, il quale –a proposito degli oneri di urbanizzazione primaria– prevede che “ove il costo delle opere di urbanizzazione primaria eseguite direttamente dai proponenti ecceda l'onere forfetariamente determinato, ai proponenti stessi non è dovuto alcun rimborso, compenso o scomputo da altri oneri a qualsiasi titolo determinati”.
A fronte di tale inequivoca volontà espressa dalle parti contraenti, è facile rilevare che il privato ha inteso liberamente assumere impegni patrimoniali più onerosi rispetto a quel li astrattamente previsti dalla legge: impegno questo che rientra nella piena disponibilità delle parti, posto che la normativa vigente non esclude affatto che le parti possano, per valutazioni di convenienza, regolare il rapporto in termini diversi.
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2.2. Le conclusioni del primo giudice devono essere confermate.
La tesi dell’appellante, secondo cui l’importo richiesto a titolo di oneri di urbanizzazione, non può farsi risalire alla volontà contrattuale liberamente espressa dalle parti, ma si concretizza in una determinazione unilaterale del comune, peraltro, in contrasto con le nuove tabelle regionali, non può essere condivisa.
Com’è noto, la convenzione di lottizzazione rappresenta un istituto di complessa ricostruzione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale. Tuttavia la giurisprudenza è concorde nel ritenere che esso sia frutto dell’incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal codice civile.
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle ipotesi, come quella in esame, in cui alcuni contenuti dell’accordo vengono proposti dall’Amministrazione in termini non modificabili dal privato, essendo evidente che una tale evenienza non esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso di invalidità del contratto.
Ora, nella fattispecie, la puntuale e dettagliata descrizione degli obblighi inerenti gli oneri di urbanizzazione contenuta nella convenzione, escludono che essi non siano il risultato di una libera negoziazione tra le parti, e debbano, invece, ascriversi alla determinazione unilaterale del comune che, peraltro, avrebbe fatto illegittima applicazione delle tariffe comunali, non ancora adeguate alle nuove tabelle regionali.
Depongono in senso contrario alla tesi della società appellante una serie di circostanze, quali, in primo luogo, quella della data di sottoscrizione della convenzione, avvenuta il 13.06.2002 e, quindi, quando le nuove tabelle regionali erano state adottate da oltre due anni.
Depongono, ancora, in tale senso le precise e minuziose prescrizioni in tema di tipologia e quantificazione di opere di urbanizzazione e, soprattutto, la disposizione, contenuta all'ultimo comma dell’art. 9, il quale –a proposito degli oneri di urbanizzazione primaria– prevede che “ove il costo delle opere di urbanizzazione primaria eseguite direttamente dai proponenti ecceda l'onere forfetariamente determinato, ai proponenti stessi non è dovuto alcun rimborso, compenso o scomputo da altri oneri a qualsiasi titolo determinati”.
A fronte di tale inequivoca volontà espressa dalle parti contraenti, è facile rilevare che il privato ha inteso liberamente assumere impegni patrimoniali più onerosi rispetto a quel li astrattamente previsti dalla legge: impegno questo che rientra nella piena disponibilità delle parti, posto che la normativa vigente non esclude affatto che le parti possano, per valutazioni di convenienza, regolare il rapporto in termini diversi (cfr., CdS, Sez. V, 29.09.1999, n. 1209).
In tale quadro ricostruttivo della volontà delle parti, non assume rilievo il richiamo, operato dall’appellante, alla specifica previsione della convenzione, nella parte in cui dispone che all’atto del rilascio delle singole concessioni l’importo degli oneri forfettariamente determinati deve essere adeguato in base agli aggiornamenti avvenuti agli oneri unitari stabiliti dalle tariffe comunali.
Contrariamente a quanto mostra di ritenere la società Ni., tale clausola, contenuta nell’art. 9 in tema di oneri di urbanizzazione secondaria, è riferita al caso in cui gli oneri unitari stabiliti dalle tariffe comunali in vigore all’atto del rilascio delle singole concessioni abbiano subito un aggiornamento in aumento.
Dalle considerazioni che precedono si ricava che diversamente da quanto ritenuto dalla società Ni., non vi sono elementi per ritenere che il contenuto della convenzione non sia stato frutto di una libera negoziazione tra le parti contraenti, in esse compresa la Ca.Du., dante causa dell'odierna appellante e firmataria della convenzione.
La pretesa della società Ni. –che, è bene ribadire, non ha sottoscritto la convenzione ma ha acquistato il tutto dalla Ca.Du.– di voler rimettere in discussione obblighi liberamente assunti dalla sua dante causa è, quindi, infondata e va respinta (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.07.2005 n. 4015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.06.2019

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Diritto di accesso, o meno, agli atti amministrativi: la storia infinita...

ATTI AMMINISTRATIVI: Istanza di accesso – Differenza tra richieste esplorative e richieste generiche o ad ampio spettro – Ammissibilità delle richieste generiche – Fondamento.
Va evidenziato:
   - che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
   - che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”;
   - che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso;
   - che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”;
   - che va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del quale si richiede l’accesso), non imponendosi che l'accesso al documento sia unicamente e necessariamente funzionale all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante;
   - che la “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata dalla L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnazione, e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo;
   - che, in definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i documenti sono suscettibili di interferire con la sfera giuridica del soggetto istante.
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Va considerato:
   - che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di riservatezza di soggetti terzi;
   - che deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art. 24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto di difesa è garantito a livello costituzionale;
   - che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si assumano lese;
   - che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma.
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Va tenuto conto:
   - che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine del soddisfacimento della pretesa correlata;
   - che, nella fattispecie, appare chiara la correlazione tra l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva sottostante, ovvero l’esistenza di un collegamento funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del documento richiesto;
   - che, infatti, la divulgazione degli atti attestanti l’utilizzo del contributo di escavazione soddisfa una concreta aspirazione dell’istante, la quale è chiaramente titolare dell’interesse a prenderne cognizione al fine di vagliare la situazione di fatto e orientare le proprie scelte successive, anche in sede giurisdizionale;
   - che questo TAR ha sostenuto che il diritto di accesso non può essere subordinato all’avvio di una controversia sulla pretesa di merito, al fine di provocare l’ordine del giudice rivolto a un terzo o a una pubblica amministrazione per l’esibizione di documenti ex art. 210-213 cpc;
   - che non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via giurisdizionale e attivando la controversia di merito;
   - che la sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del documento da parte dell’amministrazione detentrice, una volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116 cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte del giudice.
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Per quanto riguarda l’ampiezza dell’istanza di accesso, occorre distinguere le richieste esplorative da quelle semplicemente generiche o ad ampio spettro. Solo le prime possono essere respinte come un indebito tentativo di sottoporre a controllo l’intera attività amministrativa. Le seconde risultano invece perfettamente ammissibili, in quanto sono una conseguenza dell’asimmetria informativa, che vede i privati in posizione disvantaggio rispetto all’amministrazione.
In effetti, i privati, conoscendo in modo imperfetto e atecnico le pratiche amministrative, e dovendosi talvolta basare solo su quanto è osservabile nella realtà quotidiana (ad esempio, il mutamento dello stato dei luoghi), sono costretti a proporre l’istanza di accesso in termini descrittivi e generici, e a coinvolgere nella richiesta ogni provvedimento che abbia un collegamento anche solo apparente con la vicenda che li riguarda (ad esempio, gli atti citati nelle premesse o nella motivazione per relationem); a fronte di istanze così formulate, gli uffici comunali sono gravati da un obbligo di leale collaborazione avente un duplice contenuto, positivo e negativo.
Da un lato
, devono aiutare i richiedenti a focalizzare esattamente la documentazione che presenta elementi di interesse, fornendo le informazioni necessarie a chiarire il contesto entro cui si è svolta l’attività amministrativa. Dall’altro, devono evitare di sostituirsi ai richiedenti nel giudizio sulla rilevanza dei provvedimenti inseriti nelle pratiche amministrative o richiamati negli atti già offerti in visione. Una volta che i richiedenti abbiano precisato o integrato l’istanza di accesso, gli unici limiti sono ravvisabili nella presenza di dati sensibili, la cui divulgazione richiede un supplemento di valutazione. Peraltro, nel caso in esame non sono stati evidenziati elementi di questa natura.
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... per l’esercizio del diritto di accesso ALLA DOCUMENTAZIONE DETENUTA DAL COMUNE INTIMATO, INDICATA NELLA DOMANDA DI ACCESSO TRASMESSA IL 05/12/2018 E RELATIVA ALLE MODALITA’ DI UTILIZZO DEL CONTRIBUTO DI ESCAVAZIONE.
...
Evidenziato:
   - che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
   - che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”;
   - che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso;
   - che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”;
   - che va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del quale si richiede l’accesso), non imponendosi che l'accesso al documento sia unicamente e necessariamente funzionale all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 01/08/2017 n. 3831);
   - che la “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata dalla L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnazione, e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo (Consiglio di Stato, sez. VI – 30/03/2017 n. 1453);
   - che, in definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i documenti sono suscettibili di interferire con la sfera giuridica del soggetto istante;
Atteso:
   - che la Società ricorrente svolge attività di coltivazione di sabbia e ghiaia, e deve corrispondere al Comune di Ghedi i diritti di escavazione previsti dall’art. 6 della convenzione stipulata tra le parti (doc. 4), in ossequio all’art. 15, comma 1, della L.r. 14/1998;
   - che la convenzione prevede che “La Ditta si impegna a versare al Comune, a titolo di contributo alla spesa necessaria per la realizzazione delle infrastrutture e degli interventi pubblici a servizio dell’attività estrattiva nonché per gli interventi pubblici di recupero ambientale dell’area interessata direttamente o indirettamente dall’attività estrattiva, una somma pari a € 0,50 … per mc….”;
   - che l’esponente lamenta il mancato parziale riconoscimento di una rateizzazione per i versamenti relativi alle annualità 2016-2017;
   - che, nel riscontrare la richiesta di rendicontazione dell’utilizzo effettivo del contributo inoltrata con nota 21/08/2018 (doc. 8), il Comune (cfr. nota 06/11/2018 doc. 9) ha ribadito il diniego all’istanza di rateizzazione, e ha affermato “che le somme fino ad ora versate, escluse le annualità 2017 (escavazione 2016) e 2018 (escavazione 2017) sono state utilizzate dall’Ente per il pagamento degli espropri e dei relativi atti notarili per la realizzazione della deviante Ovest al centro abitato comunale … Parte delle somme ai sensi ed effetti del comma 2 dell’art. 25 della L.R. 14/1998 per la quota ammontante al 15% sono già state corrisposte alla Provincia di Brescia … alla Provincia di Brescia è stata altresì riversata la corrispondente quota dell’annualità 2017 (escavazione 2016) ed entro il mese di dicembre c.a. verrà anche versata la quota afferente l’annualità 2018 (escavazione 2017”;
   - che, con PEC del 05/12/2018 (doc. 10) la ricorrente ha rinnovato la richiesta <<con riguardo alla documentazione comprovante l'effettivo utilizzo delle risorse percepite dal Comune conformemente alle destinazioni indicate dall’art. 15, co. 1, lett. a), della LR n. 14 del 1998. In particolare, atteso che tale utilizzo risulterebbe legato al pagamento degli espropri delle aree relative alla “realizzazione deviante esterna al centro abitato della SP24” eseguite e collaudate con protocollo 0013649 del 26/07/211 del Vs Comune.", si chiede cortese copia dei rogiti per i quali dette risorse sono state utilizzate, nonché della documentazione contabile attestante l'effettiva corrispondenza dell'importo liquidato con quanto liquidato dalla scrivente. Parimenti, si chiede dove siano allocate, sui bilanci di previsione 2017 e 2018, in conto uscita le previste entrate oggetto della diffida di pagamento del 12.06.2018. La presente richiesta di accesso ad atti ed informazioni avviene ex artt 22 e ss.gg. della Legge n. 241 del 1990, è motivata dall'interessa a conoscere l'effettiva giustificazione del versamento con l'utilizzo dei diritti di escavazione per le finalità determinate dal Legislatore ...>>;
   - che, ad avviso della ricorrente, l’interesse sotteso all’istanza di esibizione è legato al fatto che il versamento dei diritti di coltivazione risponde ad uno scopo normativamente e convenzionalmente individuato, del cui assolvimento il Comune deve dare conto al cavatore autorizzato;
   - che l’utilizzo del contributo per la realizzazione delle infrastrutture e degli interventi pubblici a servizio dell’attività estrattiva dovrebbe giovare, anzitutto, al cavatore il quale avrebbe titolo –in un eventuale contenzioso civile– per opporre l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., ove il Comune non fosse in grado di dimostrare l’effettiva destinazione degli importi riscossi per dette finalità;
   - che, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. a), della L.r. 14/1998 la misura del dovuto “comunque non può essere superiore a quella occorrente per la realizzazione degli interventi predetti”;
   - che, per le ragioni esposte, la ricorrente avrebbe titolo per conoscere il quantum e la destinazione delle spese effettuate dal Comune giovandosi dei contributi ricevuti;
   - che, in Camera di consiglio, il legale di parte ricorrente ha chiarito –con dichiarazione resa a verbale– il perimetro dell’istanza di accesso, circoscrivendola (1) alla copia dei rogiti con i quali sono state eseguite opere (o acquisite aree) attraverso il finanziamento derivante dai canoni versati al Comune quale corrispettivo dell’attività estrattiva nonché (2) agli atti amministrativi e contabili che, in relazione ai predetti rogiti, attestano l'effettiva corrispondenza tra l'importo liquidato dal Comune e quanto versato dalla ricorrente;
Considerato:
   - che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di riservatezza di soggetti terzi (cfr. Consiglio di Stato, ad. plenaria – 04/02/1997 n. 5);
   - che deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art. 24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto di difesa è garantito a livello costituzionale;
   - che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si assumano lese;
   - che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma (Consiglio di Stato, sez. VI – 09/04/2018 n. 2158);
Dato atto:
   - che la difesa comunale ha sottolineato l’obbligo della Società di corrispondere il quantum dovuto in proporzione ai quantitativi scavati, e che il mancato versamento rende inammissibile la pretesa ostensiva (poiché l’utilizzo presuppone l’incasso del canone dovuto);
   - che sostiene che le somme riscosse non hanno una destinazione assolutamente vincolata, visto che l’art. 15, comma 5, della L.r. 14/1998 statuisce che “Le somme versate ai sensi del comma 1 debbono essere prioritariamente utilizzate dai Comuni per la realizzazione delle infrastrutture e degli interventi di cui al medesimo comma” (e dunque la Società non vanterebbe un interesse tutelato ad acquisire la documentazione relativa all’impiego delle somme predette);
   - che, in ogni caso, il Comune avrebbe illustrato l’utilizzo dei canoni, specificandone imputazione e utilizzo;
   - che la ricorrente intenderebbe, in questo modo, esercitare un controllo generalizzato sull’attività del Comune;
Tenuto conto:
   - che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine del soddisfacimento della pretesa correlata (cfr. sentenza Sezione 14/05/2018 n. 479);
   - che, nella fattispecie, appare chiara la correlazione tra l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva sottostante, ovvero l’esistenza di un collegamento funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del documento richiesto (cfr. in proposito TAR Campania Napoli, sez. VI – 29/06/2016 n. 3287);
   - che, infatti, la divulgazione degli atti attestanti l’utilizzo del contributo di escavazione soddisfa una concreta aspirazione dell’istante, la quale è chiaramente titolare dell’interesse a prenderne cognizione al fine di vagliare la situazione di fatto e orientare le proprie scelte successive, anche in sede giurisdizionale;
   - che questo TAR (cfr. sentenza sez. I – 20/05/2014 n. 535) ha sostenuto che il diritto di accesso non può essere subordinato all’avvio di una controversia sulla pretesa di merito, al fine di provocare l’ordine del giudice rivolto a un terzo o a una pubblica amministrazione per l’esibizione di documenti ex art. 210-213 cpc;
   - che non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via giurisdizionale e attivando la controversia di merito;
   - che la sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del documento da parte dell’amministrazione detentrice, una volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116 cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte del giudice;
Rilevato:
   - che la ricorrente non intende esercitare un “controllo generalizzato” sull’attività del Comune, visto che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto, costituito da componenti economiche relative al reimpiego delle somme versate ai sensi dall’art. 6 della convenzione sottoscritta ai sensi dell’art. 15 della L.r. 14/1998;
   - che questa Sezione (cfr. sentenza 05/12/2017 n. 1410) ha statuito che <<per quanto riguarda l’ampiezza dell’istanza di accesso, occorre distinguere le richieste esplorative da quelle semplicemente generiche o ad ampio spettro. Solo le prime possono essere respinte come un indebito tentativo di sottoporre a controllo l’intera attività amministrativa. Le seconde risultano invece perfettamente ammissibili, in quanto sono una conseguenza dell’asimmetria informativa, che vede i privati in posizione disvantaggio rispetto all’amministrazione. In effetti, i privati, conoscendo in modo imperfetto e atecnico le pratiche amministrative, e dovendosi talvolta basare solo su quanto è osservabile nella realtà quotidiana (ad esempio, il mutamento dello stato dei luoghi), sono costretti a proporre l’istanza di accesso in termini descrittivi e generici, e a coinvolgere nella richiesta ogni provvedimento che abbia un collegamento anche solo apparente con la vicenda che li riguarda (ad esempio, gli atti citati nelle premesse o nella motivazione per relationem); (f) a fronte di istanze così formulate, gli uffici comunali sono gravati da un obbligo di leale collaborazione avente un duplice contenuto, positivo e negativo. Da un lato, devono aiutare i richiedenti a focalizzare esattamente la documentazione che presenta elementi di interesse, fornendo le informazioni necessarie a chiarire il contesto entro cui si è svolta l’attività amministrativa. Dall’altro, devono evitare di sostituirsi ai richiedenti nel giudizio sulla rilevanza dei provvedimenti inseriti nelle pratiche amministrative o richiamati negli atti già offerti in visione. Una volta che i richiedenti abbiano precisato o integrato l’istanza di accesso, gli unici limiti sono ravvisabili nella presenza di dati sensibili, la cui divulgazione richiede un supplemento di valutazione. Peraltro, nel caso in esame non sono stati evidenziati elementi di questa natura>>;
   - che, alla luce di quanto evidenziato, il carattere “non vincolato” della destinazione dei fondi ex art. 15, comma 5, della L.r. 14/1998 non esclude l’interesse sotteso alla pretesa ostensiva, e comunque si tratta di questione che esula dalla giurisdizione di questo TAR;
   - che la nota comunale del 6/11/2018 sulle modalità di utilizzo del canone (pagamento degli espropri e dei relativi atti notarili per la realizzazione della deviante Ovest al centro abitato comunale; quota del 15% di competenza della Provincia, anche per le annualità 2017 e 2018) non può ritenersi sufficiente, dovendo essere corredata dalla documentazione pertinente;
Ritenuto, conclusivamente:
   - che sono suscettibili di divulgazione gli atti attestanti il pagamento degli oneri espropriativi di cui il Comune ha dato conto, ossia:
• i rogiti con i quali sono state eseguite opere (o acquisite aree) attraverso il finanziamento derivante dai canoni versati al Comune quale corrispettivo dell’attività estrattiva;
• gli atti amministrativi e contabili che, in relazione ai predetti rogiti, attestano l'effettiva corrispondenza tra l'importo liquidato dal Comune e quanto versato dalla ricorrente;
   - che tuttavia, in ossequio al principio di proporzionalità, l’amministrazione deve esibire gli atti detenuti nei propri archivi anche informatici senza il compimento di un’attività di rielaborazione, non contemplata dalla normativa di settore (cfr. sentenza sez. II – 19/12/2018 n. 1212 e la giurisprudenza ivi evocata);
   - che, in definitiva, il ricorso in esame è fondato e merita accoglimento nei limiti esposti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 12.04.2019 n. 347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per comune e consolidato intendimento, il diritto di accesso c.d. documentale, riconosciuto dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990, garantisce ai (soli) soggetti legittimati (in quanto portatori di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata”) l’ostensione (sotto la concorrente forma della presa di visione e della estrazione di copia) ai documenti (formati o, comunque, detenuti) dall’amministrazione, in ordine ai quali sussista, come che sia, un “collegamento” con la posizione legittimante, al quale è segnatamente ancorato (nella scolpita preclusione ad un “controllo generalizzato”, proprio di altre forme di accesso uti civis, della complessiva azione amministrativa) il necessario e pregiudiziale vaglio di meritevolezza della valorizzata pretesa ostensiva.
Occorre, in altri termini, che l’istante:
   a) sia intestatario di una posizione “soggettiva” apprezzabile e, come tale, sufficientemente differenziata nella vita di relazione, indipendentemente dalla sua consistenza formale (diritto soggettivo, interesse legittimo, interesse diffuso, interesse di mero fatto);
   b) dimostri un “collegamento” tra siffatta posizione e i dati e le informazioni a qualsiasi titolo incorporate in supporti documentali detenuti da una pubblica amministrazione (o da soggetti equiparati);
   c) valorizzi, in siffatta prospettiva “strumentale”, la concreta e specifica “utilità” della pretesa ostensiva (ancorché non necessariamente preordinata all’esperimento di tutele giurisdizionali).
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Occorre interrogarsi –per completezza di disamina– in ordine alla possibilità di “riqualificare” l’istanza di accesso documentale formulata dall’odierno appellante, veicolandola nei più comprensivi ambiti dell’accesso civico generalizzato.
Come è noto, invero, l'accesso alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni (e dei soggetti ad esse equiparati) si articola e declina oggi in tre diversi istituti (quattro, ove si voglia considerare anche l’accesso c.d. procedimentale di cui all’art. 10 della l. n. 241/1990, che garantisce l’ostensione degli atti e dei documenti acquisiti al procedimento amministrativo, garantendo una partecipazione informata e, come tale, effettiva), ognuno dei quali caratterizzato da propri presupposti, limiti, eccezioni e rimedi:
   a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n. 241/1990), che consente ai (soli) soggetti “interessati” (in quanto, come diffusamente chiarito supra, portatori di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata”) di “prendere visione” e di “estrarre copia” di dati incorporati in supporti documentali formati o, comunque, detenuti da soggetti pubblici;
   b) l'accesso civico, concesso a “chiunque”, a “documenti, informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente imposta (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33/2013);
   c) l’accesso (civico) generalizzato, parimenti concesso uti civis (“senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita “motivazione” giustificativa), in relazione a “dati, informazioni o documenti”, ancorché non assoggettati all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2 d.lgs. cit., introdotto dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 97/2016: c.d. Freedom of Information Act).
Si tratta di istituti che –lungi dal configurare un unico diritto- concretano un insieme di sistemi di garanzia, tra loro diversificati, corrispondenti ad altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza da parte dei soggetti pubblici (arg. ex art. 5, comma 11, d.lgs. n. 33/2013, che prefigura, scolpendo la salvezza della disciplina codificata dalla l. n. 241/1990) un regime di convivenza di plurime “forme di accesso”).
Onde il “sistema” dell’accesso alle informazioni pubbliche si presenta articolato e frastagliato, esibendo una multiformità tipologica, resa ancora più articolata dalla presenza di discipline speciali e settoriali, connotate di proprie peculiarità e specificità (cfr. l’art. 3 d.lgs. n. 195/2005, in materia di accesso ambientale; l’art. 43, comma 2, del t.u. n. 267/2000, che abilita i consiglieri comunali e provinciali all’acquisizione di tutte le informazioni strumentali all’esercizio del proprio mandato, vincolandosi al segreto d’ufficio; l’art. 53 del d.lgs. n. 50/2016, in materia di contratti pubblici): di qui la tensione che emerge, anche nella più recente giurisprudenza, non solo tra i tre istituti di accesso che operano sul piano generale, ma anche tra la normativa generale e quella speciale (per la quale si pone, essenzialmente, il problema di prefigurarne, volta a volta e sotto singoli profili di rilievo, l’attitudine derogatoria o la dimensione integrativa).
La complessità del quadro (già operante al descritto livello morfologico), trae alimento –sul parallelo piano assiologico– dalla progressivo arricchimento della natura degli interessi riversati sul principio di trasparenza: non più semplicemente ancorato al diritto alla informazione ed alla partecipazione democratica, ma informato al perseguimento di ulteriori (e non sempre convergenti) obiettivi, come la tutela della concorrenza, il contrasto alla corruzione, la riduzione della spesa pubblica, la promozione della qualità dei servizi, il controllo sulle performance dei dipendenti.
Ed chiaro, in questa seconda prospettiva, che l'asse valoriale di volta in volta preso a riferimento condiziona variamente:
   a) sul piano operativo, i termini e le modalità del (necessario) bilanciamento tra la trasparenza e gli altri interessi (pubblici e privati) con essa confliggenti;
   b) sul piano organizzativo, l’assetto delle relative competenze (di gestione, regolazione e governance);
   c) sul piano remediale, la strutturazione degli strumenti a disposizione del privato in caso di rifiuto o compressione delle valorizzate aspettative ostensive.
4.4.- È, in effetti, sotto questi tre concorrenti profili che è dato intendere le differenze (e le sovrapposizioni) tra le varie forme di accesso. Le quali si misurano, ad un tempo, in relazione:
   a) ai presupposti soggettivi (inerenti la legittimazione alla pretesa ostensiva);
   b) all’ambito oggettivo (relativo alla “estensione” dell’accesso);
   c) ai limiti funzionali (correlati –nella prospettiva del bilanciamento di valori in conflitto– alla “intensità” della protezione dell’aspettativa alla trasparenza.
E così, in sintesi:
   a) nell’accesso (endo)procedimentale, legittimati alla acquisizione del “fascicolo procedimentale” (che incorpora tutti i momenti dell’istruttoria, documentati dagli atti del procedimento) sono tutte le parti interessate (cioè il destinatario della determinazione conclusiva e gli eventuali controinteressati intervenuti, in prospettiva contraddittoria); per definizione, non esistono limitazioni in estensione, posto che tutti (e solo) gli atti del procedimento (e gli esiti delle verifiche istruttorie, in quanto documentati) possono essere acquisiti, nella prospettiva della garanzia della (informata ed effettiva) partecipazione procedimentale; non sussistono, in generale, problemi di “bilanciamento” (cfr., peraltro, il meccanismo di accesso “graduato” operante per i contratti pubblici: cfr. art. 53 d.lgs. n. 50/2016);
   b) nell’
accesso documentale “classico” (o autonomo):
      b1) la legittimazione è ancorata alla (argomentata) allegazione di un interesse personale, concreto e differenziato alla acquisizione informativa, che struttura e prefigura una situazione di “meritevolezza” in capo al richiedente (essendo con ciò, per definizione, precluso un accesso preordinato ad un “controllo generalizzato” dell’azione amministrativa o ispirato da mera curiosità);
      b2) sotto il profilo oggettivo, solo le informazioni incorporate in supporti documentali già materialmente “detenuti” (in quanto redatti o utilizzati) dall’Amministrazione possono essere oggetto di ostensione (nella forma della visione e della estrazione di copie);
      b3) dal punto di vista “intensivo”, l’esistenza di vari controlimiti, in funzione di segretezza (di informazioni pubbliche) o di riservatezza (di dati privati, semplici, sensibili o supersensibili) (cfr. art. 24 l. n. 241/1990), è, in termini generali, ispirata alla logica del minimo mezzo (che impone tendenzialmente la soddisfazione –semmai parziale, o graduata, ovvero differita o schermata– dell’aspettativa ostensiva, salvo la prevalenza, in concreto, di un superiore interesse contrario: con la prefigurata cedevolezza anche dell’accesso a dati personali sensibili o supersensibili, laddove il mero “interesse” acquisti il rilievo della strumentale “necessità” o, in progressione, “indispensabilità” difensiva: cfr. art. 24, comma 7, l. n. 241/1990);
   c) l’accesso civico (generico o generalizzato):
      c1) non soffre di limitazioni soggettive (trattandosi di istanza ostensiva formulata, appunto, uti civis e non in correlazione ad una posizione sostanziale legittimante, che imponga un preventivo vaglio selettivo di meritevolezza): potendosi, al più e semmai, porre un problema di eventuale “abuso” della pretesa ostensiva, che la giurisprudenza tende a gestire in termini di emulatività dell’interesse, argomentando anche dalla clausola generale di buona fede ex art. 1175 c.c. e dal dovere costituzionale di solidarietà ex art. 2 Cost.;
      c2) sotto il profilo oggettivo, realizza il massimo della “estensione” (in quanto riferito non solo a documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni informative), graduata tra l’accesso generico (che legittima l’ostensione di informazioni che già avrebbero dovuto essere, in quanto tali, pubblicate) e l’accesso universale (e “totale”, che non soffre di limitazioni contenutistiche;
      c3) sul piano dell’”intensità”, si tratta –nondimeno– di pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso documentale (posto che –in presenza di controinteressi rilevanti– lo scrutinio di necessità e proporzionalità appare orientato dalla massimizzazione della tutela della riservatezza e della segretezza, in danno della trasparenza).
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Volendo utilizzare una formula sintetica (del resto utilmente ed espressivamente valorizzata dall’ANAC nelle proprie Linee guida) si dirà che –nel confronto tra accesso documentale classico e accessi civici, generico ed universale– si guadagna in estensione ciò che si perde in intensità.
Il che vale anche a dare conto delle ragioni di una convivenza tra istituti che, altrimenti, avrebbero finito per sovrapporsi l’uno all’altro, in modo irragionevole.
Non è un caso che la giurisprudenza abbia cura di rimarcare la necessità di tenere distinte le fattispecie, proprio al fine di “calibrare i diversi interessi in gioco, allorché si renda necessario un bilanciamento, caso per caso, tra tali interessi”: tale bilanciamento e, infatti, ben diverso, come chiarito, “nel caso dell'accesso ex l. n. 241 del 1990, dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a documenti pertinenti e nel caso dell'accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità, se del caso, in relazione all'operatività dei limiti, ma più este-so, avendo presente che l'accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità e diffusione di dati, documenti e informazioni”.
È proprio su tali ordini di premesse, dunque, che è lecito chiedersi se l’istanza dell’odierno appellante –inammissibile, per le esposte considerazioni, in quanto strutturata in termini di accesso documentale– non possa essere “riqualificata” nei più comprensivi termini di accesso generalizzato.
Sul punto, osserva il Collegio che –pur non mancando approcci di matrice sostanzialista, orientati alla massimizzazione dell’interesse conoscitivo mercé l’applicazione, anche ex officio, della disciplina concretamente “più favorevole” alla soddisfazione dell’anelito ostensivo– deve ritenersi preclusa la possibilità di immutare, anche in corso di causa, il titolo della formalizzata actio ad exhibendum, pena la violazione del divieto di mutatio libelli e di introduzione di jus novorum.
Per l’effetto, electa una via, alla parte è preclusa la conversione dell’istanza da un modello all’altro, che non può essere né imposta alla P.A., né ammessa -ancorché su input del privato- in sede di riesame o di ricorso giurisdizionale (ferma restando, semmai, la possibilità di strutturare in termini alternativi, cumulativi o condizionati la pretesa ostensiva, in sede procedimentale).
Con ciò, la pretesa azionata non può essere apprezzata, nei suoi presupposti e nei suoi limiti, in termini di accesso civico, piuttosto che strettamente documentale.
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1.- L’appello non è fondato e merita di essere respinto.
2.- Vale rammentare che, per comune e consolidato intendimento, il diritto di accesso c.d. documentale, riconosciuto dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990, garantisce ai (soli) soggetti legittimati (in quanto portatori di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata”) l’ostensione (sotto la concorrente forma della presa di visione e della estrazione di copia) ai documenti (formati o, comunque, detenuti) dall’amministrazione, in ordine ai quali sussista, come che sia, un “collegamento” con la posizione legittimante, al quale è segnatamente ancorato (nella scolpita preclusione ad un “controllo generalizzato”, proprio di altre forme di accesso uti civis, della complessiva azione amministrativa) il necessario e pregiudiziale vaglio di meritevolezza della valorizzata pretesa ostensiva.
Occorre, in altri termini, che l’istante:
   a) sia intestatario di una posizione “soggettiva” apprezzabile e, come tale, sufficientemente differenziata nella vita di relazione, indipendentemente dalla sua consistenza formale (diritto soggettivo, interesse legittimo, interesse diffuso, interesse di mero fatto);
   b) dimostri un “collegamento” tra siffatta posizione e i dati e le informazioni a qualsiasi titolo incorporate in supporti documentali detenuti da una pubblica amministrazione (o da soggetti equiparati);
   c) valorizzi, in siffatta prospettiva “strumentale”, la concreta e specifica “utilità” della pretesa ostensiva (ancorché non necessariamente preordinata all’esperimento di tutele giurisdizionali).
3.- Nel caso di specie, gli atti (negoziali) richiesti dal ricorrente –che si assumono preordinati ad una migliore tutela della propria posizione creditoria– paiono collocarsi, come correttamente e condivisibilmente rilevato dai primi giudici, sul piano della regolare gestione, in fase esecutiva, del rapporto concessorio intercorso inter alios, tra la I.P. e l’Amministrazione, operando quale mero presupposto per l’attivazione delle relative garanzie legalmente imposte.
Non trattandosi, con ciò, di documenti in grado di veicolare informazioni di un qualche rilievo in ordine alla concreta ed effettiva, ancorché dinamica e/o potenziale, consistenza delle situazioni debitorie gravanti sull’impresa, la loro acquisizione esorbita da una facoltà di accesso dai chiariti connotati necessariamente strumentali, trasmodando, di fatto, in una modalità di controllo dell’operato dei soggetti, pubblici e privati, interessati dalla relazione amministrativa.
4.- Occorre, peraltro, interrogarsi –per completezza di disamina– in ordine alla possibilità di “riqualificare” l’istanza formulata dall’odierno appellante, veicolandola nei più comprensivi ambiti dell’accesso civico generalizzato.
4.1.- Come è noto, invero, l'accesso alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni (e dei soggetti ad esse equiparati) si articola e declina oggi in tre diversi istituti (quattro, ove si voglia considerare anche l’accesso c.d. procedimentale di cui all’art. 10 della l. n. 241/1990, che garantisce l’ostensione degli atti e dei documenti acquisiti al procedimento amministrativo, garantendo una partecipazione informata e, come tale, effettiva), ognuno dei quali caratterizzato da propri presupposti, limiti, eccezioni e rimedi:
   a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n. 241/1990), che consente ai (soli) soggetti “interessati” (in quanto, come diffusamente chiarito supra, portatori di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata”) di “prendere visione” e di “estrarre copia” di dati incorporati in supporti documentali formati o, comunque, detenuti da soggetti pubblici;
   b) l'accesso civico, concesso a “chiunque”, a “documenti, informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente imposta (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33/2013);
   c) l’accesso (civico) generalizzato, parimenti concesso uti civis (“senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita “motivazione” giustificativa), in relazione a “dati, informazioni o documenti”, ancorché non assoggettati all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2 d.lgs. cit., introdotto dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 97/2016: c.d. Freedom of Information Act).
4.2.- Si tratta di istituti che –lungi dal configurare un unico diritto- concretano un insieme di sistemi di garanzia, tra loro diversificati, corrispondenti ad altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza da parte dei soggetti pubblici (arg. ex art. 5, comma 11, d.lgs. n. 33/2013, che prefigura, scolpendo la salvezza della disciplina codificata dalla l. n. 241/1990) un regime di convivenza di plurime “forme di accesso”).
Onde il “sistema” dell’accesso alle informazioni pubbliche si presenta articolato e frastagliato, esibendo una multiformità tipologica, resa ancora più articolata dalla presenza di discipline speciali e settoriali, connotate di proprie peculiarità e specificità (cfr. l’art. 3 d.lgs. n. 195/2005, in materia di accesso ambientale; l’art. 43, comma 2, del t.u. n. 267/2000, che abilita i consiglieri comunali e provinciali all’acquisizione di tutte le informazioni strumentali all’esercizio del proprio mandato, vincolandosi al segreto d’ufficio; l’art. 53 del d.lgs. n. 50/2016, in materia di contratti pubblici): di qui la tensione che emerge, anche nella più recente giurisprudenza, non solo tra i tre istituti di accesso che operano sul piano generale, ma anche tra la normativa generale e quella speciale (per la quale si pone, essenzialmente, il problema di prefigurarne, volta a volta e sotto singoli profili di rilievo, l’attitudine derogatoria o la dimensione integrativa).
4.3.- La complessità del quadro (già operante al descritto livello morfologico), trae alimento –sul parallelo piano assiologico– dalla progressivo arricchimento della natura degli interessi riversati sul principio di trasparenza: non più semplicemente ancorato al diritto alla informazione ed alla partecipazione democratica, ma informato al perseguimento di ulteriori (e non sempre convergenti) obiettivi, come la tutela della concorrenza, il contrasto alla corruzione, la riduzione della spesa pubblica, la promozione della qualità dei servizi, il controllo sulle performance dei dipendenti.
Ed chiaro, in questa seconda prospettiva, che l'asse valoriale di volta in volta preso a riferimento condiziona variamente:
   a) sul piano operativo, i termini e le modalità del (necessario) bilanciamento tra la trasparenza e gli altri interessi (pubblici e privati) con essa confliggenti;
   b) sul piano organizzativo, l’assetto delle relative competenze (di gestione, regolazione e governance);
   c) sul piano remediale, la strutturazione degli strumenti a disposizione del privato in caso di rifiuto o compressione delle valorizzate aspettative ostensive.
4.4.- È, in effetti, sotto questi tre concorrenti profili che è dato intendere le differenze (e le sovrapposizioni) tra le varie forme di accesso. Le quali si misurano, ad un tempo, in relazione:
   a) ai presupposti soggettivi (inerenti la legittimazione alla pretesa ostensiva);
   b) all’ambito oggettivo (relativo alla “estensione” dell’accesso);
   c) ai limiti funzionali (correlati –nella prospettiva del bilanciamento di valori in conflitto– alla “intensità” della protezione dell’aspettativa alla trasparenza.
4.5.- E così, in sintesi:
   a) nell’accesso (endo)procedimentale, legittimati alla acquisizione del “fascicolo procedimentale” (che incorpora tutti i momenti dell’istruttoria, documentati dagli atti del procedimento) sono tutte le parti interessate (cioè il destinatario della determinazione conclusiva e gli eventuali controinteressati intervenuti, in prospettiva contraddittoria); per definizione, non esistono limitazioni in estensione, posto che tutti (e solo) gli atti del procedimento (e gli esiti delle verifiche istruttorie, in quanto documentati) possono essere acquisiti, nella prospettiva della garanzia della (informata ed effettiva) partecipazione procedimentale; non sussistono, in generale, problemi di “bilanciamento” (cfr., peraltro, il meccanismo di accesso “graduato” operante per i contratti pubblici: cfr. art. 53 d.lgs. n. 50/2016);
   b) nell’accesso documentale “classico” (o autonomo):
b1) la legittimazione è ancorata alla (argomentata) allegazione di un interesse personale, concreto e differenziato alla acquisizione informativa, che struttura e prefigura una situazione di “meritevolezza” in capo al richiedente (essendo con ciò, per definizione, precluso un accesso preordinato ad un “controllo generalizzato” dell’azione amministrativa o ispirato da mera curiosità);
b2) sotto il profilo oggettivo, solo le informazioni incorporate in supporti documentali già materialmente “detenuti” (in quanto redatti o utilizzati) dall’Amministrazione possono essere oggetto di ostensione (nella forma della visione e della estrazione di copie);
b3) dal punto di vista “intensivo”, l’esistenza di vari controlimiti, in funzione di segretezza (di informazioni pubbliche) o di riservatezza (di dati privati, semplici, sensibili o supersensibili) (cfr. art. 24 l. n. 241/1990), è, in termini generali, ispirata alla logica del minimo mezzo (che impone tendenzialmente la soddisfazione –semmai parziale, o graduata, ovvero differita o schermata– dell’aspettativa ostensiva, salvo la prevalenza, in concreto, di un superiore interesse contrario: con la prefigurata cedevolezza anche dell’accesso a dati personali sensibili o supersensibili, laddove il mero “interesse” acquisti il rilievo della strumentale “necessità” o, in progressione, “indispensabilità” difensiva: cfr. art. 24, comma 7, l. n. 241/1990);
   c) l’accesso civico (generico o generalizzato):
c1) non soffre di limitazioni soggettive (trattandosi di istanza ostensiva formulata, appunto, uti civis e non in correlazione ad una posizione sostanziale legittimante, che imponga un preventivo vaglio selettivo di meritevolezza): potendosi, al più e semmai, porre un problema di eventuale “abuso” della pretesa ostensiva, che la giurisprudenza tende a gestire in termini di emulatività dell’interesse, argomentando anche dalla clausola generale di buona fede ex art. 1175 c.c. e dal dovere costituzionale di solidarietà ex art. 2 Cost.;
c2) sotto il profilo oggettivo, realizza il massimo della “estensione” (in quanto riferito non solo a documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni informative), graduata tra l’accesso generico (che legittima l’ostensione di informazioni che già avrebbero dovuto essere, in quanto tali, pubblicate) e l’accesso universale (e “totale”, che non soffre di limitazioni contenutistiche;
c3) sul piano dell’”intensità”, si tratta –nondimeno– di pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso documentale (posto che –in presenza di controinteressi rilevanti– lo scrutinio di necessità e proporzionalità appare orientato dalla massimizzazione della tutela della riservatezza e della segretezza, in danno della trasparenza).
4.6.- Volendo utilizzare una formula sintetica (del resto utilmente ed espressivamente valorizzata dall’ANAC nelle proprie Linee guida) si dirà che –nel confronto tra accesso documentale classico e accessi civici, generico ed universale– si guadagna in estensione ciò che si perde in intensità.
Il che vale anche a dare conto delle ragioni di una convivenza tra istituti che, altrimenti, avrebbero finito per sovrapporsi l’uno all’altro, in modo irragionevole.
Non è un caso che la giurisprudenza abbia cura di rimarcare la necessità di tenere distinte le fattispecie, proprio al fine di “calibrare i diversi interessi in gioco, allorché si renda necessario un bilanciamento, caso per caso, tra tali interessi”: tale bilanciamento e, infatti, ben diverso, come chiarito, “nel caso dell'accesso ex l. n. 241 del 1990, dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a documenti pertinenti e nel caso dell'accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità, se del caso, in relazione all'operatività dei limiti, ma più este-so, avendo presente che l'accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità e diffusione di dati, documenti e informazioni”.
4.7.- È proprio su tali ordini di premesse, dunque, che è lecito chiedersi se l’istanza dell’odierno appellante –inammissibile, per le esposte considerazioni, in quanto strutturata in termini di accesso documentale– non possa essere “riqualificata” nei più comprensivi termini di accesso generalizzato.
Sul punto, osserva il Collegio che –pur non mancando approcci di matrice sostanzialista, orientati alla massimizzazione dell’interesse conoscitivo mercé l’applicazione, anche ex officio, della disciplina concretamente “più favorevole” alla soddisfazione dell’anelito ostensivo– deve ritenersi preclusa la possibilità di immutare, anche in corso di causa, il titolo della formalizzata actio ad exhibendum, pena la violazione del divieto di mutatio libelli e di introduzione di jus novorum (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2017, n. 1406).
Per l’effetto, electa una via, alla parte è preclusa la conversione dell’istanza da un modello all’altro, che non può essere né imposta alla P.A., né ammessa -ancorché su input del privato- in sede di riesame o di ricorso giurisdizionale (ferma restando, semmai, la possibilità di strutturare in termini alternativi, cumulativi o condizionati la pretesa ostensiva, in sede procedimentale).
Con ciò, la pretesa azionata non può essere apprezzata, nei suoi presupposti e nei suoi limiti, in termini di accesso civico, piuttosto che strettamente documentale.
5.- Le esposte considerazioni militano per la reiezione del gravame (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.03.2019 n. 1817 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario confinante è sicuramente titolare di un interesse qualificato alla ostensione degli atti con cui il comune ha autorizzato la realizzazione dei lavori in questione su strada pubblica, onde apprestare adeguata tutela ai propri interessi dominicali: “il proprietario confinante con l'immobile interessato da attività edilizia assentita dall'Amministrazione è legittimato ad accedere alla relativa documentazione anche nell'ipotesi in cui siano scaduti i termini per impugnare il titolo abilitativo e gli interventi in questione siano oggetto di indagine penale".
Il vicino ha un interesse concreto, personale ed attuale, ad accedere ai permessi edilizi rilasciati al proprietario del terreno confinante per tutelare le proprie posizioni giuridico-economiche (escludere rischi di danni alla sua proprietà) e/o per far rispettare le norme urbanistiche. I titoli edilizi sono atti pubblici, perciò chi esegue le opere non può opporre un diritto di riservatezza.
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1. La sig.ra Al.Fi. ha agito dinanzi a questo TAR “per l’annullamento del diniego di accesso ai documenti richiesti ovvero del silenzio - rigetto formatosi in data 13.12.2018 sulla domanda di accesso presentata in data 13.11.2018”, nonché per la declaratoria del diritto alla ostensione degli stessi documenti.
...
5. Il ricorso è fondato.
La ricorrente, in qualità di proprietaria confinante, è sicuramente titolare di un interesse qualificato alla ostensione degli atti con cui il comune ha autorizzato la realizzazione dei lavori in questione su strada pubblica, onde apprestare adeguata tutela ai propri interessi dominicali: “il proprietario confinante con l'immobile interessato da attività edilizia assentita dall'Amministrazione è legittimato ad accedere alla relativa documentazione anche nell'ipotesi in cui siano scaduti i termini per impugnare il titolo abilitativo e gli interventi in questione siano oggetto di indagine penale” (TAR Catanzaro, Sez. II, 26/03/2018 n. 757); “Il vicino ha un interesse concreto, personale ed attuale, ad accedere ai permessi edilizi rilasciati al proprietario del terreno confinante per tutelare le proprie posizioni giuridico-economiche (escludere rischi di danni alla sua proprietà) e/o per far rispettare le norme urbanistiche. I titoli edilizi sono atti pubblici, perciò chi esegue le opere non può opporre un diritto di riservatezza” (TAR Catania, Sez. II, 04/02/2016 n. 374).
Per le suddette ragioni il ricorso merita di essere accolto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 20.03.2019 n. 614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Istanza di accesso sottoscritta solo dall’avvocato e non dalla parte.
L’art. 5, secondo comma, del d.P.R. n. 184 del 2006 stabilisce che colui che formula richiesta di accesso agli atti deve specificare l'interesse connesso all'oggetto della richiesta, dimostrare la propria identità e, ove occorra, i propri poteri di rappresentanza del soggetto interessato.
Da questa norma si ricava che se l’istanza non è sottoscritta dal diretto interessato, il soggetto che agisce per suo conto deve esibire all’amministrazione copia della procura che gli conferisce il potere di esercitare il diritto di accesso agli atti in nome altrui.
Ne consegue che le domande di accesso agli atti sottoscritte dal solo legale non possono essere accolte, a meno che quest’ultimo abbia dimostrato di essere in possesso di procura o tutt’al più di essere già stato incaricato ad instaurare un giudizio il cui oggetto sia correlato al documento chiesto in esibizione.
Nella fattispecie, la richiesta di accesso agli atti era stata sottoscritta soltanto dal legale e non anche dalla parte interessata, senza che il primo avesse dimostrato il possesso del potere rappresentativo; questa circostanza, eccepita dalla difesa dell’Amministrazione intimata in assenza di contestazioni specifiche della parte ricorrente, è stata ritenuta dal TAR provata ai sensi dell’art. 64, secondo comma, c.p.a., e ha quindi condotto al rigetto del ricorso avverso il provvedimento tacito di rigetto formatosi sulla suddetta istanza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 14.03.2019 n. 564 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Ritiene il Collegio che il ricorso sia infondato per le ragioni di seguito esposte.
L’art. 5, secondo comma, del d.P.R. n. 184 del 2006 stabilisce che colui che formula richiesta di accesso agli atti deve specificare l'interesse connesso all'oggetto della richiesta, dimostrare la propria identità e, ove occorra, i propri poteri di rappresentanza del soggetto interessato.
Da questa norma si ricava che se l’istanza non è sottoscritta dal diretto interessato, il soggetto che agisce per suo conto deve esibire all’amministrazione copia della procura che gli conferisce il potere di esercitare il diritto di accesso agli atti in nome altrui.
Applicando questa norma,
la giurisprudenza ritiene che le domande di accesso agli atti sottoscritte dal solo legale non possono essere accolte, a meno che quest’ultimo abbia dimostrato di essere in possesso di procura o tutt’al più di essere già stato incaricato ad instaurare un giudizio il cui oggetto sia correlato al documento chiesto in esibizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 30.09.2013, n. 4839; id., sez. III, 26.09.2014, n. 4844; TAR Sardegna, sez. II, 15.02.2017, n. 109; TAR Lazio, sez. III, 09.08.2018, n. 8961).
Ciò premesso, va osservato che, nel caso concreto, la richiesta di accesso agli atti dell’08.10.2018 è stata sottoscritta soltanto dall’avv. Ca. e non anche dalla parte interessata, senza che il primo abbia dimostrato il possesso del potere rappresentativo (questa circostanza, eccepita dalla difesa dell’Amministrazione intimata in assenza di contestazioni specifiche della parte ricorrente, può ritenersi provata ai sensi dell’art. 64, secondo comma, cod. proc. amm).
Per queste ragioni si deve ritenere che il provvedimento tacito di rigetto formatosi sulla suddetta istanza non sia illegittimo.
Il ricorso deve essere pertanto respinto.

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso ai documenti amministrativi di utente del gestore Tim a seguito di disservizio.
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Accesso ai documenti – Diritto – Utente gestore Tim - Documenti inerenti alla modalità di svolgimento del servizio di assistenza 119 – Istanza conseguente a disservizio – Ha diritto.
Sussiste in capo ad un utente del gestore Tim che ha subito disservizio un interesse diretto, concreto e attuale all’ostensione dei documenti inerenti alla modalità di svolgimento del servizio di assistenza 119 che TIM pratica ai propri clienti, con particolare riferimento alla possibilità di poter segnalare un guasto e poter interloquire con un operatore, essendo tale istanza correlata alla coltivazioni di reclami/azioni a tutela dei diritti soggettivi derivanti dal rapporto contrattuale.
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   (1) Al fine della selezione dei soggetti tenuti all’accesso le norme rilevanti siano l’art. 22, comma 1 lett. e), l. 07.08.1990, n. 241, che definisce pubblica amministrazione tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario e l’art. 23 secondo cui “Il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi”.
Come noto, tuttavia, tale delimitazione soggettiva non è autosufficiente correlandosi per più ipotesi a delimitazioni di tipo oggettivo e così per i soggetti pubblici si è posta la questione dell’accessibilità ai documenti concernenti l’attività di diritto privato (v. Ad. Plen. n. 5 del 1999 ed attuale formulazione dell’art. 22, comma 1, lett. d), ultima parte), mentre per i soggetti privati, grazie alla specificazione chiarificatrice della novella del 2005, l’obbligo dell’accesso sussiste limitatamente alla attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario ed ancora per i gestori di pubblico servizio molte sono le controversie sull’accessibilità ad atti concernenti aspetti organizzativi ed imprenditoriali (Cons. St., Ad. Plen., n. 5 del 1999).
Venendo al caso di specie, deve partirsi dal rilievo che la telefonia nel vigente ordinamento è attività in concorrenza regolamentata –fortemente anche per le problematiche correlate alla rete- nel cui alveo è individuato un segmento di servizio universale (v. artt. 53 ss., d.lgs. n. 259 del 2003, codice comunicazione elettroniche) costituito da servizio di telefonia vocale fissa, il servizio fax, accesso ad internet sulla rete fissa, gestione delle cabine telefoniche, chiamate gratuite ai numeri di emergenza, soluzioni specifiche per i disabili (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 14.03.2019 n. 532 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quanto all’accesso all’informazione ambientale, si osserva che le informazioni cui fa riferimento il d.lgs. n. 195 del 2005, Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale, concernono lo stato degli elementi dell’ambiente (aria, atmosfera, acqua, suolo, territorio, siti naturali, zone costiere e marine, diversità biologica e suoi elementi costitutivi, compresi gli organismi geneticamente modificati, e interazioni tra questi), i fattori aventi impatto sull’ambiente (sostanze, energia, rumore, radiazioni e rifiuti, anche radioattivi, emissioni, scarichi e altri rilasci che possono incidere sugli elementi dell’ambiente di cui sopra), nonché le misure (politiche, disposizioni legislative, piani, programmi, accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa) e le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori di cui sopra e le misure o le attività finalizzate a proteggere gli stessi elementi [art. 2, comma 1, lett. a), nn. 1), 2) e 3), d.lgs. n. 195 del 2005].
Per assicurare la maggiore trasparenza possibile a tali dati, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 195 del 2005 stabilisce che “l’autorità pubblica rende disponibile, secondo le disposizioni del presente decreto, l’informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”.
L’art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2005 elenca poi le ipotesi di esclusione dell’accesso all’informazione ambientale e tra esse annovera i casi in cui l’istanza sia manifestamente irragionevole, avuto riguardo alle finalità di garantire il diritto d’accesso all’informazione ambientale, o sia stata formulata in termini eccessivamente generici [comma 1, rispettivamente, lett. b) e c)].
L’indicata normativa prevede, quindi, un regime di pubblicità tendenzialmente integrale delle informazioni di carattere ambientale -sia per ciò che concerne la legittimazione attiva, con un ampliamento dei soggetti legittimati all’accesso, sia per il profilo oggettivo, prevedendosi un’area di accessibilità alle informazioni ambientali svincolata dai più restrittivi presupposti dettati in via generale dagli artt. 22 e segg. della l. n. 241 del 1990- in quanto finalizzato ad assicurare, nella “rilevanza della materia, la maggiore trasparenza possibile dei relativi dati”.
Ciò posto, si osserva che la circostanza, evidenziata dagli appellanti, che l’art. 3 del d.lgs. n. 195 del 2005 non ponga al diritto di accesso all’informazione ambientale i condizionamenti tipici del diritto di accesso disciplinato dalla legge sul procedimento amministrativo non ridonda in quella illimitatezza del primo prospettato dai medesimi appellanti, attesi i limiti di cui all’art. 5 dello stesso d.lgs. n. 195 del 2005, che sono connaturali alla stessa disciplina di settore considerata.
L’accesso in parola deve infatti qualificarsi per la sua connessione con le matrici ambientali potenzialmente compromesse, da indicarsi nella richiesta in uno a una ragionevole prospettazione degli effetti negativi.
Diversamente, la richiesta si risolvere in “un mero sindacato ispettivo” sull’attività dell’Amministrazione.
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L’istanza di accesso di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2000, pur se astrattamente riguardante un’informazione ambientale, non esime il richiedente dal dimostrare che l’interesse che intende far valere è, appunto, un interesse ambientale, come qualificato dal predetto decreto legislativo, volto alla tutela dell’integrità della matrice ambientale, non potendo l’ordinamento ammettere che “di un diritto nato con specifiche determinate finalità si faccia uso per scopi diversi”.
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L’art. 22, comma 1, lett. b), della l. 241 del 1990, anche per i soggetti portatori di interessi pubblici o diffusi, richiede che il diritto di accesso sia sostenuto da un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata collegata al documento per il quale è chiesto l’accesso.
Tale situazione di tutela giuridica non può mai rinvenirsi in una istanza di accesso preordinata a uno scopo ispettivo, ai sensi del successivo art. 24, comma 3, che ne sancisce in linea generale l’inammissibilità.
Conformemente al dettato di legge, la giurisprudenza amministrativa chiarisce che tale finalità è estranea allo strumento dell’accesso agli atti amministrativi anche laddove esso sia esercitato dalle associazioni di categoria, e ciò per la preminente ragione che a tanto provvedono gli “organi giudiziari o amministrativi a ciò preposti”.
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Deve ribadirsi che l’ostensione degli atti non può costituire, neanche per le associazioni portatrici di interessi collettivi, uno strumento di controllo dell’operato della pubblica amministrazione nei cui confronti l’accesso viene esercitato.
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1. Il primo motivo di appello è infondato sotto entrambi i profili di cui si compone.
1.1. Quanto all’accesso all’informazione ambientale, si osserva, per quanto qui di interesse, che le informazioni cui fa riferimento il d.lgs. n. 195 del 2005, Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale, concernono lo stato degli elementi dell’ambiente (aria, atmosfera, acqua, suolo, territorio, siti naturali, zone costiere e marine, diversità biologica e suoi elementi costitutivi, compresi gli organismi geneticamente modificati, e interazioni tra questi), i fattori aventi impatto sull’ambiente (sostanze, energia, rumore, radiazioni e rifiuti, anche radioattivi, emissioni, scarichi e altri rilasci che possono incidere sugli elementi dell’ambiente di cui sopra), nonché le misure (politiche, disposizioni legislative, piani, programmi, accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa) e le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori di cui sopra e le misure o le attività finalizzate a proteggere gli stessi elementi [art. 2, comma 1, lett. a), nn. 1), 2) e 3), d.lgs. n. 195 del 2005].
Per assicurare la maggiore trasparenza possibile a tali dati, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 195 del 2005 stabilisce che “l’autorità pubblica rende disponibile, secondo le disposizioni del presente decreto, l’informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”.
L’art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2005 elenca poi le ipotesi di esclusione dell’accesso all’informazione ambientale e tra esse annovera i casi in cui l’istanza sia manifestamente irragionevole, avuto riguardo alle finalità di garantire il diritto d’accesso all’informazione ambientale, o sia stata formulata in termini eccessivamente generici [comma 1, rispettivamente, lett. b) e c)].
L’indicata normativa prevede, quindi, un regime di pubblicità tendenzialmente integrale delle informazioni di carattere ambientale -sia per ciò che concerne la legittimazione attiva, con un ampliamento dei soggetti legittimati all’accesso, sia per il profilo oggettivo, prevedendosi un’area di accessibilità alle informazioni ambientali svincolata dai più restrittivi presupposti dettati in via generale dagli artt. 22 e segg. della l. n. 241 del 1990- in quanto finalizzato ad assicurare, nella “rilevanza della materia, la maggiore trasparenza possibile dei relativi dati” (Cons. Stato, III, 05.10.2015, nn. 4636 e 4637).
Ciò posto, si osserva che la circostanza, evidenziata dagli appellanti, che l’art. 3 del d.lgs. n. 195 del 2005 non ponga al diritto di accesso all’informazione ambientale i condizionamenti tipici del diritto di accesso disciplinato dalla legge sul procedimento amministrativo non ridonda in quella illimitatezza del primo prospettato dai medesimi appellanti, attesi i limiti di cui all’art. 5 dello stesso d.lgs. n. 195 del 2005, che sono connaturali alla stessa disciplina di settore considerata.
L’accesso in parola deve infatti qualificarsi per la sua connessione con le matrici ambientali potenzialmente compromesse, da indicarsi nella richiesta in uno a una ragionevole prospettazione degli effetti negativi (in questi termini è la giurisprudenza consolidata, espressa tra l’altro da: Cons. Stato, V, 17.07.2018, n. 4339; III, 05.10.2015, nn. 4636 e 4637, cit.; IV, 20.05.2014, n. 2557; V, 15.10.2009, n. 6339).
Diversamente, la richiesta si risolvere in “un mero sindacato ispettivo” sull’attività dell’Amministrazione (così, Cons. Stato, 16.02.2007, nn. 668, 669, 670).
Tale ultima evenienza è riscontrabile nella fattispecie in esame.
Il riferimento all’accesso ambientale da parte degli appellanti risulta infatti palesemente estraneo alla sottesa vicenda amministrativa, nell’ambito della quale lo specifico oggetto della richiesta di accesso, avvalorato dalle circostanze congiunturali nel quale essa è stata formulata, fa emergere che ciò che viene in rilievo è esclusivamente l’interesse alla conoscenza delle sanzioni elevate nei confronti di alcuni candidati partecipanti alla campagna elettorale di cui in fatto, allo scopo di controllare se e come siano stati esercitati i poteri sanzionatori di cui dispone l’Amministrazione e poter in tal modo effettuare un raffronto con l’operato svolto dalla stessa Amministrazione nei confronti dei richiedenti.
Nel descritto contesto, il riferimento al degrado ambientale urbano e alla natura e alle finalità del Codacons non appaiono elementi sufficienti a qualificare la richiesta di accesso nei termini voluti dagli appellanti.
Infatti, come visto, l’istanza di accesso di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2000, pur se astrattamente riguardante un’informazione ambientale, non esime il richiedente dal dimostrare che l’interesse che intende far valere è, appunto, un interesse ambientale, come qualificato dal predetto decreto legislativo, volto alla tutela dell’integrità della matrice ambientale, non potendo l’ordinamento ammettere che “di un diritto nato con specifiche determinate finalità si faccia uso per scopi diversi” (Consiglio di Stato, V, n. 6339 del 2009, cit.).
E una tale dimostrazione non risulta qui resa dagli appellanti, i quali, lungi dall’esternare una motivazione correlata a una reale ed effettiva preoccupazione inerente lo stato di matrici ambientali, che viene evocata a scopo puramente strumentale, si prefigurano l’obiettivo di ottenere informazioni che sono destinate ad acquisire rilevanza in contesti di carattere strettamente e latamente politico, e che risultano pertanto totalmente estranee all’ambito di applicazione della normativa in parola.
Ben ha fatto, pertanto, il giudice di primo grado a rilevare la genericità della richiesta e la carenza del nesso con le matrici ambientali di cui al d.lgs. n. 195 del 2005.
1.2. Le istanze di accesso per cui è causa non possono essere favorevolmente valutate neanche alla luce degli artt. 22 e ss. della l. n. 241 del 1990.
Rileva l’art. 22, comma 1, lett. b), della l. 241 del 1990 che, anche per i soggetti portatori di interessi pubblici o diffusi, richiede che il diritto di accesso sia sostenuto da un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata collegata al documento per il quale è chiesto l’accesso.
Tale situazione di tutela giuridica non può mai rinvenirsi in una istanza di accesso preordinata a uno scopo ispettivo, ai sensi del successivo art. 24, comma 3, che ne sancisce in linea generale l’inammissibilità.
Conformemente al dettato di legge, la giurisprudenza amministrativa chiarisce che tale finalità è estranea allo strumento dell’accesso agli atti amministrativi anche laddove esso sia esercitato dalle associazioni di categoria, e ciò per la preminente ragione che a tanto provvedono gli “organi giudiziari o amministrativi a ciò preposti” (Cons. Stato, VI, 17.03.2000, n. 1414).
Alla stregua di tali paramenti, non può convenirsi con gli appellanti quando affermano la sussistenza di tutti i presupposti legittimanti l’accesso del Codacons alla documentazione richiesta ai sensi della legge n. 241 del 1990.
Infatti le ragioni spese dagli appellanti per rivendicare nella presente sede il loro titolo a verificare le modalità di fruizione degli spazi pubblici destinati alle affissioni elettorali e a salvaguardare la correttezza della competizione elettorale nei confronti dei possibili abusi della pubblica amministrazione rendono evidente che le istanze di accesso per cui è causa sono motivate dal precipuo scopo, puramente ed esclusivamente ispettivo, di sottoporre a verifica generalizzata l’operato delle Amministrazioni destinatarie delle istanze di accesso.
Deve quindi qui ribadirsi, in uno alla sentenza appellata, che l’ostensione degli atti non può costituire, neanche per le associazioni portatrici di interessi collettivi, uno strumento di controllo dell’operato della pubblica amministrazione nei cui confronti l’accesso viene esercitato (ex multis, Cons. Stato, IV, 19.10.2017, n. 4838; V, 08.04.2014, n. 1663) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.03.2019 n. 1670 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso civico.
Il Consiglio di Stato effettua una attenta ricostruzione storica e sistematica del nuovo istituto dell’accesso civico nell’ambito del nostro sistema Costituzionale e in quello internazionale e osserva che sia l’accesso documentale ex art. 22 della legge n. 241/1990, sia l’accesso civico ex art. 5 del d.lgs. n. 33/2013, hanno lo scopo di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorire la partecipazione dei privati, ed entrambi gli istituti scontano talune limitazioni risultanti dalla ponderazione con altri interessi costituzionalmente rilevanti.
Tuttavia, nel primo caso il diritto di accesso è riconosciuto solamente al soggetto titolare di un interesse qualificato in relazione ad un procedimento amministrativo.
Nel caso dell’accesso civico, viceversa, tale diritto è esteso a qualunque soggetto, singolo o associato, e non vi è la necessità di dimostrare un particolare interesse qualificato a richiedere gli atti o le informazioni, secondo il modello del Freedom of Information Act (FOIA), che trae ispirazione dalle esperienze storiche d’oltralpe e d’oltreoceano.
Aggiunge il Consiglio di Stato che il nuovo accesso civico, che attiene alla cura dei beni comuni a fini d’interesse generale, si affianca senza sovrapposizioni alle forme di pubblicazione on line del 2013 ed all’accesso agli atti amministrativi del 1990, consentendo, del tutto coerentemente con la ratio che lo ha ispira e che lo differenzia dall’accesso qualificato previsto dalla citata legge generale sul procedimento, l’accesso alla generalità degli atti e delle informazioni, senza onere di motivazione, a tutti i cittadini singoli e associati, in guisa da far assurgere la trasparenza a condizione indispensabile per favorire il coinvolgimento dei cittadini nella cura della “Cosa pubblica”, oltre che mezzo per contrastare ogni ipotesi di corruzione e per garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.03.2019 n. 1546 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
7 – Ai fini della decisione, considera preliminarmente il Collegio che con l’appello la Coldiretti deduce in primo luogo la violazione della nuova disciplina dell’accesso civico, come oggi normata dagli articoli 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013 e successive modifiche ed integrazioni.
Si tratta, osserva ancora il Collegio, di un innovativo istituto di recente introduzione, di non facile coordinamento con i preesistenti istituti sulla trasparenza amministrativa e di non semplice inserimento nel nostro ordinamento giuridico. Pertanto, ai fini della sua corretta interpretazione e della conseguente decisione sul ricorso si impone, in primo luogo, una attenta ricostruzione storica e sistematica del nuovo istituto dell’accesso civico nell’ambito del nostro sistema Costituzionale.

7.1. In particolare, il citato art. 5 prevede che “1. L'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione.
2. Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis.
3. L'esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. L'istanza di accesso civico identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti e non richiede motivazione. L'istanza può essere trasmessa per via telematica secondo le modalità previste dal decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni, ed è presentata alternativamente ad uno dei seguenti uffici:
   a) all’ufficio che detiene i dati, le informazioni o i documenti;
   b) all’Ufficio relazioni con il pubblico;
   c) ad altro ufficio indicato dall'amministrazione nella sezione "Amministrazione trasparente" del sito istituzionale;
   d) al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, ove l'istanza abbia a oggetto dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi del presente decreto.
4. Il rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato dall'amministrazione per la riproduzione su supporti materiali.
5. Fatti salvi i casi di pubblicazione obbligatoria, l'amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, ai sensi dell'articolo 5-bis, comma 2, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione. Entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione, i controinteressati possono presentare una motivata opposizione, anche per via telematica, alla richiesta di accesso. A decorrere dalla comunicazione ai controinteressati, il termine di cui al comma 6 è sospeso fino all'eventuale opposizione dei controinteressati. Decorso tale termine, la pubblica amministrazione provvede sulla richiesta, accertata la ricezione della comunicazione.
6. Il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell'istanza con la comunicazione al richiedente e agli eventuali controinteressati. In caso di accoglimento, l'amministrazione provvede a trasmettere tempestivamente al richiedente i dati o i documenti richiesti, ovvero, nel caso in cui l'istanza riguardi dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi del presente decreto, a pubblicare sul sito i dati, le informazioni o i documenti richiesti e a comunicare al richiedente l'avvenuta pubblicazione dello stesso, indicandogli il relativo collegamento ipertestuale. In caso di accoglimento della richiesta di accesso civico nonostante l'opposizione del controinteressato, salvi i casi di comprovata indifferibilità, l'amministrazione ne dà comunicazione al controinteressato e provvede a trasmettere al richiedente i dati o i documenti richiesti non prima di quindici giorni dalla ricezione della stessa comunicazione da parte del controinteressato. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso devono essere motivati con riferimento ai casi e ai limiti stabiliti dall'articolo 5-bis. Il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza può chiedere agli uffici della relativa amministrazione informazioni sull'esito delle istanze.
7. Nei casi di diniego totale o parziale dell'accesso o di mancata risposta entro il termine indicato al comma 6, il richiedente può presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all'articolo 43, che decide con provvedimento motivato, entro il termine di venti giorni. Se l'accesso è stato negato o differito a tutela degli interessi di cui all'articolo 5-bis, comma 2, lettera a), il suddetto responsabile provvede sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta. A decorrere dalla comunicazione al Garante, il termine per l'adozione del provvedimento da parte del responsabile è sospeso, fino alla ricezione del parere del Garante e comunque per un periodo non superiore ai predetti dieci giorni. Avverso la decisione dell'amministrazione competente o, in caso di richiesta di riesame, avverso quella del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, il richiedente può proporre ricorso al Tribunale amministrativo regionale ai sensi dell'articolo 116 del Codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.
8. Qualora si tratti di atti delle amministrazioni delle regioni o degli enti locali, il richiedente può altresì presentare ricorso al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito. Qualora tale organo non sia stato istituito, la competenza è attribuita al difensore civico competente per l'ambito territoriale immediatamente superiore. Il ricorso va altresì notificato all'amministrazione interessata. Il difensore civico si pronuncia entro trenta giorni dalla presentazione del ricorso. Se il difensore civico ritiene illegittimo il diniego o il differimento, ne informa il richiedente e lo comunica all'amministrazione competente. Se questa non conferma il diniego o il differimento entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico, l'accesso è consentito. Qualora il richiedente l'accesso si sia rivolto al difensore civico, il termine di cui all'articolo 116 del Codice del processo amministrativo decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell'esito della sua istanza al difensore civico. Se l'accesso è stato negato o differito a tutela degli interessi di cui all'articolo 5-bis, comma 2, lettera a), il difensore civico provvede sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta. A decorrere dalla comunicazione al Garante, il termine per la pronuncia del difensore è sospeso, fino alla ricezione del parere del Garante e comunque per un periodo non superiore ai predetti dieci giorni.
9. Nei casi di accoglimento della richiesta di accesso, il controinteressato può presentare richiesta di riesame ai sensi del comma 7 e presentare ricorso al difensore civico ai sensi del comma 8.
10. Nel caso in cui la richiesta di accesso civico riguardi dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi del presente decreto, il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza ha l'obbligo di effettuare la segnalazione di cui all'articolo 43, comma 5.
11. Restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della legge 07.08.1990, n. 241.

7.2.
Dal complessivo testo dell’articolo si evince il diritto di chiunque di richiedere dati, informazioni e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, non solo quando l’Amministrazione non ottemperi all’obbligo di legge di pubblicarli (comma 1), bensì anche (comma 2) “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali”, nel rispetto della procedura di tutela degli eventuali controinteressati disciplinata dai commi seguenti e nei (soli) limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis del medesimo decreto legislativo n. 33/2013 (che, nel caso di specie, la Coldiretti ritiene egualmente violato), secondo cui: “1. L'accesso civico di cui all'articolo 5, comma 2, è rifiutato se il diniego è necessario per evitare pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e le questioni militari; d) le relazioni internazionali; e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; f) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; g) il regolare svolgimento di attività ispettive.
2. L'accesso di cui all'articolo 5, comma 2, è altresì rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti interessi privati: a) la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; b) la libertà e la segretezza della corrispondenza; c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali.
3. Il diritto di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
4. Restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente. Se i limiti di cui ai commi 1 e 2 riguardano soltanto alcuni dati o alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l'accesso agli altri dati o alle altre parti”.
5. I limiti di cui ai commi 1 e 2 si applicano unicamente per il periodo nel quale la protezione è giustificata in relazione alla natura del dato. L'accesso civico non può essere negato ove, per la tutela degli interessi di cui ai commi 1 e 2, sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento.
6. Ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui al presente articolo, l'Autorità nazionale anticorruzione, d'intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, adotta linee guida recanti indicazioni operative
.”
7.3.
L’art. 5-bis citato consente, quindi, di individuare casi eccezionali in cui il soggetto non può ottenere l’accesso civico, mediante l’individuazione tassativa delle fattispecie in cui, nel bilanciamento di interessi contrapposti, l’accesso è suscettibile di pregiudicare un interesse generale di natura pubblica ovvero un affidamento tutelato di natura privata.
8 –
Non è controverso che il diritto di accesso di cittadini ed imprese ai documenti ed alle informazioni detenuti dall’Amministrazione costituisca il necessario corollario dei principi di trasparenza e di partecipazione che devono caratterizzare l’attività amministrativa alla stregua dei principi fondamentali di legalità, di tutela dei diritti della persona e di uguaglianza e non discriminazione sanciti dai primi tre articoli della Costituzione che, al contempo, esso attui l’art. 97 e i principi di imparzialità e di buon andamento dell’Amministrazione.
9 - Già con la legge n. 241 del 1990, il legislatore nazionale ha previsto il “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” (art. 22, comma 1, lett. a), legge n. 241/1990) configurando tale previsione come “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza” e includendo, giuste le previsioni di cui all’art 29, comma 2-bis, della medesima legge, i contenuti di tale “diritto” tra i livelli essenziali delle prestazioni ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost..
In tale primigenia configurazione della posizione giuridica soggettiva, l’accesso viene garantito “agli interessati”: non basta, come precisato dalla giurisprudenza, la semplice curiosità, essendo necessario invece un interesse di base differenziato e meritevole di tutela, secondo la titolarità e nei limiti dell’utilità di una posizione giuridicamente rilevante.
9.1. La legge n. 241/1990 ha costruito il “diritto di accesso” in termini di protezione diretta di un bene della vita, secondo lo schema del diritto soggettivo. Sotto il profilo processuale la tutela di tale diritto è stata ricompresa nell’ambito delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Ciò nonostante è comunque prevalsa la tesi che non si tratti di un diritto soggettivo in senso proprio e che l’accesso vada inquadrato, al di là del nomen utilizzato dalla legge, nella categoria dell’interesse legittimo, conseguendone la necessità che il diniego di accesso, quale provvedimento in senso proprio, sia impugnato nel termine di decadenza di 60 giorni, piuttosto che nel termine più lungo di prescrizione applicabile in via ordinaria ai diritti soggettivi (Consiglio di stato, Adunanza Plenaria 18.04.2006 n. 6 e 20.04.2006 n. 7).
10 - Accanto a questa prima forma di accesso sono state introdotte, di recente, nell’ordinamento, altre fattispecie di accesso qualificabili in termini di diritto soggettivo in senso proprio, tra le quali la recente disposizione sul cosiddetto accesso civico -noto anche come Freedom of Information Act (FOIA) sulla scorta dell’esempio statunitense- introdotta nell’ambito della normativa anticorruzione con il sopra riportato art. 5 del decreto legislativo del 14.03.2013 n. 33, come modificato dal decreto legislativo n. 97 del 2016, che prevede due fattispecie:
   a) In primo luogo, chiunque può richiedere l’accesso alle informazioni e ai dati che le amministrazioni avrebbero comunque l’obbligo di pubblicare sui propri siti o con altre modalità tutte le volte in cui esse hanno omesso questo adempimento.
   b) In secondo luogo, con previsione ancor più generale volta a “favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico,” si dispone che chiunque abbia diritto di accedere ai dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, anche a quelli per i quali non sussiste un obbligo di pubblicazione, anche se l’art. 5-bis prevede una serie di esclusioni in relazione alla necessità di tutelare interessi pubblici e privati come ad esempio la sicurezza nazionale, la difesa, le relazioni internazionali, la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza e più in generale tutti i casi di esclusione di cui all’art. 24, comma 1, della legge n. 241/1990.
11 -
Dunque, osserva il Collegio, sia l’accesso documentale ex art. 22 della legge n. 241/1990, sia l’accesso civico ex art. 5 del d.lgs. n. 33/2013, hanno lo scopo di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorire la partecipazione dei privati, ed entrambi gli istituti scontano talune limitazioni risultanti dalla ponderazione con altri interessi costituzionalmente rilevanti.
Tuttavia nel primo caso il diritto di accesso è riconosciuto solamente al soggetto titolare di un interesse qualificato in relazione ad un procedimento amministrativo. Nel caso dell’accesso civico, viceversa, tale diritto è esteso a qualunque soggetto, singolo o associato, e non vi è la necessità di dimostrare un particolare interesse qualificato a richiedere gli atti o le informazioni, secondo il modello del Freedom of Information Act (FOIA), che trae ispirazione dalle esperienze storiche d’oltralpe e d’oltreoceano.

12 – Al fine di interpretare ed applicare correttamente il nuovo istituto, occorre considerare che il modello FOIA è da tempo presente nella storia delle moderne democrazie: già nel 1766 si parlava in Svezia di libertà d’informazione, ed oggi è divenuto uno standard informativo il modello entrato in vigore negli Stati Uniti nel 1966, mediante il quale le agenzie dell’Executive Branch del Governo Federale hanno l’obbligo di rendere noti e di pubblicare, in modo celere, nel “Federal Register”, un’ampia varietà di documenti a vantaggio dei cittadini.
Il FOIA statunitense inoltre stabilisce che ogni ente governativo deve rendere disponibili a chiunque i documenti non inerenti agli obblighi di pubblicazione. Si tratta dunque di un’accessibilità pressoché totale (i cui limiti sono specificamente delineati in nove eccezioni) che ne fa, secondo i commentatori più attenti, uno degli indicatori più significativi del tasso di democraticità del sistema di governo americano.
In particolare, nel Freedom of Information Act il “right to know”, diritto di essere informati, persegue tre diversi obiettivi, il primo, “accountabilty”, vuole consentire un controllo diffuso sull’operato degli enti pubblici allo scopo di evitare fenomeni di corruzione. La seconda finalità, “partecipation”, vuole garantire ai cittadini una partecipazione consapevole alle decisioni pubbliche. Infine, con la "legitimacy” si vogliono rafforzare le stesse pubbliche amministrazioni, che devono agire in completa trasparenza nei confronti dei cittadini.
Ad oggi esiste una versione del Freedom of Information Act in oltre cento Paesi del mondo, e l’accesso alle informazioni raccolte dallo Stato costituisce un punto di riferimento per gli Stati democratici, tanto da essere riconosciuto a livello internazionale come diritto umano collegato alla libertà di espressione dell’individuo in generale; a sostegno del FOIA si schiera la Convenzione Onu contro la Corruzione, che include l’obbligo per gli Stati di fornire accesso alle informazioni per promuovere la partecipazione della società civile nella prevenzione e nella lotta alla corruzione, mentre l’Unesco riconosce “il 28 settembre come la Giornata mondiale del diritto di accesso.”
13 - Il percorso per la trasparenza nel nostro Paese è iniziato solo in tempi più recenti: la prima norma contenente il diritto di accesso è entrata in vigore solo nel 1990 con la già citata legge n. 241 sul procedimento amministrativo. Successivamente, il sopra citato decreto legislativo n. 33/2013 ha disciplinato la pubblicazione on-line di informazioni rilevanti sui siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni.
Peraltro l’obbligo di pubblicazione, riguardante grandi quantità di dati talvolta di scarso interesse per le imprese e per i cittadini, è stato nuovamente disciplinato dal decreto legislativo n. 97/2016, che ha modificato il decreto n. 33/2013 precisando le informazioni da pubblicare nelle pagine web istituzionali. La medesima fonte ha infine introdotto, come già ricordato, un nuovo sistema di accesso civico, tendenzialmente generalizzato, che si ispira al sopracitato FOIA statunitense secondo la regola primaria della general disclosure di qualsiasi atto, salvo tassative eccezioni, anche se non sottoposto a pubblicazione.
14 – L’introduzione del nuovo istituto di matrice anglosassone è stata accompagnata da talune perplessità ed incertezze applicative, riferite sia ai problemi di coordinamento derivanti dal mantenimento dei precedenti istituti di trasparenza amministrativa, sia alla radicale ridefinizione del rapporto fra cittadino e pubblica amministrazione ed alle possibili difficoltà organizzative derivanti per quest’ultima dalla possibilità generalizzata e diffusa di presentare richieste di accesso alle informazioni o agli atti pubblici senza dover fornire alcuna motivazione.
Osserva tuttavia il Collegio che il nuovo accesso civico risponde pienamente ai sopraindicati principi del nostro ordinamento nazionale di trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa e di partecipazione diffusa dei cittadini alla gestione della ”Cosa pubblica” ai sensi degli articoli 1 e 2 della Costituzione, nonché, ovviamente, dell’art. 97 cost., secondo il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 della Costituzione.
15 - In particolare l’art. 118 Cost., nella sua vigente formulazione, al primo comma prevede che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”, sancendo il principio di sussidiarietà c.d. “verticale”, volto ad avvicinare le competenze dei pubblici uffici ai cittadini e alle imprese e alle loro associazioni e, quindi, ai bisogni del territorio, secondo il modello di “Stato delle Autonomie” già delineato dall’art. 5 Cost..
Esso, al quarto ed ultimo comma, introduce, ed è la vera novità, anche il principio di sussidiarietà in senso c.d. “orizzontale”, sancendo che “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarità".
Il “nuovo” principio di sussidiarietà è, quindi, volto a favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati”, ovvero a favorire la partecipazione dei cittadini e delle formazioni sociali (imprenditoriali ed associative) nelle quali si svolge la loro personalità, ai sensi dell’art. 2 Cost., alla cura e al buon andamento della “Cosa pubblica” mediante “lo svolgimento di attività d’interesse generale”.
In tal modo, viene riconosciuto in primis il valore del volontariato, che insieme alla cooperazione costituisce un patrimonio storico della nostra nazione (attualmente il “Terzo settore” annovera in Italia circa sette milioni di volontari impegnati a vario titolo, insieme a più di tremila associazioni e organizzazioni “no profit”, nell’assistenza ai più bisognosi e nella tutela della persona, dell’ambiente e della cultura, dando uno spontaneo adempimento ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” previsti dall’art. 2 Cost.).
Al tradizionale modello solidaristico va progressivamente affiancandosi un nuovo modello di “cittadinanza attiva”, già patrimonio della lunga storia della democrazia in Europa e nei Paesi anglosassoni ma non estraneo alla storia Italiana, dai Comuni alle Repubbliche marinare, dalle Società di mutuo soccorso alle Cooperative di lavoro, dalle Signorie alle attuali “Misericordie” che affiancano i servizi sociali comunali.
Tale nuovo modello è caratterizzato, alla stregua delle previsioni degli artt. 1, 2 e 118 della Costituzione, dalla spontanea cooperazione dei cittadini con le Istituzioni pubbliche mediante la partecipazione alle decisioni e alle azioni che riguardano la cura dei beni comuni, anziché dei pur rispettabili interessi privati, e che quindi cospirano alla realizzazione dell’interesse generale della società assumendo a propria volta una valenza pubblicistica, nella consapevolezza che la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva può concorrere a migliorare la capacità delle istituzioni di dare risposte più efficaci ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali che la Costituzione riconosce e garantisce.
16 – La sopradescritta disciplina nazionale del nuovo accesso civico, inquadrandosi in questo secondo modello, si pone in diretta attuazione delle previsioni costituzionali risultanti dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, quale istituto strumentale volto ad assicurare le condizioni –ovvero la conoscibilità generalizzata degli atti e delle informazioni in possesso dell’Amministrazione- necessarie “al fine di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico” (art. 5, citato, sull’acceso civico) e quindi volte a favorire la “autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale” (art. 118 Cost., citato, che introduce il principio di sussidiarietà).
17. La ricostruzione del predetto quadro normativo consente al Collegio di evidenziare che
il nuovo accesso civico, che attiene alla cura dei beni comuni a fini d’interesse generale, si affianca senza sovrapposizioni alle forme di pubblicazione on-line del 2013 ed all’accesso agli atti amministrativi del 1990, consentendo, del tutto coerentemente con la ratio che lo ha ispira e che lo differenzia dall’accesso qualificato previsto dalla citata legge generale sul procedimento, l’accesso alla generalità degli atti e delle informazioni, senza onere di motivazione, a tutti i cittadini singoli ed associati, in guisa da far assurgere la trasparenza a condizione indispensabile per favorire il coinvolgimento dei cittadini nella cura della “Cosa pubblica”, oltre che mezzo per contrastare ogni ipotesi di corruzione e per garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’Amministrazione.
18. Ciò accade, a giudizio del Collegio, anche nella specifica fattispecie in esame.
La Coldiretti infatti, dopo una prima domanda di accesso generalizzato che comprendeva la richiesta di un collegamento alle banche dati dell’Amministrazione -ritenuta eccessivamente generica dall’Amministrazione e pertanto respinta con l’atto gravato con il ricorso principale di primo grado- ha liberamente proposto una nuova domanda, analoga ma molto più circostanziata e quindi sostitutiva della precedente, sostanzialmente volta a verificare la corrispondenza e la non contraddittorietà fra le importazioni di latte e di prodotti a base di latte da parte dei singoli operatori nazionali, da un lato, e le indicazioni fornite al consumatore in etichetta a termini di legge circa l’origine delle materie prime utilizzate dall’altro.
Tali finalità corrispondono proprio a quelle forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e di partecipazione degli amministrati al dibattito pubblico, previste dalla nuova normativa del 2016 sull’accesso civico.
18 – Dalle pregresse considerazioni emerge, innanzitutto sul piano processuale:
   a) la sopravvenuta carenza d’interesse alla definizione dell’originario ricorso di primo grado contro il diniego opposto alla prima domanda, spontaneamente sostituita dall’Associazione appellante;
   b) la necessità di esaminare nel merito i motivi aggiunti, di ordine sostanziale, proposti contro il secondo diniego, che sono ugualmente incentrati sulla violazione della nuova disciplina dell’accesso civico .
19. Ai fini della decisione della specifica questione di cui al punto b) del par. 18, il Collegio deve preliminarmente dare risposta ai seguenti quesiti:
   - se la Coldiretti abbia la legittimazione a proporre la domanda di accesso, e se vi possa essere un conflitto d’interessi con i suoi iscritti che potrebbero essere pregiudicati dalla richiesta informativa;
   - se la possibilità di Coldiretti di acquisire i dati dai propri iscritti, oppure l’offerto report periodico con dati aggregati, oppure il vigente obbligo di riportare in etichetta le indicazioni di legge, siano idonei a far venire meno l’interesse di Coldiretti all’accesso;
   - se la domanda di accesso sia inammissibile poiché emulativa o comunque sproporzionata rispetto alle finalità dichiarate di tutela dei consumatori e del mercato, o se ciò comporti comunque oneri insostenibili per l’Amministrazione;
   - se l’accesso ai dati richiesti possa compromettere i diritti dei contro interessati, ed in particolare degli operatori economici che importano latte o suoi derivati.
19.1. Procedendo con ordine, considerato che il diritto di accesso civico spetta a “chiunque” non appare dubbia la legittimazione della Coldiretti a proporre una domanda di accesso a documenti e ad informazioni, a maggior ragione se riguardanti un mercato in cui essa rappresenta la maggioranza degli operatori economici perseguendone, per finalità statutaria, la tutela e lo sviluppo, posto che la completa informazione dei consumatori (oltre a costituire un diritto di questi ultimi, sancito dal Codice del consumo) può favorire un corretto e regolato confronto concorrenziale, nonché un aumento dei consumi interni ed un ulteriore sviluppo di quel mercato.
Ciò è vero e dirimente anche laddove dovesse tradursi in un danno per alcuni dei singoli operatori associati, posto che l’eventuale pregiudizio dei singoli non può andare a detrimento delle finalità associative statutariamente condivise.
In altre parole, e indipendentemente da ogni considerazione circa le dinamiche economiche sottese alla produzione nazionale ovvero alla importazione del latte e dei suoi derivati in una economia ormai globalizzata, non è ictu oculi priva di fondamento la tesi che la trasparenza e la credibilità di fronte ai consumatori circa la provenienza delle materie prime possa favorire lo sviluppo del mercato interno di riferimento, e che, conseguentemente, l’interesse di alcuni associati alla Coldiretti, potenzialmente pregiudicati dalle informazioni pubblicate, debba essere considerato recessivo in quanto non in linea con lo scopo comune della Coldiretti.
19.2. D’altro canto i dati e le informazioni richieste per conseguire la predetta finalità, ossia per ricostruire la filiera delle importazioni di ogni singolo produttore nazionale al fine di suscitare un controllo diffuso ed un dibattito circa la rispondenza fra etichette dei singoli prodotti offerti sul mercato e reali importazioni dei singoli produttori, non potrebbero essere raccolti dall’Associazione solo presso i propri iscritti (che costituiscono solo una parte degli operatori) né potrebbero essere sostituite dal proposto report periodico con dati aggregati.
19.3. Neppure gli obblighi d’informazione in etichetta già presenti per legge, sono, del resto, idonei a far venire meno l’interesse di Coldiretti all’accesso, atteso che, a superamento di quanto argomentato dal TAR, l’Associazione persegue proprio la verifica della credibilità di quelle dichiarazioni riportate in etichetta.
In particolare, erra il Tar quando considera che la Coldiretti non avrebbe interesse a proporre l’istanza di accesso generalizzato poiché allo stesso fine è prevista statutariamente la disciplina sulle etichette (decreto ministeriale del 09.12.2016 sulla etichettatura dei prodotti alimentari). Anche a voler seguire questa prospettazione, in ogni caso rimane l’interesse della Coldiretti ad “accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione” (art. 5, comma 2, cit.).
Infatti, il richiesto accesso ai dati a disposizione dell’Amministrazione in relazione ai procedimenti amministrativi concernenti l’importazione di materie prime e semilavorati da parte dei singoli operatori, oltre a consentire una verifica circa la complessiva affidabilità del controllo pubblico in ordine al rispetto dell’obbligo degli stessi operatori di indicare in etichetta l’origine degli ingredienti di alcuni alimenti, consentirebbe di integrare la predetta forma di pubblicità quanto alla complessiva provenienza delle materie prime utilizzate per produrre in Italia gli ingredienti ed i semilavorati a propria volta utilizzati nei prodotti commercializzati dal medesimo operatore, ma non indicati, a termini di legge, in etichetta.
Pertanto, a giudizio del Collegio le informazioni richieste dalla Coldiretti al Ministero della Salute, da un lato, integrano quelle oggetto di pubblicità obbligatoria ma non coincidono con esse e, dall’altro, non consentono di individuare alcun “abuso del diritto” d’informazione, in quanto rispondono alle dichiarate esigenze legate alla tutela dei consumatori e alla stessa ratio della rintracciabilità della filiera che motiva gli obblighi di etichettatura, operando quel “controllo diffuso sull’attività amministrativa” perseguito dalla nuova norma.
19.4. Venendo agli ulteriori quesiti, è pur vero che sebbene il summenzionato art. 5 del d.lgs. n. 33/2013 non richieda all’istante di fornire una specifica qualificazione o motivazione, la giurisprudenza ha talvolta attribuito rilievo al carattere emulativo o non proporzionato della domanda rispetto alle finalità perseguite.
Tuttavia le pregresse considerazioni consentono di escludere che ricorra una tale circostanza nella fattispecie in esame, considerata la corrispondenza fra la domanda e la dichiarata finalità di tutela della trasparenza del mercato e, quindi, del diritto dei consumatori di essere informati. In particolare, la richiesta di Coldiretti risulta conforme alle finalità di tutela dei consumatori del Codice del consumo che, all’art. 2, garantisce una serie di diritti del consumatore, alcuni dei quali appaiono connessi alla domanda di accesso civico in esame.
L’art. 2 del Codice del Consumo afferma, infatti, che “1. Sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa, sono favorite le iniziative rivolte a perseguire tali finalità, anche attraverso la disciplina dei rapporti tra le associazioni dei consumatori e degli utenti e le pubbliche amministrazioni.
2. Ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i diritti:
   a) alla tutela della salute;
   b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi;
   c) ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità;
   c-bis) all'esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà;
   d) all'educazione al consumo;
   e) alla correttezza, alla trasparenza ed all'equità nei rapporti contrattuali;
   f) alla promozione e allo sviluppo dell'associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti;
   g) all'erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza
.”.
Tale articolo si mostra, quindi, in linea con le richieste della Coldiretti, che vuole indagare sul latte e sui prodotti caseari al fine di informare e rendere consapevoli i consumatori, coerentemente con la ratio dell’accesso civico generalizzato, così come disciplinato dal decreto del 2013 e modificato da quello del 2016.
19.5. Assume inoltre rilievo la circostanza che la seconda istanza proposta da Coldiretti è stata depurata di tutti quegli elementi che conferivano un carattere di genericità alla prima istanza, in conformità alle Linee Guida emanate dall’ANAC in materia.
19.6. Neppure può ritenersi che la domanda comporti oneri eccessivi o sproporzionati per l’Amministrazione. La stessa mira infatti ad ottenere dati disaggregati senza alcuna previa rielaborazione, la cui messa a disposizione (al contrario del report offerto dall’Amministrazione) non implica particolari oneri organizzativi o gestionali dell’Amministrazione (l’Associazione, nella prima domanda aveva anche proposto un diretto collegamento telematico alla banca dati, ma la questione, in disparte il rischio di interferenza della fattispecie con la diversa disciplina della pubblicazione on line erga omnes, non costituisce più, come sopra indicato, oggetto del presente giudizio).
19.7. Infine, quanto all’obiezione che l’accesso potrebbe compromettere i diritti degli operatori economici importatori, evidenzia il Collegio che l’art. 5 soprariportato disciplina dettagliatamente il procedimento in contraddittorio che l’Amministrazione deve obbligatoriamente avviare al ricevimento della domanda al fine di tutelare i possibili controinteressati, non potendo certamente l’Amministrazione limitarsi a prefigurare il rischio di un pregiudizio in via generica e astratta, e dovendo invece motivare, in modo puntuale, la effettiva sussistenza di un reale e concreto pregiudizio agli interessi considerati dai commi 1 e 2 del soprariportato art. 5-bis.
Sulla questione l’ANAC ha emanato nel 2016 le Linee Guida recanti “indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusione e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del D.Lgs 33/2013”, ed in tale documento viene affermato che “Affinché l’accesso possa essere rifiutato, il pregiudizio agli interessi considerati ai commi 1 e 2 deve essere concreto, quindi deve sussistere un preciso nesso di causalità tra l’accesso e il pregiudizio. L’Amministrazione, in altre parole, non può limitarsi a prefigurare il rischio di un pregiudizio in via generica e astratta, ma dovrà:
   a) indicare chiaramente quale –tra gli interessi elencati all’art. 5-bis, co. 1 e 2– viene pregiudicato;
   b) valutare se il pregiudizio (concreto) prefigurato dipende direttamente dalla disclosure dell’informazione richiesta;
   c) valutare se il pregiudizio conseguente alla disclosure è un evento altamente probabile, e non soltanto possibile
”.
Risulta, quindi, confermata l’erroneità del diniego di accesso alla informazioni richieste dalla Coldiretti, in quanto il pregiudizio paventato ai controinteressati era solo ipotetico e comunque agevolmente rimovibile mediante la richiesta inziale di segnalare specifiche ed ipotetiche circostanze ostative, purché riferite a profili diversi rispetto alle informazioni già obbligatoriamente riportate in etichetta, alla stregua del comma 5 del citato art. 5, che disciplina la comunicazione ai soggetti controinteressati “fatti salvi i casi di pubblicazione obbligatoria”.
Alla luce della predetta precisazione normativa, in particolare, neppure può assumere rilievo la considerazione, svolta dalla Difesa dell’Amministrazione, circa il diverso impatto derivante dai diversi modi di divulgazione dei dati ai consumatori, i quali non possono essere pregiudizialmente ritenuti disattenti nella lettura delle informazioni già obbligatoriamente riportate in etichetta e nel conseguente giudizio sui prodotti.
20. Conclusivamente, la risposta ai quesiti, nei termini di cui al par. 19), conduce al riconoscimento del diritto d’accesso civico in capo all’associazione ricorrente. Alla stregua delle pregresse considerazioni l’appello deve essere accolto, e per l’effetto deve essere annullato, in riforma dell’appellata sentenza, il diniego impugnato in primo grado con i motivi aggiunti, dovendo invece essere dichiarata la sopravvenuta carenza d’interesse in ordine al ricorso principale di primo grado.
21. Ne consegue l’obbligo dell’Amministrazione intimata di dare corso, senza alcun indugio, alla seconda domanda di “accesso civico” dell’Associazione appellante, previa attivazione e conclusione, nei termini di legge, della procedura di confronto con i potenziali controinteressati, i quali, in relazione alla specificità del caso, potranno essere interpellati preliminarmente in via generale secondo modalità telematiche.
L’Amministrazione potrà, se del caso, tenere conto (mediante il parziale oscuramento dei dati) solo di eventuali specifiche ragioni di riservatezza dei controinteressati, puntualmente motivate e circostanziate, eventualmente ritenute meritevoli di protezione, ma con riferimento a profili diversi ed ulteriori rispetto a quelli già implicitamente superate dai vigenti obblighi di informazione dei consumatori.

ATTI AMMINISTRATIVI: L’istanza di accesso agli atti presentata dal ricorrente deve qualificarsi come istanza ex art. 22 e ss. della L. 241/1990 e ss.mm.ii.
Sicché, come è noto, tale fattispecie rientra nel campo di applicazione di uno dei principi generali dell’attività amministrativa contemporanea -quello appunto dell’accesso- teso al fine precipuo di favorire la partecipazione al procedimento amministrativo da parte dei cittadini, oltre a garantire l’imparzialità e la trasparenza dell’agire delle Pubbliche Amministrazioni.
Va da subito evidenziato che l’interesse all’accesso deve essere finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, così come disposto dal c. 1, lett. b) del citato art. 22, a mente del quale possono richiedere l’accesso agli atti tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
Va rimarcato, pertanto, che per accedere ai documenti amministrativi è necessario avere un interesse che deve necessariamente essere “diretto, concreto e attuale”; sotto tale aspetto si può rilevare che l’interesse è “diretto” quando è personale, vale a dire appartiene alla sfera dell’interessato, è “concreto” quando è collegato con il “bene vita” coinvolto dal documento, ed infine è “attuale” se non è meramente potenziale.
In linea del tutto generale, oramai per giurisprudenza consolidata è necessario prendere in considerazione una “…nozione ampia di “strumentalità” del diritto di accesso, nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale e non meramente emulativo o potenziale, connesso alla disponibilità dell’atto o del documento del quale si richiede l’accesso, non imponendosi che l’accesso al documento sia unicamente e necessariamente strumentale all’esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma ammettendo che la richiamata strumentalità va intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante”.
L’accesso agli atti si colloca, dunque, all’interno di un sistema contraddistinto dalla ricerca di un contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi.
Pertanto in tale ottica, il collegamento tra l’interesse giuridicamente rilevante del privato e la documentazione stessa, deve essere un mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse.
Invero, il diritto all’accesso agli atti, nell’ambito della L. n. 241/1990, non può mai sconfinare in una azione volta a genericamente assoggettare a controllo l’operato delle Pubbliche Amministrazioni, difatti: “il diritto all’accesso documentale -pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale- non si configura come un’azione popolare, esercitabile da chiunque, indipendentemente da una posizione giuridicamente differenziata; ne consegue che l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti si riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque solo laddove essi se ne possano avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante”.
Sulla stessa linea interpretativa si afferma che “Il diritto di accesso a documenti amministrativi è riconosciuto a chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale, che corrisponde ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, non essendo pertanto necessaria l’instaurazione di un giudizio, essendo sufficiente la dimostrazione del grado di protezione al bene della vita dal quale deriva l’interesse ostensivo, pertanto la legittimazione all’accesso agli atti della P.A. va riconosciuta a chi è in grado di dimostrare che gli atti oggetto dell’accesso hanno prodotto o possano produrre effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, a prescindere dalla lesione di una posizione giuridica”.
Dunque, lo si ribadisce, ai fini dell’accesso agli atti, il soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non emulativo, riveste carattere “personale e concreto”.
Appare quindi determinante la circostanza per la quale il richiedente riesca a dimostrare che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi “titolare” di “poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque ad intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso”.
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Deve anzitutto osservarsi, nel quadro di una certa genericità delle argomentazioni impugnatorie formulate nel libello introduttivo, l’istanza di accesso agli atti presentata dal ricorrente deve qualificarsi come istanza ex art. 22 e ss. della L. 241/1990 e ss.mm.ii.
Come è noto, tale fattispecie rientra nel campo di applicazione di uno dei principi generali dell’attività amministrativa contemporanea -quello appunto dell’accesso- teso al fine precipuo di favorire la partecipazione al procedimento amministrativo da parte dei cittadini, oltre a garantire l’imparzialità e la trasparenza dell’agire delle Pubbliche Amministrazioni.
Va da subito evidenziato che l’interesse all’accesso deve essere finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, così come disposto dal c. 1, lett. b), del citato art. 22, a mente del quale possono richiedere l’accesso agli atti tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 4043/2017).
Va rimarcato, pertanto, che per accedere ai documenti amministrativi è necessario avere un interesse che deve necessariamente essere “diretto, concreto e attuale”; sotto tale aspetto si può rilevare che l’interesse è “diretto” quando è personale, vale a dire appartiene alla sfera dell’interessato, è “concreto” quando è collegato con il “bene vita” coinvolto dal documento, ed infine è “attuale” se non è meramente potenziale (cfr. TAR Toscana, Firenze, Sez. II, sent. n. 4967/2006).
In linea del tutto generale, oramai per giurisprudenza consolidata è necessario prendere in considerazione una “…nozione ampia di “strumentalità” del diritto di accesso, nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale e non meramente emulativo o potenziale, connesso alla disponibilità dell’atto o del documento del quale si richiede l’accesso, non imponendosi che l’accesso al documento sia unicamente e necessariamente strumentale all’esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma ammettendo che la richiamata strumentalità va intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, Sent. n. 1978/2016).
L’accesso agli atti si colloca, dunque, all’interno di un sistema contraddistinto dalla ricerca di un contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi.
Pertanto in tale ottica, il collegamento tra l’interesse giuridicamente rilevante del privato e la documentazione stessa, deve essere un mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (cfr. Cons. Stato, sez. III, Sent. n. 116/2012).
Invero, il diritto all’accesso agli atti, nell’ambito della L. n. 241/1990, non può mai sconfinare in una azione volta a genericamente assoggettare a controllo l’operato delle Pubbliche Amministrazioni, difatti: “il diritto all’accesso documentale -pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale- non si configura come un’azione popolare, esercitabile da chiunque, indipendentemente da una posizione giuridicamente differenziata; ne consegue che l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti si riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque solo laddove essi se ne possano avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante” (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. n. 4346/2017).
Sulla stessa linea interpretativa si afferma che “Il diritto di accesso a documenti amministrativi è riconosciuto a chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale, che corrisponde ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, non essendo pertanto necessaria l’instaurazione di un giudizio, essendo sufficiente la dimostrazione del grado di protezione al bene della vita dal quale deriva l’interesse ostensivo, pertanto la legittimazione all’accesso agli atti della P.A. va riconosciuta a chi è in grado di dimostrare che gli atti oggetto dell’accesso hanno prodotto o possano produrre effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, a prescindere dalla lesione di una posizione giuridica” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI , sent. n. 3938/2018).
Dunque, lo si ribadisce, ai fini dell’accesso agli atti, il soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non emulativo, riveste carattere “personale e concreto”.
Appare quindi determinante la circostanza per la quale il richiedente riesca a dimostrare che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi “titolare” di “poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque ad intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso” (cfr. TAR Lazio, Sez. II, sent. n. 3941/2016).
Nel caso oggetto del presente procedimento deve evidenziarsi come vi sia la mancanza assoluta di un interesse “attuale” all’accesso, in quanto la procedura selettiva in esame risulta essere stata ormai revocata, oltre ad essere relativa ad una articolazione amministrativa, quello della Struttura Semplice a Valenza dipartimentale di Fragilità e Complessità Assistenziale, che è stato fatto oggetto, insieme ad altre attività territoriali, di una ristrutturazione aziendale di tipo macro-organizzativo.
Da questo angolo visuale, la revoca di un bando di concorso pubblico rientra nei normali ed ampi poteri discrezionali della Pubblica Amministrazione che può provvedere in tal senso quando, per sopravvenute esigenze organizzative o per il mutamento della situazione di fatto o di diritto, e quindi per sopravvenute ragioni di interesse pubblico, non si rende più necessaria la copertura del posto messo a concorso.
L’istanza de qua pertanto risulta avere un carattere generico, indeterminato ed esplorativo, confermato anche dalla mancata indicazione, a sostegno dell’esperita tutela, di specifici motivi di ricorso; sul punto il ricorrente, nel libello introduttivo del giudizio, si limita ad asserire che l’accesso agli atti gli è dovuto in ragione del semplice inoltro della domanda alla procedura selettiva ed alla presenza dell’interesse ad ottenere un “ruolo di responsabilità”.
In altri termini, il ricorrente non chiarisce quale sia la sua posizione relativamente agli atti verso i quali formula l’istanza ostensiva, non arrivando a dimostrare quale siano gli effetti diretti degli stessi atti nei suoi confronti, di modo che il ricorso sembra promuovere quel controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione precluso ai sensi dell’art. 24, c. 3, della L. n. 241/1990 stigmatizzato nella sopra ricordata giurisprudenza.
Il principio, tra l’altro, è ribadito in maniera perentoria dal Consiglio di Stato anche in recentissime pronunce, secondo cui: “in tema di accesso agli atti amministrativi, non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 3558/2018).
Sotto tale aspetto, parte ricorrente non potrebbe nemmeno invocare il c.d. accesso difensivo, previsto dal comma 7 del citato articolo 24, in quanto occorre considerare che il ricorrente ha partecipato ad una procedura selettiva (revocata), con valutazione comparativa con un’altra candidata, i cui esiti non sono sub judice, in ragione del fatto che lo stesso dott. Ga. non ha inteso impugnare la delibera n. 999/CS del 25/05/2018.
Sotto tale aspetto, pertanto, l’ostensione degli atti e documenti richiesti non recherebbe alcun vantaggio o beneficio al dott. Ga. e lascerebbe comunque inalterato il precedente assetto di interessi sottesi alla vicenda.
Ove, alternativamente, la richiesta di accesso agli atti in esame la si qualifichi come spiccata in applicazione del D.Lgs. n. 33/2013, così come modificato dal D.Lgs. n. 97/2016, essa parimenti sarebbe infondata nel merito.
Se invero l’art. 1 della citata normativa parla di “accessibilità totale” dei dati e dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, in materia di bandi di concorso, ex art. 19 del citato Decreto, le pubbliche amministrazioni sono tenute a pubblicare il “bando” (che, nel caso di specie e nella forma dell’avviso, risulta essere stato pienamente reso pubblico), i criteri di valutazione della Commissione (che, nel caso di specie, neppure è stata nominata), nonché le tracce delle prove scritte (che, nel caso di specie, non sono state formulate).
Non risulta, pertanto, spazio di ostensione documentale ulteriore che possa o debba essere colmato.
Ne consegue, anche sotto tale ipotetico profilo, la non accoglibilità dell’introdotto ricorso (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 15.02.2019 n. 238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza ha ormai chiarito che l'azione prevista dall'art. 25 della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) introduce un giudizio di accertamento dello stesso diritto di accesso e deve inerire ad atti formati o, comunque, detenuti dall'Amministrazione, nell'esercizio dei suoi compiti istituzionali; in particolare, tale giudizio si pone come sostanzialmente inteso ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica situazione, alla luce dei parametri normativi di riferimento.
La giurisprudenza ha ulteriormente precisato che il giudizio in materia di accesso ai documenti, anche se si atteggia come impugnatorio, in quanto riferito all'atto di diniego o al silenzio-diniego formatosi sulla relativa istanza o ancora all’atto di differimento, è sostanzialmente rivolto ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica situazione alla luce dei parametri normativi, e indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall'Amministrazione per giustificare il diniego stesso.

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L’art. 22 della l. 241/1990 riconosce “a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite dalla presente legge” (1° comma); ai sensi del successivo art. 25, “il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge” (1° comma), e “la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente” (2° comma).
Alla stregua della richiamata disciplina sul procedimento amministrativo, i portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso ai documenti amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo per tali le situazioni giuridiche soggettive che presentino un collegamento diretto e attuale con il procedimento amministrativo cui la richiesta di accesso si riferisce.
In particolare, deve ritenersi che la nozione di “interesse giuridicamente rilevante sia più ampia rispetto a quella dell’interesse all’impugnazione, caratterizzato dall’attualità e concretezza dell’interesse medesimo, e consenta la legittimazione all’accesso a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica”.
D’altra parte, il concetto di interesse giuridicamente rilevante, sebbene sia più ampio di quello di interesse all’impugnazione, non è tale da consentire a chiunque l’accesso agli atti amministrativi: il diritto di accesso ai documenti amministrativi non si atteggia, infatti, come una sorta di azione popolare diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato sull’Amministrazione, giacché, da un lato l’interesse che legittima ciascun soggetto all’istanza, da accertare caso per caso, deve essere personale e concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso, dall’altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse oltre che individuata o ben individuabile.
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2.1 Il Collegio preliminarmente ritiene di precisare che la giurisprudenza ha ormai chiarito che l'azione prevista dall'art. 25 della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) introduce un giudizio di accertamento dello stesso diritto di accesso e deve inerire ad atti formati o, comunque, detenuti dall'Amministrazione, nell'esercizio dei suoi compiti istituzionali; in particolare, tale giudizio si pone come sostanzialmente inteso ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica situazione, alla luce dei parametri normativi di riferimento (Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2012, n. 1162; Sez. V, 23.01.2004, n. 207; Sez. VI, 31.07.2003, n. 4436 e 20.02.2002, n. 1036; TAR Calabria, Cz, Sez. I, 18.11.2009, n. 1274).
La giurisprudenza ha ulteriormente precisato che il giudizio in materia di accesso ai documenti, anche se si atteggia come impugnatorio, in quanto riferito all'atto di diniego o al silenzio-diniego formatosi sulla relativa istanza o ancora all’atto di differimento, è sostanzialmente rivolto ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica situazione alla luce dei parametri normativi, e indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall'Amministrazione per giustificare il diniego stesso (Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2011, n. 3190).
2.2 Nello specifico, l’art. 22 della legge riconosce “a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite dalla presente legge” (1° comma); ai sensi del successivo art. 25, “il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge” (1° comma), e “la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente” (2° comma).
2.3 Alla stregua della richiamata disciplina sul procedimento amministrativo, i portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso ai documenti amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo per tali le situazioni giuridiche soggettive che presentino un collegamento diretto e attuale con il procedimento amministrativo cui la richiesta di accesso si riferisce.
In particolare, deve ritenersi che la nozione di “interesse giuridicamente rilevante sia più ampia rispetto a quella dell’interesse all’impugnazione, caratterizzato dall’attualità e concretezza dell’interesse medesimo, e consenta la legittimazione all’accesso a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica” (Cons. Stato, IV Sez., 03.02.1996 n. 98; 14.01.1999 n. 32).
D’altra parte, il concetto di interesse giuridicamente rilevante, sebbene sia più ampio di quello di interesse all’impugnazione, non è tale da consentire a chiunque l’accesso agli atti amministrativi: il diritto di accesso ai documenti amministrativi non si atteggia, infatti, come una sorta di azione popolare diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato sull’Amministrazione, giacché, da un lato l’interesse che legittima ciascun soggetto all’istanza, da accertare caso per caso, deve essere personale e concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso, dall’altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse oltre che individuata o ben individuabile (Cons. Stato, VI Sez., 17.03.2000 n. 1414; 03.11.2000 n. 5930) (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 26.11.2015 n. 13352 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

La cd. "sanatoria giurisprudenziale" è morta, defunta, sepolta!
E' chiaro?

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto, che l’istituto noto come “sanatoria giurisprudenziale” deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
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L’irrilevanza della sopravvenuta normativa urbanistica vale a confutare anche il secondo motivo di doglianza prospettato dalla difesa di parte ricorrente nel ricorso per motivi aggiunti, laddove ha lamentato l’irragionevolezza di un diniego di sanatoria, relativo ad manufatto attualmente, però, realizzabile in maniera del tutto legittima, alla luce della sopravvenuta e attualmente vigente disciplina urbanistica dell’area. In tal modo, la difesa attorea ha inteso richiamarsi ad un istituto giuridico frutto di un risalente orientamento giurisprudenziale, noto come “sanatoria giurisprudenziale”.
E’ noto, infatti, che l’istituto in parola deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione (cfr., ex multis, da ultimo Consiglio di Stato sez. VI, 11/09/2018, n. 5319) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 06.06.2019 n. 3076 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'istituto della cd "sanatoria giurisprudenziale" deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, ossia a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata 'sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione.
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Non può neppure condividersi la tesi tendente ad attribuire rilievo alla c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, dato che, secondo recente orientamento giurisprudenziale, tale istituto “deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, ossia a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata 'sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa. Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione" (Cons. Stato Sez. IV, 21/03/2019, n. 1874) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 940 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istituto della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" deve considerarsi normativamente superato nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente ed ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio.
Come ha messo in evidenza il Consiglio di Stato, <<il permesso in sanatoria è quindi ottenibile soltanto ex art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda; viceversa, con la invocata "sanatoria giurisprudenziale" viene in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e, pertanto, la stessa non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla P.A. stessa. A questo riguardo pare poi il caso di rammentare che a favore della incompatibilità della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" con il dettato normativo di cui all'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 militano anche argomenti interpretativi letterali e logico-sistematici, oltre che attinenti ai lavori preparatori. La Corte Costituzionale, poi, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l'altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della "doppia conformità" seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici>>.
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 discende dall'esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall'intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
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4. Non sono condivisibili le ulteriori riflessioni sviluppate dalla parte ricorrente, in quanto:
   - la previsione dettata dall'art. 3, comma 1, lett. e.6), del DPR 380/2001 considera “interventi di nuova costruzione ... gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% (percento) del volume dell'edificio principale”; ciò non significa che  automaticamente– un’opera che occupa un volume e una superficie di misura inferiore sia ascrivibile al genus delle pertinenze, dovendo essere riscontrati i plurimi indici dei quali si è già dato conto;
   - l’invocato art. 41 delle NTA legittima conclusioni opposte a quelle cui addiviene la parte ricorrente, poiché “l’esclusione dal computo della superficie coperta di pensiline e aggetti aperti” è limitata ai manufatti dotati di “sporto non superiore a metri 4” e dunque con dimensioni ben più ridotte di quelle accertate nella fattispecie;
   - la nuova regolamentazione degli edifici aventi destinazione industriale e artigianale D1 intervenuta nelle more del giudizio (cfr. memoria finale di parte ricorrente) –che ammetterebbe l’ampliamento degli edifici esistenti– non esclude comunque la necessità di munirsi del titolo abilitativo;
   - l’invocato istituto della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" deve considerarsi normativamente superato nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente ed ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio: come ha messo in evidenza il Consiglio di Stato, sez. VI – 24/04/2018 n. 2496, <<il permesso in sanatoria è quindi ottenibile soltanto ex art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda; viceversa, con la invocata "sanatoria giurisprudenziale" viene in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e, pertanto, la stessa non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla P.A. stessa. A questo riguardo pare poi il caso di rammentare che a favore della incompatibilità della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" con il dettato normativo di cui all'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 militano anche argomenti interpretativi letterali e logico-sistematici, oltre che attinenti ai lavori preparatori. La Corte Costituzionale, poi, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l'altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della "doppia conformità" (sent. nn. 31.03.1998 n. 370; 13.05.1993 n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici (sent. nn. 370/1998 e 231/93) … >> (si vedano anche Consiglio di Stato, sez. VI – 07/09/2018 n. 5274 e TAR Lombardia Milano, sez. II – 17/05/2018 n. 1297, secondo il quale “Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 discende dall'esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall'intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.)” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La teoria della sanatoria giurisprudenziale risulta da tempo superata, con la conseguenza che un manufatto contrastante con la disciplina urbanistica vigente al momento della sua costruzione è e resta un’opera abusiva.
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7.4. Infine, è irrilevante che l’intervento realizzato dal ricorrente sia oggi assentibile.
Invero, la teoria della sanatoria giurisprudenziale risulta da tempo superata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 5319/2018), con la conseguenza che un manufatto contrastante con la disciplina urbanistica vigente al momento della sua costruzione è e resta un’opera abusiva (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.05.2019 n. 1117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione.
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La sanatoria di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, si fonda sul rilascio di un provvedimento abilitativo sanante da parte della competente Amministrazione, sempre possibile previo accertamento di conformità o di non contrasto delle opere abusive non assentite agli strumenti urbanistici vigenti nel momento della realizzazione e in quello della richiesta, previo accertamento di compatibilità paesaggistica nelle ipotesi in cui l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico e che è tassativamente limitato alle sole fattispecie contemplate dall’art. 167 comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 27, d.lgs. 24.03.2006, n. 157.
Orbene, è la stessa qualificazione in termini di sanatoria del provvedimento scolpito dall’art. 36 che importa l’esclusione dal suo ambito di quelle opere progettate al fine di ricondurre l’opus nel perimento di ciò che risulti conforme alla disciplina urbanistica e quindi assentibile.
Questo Consiglio ha quindi rilevato che il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida statuizione normativa poiché si farebbe a meno della doppia conformità dell’opera richiesta dalla norma se si ammettesse l’esecuzione di modifiche postume rispetto alla presentazione della domanda di sanatoria.
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8.4. Non resta quindi che esaminare la critica, avente rilievo centrale nell’economia dell’appello de quo, afferente alla individuazione dei confini applicativi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che, secondo la linea interpretativa auspicata dall’appellante, sarebbe in grado di abbracciare anche le opere in progetto e pertanto non ancora eseguite.
La tesi sostenuta dall’appellante non può essere condivisa, avendo questo Consiglio più volte optato per una interpretazione restrittiva della norma che, nel consentire la sanatoria degli abusi formali, ha natura senz’altro eccezionale rispetto al principio del necessario previo ottenimento dell’assentimento edilizio ovverosia da conseguire prima e non dopo l’esecuzione delle opere.
Si è, quindi, di recente osservato che “l’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa. Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2018, n. 5319).
Invero, la sanatoria di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, si fonda sul rilascio di un provvedimento abilitativo sanante da parte della competente Amministrazione, sempre possibile previo accertamento di conformità o di non contrasto delle opere abusive non assentite agli strumenti urbanistici vigenti nel momento della realizzazione e in quello della richiesta, previo accertamento di compatibilità paesaggistica nelle ipotesi in cui l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico e che è tassativamente limitato alle sole fattispecie contemplate dall’art. 167 comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 27, d.lgs. 24.03.2006, n. 157. Orbene, è la stessa qualificazione in termini di sanatoria del provvedimento scolpito dall’art. 36 che importa l’esclusione dal suo ambito di quelle opere progettate al fine di ricondurre l’opus nel perimento di ciò che risulti conforme alla disciplina urbanistica e quindi assentibile.
Questo Consiglio (Cons. Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410) ha quindi rilevato che il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida statuizione normativa poiché si farebbe a meno della doppia conformità dell’opera richiesta dalla norma se si ammettesse l’esecuzione di modifiche postume rispetto alla presentazione della domanda di sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.03.2019 n. 1874 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di <sanatoria giurisprudenziale> il Consiglio di Stato è ormai pervenuto con recenti sentenze a negare la possibilità di ammetterla, affermando il seguente principio:
   - “L'ISTITUTO DELLA C.D. ‘SANATORIA GIURISPRUDENZIALE' DEVE CONSIDERARSI NORMATIVAMENTE SUPERATO, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile SOLTANTO in presenza dei presupposti espressamente delineati dall' art. 36 d.P.R. n. 380/2001 , ossia a condizione che l'intervento RISULTI CONFORME ALLA DISCIPLINA URBANISTICA ED EDILIZIA VIGENTE AL MOMENTO SIA DELLA REALIZZAZIONE DEL MANUFATTO, SIA DELLA PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo UN ATTO ATIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI PRAETER LEGEM, I QUALI SI COLLOCHEREBBERO AL DI FUORI D'OGNI PREVISIONE NORMATIVA.
TALE ISTITUTO NON TROVA, PERTANTO, FONDAMENTO ALCUNO NELL'ORDINAMENTO POSITIVO, CONTRASSEGNATO INVECE DAI PRINCIPI DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DI TIPICITÀ E NOMINATIVITÀ DEI POTERI ESERCITATI DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, NON POSSONO ESSERE CREATI IN VIA GIURISPRUDENZIALE, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione
”.
Anche il TAR Lombardia ha recentemente affermato la persistenza del principio anche in caso di sopravvenuta modifica favorevole dello strumento urbanistico:
   - “E' legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e <RISULTA DEL TUTTO RAGIONEVOLE IL DIVIETO LEGALE DI RILASCIARE UNA CONCESSIONE (O IL PERMESSO) IN SANATORIA, ANCHE QUANDO DOPO LA COMMISSIONE DELL'ABUSO VI SIA UNA MODIFICA FAVOREVOLE DELLO STRUMENTO URBANISTICO>.
La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. sanatoria giurisprudenziale -consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della solo conformità dell'opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente- finirebbe per dare luogo a un <ATTO ATIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI CHE SI COLLOCA AL DI FUORI DI QUALSIASI PREVISIONE NORMATIVA E CHE, PERTANTO, NON PUÒ RITENERSI AMMESSO NEL NOSTRO ORDINAMENTO, CONTRASSEGNATO DAL PRINCIPIO DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DAL CARATTERE TIPICO DEI POTERI ESERCITATI DALL'AMMINISTRAZIONE, ALLA STREGUA DEL PRINCIPIO DI NOMINATIVITÀ>; poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere di attribuzione riservate all'Amministrazione
".
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Si consideri che, in materia di <sanatoria giurisprudenziale> (ipotesi che potrebbe risultare rilevante anche per il caso di specie), il Consiglio di Stato è ormai pervenuto con recenti sentenze (cfr. da ultimo Consiglio di Stato , sez. VI , 11/09/2018 n. 5319) a negare la possibilità di ammetterla, affermando il seguente principio:
   - “L'ISTITUTO DELLA C.D. ‘SANATORIA GIURISPRUDENZIALE' DEVE CONSIDERARSI NORMATIVAMENTE SUPERATO, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile SOLTANTO in presenza dei presupposti espressamente delineati dall' art. 36 d.P.R. n. 380/2001 , ossia a condizione che l'intervento RISULTI CONFORME ALLA DISCIPLINA URBANISTICA ED EDILIZIA VIGENTE AL MOMENTO SIA DELLA REALIZZAZIONE DEL MANUFATTO, SIA DELLA PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo UN ATTO ATIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI PRAETER LEGEM, I QUALI SI COLLOCHEREBBERO AL DI FUORI D'OGNI PREVISIONE NORMATIVA. TALE ISTITUTO NON TROVA, PERTANTO, FONDAMENTO ALCUNO NELL'ORDINAMENTO POSITIVO, CONTRASSEGNATO INVECE DAI PRINCIPI DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DI TIPICITÀ E NOMINATIVITÀ DEI POTERI ESERCITATI DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, NON POSSONO ESSERE CREATI IN VIA GIURISPRUDENZIALE, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione”.
Anche il TAR Lombardia, sez. II, con sentenza 17/05/2018 n. 1298, ha recentemente affermato la persistenza del principio anche in caso di sopravvenuta modifica favorevole dello strumento urbanistico:
   - “E' legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria. Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e <RISULTA DEL TUTTO RAGIONEVOLE IL DIVIETO LEGALE DI RILASCIARE UNA CONCESSIONE (O IL PERMESSO) IN SANATORIA, ANCHE QUANDO DOPO LA COMMISSIONE DELL'ABUSO VI SIA UNA MODIFICA FAVOREVOLE DELLO STRUMENTO URBANISTICO>. La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. sanatoria giurisprudenziale -consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della solo conformità dell'opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente- finirebbe per dare luogo a un <ATTO ATIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI CHE SI COLLOCA AL DI FUORI DI QUALSIASI PREVISIONE NORMATIVA E CHE, PERTANTO, NON PUÒ RITENERSI AMMESSO NEL NOSTRO ORDINAMENTO, CONTRASSEGNATO DAL PRINCIPIO DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DAL CARATTERE TIPICO DEI POTERI ESERCITATI DALL'AMMINISTRAZIONE, ALLA STREGUA DEL PRINCIPIO DI NOMINATIVITÀ>; poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere di attribuzione riservate all'Amministrazione" (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 09.02.2019 n. 105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria giurisprudenziale è “istituto di origine pretoria, la cui praticabilità è stata, da tempo, esclusa dalla Giurisprudenza, in quanto, essendo il nostro ordinamento giuridico caratterizzato dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità dei poteri esercitati dalla P.A., nessuna forma di “sanatoria atipica” è ammessa dall’ordinamento positivo”.
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2.8 Con ultimo motivo formulato, la società No. S.r.l. Ge.Im. contesta la legittimità dei provvedimenti impugnati e la conseguente sanabilità degli interventi realizzati in base all’istituto giurisprudenziale della “sanatoria giurisprudenziale”, istituto secondo cui le opere sarebbero comunque assentibili in assenza della doppia conformità bastando la sola conformità agli strumenti urbanistici al momento del rilascio del titolo sanante.
2.8.1 Il motivo è infondato.
A tal proposito, il Collegio rileva come tale istituto sia da tempo escluso dal sistema giuridico e, sul punto, ritiene dunque condivisibili le deduzioni di parte resistente secondo cui la sanatoria giurisprudenziale è “istituto di origine pretoria, la cui praticabilità è stata, da tempo, esclusa dalla Giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 21/06/2017, n. 3018; Cons. St., sez. VI, 18.07.2016, n. 3194; Cons. St., sez VI, 05.06.2015 n. 2784; Cons. St., sez IV, 26.04.2006, n. 2306; Corte Cost., 29.05.2013, n. 101), in quanto, essendo il nostro ordinamento giuridico caratterizzato dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità dei poteri esercitati dalla P.A., nessuna forma di “sanatoria atipica” è ammessa dall’ordinamento positivo” (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 28.01.2019 n. 153 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La configurabilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” è costantemente esclusa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, trattandosi di istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in contrasto con i principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa.
Invero, “Non è invocabile la c.d. "sanatoria giurisprudenziale", giacché il permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e che, pertanto, non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”.
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5. La configurabilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” è costantemente esclusa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, trattandosi di istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in contrasto con i principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa (Cons. Stato Sez. VI, 07/09/2018, n. 5274: “Non è invocabile la c.d. "sanatoria giurisprudenziale", giacché il permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e che, pertanto, non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.01.2019 n. 65 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAIl sisma bonus. Requisiti e modalità per accedere ai benefici fiscali.
Negli ultimi anni hanno preso corpo importanti novità nel comparto dei «bonus fiscali» che, complessivamente, da un lato, ne hanno aumentato l'efficacia come strumento di incentivazione del recupero in chiave antisismica ed energetica degli edifici esistenti, e, dall'altro, hanno anche assunto una funzione di «leva» economica nell'area immobiliare.
Nello specifico, con effetto dal 2017, con la legge di Bilancio 11.12.2016, n. 232, è stata prevista: (...continua)
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2019).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 18.06.2019, "Approvazione del bando per l’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati" (decreto D.U.O. 14.06.2019 n. 8615).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 17.06.2019 n. 140 "Testo del decreto-legge 18.04.2019, n. 32, coordinato con la legge di conversione 14.06.2019, n. 55, recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici»".
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Al riguardo, si leggano anche:
  
Interventi strutturali in zone sismiche: le semplificazioni introdotte dalla Legge Sblocca-cantieri - Modificato in più punti il Testo Unico Edilizia (DPR n. 380/2001) (17.06.2019 - link a www.casaeclima.com).
   ● Legge Sblocca-cantieri: scelta autonoma dei criteri di aggiudicazione - Niente obbligo di affidare i lavori di importo fino a 5,5 milioni di euro secondo il criterio del massimo ribasso: la Stazione Appaltante potrà scegliere in autonomia (14.06.2019 - link a www.casaeclima.com).
   ● Lo Sblocca-cantieri è legge: tutte le modifiche al Codice dei contratti - Per l'operatività delle misure occorrono però 27 provvedimenti (14.06.2019 - link a www.casaeclima.com).
   ● Sblocca-cantieri: fino al 31/12/2020 disciplina semplificata per i lavori di manutenzione - La disciplina semplificata è finalizzata a consentire l'affidamento dei lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria sulla base del progetto definitivo e l’esecuzione a prescindere dall'avvenuta redazione e approvazione del progetto esecutivo (11.06.2019 - link a www.casaeclima.com).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATAOggetto Partecipazione del Comando ai lavori della Commissione Comunale di Vigilanza sui Locali di Pubblico Spettacolo (Ministero dell'Interno, Comando Vigili del Fuoco di Bergamo, nota 11.06.2019 n. 12997 di prot.).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHENegli appalti di servizi incentivi tecnici al direttore dell'esecuzione solo per contratti sopra i 500mila euro.
Gli incentivi per le funzioni tecniche spettano al direttore dell'esecuzione del contratto, quale soggetto distinto dal Rup, solo nel caso di appalti di servizi e forniture di importo superiore a 500mila euro o di particolare complessità.
A chiarirlo è la Corte dei conti Veneto con il parere 21.05.2019 n. 107 nel quale ha ribadito come occorra sempre una procedura comparativa.
L'articolo 111, comma 2, del Dlgs 50/2016 prevede che, di norma, il direttore dell'esecuzione del contratto di servizi o di forniture coincida con il responsabile unico del procedimento. La nomina del direttore dell'esecuzione del contratto, invece, è obbligatoria per gli affidamenti di forniture e servizi di importo superiore a 500mila euro ovvero di particolare complessità così come specificato nelle linee guida Anac n. 3/2016, le quali stabiliscono l'importo massimo e la tipologia di servizi e forniture per i quali il Rup può coincidere con il progettista o con il direttore dell'esecuzione del contratto e, nel contempo, dettagliano i casi in cui quest'ultimo deve essere soggetto diverso dal responsabile del procedimento.
Secondo le linee guida Anac n. 3/2016 la particolare complessità ricorre, a prescindere dal valore delle prestazioni, nel caso di interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico, di prestazioni che richiedono l'apporto di una pluralità di competenze, di interventi caratterizzati dall'utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità. Rilevano ragioni concernenti l'organizzazione interna alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzative diverse da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l'affidamento.
I giudici contabili evidenziano che, al di sotto della soglia di 500mila euro non è stata prevista la nomina disgiunta delle due figure del Rup e del direttore dell'esecuzione del contratto.
Chi ha diritto all'incentivo
Gli aventi diritto all'incentivo sono coloro che svolgono particolari funzioni tecniche e i loro collaboratori, individuati dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016, sono quelli che svolgono attività previste in modo tassativo dalla predetta norma.
Il regolamento per la ripartizione degli incentivi non può derogare alle condizioni fissate dal comma 2, articolo 113, del Dlgs 50/2016 per riconoscere e liquidare gli incentivi anche per appalti non riconducibili a quelli previsti dal paragrafo 10.2 delle linee guida anac n. 3/2016, per i quali il direttore dell'esecuzione del contratto deve essere diverso dal Rup.
Secondo i giudici, sono tassative le fattispecie che legittimano la nomina del direttore dell'esecuzione del contratto. La giurisprudenza contabile è concorde nell'escludere l'incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle considerate dall'articolo 113, comma 2, del Dlgs 50/2016.
Quest'ultima disposizione è stata modificata dal decreto legge 32/2019 (decreto sblocca-cantieri) e dal 19.04.2019 sono oggetto di incentivi le attività di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione al posto della attività di programmazione e di predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici.
Punti fermi
Conviene al riguardo fare il punto sulle più significative deliberazioni della Corte dei conti.
È stato riconosciuto l'incentivo, a certe condizioni, anche per le varianti contrattuali di lavori, forniture e servizi di appalti, affidati mediante gara o procedure competitive (Corte dei conti Puglia, parere 12.12.2018 n. 162), e per gli appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria di particolare complessità (Corte dei conti, sezione delle autonomie, deliberazione 09.01.2019 n. 2).
La Corte dei conti Puglia (parere 12.12.2018 n. 162) ha rimarcato come il presupposto indefettibile per l'erogazione dell'incentivo consista nell'effettivo espletamento, in tutto o in parte, di una o più attività afferenti alla gestione degli appalti pubblici. È stato ritenuto legittimo il riconoscimento dell'emolumento anche in caso di affidamento all'esterno di una delle attività previste dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016, purché sia remunerata solo l'attività di supporto a quest'ultima, svolta dai dipendenti dell'ente. Non è obbligatorio prevedere un valore minimo di importo a base di gara ai fini dell'applicazione degli incentivi.
La Corte dei conti Piemonte, con il parere 19.03.2019 n. 25, ha poi chiarito come, in assenza di un quadro economico, che definisca ogni singola voce del corrispettivo relativo al servizio o alla fornitura, sia compromessa la stessa possibilità di determinare il valore del fondo per remunerare gli incentivi. L'assenza di un progetto, di una relazione tecnico-illustrativa, o di altri strumenti assimilabili, rende di fatto impraticabile la funzione di controllo e verifica svolta dal direttore dell'esecuzione, alla cui nomina è subordinata la remunerazione delle funzioni tecniche.
Collaboratori
Con la deliberazione 13.05.2016 n. 18 la Corte dei conti sezione autonomie ha rilevato che, nella nozione «atecnica» di collaboratori, possano essere ricompresi i soggetti «in possesso anche di profili professionali non tecnici, purché necessari ai compiti da svolgere e sempre che il regolamento interno all'ente ripartisca gli incentivi in modo razionale equilibrato e proporzionato alle responsabilità attribuite». Inoltre l'accezione di collaboratore non può essere aprioristicamente delimitata in relazione al bagaglio professionale posseduto, ma deve essere in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere. Secondo il parere 04.05.2018 n. 21 della Corte dei conti Basilicata  la nozione di collaboratore deve essere restrittiva e non comprende personale addetto ai procedimenti di esproprio, accatastamento e frazionamenti.
Per la Corte dei conti Veneto (parere 07.01.2019 n. 1) il regolamento di ripartizione dell'incentivo deve circoscrivere il concetto di collaboratore in stretto collegamento funzionale alle attività da svolgere nell'ambito dei singoli procedimenti.
Nello schema di regolamento predisposto da Itaca, risalente a luglio 2018, si definiscono collaboratori coloro che, tecnici, giuridici o amministrativi, in rapporto alla singola funzione specifica, anche non ricoprendo ruoli di responsabilità diretta o personale, forniscono opera di consulenza e/o svolgono materialmente e/o tecnicamente e/o amministrativamente, parte o tutto l'insieme di atti e attività che caratterizzano la funzione stessa.
Tempistiche
La Corte dei conti Piemonte (parere 09.12.2018 n. 135) ha sottolineato che il comma 3, articolo 113, del Dlgs 50/2016 obbliga l'amministrazione aggiudicatrice a stabilire «i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro» nel caso di «eventuali incrementi dei tempi o dei costi». Per i giudici si tratta di una condizione che collega necessariamente l'erogazione dell'incentivo al completamento dell'opera o all'esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell'appalto in conformità ai costi e ai tempi prestabiliti (Corte dei conti sezione autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6 e Corte dei conti Veneto parere 09.04.2019 n. 72).
La Corte dei conti Umbria, con il parere 28.03.2019 n. 56, ha rimarcato che l'obbligazione dell'ente si perfeziona nel momento in cui, con il relativo regolamento dell'amministrazione, vengono individuati i soggetti incaricati di svolgere le attività incentivabili.
In presenza di accantonamenti già effettuati, nelle more dell'approvazione del regolamento, l'impegno di spesa dovrà essere assunto, dalla data di entrata in vigore del regolamento, anche per attività svolte in precedenza, con l'unico limite di quelle relative ad appalti che si siano già conclusi prima dell'adozione del regolamento stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALISpese legali rimborsabili solo se il regolamento stabilisce i criteri.
Dopo le modifiche legislative sulla rimborsabilità delle spese legali agli amministratori assolti in ambito di procedimenti penali, la questione di maggior interesse si è spostata sull'invarianza della spesa. L'orientamento maggioritario dei giudici contabili ha confermato che l'invarianza finanziaria deve essere circoscritta alle sole spese della missione 1 con i «Servizi istituzionali, generali e di gestione».

Questa indicazione è stata ribadita anche dalla Corte della Campania (parere 06.05.2019 n. 102) precisando, inoltre, la necessaria previa regolamentazione per poter aderire ai canoni di legalità, imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa ed evitare anche ogni possibile conflitto di interesse.
La disposizione legislativa
A causa di una giurisprudenza di legittimità particolarmente restrittiva sul rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori degli enti locali per la propria difesa nei procedimenti penali, il Dl 78/2015 ha modificato l'articolo 86 del Testo unico degli enti locali prevedendo che, qualora ne ricorrano le condizioni, gli enti locali possono rimborsare le spese legali agli amministratori assolti, solo qualora vi sia invarianza di spesa.
In altri termini, la normativa prevede che, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, in caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in assenza di conflitto di interessi con l'ente, in presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti e, infine, in assenza di dolo o colpa grave, gli enti possono rimborsare le spese legali sostenute dagli amministratori per la propria difesa in giudizio.
Le diverse posizioni della giurisprudenza contabile
Sulla questione della rimborsabilità delle spese legali e, in modo particolare, sul concetto di invarianza di spesa, si sono formate due diverse posizioni della magistratura contabile. Da una parte una giurisprudenza minoritaria (Corte dei conti Basilicata) ha individuato l'invarianza all'interno delle risorse ordinarie finanziarie, umane e materiali che a legislazione vigente garantiscono l'equilibrio di bilancio, condizionando il rimborso alla predeterminazione di criteri e modalità cui gli enti locali devono attenersi per l'assegnazione o il riparto dello stanziamento.
Una corrente maggioritaria (Lombardia; Molise; Puglia; Piemonte, Umbria ed Emilia Romagna) ha, invece, circoscritto l'invarianza alle sole spese della Missione 1 per «Servizi istituzionali, generali e di gestione», come una sorta di autofinanziamento all'interno delle spese a disposizione degli stessi organi politici.
A questa corrente maggioritaria si affianca anche la Sezione della Campania in considerazione del fatto che la locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» rischierebbe di rimanere svuotata di qualsivoglia significato restando assorbita, diversamente opinando, dal principio del pareggio e degli equilibri di bilancio.
Le indicazioni del Collegio contabile campano
Un volta precisata la posta contabile cui fare riferimento per l'invarianza della spesa, il Collegio contabile partenopeo impone ulteriori condizioni. In particolare la materia del ristoro delle spese legali agli amministratori comporta scelte discrezionali con «vantaggi economici per gli stessi amministratori» che ne beneficiano, con la conseguenza che i criteri e le modalità cui gli enti devono attenersi dovrebbero essere sanciti all'interno di un regolamento che definisca ex ante l'assegnazione o il riparto dello stanziamento.
Infatti, in mancanza della previa regolamentazione gli enti saranno costretti a seguire le regole generali di legalità, imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, così da evitare anche ogni possibile conflitto di interesse (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.05.2019).

SEGRETARI COMUNALISpese di viaggio, rimborso ai segretari anche in convenzione.
Pur rientrando il segretario comunale tra i dipendenti pubblici, non trovano applicazione nei suoi confronti le restrizioni legislative sul rimborso delle spese di viaggio (articolo 6, comma 12, del Dl 78/2010) e prevale la normativa contrattuale dei segretari in convenzione (articolo 45, comma 2 del contratto del 16.05.2001) che prevede il ristoro delle spese sostenute, in caso di utilizzo del mezzo proprio, per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali. In modo non diverso la medesima disciplina potrà trovare applicazione anche per il segretario reggente.

Queste sono le indicazioni contenute nella parere 19.04.2019 n. 27 della Corte dei conti della Basilicata, Sez. controllo.
La restrizione sulle spese di viaggio
L'attuale legislazione prevede che il dipendente pubblico può essere autorizzato all'utilizzo del proprio mezzo al solo fine di ottenere la copertura assicurativa. Infatti, l'articolo 6, comma 12, del Dl 78/2010 ha stabilito anche per i dipendenti degli enti locali che non si applicano più l'articolo 15 della legge 836/1973 e l'articolo 8 della legge 165/2001, norme che rispettivamente consentono il rimborso e stabiliscono l'entità di una indennità chilometrica per i dipendenti che usano, previa autorizzazione, il proprio mezzo di trasporto.
Tuttavia, agli enti locali è consentito il ricorso a regolamentazioni interne volte a disciplinare -per i soli casi in cui l'utilizzo del mezzo proprio risulti economicamente più conveniente per l'amministrazione– forme di ristoro dei costi sostenuti che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle finalità di contenimento della spesa e degli oneri che in concreto avrebbe sostenuto l'ente per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo di mezzi pubblici.
Queste sono state le indicazioni elaborate dalla Corte dei conti a Sezioni Riunite (deliberazione n. 21/2011) valide per tutti i dipendenti pubblici con la sola eccezione dei segretari comunali titolari di sedi convenzionate. Infatti, per i magistrati contabili resterebbe ancora valida l'indicazione contenuta nei contratti dei segretari (articolo 45, comma 2, del contratto 16.05.2001), la cui finalità è stata quella di sollevarli dalle spese sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali.
D'altra parte, precisa la Corte dei conti, il contratto (articolo 45, comma 3), ripartendo la spesa per i trasferimenti tra «i diversi enti interessati secondo le modalità stabilite nella convenzione» dimostra come l'onere assuma carattere negoziale e non possa ricondursi all'interno del trattamento di missione valido per la generalità dei dipendenti pubblici.
La necessità di una regolamentazione
Il collegio contabile lucano conferma l'orientamento, condiviso anche dal ministero dell'Economia (nota n. 54055/2011) secondo il quale «l'esigenza di assicurare la necessaria flessibilità al Segretario comunale per suddividere la sua prestazione professionale tra più enti appare legata alla possibilità di continuare a utilizzare il mezzo proprio», ma evidenzia la necessità di fissare sin dall'inizio un provvedimento che assuma le connotazioni di un atto regolamentare per indicare i possibili riflessi complessivi sul bilancio dell'ente, ovvero il tipo di autorizzazione da richiedere di volta in volta o, anche, una tantum (mensile, trimestrale, semestrale), all'uso del mezzo proprio.
L'estensione del principio anche al segretario reggente
Secondo la Corte lucana le stesse ragioni che hanno sollevato il segretario in convenzione dalle spese sostenute, vanno estese anche in caso di reggenza, restando ferma l'autorizzazione in caso di uso del mezzo proprio da motivare da parte del sindaco.
In altri termini, la corresponsione del rimborso delle spese affrontate dal segretario comunale risiede nel principio indicato dallo stesso legislatore secondo cui il lavoratore pubblico, nello svolgimento delle sue funzioni, deve essere posto nelle condizioni ottimali dal proprio datore di lavoro, per svolgere al meglio le sue prestazioni professionali (articolo 14, commi 1 e 2, della legge 07.08.2015 n. 124) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al sindaco che dà la posizione organizzativa prima del pensionamento.
Responsabilità contabile al sindaco che abbia nominato una posizione organizzativa prima del suo pensionamento. In questo caso il danno erariale è equivalente al totale delle somme maggiorate, pagate sulla pensione del dipendente in quiescenza, fino alla data del rinvio a giudizio. Spetterà, invece, all'Inps attivare le eventuali procedure per la riduzione della pensione futura, data l'attribuzione della maggiorazione stipendiale avvenuta in modo illegittimo e illecito.

Queste sono le conclusioni della Corte dei conti, sezione giurisdizionale, dell'Umbria (sentenza 03.04.2019 n. 21).
La vicenda
In un ente privo di posizioni dirigenziali, il sindaco aveva conferito a una dipendente la posizione organizzativa e, solo dopo quattro giorni dal conferimento dell'incarico, aveva ricevuto dalla medesima la domanda di collocamento a riposo. Il pensionamento veniva successivamente disposto, grazie ai requisiti posseduti dalla richiedente, anche se a soli undici giorni dalla sua nomina a responsabile del servizio.
La Procura contabile ha rinviato a giudizio il sindaco per il danno erariale procurato alla pubblica amministrazione per aver attuato una scelta arbitraria, mediante assegnazione della posizione organizzativa alla dipendente, permettendo alla medesima di fruire di un maggior importo del suo trattamento pensionistico.
L'importo della pensione della dipendente, infatti, è stato calcolato comprendendo una indennità di posizione parametrata non al periodo di esercizio effettivo della responsabilità del servizio ma su base annua. In altri termini il Primo cittadino, con dolo o almeno colpa grave, non avrebbe fatto gli interessi dell'ente ma esclusivamente procurato un vantaggio alla dipendente per la maggiore pensione ricevuta.
Il vantaggio pensionistico della dipendente, pari a circa 3mila euro annui, corrisponde al danno erariale che andrà pertanto moltiplicato per gli anni di indebita fruizione. Inoltre, in considerazione della certezza dei pagamenti per gli anni successivi, dalla data del rinvio a giudizio, la Procura ha anche proceduto alla quantificazione del maggior danno stimato sulla vita media della pensionata.
Il sindaco si è difeso da una lato in quanto a suo dire la nomina sarebbe avvenuta a seguito della richiesta di esonero della precedente titolare di posizione organizzativa per motivi personali, mentre dall'altro lato ha stigmatizzato la posizione della Procura che non avrebbe tenuto conto delle responsabilità specifiche del segretario comunale e del responsabile del personale. Il primo per aver inoltrato al sindaco la richiesta di dimissioni immediate della precedente titolare di posizione organizzativa, con obbligo di procedere all'assegnazione della titolarità dell'ufficio ad altra dipendente con i requisiti previsti dal contratto, essendo all'oscuro della successiva sua decisione di essere collocata a riposo. Il secondo per aver predisposto la determinazione di collocamento a riposo della dipendente senza alcuna informazione preventiva sui requisiti pensionistici posseduti dalla medesima.
La decisione del collegio contabile
Le eccezioni del sindaco non sono state considerate meritevoli di tutela da parte del collegio contabile in quanto, negli enti privi di dirigenti, la nomina dei responsabili dei servizi spetta in via esclusiva al sindaco, cui è automaticamente associata, per disposizione contrattuale, la posizione organizzativa con relativa retribuzione di posizione.
In merito alla richiesta di dimissioni presentate dalla precedente titolare di posizione organizzativa, il sindaco non ha tenuto conto della sua naturale scadenza che, non per caso, coincideva con la data della successiva richiesta della dipendente nominata di essere collocata a riposo. In questo caso, stante il breve periodo di vacanza del posto di responsabile del servizio, il sindaco avrebbe ben potuto attribuire ad interim le funzioni ad altra posizione organizzativa.
Sulla quantificazione del danno erariale, oltre al potere riduttivo spettante alla Corte per la compartecipazione di altri soggetti che hanno assunto un ruolo passivo nella vicenda, l'ulteriore danno richiesto dalla Procura, sul calcolo del valore attuale degli esborsi futuri basati sulla vita media della dipendente, non può trovare accoglimento, non essendosi il danno ancora prodotto.
Tuttavia, al fine di evitare ulteriori danni alle finanze pubbliche, l'illegittimità e l'illiceità dell'attribuzione della posizione organizzativa sarà comunicata all'Inpc che opererà le dovute valutazioni sulla pensione reale dovuta alla dipendente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019).
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SENTENZA
3. Nel merito, la responsabilità del convenuto va affermata in relazione all’adozione, realizzata a propria firma e nella sua qualità di vertice dell’Amministrazione comunale, dei provvedimenti di sostituzione della dott.ssa Ru. con la dott.ssa Vo., di cui ai decreti n. 5 e n. 6 del 20.12.2011 (rispettivamente aventi ad oggetto “revoca dell’incarico di responsabile del servizio UMD 7 e conferimento incarico responsabile del servizio UMD 7 anno 2011” e “pesatura posizione organizzativa UMD 7”), per conferire a quest’ultima, per appena otto giorni, la posizione organizzativa comprensiva della relativa indennità pensionabile da durare per l’intero periodo di corresponsione del trattamento pensionistico.
La competenza all’adozione di questi atti, concernenti la nomina dei responsabili dei servizi e degli uffici e all’attribuzione degli incarichi dirigenziali, è chiaramente attribuita al Sindaco (art. 50, comma 10, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267-TUEL) e tale disposizione di legge risulta, peraltro, espressamente richiamata nei due decreti sindacali (numero 5 e numero 6) citati.
Né possono valere, in contrario avviso, le giustificazioni addotte in ordine ad una asserita “autorevolezza” e “solennità” della richiesta avanzata per il tramite del segretario comunale che avrebbe preceduto la decisione finale di competenza del sindaco Buschi, ovvero le analoghe giustificazioni in ordine ai successivi passaggi amministrativi conseguenti alle decisioni da costui assunte.
La questione della legittimità del conferimento avvenuto assume, dunque, un rilievo del tutto particolare rispetto alla condotta gravemente colposa del convenuto. Infatti, l’incarico originariamente conferito sarebbe scaduto naturalmente il 31.12.2011 e non vi era pertanto alcuna reale urgenza di provvedere alla sostituzione fino a tale data.
Inoltre, come sottolineato dalla Procura, nell’ipotesi dell’asserita urgenza egli ben avrebbe potuto affidare l’incarico ad interim, per i pochi giorni restanti fino al 31.12.2011, a uno degli altri soggetti che ricoprivano posizioni organizzative, senza che si addivenisse all’esborso dell’ulteriore indennità da parte del Comune di San Giustino.
Viceversa, la condotta del sindaco Bu. si è rivelata essere preordinata alla costituzione di un trattamento stipendiale più favorevole nei confronti della dott.ssa Vo., con conseguenze permanenti sul connesso trattamento pensionistico e con la realizzazione di un danno reale e concreto a carico dell’INPS, come quantificato nella parte dispositiva della presente sentenza.
4. Il periodo per il quale calcolare il danno va dall’inizio dell’anno 2013 fino a tutto il novembre 2018, per un importo pari ad € 17.728,53 (2.996,54 moltiplicato per sei anni, meno un mese), che il Collegio ritiene congruo abbattere del cinquanta per cento, considerando che l’azione del sindaco, determinante l’attuale e concreto pregiudizio danno patrimoniale ai danni dell’istituto di previdenza -tuttora protratto nel tempo- sia stata agevolata nel percorso amministrativo anche dalla mancata attivazione di altri soggetti facenti parte dell’apparato amministrativo comunale, in fase di controllo, ovvero esterni ad esso, in fase di esecuzione dei provvedimenti in questione.
In questi limiti può provvedere il Collegio, non potendo invero disporre l’estensione del contraddittorio nel presente giudizio, come richiesto dal convenuto (art. 83 CGC).
5. Con riguardo alla quantificazione del danno va altresì precisato che non può trovare accoglimento la richiesta –avanzata da parte attrice– della condanna per il danno relativo alle prestazioni economiche del trattamento pensionistico che troveranno realizzazione successiva.
Tale richiesta, riguardando la previsione di un danno futuro, esula dalla competenza di questa Sezione a conoscere della domanda relativa ad un danno concreto ed attuale. Come risulta dalla giurisprudenza contabile e come ricordato anche dalla Corte di Cassazione, questa Corte, in sede giurisdizionale, non ha la titolarità di poteri di prevenzione del danno erariale: “né d’altra parte alla Corte dei conti in sede giurisdizionale è affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti” (Cass., Sez. Un., 22.12.2009, n. 27092).
Nel respingere tale richiesta, tuttavia questo Collegio ritiene di rimettere gli atti alla Amministrazione previdenziale interessata, che opererà le dovute valutazioni.
6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente pronunciando,
condanna Bu.Fa. al pagamento della somma di € 8.864,76 (euro ottomilaottocentosessantaquattro,76) in favore dell’INPS, più rivalutazione monetaria con decorrenza dalle date di pagamento dei singoli ratei di pensione e, sul totale risultante, interessi dalla data di pubblicazione della sentenza.
Condanna altresì il convenuto al pagamento delle spese di giudizio, che si liquidano in € 122,33 (centoventidue/33).
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente sentenza alla competente sede INPS e per tutti gli ulteriori adempimenti.

PUBBLICO IMPIEGODanno erariale per dirigente e funzionario che abbelliscono il conto dei residui attivi.
Il dirigente finanziario e il funzionario contabile che hanno alterato la situazione contabile reale attraverso una sovrastima dei residui attivi mediante opportune «correzioni», per quanto spinti dall'organo di indirizzo politico, contribuiscono al danno erariale procurato all'ente pubblico. L'alterazione delle poste di bilancio «corrette» avendo lo scopo di dissimulare il disavanzo, oltre a indurre in errore l'organo di indirizzo politico che approva il bilancio, incide sulle scelte gestionali e impedisce l'adozione di misure di risanamento, ingannando allo stesso tempo i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo sulla reale situazione finanziaria dell'ente.

Sono le indicazioni contenute nella sentenza 02.04.2019 n. 140 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Toscana.
La vicenda
A seguito dell'indagine penale che ha condotto il dirigente dell'area contabile e il funzionario responsabile dell'ufficio del bilancio al patteggiamento della pena per falso ideologico, la Procura contabile ha convenuto in giudizio entrambi per dichiarare il danno erariale prodotto alle casse comunali avendo dissimulato la reale situazione finanziaria dell'ente. Il Pm contabile ha, infatti, contestato ai convenuti di aver dolosamente coperto lo stato di deficit finanziario dell'ente attraverso la correzione contabile dei residui attivi, rispetto alla loro reale consistenza.
Questo ha permesso di creare un consistente deficit finanziario mediante l'omesso versamento di contributi previdenziali Inpdap, irregolari stabilizzazioni di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di somme integrative. Entrambi i convenuti si sono difesi in via principale denunciando la prescrizione del danno erariale, essendo trascorsi i cinque anni previsti dalla normativa rispetto all'invito a dedurre.
Si sono ritenuti, inoltre, estranei al danno erariale, in quanto l'alterazione dei dati contabili era avvenuta a causa delle pressioni esercitate dall'organo di indirizzo politico nonché del direttore amministrativo, cui avrebbero dovuto essere addebitate in via esclusiva le responsabilità contabili, per aver omesso di attivare procedure idonee per risanare i conti pur conoscendo l'entità del disavanzo finanziario dissimulato.
Il funzionario, in via subordinata ha chiesto che fosse considerata una diversa ripartizione del danno erariale, in funzione del diverso ruolo decisionale.
La conferma del danno erariale
In merito alla prescrizione, il Collegio contabile ha disatteso l'eccezione in quanto, per giurisprudenza consolidata, in presenza di dolo accertato in sede penale, la prescrizione decorre solo a partire dalla data di richiesta di rinvio a giudizio in sede penale e , a quella data, la prescrizione non era maturata.
La condanna dei convenuti al danno erariale deve essere confermata in quanto esecutori materiali di un piano ideato e promosso dal rettore e dal direttore amministrativo, per presentare, a fronte del grave disavanzo, un bilancio che risultasse in pareggio o in attivo. Le falsificazioni commesse dai convenuti consistevano nel "correggere" le poste di bilancio, proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e indurre in errore il consiglio di amministrazione dell'Università che approvava i bilanci, confidando nell'esattezza dei dati.
Il collegio contabile ha ricordato che il bilancio è lo strumento per determinare il reddito dell'esercizio e la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, con la conseguenza che la sua non veridicità, oltre a ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo eccetera, incide sulle scelte gestionali e impedisce l'adozione di misure di risanamento.
Il danno, calcolato in via equitativa, deve tuttavia essere posto in misura prevalente a carico del dirigente e in minore misura a carico del funzionario in considerazione del diverso ruolo rivestito nell'amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2019).
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SENTENZA
1. In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti.
L’art. 1, comma 2, L. 20/1994 prevede che la prescrizione decorre dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso “ovvero in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”. Secondo la giurisprudenza l’attività intenzionale di occultamento è rinvenibile laddove il responsabile si sia adoperato per impedire la conoscibilità del fatto dannoso (sez. II app., 11.10.2018 n. 588; sez. II app., 03.10.2017 n. 655).
Quanto alla nozione di “scoperta”, si è affermato che “non è sufficiente la conoscenza o conoscibilità ipotetica di un illecito, ma occorre la conclusione del processo di valutazione istruttoria degli elementi fattuali, con la qualificazione giuridica degli stessi e l’individuazione dei soggetti cui le medesime condotte sono causalmente riconducibili” (sez. II app., 19.10.2018 n. 5979).
La conoscenza del fatto, quindi, si identifica con la conoscibilità giuridica, non con la mera conoscenza, da parte del soggetto danneggiato, dell’illecito (sez. I app., 14.04.2016 n. 149).
In conseguenza di tale principio, secondo la giurisprudenza prevalente, i fatti dannosi aventi rilevanza penale assumono una concreta qualificazione giuridica, tale da potersi dire “scoperti”, solo al momento della richiesta di rinvio a giudizio in sede penale (da ultimo: sez. II app., 04.09.2018 n. 523; sez. III app., 06.10.2016 n. 514; sez. III app., 13.06.2016 n. 228; sez. app. Sicilia, 01.07.2016 n. 85; sez. app. Sicilia, 04.07.2016 n. 94), in quanto “solo dal momento del rinvio a giudizio è maturata l’esatta conoscenza della condotta illecita in tutta la sua gravità e articolazione” (sez. III app., 30.12.2016 n. 1462).
Nella fattispecie, i convenuti sono stati condannati per reati di falso per avere falsamente attestato delle poste contabili al fine di far apparire in pareggio o in attivo il bilancio dell’Ateneo. Tale condotta integra senza ombra di dubbio un occultamento doloso del danno. La data della scoperta dei fatti, nella loro completezza e nell’accezione fatta propria dalla giurisprudenza succitata, deve collocarsi nella data della richiesta di rinvio a giudizio del 29.06.2012.
A questo proposito deve aversi riguardo al fatto che dalle indagini penali è scaturito un processo, per i reati commessi nell’ambito della gestione amministrativa dell’Università nel periodo 2003-2008, con 19 capi di imputazione, nell’ambito del quale sono stati rinviati a giudizio i vertici amministrativi dell’ente in quel periodo e, in particolare i Rettori, i Direttori amministrativi, i componenti del Collegio dei Revisori dei conti, il responsabile dell’Ufficio Economato, oltre ad alcuni soggetti privati, per un totale di 16 imputati, tra i quali gli odierni convenuti.
La condotta di In. e Sa. si inquadra, così, in un più ampio fenomeno di mala gestio, con la conseguenza che solo dal momento del rinvio a giudizio, al termine di complesse indagini penali, si è raggiunto il corretto inquadramento della fattispecie dannosa e la quantificazione del danno.
Come si legge nella sentenza del Tribunale di Siena n. 746/2016 che ha definito in primo grado il processo penale: “Le indagini (prima) ed il processo (poi) sono stati caratterizzati da una forte eterogeneità del loro oggetto, potendosi individuare tre diversi “filoni”, assolutamente distinti tra loro: si tratta sostanzialmente di tre processi autonomi, celebrati in un simultaneus processus, aspetto questo che, se da un lato ha consentito al Tribunale di avere un quadro completo della opaca e dissennata gestione amministrativa di UNISI, dall’altro ha comportato la celebrazione di un complesso ed articolato dibattimento e di una istruttoria caratterizzata da una inevitabile frammentarietà e disomogeneità”.
Il completo disvelamento dei fatti, quindi, non può farsi risalire né al 26.09.2008, data di presentazione alla Procura della Repubblica dell’esposto del Rettore e del Direttore Amministrativo dell’Università in cui si denunciavano, come si legge nella sentenza penale, i problemi finanziari dell’Università e falsità di alcune soltanto delle voci di bilancio, né al 07.04.2009, data in cui l’Ateneo ha inviato alla Procura della Repubblica e alla Procura Regionale della Corte dei conti la relazione finale della Commissione Ma. “sulla indagine amministrativo-disciplinare circa l’accertamento della crisi finanziaria dell’Università degli studi di Siena”.
E’ vero, infatti, che tale relazione contiene la confessione dei convenuti, come rilevato dalle difese, ma è vero anche che il giudice penale ha ritenuto non attendibili le dichiarazioni di In. e Sa. per una serie di ragioni tra le quali il fatto che: “i dichiaranti non hanno riferito con immediatezza tutti i fatti e le circostanze di cui erano a conoscenza (tacendo quelli più importanti)”.
Solo al termine di “lunghe e complesse indagini da parte della Procura della Repubblica”, sono stati accertati il reale passivo dell’Università, le cause del dissesto finanziario, la falsità dei bilanci, il ruolo assunto dai diversi imputati, la qualificazione giuridica dei fatti e le corresponsabilità.
L’eccezione di prescrizione è, quindi, infondata in quanto l’invito a dedurre è stato notificato nell’agosto del 2017, entro la data di scadenza del termine quinquennale di prescrizione a decorrere dalla data della richiesta di rinvio a giudizio.
2. Venendo al merito del giudizio, pacifico il rapporto di servizio in quanto i convenuti, all’epoca dei fatti, erano, dipendenti in qualità, rispettivamente, di direttore dell’area contabile e di responsabile dell’ufficio contabile dell’Amministrazione danneggiata, ritiene il Collegio che sussista piena prova della condotta illecita di In. e Sa..
Il Tribunale di Siena, Ufficio del G.I.P., con sentenza del n. 103 del 17.05.2013, ha applicato, ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., a Interi Salvatore la pena di diciotto mesi e a Sa.Mo. la pena di quattordici mesi di reclusione per reati di falso ideologico in atto pubblico commessi in concorso con il Rettore e il Direttore Amministrativo dell’Università di Siena.
Più in particolare, i convenuti, quali esecutori materiali di un piano ideato e promosso dal Rettore e dal Direttore Amministrativo, per presentare, a fronte del grave disavanzo, un bilancio che risultasse in pareggio o in attivo, o in leggero disavanzo, attestavano falsamente nei bilanci consuntivi 2003, 2004, 2005, 2006, 2007 dati contabili non corrispondenti al vero, facendo risultare residui attivi in parte inesistenti, attraverso la correzione di poste in bilancio, inducendo così in errore il Consiglio di Amministrazione che, sul presupposto dell’esattezza dei dati, approvava il bilancio.
La giurisprudenza ritiene che, ferma restando la potestà del giudice di procedere all’accertamento dei fatti in modo difforme da quello contenuto nella pronuncia ex art. 444 c.p.p., la sentenza di patteggiamento assuma un valore probatorio qualificato, superabile solo attraverso specifiche prove contrarie (sez. II app., 30.07.2018 n. 471; sez. I app., 05.02.2018 n. 35; sez. II app. 26.05.2016 n. 574; sez. Veneto, 11.09.2018 n. 140; sez. Toscana, 25.06.2018 n. 167) che, nella specie, non sono state offerte. In sede penale, peraltro, i convenuti hanno confessato di avere posto in essere la condotta illecita e, in questa sede, non hanno mosso contestazioni in merito.
3. Sussiste anche il nesso causale tra la condotta illecita e il danno. Secondo i convenuti il danno sarebbe stato causato unicamente dalle scelte dei vertici dell’Università, che avrebbero omesso di assumere iniziative per ridurre l’indebitamento e adottato politiche di sperpero delle risorse pubbliche, e non da In. e Sa. i quali lo avrebbero soltanto parzialmente coperto. L’eccezione è destituita di fondamento.
Le falsificazioni commesse dai convenuti consistevano nel “correggere” le poste di bilancio, proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e ad indurre in errore il Consiglio di Amministrazione dell’Università che approvava i bilanci, confidando nell’esattezza dei dati. Poiché il bilancio è lo strumento per determinare il reddito dell’esercizio e la situazione patrimoniale e finanziaria dell’ente, è evidente che la sua non veridicità, oltre ad ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo ecc., incide sulle scelte gestionali e impedisce l’adozione di misure di risanamento. I convenuti, quindi, con la loro condotta hanno contribuito in maniera diretta a causare l’ingente danno subito dall’Università.
4. La Procura ha chiesto la condanna dei convenuti a risarcire il danno patrimoniale e il danno di immagine causato all’Università.
La domanda di condanna al risarcimento del danno di immagine è inammissibile.
L’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009, conv. in l. 102/2009 stabilisce che l’azione per il risarcimento del danno di immagine può essere esercitata solo nei casi e nei modi previsti dall’art. 7 l. 97/2001, ossia per i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione previsti dal Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale, accertati con sentenza penale irrevocabile di condanna.
Le Sezioni Riunite hanno risolto i contrasti interpretativi sorti nell’ambito della giurisprudenza contabile affermando che l’art. 17, comma 30-ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale (SS.RR., 19.03.2015 n. 8/QM). L’art. 1, comma 1-sexies, l. 20/1994, inserito dall’art. 1, comma 62, l. 190/2012, in tema di quantificazione del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, fa anch’esso riferimento al danno derivante dalla commissione di un reato contro la stessa Pubblica Amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato.
In questo quadro normativo è sopraggiunto il D.Lgs. 26.08.2016 n. 174 il quale all’art. 4, comma 1, lett. g) dell’Allegato 3 al Codice di Giustizia Contabile ha abrogato l’art. 7 l. 97/2001 e all’art. 4, comma 1, lett. h), il primo periodo dell’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009. All’art. 51, comma 7, infine, il Codice di Giustizia Contabile stabilisce che la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni per i delitti commessi ai danni delle stesse, è comunicata al Procuratore Regionale della Corte dei conti affinché promuova l’eventuale azione di responsabilità.
Parte della giurisprudenza contabile ha affermato che, a seguito delle predette abrogazioni e dell’introduzione dell’art. 51, comma 7, C.G.C. i presupposti dell’azione per danno all’immagine sarebbero stati ridefiniti con la conseguenza che le condizioni per promuovere l’azione sarebbero che si tratti di un reato contro la Pubblica Amministrazione, e non più soltanto dei delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale, oltre che tale reato sia stato accertato con sentenza passata in giudicato (sez. app. Sicilia, 28.11.2016 n. 183; sez. Emilia Romagna, 05.01.2018 n. 7; sez. Veneto, 12.9.2017 n. 101).
Questa sezione ha ritenuto, invece, con orientamento dal quale non vi è motivo di discostarsi che, pur a seguito dell’ingresso in vigore del D.Lgs. 174/2016, siano tuttora vigenti le limitazioni al perseguimento del risarcimento del danno di immagine già previste dall’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009 e art. 7 l. 97/2001 (sez. Toscana, 10.07.2018 n. 174, con ampia motivazione cui si rinvia). Nella specie sono assenti entrambe le condizioni di proponibilità della domanda di risarcimento del danno di immagine. I convenuti, infatti, sono stati condannati con sentenza del Tribunale di Siena-ufficio del G.I.P., n. 103 del 17.05.2013 per i delitti di cui all’art. 479 in relazione all’art. 476 comma 2, c.p. i quali non sono ricompresi nel Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale. La sentenza prodotta, inoltre, è priva del timbro di irrevocabilità, cosicché non vi è nemmeno la prova che la stessa sia irrevocabile.
5. Il danno patrimoniale complessivo subito dall’Università di Siena è stato quantificato dalla Guardia di Finanza in € 63.857.125,41 (per debiti fiscali e previdenziali e relativi interessi e sanzioni, irregolari stabilizzazioni di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di somme integrative ai Collaboratori ed Esperti Linguistici).
La condotta illecita dei convenuti, come sopra esposto, ha contribuito a causare tale danno e, visto il ruolo della condotta dei convenuti nel programma delittuoso, il Collegio reputa equo, ex art. 1226 c.c., quantificare il danno loro addebitabile in complessivi € 400.000,00, in solido, con ripartizione interna di € 300.000,00 a carico di In.Sa. e di € 100.000,00 a carico di Sa.Mo. in considerazione del diverso ruolo rivestito nell’Amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica di Sa..
Sull’importo per cui è condanna, già comprensivo di rivalutazione, dovranno essere corrisposti gli interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo.
6.Le spese di giudizio, da suddividersi in quote uguali tra i convenuti, seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando:
RESPINGE l’eccezione di prescrizione sollevata da entrambi i convenuti;
DICHIARA inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno all’ immagine dell’Università;
CONDANNA In.Sa. e Sa.Mo. al risarcimento del danno patrimoniale in favore dell’Università degli studi di Siena della somma di € 400.000,00 in solido, con ripartizione interna di € 300.00,00 a In.Sa. e di € 100.000,00 a Sa.Mo., inclusa rivalutazione monetaria, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo;
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in € 324,66 (Euro trecentoventiquattro/66).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing risarcito in via transattiva, il superiore è responsabile per danno indiretto.
Vessazioni, denigrazioni e demansionamenti che se protratti costituiscono mobbing o se occasionali costituiscono straining sono fonte di responsabilità amministrativo-contabile. Ciò anche quando si addivenga ad accordo transattivo sul risarcimento da corrispondere alla vittima degli abusi.

La Corte dei Conti del Piemonte con la sentenza 05.03.2019 n. 25 si è espressa sul danno indiretto derivante dall'accordo transattivo tra un Comune e un suo dipendente. In quanto il comportamento dei superiori gerarchici nei confronti del dipendente hanno comportato un danno biologico, morale, esistenziale e professionale, risarciti dall'ente in via transattiva a seguito di sentenza del giudice del lavoro.
Le condotte mobbizzanti
Al dipendente era stata assegnata quale nuova sede di lavoro un angusto locale sito nel cimitero, che esternamente somigliava a una tomba di famiglia, ricavato nella parte superiore dell'ossario, ancora in uso, del cimitero. Il locale aveva le dimensioni di circa tre metri per tre e non era dotato di collegamento telefonico esterno, né di collegamento alla rete informatica del Comune, oltre a essere isolato da tutti i restanti uffici amministrativi dell'ente.
Dagli atti non era emersa alcuna concreta esigenza organizzativa collegata alla nuova e improvvisa ricollocazione del dipendente. Presso la sede cimiteriale, il comportamento vessatorio da parte dei superiori gerarchici era proseguito. Il dipendente era rimasto del tutto privo di mansioni proprie della categoria di appartenenza, per qualità, quantità, forma e sostanza.
Le prove del giudizio civile
Mentre il giudice civile giunge a condannare l'amministrazione a risarcire il privato utilizzando i parametri del danno e della colpa, nella consecutiva azione di rivalsa per danno indiretto, il giudice contabile deve indagare la colpa grave del dipendente pubblico che ha agito in nome e per conto della medesima, valutandone il comportamento dannoso tenuto nell'esercizio delle funzioni a esso affidate.
La ricostruzione operata dal Giudice in sede civile, stante aderenza e congruità rispetto alle risultanze istruttorie acquisite, è stata ritenuta dalla Corte dei conti, persuasiva e lineare, dunque condivisibile. Da ciò la valutazione della Corte dei conti, di adeguatezza e ragionevolezza della scelta dell'ente di addivenire a transazione con il dipendente.
La responsabilità dei superiori
Numerosi elementi hanno fatto ritenere la vicenda direttamente imputabile alla responsabilità dei superiori gerarchici. In questi casi la responsabilità sussiste quando una pluralità di atteggiamenti anche se non singolarmente illeciti, convergono in un intento univoco: perseguitare il dipendente coinvolto con forme di emarginazione, prevaricazione, mortificazione, cui consegue il crescente pregiudizio dell'equilibrio psicofisico del dipendente. Le condizioni di svolgimento del servizio impongono al datore di lavoro di tutelare oltre che l'integrità fisica, anche la personalità morale del lavoratore.
La condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente integra in questi casi mobbing: condotta protratta nel tempo, consistente nel compimento di una pluralità di atti giuridici o meramente materiali, anche leciti, tuttavia finalizzati alla segregazione e oppressione del dipendente.
Nondimeno, anche in caso di mancata allegazione di prova di un preciso intento persecutorio, e posto che lo straining è una forma attenuata di mobbing perché mancante del carattere di continuità delle condotte vessatorie, non è preclusa la possibilità di ottenere il risarcimento del danno con conseguente imputazione di responsabilità amministrativo-contabile.
Il datore di lavoro deve sempre, in ogni caso, scongiurare condotte che per gravità e caratteristiche della frustrazione arrecata possono ricondurre a un danno ingiusto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019).

A.N.AC.

APPALTI: Raggruppamenti, meno vincoli. Alla mandataria non imposti più requisiti delle mandanti. L’aggiornamento delle linee guida Anac sui servizi di ingegneria e architettura.
Meno concorrenza sul prezzo nei servizi di ingegneria e architettura; valutazione dei tre progetti indicati in sede di offerta senza limite dei dieci anni; in caso di raggruppamento temporaneo la mandataria non deve avere in assoluto più requisiti delle mandanti.
Sono questi punti di maggiore rilievo contenuti nell'aggiornamento delle linee guida n. 1 recanti «Indirizzi generali sull'affidamento dei servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria» di cui alla delibera 15.05.2019 n. 416 dell'Anac, desumibili non solo dal testo delle linee guida ma anche dalla relazione illustrativa che dà conto delle diverse scelte fatte a valle della consultazione pubblica con gli operatori del settore.
Sul fronte dei compensi, materia molto delicata in questo ambito vista l'entità media dei ribassi che si colloca intorno al 40%, l'Anac doveva decidere se, come richiesto dagli stakeholder, fosse possibile fissare una soglia di sbarramento del prezzo, come all'epoca della vigenza del dpr n. 207/2010.
Già successivamente al varo del dpr l'autorità si era espressa negativamente e anche adesso conferma la sua linea perché così facendo si arriverebbe alla «pre-determinazione del prezzo di aggiudicazione in quanto tutti i concorrenti, pur di aggiudicarsi l'appalto, offrirebbero il ribasso massimo, snaturando così uno degli elementi base del principio dell'offerta economicamente più vantaggiosa».
Meglio allora incidere sulle modalità di assegnazione dei punteggio, scartando la formula «classica dell'interpolazione lineare» che attribuisce i punteggi senza correttivi enfatizzando il peso dei ribassi eccessivi e ritenendo «preferibile il ricorso alla formula bilineare in luogo del ricorso alla formula classica dell'interpolazione lineare. E opportuno attribuire un punteggio elevato al punto di flesso al fine di disincentivare offerte contenenti ribassi elevati non in linea con la previsione sull'equo compenso di cui dell'articolo 13-bis della legge 31.12.2012, n. 247».
In sostanza così facendo «scoraggiare offerte con ribassi eccessivi poiché ricevono un punteggio incrementale ridotto». Altro importante chiarimento riguarda le referenze dei progetti pregressi da indicare in sede di offerta che possono essere documentati su tutto l'arco temporale della vita dell'operatore economico e non soltanto su dieci anni. Si tratta di un punto molto delicato dal momento che, come si legge nella relazione illustrativa, «gli operatori del settore hanno contestato la previsione inserita ritenendola limitativa della partecipazione alle procedure di gara alla luce della crisi che ha investito il settore negli ultimi anni, con una sensibile riduzione degli affidamentI».
In realtà in questo caso si tratta più di un aggiustamento delle linee guida per renderle omogenee al contenuto del bando-tipo n.3 Anac, peraltro vincolante per le stazioni appaltanti, che già non contiene più limiti temporali.
Un altro punto affrontato nelle linee guida riguarda i requisiti dell'operatore economico mandatario di un raggruppamento temporaneo: «La mandataria, indipendentemente dal fatturato complessivo/speciale posseduto, dai servizi precedentemente svolti e dal personale tecnico di tutti i partecipanti al raggruppamento, dimostra il possesso dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara in misura percentuale superiore rispetto a ciascuna mandante». In questo modo si evita che il ruolo di mandataria sia assunto solo dall'operatore economico in possesso, in valore assoluto e non in relazione alla specifica gara (articolo ItaliaOggi del 07.06.2019).

LAVORI PUBBLICICertificato di esecuzione lavori ok solo se riporta tutte le imprese - L’Anac aggiorna le istruzioni.
Prima di emettere il certificato di esecuzione dei lavori (Cel), le stazioni appaltanti devono verificare che siano riportate tutte le imprese esecutrici, con i relativi codici fiscali.

L'Autorità nazionale anticorruzione ha aggiornato le Faq relative alle modalità di redazione e di gestione delle certificazioni inerenti i lavori svolti.
Le novità
La prima novità riguarda l'emissione dei Cel in relazione agli accordi quadro, per cui all'impresa esecutrice di più contratti in attuazione di un accordo quadro dev'essere rilasciato un certificato per ogni singolo contratto eseguito.
Poiché l'accordo quadro si concretizza mediante l'esecuzione di distinti interventi, (non di rado totalmente autonomi uno dall'altro), gli importi complessivamente computati non possono essere valorizzati nel Cel come se si trattasse di un lavoro unitario, ma devono essere ricondotti ai singoli ordini e ripartiti con riferimento agli stessi, soprattutto per la sussistenza dei lavori di punta nelle varie categorie di qualificazione.
Le stazioni appaltanti, prima dell'emissione di un cel, per evitarne l'annullamento e la riemissione, devono verificare che il certificato riguardi più imprese (esecutrici o eventualmente subappaltatrici) e sia esatto l'inserimento nello stesso documento del codice fiscale delle imprese (esecutrici e subappaltatrici).
Consigliato indicare sempre il Cig
L'Anac, inoltre, precisa nella faq B26 che per la creazione di un certificato di esecuzione dei lavori non è obbligatorio indicare il codice identificativo gara (Cig), in considerazione del fatto che il Cel potrebbe riguardare lavori affidati in epoca precedente all'introduzione del Cig stesso. L'Autorità, tuttavia, evidenzia come l'indicazione del codice identificativo gara consenta di ereditare tutte le informazioni relative all'appalto semplificando le operazioni di inserimento e minimizzando la possibilità di commettere errori.
I certificati di esecuzione lavori, infine, vanno emessi secondo il modello previsto dall'allegato B al Dpr n. 207/2010 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019).

APPALTIAvvalimento, ko obbligo di sostituzione ausiliaria. Dichiarazioni non veritiere in sede di partecipazione a gare.
L'obbligo di sostituzione dell'impresa ausiliaria -in caso di riscorso all'avvalimento dei requisiti- non si applica in caso di dichiarazioni non veritiere rese in sede di partecipazione alla gara, le quali determinano l'esclusione del concorrente.
Lo precisa l'Autorità nazionale anticorruzione con il Parere di Precontenzioso 10.04.2019 n. 337 - rif. PREC 24/19/S nel quale si fa discendere, dalla non veritiera dichiarazione dell'impresa ausiliaria, l'esclusione dell'impresa «avvalente».
La questione era sorta rispetto al fatto che l'impresa ausiliaria aveva avanzato una richiesta di rateizzazione del debito contributivo in data antecedente al termine di scadenza delle offerte (fissato al 12.11.2018), richiesta accolta dall'Agente della riscossione il 29.11.2018. Per la stazione appaltante l'impresa non era in regola con i versamenti dei contributi Inps (come attestato dal Durc).
La materia è disciplinata dall'articolo 80, comma 4, del codice appalti che prevede che un operatore economico sia escluso dalla partecipazione ad una gara d'appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse o dei contributi previdenziali e che costituiscono violazioni «gravi» in materia contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del Durc.
L'Anac ricorda anche che è ormai principio consolidato che i requisiti di partecipazione alle procedure devono essere posseduti «dalla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara e anche successivamente, fino all'aggiudicazione, nonché per tutto il periodo dell'esecuzione del contratto, senza soluzione di continuità».
Nel caso specifico, il requisito della regolarità fiscale e contributiva può essere sussistente, pure in presenza di una violazione accertata, solo se l'istanza di rateizzazione sia stata presentata dal concorrente e sia stata accolta prima della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, o della presentazione dell'offerta. Non basta quindi che il contribuente abbia semplicemente inoltrato istanza di rateizzazione, occorrendo anche che il procedimento si sia concluso con un provvedimento favorevole dell'amministrazione finanziaria.
Dal momento che l'autodichiarazione sulla regolarità contributiva non è stata ritenuta veritiera, l'Anac ha fatto presente che in base all'articolo 89, comma 1 economico avvalentesi delle capacità di altri soggetti è tenuto ad allegare una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest'ultima dei requisiti generali.
Non essendo veritiera, per l'Anac, «dal combinato disposto di queste norme contenute nel codice dei contratti pubblici emerge dunque inequivocabilmente che la dichiarazione mendace presentata dall'operatore economico, anche con riguardo alla posizione dell'impresa ausiliaria, comporta l'esclusione dalla gara. Infatti ad avviso di Anac non si può sostituire l'impresa ausiliaria ai sensi del comma 3 dell'articolo 89 del codice, “stante il rapporto di specialità con il primo comma dello stesso art. 89, che prevede espressamente l'esclusione del concorrente in caso di dichiarazioni mendaci provenienti dall'impresa ausiliaria”. Non è quindi possibile sostituire in corsa l'impresa ausiliaria» (articolo ItaliaOggi del 07.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGOWhistleblowing, l'Anac riorganizza le segnalazioni.
Archiviazione delle segnalazioni ricevute e l'informazione al whistleblower all'attenzione dell'Anac che ne ha riperimetrato le casistiche andando a modificare la disciplina dell'informazione al whistleblower dell'avvenuta archiviazione.

La delibera 10.04.2019 n. 312, pubblicata in Gazzetta il 26 aprile, ha apportato modifiche all'articolo 13 del regolamento sull'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro (si veda il testo coordinato del regolamento).
L'articolo 13, che è stato interamente sostituito rispetto alla versione contenuta nel regolamento contenuto nella delibera Anac n. 1033/2018, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 269/2018, disciplina anche la trasmissione delle segnalazioni agli uffici di vigilanza in ragione delle materie di competenza e il trattamento della riservatezza del segnalante durante la successiva istruttoria di vigilanza.
La ridefinizione dell'organizzazione
Nella delibera n. 312, Anac ripercorre i presupposti che hanno condotto l'Autorità a intervenire sul regolamento ed essenzialmente riconducibili alla necessità di ridefinire l'organizzazione della vigilanza sulle segnalazioni dei whistleblowers, considerata la ratio della legge 179/2017 che è quella di tutelare il segnalante garantendo in ogni momento la riservatezza della sua identità, e alla funzione di vigilanza esercitata da Anac sul rispetto della normativa affinché il segnalante non venga discriminato per effetto della segnalazione, usufruendo all'interno della propria amministrazione di un sistema per l'inoltro e la gestione delle segnalazioni, potendo al contempo contare su di un'attività di analisi della propria segnalazione da parte del Responsabile prevenzione corruzione e trasparenza.
I nuovi casi di archiviazione
In base al comma 1 del nuovo articolo 13 del regolamento, l'Ufficio per la vigilanza sulle segnalazioni pervenute all'Anac provvede direttamente all'archiviazione delle segnalazioni nei casi di seguito indicati: mancanza di interesse all'integrità della pubblica amministrazione, incompetenza di Anac sulle questioni segnalate, infondatezza per l'assenza di elementi di fatto idonei a giustificare accertamenti, insussistenza dei presupposti di legge per l'applicazione della sanzione, intervento di Anac non più attuale, finalità palesemente emulativa, genericità del contenuto della segnalazione, segnalazione corredata da documentazione inconferente, produzione di sola documentazione in assenza della segnalazione di condotte irregolari ed infine per mancanza dei dati che costituiscono elementi essenziali della segnalazione.
I successivi commi 2 e 3 dell'articolo 13 sono dedicati a disciplinare la trasmissione delle segnalazioni ricevute, in particolare il secondo comma prevede che per i casi diversi da quelli precedenti, quindi quelli non oggetto di archiviazione diretta, l'ufficio trasmette agli uffici di vigilanza competenti per materia la segnalazione di illeciti al fine di compiere le attività istruttorie nel rispetto della tutela della riservatezza dell'identità del segnalante.
Il comma 3 stabilisce che l'ufficio trasmette al Consiglio con cadenza bimestrale l'elenco delle segnalazioni oggetto di istruttoria e di quelle valutate inammissibili, notiziando in tal caso il segnalante dell'avvenuta archiviazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.05.2019).

APPALTI SERVIZIAppalti soprasoglia, limiti alle procedure negoziate. Niente affidamenti d’urgenza se ci sono più operatori sul mercato.
Un affidamento di servizi di importo superiore alla soglia Ue non può essere disposto utilizzando la procedura negoziata per ragioni di urgenza se il mercato è caratterizzato dalla presenza di diversi operatori che agiscono in concorrenza.

È quanto si legge nella delibera 10.04.2019 n. 305 dell'Autorità nazionale anticorruzione  riguardante l'affidamento, da parte del comune di Bologna, dei servizi relativi alla gestione della postalizzazione degli atti giudiziari relativi a violazioni al codice della strada.
L'Anac, nello svolgimento delle proprie funzioni di vigilanza, aveva individuato un appalto di servizi con un importo di oltre 6,8 milioni da affidare con procedura in economia, affidamento diretto. Per questi servizi il comune aveva aderito ad una convenzione stipulata da una agenzia regionale per lo sviluppo dei mercati telematici con un raggruppamento di operatori economici; erano poi seguiti alcuni rinnovi sempre allo stesso operatore.
Nel frattempo, l'agenzia regionale aveva bandito una gara per gli stessi servizi, aggiudicata ad un altro operatore economico. A quel punto il comune, ritenendo necessario garantire la continuità del servizio di postalizzazione degli atti giudiziari relativi a violazioni al codice della strada, richiedeva al nuovo operatore economico (scelto dall'Agenzia regionale fra tre operatori invitati) un'offerta (risultata più bassa di quella del precedente fornitore) e affidava il servizio direttamente per 6,8 milioni circa a questo nuovo operatore.
In via preliminare, l'Anac ha messo in discussione la motivazione per cui si sarebbe scelto l'affidamento diretto, cioè che alla procedura esperita dall'agenzia regionale avevano partecipato solo tre operatori e che presumibilmente vi sarebbe stata un'analoga partecipazione se avessero anch'essi esperito una gara. Al riguardo l'Anac ha evidenziato innanzitutto che il mercato dei servizi postali è caratterizzato da una pluralità di operatori che vi operano in concorrenza e che quindi «non si può escludere che a una eventuale procedura indetta dal comune avrebbero potuto partecipare più operatori economici, non solo i tre operatori che hanno partecipato alla gara» dell'agenzia regionale.
Inoltre, ha detto l'Anac, in base al comma 6 dell'art. 63 del dlgs 50/2016, che prevede in tutti i casi di affidamento con procedura negoziata senza bando, l'effettuazione di un'indagine di mercato ed il successivo invito ad almeno cinque operatori economici, «la trattativa diretta posta in essere dal comune di Bologna con un unico soggetto non risulta conforme al dettato normativo».
Viceversa, con un'indagine conoscitiva del mercato, con i tempi e le modalità ritenute più convenienti, secondo i principi di adeguatezza e proporzionalità, il comune «avrebbe potuto verificare se nel vasto mercato dei fornitori di servizi postali vi fossero altri operatori economici potenzialmente interessati a contrarre con l'amministrazione comunale e individuare il fornitore in grado di offrire condizioni più vantaggiose, tenuto conto del valore rilevante dell'affidamento, ampiamente sopra soglia comunitaria» (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGODall’Anac le nuove regole sulla rotazione straordinaria degli incarichi.
Quando va disposta la rotazione straordinaria di un incarico se il titolare è sottoposto a procedimento penale o disciplinare? E per quali ipotesi di reato o comportamento scorretto va attivata? In quali amministrazioni pubbliche si può disporre e quali sono, ancora, le misure alternative qualora non fosse possibile avvicendare il personale?

Sono domande alle quali -essendo sul punto lacunoso e un po' disorganico l'ordinamento giuridico- tenta di rispondere l'Autorità nazionale anticorruzione attraverso le linee guida pubblicate lunedì scorso (delibera 26.03.2019 n. 215).
Le amministrazioni interessate
La rotazione straordinaria trova fondamento giuridico nell'articolo 16, comma 1, lettera l-quater, del Dlgs 165/2001, che la prevede nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva dei quali possono venire a conoscenza i dirigenti delle amministrazioni dello Stato nel corso di quello che potremmo definire «monitoraggio preventivo anticorruzione», compito prescritto loro dalla legge. Il provvedimento dev'essere immediato e adeguatamente motivato.
Sebbene la norma sia «dedicata» espressamente alle Pa centrali, l'Anac ritiene che indichi un principio generale applicabile alla quasi totalità delle amministrazioni pubbliche, ammettendo qualche dubbio solo relativamente agli enti pubblici economici e a quelli di diritto privato in controllo pubblico, per i quali l'articolo 3 della legge 97/2001 ha previsto il trasferimento ad altro ufficio. Dirimente, per l'Autorità, è che il provvedimento di revoca in queste due categorie di enti può non essere precisamente motivato come deve obbligatoriamente essere, invece, il provvedimento che colpisce le Pa propriamente dette (quelle elencate dall'articolo 1, comma 2, del Dlgs n. 165/2001).
L'ambito soggettivo di applicazione
Premesso che la rotazione straordinaria può riguardare tanto i dipendenti degli uffici di cui i dirigenti generali sono a capo, quanto tutti i dirigenti, i temi rilevanti sono due: per quali reati e in caso di quali comportamenti che si discostano dalla deontologia professionale va «ordinata» la rotazione straordinaria? E qual è il momento più giusto per farlo?
Qui l'Anac non sembra avere molti dubbi e sostanzialmente si riporta a tre leggi con differenti finalità (la legge 97/2001 - Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle Pa, il Dlgs 39/2013 - Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le Pa e il Dlgs 235/2012 - Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi) dall'intreccio delle quali desume un elenco di reati che giustificano l'assegnazione straordinaria ad altro in carico.
Nell'elenco ci sono il peculato (articolo 314, primo comma, cp), la malversazione (316-bis) e l'indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato 316-ter. Seguono la concussione (articolo 317) e il suo bis (pene accessorie). Poi i due articoli, il 318 «Corruzione per l'esercizio della funzione e il 319 Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (con 319-bis sulle circostanze aggravanti, il ter specificamente relativo agli atti giudiziari e il quater sull'induzione indebita a dare o promettere utilità). Infine, l'articolo 320 sulla corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio, il 321 sulle pene per il corruttore, io 322 sull'istigazione alla corruzione e il 322 bis sulla corruzione di organismi internazionali.
Il «dies a quo»
L'altra importante questione è individuare il momento in cui far scattare la «rotazione straordinaria», quindi stabilirne durata e ampiezza. Il principio da tenere presente per l'Anac è che la rotazione straordinaria è un provvedimento adottato in una fase del tutto iniziale del procedimento penale, da applicare alle sole «condotte di natura corruttiva» che creando «maggiore danno all'immagine di imparzialità dell'amministrazione richiedono una valutazione immediata».
Ebbene, qui le conclusioni dell'Autorità coincidono con quelle dell'aggiornamento 2018 al Pna, indicando l'opportuna decorrenza della rotazione straordinaria nel momento in cui il soggetto viene iscritto nel registro delle notizie di reato (articolo 335 codice di procedura penale), in quanto è con quell'atto che inizia un procedimento penale. Ragionamento estendibile per analogia all'avvio di un procedimento disciplinare per condotte di tipo corruttivo.
La durata del provvedimento, infine, va valutata in base a una serie di variabili molto ampia, che va dall'esito dell'eventuale processo fino alla durata e al tipo di condanna inflitta o di assoluzione data all'imputato dipendente pubblico (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019).

APPALTI: Responsabile unico nei piccoli appalti: l'Anac chiede al Parlamento correttivi sulle incompatibilità.
Le disposizioni sulla verifica dei progetti impediscono al responsabile unico del procedimento di effettuare attività di progettazione e di direzione lavori per gli appalti di valore inferiore a un milione di euro.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha inviato a Governo e Parlamento l'atto di segnalazione 26.03.2019 n. 5, richiedendo un intervento normativo che coordini le previsioni contenute negli articoli 26 e 32 del Dlgs 50/2016.
L'incrocio delle norme del codice
La prima disposizione, che disciplina le attività di verifica dei progetti per gli appalti di lavori, prevede che sotto il milione di euro non vi siano alternative al Rup per l'attività di verifica, la quale, per espressa previsione del codice dei contratti pubblici, è incompatibile con quella di progettazione e direzione dei lavori.
L'articolo 31, invece, prevede espressamente tra i compiti che possono essere affidati al responsabile unico del procedimento quelli di progettazione e di direzione dei lavori per affidamenti di importo limitato, rimandando all'Anac il compito di fissare l'importo massimo per queste attività, stabilito nelle linee guida n. 3 nel valore di 1.500.000 euro. Tuttavia la combinazione tra le due disposizioni del Dlgs 50/2016 per gli appalti fino a 1.000.000 di euro obbliga il Rup a svolgere la funzione di verificatore, determinando di conseguenza che fino a quell'importo lo stesso non possa mai svolgere le funzioni di progettista o di direttore dei lavori, svuotando di contenuto la previsione dell'articolo 31 del codice dei contratti pubblici.
Il ruolo di validatore
L'Autorità nazionale anticorruzione rileva anche che l'articolo 26, al comma 8, assegna al Rup il compito di sottoscrivere la validazione del progetto, atto formale che riporta gli esiti della verifica e fa specifico riferimento (e, quindi, ne tiene conto) al rapporto conclusivo del verificatore e alle eventuali controdeduzioni del progettista. In questo caso, non è indicato alcun limite di importo e, quindi, si tratta di un'attività che deve essere sempre svolta dal responsabile unico del procedimento.
La disposizione del codice non indica tuttavia cosa accada nel momento in cui si crei una divergenza di opinioni tra verificatore e progettista, non ritenendo ammissibile che l'atto di validazione del progetto, essendo la validazione un elemento essenziale della lex specialis di gara, possa contenere una tale divergenza non sanata.
L'Anac evidenzia peraltro, che se il validatore deve comporre eventuali conflitti sorti tra verificatore e progettista ne dovrebbe conseguire che il soggetto che valida il progetto deve essere distinto da quello che ha realizzato la progettazione e da quello che ha proceduto alla successiva verifica.
Le richieste di chiarimento
L'atto di segnalazione richiede un intervento normativo per chiarire anche in questo caso le eventuali incompatibilità del validatore e i casi in cui il validatore può eventualmente coincidere con il verificatore o, al limite, con il progettista.
La proposta dell'Autorità si focalizza su due possibili modifiche al comma 6 dell'articolo 26 del Dlgs 50/2016, al fine di dare alle stazioni appaltanti possibilità di ricorrere a soggetti distinti dal responsabile unico del procedimento per l'attività di verifica relativa a lavori di importo fino a 1.000.000 di euro, al fine di permettere allo stesso di svolgere anche l'attività di progettazione, così come previsto dall'articolo 31 del codice dei contratti pubblici.
In relazione all'incompatibilità tra verifica e validazione, l'atto di segnalazione evidenzia come possibile soluzione una norma che, entro il valore di 1.000.000 di euro e in considerazione dei ridotti importi delle attività inerenti alla progettazione, sostenga che le attività di verifica e di validazione possono coincidere, mentre in ordine all'incompatibilità dell'attività di validazione con quella di progettazione (situazione nella quale verrebbe meno l'alterità soggettiva necessaria a garantire la neutralità e l'imparzialità di giudizio nell'attività di controllo), l'Anac rimette la soluzione a un intervento normativo che chiarisca i profili e i parametri della necessaria distinzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.05.2019).

APPALTIIl conflitto di interesse è anche per i commissari.  Delibera Anac su professionisti impegnati nell’esecuzione lavori.
Le fattispecie di conflitto di interesse in materia di appalti si verificano anche in relazione alle figure professionali impegnate nell'esecuzione dei lavori; è sufficiente che vi sia anche solo potenzialmente un interesse privato contrastante con quello pubblico per potersi parlare di conflitto di interesse.

Lo ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il Parere sulla Normativa 06.03.2019 n. 166.
Era accaduto che, nell'ambito di una gestione commissariale di un consorzio (in applicazione dell'art. 32, comma 1, dl 90/2014), un professore aveva svolto incarichi (direzione lavori, direzione dell'esecuzione e progettazione), a titolo gratuito, che avrebbero potuto determinare una sovrapposizione di ruoli e potenziali situazioni di conflitto di interesse, in capo all'amministratore straordinario.
L'Anac ha preso atto che nelle proprie linee guida sull'applicazione dell'art. 32, non è stata affrontata la questione relativa all'applicazione della disciplina del conflitto di interessi, nell'ambito della gestione del contratto d'appalto da parte del predetto commissario straordinario. Occorre, quindi, fare riferimento all'articolo 42 del codice appalti da cui l'Anac deduce che per configurare un conflitto di interesse nel contesto di una procedura di gara o nella fase esecutiva dell'appalto, il personale della stazione appaltante o il prestatore di servizi che agisce per conto della stazione appaltante, deve avere direttamente o indirettamente un interesse finanziario, economico o altro interesse personale in relazione allo svolgimento della procedure di aggiudicazione o in relazione alla fase di esecuzione, che possa incidere sulla sua imparzialità ed indipendenza.
In altre parole, ha detto l'Anac, l'interferenza tra la sfera istituzionale e quella personale del funzionario pubblico si ha quando le decisioni che richiedono imparzialità di giudizio siano adottate da un soggetto che abbia, anche solo potenzialmente, interessi privati in contrasto con l'interesse pubblico.
Consegue, da quanto sopra, che affinché possa configurarsi un'ipotesi di conflitto di interesse in capo ad un amministratore straordinario nominato nell'ambito della procedura di cui all'art. 32, dl 90/2014, quest'ultimo deve avere, anche solo potenzialmente, un interesse personale in relazione all'esecuzione del contratto d'appalto per il quale è disposta la misura, per cui il suo ruolo non può essere svolto con l'imparzialità richiesta dalla norma.
In concreto, l'Anac ha escluso che vi sia conflitto di interesse per gli incarichi di direzione dei lavori e di direttore dell'esecuzione perché l'amministratore prefettizio svolge un munus publicum (anche nell'interesse della stazione appaltante) e non opera, quindi, nell'interesse dell'impresa appaltatrice. Anche per l'affidamento della progettazione (in via d'urgenza) non vi sarebbe stato alcun conferimento di incarico né riconoscimento di compensi, ma il professionista avrebbe esclusivamente sottoscritto gli elaborati progettuali in via d'urgenza.
Si tratta di un profilo che all'Anac non appare coerente con la disciplina di settore e richiederebbe in ipotesi che oltre alla firma apposta sui progetti dal predetto commissario, venisse acquisita altresì quella propria dei progettisti che hanno redatto gli elaborati progettuali (articolo ItaliaOggi del 19.04.2019).

ATTI AMMINISTRATIVITrasparenza con triplice rilevazione: le istruzioni Anac per la scadenza del 30 aprile.
Documento di attestazione, griglia di rilevazione e scheda di sintesi: sono questi i tre documenti che dovranno essere pubblicati sul sito dell'ente e forniti in allegato nella deliberazione dell'Anac da parte degli organismi indipendenti di valutazione o altre strutture con funzioni analoghe (nuclei di valutazione).
Lo ha spiegato l'Autorità con la delibera 27.02.2019 n. 141 sugli obblighi di pubblicazione connessi alla trasparenza. Questi documenti dovranno essere pubblicati entro il 30.04.2019, tendo conto dello stato di pubblicazione dei dati da parte degli enti alla data del 31.03.2019. È prevista una stretta collaborazione tra l'organismo che effettua l'attestazione e il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, spettando a quest'ultimo la rilevazione in mancanza di Oiv o altro soggetto con funzioni analoghe.
L'ambito soggettivo
Oltre a tutte le amministrazioni pubbliche elencate nell'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, sono tenuti all'attestazione sull'assolvimento degli obblighi di pubblicazione anche gli enti pubblici economici, le società a controllo pubblico (a esclusione di quelle quotate) e, infine, le associazioni, fondazioni e enti di diritto privato comunque denominati, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a 500mila euro, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell'ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui la totalità dei titolari o dei componenti dell'organo d'amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni.
I dati oggetto di attestazione per gli enti locali
Va rilevato come, nella griglia pubblicata, sono stati inseriti due ambiti di rilevazione dei dati non indicati nella deliberazione dell'Autorità. In particolare, nella delibera dell'Autorità l'attestazione è limitata alla rilevazione di sei categorie di dati, all'interno di quelli previsti dal Dlgs 33/2013, che riguardano i provvedimenti (articolo 23), i bilanci (articolo 29), i pagamenti dell'ente (articoli 4-bis, 33, 36 e 41), le opere pubbliche (articolo 38), la pianificazione e governo del territorio (articolo 39) e le informazioni ambientali (articolo 40). La griglia pubblicata contiene, anche, i dati riferiti alla performance (articoli 10 e 20) e ai servizi erogati (articolo 32).
Oltre alla verifica della corretta pubblicazione dei dati sul sito dell'ente, gli organismi di attestazione ne dovranno verificare anche la qualità in termini di completezza, aggiornamento e formato secondo le indicazioni fornite in uno specifico allegato denominato «Documento tecnico sui criteri di qualità della pubblicazione dei dati».
Dovrà essere, altresì, compilata una specifica scheda di sintesi della rilevazione, anche questa disponibile quale allegato, nella quale gli organismi di attestazione indicano le procedure e le modalità seguite per la rilevazione nonché gli aspetti critici riscontrati nel corso della rilevazione ed eventuale documentazione da allegare. Le schede non potranno contenere dati vuoti e, nel solo caso in cui i dati non siano previsti nella competenza dell'ente, potrà dovrà essere indicato il solo valore «n/a» (non applicabile).
L'attività di vigilanza dell'Autorità
La delibera chiude precisando che, successivamente alla scadenza del 30.04.2019, l'Autorità procederà a una verifica a campione, segnalando agli organi di indirizzo delle amministrazioni i casi di mancata o ritardata attestazione, ovvero in presenza di discordanza tra quanto contenuto nelle attestazioni degli Oiv e quanto effettivamente pubblicato nella sezione «Amministrazione trasparente». Infine, oltre alla citata segnalazione, potrà seguire anche un controllo documentale da parte della Guardia di Finanza diretto a riscontrare l'esattezza e l'accuratezza dei dati attestati dagli Organismi che effettueranno l'attestazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.03.2019).

ATTI AMMINISTRATIVILe carenze di organico e risorse non salvano il Comune dagli obblighi di trasparenza.
A seguito dell'attività ispettiva nei confronti di un piccolo Comune l'Autorità anticorruzione, con la delibera 13.02.2019 n. 124, riscontra l'inadempienza dell'ente locale agli obblighi di pubblicazione, ossia l'inadeguatezza e la carenza di contenuti nella sezione «Amministrazione trasparente» da pubblicarsi nella home page del sito web istituzionale, ai sensi dell'articolo 9 del Dlgs 33/2013.
L'obbligo di pubblicazione
Si tratta di una violazione che, oltre a costituire un illecito disciplinare, può dare luogo a ulteriori forme di responsabilità, secondo quanto sancito dall'articolo 45, comma 4, del Dlgs 33/2013.
L'articolo 8, comma 3, del Dlgs 33/2013 prevede per i documenti che sono oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente che siano visibili sul sito web dell'Amministrazione per 5 anni. Si tratta di un ampio novero di informazioni che coprono l'intera attività dell'ente pubblico, spaziando dalla dotazione di personale e l'organizzazione degli uffici, alla vasta tipologia di provvedimenti della Pa muniti di rilevanza esterna.
Tenuto conto di ciò, l'Anac interviene con provvedimenti per l'attuazione degli obblighi in questione e ingiunge al Comune di pubblicare entro 30 giorni nella sezione «Amministrazione trasparente» del sito web «tutti i documenti, le informazioni e i dati mancanti, oggetto di pubblicazione obbligatoria, nel rispetto della normativa vigente nonché secondo la struttura e i contenuti indicati nella delibera Anac n. 1310/2016, motivando, all'interno delle sotto-sezioni interessate, gli eventuali casi di non ricorrenza».
Per inciso bisogna ricordare che, a presidio degli obblighi di trasparenza, l'articolo 47 del Dlgs 33/2013 ha attribuito all'Anac il compito di irrogare le sanzioni ove prescritte dal decreto, e a questo fine l'Autorità, con il regolamento del 16.11.2016, ha disciplinato l'esercizio del proprio potere sanzionatorio.
Nello scenario descritto l'intervento dell'Authority è ineccepibile, considerato che, in linea di principio, la trasparenza della Pa è funzionale agli obiettivi di prevenzione e lotta alla corruzione (legge 190/2012), come più volte ribadito dal decreto legislativo di attuazione.
Le difficoltà dei piccoli enti
Il punto è che non sempre è agevole per gli enti locali, specie se di piccole dimensioni, coniugare l'osservanza degli obblighi di legge con le criticità strutturali che, non di rado, rendono estremamente difficoltoso soddisfare perfino le esigenze primarie di ordinaria amministrazione.
La delibera è eloquente in questo senso, perché da un lato denota l'intento dell'Autorità di assicurare la piena accessibilità della cittadinanza alle informazioni concernenti l'attività della Pa, per favorire un controllo diffuso sul perseguimento delle funzioni istituzionali e l'utilizzo delle risorse pubbliche, mentre dall'altro lato mostra un Comune quasi impossibilitato a ottemperare agli obblighi di legge.
Nel corso della corrispondenza intercorsa con l'Anac, il Sindaco ha scritto che il Comune è un piccolo ente di 700 abitanti, con 5 dipendenti, di cui 2 part-time, 2 operai e 3 impiegati negli uffici. Inoltre, «l'Ente è stato privo di segretario comunale titolare, e che la situazione economica vicina al disavanzo, ha costretto a scelte di bilancio dolorose, dunque a rimandare l'attivazione del sito fino al reperimento di risorse di bilancio».
Le argomentazioni addotte dal Comune non risparmiano però all'ente un richiamo formale dell'Autorità anticorruzione, con l'ordine di inserire tempestivamente nel sito web tutte le informazioni indicate dal decreto trasparenza.
Non resta che concludere che, a fronte degli obblighi imposti dall'impianto normativo, l'effetto obbligatorio e vincolante per l'azione della Pa sussiste a prescindere dalle difficoltà organizzative, dalle ristrettezze di personale e dalla carenza di risorse in cui può ritrovarsi a operare l'ente locale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.03.2019).

APPALTINiente clausola sociale negli appalti per i servizi professionali. Tutte le istruzioni Anac sull’obbligo.
Le stazioni appaltanti devono inserire la clausola sociale negli atti di gara per gli appalti con impiego di manodopera, verificando che ricorrano alcuni particolari presupposti.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha definito, con le linee guida n. 13 (delibera 13.02.2019 n. 114), i profili applicativi dell'articolo 50 del Dlgs 50/2016, chiarendo la portata dell'obbligo, le attività escluse, le caratteristiche della clausola e le conseguenze per la mancata accettazione in gara o per il mancato rispetto una volta stipulato il contratto.
Attività materiali
L'Anac precisa anzitutto che la disciplina contenuta nella disposizione del Codice dei contratti pubblici si applica agli affidamenti di appalti e concessioni di lavori e di servizi diversi da quelli di natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli ad alta intensità di manodopera. Dall'ambito applicativo sono, quindi, esclusi i servizi di natura intellettuale, ossia quelle attività che richiedono lo svolgimento di prestazioni professionali, svolte in via eminentemente personale, come ad esempio il brokeraggio assicurativo e la consulenza.
Il servizio non ha invece natura intellettuale quando, anche a fronte di obblighi di iscrizione ad albi per i soggetti che rendono le prestazioni, le stesse si traducano prevalentemente in attività materiali.
Condizioni
L'Anac evidenzia come l'applicazione dell'articolo 50 del codice dei contratti pubblici richieda la sussistenza di alcune particolari condizioni oggettive e soggettive.
In primo luogo, il contratto rispetto al quale si intende applicare la clausola sociale deve essere oggettivamente assimilabile a quello in corso: pertanto non è legittimo l'inserimento di clausole volte alla tutela dei livelli occupazionali qualora per la stazione appaltante non sussista alcun contratto in essere nel settore di riferimento, oppure il contratto in essere presenti un'oggettiva e rilevante incompatibilità rispetto a quello da attivare.
La seconda condizione necessaria si determina quando l'applicazione della clausola sociale non comporti un indiscriminato e generalizzato dovere di assorbimento del personale utilizzato dall'impresa uscente, dovendo l'obbligo essere armonizzato con l'organizzazione aziendale prescelta dal nuovo affidatario.
Secondo le linee guida n. 13, il riassorbimento del personale è quindi imponibile nella misura e nei limiti in cui sia compatibile con il fabbisogno richiesto dall'esecuzione del nuovo contratto e con la pianificazione e l'organizzazione definita dal nuovo assuntore.
Calcoli e trasparenza
Ai fini dell'applicazione della clausola sociale, l'Anac precisa che le stazioni appaltanti devono considerare di regola il personale dell'impresa uscente calcolato come media del personale impiegato nei sei mesi precedenti la data di indizione della nuova procedura di affidamento.
Allo scopo di consentire ai concorrenti di conoscere i dati del personale da assorbire, la stazione appaltante indica gli elementi rilevanti per la formulazione dell'offerta nel rispetto della clausola sociale, in particolare i dati relativi al personale utilizzato nel contratto in corso di esecuzione, come il numero di unità, il monte ore, il contratto collettivo applicato dall'appaltatore uscente, nonché le qualifiche, i livelli retributivi e gli scatti di anzianità.
La stazione appaltante, quando ricorrano le condizioni connesse all'articolo 50 del codice, prevede quindi nella documentazione di gara la clausola sociale e stabilisce che il concorrente alleghi all'offerta un progetto di assorbimento, finalizzato a illustrare le concrete modalità di applicazione della clausola sociale, con particolare riferimento al numero dei lavoratori che beneficeranno della stessa e alla relativa proposta contrattuale (inquadramento e trattamento economico).
La mancata presentazione del progetto, anche a seguito dell'attivazione del soccorso istruttorio, equivale a mancata accettazione della clausola sociale con la conseguenza dell'esclusione dalla gara.
L'amministrazione aggiudicatrice esplicita l'obbligo della clausola sociale anche nel contratto, specificando anche che il rispetto delle previsioni del progetto di assorbimento è oggetto di monitoraggio e l'inadempimento degli obblighi derivanti dalla particolare clausola comporta l'applicazione dei rimedi previsti dalla legge o dal contratto.
L'Anac consiglia infatti alle stazioni appaltanti di inserire nello schema di contratto specifiche clausole risolutive espresse ovvero penali commisurate alla gravità della violazione: ove ne ricorrano i presupposti, esse possono quindi arrivare ad applicare anche l'articolo 108, comma 3, del codice dei contratti pubblici, dando corso alla procedura per la risoluzione del contratto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.02.2019).

APPALTIConfronto tra offerte, criteri di valutazione predefiniti anche per gli importi minimi.
Se la stazione appaltante –nell'ambito dell'affidamento di commesse entro 40mila euro- invece di utilizzare la procedura dell'affidamento diretto procede con la consultazione di proposte tecnico/economiche di più operatori economici, deve obbligatoriamente prefissare i criteri di valutazione che la commissione di gara andrà a utilizzare per l'assegnazione dell'appalto.
È questa la precisazione fornita dal Parere di Precontenzioso 07.02.2019 n. 75 - rif. PREC 231/18/S.
Il procedimento
La stazione appaltante ha bandito una procedura per acquisire delle prestazioni di supporto al responsabile unico del procedimento per un importo ampiamente al di sotto di 40mila euro. Pur potendo procedere con l'affidamento diretto, il Rup ha avviato una procedura semplificata con invito e richiesta di più proposte tecnico/economiche sollecitate attraverso uno specifico avviso pubblico.
L'avviso conteneva riferimenti ai requisiti soggettivi generali e specifici di partecipazione ma risultava carente per quanto concerneva i criteri di aggiudicazione. L'appalto di servizi veniva assegnato sulla base di valutazioni di "adeguatezza" espressi dalla commissione di gara.
Contro la procedura seguita uno dei competitori che, rivolgendosi all'Anac, ha chiesto un parere sulla legittimità dell'operato considerato che non risultava fissato alcun criterio di valutazione delle proposte.
Il riscontro
L'Authority ha analizzato la procedura esperita dalla stazione appaltante premettendo alcune considerazioni sui procedimenti semplificati disciplinati nell'articolo 36 del codice dei contratti. Articolo, come noto, che esprime una precisa scelta del legislatore di consentire l'utilizzo di procedimenti semplificati adeguati –quanto a formalità– ad acquisizioni nell'ambito ultra e sotto soglia comunitaria.
A questo proposito, nella deliberazione si rammenta che «la semplificazione della procedura degli affidamenti di importo inferiore a 40.000,00 euro, introdotta dal d.lgs. n. 56/2017» con la finalità di «consentire alla stazione appaltante di agire in modo più snello e flessibile con aumentati margini di autonomia gestionale» non ha fatto venire meno l'obbligo del Rup di rispettare i classici principi della trasparenza e della par condicio tra competitori (articolo 30, comma 1, del codice dei contratti). Più nel dettaglio, come anche evidenziato dalla giurisprudenza, la previsione di procedure semplificate non ha «intaccato» l'obbligo (Tar Piemonte Torino 22.03.2018 n. 353), «dato il chiaro tenore letterale del comma 1 dell'art. 36».
Da ciò consegue che, nel caso di consultazione di più operatori economici, i principi di libera concorrenza, non discriminazione e trasparenza impongono al Rup – quale dominus istruttore della procedura «di predefinire e rendere noti a tutti i soggetti interessati tramite l'atto iniziale della procedura, oltre alle caratteristiche delle opere, dei beni, dei servizi che si intendono acquistare, l'importo massimo stimato dell'affidamento e i requisiti di partecipazione, anche i criteri per la selezione degli operatori economici e delle offerte».
Nel caso di specie, avendo deciso –la stazione appaltante- di non far concorrere gli operatori sul prezzo e quindi, sul solo dato economico, nell'avviso pubblico finalizzato a recepire la manifestazione di interesse ed ottenere, successivamente, la presentazione delle offerte tecnico/economiche da parte degli appaltatori invitati, «avrebbe dovuto individuare con chiarezza i criteri qualitativi sulla base dei quali gli operatori economici sarebbero stati chiamati a competere».
L'avviso pubblico invece, sul punto, è risultato carente e la commissione di gara non poteva valutare le esperienze professionali richieste (tra l'altro, solo a posteriori) senza precisi criteri di valutazione Da ciò deriva, conclude il parere, «che la valutazione delle esperienze professionali, in assenza di criteri motivazionali predefiniti nell'avviso che stabilissero sotto quali profili l'esperienza sarebbe stata vagliata, non può che essere stata condotta dalla commissione in modo arbitrario» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.03.2019).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Cause di inconferibilità per incarico ex art 110, comma 1, del tuel 267/2000.
Domanda
Dopo le elezioni amministrative del 26.05.2019, il nostro sindaco (confermato) intende avviare una procedura pubblica finalizzata alla copertura di un posto di responsabile apicale di area –con posizione organizzativa, in ente senza dirigenza– ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del TUEL. Tra i “papabili” figura un ex assessore che ha terminato il proprio mandato il 26/05/2019. Il comune ha meno di 15.000 abitanti.
Come ci dobbiamo comportare se l’ex assessore partecipa alla procedura? Lo dobbiamo ammettere?
Risposta
Il riferimento normativo in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni (compresi i comuni), va rinvenuto nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
In particolare, va evidenziato che l’articolo 2, comma 2, del citato decreto prevede che le norme si applicano, negli enti locali, anche al conferimento di incarichi dirigenziali a personale non dirigenziale, come in effetti accade nei comuni, nei comuni privi di figure dirigenziali, con i titolari di posizione organizzativa, a cui il sindaco conferisce le funzioni dirigenziali, ai sensi degli articoli 50, comma 10 e 109, comma 2, del Testo Unico Enti Locali.
Venendo allo specifico quesito, si ritiene che le cause di inconferibilità, non siano rinvenibili, nel caso segnalato, dal momento che il vostro comune ha meno di 15.000 abitanti.
L’articolo 7, comma 2, lettera b) –che richiama la precedente lettera a)– prevede, infatti, una causa di inconferibilità per i componenti dei consigli o delle giunte (fissata in uno o due anni), ma solamente per gli incarichi dirigenziali nei comuni sopra 15.000 abitanti.
In tali enti (ma solo in quelli) si deve rispettare quello che alcuni commentatori hanno definito il “periodo di raffreddamento”, intendendo per esso un lasso temporale che non comporta un’esclusione permanente dal conferimento dell’incarico dirigenziale, ma solo di natura temporanea.
La normativa, in pratica, vuol impedire che un soggetto che si trovi in una posizione tale da compromettere l’imparzialità, acceda all’incarico senza soluzione di continuità. È necessario un periodo di raffreddamento, utile a garantire la condizione di imparzialità all’incarico (18.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi, niente espulsioni. Non sono configurabili come organi di partito. E per questo non hanno potestà vincolante verso i componenti.
È ammessa l'espulsione di un consigliere da parte del gruppo consiliare di appartenenza per insanabili divergenze politiche?

In linea generale si osserva che il rapporto tra il candidato eletto e il partito di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati» (Tar Puglia, sez. di Bari sentenza n. 506 del 2005). Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente.
La sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale.
Nella citata pronuncia, si legge che «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche (cfr. Cass. civ, Sez. un., 19.02.2004, n. 3335; C.S., IV, 02.10.1992, n. 932; Corte cost. 12.04.1990, n. 187)».
Per quanto riguarda la questione rappresentata si evidenzia che il nostro ordinamento «si preoccupa di assicurare un metodo di organizzazione democratica dei gruppi (in linea con quanto previsto dall'art. 49 Cost. relativamente ai partiti politici), ma non intende in alcun modo condizionarne la vita e le dinamiche interne. In altre parole, il concreto funzionamento e la gestione dei gruppi (parlamentari, regionali, consiliari), diventano rilevanti per l'ordinamento solo quando questi ultimi interferiscano con lo svolgimento delle funzioni proprie delle assemblee» (Tar per il Lazio ul. cit). L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00 demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Dalla lettura del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale si rileva una disciplina dettagliata per quanto riguarda il passaggio da un gruppo ad un altro, con il presupposto indefettibile dell'accettazione da parte del gruppo cui il consigliere chiede di aderire. Nell'ambito della suddetta fonte regolamentare, invece, non sembra potersi rinvenire una specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario.
Nello stesso regolamento è previsto, altresì, che il gruppo monopersonale sia ammesso unicamente nella ipotesi in cui sia risultato eletto un solo consigliere nell'ambito della corrispondente lista elettorale. Attesa la surriferita disposizione, è stato chiesto se sia consentito agli altri consiglieri di formare un nuovo gruppo consiliare lasciando il consigliere indesiderato quale unico componente del gruppo originariamente costituito. Tale opzione sembrerebbe percorribile in quanto l'enunciato della disposizione preclusiva della costituzione del gruppo monopersonale non sembra impedire ad un consigliere la possibilità di permanere nel gruppo che, pur originariamente costituito da più membri, si sia ridotto ad un unico componente, nel corso della consiliatura.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto ed al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare (articolo ItaliaOggi del 14.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Aumento orario part-time.
Domanda
Un dipendente del Comune è stato assunto ad aprile 2018 con contratto di lavoro a tempo indeterminato e part-time (18 ore settimanali).
Le ore di lavoro possono essere aumentate da 18 ore fino a 30 settimanali? Quali sono le condizioni? C’è bisogno di una modifica del programma del fabbisogno del personale?
Risposta
L’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2008 sancisce che la trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a full time può avvenire nel rispetto e nelle modalità previste dalle disposizione vigenti in tema di assunzioni.
Le varie sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti hanno da tempo chiarito che l’aumento del part-time che non determini la trasformazione a tempo pieno non entra nei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato.
L’inclusione dell’ampliamento dell’orario di lavoro di un dipendente assunto a part-time nel tetto delle capacità assunzionali è limitata alla vera e propria trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, mentre ne rimane esclusa l’ipotesi dell’incremento delle ore lavorative.
Un mero aumento orario non integra, infatti, una nuova assunzione, sicché non fa scattare la soggezione ai limiti e divieti alle stesse, sempre che ciò non si traduca in una manovra elusiva.
A tal proposito, si ritiene di affermare, sulla base della giurisprudenza contabile formatasi in materia, che l’aumento orario a n. 35 ore settimanali, una in meno del full-time, costituirebbe già manovra elusiva (Sez. Sardegna n. 67/2012).
E’ necessario per effettuare l’ampliamento de quo rispettare il limite generale della spesa di personale (Sez. Basilicata n. 51/2016 e Sez. Puglia n. 159/2017) e procedere alla modifica del PTFP (13.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAGli uffici di questa Unione di Comuni ricevono richiesta di annullamento di verbali (L. 24.11.1981, n. 689) in vari ambiti con particolare riferimento ad illeciti edilizi o occupazioni abusive di suolo pubblico avvenute molti anni fa (oltre 5 o 10 anni).
Sono prescritti questi illeciti?

L'art. 28, L. 24.11.1981, n. 689 (legge generale sul procedimento sanzionatorio pecuniario) dispone "Il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione". Tale disposizione è stata oggetto di approfondimento giurisprudenziale con particolare riferimento al tema dei cosiddetti "illeciti permanenti".
Secondo la dottrina "Si ha quindi illecito permanente qualora la condotta dannosa non si esaurisca in un solo momento, ma si rinnovi costantemente nel tempo. Pertanto, la condotta del responsabile produce un evento dannoso che si rinnova per tutto il tempo in cui permane l'azione lesiva, avendosi coesistenza della condotta lesiva e del danno permanente. Per la sussistenza della permanenza sono necessarie tre condizioni: (i) il carattere continuativo dello stato dannoso o pericoloso derivante dalla condotta del soggetto; (ii) il rapporto di causalità tra il protrarsi dello stato dannoso o pericoloso e la condotta del soggetto la quale prosegue senza interruzione dopo la realizzazione del fatto, da cui il danno o il pericolo ha origine e (iii) la possibilità per il responsabile di porre fine alla situazione dannosa".
In presenza di dette condizioni, quindi di un illecito permanente, ne deriva:
   - l'applicazione del regime sanzionatorio vigente al momento in cui l'amministrazione provvede ad irrogare la sanzione stessa, senza che sia ravvisabile la violazione del principio di irretroattività;
   - il potere repressivo dell'amministrazione può essere esercitato anche a lunga distanza di tempo, non derivando dal decorso di questo né una sorta di sanatoria dell'opera abusiva né tanto meno una situazione di affidamento in capo all'autore dell'abuso;
   - in materia di lesione dell'interesse pubblico si protrae nel tempo sino al ripristino della legittimità violata;
   - la prescrizione delle sanzioni pecuniarie non inizia a decorrere dalla data di realizzazione dell'abuso o della violazione ma da quella in cui il soggetto che ha commesso l'abuso ha ripristinato la situazione di legalità.
Tale giurisprudenza, formatasi prevalentemente con riferimento agli abusi edilizi, vale anche in altri analoghi contesti, per cui si è ritenuto che in materia di scadenza dell'autorizzazione ad occupare suolo pubblico, il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e, dunque, il perseverare nell'occupazione abusiva nonché l'inerzia serbata dall'amministrazione non sono idonee ad ingenerare nel privato alcuna convinzione della legittimità della propria situazione.
In definitiva dunque, per gli illeciti permanenti, il termine di prescrizione quinquennale non decorre dalla data di commissione dell'illecito ma dalla data della sua scoperta da parte dell'autorità competente.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 24.11.1981, n. 689, art. 28
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. 22.04.2013, 9711 - Cass. 06.02.1982, n. 685 - Cons. Stato Sez. V, 16.04.2019, n. 2499 - Cons. Stato Sez. VI, 16.04.2019, n. 2484 - Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 04.03.2019, n. 1477 - Cons. Stato Sez. VI, 14.02.2019, n. 1056 - Cons. Stato Sez. VI, 03.01.2019, n. 85 - Cons. Stato Sez. VI, 07.06.2018, n. 3460 - Cons. Stato Sez. VI, 27.02.2018, n. 1166 - Cons. Stato Sez. VI Sent., 03.10.2017, n. 4580
Riferimenti di dottrina
   - Danni da violazione delle norme sulle distanze tra costruzioni. illecito permanente e illecito istantaneo a effetti permanenti - Il commento - [Danno e Resp., 2016, 1, 82 (nota a sentenza)] - di Sebastiano Cassani
   - Illecito paesistico e condono edilizio - [Corriere Giur., 2000, 8, 1003 (nota a sentenza)] - a cura di Luigi Carbon (12.06.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI: Il PassOE in sede di gara a pena di esclusione.
Domanda
Il PassOE in sede di gara deve essere richiesto a pena di esclusione?
Risposta
Il PassOE è quel codice numerico che l’Operatore Economico acquisisce e trasmette alla stazione appaltante affinché quest’ultima possa verificare in capo all’aggiudicatario il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario dichiarati in sede di gara, mediante il sistema AVCpass, quale strumento che consente sia l’acquisizione della documentazione a comprova dei requisiti a seguito della cooperazione applicativa con i vari Enti, che la mera trasmissione di richieste ad altri soggetti certificatori.
Tale foglio, che deve essere sottoscritto dall’operatore economico ai fini della liberatoria per il trattamento dei dati, non rientra tra gli atti obbligatori per la validità della documentazione amministrativa, pertanto, la richiesta a pena di esclusione, potrebbe porsi in violazione dell’art. 83 del d.lgs. 50/2016, ed in particolare del comma 8, che stabilisce: “I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Il PassOE diventa obbligatorio nel momento in cui la stazione appaltante deve effettuare i controlli sull’aggiudicatario (salvo l’ipotesi di verifiche a campione in sede di gara), che procederà quindi all’acquisizione dello stesso mediante accesso al sistema AVCPass, non prevedendo l’ANAC alcun blocco in ordine al rilascio del documento dopo la scadenza del termine per la presentazione delle offerte.
In questo modo non solo si semplificano gli oneri per gli operatori partecipanti alla procedura che evitano il passaggio di acquisizione di un documento che prevede comunque diversi step per la generazione, ma si riduce anche l’attività del seggio di gara che non deve accertare la presenza e la regolarità dei vari PassOE trasmessi, o addirittura attivare il soccorso istruttorio qualora se ne accerti la mancata allegazione, con allungamento dei termini della procedura.
A livello operativo si evidenzia come la presentazione in sede di gara del PassOE potrebbe determinare alcuni problemi di gestione della stessa, dovuti ad esempio alla difficoltà dell’operatore di trasmettere il documento per responsabilità diretta della stazione appaltante che abbia dimenticato, dopo la creazione del codice CIG, di perfezionarlo. In tale ipotesi, infatti, l’operatore non potrà in alcun modo generare il PassOE, ed eventualmente eccepirà la mancata partecipazione alla procedura per negligenza dell’ente appaltante.
In considerazione della funzione del PassOE e dei rischi operativi si ritiene che tale documento, se richiesto in sede di gara, debba avere un carattere meramente facoltativo, diventando documento obbligatorio a carico del solo aggiudicatario.
Sulle modalità di acquisizione e presentazione del PassOE
PASSOE di cui all’art. 2, comma 3, lett. b), della delibera ANAC n. 157/2016, sottoscritto digitalmente dall’Operatore Economico aggiudicatario.
Nel caso di ricorso all’avvalimento ai sensi dell’art. 49 del Codice, anche il PASSOE relativo all’ausiliaria.
Nell’ipotesi di partecipazione di RTI, anche già costituiti, andranno trasmessi i PassOE di tutte le imprese che compongono il raggruppamento ovvero un PassOE multiplo.
Nell’ipotesi di partecipazione di consorzi di cui all’art. 45, comma 2, lett. b) e c), del d.lgs. 50/2016, andranno trasmessi –oltre al PassOE del Consorzio– anche quelli delle consorziate per le quali il consorzio partecipa/esecutrici ovvero un PassOE multiplo.
Nel caso di partecipazione di consorzi di cui all’art. 45, comma 2, lett. e), del d.lgs. 50/2016, andranno trasmessi –oltre al PassOE del Consorzio– anche quelli di tutte le consorziate ovvero un PassOE multiplo.
Qualora il PassOE non sia stato già allegato in sede di gara, si procederà a richiederne la produzione –pena l’esclusione– entro e non oltre il termine di giorni 5 (cinque) dalla trasmissione della relativa richiesta (12.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Applicativo ANAC per il whistleblowing.
Domanda
Abbiamo scaricato dal sito dell’ANAC l’applicativo per la ricezione delle segnalazioni di condotte illecite da parte dei pubblici dipendenti (Whistleblowing).
Dobbiamo mantenere pubblicata anche la scheda di segnalazione e la casella email del RPCT, predisposta nell’anno 2015?
Risposta
Con Comunicato del Presidente, Raffaele Cantone, in data 15.01.2019, l’Autorità Anticorruzione italiana ha comunicato che era disponibile, in open source, il nuovo software per la gestione delle segnalazioni di illeciti.
L’applicativo può essere utilizzato per l’acquisizione e la gestione –nel rispetto delle garanzie di riservatezza previste dalla normativa vigente– delle segnalazioni di illeciti da parte dei pubblici dipendenti, così come stabilito dall’articolo 54-bis, comma 5, del decreto legislativo 165/2001
[1] e previsto dalle Linee Guida ANAC, di cui alla determinazione n. 06 del 28.04.2015.
La nuova piattaforma consente la compilazione, l’invio e la ricezione delle segnalazioni di presunti fatti illeciti, nonché la possibilità per l’ufficio del Responsabile della Prevenzione Corruzione e della Trasparenza (RPCT), che riceve tali segnalazioni, di comunicare in forma riservata con il segnalante senza conoscerne l’identità.
Quest’ultima, infatti, viene segregata dal sistema informatico ed il segnalante, grazie all’utilizzo di un codice identificativo univoco generato dal predetto sistema, potrà “dialogare” con il RPCT, in maniera spersonalizzata tramite la piattaforma informatica. Ove ne ricorra la necessità il RPCT può chiedere l’accesso all’identità del segnalante, previa autorizzazione di una terza persona (il cosiddetto “custode dell’identità”).
L’applicativo e la sua distribuzione in forma gratuita è regolata da una Licenza Pubblica della Unione Europea e, pertanto, ne è consentito il libero uso a qualunque soggetto interessato, senza nessun’altra autorizzazione da parte dell’ANAC.
Premesso quanto sopra, si ritiene di rispondere al quesito suggerendo di eliminare dal vostro sito web, sia la scheda di segnalazione che la casella e-mail (riservata) a cui poteva accedere solamente il RPCT.
Tale suggerimento nasce dalla constatazione che l’applicativo dell’ANAC è certamente più sicuro, rispetto ai tradizionali mezzi utilizzati finora, in quanto fa ricorso a strumenti di crittografia idonei a garantire la riservatezza dell’identità del segnalante.
Come già in precedenza, l’applicativo da voi scaricato dal sito dell’ANAC, va pubblicato nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione.
In ultimo, si ricorda che l’articolo 1, comma 6, della legge n. 179/2017, prevede che qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
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[1] Nel testo sostituito dall’articolo 1, comma 1, della legge 30.11.2017, n. 179 (11.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il presidente è revocabile. Ma solo se smette di agire in modo neutrale. Nel contrasto tra statuto e regolamento prevale sempre il primo.
Si può prevedere nel regolamento sul funzionamento del consiglio comunale la revoca del presidente del consiglio? Il presidente del consiglio può essere revocato con una maggioranza diversa da quella necessaria per la sua elezione? Quale disposizione deve essere applicata in caso di contrasto tra una norma statutaria e una regolamentare con riferimento alla disciplina delle commissioni consiliari?
Il presidente del consiglio, è previsto dall'art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000 che rende obbligatoria la figura in parola nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, mentre per i comuni con popolazione inferiore alla predetta soglia ne è demandata la facoltà alla previsione statutaria.
Lo statuto di un comune in prima votazione richiede la maggioranza dei 2/3 dei consiglieri assegnati, computando anche il sindaco, al fine dell'elezione del presidente del consiglio. In seconda votazione, da effettuarsi nella stesa seduta, prevede la maggioranza assoluta dei voti dei consiglieri assegnati, computando anche il sindaco.
Il regolamento modificato, prevede la revoca a seguito di mozione di sfiducia che può essere presentata solo dopo l'accertamento di gravi mancanze nella corretta conduzione del proprio ruolo istituzionale.
Ciò posto, come ritenuto, tra gli altri, dal Tar Puglia–Lecce, con sentenza n. 528/2014, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata perciò con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia (conforme, Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)».
In merito alla specifica tematica sollevata, concordando sulla necessità dell'osservanza del rispetto della gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009) non sembra tuttavia evidente alcun contrasto della citata disposizione regolamentare con il vigente statuto in ordine alle maggioranze richieste.
In ogni caso, così come affermato dal Consiglio di stato con la sentenza n. 2678 del 05.06.2017 «è sufficiente osservare che è la stessa natura e delicatezza delle funzioni di presidente del consiglio comunale, ad escludere logicamente la configurabilità della irrevocabilità della funzione, ciò anche a prescindere dalla considerazione che, secondo i principi generali, il potere di adottare un atto implica di per sé il potere di emettere anche il contrarius actus, salvo che ciò sia espressamente escluso da una specifica disposizione normativa che nel caso di specie non si riscontra».
Riguardo le commissioni consiliari si rileva che l'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda allo statuto la loro istituzione facoltativa con il solo vincolo del rispetto del criterio proporzionale nella loro composizione. I poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori sono demandati al regolamento. Il citato art. 38, al comma 2, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, prevede, altresì, altri contenuti obbligatori del citato regolamento (modalità per la convocazione e per la presentazione e la discussione delle proposte, l'indicazione del numero dei consiglieri necessari per la validità della seduta – con il vincolo della presenza di almeno un terzo dei componenti assegnati).
Con norma regolamentare, ai sensi del comma 3 del citato art. 38, sono fissate le modalità per fornire ai consigli, servizi, attrezzature e risorse finanziare ed è disciplinata la gestione delle risorse attribuite per il loro funzionamento e per quello dei gruppi consiliari, mentre per i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti è data facoltà di previsione di apposite strutture per il funzionamento del consiglio.
Ciò premesso, si ritiene che, qualora sussista un contrasto tra le norme statutarie e le norme regolamentari è alle prime che occorre fare riferimento, mentre l'eventuale assenza di una disciplina regolamentare degli istituti sopra citati, potendo comportare delle disfunzioni nel corretto funzionamento degli organi, dovrebbe comunque essere colmata dall'ente
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2019).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria produce l'effetto di rendere inefficace il provvedimento ripristinatorio e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
A seguito dell’attivazione del procedimento di sanatoria, dunque, ogni interesse del destinatario della misura ripristinatoria si trasferisce nei confronti del provvedimento conclusivo di tal procedimento.
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7. - Secondo giurisprudenza se non consolidata del tutto prevalente anche dell’adito Tribunale, la presentazione dell'istanza di sanatoria produce l'effetto di rendere inefficace il provvedimento ripristinatorio e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio (ex multis TAR Liguria, sez. I, 26.05.2017, n. 463; TAR Piemonte, sez. II, 21.05.2018, n. 628; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 2 gennaio 2018, n. 1; TAR Umbria, sez. I, 04.09.2015, n. 362; id. 24.04.2019, n. 219; Consiglio di Stato, sez. IV, 16.09.2011, n. 5228).
A seguito dell’attivazione del procedimento di sanatoria, dunque, ogni interesse del destinatario della misura ripristinatoria si trasferisce nei confronti del provvedimento conclusivo di tal procedimento (TAR Umbria, sentenza 14.06.2019 n. 330 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIVerifica del possesso dei requisiti di ordine generale per i consorzi di cooperative di produzione e lavoro.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Consorzio di Cooperative di Produzione e Lavoro – Verifica – Criterio – Individuazione.
In sede di gara pubblica, la verifica sul possesso dei requisiti di ordine generale nel caso di consorzi di cooperative di produzione e lavoro ex l. n. 422 del 1909 (così come dei consorzi stabili) va perimetrata a quelle concretamente designate per l’esecuzione dell’appalto, restando viceversa indifferente l’eventuale carenza dei requisiti di ordine generale delle altre consorziate estranee alla esecuzione dell’appalto in quanto non designate dal sodalizio (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che Secondo la giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. V, 23.11.2018, n. 6632), i consorzi di cooperative di produzione e lavoro, in base all'art. 4, l. n. 422 del 1909, sono soggetti giuridici a sé stanti distinti, dal punto di vista organizzativo e giuridico, dalle cooperative consorziate che ne fanno parte.
Ai sensi dell’art. 48, comma 7, del codice degli appalti pubblici, essi sono tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati concorrano; la norma intende assegnare rilievo funzionale al rapporto organico che lega il consorzio concorrente alle imprese in esso consorziate e che ne costituiscono una sorta di interna corporis. In tal modo, il consorzio si avvale dell’attività svolta da un suo soggetto imprenditore consorziato da esso direttamente designato, esecutore della prestazione contrattuale.
Il rapporto organico che lega le consorziate al consorzio risulta ancora più evidente alla luce dell’art. 47, primo comma, del codice dei contratti secondo cui i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento devono essere posseduti e comprovati con le medesime modalità previste per tutti gli altri operatori economici, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate.
Il Tar ha aggiunto che il consorzio si qualifica in base al cumulo dei requisiti delle consorziate e tale disciplina si giustifica in ragione del patto consortile che si instaura nell'ambito di un organizzazione caratterizzata da un rapporto duraturo ed improntato a stretta collaborazione tra le consorziate e dalla comune causa mutualistica, nell'ambito del quale la consorziata che si limiti a conferire il proprio requisito all'ente cui appartiene senza partecipare all'esecuzione dell'appalto vi rimane estranea, tant'è che non sussiste alcuna responsabilità di sorta verso la stazione appaltante.
Uno statuto ben diverso è invece quello delle consorziate che, al contrario, siano state indicate per l'esecuzione dell'appalto, per le quali è prevista l'assunzione della responsabilità in solido con il consorzio. Esse devono essere in possesso dei requisiti di ordine generale al fine di impedire che possano giovarsi della copertura dell'ente collettivo, eludendo i controlli demandati alle stazioni appaltanti (Cons. St., A.P., 04.05.2012, n. 8; sez. V, 17.05.2012, n. 2582; sez. VI, 13.10.2015, n. 4703; Tar Lazio 30.04.2018, n. 4723); solo rispetto a tali consorziate -e non a quelle che restano estranee- la giurisprudenza ha quindi ritenuto applicabili gli obblighi dichiarativi di cui all’art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006 ed attualmente disciplinati dall’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 (Tar Napoli, sez. I, 16.07.2018, n. 4707).
La distinzione tra imprese consorziate designate per l’esecuzione e altre imprese consorziate che restano estranee all’appalto risulta confermata anche dal nuovo codice degli appalti pubblici.
L’art. 48, comma 7, del predetto codice ammette espressamente che alla medesima procedura di gara possano partecipare, oltre al consorzio di cooperative di produzione e lavoro, anche imprese consorziate che non risultino designate dal medesimo sodalizio per l’esecuzione dell’appalto (“I consorzi di cui all'articolo 45, comma 2, lettere b) e c), sono tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre; a questi ultimi è fatto divieto di partecipare, in qualsiasi altra forma, alla medesima gara; in caso di violazione sono esclusi dalla gara sia il consorzio sia il consorziato; in caso di inosservanza di tale divieto si applica l'art. 353 c.p.”).
Poiché è ammessa la contestuale partecipazione alla medesima gara sia del sodalizio consortile sia dell’impresa consorziata per conto della quale il consorzio stesso non abbia dichiarato di partecipare alla gara, è evidente che in tale eventualità la verifica sul possesso dei requisiti di partecipazione va condotta partitamente e separatamente per entrambi gli operatori, con conseguente intrasmissibilità (dalla seconda al primo) degli effetti derivanti da eventuali illeciti professionali preclusivi ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c).
Ancora, l’art. 48, comma 7-bis, nel disciplinare le ipotesi in cui, nella fase esecutiva dell’appalto, i consorzi di cooperative di produzione e lavoro possono designare altra impresa consorziata in presenza di particolari vicende che colpiscono quella originariamente indicata (es. fallimento, liquidazione coatta amministrativa, etc.), pone la condizione che “la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere in tale sede la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all'impresa consorziata”.
Dall’attenzione dedicata dal legislatore alla sola impresa consorziata designata per l’esecuzione (della cui sostituzione si occupa la norma) si ha conferma che la verifica sul possesso dei requisiti di ordine generale nel caso di consorzi di cooperative di produzione e lavoro (così come dei consorzi stabili) va perimetrata a quelle concretamente designate per l’esecuzione dell’appalto perché è unicamente con riguardo a tali imprese che va scongiurata la finalità antielusiva dell’eventuale meccanismo sostitutivo, restando viceversa indifferente l’eventuale carenza dei requisiti di ordine generale delle altre consorziate estranee alla esecuzione dell’appalto in quanto non designate dal sodalizio (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 13.06.2019 n. 3231 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
E’ noto che,
per consentire alla stazione appaltante un’adeguata e ponderata valutazione sull’affidabilità e sull’integrità dell’operatore economico, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016, sono posti a carico di quest’ultimo i c.d. obblighi informativi: il concorrente è tenuto a fornire una rappresentazione quanto più dettagliata possibile delle proprie pregresse vicende professionali in cui, per varie ragioni, gli sia stata contestata una condotta illecita o, comunque, si sia incrinato il rapporto di fiducia con altre stazioni appaltanti.
Al riguardo, nella formulazione vigente ratione temporis (prima della novella di cui al D.L. n. 135/2018 convertito della L. n. 12/2019), l’articolo disponeva quanto segue “
Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, qualora… c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
L'omessa dichiarazione di dette informazioni è stata ritenuta idonea ad integrare un grave illecito professionale in quanto pregiudica la valutazione di affidabilità del concorrente; difatti, la condotta reticente non fornisce un quadro completo della situazione dell’impresa partecipante in relazione agli accertamenti di cui all'art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016 ed impedisce che il processo decisionale della stazione appaltante si svolga in maniera esauriente non consentendo alla medesima di esprimere ogni necessaria considerazione sulla sussistenza di eventuali gravi illeciti professionali tali da rendere dubbia la integrità ed affidabilità dell’impresa (Consiglio di Stato, Sez. V, 03.09.2018, n. 5142, 25.07.2018, n. 4532; 11.06.2018, n. 3592).
Nel caso specifico, il Co.In. ha partecipato alla gara nella qualità di consorzio fra società cooperative di produzione e lavoro costituito a norma della L. 25.06.1909 n. 422, soggetto ammesso ai pubblici appalti ai sensi dell’art. 45, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 50/2016.
Secondo la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V, 23.11.2018 n. 6632), detti consorzi, in base all'art. 4 della citata legge, sono soggetti giuridici a sé stanti distinti, dal punto di vista organizzativo e giuridico, dalle cooperative consorziate che ne fanno parte.
Ai sensi dell’art. 48, comma 7, del codice degli appalti pubblici, essi sono tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati concorrano; la norma intende assegnare rilievo funzionale al rapporto organico che lega il consorzio concorrente alle imprese in esso consorziate e che ne costituiscono una sorta di interna corporis. In tal modo, il consorzio si avvale dell’attività svolta da un suo soggetto imprenditore consorziato da esso direttamente designato, esecutore della prestazione contrattuale.
Il rapporto organico che lega le consorziate al consorzio risulta ancora più evidente alla luce dell’art. 47, primo comma, secondo cui i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento devono essere posseduti e comprovati con le medesime modalità previste per tutti gli altri operatori economici, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate.
Al riguardo,
va richiamato l’orientamento giurisprudenziale sviluppatosi nella vigenza del precedente codice dei contratti pubblici in materia di consorzi stabili, i cui principi possono estendersi anche ai consorzi di cooperative di produzione e lavoro (TAR Campania, Napoli, Sez. II, n. 5300/2017; TAR Sardegna, n. 693/2015; parere Anac n. 105/2014 secondo cui “l’analogia di disciplina tra i consorzi stabili e i consorzi di cooperative appare costituzionalmente conforme, in quanto realizza –per la partecipazione agli appalti pubblici– una di quelle forme di incentivazione alla mutualità che la Costituzione assegna alla legge per promuovere e favorire l’incremento della funzione sociale che la cooperazione rappresenta”) il quale distingue tra imprese consorziate designate per l’esecuzione dell’appalto e le altre consorziate (Consiglio di Stato, Sez. V, 26.04.2018 n. 2537; 23.02.2017 n. 849).
Secondo tale approdo il consorzio si qualifica in base al cumulo dei requisiti delle consorziate e tale disciplina si giustifica in ragione del patto consortile che si instaura nell'ambito di un organizzazione caratterizzata da un rapporto duraturo ed improntato a stretta collaborazione tra le consorziate e dalla comune causa mutualistica, nell'ambito del quale la consorziata che si limiti a conferire il proprio requisito all'ente cui appartiene senza partecipare all'esecuzione dell'appalto vi rimane estranea, tant'è che non sussiste alcuna responsabilità di sorta verso la stazione appaltante.
Uno statuto ben diverso è invece quello delle consorziate che, al contrario, siano state indicate per l'esecuzione dell'appalto, per le quali è prevista l'assunzione della responsabilità in solido con il consorzio. Esse devono essere in possesso dei requisiti di ordine generale al fine di impedire che possano giovarsi della copertura dell'ente collettivo, eludendo i controlli demandati alle stazioni appaltanti (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 04.05.2012, n. 8; Sez. V, 17.05.2012, n. 2582; Sez. VI, 13.10.2015, n. 4703; TAR Lazio, 30.04.2018 n. 4723); solo rispetto a tali consorziate -e non a quelle che restano estranee- la giurisprudenza ha quindi ritenuto applicabili gli obblighi dichiarativi di cui all’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006 ed attualmente disciplinati dall’art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016 (TAR Campania, Napoli, Sez. I, 16.07.2018 n. 4707).
La distinzione tra imprese consorziate designate per l’esecuzione e altre imprese consorziate che restano estranee all’appalto risulta confermata anche dal nuovo codice degli appalti pubblici (D.Lgs. n. 50/2016).
L’art. 48, comma 7, del predetto codice ammette espressamente che alla medesima procedura di gara possano partecipare, oltre al consorzio di cooperative di produzione e lavoro, anche imprese consorziate che non risultino designate dal medesimo sodalizio per l’esecuzione dell’appalto (“I consorzi di cui all'articolo 45, comma 2, lettere b) e c), sono tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre; a questi ultimi è fatto divieto di partecipare, in qualsiasi altra forma, alla medesima gara; in caso di violazione sono esclusi dalla gara sia il consorzio sia il consorziato; in caso di inosservanza di tale divieto si applica l'articolo 353 del codice penale”).
Poiché è ammessa la contestuale partecipazione alla medesima gara sia del sodalizio consortile sia dell’impresa consorziata per conto della quale il consorzio stesso non abbia dichiarato di partecipare alla gara, è evidente che in tale eventualità la verifica sul possesso dei requisiti di partecipazione va condotta partitamente e separatamente per entrambi gli operatori, con conseguente intrasmissibilità (dalla seconda al primo) degli effetti derivanti da eventuali illeciti professionali preclusivi ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c).
Ancora, l’art. 48, comma 7-bis, nel disciplinare le ipotesi in cui, nella fase esecutiva dell’appalto, i consorzi di cooperative di produzione e lavoro possono designare altra impresa consorziata in presenza di particolari vicende che colpiscono quella originariamente indicata (es. fallimento, liquidazione coatta amministrativa, etc.), pone la condizione che “la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere in tale sede la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all'impresa consorziata”.
Dall’attenzione dedicata dal legislatore alla sola impresa consorziata designata per l’esecuzione (della cui sostituzione si occupa la norma) si ha conferma che la verifica sul possesso dei requisiti di ordine generale nel caso di consorzi di cooperative di produzione e lavoro (così come dei consorzi stabili) va perimetrata a quelle concretamente designate per l’esecuzione dell’appalto perché è unicamente con riguardo a tali imprese che va scongiurata la finalità antielusiva dell’eventuale meccanismo sostitutivo, restando viceversa indifferente l’eventuale carenza dei requisiti di ordine generale delle altre consorziate estranee alla esecuzione dell’appalto in quanto non designate dal sodalizio.
La tesi di parte ricorrente collide poi con la ratio dell’istituto.
Invero, risulterebbe eccessivamente dilatato l’obbligo informativo posto a carico degli operatori economici consortili ove fosse richiesto loro di riferire alla stazione appaltante non solo delle proprie pregresse vicende professionali, suscettibili di integrare il “grave errore professionale”, ma anche delle altre consorziate estranee alla gara -che rivestono qualità di autonomi soggetti di diritto- salvo che ne siano scaturite ricadute personali sugli amministratori (e gli altri organi di vertice) di entrambe le società, se comuni, ipotesi che non risulta essersi verificata nel caso in esame (cfr. in fattispecie analoga, Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2511/2019).
La partecipazione ad un consorzio anziché rappresentare un mezzo per incrementare la partecipazione delle imprese medio-piccole e aumentare la concorrenza nel mercato rischierebbe di causare un vulnus alle medesime imprese, in quanto finirebbe per rappresentare una sorta di moltiplicatore, non dei requisiti come voluto dal legislatore, ma delle carenze delle imprese partecipanti con un effetto disincentivante alimentato dall’impossibilità per le singole consorziate che decidono di aderire ad un consorzio di verificare prima dell’adesione la sussistenza in capo a tutte le consorziate dei requisiti di partecipazione.
Deve quindi ritenersi che i requisiti c.d. di ordine generale debbano essere posseduti dal consorzio di cooperative di produzione e lavoro in sé considerato e dalle imprese consorziate indicate come esecutrici del contratto.

EDILIZIA PRIVATANell’eventualità in cui emerga la sussistenza del c.d. factum principis o di cause di forza maggiore, l’interessato che voglia impedire la decadenza del titolo edilizio è sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso.
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Un atto pubblico è fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c..
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Per principio consolidato, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione.
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L’ampliamento della sfera giuridico-patrimoniale del concessionario, come effetto proprio del provvedimento di concessione, risponde primariamente a finalità di interesse pubblico che, in caso di mancata attuazione del programma finalistico sotteso al provvedimento ampliativo, rimangono disattese; il che costituisce elemento di per sé idoneo a giustificare l’adozione di una misura autoritativa di decadenza della concessione, considerato che la mancata realizzazione delle finalità di pubblico interesse rende non più giustificata, economica e razionale la perdurante efficacia della concessione rilasciata.
In una prospettiva funzionale, dunque, la mancata attuazione del programma finalistico implicato dal rilascio della concessione, inevitabilmente determinata dall’inadempimento degli obblighi, anche di utilizzazione del bene, assunto con la concessione contratto, giustifica –anzi, rende obbligata– la scelta dell’Amministrazione concedente di ritiro dell’atto ampliativo e estinzione di un rapporto concessorio non funzionale alla realizzazione delle finalità pubblicistiche perseguite.
Ciò a prescindere dalla valutazione delle situazioni contingenti e delle ragioni specifiche che possano avere determinato gli inadempimenti del concessionario.
In tale ottica la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto occasione di ribadire che è da ritenersi legittima e non abbisogna di diffusa motivazione sull'interesse pubblico la decadenza di una concessione amministrativa, disposta dalla p.a. per il sol fatto dell'inadempimento, provocato dall'inerzia del concessionario, degli obblighi derivanti dalle clausole della convenzione a suo tempo concordate con la p.a. medesima e non attuate entro il termine pattuito, in quanto tale vicenda è di per sé sufficiente a determinare la risoluzione immediata del rapporto concessorio, senz'uopo di accertamenti specifici della quantità e della qualità dell'inadempimento).
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1. Il ricorso non merita accoglimento.
2. Come emerge dalla documentazione in atti e, segnatamente, dall’atto di cessione del diritto di superficie dell’08.06.2004, la concessionaria, odierna ricorrente, si è obbligata a realizzare e mantenere un manufatto per l’insediamento dell’attività industriale, con l’espressa previsione che: “i lavori dovranno essere iniziati entro un anno dal rilascio della concessione edilizia ed ultimati entro i tre anni successivi” e che l’inizio dell’attività avrebbe dovuto essere assicurata entro sei mesi dalla fine dei lavori.
2.1. Tali previsioni, peraltro, nella parte in cui stabiliscono la data di inizio ed ultimazione dei lavori risultano pienamente conformi alla disciplina generale recata dall’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, la quale pure dispone la decadenza ex lege del titolo edilizio per l’ipotesi di inosservanza dei suddetti termini, salva la richiesta di proroga, il cui positivo riscontro, peraltro, è subordinato al ricorrere di specifici presupposti.
2.3. Dalla disciplina normativa di riferimento discende, dunque, che deve escludersi qualsiasi sospensione automatica del termine di durata del permesso edilizio, e quindi a maggior ragione una sua automatica proroga; più precisamente, anche nell’eventualità –nella fattispecie non sussistente– in cui emerga la sussistenza del c.d. factum principis o di cause di forza maggiore, l’interessato che voglia impedire la decadenza del titolo è sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso (in termini, cfr. ex multis, Cons. St., n. 3887 del 2017).
3. Nel caso che ne occupa, come esposto nella narrativa in fatto, l’autorizzazione unica per la realizzazione del capannone industriale è stata rilasciata con determina n. 8314 del 13.10.2006 ed è, ovviamente, da tale data che è iniziato a decorrere il termine annuale per l’inizio dei lavori.
3.1. Emerge per tabulas dalla documentazione in atti che sebbene l’inizio dei lavori delle opere sia stato comunicato in data 1.10.2007, tuttavia, in esito alle verifiche disposte dal competente ufficio nel 2008 e, precipuamente dai sopralluoghi eseguiti dalla Polizia municipale, è stata accertata l’assenza di edificazioni nel lotto in questione (n. 54), ragione per cui l’amministrazione ha del tutto legittimamente avviato per la prima volta il procedimento di revoca dell’assegnazione, non portato a definizione dall’ente in quanto superato dalle successive determinazioni, nell’ambito del quale la ricorrente, oltre a riferire circostanze non conferenti con la contestazione, ha riconosciuto che i lavori stessere proseguendo a rilento, “per inerzia della società appaltatrice”.
3.2. Le attività istruttorie dell’amministrazione sono proseguite con successive verifiche ed accertamenti; in particolare, con nota del 23 aprile 2009, l’Unità organizzativa tecnica dell’ente resistente ha attestato, in esito ad un ulteriore sopralluogo eseguito, che “pur avendo gli assegnatari comunicato l’inizio dei lavori per la realizzazione di una struttura edilizia, alla data odierna i lotti continuano ad essere liberi da manufatti e soprassuoli”.
3.3. Dirimente al fine di escludere la fondatezza delle deduzioni di parte ricorrente incentrate sulla erroneità dei presupposti alla base della determinazione di decadenza della concessione con conseguente estinzione del diritto di superficie inerente si palesano le risultanze emerse in esito al sopralluogo del 27.05.2009 eseguito dalla Polizia municipale, che espressamente ed inequivocabilmente attestato, con allegazione anche di rilievi fotografici che: «… sul lotto n. 54 si è accertato che non è stato realizzato alcun manufatto ma solo una recinzione in muratura esistente da circa quattro anni, come da informazioni assunte dai gestori delle altre attività del comprensorio».
3.4. Le evidenze emergenti dalle suddette produzioni escludono senza margine di opinabilità alcuno che non solo i lavori non hanno avuto inizio entro il termine annuale prescritto ma non sono neppure proseguiti nell’arco temporale che viene in considerazione (01.10.2007–27.05.2009).
3.5. Né al fine di addivenire a differenti conclusioni può attribuirsi rilievo all’attestazione di inizio lavori depositata dalla difesa della ricorrente, e ciò in quanto, a prescindere dalla singolarità della redazione di tale atto a distanza di molto tempo dalla data di asserito e non comprovato sopralluogo del 13.07.2009, il verbale di sopralluogo redatto dalla Polizia municipale, successivamente alla instaurazione del presente giudizio, a seguito del sopralluogo eseguito in data 04.12.2009, con uniti rilievi fotografici, ha attestato che “allo stato attuale non è stato edificato alcun manufatto, il lotto recintato con bandoni e lamiera”.
3.6. Venendo in rilievo un atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate, le relative risultanze risultano insuperate dalla parte ricorrente la quale non consta né ha allegato di aver proposto il relativo incidente.
4. Il Collegio ritiene anche di evidenziare che pur supponendo, in via di mera ipotesi (in quanto documentalmente smentito dal predetto verbale di sopralluogo della Polizia municipale) che al luglio ovvero al mese di ottobre del 2009 fossero stati eseguiti i lavori di bonifica e sbancamento del lotto, tale attività edilizia sarebbe comunque insufficiente ai fini pretesi dalla ricorrente e ciò in quanto suscettibile astrattamente di essere presa in considerazione ai fini della verifica circa l’avvio dell’edificazione la quale, però, avrebbe dovuto essere intrapresa entro un anno dal rilascio del titolo legittimante l’edificazione, risalente, come sopra esposto, al 13.10.2006.
5. Vi è di più. Per principio consolidato, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione.
Nella fattispecie, i lavori da eseguire avrebbero dovuto sostanziarsi nella installazione di un capannone prefabbricato, realizzato, come evidenzia la stessa parte ricorrente, integralmente presso gli stabilimenti della ditta costruttrice, sicché le risultanze della situazione di fatto accertata dalla Polizia municipale, da ultimo con il sopralluogo del 04.12.2009, priva di significatività tutte le argomentazioni articolate dalla difesa della ricorrente.
6. Nessuna illegittimità è ravvisabile, inoltre, nella circostanza che l’amministrazione non abbia previamente definito il procedimento di revoca dell’assegnazione avviato nel 2008, stante il superamento di tale procedimento con quello successivo –nell’ambito del quale sono state condotte esaustive ed adeguate ulteriori attività di verifica istruttoria– in esito al quale è stata adottata la determinazione impugnata.
7. Neppure emerge un legittimo affidamento meritevole di tutela in capo all’interessata, la quale non ha inteso adempiere agli obblighi su essa gravanti nel termine predeterminato e ad essa noto, con l’ulteriore specificazione che non consta alcuna richiesta di proroga formulata all’amministrazione, la quale sola avrebbe potuto determinare, al ricorrere dei relativi presupposti stabiliti dall’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, il superamento del termine di inizio e conclusione dei lavori per come originariamente stabilito.
8. Con riferimento alle deduzioni dirette a contestare la sussistenza del vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento, il Collegio reputa sufficiente rilevare che detto vizio è configurabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato alle stesse, in relazione alle quali parte ricorrente non ha allegato alcun concreto elemento; come chiarito dalla univoca giurisprudenza, inoltre, tale censura non può essere dedotta “quando viene rivendicata l'applicazione in proprio favore di posizioni giuridiche riconosciute ad altri soggetti in modo illegittimo, in quanto, in applicazione del principio di legalità, la legittimità dell'operato della p.a. non può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione” (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. II, 26.10.2012. n. 4283).
9. Da quanto sopra esposto consegue la legittimità della determinazione adottata, esente dalle censure contestate, essendo la violazione dei termini di avvio dei lavori già di per sé sufficiente a costituirne un valido fondamento della decadenza della concessione.
9.1. Come correttamente rilevato dalla difesa dell’amministrazione comunale, peraltro, già in fattispecie analoga questo Tribunale ha avuto modo di evidenziare che: «L’ampliamento della sfera giuridico-patrimoniale del concessionario, come effetto proprio del provvedimento di concessione, risponde primariamente a finalità di interesse pubblico che, in caso di mancata attuazione del programma finalistico sotteso al provvedimento ampliativo, rimangono disattese; il che costituisce elemento di per sé idoneo a giustificare l’adozione di una misura autoritativa di decadenza della concessione, considerato che la mancata realizzazione delle finalità di pubblico interesse rende non più giustificata, economica e razionale la perdurante efficacia della concessione rilasciata. In una prospettiva funzionale, dunque, la mancata attuazione del programma finalistico implicato dal rilascio della concessione, inevitabilmente determinata dall’inadempimento degli obblighi, anche di utilizzazione del bene, assunto con la concessione contratto, giustifica –anzi, rende obbligata– la scelta dell’Amministrazione concedente di ritiro dell’atto ampliativo e estinzione di un rapporto concessorio non funzionale alla realizzazione delle finalità pubblicistiche perseguite. Ciò a prescindere dalla valutazione delle situazioni contingenti e delle ragioni specifiche che possano avere determinato gli inadempimenti del concessionario. In tale ottica la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto occasione di ribadire che è da ritenersi legittima e non abbisogna di diffusa motivazione sull'interesse pubblico la decadenza di una concessione amministrativa, disposta dalla p.a. per il sol fatto dell'inadempimento, provocato dall'inerzia del concessionario, degli obblighi derivanti dalle clausole della convenzione a suo tempo concordate con la p.a. medesima e non attuate entro il termine pattuito, in quanto tale vicenda è di per sé sufficiente a determinare la risoluzione immediata del rapporto concessorio, senz'uopo di accertamenti specifici della quantità e della qualità dell'inadempimento)» (Tar Lazio, sez. II, n. 5650 del 2009).
10. Esclusivamente per completezza di analisi si evidenzia che l’infondatezza delle censure concernenti l’applicazione dell’art. 83 della l.r. Lazio n. 26 del 2007, il quale, con riferimento al comprensorio Acilia-Dragonara espressamente dispone, al comma 4, che “per le assegnazioni in diritto di superficie antecedenti alla data del 31.12.2002, indipendentemente dalla data di stipula della convenzione di concessione, i cui concessionari non avessero ancora provveduto al completamento del fabbricato produttivo ed all'avvio dell'attività produttiva stessa, atteso l'interesse collettivo che ha portato all’assegnazione delle aree, il Comune di Roma procede alla revoca d'ufficio delle assegnazioni”, salva la possibilità per gli interessati di regolarizzare la loro posizione nei termini e con le modalità ivi stabilite. Tale facoltà non consta essere stata neppure esercitata dall’interessata.
11. Dal rigetto della domanda di annullamento consegue anche quello della domanda risarcitoria (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 12.06.2019 n. 7608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIAlla Corte costituzionale la norma che disciplina il caso dell’operatore economico in concordato con continuità aziendale che partecipa ad una gara pubblica in Rti.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di imprese - In concordato con continuità aziendale – Art. 186-bis, r.d. n. 267 del 1942 – Violazione artt. 3, 41 e 97 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 41 e 97 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 186-bis, comma 6, r.d. 16.03.1942, n. 267 (aggiunto dall’art. 33, comma 1, lett. h, d.l. 22.06.2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 07.08.2012, n. 134), che disciplina il caso dell’operatore economico che, in stato di concordato con continuità aziendale, intenda partecipare ad una procedura di gara per l’affidamento di commesse pubbliche, nella forma del raggruppamento temporaneo di imprese (1).
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   (1) Ha affermato la Sezione che la questione di legittimità costituzionale come sopra posta appare non manifestamente infondata in relazione ai seguenti parametri:
      a) art. 3 Cost., dubitandosi della ragionevolezza della scelta del legislatore.
Per talune imprese l’affidamento di commesse pubbliche è fonte primaria di ricavi da (re)investire nell’attività imprenditoriale per superare lo stato di crisi; consapevole, il legislatore consente all’impresa in concordato con continuità la partecipazione alle procedure di gara con adeguate cautele, incentrate sulla prognosi circa le capacità (all’atto in cui interviene la richiesta) di dar attuazione all’impegno da assumere (o assunto) nei confronti della stazione appaltante.
Tale è la ratio della disciplina posta dal quarto e quinto comma dell’art. 186–bis della legge fallimentare e dal terzo comma dell’art. 110 del codice dei contratti pubblici: l’impresa può partecipare alla procedura di gara con l’autorizzazione del Tribunale su parere del commissario giudiziale, se nominato, qualora la richiesta di partecipazione intervenga successivamente al deposito del ricorso (comma 4°) ovvero, in caso sia già stata disposta l’ammissione al concordato, con l’autorizzazione del giudice delegato (art. 110, comma 3), o, comunque, con la relazione di un professionista attestante la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto e con la dichiarazione di altro operatore che si impegni a mettere a disposizione le risorse necessaria all’esecuzione dell’appalto per il caso di fallimento o di incapacità sopravvenuta all’esecuzione (comma 5).
A parere della Sezione non v’è ragione che giustifichi la differente disciplina per l’impresa che partecipi nella forma aggregata del raggruppamento temporaneo di impresa assumendo il ruolo di mandataria: anche per questa impresa i ricavi derivanti dall’esecuzione della parte di commessa pubblica possono consentire il superamento di una situazione di crisi.
Non pare giustificare un diverso trattamento la posizione che la mandataria assume nei confronti della stazione appaltante ove confrontata con quella dell’impresa che contratti uti singula: il mandatario, munito di mandato collettivo speciale con rappresentanza conferito dalle altre imprese costituenti il raggruppamento, “esprime l’offerta in nome e per conto proprio e dei mandanti” (art. 45, comma 2, lett. d) del codice dei contratti pubblici), ha “la rappresentanza esclusiva, anche processuale, dei mandanti nei confronti della stazione appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall’appalto, anche dopo il collaudo o atto equivalente fino alla estinzione di ogni rapporto” (art. 48, comma 15).
In sostanza, il mandatario del raggruppamento temporaneo contratta con la stazione appaltante come un operatore economico che abbia partecipato singolarmente, con la sola differenza che gli effetti dei suoi atti si riverberano nella sfera giuridica dei mandanti.
Allo stesso modo, non pare giustificare un diverso trattamento il regime di responsabilità dei mandatari nei confronti della stazione appaltante, posto che ai sensi dell’art. 48, comma 5, prima parte del codice dei contratti pubblici: “L’offerta degli operatori economici raggruppati o dei consorziati determina la loro responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante, nonché nei confronti del subappaltatore o dei fornitore” e che, pertanto, la stazione appaltante potrà richiedere al mandatario (ma anche a ciascuno dei mandanti) l’intera prestazione oggetto del contratto (art. 1292 Cod. civ.), come pure il risarcimento del danno in caso di inadempimento, e, siccome, normalmente, si tratterà di prestazione indivisibile (art. 1316 Cod. civ.), ove intenda richiedere l’esatto adempimento, dovrà rivolgere richiesta per intero ad una delle imprese (art. 1317 Cod. civ). Solo se uno dei mandanti ha assunto l’impegno all’esecuzione di lavori scorporabili ovvero prestazioni secondarie (in caso di servizi e forniture), il mandatario è responsabile solidalmente con il mandante la cui responsabilità è limitata all’esecuzione delle prestazioni di rispettiva competenza (seconda parte dell’art. 48, comma 5, citato).
Il regime di responsabilità del mandatario (come pure dei mandanti) è, dunque, identico a quello dell’impresa che abbia stipulato il contratto singolarmente e consiste nell’obbligo all’esecuzione per intero della prestazione in contratto o all’integrale risarcimento del danno per inadempimento.
      b) art. 41 Cost., costituendo il divieto contenuto nell’art. 186–bis, comma 6, legge fallimentare una limitazione alla autonomina privata dell’imprenditore che non può assumere la rappresentanza delle imprese mandanti e, in ultima analisi, non può rendersi parte di un contratto di appalto con un soggetto pubblico. Per questo l’imprenditore è limitato nel libero spiegarsi della sua capacità contrattuale.
La ragione è stata individuata nell’intento del legislatore di tutelare i creditori da scelte non ponderate dell’impresa in grado di aggravare lo stato di crisi esistente, e, da questo punto di vista, risponde all’utilità sociale di evitare la completa dispersione del patrimonio dell’imprenditore con conseguente impossibilità di soddisfazione dei creditori; tuttavia, l’impresa che è ammessa a concordato preventivo con continuità aziendale è impresa che, pur in stato di crisi, è in grado di continuare ad operare sul mercato proponendo beni e servizi, ed anzi, mediante la continuazione dell’attività, potenzialmente di rientrare dalla situazione di difficoltà medio tempore vissuta.
Risponde, allora, all’utilità sociale non già limitarne la sua libertà contrattuale, ma anzi favorirne il massimo dispiegarsi, per l’acquisizione di clientela di sicura solvibilità, come è il soggetto pubblico, e, così giovarsi di denaro da reimpiegare nell’attività di impresa. Per queste considerazioni, la limitazione all’autonomia privata finisce coll’essere ingiustificata e in contrasto con il dettato costituzionale.
      c) art. 97 Cost., trovando il principio di buon andamento dell’azione amministrativa attuazione nella materia dei contratti pubblici con gli obblighi di evidenza pubblica, legislativamente considerati il mezzo per la selezione del contraente migliore. Rispetto al fondamento normativo così evidenziato, il divieto posto dall’art. 186–bis, comma 6, legge fallimentare alla partecipazione ad una procedura di gara del mandatario in concordato preventivo con continuità aziendale determina una ingiustificata limitazione del potere di scelta spettante in via generale alle pubbliche amministrazioni, che non potrà, per questa sola ragione, contrattare con un’impresa che potrebbe rivelarsi la più qualificata e capace ad eseguire la commessa (o parte della commessa) posta a gara, e nei cui confronti gli organi della procedura concorsuale esprimano un giudizio di compatibilità di tale partecipazione rispetto alla sua situazione economico-patrimoniale e di convenienza per i creditori (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.06.2019 n. 3938 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL'onere di dimostrare l'epoca di realizzazione di una costruzione grava sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale –in presenza di un'opera edilizia sine titulo– ha solo il potere-dovere di sanzionarla e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento demolitorio: in tali ipotesi, spetta, cioè, al ricorrente fornire prova inconfutabile, ai sensi degli artt. 63 comma 1, e 64 comma 1, cod. proc. amm., in relazione a circostanze che rientrano nella sua disponibilità.
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L
’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore.
A ripudio, poi, della censura di omessa comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990, rammenta il Collegio che l’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.

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Al riguardo, giova rammentare che, in omaggio al principio di vicinanza della prova, l'onere di dimostrare l'epoca di realizzazione di una costruzione grava sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale –in presenza di un'opera edilizia sine titulo– ha solo il potere-dovere di sanzionarla e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento demolitorio: in tali ipotesi, spetta, cioè, al ricorrente fornire prova inconfutabile, ai sensi degli artt. 63 comma 1, e 64 comma 1, cod. proc. amm., in relazione a circostanze che rientrano nella sua disponibilità (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2782/2014; n. 511/2016; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5212/2017; Salerno, sez. I, n. 951/2018; Napoli sez. VI, n. 4769/2018);
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9. Neppure accreditabile è la censura di deficit motivazionale quanto alla ponderazione tra l’interesse pubblico alla rimozione e l’antagonista interesse privato alla conservazione del manufatto contestato (cfr. retro, sub n. 3.b),
Ed invero, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore (cfr., ex multis, Cons. Stato, ad. plen., n. 9/2017; sez. IV, n. 3955/2010; sez. V, n. 79/2011; sez. IV, n. 2592/2012; sez. V, n. 2696/2014; sez. VI, n. 3210/2017; TAR Campania, sez. VI, n. 17306/2010; sez. VII, n. 22291/2010; sez. VIII, n. 4/2011; n. 1945/2011; sez. III, n. 4624/2016; n. 5973/2016; sez. VI, n. 2368/2017; sez. VIII, n. 2870/2017; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1962/2010; n. 2631/2010; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 4164/2010; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 35404/2010; TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 432/2011).
10. A ripudio, poi, della censura di omessa comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990 (cfr. retro, sub n. 3.c), rammenta il Collegio che l’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 6071/2012; sez. VI, n. 2873/2013; n. 4075/2013; sez. V, n. 3438/2014; sez. III, n. 2411/2015; sez. VI, n. 3620/2016; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 107/2015; Salerno, sez. II, n. 69/2015; Napoli, sez. IV, n. 685/2015; sez. II, n. 1534/2015; Salerno, sez. II, n. 664/2015; n. 1036/2015; Napoli, sez. III, n. 4392/2015; n. 4968/2015; sez. VIII, n. 1767/2016; sez. IV, n. 4495/2016; n. 4574/2016; sez. III, n. 121/2017; n. 677/2017; sez. VI, n. 995/2017; sez. IV, n. 2320/2017; sez. VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5967/2017; Salerno, sez. II, n. 24/2018; Napoli, sez. III, n. 898/2018; n. 1093/2018; sez. IV, n. 1434/2018; n. 1719/2018; n. 2241/2018; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 2098/2015; n. 10829/2015; n. 10957/2015; n. 2588/2016; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1708/2016; n. 1552/2017)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.06.2019 n. 981 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una veranda necessita del rilascio di un permesso di costruire, trattandosi di opera non precaria perché stabilmente infissa al suolo e tale da determinare, sotto il profilo edilizio, un aumento di volumetria, oltre che di superficie e sagoma.
Cosicché del tutto legittima si rivela l'ordinanza di demolizione dell'opera eseguita in assenza del prescritto titolo edilizio, non essendo configurabile il più mite trattamento della sanzione pecuniaria di cui all'art. 37 del d.p.r. n. 380/2001, previsto per la sola ipotesi di interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA.

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11. Ancora, la ricorrente non può fondatamente dolersi della circostanza che l’amministrazione comunale non avrebbe valutato la sussistenza degli estremi applicativi della sanzione pecuniaria in rapporto alla tipologia di abuso riscontrato (cfr. retro, sub n. 3.d).
Come osservato, in argomento, dalla Sezione, la realizzazione di una veranda quale, segnatamente, quella controversa (cfr. documentazione fotografica depositata in giudizio dal Comune di Cetara in assolvimento dell’incombente istruttorio impartito con ordinanza collegiale n. 2364 del 28.10.2016) necessita, infatti, del rilascio di un permesso di costruire, trattandosi di opera non precaria perché stabilmente infissa al suolo e tale da determinare, sotto il profilo edilizio, un aumento di volumetria, oltre che di superficie e sagoma; cosicché del tutto legittima si rivela l'ordinanza di demolizione dell'opera eseguita in assenza del prescritto titolo edilizio, non essendo configurabile il più mite trattamento della sanzione pecuniaria di cui all'art. 37 del d.p.r. n. 380/2001, previsto per la sola ipotesi di interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA (TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 771/2018; cfr., in tan senso, anche Cons. Stato, sez. VI, n. 306/2017; n. 1893/2018; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 1181/2012; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 3069/2014)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.06.2019 n. 981 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIAccesso civico generalizzato possibile su qualsiasi atto riguardante gli appalti pubblici.
L'accesso civico generalizzato si deve applicare a ogni atto afferente l'appalto pubblico. Tale forma di accesso non può ritenersi limitata da norme preesistenti (e non coordinate con il nuovo istituto), come quelle della legge 241/1090, ma soltanto dalle prescrizioni «speciali» e interpretabili restrittivamente, che la stessa nuova normativa ha introdotto al suo interno.

In questi termini l'importante sentenza 05.06.2019 n. 3780 del Consiglio di Stato, Sez. V.
Il contrasto in giurisprudenza
Il giudice di Palazzo Spada interviene in tema di rapporti tra l'accesso civico generalizzato e gli atti dell'appalto fornendo un riscontro condivisibile alla problematica e, al contempo, risolvendo i dubbi sorti nella giurisprudenza di primo grado.
Il collegio dà conto di due differenti letture della problematica. Secondo un primo indirizzo i documenti afferenti alle procedure di affidamento ed esecuzione di un appalto sono esclusivamente sottoposti alla disciplina prevista dall'articolo 53 del Dlgs 50/2016 e pertanto restano esclusi dall'accesso civico generalizzato regolato invece dall'articolo 5, comma 2, del Dlgs 33/2013 (Tar Emilia- Romagna, Parma, n. 197/2018; Tar Lombardia, Milano, n. 630/2019).
Secondo un diverso orientamento, invece, dovrebbe riconoscersi l'applicabilità della disciplina dell'accesso civico generalizzato anche alla materia degli appalti pubblici (da ultimo la sentenza del Tar Lombardia n. 45/2019).
Per decidere in maniera corretta, quindi, il giudice ritiene che si debba muovere dalla lettura coordinata e dalla interpretazione funzionale degli articoli 53 del Dlgs 50/2016, che rinvia alla disciplina prevista dall'articolo 22 e seguenti della legge n. 241/1990, e dell'articolo 5 bis, comma 3, Dlgs 33/2013. La disamina parte dal dato oggettivo secondo cui «il legislatore, attraverso l’introduzione dell’accesso civico generalizzato» ha inteso consentire l'accesso ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, «ulteriori a quelli oggetto di pubblicazione, a “chiunque”, prescindendo da un interesse manifesto».
Il consiglio di Stato
Condividendo il ragionamento dell'appellante, in sentenza si precisa che l'articolo 5 bis, comma 3 del Dlgs n. 33/2013, nel momento in cui precisa che l'accesso civico generalizzato è escluso fra l'altro nei casi previsti dalla legge «ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti» intende far riferimento a «specifiche condizioni, modalità e limiti» ma non a intere «materie».
Se così non fosse, l'obiettivo del legislatore risulterebbe completamente frustrato con la consenguente esclusione dell'intera materia relativa ai contratti pubblici «da una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione». Impendendo sul nascere, in questo modo, «quelle forme diffuse di controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» che si intende promuovere e alimentare a fini preventivi di comportamenti patologici.
Le esclusioni ammissibili, dall'ambito di applicabilità dell'accesso civico generalizzato (come anche emerge dal parere 515/2016 del Consiglio di Stato), sono solamente quelle stabilite dal legislatore , per esempio «quelle relative alla politica estera o di sicurezza nazionale», ma al di fuori di queste situazioni – non estensibili analogicamente – possono insistere solamente dei «casi» specifici. Situazione non ricorrente nel caso di specie, trattandosi di appalto a prestazioni «standardizzate» con richiesta di accesso intervenuta una volta conclusa la procedura di gara e quindi in assenza di esigenze di tutela della par condicio.
Il collegio, prosegue la sentenza, non ritiene che il richiamo, considerato invece decisivo dalla giurisprudenza di primo grado, all'articolo 53 del Codice dei contratti nella parte in cui esso rinvia alla disciplina degli articoli 22 e seguenti della legge 241/1990 «possa condurre alla generale esclusione dell’accesso civico della materia degli appalti pubblici».
È evidente che il Dlgs n. 97/2016, successivo sia al codice dei contratti, sia alla legge n. 241/1990, sconta un mancato coordinamento con quest'ultima normativa, sul procedimento amministrativo, «a causa del non raro difetto, sulla tecnica di redazione ed il coordinamento tra testi normativi, in cui il legislatore incorre».
L'ultimo inciso è che nella richiesta di ostensione (il contratto stipulato con l'aggiudicataria; i preventivi dettagliati, i collaudi, i pagamenti «con la relativa documentazione fiscale dettagliata«), la stazione appaltante dovrà prestare particolare attenzione consentendo l'accesso soltanto alla documentazione –inclusa quella fiscale– strettamente relativa alla procedura di gara per cui è richiesto l’accesso civico, e alla esecuzione dell’appalto» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.06.2019).

APPALTIAccesso civico agli atti di gara da parte di soggetto non concorrente.
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Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Accesso civico su atti di gara – Da parte di soggetto non concorrente – Possibilità.
L’accesso civico può essere esercitato anche con riferimento agli atti di gara pubblica da parte di un soggetto che non ha partecipato alla procedura (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 53 del codice dei contratti pubblici, come già chiarito, richiama al primo comma la disciplina contenuta nella l. n. 241 del 1990, mentre nel secondo elenca una serie di prescrizioni riguardanti il differimento dell’accesso in corso di gara. L’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, stabilisce, invece che l’accesso civico generalizzato è escluso fra l’altro nei casi previsti dalla legge “ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”.
Tale ultima prescrizione fa riferimento, nel limitare tale diritto, a “specifiche condizioni, modalità e limiti” ma non ad intere “materie”. Diversamente interpretando, significherebbe escludere l’intera materia relativa ai contratti pubblici da una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione.
Entrambe le discipline, contenute nel d.lgs. n. 50 del 2016 e nel d.lgs. n. 33 del 2013, mirano all’attuazione dello stesso, identico principio e non si vedrebbe per quale ragione, la disciplina dell’accesso civico dovrebbe essere esclusa dalla disciplina dei contratti pubblici. D’altro canto, il richiamo contenuto nel primo comma, del citato art. 53 Codice dei contratti, alla disciplina del c.d. accesso “ordinario” di cui agli artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 è spiegabile alla luce del fatto che il d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è anteriore al d.lgs. 25.05.2016, n. 67 modificativo del d.lgs. n. 33 del 2013.
Il d.lgs. 25.05.2016 n. 97, che ha introdotto l’accesso civico novellando l’art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013, si è dichiaratamente ispirato al cd. “Freedom of information act” che, nel sistema giuridico americano, ha da tempo superato il principio dei limiti soggettivi all’accesso, riconoscendolo ad ogni cittadino, con la sola definizione di un numerus clausus di limiti oggettivi, a tutela di interessi giuridicamente rilevanti, che sono appunto precisati nello stesso art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013.
L’intento del legislatore delegato è stato quello di “favorire forme diffuse di controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, promuovendo così “la partecipazione al dibattito pubblico” (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.06.2019 n. 3780 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
L’appello è fondato.
In linea generale va premesso che il legislatore, attraverso l’introduzione dell’accesso civico generalizzato, ha voluto consentire l’accesso ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori a quelli oggetto di pubblicazione, a “chiunque”, prescindendo da un interesse manifesto. Tale istituto di portata generale, tuttavia non è esente da alcune limitazioni rinvenibili sia in quanto stabilito nell’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 33/2013, sia nella scelta del legislatore di far rimanere in vita gli artt. 22 e ss. della l. 241/1990 relativi all’accesso c.d. “ordinario”.
Nella fattispecie in esame la richiesta di accesso civico generalizzato riguarda gli atti di una procedura di gara ormai definita; in particolare il Consorzio ha chiesto l’ostensione dei seguenti documenti: la documentazione dei singoli atti della procedura; il contratto stipulato con l’aggiudicataria; i preventivi dettagliati, i collaudi, i pagamenti “con la relativa documentazione fiscale dettagliata”.
In casi del genere si tratta di stabilire se l’art. 53 del codice dei contratti il quale stabilisce “il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241” possa condurre alla esclusione della disciplina dell’accesso civico ai sensi del comma 3 dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 33/2013, ai sensi del quale “il diritto di cui all’art. 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’art. 24, comma 1, della l. 241/1990”.
La giurisprudenza amministrativa formatasi innanzi ai TAR, sul punto non è univoca registrandosi diversi orientamenti.
Secondo un primo indirizzo i documenti afferenti alle procedure di affidamento ed esecuzione di un appalto sono esclusivamente sottoposti alla disciplina di cui all’art. 53 d.lgs. 50/2016 e pertanto restano esclusi dall’accesso civico c.d. generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013 (TAR Emilia- Romagna, Parma, n. 197/2018; TAR Lombardia, Milano, I, n. 630/2019).
Secondo un diverso orientamento, di contro, dovrebbe riconoscersi l’applicabilità della disciplina dell’accesso civico generalizzato anche alla materia degli appalti pubblici (da ultimo, TAR Lombardia, sez. IV, n. 45/2019).
Ritiene il Collegio che ai fini di una corretta decisione, si debba muovere dalla lettura coordinata e dalla interpretazione funzionale degli art. 53 d.lgs. 50/2016, che rinvia alla disciplina di cui all’art. 22 e seguenti della legge n. 241/1990, e dell’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. 33/2013.
L’art. 53 del codice dei contratti pubblici, come già chiarito, richiama al primo comma la disciplina contenuta nella l. 241/1990, mentre nel secondo elenca una serie di prescrizioni riguardanti il differimento dell’accesso in corso di gara. L’art. 5-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33/2013, stabilisce, invece che l’accesso civico generalizzato è escluso fra l’altro nei casi previsti dalla legge “ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”.
Come correttamente ritenuto da parte appellante, tale ultima prescrizione fa riferimento, nel limitare tale diritto, a “specifiche condizioni, modalità e limiti” ma non ad intere “materie”. Diversamente interpretando, significherebbe escludere l’intera materia relativa ai contratti pubblici da una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione. Entrambe le discipline, contenute nel d.lgs. 50/2016 e nel d.lgs. 33/2013, mirano all’attuazione dello stesso, identico principio e non si vedrebbe per quale ragione, la disciplina dell’accesso civico dovrebbe essere esclusa dalla disciplina dei contratti pubblici. D’altro canto, il richiamo contenuto nel primo comma, del citato art. 53 Codice dei contratti, alla disciplina del c.d. accesso “ordinario” di cui agli artt. 22 e ss. della l. 241/1990 è spiegabile alla luce del fatto che il d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è anteriore al d.lgs. 25.05.2016, n. 67 modificativo del d.lgs. 33/2013.
Il d.lgs. 25.05.2016 n. 97, che ha introdotto l’accesso civico novellando l’art. 5 d.lgs. n. 33/2013, si è dichiaratamente ispirato al cd. “Freedom of information act” che, nel sistema giuridico americano, ha da tempo superato il principio dei limiti soggettivi all’accesso, riconoscendolo ad ogni cittadino, con la sola definizione di un “numerus clausus” di limiti oggettivi, a tutela di interessi giuridicamente rilevanti, che sono appunto precisati nello stesso art. 5, co. 2, d.lgs. n. 33/2013.
L’intento del legislatore delegato è stato quello di “favorire forme diffuse di controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, promuovendo così “la partecipazione al dibattito pubblico”.
La “ratio” dell’intervento è stata declinata in tutte le sue implicazioni da questo Consiglio di Stato (cfr. Commiss. Speciale 24.02.2016 n. 515) il quale, nell’esprimere il proprio parere favorevole sullo schema di decreto legislativo, ha apprezzato, tra gli altri, due aspetti, che assumono rilevanza ai fini della presente decisione:
   A) Il primo aspetto, cioè la già sottolineata limitazione soltanto oggettiva dell’accesso civico, comporta che, oltre alle specifiche “materie” sottratte –ad esempio quelle relative alla politica estera o di sicurezza nazionale– vi possono essere “casi” in cui, per una materia altrimenti compresa per intero nella possibilità di accesso, norme speciali (ovvero l’art. 24, co. 1, L. 241/1990) possono prevedere “specifiche condizioni, modalità e limiti”.
Deriva da tale principio anzitutto che l’ambito delle materie sottratte debba essere definito senza possibilità di estensione o analogia interpretativa.
In secondo luogo, dal medesimo principio –ricavabile dalla testuale interpretazione dell’art. 5-bis, co. 3, d.lgs. n. 33/2013 come novellato– discende la regola, ben chiara ad avviso del Collegio, per cui, ove non si ricada in una “materia” esplicitamente sottratta, possono esservi solo “casi” in cui il legislatore pone specifiche limitazioni, modalità o limiti.
Non ritiene il Collegio che il richiamo, ritenuto decisivo dal primo giudice, all’art. 53 del “Codice dei contratti” nella parte in cui esso rinvia alla disciplina degli artt. 22 e seguenti della l. 241/1990, possa condurre alla generale esclusione dell’accesso civico della materia degli appalti pubblici.
E’ evidente che il citato d.lgs. n. 97/2016, successivo sia al “Codice dei contratti” che –ovviamente– alla legge n. 241/90, sconta un mancato coordinamento con quest’ultima normativa, sul procedimento amministrativo, a causa del non raro difetto, sulla tecnica di redazione ed il coordinamento tra testi normativi, in cui il legislatore incorre.
Non può, dunque, ipotizzarsi una interpretazione “statica” e non costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti in materia di accesso allorché, intervenuta la disciplina del d.lgs 97/2016, essa non risulti correttamente coordinata con l’art. 53 codice dei contratti e con la ancor più risalente normativa generale sul procedimento: sarebbe questa, opinando sulla scia della impugnata sentenza, la strada per la preclusione dell’accesso civico ogniqualvolta una norma di legge si riferisca alla procedura ex artt. 22 e seguenti L. 241/1990.
Ritiene, viceversa, il Collegio, che una interpretazione conforme ai canoni dell’art. 97 Cost. debba valorizzare l’impatto “orizzontale” dell’accesso civico, non limitabile da norme preesistenti (e non coordinate con il nuovo istituto), ma soltanto dalle prescrizioni “speciali” e interpretabili restrittivamente, che la stessa nuova normativa ha introdotto al suo interno.
   B) Il secondo aspetto, che il citato parere Comm. Speciale 515/2016 di questo Consiglio ha sottolineato, e che risulta utile ai fini della presente decisione, è che la normativa sull’accesso civico non ha certo regolato positivamente il diritto di chiunque ad accedere agli atti per mera curiosità o per accaparrarsi dati sensibili a lui utili relativi ad ambiti di una impresa concorrente e coperti dalla ordinaria “segretezza aziendale”.
Proprio con riferimento alle procedure di appalto, la possibilità di accesso civico, una volta che la gara sia conclusa e viene perciò meno la tutela della “par condicio” dei concorrenti, non risponde soltanto ai canoni generali di “controllo diffuso sul perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 5, co. 2, cit. d.lgs. 33).
Vi è infatti, a rafforzare in materia l’ammissibilità dell’accesso civico, una esigenza specifica e più volte riaffermata nell’ordinamento statale ed europeo, e cioè il perseguimento di procedure di appalto trasparenti anche come strumento di prevenzione e contrasto della corruzione.
Il richiamato parere n. 515/2016, con argomenti che trovano nella materia degli appalti un terreno privilegiato, ha correttamente osservato: “La trasparenza si pone come un valore-chiave, in grado di poter risolvere uno dei problemi di fondo della pubblica amministrazione italiana: quello di coniugare garanzie ed efficienza nello svolgimento dell’azione amministrativa. Tale valore può essere riguardato […] come modo d’essere tendenziale dell’organizzazione dei pubblici poteri […].
In altri termini, se l’interesse pubblico –inteso tecnicamente come “causa” dell’atto e del potere amministrativo– non può più essere rigidamente predeterminato e imposto, ma costituisce in concreto la risultante di un processo di formazione cui sono chiamati a partecipare sempre più attivamente i componenti della comunità, occorre anche “rendere visibile” il modo di formazione dell’interesse medesimo, i soggetti che vi concorrono […] nonché rendere conoscibili i dati di base, i presupposti da cui si muove, i modi di esercizio del potere, ivi comprese le risorse utilizzate
”.
Tali principi trovano, sempre in materia, significativa conferma nella posizione chiara della Commissione Europea, che nella relazione concernente il contrasto alla corruzione in ogni ambito, sottolinea la necessità che l’ordinamento italiano promuova la trasparenza in ogni ambito, e particolarmente negli appalti pubblici “prima” ma anche “dopo l’aggiudicazione”.
A tali linee, poi, si è ispirato il Piano Nazionale Anticorruzione, proprio a partire dal 2016, anno di entrata in vigore del d.lgs. introduttivo dell’accesso civico.
Dal richiamo, sub A) e B) a principi generali ormai applicabili necessariamente a tutti i settori e materie –salve le specifiche esclusioni- dell’azione delle pubbliche amministrazioni, deriva che, contrariamente a quanto stabilito dalla sentenza appellata, l’appellante abbia diritto ad accedere agli atti della procedura di appalto a cui non ha partecipato, per le ragioni che seguono in rapporto agli specifici ostacoli preclusivi posti dalla resistente A.S.L. di Parma:
   1) Del tutto privo di pregio è il riferimento alla asserita “voluminosità” della documentazione di gara. Anzitutto perché l’appellante ha richiesto di accedere ad una specifica procedura, e poi perché il riferimento a disagi e lunghe tempistiche per l’ostensione degli atti configura proprio quel tentativo di “opaca schermatura”, nascosto dietro non dimostrati disagi pratici, che l’accesso civico ha inteso eliminare per sempre;
   2) La natura degli atti da esibire, consistenti perlopiù nella documentazione amministrativa e contabile, incluse le fatture pagate all’aggiudicatario, esclude qualsiasi compromissione di segreti del processo industriale della società che esegue l’appalto.
Per quanto riguarda gli importi liquidati all’esecutore dell’appalto, si tratta di dati che devono essere resi pubblici dalle stazioni appaltanti, sicché altrettanto ostensibili devono ritenersi i documenti contabili da cui si ricavano gli importi stessi.
Infine, osserva il Collegio, che l’oggetto dell’appalto in questione si configura come prestazione standardizzata e altamente ripetitiva, giacché nella realtà contemporanea la manutenzione e riparazione dei veicoli avviene con tecniche ed interventi che ciascuna ditta produttrice del veicolo indica con puntualità, a partire dai “libretti di manutenzione” consegnati all’atto della vendita.
Pertanto, nessun –dimostrato o ipotizzabile– vulnus a segreti commerciali o industriali può prodursi nella concreta fattispecie all’esame del Collegio.
Resta, ovviamente, la cautela che l’Amministrazione dovrà esercitare con specifico riferimento alla “documentazione fiscale” della società aggiudicataria, avendo riguardo l’ostensione consentita soltanto alla documentazione -inclusa quella fiscale– strettamente relativa alla procedura di gara per cui è richiesto l’accesso civico, e alla esecuzione dell’appalto affidata al Consorzio aggiudicatario.
Conclusivamente, in relazione alle considerazioni svolte, deve essere accolto l’appello, con la conseguente doverosa ostensione, da parte dell’Amministrazione, della documentazione di gara e della fase esecutiva dell’appalto aggiudicato, per la procedura di gara in questione.

EDILIZIA PRIVATAL'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo idoneo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge, e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
Pertanto, spetta a chi agisce in giudizio fornire gli elementi probatori a favore della propria tesi: è dunque onere del privato fornire la prova dello status quo ante, atteso che l'amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all'interno del suo territorio.
Detto in altri termini, chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza.

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Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
In primo luogo, con riferimento al fabbricato rurale, parte ricorrente sostiene che lo stesso è stato realizzato negli anni ‘20 sicché il Comune non avrebbe dovuto rigettare l’istanza proposta, ma al più dichiarare la inammissibilità per insussistenza del presupposto della abusività del manufatto.
L’assunto non può essere accolto in assenza di dimostrazione alcuna circa l’epoca di realizzazione del manufatto, il cui onere incombeva sull’interessato.
L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo idoneo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge, e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione. Pertanto, spetta a chi agisce in giudizio fornire gli elementi probatori a favore della propria tesi: è dunque onere del privato fornire la prova dello status quo ante, atteso che l'amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all'interno del suo territorio.
Detto in altri termini, chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 940 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per l’identificazione dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con l’utilizzo della costruzione.
Il secondo
e il terzo hanno carattere negativo e sono collegati: all’impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui tali volumi devono essere ubicati solo all’esterno; ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche solo potenziale.

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Non colgono nel segno neppure le censure con cui parte ricorrente ritiene che, quanto all’opificio artigianale, le relative opere possono essere qualificate come volumi tecnici.
Come già rilevato di recente dalla Sezione (sent.1042/2018), la definizione dei volumi tecnici si rinviene nella circolare dell’allora Ministero dei Lavori pubblici n. 2474 del 1973, secondo cui si tratta dei volumi «strettamente necessari a contenere e a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche».
La circolare precisa che la definizione «può trovare applicazione soltanto nei casi in cui i volumi tecnici non siano diversamente definiti o disciplinati dalle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune» e che, in ogni caso, la loro sistemazione «non deve costituire pregiudizio per la validità estetica dell’insieme architettonico»,
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, da quale non vi è motivo per discostarsi (TAR Napoli n. 3490/2015 e n. 4132/2013; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 175/2015 e n. 1512/2014; Consiglio di giustizia amministrativa, sentenza n. 207/2014), per l’identificazione dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con l’utilizzo della costruzione. Il secondo e il terzo hanno carattere negativo e sono collegati: all’impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui tali volumi devono essere ubicati solo all’esterno; ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche solo potenziale.
Nella specie, i presupposti su indicati non risultano affatto dimostrati dal ricorrente.
In definitiva, il provvedimento impugnato sfugge alle censure rassegnate nel ricorso, il quale deve essere rigettato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 940 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici "et similia", ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
I giudici d’appello hanno puntualizzato che <<La giurisprudenza di questo Consiglio è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume". Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio": salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma>>.
Questo TAR ha statuito che, “sulla base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale:
   - la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce;
   - a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico”.
Altresì, si è precisato che “il carattere pertinenziale rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate identificative:
   - opere che non comportino un nuovo volume;
   - opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così come definito ai fini urbanistici …)”.
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Le ricorrenti censurano l’ordine di demolizione del manufatto abusivo realizzato in aderenza al capannone industriale preesistente.
1. Osserva il Collegio che la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici "et similia", ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 10/11/2017 n. 5180 e l’ampia giurisprudenza citata).
Nella menzionata pronuncia i giudici d’appello hanno puntualizzato che <<La giurisprudenza di questo Consiglio è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.). Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI, 24 luglio 2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma>>.
1.1 Questo TAR (cfr. sez. I – 29/11/2018 n. 1141) ha statuito che, “sulla base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014 n. 4290; nonché TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 21.09.2018 nn. 884 e 887; 22.01.2018 n. 22; 11.12.2017 n. 1425):
   - la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce (Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2012 n. 615);
   - a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico (Cons. Stato, sez. V, 31.12.2008 n. 6756 e 13.06.2006 n. 3490)
”.
La stessa pronuncia ha poi precisato che “il carattere pertinenziale rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate identificative:
   - opere che non comportino un nuovo volume;
   - opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così come definito ai fini urbanistici …)
” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' necessario il permesso di costruire "per la realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite".
Invero:
   - "Una tettoia ancorata al suolo e di notevole dimensioni è idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione necessitante di titolo edilizio";
   - "La tettoia necessita di un idoneo titolo allorché esula dai minimi contenuti che può avere un piccolo riparo aperto da tre lati, sì che essa costituisce spazio edificabile a tutti gli effetti quando viene realizzato un vero e proprio ambiente fruibile in via continuativa";
   - "Una tettoia avente carattere di stabilità e idonea ad una utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerata una mera pertinenza, non può ricadere nell'ambito dell'attività edilizia libera, costituendo un'opera esterna per la cui realizzazione occorre un idoneo titolo edilizio. Alla medesima conclusione si può addivenire anche tenendo ferma la natura pertinenziale del manufatto, considerata l'idoneità di questo ad incidere sull'assetto edilizio preesistente".
Altresì, “la realizzazione di tettoie, peraltro di non ridotte dimensioni come nel caso della tettoia in legno annessa al fabbricato, comportando trasformazione edilizia del territorio (ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380 del 2001), si caratterizza quale intervento di nuova costruzione a tutti gli effetti, con ogni conseguenza in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve pertanto essere individuato nel permesso di costruire: la mancanza del previo permesso legittima, quindi, l'applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, la quale costituisce atto dovuto per l'amministrazione comunale. Né è invocabile l'applicabilità, per la tettoia in questione, del sistema sanzionatorio contemplato dall'art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, caratterizzato dall'eventuale comminatoria della sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione, giacché tale sistema si attaglia propriamente agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, mentre nella specie si tratta di opera posta in essere in totale assenza di permesso di costruire”.
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Il porticato chiuso su due lati reca un incremento della volumetria dell'immobile, e per questo è ascrivibile alla categoria della nuova costruzione soggetta a permesso di costruire ed al relativo regime sanzionatorio.
Invero:
   - "Un porticato terrazzato chiuso lateralmente su due lati e destinato ad ospitare arredi fissi configura un organismo edilizio avente natura e consistenza tali da ampliare in superficie o volume l'edificio preesistente e, pertanto, per la sua realizzazione è necessario ottenere un permesso di costruire";
   - "Un porticato, per il suo carattere trasformativo ed innovativo rispetto a quello manutentivo e conservativo, comporta un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, idoneo con riguardo al tipo di copertura ed alla presenza del parapetto a svolgervi varie attività della vita quotidiana, in quanto tale comportante nuova volumetria, nuova superficie utile e quindi, per la sua realizzazione, il previo rilascio del permesso di costruire in mancanza del quale costituisce abuso edilizio".
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2. Prendendo in specifica considerazione le “tettoie”, si è di recente precisato che è necessario il permesso di costruire <<"per la realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite" (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 29/05/2018, n. 3545); "Una tettoia ancorata al suolo e di notevole dimensioni è idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione necessitante di titolo edilizio" (TAR Piemonte, Sez. II, 09/05/2018, n. 550); "La tettoia necessita di un idoneo titolo allorché esula dai minimi contenuti che può avere un piccolo riparo aperto da tre lati, sì che essa costituisce spazio edificabile a tutti gli effetti quando viene realizzato un vero e proprio ambiente fruibile in via continuativa" (TAR Liguria, Sez. I, 10/04/2018, n. 310); "Una tettoia avente carattere di stabilità e idonea ad una utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerata una mera pertinenza, non può ricadere nell'ambito dell'attività edilizia libera, costituendo un'opera esterna per la cui realizzazione occorre un idoneo titolo edilizio. Alla medesima conclusione si può addivenire anche tenendo ferma la natura pertinenziale del manufatto, considerata l'idoneità di questo ad incidere sull'assetto edilizio preesistente" (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 11/01/2018, n. 40)>> (TAR Campania Salerno, sez. II – 02/01/2019 n. 1).
2.1 Secondo TAR Campania-Napoli, sez. II – 19/02/2019 n. 933, “la realizzazione di tettoie, peraltro di non ridotte dimensioni come nel caso della tettoia in legno annessa al fabbricato, comportando trasformazione edilizia del territorio (ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380 del 2001), si caratterizza quale intervento di nuova costruzione a tutti gli effetti, con ogni conseguenza in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve pertanto essere individuato nel permesso di costruire: la mancanza del previo permesso legittima, quindi, l'applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, la quale costituisce atto dovuto per l'amministrazione comunale (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. IV, 14.09.2016 n. 4310; TAR Campania Napoli, Sez. III, 28.04.2016 n. 2167). Né è invocabile l'applicabilità, per la tettoia in questione, del sistema sanzionatorio contemplato dall'art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, caratterizzato dall'eventuale comminatoria della sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione, giacché tale sistema si attaglia propriamente agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, mentre nella specie si tratta di opera posta in essere in totale assenza di permesso di costruire”.
3. Contrariamente a quanto opinato dalla parte ricorrente, l’ampia tettoia avente copertura metallica con pannelli coibentati in lamiera non è assimilabile a una mera pertinenza del fabbricato principale abusivo, configurandosi invece come un manufatto autonomo e impattante il quale, comportando una trasformazione del territorio, necessitava del preventivo rilascio del permesso di costruire.
3.1 Ad avviso del Collegio, sotto il profilo quantitativo/dimensionale si configura una costruzione di rilevanti dimensioni (244,59 mq. nella prospettazione di parte ricorrente) che occupa una vasta superficie (lunghezza tra 8,50 e 9,30 metri, profondità di 9,30 metri, altezza di 7 metri – cfr. relazione tecnica degli esponenti di cui al doc. 4) ed è per questo idonea a modificare in maniera sensibile l'esistente assetto territoriale. La relazione evocata dà conto del suo utilizzo per attività di carico e scarico della merce prodotta e depositata, per cui è percepibile un oggettivo collegamento funzionale tra il manufatto e l'edificio principale; l’opera, tuttavia, non ha natura precaria essendo stabilmente ancorata al suolo e addossata al capannone, incrementa il carico urbanistico in maniera incisiva, ed è dotata di un valore di mercato non esiguo.
3.2 Il porticato risulta, oltretutto, chiuso su due lati, recando un incremento della volumetria dell'immobile, e per questo è ascrivibile alla categoria della nuova costruzione soggetta a permesso di costruire ed al relativo regime sanzionatorio: come ha rammentato TAR Calabria Catanzaro, sez. II – 06/03/2019 n. 500 <<"Un porticato terrazzato chiuso lateralmente su due lati e destinato ad ospitare arredi fissi configura un organismo edilizio avente natura e consistenza tali da ampliare in superficie o volume l'edificio preesistente e, pertanto, per la sua realizzazione è necessario ottenere un permesso di costruire" (TAR Salerno, Sez. II, 13.03.2018 n. 386); in senso conforme TAR Catanzaro, Sez. I, 10.11.2012 n. 1087); "Un porticato, per il suo carattere trasformativo ed innovativo rispetto a quello manutentivo e conservativo, comporta un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, idoneo con riguardo al tipo di copertura ed alla presenza del parapetto a svolgervi varie attività della vita quotidiana, in quanto tale comportante nuova volumetria, nuova superficie utile e quindi, per la sua realizzazione, il previo rilascio del permesso di costruire in mancanza del quale costituisce abuso edilizio" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.10.2010 n. 7481)>> (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, "Per giustificare l'ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale".
Non risulta perciò necessaria una specifica motivazione sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione e l'individuazione dell'area oggetto di ablazione del diritto di proprietà dell'interessato può evincersi anche dalla descrizione degli interventi sanzionati, salvo che la superficie da acquisire sia maggiore di quella coincidente con il sedime delle opere abusive, nel qual caso l'individuazione di un'area ulteriore da acquisire deve essere puntuale e giustificata dall'indicazione delle opere necessarie ai fini urbanistici-edilizi.
Secondo il prevalente e condivisibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa, <<l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito dell'ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l'Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto. Trattasi, quindi, "di precisazione che l'Amministrazione è tenuta a fare in seguito, ovvero all'atto dell'adozione (eventuale) del successivo provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale">>.
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5. Sulla questione dell’area di sedime, come ha sottolineato TAR Toscana, sez. III – 11/03/2019 n. 343, <<Per giurisprudenza costante, "Per giustificare l'ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale" (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 31.07.2017, n. 4013; in senso analogo T.A.R. Campania Napoli Sez. II, 21.07.2017, n. 3888; TAR Campania Salerno Sez. I, 20.07.2017, n. 1252). Non risulta perciò necessaria una specifica motivazione sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione e l'individuazione dell'area oggetto di ablazione del diritto di proprietà dell'interessato può evincersi anche dalla descrizione degli interventi sanzionati (TAR Lazio, sez. II, 08/10/2018, n. 9799), salvo che la superficie da acquisire sia maggiore di quella coincidente con il sedime delle opere abusive, nel qual caso l'individuazione di un'area ulteriore da acquisire deve essere puntuale e giustificata dall'indicazione delle opere necessarie ai fini urbanistici-edilizi (Cons. St., sez. VI, 05.04.2013 n. 1881; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 29.11.2018, n. 1141; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 10.01.2014 n. 159)>>.
5.1 Secondo il prevalente e condivisibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa, <<l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito dell'ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l'Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto (Tar Puglia Lecce, III, 15.12.2011, n. 2172; Tar Puglia Lecce, III, 28.07.2011, n. 1461)" (TAR Puglia, Sezione Terza, 27.03.2012, n. 558; in termini, Consiglio di Stato, Sezione Q., 26.09.2008, n. 4659; TAR Campania, Napoli, Sezione Seconda, 20.04.2009, n. 2035; TAR Campania, Napoli, Sezione Sesta, 04.12.2013, n. 5509 e giurisprudenza ivi citata - "TAR Napoli Campania sez. II, 06.09.2013, n. 4199; v., anche, TAR Napoli Campania sez. VI, 04.07.2013, n. 3492; Tar Campania, ... sesta sezione, 16.06.2011, n. 3194, 11.05.2011, n. 2624; Tar Lazio, Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2809")" (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 27.06.2018, n. 1075). Trattasi, quindi, "di precisazione che l'Amministrazione è tenuta a fare in seguito, ovvero all'atto dell'adozione (eventuale) del successivo provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale">> (TAR Puglia Lecce, sez. III – 19/11/2018 n. 1710, che richiama sez. III – 27/06/2018 n. 1075) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn manufatto costituito da una struttura in legno e teli in pvc che interessa una superficie complessiva di circa 90 mq., per le sue dimensioni, obiettivamente rilevanti, e per la funzione a servizio stabile e duraturo di un’attività commerciale (la cui superficie viene di fatto estesa) non può, stante l’assenza dei requisiti della precarietà e della facile amovibilità, in ogni caso rientrare nella categoria della cosiddetta “edilizia libera”, integrando, per contro, un intervento di ristrutturazione edilizia, necessitante, come tali, del permesso di costruire.
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Considerato che:
   - con il ricorso introduttivo del presente giudizio la società Fa.Gl. S.r.l. –titolare dell’attività di ristorazione e somministrazione di alimenti svolta alla via dei ... n. 5-5/A, angolo piazza ... n. 27, in Ostia, a seguito dell’acquisto dalla società Le Du. S.r.l. della relativa azienda– ha agito per l’annullamento del provvedimento prot. n. 23886 del 14.02.2019, con il quale l’amministrazione comunale di Roma Capitale ha rigettato la domanda di accertamento di conformità presentata per la sanatoria della struttura insistente sull’area di pertinenza del suddetto esercizio, unitamente agli altri atti in epigrafe indicati;
...
Ritenuto che:
   - il ricorso non merita accoglimento;
   - il manufatto in questione, costituito da una struttura in legno e teli in pvc che, come emerge dalla stessa relazione tecnica allegata alla domanda di accertamento di conformità, interessa una superficie complessiva di circa 90 mq., per le sue dimensioni, obiettivamente rilevanti, e per la funzione a servizio stabile e duraturo di un’attività commerciale (la cui superficie viene di fatto estesa) non può, stante l’assenza dei requisiti della precarietà e della facile amovibilità, in ogni caso rientrare, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, nella categoria della cosiddetta “edilizia libera”, integrando, per contro, un intervento di ristrutturazione edilizia, necessitante, come tali, del permesso di costruire (cfr., ex multis, TAR Lazio, II-bis, n. 4030 del 2019);
   - i riferimenti di parte ricorrenti agli orientamenti del Giudice d’Appello specificamente indicati si palesano non pertinenti, non venendo nel caso che ne occupa in rilievo una struttura caratterizzata dalla presenza di lamelle in alluminio retrattili bensì dalla sussistenza di consistenti travi e degli altri elementi che emergono dalle produzioni versate in atti dalla stessa difesa della ricorrente;
   - legittimamente e doverosamente, dunque, l’amministrazione ha adottato le determinazioni impugnate, non sussistendo lacune né sul piano istruttorio né motivazionale, avendo l’amministrazione esplicitato le ragioni poste a fondamento delle stesse, sottolineando, tra l’altro, che l'intervento edilizio interessa un’area inclusa nell'ambito di valorizzazione della Città storica - D1 Ostia Lido, di cui all'art. 43, paragrafo 3 delle N.T.A. del P.R.G. vigente, ai sensi del quale: "Ad attuazione diretta sono consentiti gli interventi di MO, MS, RC, RE, come definiti dall'art. 9, senza aumento di SUL e senza cambiamento di destinazione d'uso, se non all'interno della stessa funzione e senza aumento del carico urbanistico", dovendosi, dunque, escludere l’ammissibilità dell’ampliamento in considerazione;
   - alla luce di quanto sopra esposto, neppure meritano accoglimento le deduzioni dirette a contestare la violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale, trovando applicazione le previsioni di cui all’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, giacché le determinazioni dell’amministrazione non avrebbero, comunque, potuto essere differenti da quelle in concreto adottate (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 03.06.2019 n. 7151 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIIl TAR Lazio boccia i compensi minimi per i componenti delle commissioni di gara.
Annullato il Dm 12.02.2018 con cui il ministero ha determinato i compensi dei componenti delle commissioni giudicatrici.
Con la sentenza 31.05.2019 n. 6926, che fa seguito alle ordinanze cautelari del 02.08.2018 con le quali lo aveva sospeso, il TAR Lazio-Roma, Sez. I, riconosce le ragioni dei Comuni e cancella il compenso minimo.
Le regole
L'articolo 77, comma 10, del Codice dei contratti rinvia a un decreto del Mit, di concerto col Mef e sentita l'Anac, l'onere di determinare la tariffa di iscrizione all'albo e il compenso massimo per i commissari. Onere assolto con il Dm 12.02.2018 che ha stabilito in 168 euro la tariffa annuale di iscrizione all'albo e fissato i compensi spettanti ai componenti delle commissioni con riferimento all'oggetto del contratto e all'importo posto a base di gara, entro i limiti minimo e massimo stabilito nell'allegato A, con incremento del 5% per il presidente e con esclusione dei rimborsi di spese.
Contro i compensi minimi è scattata la reazione dei piccoli Comuni, interessati soprattutto alle gare con importi meno elevati, per le quali il Dm riconosce ai commissari compensi tutt'altro che simbolici, per questo difficilmente sostenibili con i propri bilanci. L'allegato al decreto, infatti, prevede un compenso minimo che va da 3mila a 8mila euro, da riconoscere nei tre casi previsti: appalti o concessioni di lavori con importo a base di gara inferiore o pari a 20 milioni di euro; appalti e concessioni di servizi e appalti di forniture per importo inferiore o pari a 1 milione di euro; appalti di servizi di ingegneria e di architettura per importo inferiore a 200mila euro.
Le sospensive
Con le ordinanze nn. 4717, 4716, 4715, 4713 e 4710 del 2 agosto scorso (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 agosto) il Tar Lazio ha accolto le preoccupazioni dei sindaci e riconosciuto che nei Comuni di minori dimensioni mancano figure professionali in numero sufficiente a ricoprire i ruoli di commissari, con il connesso obbligo di ricorrere a figure esterne cui garantire compensi non certo in linea con i propri bilanci.
Quelle sospensive ora arrivano a giudizio e il Tar Lazio riconosce le ragioni dei primi cittadini su tutta la linea, annullando il decreto del Mit 12.02.2018 nella parte in cui fissa il compenso lordo minimo per i componenti della commissione giudicatrice.
Le ragioni
La motivazione addotta dal Tar Lazio è che il Dm travalica i limiti imposti dall'articolo 77, comma 10, quando fissa anche il compenso minimo per fasce di valore degli appalti a partire da 3mila euro, per mancanza di copertura legislativa, posto che l'onere è quello di fissare il solo «compenso massimo per i commissari». Una disposizione che, secondo i giudici, non lascia margini interpretativi in ordine alla possibilità di stabilire anche un compenso "minimo" o un compenso tout court.
D'altro canto, affermano i giudici, la ratio sottesa alla disposizione è quella del contenimento della spesa e considerato che quelle per il funzionamento della commissione costituiscono una voce del quadro economico dell'intervento, si spiega la fissazione di un compenso "massimo", va in direzione decisamente contraria la fissazione di uno "minimo".
Nemmeno può essere valorizzata la tesi, sostenuta anche dall'Anac, che il limite minimo del compenso avrebbe consentito di scongiurare il rischio di determinazione del compenso al ribasso, a detrimento della prestazione, proprio in quanto tale possibilità non è contemplata dalla norma primaria.
La stoccata finale è al quantum del compenso, che è del tutto fuori logica nella misura in cui deve essere comunque riconosciuto ai commissari a fronte di procedure di complessità e di valore significativamente diversi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019).

APPALTI: Compenso base 3 mila € ai commissari è troppo. GARE: TAR LAZIO ANNULLA DECRETO DEL MIT.
È nullo il compenso minimo fissato dal decreto ministeriale per i commissari di gara di appalti pubblici nominati ai sensi dell'articolo 77 del codice dei contratti pubblici.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 31.05.2019 n. 6925 che ha annullato il decreto del ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 12.02.2018.
Oggetto della censura dei giudici laziali il passaggio del decreto che determina il compenso lordo minimo (3 mila euro lordi) spettante ai componenti la commissione giudicatrice: in sostanza si afferma che il decreto è andato oltre la delega assegnata dalla legge, impedendo quindi alle amministrazioni di stabilire anche compensi più bassi.
Ad avviso dei giudici, «ferma restando l'illegittimità del decreto per le ragioni evidenziate, deve ulteriormente osservarsi che, se la ratio della censurata opzione, consistita di fatto in uno sconfinamento dal perimetro dei poteri normativamente attribuiti al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, fosse da ravvisare nella volontà di dare decoro e dignità alla prestazione del commissario di gara, risulterebbe altresì irragionevole la soglia minima del compenso, così come livellata uniformemente in 3 mila euro pur a fronte di procedure di complessità e di valore significativamente diversi».
Nella sentenza si evidenzia inoltre che «molte gare bandite dai comuni sono rese possibili dall'utilizzo di finanziamenti europei Fesr, per i quali è espressamente previsto che le spese generali siano contenute nel limite massimo del 10-12%; limite che, di fatto, viene rispettato anche in gare non finanziate. Tuttavia, detto limite non potrebbe essere rispettato stanti i minimi tariffari fissati dall'impugnato decreto. Infatti, con un costo per il funzionamento della commissione non inferiore a 10.980 euro sarebbe impossibile bandire tutte le gare di importo inferiore o uguale a 91.500 euro perché già il solo costo della commissione risulterebbe superiore-uguale al 12% fissato per le spese generali».
Di qui l'annullamento della parte del decreto che definisce il compenso minimo lordo dei commissari di gara
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2019).

APPALTIAppalti, gare senza salassi. Niente compensi minimi per i commissari.  Il Tar Lazio annulla il decreto del Mit. Accolto il ricorso dell’Asmel.
Niente compensi minimi per i commissari di gara negli appalti. Il decreto con cui il ministero delle infrastrutture, di concerto col Mef, ha fissato in 3 mila euro a commissario l'importo minimo inderogabile dell'emolumento, è stato annullato dal TAR del Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 31.05.2019 n. 6925.
Il Tar ha accolto il ricorso dell'Asmel, l'Associazione per la sussidiarietà e la modernizzazione degli enti locali che già (si veda ItaliaOggi del 07.08.2018) aveva ottenuto dai giudici amministrativi la sospensione del provvedimento impugnato.
Il Tar Lazio ha ravvisato nel dm 12.02.2018 un vizio apparso evidente sin dalla sua emanazione, ossia aver travalicato i limiti imposti dal codice appalti (dlgs n. 50/2016) che all'art. 70 stabiliva che con decreto il Mit fissasse la tariffa di iscrizione all'albo e il compenso massimo per i commissari. Nessun riferimento, invece, alla possibilità di fissare un compenso minimo, peraltro, secondo il Tar, «irragionevolmente» quantificato in 3 mila euro (oltre al rimborso spese).
Un importo insostenibile per molti piccoli comuni che, in quanto privi di figure professionali interne in grado di svolgere gratuitamente il ruolo di commissari di gara, sarebbero stati costretti a sobbarcarsi un esborso minimo di circa 11 mila euro a commissione di gara. Non solo. Un tetto così elevato avrebbe rischiato di bloccare molte gare nei piccoli comuni se si considera che il regolamento sui fondi Fesr (con cui vengono finanziati molti bandi dei mini-enti) prevede che le spese generali siano contenute nel limite massimo del 10/12%.
Con una spesa fissa per i commissari di 11 mila euro a gara sarebbe impossibile bandire gare di importo inferiore o uguale a 91.500 euro. Di qui il ricorso al Tar Lazio che ha accolto in toto le tesi dell'Associazione guidata da Francesco Pinto. Il Tar ha respinto le argomentazioni difensive della Ragioneria generale dello stato secondo cui la fissazione di un compenso minimo sarebbe «un'eventualità non proibita dalla norma». I giudici amministrativi hanno ricordato che costituisce un principio cardine del nostro ordinamento quello secondo cui il legislatore «ubi voluit dixit». E «nella disposizione il legislatore parla espressamente di compenso massimo senza lasciare margini interpretativi in ordine alla possibilità di stabilire anche un compenso minimo o un compenso tout court».
Inoltre, ha osservato il Tar, essendo la ratio della norma tesa a contenere la spesa pubblica, se da un lato si spiega la determinazione di un compenso massimo, altrettanto non può dirsi per la fissazione di un compenso minimo. Né può essere condivisa la tesi del Mit secondo cui l'aver livellato per tutti i commissari il compenso a 3 mila euro avrebbe assicurato «il decoro e la dignità della prestazione».
«Il nuovo Codice appalti, introducendo l'Albo nazionale dei commissari di gara, gestito da Anac e aperto ai professionisti privati, ha spalancato le porte ai privati», ha osservato Pinto. «I professionisti del settore privato con requisiti idonei all'iscrizione all'Albo nazionale dei commissari sono almeno 400 mila, mentre i dipendenti pubblici a malapena 20 mila. Basta fare due conti per accorgersi che le commissioni sarebbero state formate al 95% da privati e al 5% da dipendenti pubblici».
«L'azione di Asmel», ha concluso Pinto, «ha scongiurato il rischio di commissioni di gara appaltate ai privati, oltre ad evitare un danno erariale quantificabile in oltre 1,5 miliardi di euro» (articolo ItaliaOggi del 04.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Con la videosorveglianza punito l'agente infedele.
L'ispettore di polizia municipale che effettua ripetutamente servizio straordinario non autorizzato e non giustificato rischia il licenziamento. Specialmente se le telecamere di sorveglianza comunale attestano la sua irregolare presenza in servizio.

Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Napoli, Sez. Lavoro, con la sentenza 29.05.2019 n. 3820.
Un operatore di polizia municipale è stato licenziato per aver effettuato ripetute prestazioni di lavoro straordinario non autorizzato e non giustificato. In pratica il comune anche con l'impiego delle telecamere di videosorveglianza ha verificato che il dipendente ha ripetutamente violato le disposizioni interne in materia di necessaria preventiva autorizzazione motivata del lavoro straordinario. E per questo ha sanzionato l'operatore di polizia municipale con la misura estrema del licenziamento.
Il giudice del lavoro ha confermato questa misura punitiva evidenziando tra l'altro che è corretto l'impiego delle telecamere comunali di sorveglianza per accertare la falsa o irregolare attestazione della presenza in servizio, ai sensi dell'art. 55-quater, comma 3-bis, del dlgs 165/2001, come modificato dal dlgs 116/2016 (articolo ItaliaOggi dell'11.06.2019).

APPALTI: Natura perentoria del termine per l’integrazione della documentazione a seguito di soccorso istruttorio.
Va ribadita la natura perentoria del termine per l’integrazione della documentazione, a seguito dell’attivazione del soccorso istruttorio, ai fini di un’istruttoria veloce ma preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni prima della valutazione dell’ammissibilità della domanda.
La disciplina del soccorso istruttorio autorizza la sanzione espulsiva quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, all’obbligo di integrazione documentale
(Consiglio di Stato, Sez V, sentenza 29.05.2019 n. 3592 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3.3. Non condivisibile è anche la dedotta erronea interpretazione dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 da parte della sentenza impugnata.
In proposito giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha più volte affermato la natura perentoria del termine per l’integrazione della documentazione, a seguito dell’attivazione del soccorso istruttorio, ai fini di un’istruttoria veloce ma preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioniprima della valutazione dell’ammissibilità della domanda (su tutte, cfr. Cons. Stato, V, 22.08.2016, n. 3667; 22.10.2015, n. 4849; 18.05.2015, n. 2504; III, 21.01.2015, n. 189; incidentalmente anche Ad. Plen., 30.07.2014, n. 16).
In tale contesto la medesima giurisprudenza ha rilevato come la disciplina del soccorso istruttorio autorizzi la sanzione espulsiva “quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, all’obbligo di integrazione documentale” (su tutte, Ad. Plen. 16/2014, cit.; Cons. Stato, 4849/2015, cit.).
Il che risulta del resto coerente, oltre che con la ratio, anche con la lettera dell’attuale art. 83, comma 9, il quale espresse prevede: “in caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara”; né ciò determina alcuna aporia o irragionevolezza del sistema, stante la necessaria certezza e rapidità del sub-procedimento di soccorso istruttorio, nonché la specificità del perimetro che ne costituisce l’oggetto, prescindendosi -in tale fase- dall’effettiva e sostanziale integrazione dei requisiti, di cui semplicemente si richiede di fornire documentazione probatoria o adeguata dichiarazione.
Per tali ragioni, appurata la violazione del termine per la necessaria integrazione documentale richiesta, va escluso che il dedotto possesso sostanziale dei requisiti, così come l’anteriorità rispetto al suddetto termine dei relativi documenti dimostrativi possano valere a impedire l’esclusione del concorrente inadempiente.
Allo stesso modo, nessuna motivazione qualificata o ulteriore rispetto al richiamo dell’attivazione del soccorso e della mancata tempestiva trasmissione della relativa documentazione si rende necessaria ai fini della legittimità del provvedimento espulsivo.
Per tali motivi le censure formulate dalla Mi.Te. non meritano accoglimento.

APPALTI: Legittimo non sanzionare chi salta il sopralluogo.
È legittimo non sanzionare con l'esclusione dalla gara chi non ha partecipato al sopralluogo; dal codice appalti non si ricava obbligo di escludere.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 29.05.2019 n. 3581 che ha precisato come la previsione escludente non possa implicitamente ricavarsi dal codice del 2016.
Il decreto 50/2016 ha abrogato l'art. 106 del decreto del presidente della repubblica 207 del 2010 relativo all'obbligo di sopralluogo nei luoghi dell'appalto, senza sostituirlo con ulteriori previsioni a riguardo. Inoltre –si legge nella sentenza- l'art. 79, comma 2, fa sì riferimento alle ipotesi in cui «le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara», ma solo per farne conseguire la necessità che i termini per la presentazione delle offerte siano calibrati in modo che gli operatori interessati «possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte».
Pertanto la stazione appaltante, in virtù del divieto di aggravio del procedimento e del principio di massima partecipazione alle gare pubbliche, non può, in assenza di valide ragioni oggettive e immediatamente percepibili legate all'oggetto della gara, subordinare la partecipazione all'effettuazione del sopralluogo e ricavarne l'estromissione della concorrente nel caso di sua inosservanza.
Se quindi la stazione appaltante non esclude il concorrente «non può ravvisarsi in concreto nel comportamento tenuto dall'amministrazione una ipotesi di violazione della par condicio competitorum».
Viceversa, dicono i giudici, se fosse stata inserita la previsione dell'esclusione, sarebbero stati violati i principi di massima partecipazione alle gare e il divieto di aggravio del procedimento, ponendo in capo all'operatore economico in maniera irragionevole un onere formale sproporzionato e ingiustificato, in quanto la sua inosservanza in alcun modo avrebbe impedito il perseguimento dei risultati verso cui era diretta l'azione amministrativa, né il suo adempimento poteva dirsi funzionale a garantire il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara (articolo ItaliaOggi del 07.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo attaccato alla parete: necessario il permesso di costruire.
Il gazebo contestato non costituisce affatto una struttura amovibile, in quanto esso risulta stabilmente ancorato alle parti murarie, sì da presentarsi come costruzione solida e robusta, idonea ad una permanenza prolungata nel tempo, richiedendo così il permesso di costruire.
Invero, secondo giurisprudenza costante, per rientrare nella fattispecie di edilizia libera, il manufatto in parola avrebbe dovuto avere natura ornamentale ed essere realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di stabile ancoraggio al suolo.
Di conseguenza, è irrilevante la presentazione di una C.I.L.A. in quanto la natura delle opere va correttamente ricondotta alla cornice normativa propria del permesso di costruire e non al regime semplificato.
Lo stesso vale per il manufatto in lamiera di cui al punto 2 dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di un box-container stabilmente appoggiato al terreno, che, pure, costituisce definitiva alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio.
Ed altrettanto dicasi per il muro di cinta in elementi laterizi prefabbricati e malta cementizia, avente una altezza media mt 1,80 circa per una lunghezza complessiva di mt. 17,00 circa.
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L’ordinanza di demolizione, essendo un atto rigidamente vincolato, non necessita di una specifica motivazione sull'interesse pubblico attuale e, peraltro, in caso di mancata adozione dello stesso, non sussiste un affidamento tutelabile, in ragione dell'illecito commesso in violazione delle regole sulla tutela del territorio.
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La ricorrente impugna l’ordinanza di demolizione di opere abusive n. 2 del 14.02.2018, adottata dal Comune di Sorbo San Basile in data 14.02.2018, a seguito di un sopralluogo che ha permesso di riscontrare che, sull’area pertinenziale dell’unità immobiliare identificata in catasto al foglio 7, particella 61, sub 10, graffata con la particella 77, sub 6, sono stati eseguiti lavori edilizi senza la preventiva autorizzazione consistenti nella realizzazione:
   - di un manufatto in muratura di forma irregolare destinato a soggiorno avente una superficie di mq. 18,00 circa, con altezza alla gronda di mq. 2,10 circa e altezza al colmo di mt. 2,65 circa;
   - di un manufatto in panelli di lamiera coibentata destinato a magazzino ricovero attrezzi, delle dimensioni di mt. 2,20x2,10, per una altezza di mt. 1,70 circa (gronda) e mt. 2,10 circa (colmo) ed un volume complessivo pari a circa 200,00 mq;
   - di un muro di cinta in elementi laterizi prefabbricati e malta cementizia, avente una altezza media mt 1,80 circa per una lunghezza complessiva di mt. 17,00 circa.
...
Il ricorso è infondato e va respinto.
I lavori realizzati dalla ricorrente, non rientrano infatti nella fattispecie di edilizia libera, di cui all’art. 6 D.P.R. 380/2001, caratterizzandosi, viceversa, per i requisiti di stabilità e di rilevante consistenza, tali da alterare in modo duraturo l'assetto urbanistico-ambientale.
Ciò vale in particolare per il gazebo contestato al punto 1 dell’ordinanza, ritratto anche nelle foto della relazione tecnica dell’ing. Mi.Ta., che non costituisce affatto una struttura amovibile, in quanto esso risulta stabilmente ancorato alle parti murarie, sì da presentarsi come costruzione solida e robusta, idonea ad una permanenza prolungata nel tempo, richiedendo così il permesso di costruire.
Invero, secondo giurisprudenza costante, per rientrare nella fattispecie di edilizia libera, il manufatto in parola avrebbe dovuto avere natura ornamentale ed essere realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di stabile ancoraggio al suolo (Cons. Stato Sez. VI, 15/04/2019, n. 2438 e 25.01.2017 n. 306).
Di conseguenza, è irrilevante la presentazione di una C.I.L.A. in data 02.05.2018, in quanto la natura delle opere va correttamente ricondotta alla cornice normativa propria del permesso di costruire e non al regime semplificato (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 07/09/2018, n. 5424).
Lo stesso vale per il manufatto in lamiera di cui al punto 2 dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di un box-container stabilmente appoggiato al terreno, che, pure, costituisce definitiva alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio (cfr. TAR Campania, Salerno Sez. II, 02/01/2019, n. 1; Cons. Stato, Sez. VI, 06/02/2019, n. 901).
Ed altrettanto dicasi per il muro di cinta.
Infine, riguardo alle ulteriori censure di carattere formale, occorre precisare che l’ordinanza di demolizione, essendo un atto rigidamente vincolato, non necessita di una specifica motivazione sull'interesse pubblico attuale e, peraltro, in caso di mancata adozione dello stesso, non sussiste un affidamento tutelabile, in ragione dell'illecito commesso in violazione delle regole sulla tutela del territorio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25/03/2019, n. 1942) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 28.05.2019 n. 1063 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPreavviso di rigetto per la Scia.
Il preavviso di rigetto previsto dall'art. 10-bis della legge 241/1990 va applicato non soltanto ai procedimenti autorizzatori ma anche alle attività soggette a Scia. Il comune, in sostanza, non può dichiarare l'inefficacia della segnalazione presentata dal privato ma è tenuto ad avviare la procedura del contraddittorio prevista dalla legge sul procedimento amministrativo.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 27.05.2019 n. 3453.
La decisione è stata sollecitata da un'impresa di telefonia mobile la quale aveva presentato all'amministrazione comunale la Scia per la riconfigurazione di un impianto già esistente e attivo, utilizzando quindi il procedimento semplificato previsto dall' art. 87-bis del Codice delle comunicazioni elettroniche (dlgs 259/2003).
Il collegio, richiamando la funzione dell'art. 10-bis legge 241/1990, ha affermato che tale disposizione ha introdotto, in via generale, nel nostro ordinamento l'istituto del preavviso di diniego, che ha la funzione di portare a conoscenza del soggetto che ha fatto una domanda all'amministrazione, i motivi che non consentono di poter accogliere la sua istanza, in modo da consentire all'interessato, in via amministrativa e precontenziosa, di rappresentare all'amministrazione, nel termine assegnato, le ragioni che militano invece in favore dell'accoglimento della sua domanda.
Di conseguenza, ha sottolineato, richiamando un precedente del 2014 si deve ritenere, in via generale, che la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento di una domanda interrompe anche i termini per la formazione di un eventuale silenzio assenso, in quei casi in cui l'ordinamento ha inteso assegnare al silenzio serbato dall'amministrazione su un'istanza il valore di assenso alla richiesta.
Con la conseguenza che tale disciplina va applicata anche nei procedimenti, regolamentati dall'art. 87 del dlgs 259/2003, per l'esame delle domande di autorizzazione alla installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica, sebbene lo stesso procedimento sia chiaramente disciplinato in modo da consentirne la definizione in tempi certi e rapidi (articolo ItaliaOggi del 05.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Partecipazione procedimentale ad ampio spettro per la telefonia.
Il preavviso di rigetto introdotto nell'ordinamento dall'art. 10-bis, L. n. 241 del 1990, al fine di ridurre il potenziale contenzioso tra privati e PA, va applicato non soltanto ai procedimenti autorizzatori ma anche alle attività soggette a SCIA.
Il Consiglio di Stato, seppure trattando un caso specifico connesso alla telefonia mobile, ha affermato la portata generale dell'istituto che va applicato pertanto a tutti i procedimenti, compresi quelli acceleratori.
Si deve ricordare che l’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, aggiunto dall'art. 6 della legge 11.02.2005 n. 15 (poi modificato dal comma 3 dell’art. 9 della legge 11.11.2011, n. 180), ha previsto che «nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale».
Tale disposizione ha, quindi, introdotto, in via generale, nel nostro ordinamento l’istituto del preavviso di diniego, che ha la funzione di portare a conoscenza del soggetto che ha fatto una domanda all’amministrazione, i motivi che non consentono di poter accogliere la sua domanda in modo da consentire all’interessato, in via amministrativa e precontenziosa, di rappresentare all’amministrazione, nel termine assegnato, le ragioni che militano invece in favore dell’accoglimento della sua domanda”.
Si deve ritenere, quindi, in via generale, che la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di una domanda interrompe anche i termini per la formazione di un eventuale silenzio assenso, in quei casi in cui l’ordinamento ha inteso assegnare al silenzio serbato dall’amministrazione su un’istanza il valore di assenso alla richiesta” ed, infine: “Né si può ritenere che tale disciplina non possa essere applicata nel procedimento, dettato dall’art. 87 del D.L.vo n. 259 del 2003, per l’esame delle domande di autorizzazione alla installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica, sebbene lo stesso procedimento sia chiaramente disciplinato in modo da consentirne la definizione in tempi certi e rapidi.
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E’ fondato il primo motivo d’appello avente carattere assorbente.
Con il medesimo l’appellante critica la sentenza nella parte in cui ha rigettato il motivo di ricorso attinente al mancato invio del preavviso di diniego ex art. 10-bis, L. n. 241/1990.
Il rigetto è avvenuto in ragione della natura giuridica della SCIA (dichiarazione di volontà privata) ed in ragione dell’affermazione che l’eventuale applicabilità dell’art. 10-bis, L. n. 241/1990 al procedimento ex art. 87-bis, D.L.vo n. 259/2003 frusterebbe la finalità semplificatoria ed acceleratoria della disciplina dettata dal codice delle comunicazioni.
Ritiene il Collegio che la disciplina ex art. 10-bis L. n. 241/1990 sia senz’altro applicabile al procedimento ex art. 87-bis, D.L.vo n. 259/2003, e ciò in virtù del precedente della III Sezione di questo Consiglio, a cui questo Collegio intende conformarsi, costituito dalla sentenza n. 418/2014, pronunciata in relazione ad un procedimento ex art. 87, D.L.vo n. 259/2003, ma valevole anche nel caso del procedimento ex art. 87-bis D.L.vo n. 259/2003, stante l’identità strutturale dei due procedimenti, secondo cui: “Si deve, al riguardo, ricordare che, l’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, aggiunto dall'art. 6 della legge 11.02.2005 n. 15 (poi modificato dal comma 3 dell’art. 9 della legge 11.11.2011, n. 180), ha previsto che «nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale»”.
Secondo la III Sezione del Consiglio di Stato: “Tale disposizione ha, quindi, introdotto, in via generale, nel nostro ordinamento l’istituto del preavviso di diniego, che ha la funzione di portare a conoscenza del soggetto che ha fatto una domanda all’amministrazione, i motivi che non consentono di poter accogliere la sua domanda in modo da consentire all’interessato, in via amministrativa e precontenziosa, di rappresentare all’amministrazione, nel termine assegnato, le ragioni che militano invece in favore dell’accoglimento della sua domanda” ed ancora: “si deve ritenere, quindi, in via generale, che la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di una domanda interrompe anche i termini per la formazione di un eventuale silenzio assenso, in quei casi in cui l’ordinamento ha inteso assegnare al silenzio serbato dall’amministrazione su un’istanza il valore di assenso alla richiesta” ed, infine: “Né si può ritenere che tale disciplina non possa essere applicata nel procedimento, dettato dall’art. 87 del D.L.vo n. 259 del 2003, per l’esame delle domande di autorizzazione alla installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica, sebbene lo stesso procedimento sia chiaramente disciplinato in modo da consentirne la definizione in tempi certi e rapidi”.
Conseguentemente, va accolto il primo motivo d’appello nei sensi e nei limiti anzidetti, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati in primo grado (nota prot. gen. rif. prat. n. 2017 559771 PG del 13.12.2017, nota prot. gen. rif. prat. n. 559782 PG del 13.12.2017, nota prot. gen. rif. prat. n. 13637/2018 PG del 18.01.2018, nota prot. gen. rif. prat. n. 22351/2018 PG del 25.01.2018), salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.05.2019 n. 3453 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

LAVORI PUBBLICIDanno in re ipsa per temporanea perdita della facoltà di godimento inerente al diritto di proprietà di un bene illegittimamente occupato.
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Risarcimento danni – Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione illegittima - Temporanea perdita della facoltà di godimento – Danno in re ipsa.
Nel caso di occupazione illegittima il danno è in re ipsa, poiché esso coincide con la temporanea perdita della facoltà di godimento inerente al diritto di proprietà (danno “conseguente”), id est con l’incisione sul contenuto proprio del diritto di proprietà (quello afferente alla sfera delle facoltà).
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   (1) La Sezione ha affermato, più in generale, che ogni danno è “conseguenza” di un evento e, in quanto tale, da questo, sia pure in misura diversa, distinguibile; e tale distinzione dipende dalla natura dell’illecito (contrattuale o extracontrattuale), ovvero a seconda che il danno di cui si postula il risarcimento sia subìto dalla posizione giuridica del soggetto nella cui sfera subiettiva si è prodotto l’evento, ovvero da altro soggetto a questi legato da relazioni contrattuali o, comunque, rilevanti per l’ordinamento e da questo protette.
Il problema, dunque, non consiste nella configurazione ontologica del danno (che -naturalisticamente- costituisce sempre una perdita nell’ambito di una situazione soggettiva, come affermato da Corte Cost., n. 372/1994), ma attiene alla natura della situazione soggettiva ed al rapporto che intercorre tra questa e l’evento lesivo.
Ed è proprio per questo che si pone un problema di prova; problema, però, che non discende dalla natura del danno (danno-evento o danno-conseguenza), ma che si propone come strettamente connesso alla sussistenza/conformazione e titolarità di una posizione soggettiva che si assume lesa.
Nel giudizio risarcitorio esiste sempre un problema di prova (avente plurimi profili): prova della esistenza e titolarità della situazione soggettiva che si assume lesa; prova dell’effettività della “perdita” (lesione) di quella posizione; prova della quantificazione del danno, cioè della misura del risarcimento richiesto.
La natura dell’illecito ed il tipo di posizione giuridica (ove esistente) che si assume lesa agiscono differentemente (non già sulla natura del danno ma) sul problema probatorio.
In questo contesto, assumono ben diversa valenza i diritti patrimoniali rispetto a quelli non patrimoniali, sussistendo per questi ultimi un problema di riconoscimento e tutela affatto diverso dai primi (si veda, Cass., sez. un., n. 26972/2008). In questo caso, ciò che occorre dimostrare è (non tanto l’esistenza della lesione ma) la sussistenza ontologica del diritto e, laddove l’evento si realizzi nella sfera giuridica di altro soggetto, occorre provare la sussistenza di una lesione (ulteriore) nella propria sfera giuridica di soggetto titolare di un diritto non patrimoniale, pur astrattamente riconosciuto.
Così come, pur nella sfera dei diritti patrimoniali, a fronte della natura dell’illecito, può apparire plausibile (pur senza volere rendere sull’illecito contrattuale considerazioni definitive) che il danno derivante da una occupazione di immobile protratta oltre il termine contrattualmente stabilito si caratterizzi diversamente da quello derivante da una occupazione effetto di illecito extracontrattuale.
Nel primo caso, la lesione attiene innanzi tutto al diritto alla restituzione del proprio bene per effetto dell’inadempimento contrattuale dell’obbligazione restitutoria, mentre la lesione consistente nella perdita della facoltà di godimento del bene costituisce una ipotesi di danno “ulteriore”.
Nel secondo caso, la lesione (unica) attiene direttamente al contenuto stesso della posizione soggettiva (facoltà di godimento del bene).
Affermare che vi è necessità di “prova” della lesione subita, in quest’ultima ipotesi, non discende dalla “natura” del danno (cioè dal suo rapporto con l’evento), ma dal preciso contenuto della posizione giuridica sulla quale l’evento lesivo si assume abbia inciso, se, cioè, la “perdita” attenga alle facoltà di godimento ovvero ai poteri di disposizione: con la conseguenza che, mentre nel primo caso, per la natura stessa della “facoltà”, la prova della perdita è offerta dall’evento in sé considerato (ed in questo senso, sinteticamente, può affermarsi che il danno è “in re ipsa”), nel secondo caso, per la diversa struttura del “potere” (natura che ne postula un esercizio in concreto e non solo una mera “disponibilità”), occorre la prova della lesione “ulteriore” subita da questa “altra” sfera del diritto di proprietà (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.05.2019 n. 3428 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La semplice copertura di una preesistente scala in ferro posta all'esterno di un fabbricato non richiede un titolo abilitativo, essendo una pertinenza.
L
a mera copertura della scala in ferro posta all’esterno del fabbricato, per caratteristiche costruttive, consistenza e destinazione di uso, integra gli estremi di un’opera meramente pertinenziale, come tale non bisognevole del preventivo rilascio di un autonomo titolo abilitativo.
Trattasi infatti, dal punto di vista squisitamente urbanistico-edilizio, di un’opera priva di autonoma e distinta utilizzazione, oltre che di valore di mercato, rispetto all’unità abitativa cui accede e rispetto alla quale svolge una funzione meramente servente, consentendone un accesso più agevole a copertura della preesistente scala esterna al fabbricato.

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Per l'individuazione della nozione di volume tecnico ovvero di “pertinenza”, escluso dal calcolo della volumetria necessitante del preventivo rilascio di un titolo abilitativo, “bisogna fare riferimento a tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie e il volume realizzato. Quest'ultimo deve essere completamente privo di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale, che non possono essere ubicati all'interno di essa. L'applicazione di tali criteri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità”.
Tenuto conto dei suddetti criteri, la copertura della preesistente scala esterna di accesso all’appartamento della ricorrente è qualificabile in termini di mero vano tecnico, funzionale a soddisfare un'esigenza oggettiva della costruzione principale, privo di valore autonomo di mercato e tale da non consentire una destinazione diversa da quella di “servizio” nei confronti dell'immobile cui accede.
In altri termini, l’opera de qua non comporta un incremento volumetrico urbanisticamente rilevante e, quindi, ben avrebbe potuto essere realizzata –per come, in concreto, avvenuto– senza il preventivo rilascio di un permesso di costruire, la cui mancanza, ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, è stata a torto addotta dall’ente locale a fondamento dell’ordinanza di demolizione n. 20187 del 05.07.2012 che, per l’effetto, merita di essere annullata.
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8. Come correttamente rilevato dalla sig.ra Gi., l’attività edilizia alla stessa addebitata con l’ordinanza di demolizione n. 20187 del 05.07.2012, consistente nella mera copertura della preesistente scala in ferro posta all’esterno del fabbricato ubicato in Via ... n. 19 del comune di Nocera, per caratteristiche costruttive, consistenza e destinazione di uso, integra gli estremi di un’opera meramente pertinenziale, come tale non bisognevole del preventivo rilascio di un autonomo titolo abilitativo.
8.1 Trattasi, infatti, dal punto di vista squisitamente urbanistico-edilizio, di un’opera priva di autonoma e distinta utilizzazione, oltre che di valore di mercato, rispetto all’unità abitativa cui accede e rispetto alla quale svolge una funzione meramente servente, consentendone un accesso più agevole a copertura della preesistente scala esterna al fabbricato.
8.2 Quanto sopra trova conferma in quel consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l'individuazione della nozione di volume tecnico ovvero di “pertinenza”, escluso dal calcolo della volumetria necessitante del preventivo rilascio di un titolo abilitativo, “bisogna fare riferimento a tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie e il volume realizzato. Quest'ultimo deve essere completamente privo di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale, che non possono essere ubicati all'interno di essa. L'applicazione di tali criteri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità (TAR Campania, Napoli, IV, 02.04.2015, n. 1927; III, 09.12.2014, n. 6431; VI, 06.02.2014, n. 785; TAR Molise, 31.03.2014, n. 225; Cons. Stato, IV, 04.05.2010, n. 2565)” (così TAR Campania, Napoli, sez. II, 23/06/2017, n. 3439).
8.4 Tenuto conto dei suddetti criteri, la copertura della preesistente scala esterna di accesso all’appartamento della ricorrente è qualificabile in termini di mero vano tecnico, funzionale a soddisfare un'esigenza oggettiva della costruzione principale, privo di valore autonomo di mercato e tale da non consentire una destinazione diversa da quella di “servizio” nei confronti dell'immobile cui accede (cfr. TAR Campania, Napoli, IV, 14.11.2016, n. 5248; Cons. Stato, III, 26.04.2016, n. 1613; TAR Lazio, Roma, I, 02.04.2015, n. 4975; Cons. Stato, sez. VI, 31.03.2014, n. 1512).
8.2 In altri termini, l’opera de qua non comporta un incremento volumetrico urbanisticamente rilevante e, quindi, ben avrebbe potuto essere realizzata –per come, in concreto, avvenuto– senza il preventivo rilascio di un permesso di costruire, la cui mancanza, ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, è stata a torto addotta dall’ente locale a fondamento dell’ordinanza di demolizione n. 20187 del 05.07.2012 che, per l’effetto, merita di essere annullata.
8.3 Del resto la stessa Autorità giudiziaria penale, con sentenza n. 1126 del 07.01.2015, versata agli atti del giudizio, in merito alla realizzazione della suddetta copertura, ha assolto l’odierna ricorrente dal reato di cui all’art. 44, lett. b), DPR n. 380/2001, proprio sulla scorta del carattere meramente pertinenziale, dal punto di vista urbanistico-edilizio, dell’opera in questione.
9. Tenuto conto dell’illegittimità dell’ordinanza di demolizione n. 20187 del 05.07.2012, il Collegio, in parziale accoglimento dei successivi ricorsi n. 1987 del 2013 e 115 del 2015, non può che accertare l’invalidità:
   a) dell’ordinanza prot. n. 38025 del 29.08.2013, impugnata con il ricorso n. 1987 del 2013 R.G., esclusivamente nella parte in cui il comune di Nocera Inferiore ha nuovamente ingiunto alla ricorrente la demolizione del torrino scala in questione;
   b) del provvedimento prot. n. 46677 del 05/11/2014, impugnato con il ricorso n. 151 del 2015 R.G., con cui il comune di Nocera Inferiore ha accertato l’inottemperanza alle statuizioni demolitorie di cui all’ordinanza di demolizione n. 20187 del 05.07.2012, disponendo l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere ivi sanzionate, pari a mq. 18,33, erroneamente ritenute abusive, per i motivi sopra esposti;
   c) del provvedimento prot. n. 48964 del 19.11.2014, parimenti impugnato con il ricorso n. 151 del 2013, esclusivamente nella parte in cui è stata negata la sanatoria di siffatta “copertura” sulla scorta dell’erroneo presupposto che la stessa determini un “incremento di superficie e di volume”, urbanisticamente rilevante, in contrasto con le previsioni urbanistiche vigenti nella zona (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.05.2019 n. 862 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La PA paga sempre per i dipendenti. Obbligo di risarcimento anche per illeciti commessi a scopo personale.
Lo Stato o l’ente pubblico rispondono del danno subìto dal terzo per l’illecito del dipendente, anche quando agisce solo per scopi personali, estranei ai fini dell’amministrazione. La corresponsabilità scatta purché l’azione illecita sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni svolte dal dipendente infedele. E dunque se questa non sarebbe stata possibile senza l’esercizio del ruolo, per quanto svolto in modo illecito.

Per le Sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 16.05.2019 n. 13246) la responsabilità della Pa è a tutto campo e va applicata integralmente la disciplina della responsabilità extracontrattuale. Fermi restando i principi sull’accertamento del nesso causale e sulla totale imprevedibilità degli eventi.
La sezione remittente era impegnata a decidere sul risarcimento, dovuto o meno, dal ministero della Giustizia a un privato per le somme, relative a un giudizio di divisione sottratte da un cancelliere, poi condannato per peculato. Il privato aveva ottenuto un risarcimento, di circa 47 mila euro in primo grado che le era stato tolto in appello. Perché, ad avviso dei giudici, il cancelliere aveva agito solo a fini personali, addirittura contrari agli scopi perseguiti dall’amministrazione. Il Supremo collegio, nell’allargare anche a tale ipotesi la responsabilità della Pa, sottolinea come nell’attuale contesto socio economico nessuna ragione giustifica più un trattamento differenziato tra l’attività dello Stato e quella del privato.
La strada per appianare la disparità di trattamento è dunque quella percorsa: rivedere l’orientamento, di gran lunga prevalente, che nega la responsabilità dell’amministrazione in caso di azioni, frutto di abusi individuali e in contrasto con i fini istituzionali. Per i giudici è in contrasto con la Costituzione un sistema che di fatto crea una tutela risarcitoria meno effettiva in caso di illeciti commessi da chi dipende da un ente pubblico o dallo Stato rispetto all’ipotesi in cui ad infrangere la legge sia un privato (articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2019).

URBANISTICAPer quanto riguarda il sindacato del giudice amministrativo in materia di osservazioni ai piani regolatori, la giurisprudenza costante afferma che le osservazioni costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà.

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La valutazione in merito alla sostenibilità economica delle previsioni urbanistiche rientra nel merito della scelta amministrativa e, quindi, fuoriesce dal campo del sindacato giurisdizionale.
Infatti, il c.d. merito amministrativo consistente in un apprezzamento, in ordine alla convenienza ed alla opportunità del provvedimento da emanare, compiuto dall'amministrazione e che, salvi i casi di giurisdizione amministrativa di merito, tassativamente previsti, non può essere sostituito con la valutazione del giudice.
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1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Occorre premettere, per quanto riguarda il sindacato del giudice amministrativo in materia di osservazioni ai piani regolatori, che la giurisprudenza costante (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 04.02.2018 n. 418) afferma che le osservazioni costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà.
Nel merito il Comune ha respinto l’osservazione n. 79 proposta dalla ricorrente precisando che:
   a) le previsioni del PGT risultano analoghe a quelle del previgente PRG, pertanto con la nuova pianificazione non è stata introdotta alcuna previsione peggiorativa/penalizzante, a differenza di quanto farebbero desumere le argomentazioni avversarie;
   b) l’Ente ha, inoltre, ricordato di aver previsto la demolizione del fabbricato esistente anche al fine di rendere applicabile il beneficio di cui all’art. 11 punto 9 del piano delle regole, ovvero l’esenzione dall’applicazione del cd. “credito urbanistico” a carico dell’operatore.
La ricorrente contesta l’insostenibilità economica delle previsioni di piano e l’insufficienza dello scomputo del solo credito urbanistico.
In merito occorre specificare che la valutazione in merito alla sostenibilità economica delle previsioni urbanistiche rientra nel merito della scelta amministrativa e quindi fuoriesce dal campo del sindacato giurisdizionale. Infatti il c.d. merito amministrativo consistente in un apprezzamento, in ordine alla convenienza ed alla opportunità del provvedimento da emanare, compiuto dall'amministrazione e che, salvi i casi di giurisdizione amministrativa di merito, tassativamente previsti, non può essere sostituito con la valutazione del giudice (in tal senso ex plurimis Cass. Civile Sent. Sez. UU 03/11/2016 Num. 22228).
Per quanto poi attiene all'omessa pronuncia sulla richiesta che il portico aperto verso la piazzetta fosse scomputato dagli oneri e/ o dalle aree a standard da corrispondere all'Amministrazione è ragionevole la risposta dell’amministrazione secondo la quale il portico dell’edificio prospiciente la piazzetta non può che risultare di uso esclusivo privato, con ciò non potendosi computare il medesimo nella superficie a standard, che rimane delimitata come da planimetria del PGT.
Il motivo va quindi respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 1066  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Sulla possibilità di affiancare all’atto amministrativo urbanistico o edilizio un atto negoziale.
La possibilità di affiancare all’atto amministrativo urbanistico o edilizio un atto negoziale, sotto forma di atto unilaterale d’obbligo o di convenzione, è riconducibile nell’alveo degli strumenti propri della c.d. urbanistica contrattata, che non violano il principio di legalità perché trovano la loro copertura normativa nella previsione di strumenti consensuali di esercizio delle potestà amministrative di cui agli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge n. 241/1990, e il loro fondamento nel potere pianificatorio di governo del territorio e nella possibilità di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti; ne consegue che per la loro applicazione non è necessaria un’apposita copertura normativa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 1066 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. Anche il secondo motivo è infondato.
La possibilità di affiancare all’atto amministrativo urbanistico o edilizio un atto negoziale, sotto forma di atto unilaterale d’obbligo o di convenzione, è riconducibile nell’alveo degli strumenti propri della c.d. urbanistica contrattata, che non violano il principio di legalità perché trovano la loro copertura normativa nella previsione di strumenti consensuali di esercizio delle potestà amministrative di cui agli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge 07.08.1990, n. 241, ed il loro fondamento nel potere pianificatorio di governo del territorio e nella possibilità di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti. Ne consegue che per la loro applicazione non è necessaria un’apposita copertura normativa.
Di regola la convenzione offre maggiori garanzie al privato per la sua bilateralità, mentre l’atto unilaterale offre al Comune il vantaggio che il documento è sottoscritto solo dal privato, cosicché formalmente il Comune non assume alcun obbligo di pianificare in un certo modo.
Tuttavia la convenzione, per la sua forma pubblica, può essere necessaria od anche solo opportuna se incide su diritti reali e debba essere trascritta.
Ne consegue che la scelta tra atto unilaterale d’obbligo e convenzione è rimessa alla scelta ampiamente discrezionale dell’amministrazione, che può essere sindacata solo per macroscopici errori di diritto, che nel caso di specie non paiono sussistere.

In definitiva quindi il secondo motivo e l’intero ricorso vanno respinti.

APPALTI SERVIZILicenza Ars nell'appalto.
Illegittimo il bando di gara indetto dal comune per la predisposizione della rassegna stampa nella misura in cui ha inserito, tra i criteri di valutazione dell'offerta, quello della sottoscrizione della licenza Ars del repertorio Promopress. Nel senso che, se lo scopo è di tutelarsi da eventuali rivendicazioni da parte degli editori e poter, così, usufruire di una rassegna non lesiva dei diritti d'autore, la licenza Ars deve essere un requisito di partecipazione alla gara e non un titolo preferenziale.

La questione è stata risolta dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 09.05.2019 n. 3015 che, peraltro, ha ribaltato la decisione del giudice di I grado.
La legge 633/1941 sul diritto di autore vieta in generale la riproduzione dell'opera di ingegno, ma esclude da tale divieto gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali e la Corte di cassazione (sentenza 20410/2005), ha affermato che elaborare rassegne stampa sistematicamente diffuse il giorno stesso della pubblicazione degli articoli è condotta commercialmente scorretta ossia integra una fattispecie di concorrenza sleale.
In tale contesto normativo, puntualizza il Consiglio di stato, va inserita la scelta della Federazione italiana editori di giornali di costituire la Promopress s.r.l. e di gestire, suo tramite, i diritti di autore in relazione alle rassegne stampa, mediante repertorio cui può aderire ogni società del settore interessata.
Ma se la scelta di fondo del comune, ha rilevato la sezione, è giustificata dal rispetto della legge sul diritto d'autore in tema di composizione delle rassegne stampa, essa è condizione legale per lo svolgimento dell'attività imprenditoriale e va richiesta a tutti gli operatori. Non può, in pratica, atteggiarsi a criterio premiale di valutazione dell'offerta tecnica, poiché l'operatore che ne è privo esercita l'attività contra legem e la sua offerta è inammissibile non solamente meno valida dell'altra (articolo ItaliaOggi dell'11.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Considerazione “atomistica” dei singoli interventi edilizi.
Al fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale delle opere medesime, atteso che la considerazione “atomistica” dei singoli interventi non consente di comprendere in modo adeguato l’impatto effettivo degli interventi compiuti.
Pertanto, i molteplici interventi eseguiti non vanno considerati in maniera “frazionata” e, al contrario, debbono essere vagliati in un quadro di insieme e non segmentato, solo così potendosi comprendere il nesso funzionale che li lega e, in definitiva, l'effettiva portata dell'operazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, Sez. II, sentenza 08.05.2019 n. 1033 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
3.1 Con il primo motivo si contesta l’illegittimità dell’ordinanza, per essere stata adottata quando la tecnostruttura era installata legittimamente, in quanto autorizzata stagionalmente, dal 15/10-15/04.
Pertanto risulterebbe errato il richiamo all’art. 31 del DPR 380/2001, poiché non si tratta di opere realizzate in assenza di titoli edilizi, né di opere realizzate in totale difformità, ma solo in parziale difformità dai titoli abilitativi, contestando altresì che le opere costituiscono un “intervento unitario”, trattandosi di singoli interventi, con conseguente applicazione dell’art. 34, comma 2, DPR cit.
Il motivo non può essere accolto.
Come detto,
l’Amministrazione, chiamata a valutare l'impatto paesaggistico e urbanistico dell’intervento edilizio, ha correttamente considerato globalmente le opere, poiché la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata della complessiva alterazione dello stato dei luoghi.
Detta valutazione globale e unitaria dell’intervento, ad avviso del Collegio, è corretta e fa giusta applicazione del prevalente orientamento, secondo cui, al fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale delle opere medesime, atteso che la considerazione “atomistica” dei singoli interventi non consente di comprendere in modo adeguato l’impatto effettivo degli interventi compiuti; pertanto, i molteplici interventi eseguiti non vanno considerati in maniera “frazionata” e, al contrario, debbono essere vagliati in un quadro di insieme e non segmentato (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.02.2019, n. 902), solo così potendosi comprendere il nesso funzionale che li lega e, in definitiva, l'effettiva portata dell'operazione (in tal senso anche questa Sezione con sent. n. 2046 del 05/09/2018).
Per tale ragione è legittimo il provvedimento, laddove ha applicato l’art. 31 DPR 380/2001, trattandosi di un intervento totalmente difforme da quello assentito in precedenza: come emerge dal verbale di sopralluogo del giorno 01.10.2015, i manufatti presentano una configurazione ben diversa da quanto autorizzato, a seguito dell’esecuzione di opere poste in essere in assenza totale dei titoli o in difformità radicale dall’assentito.
Per tale ragione, diviene irrilevante anche la circostanza che la tensostruttura al momento dell’adozione dell’ordinanza fosse dotata di autorizzazione, poiché non si trattava più della tensostruttura, intesa come copertura temporanea e amovibile, ma di una nuova opera, affissa stabilmente al suolo, realizzata con nuovi materiali e con dimensioni diverse.

EDILIZIA PRIVATAE' pacifico che l'ordinamento tutela l'affidamento solo quando sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem, sì da non potersi ammettere un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. E nella circostanza le opere sono state realizzate quando nessun titolo le legittimava.
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È altresì escluso che lo speciale strumento della c.d. variante semplificata per attività produttive (introdotta nell'ordinamento dall'art. 5 del D.P.R. n. 447/1998 ed oggi trasposta nell'art. 8 del D.P.R. n. 160/2010) possa essere utilizzata per sanare opere realizzate abusivamente, in quanto si tratta di un procedimento con la specifica ed esclusiva finalità di semplificare o rendere più celere la modifica dello strumento urbanistico e favorire l'installazione di strutture produttive, con un meccanismo procedurale più celere, mentre per la sanatoria di opere abusive l'unico schema applicabile è quello riconducibile all'art. 36 del D.P.R. 380/2001.
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3.2 Con il secondo motivo le ricorrenti censurano il comportamento contraddittorio dell'Amministrazione comunale, la quale, dopo aver ingenerato un incolpevole affidamento nella possibilità che venisse modificata la disciplina urbanistica, al fine di consentire il mantenimento permanente della copertura, non solo ha interrotto il procedimento di variante, ma ha avviato l’attività di controllo, ordinando la demolizione di un manufatto che, al momento dell’emanazione dell’ordinanza, era autorizzato. La condotta dell’Amministrazione sarebbe anche più grave, considerando che le ricorrenti, proprio a fronte dell’avvio del procedimento di variante, hanno interrotto l'iter del procedimento avviato, ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. 447/1998, che avrebbe consentito il mantenimento permanente della struttura.
Anche questa censura non è fondata.
Il procedimento di variante avviato dall’Amministrazione non ha creato alcuna legittima aspettativa in capo alle ricorrenti, perché si trattava di una variante finalizzata al mantenimento della tensostruttura, a uso agricolo, ma pur sempre con le caratteristiche già assentite.
In ogni caso è pacifico che l'ordinamento tutela l'affidamento solo quando sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem, sì da non potersi ammettere un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva (tra le altre, Cons. St. Sez. IV, 28.02.2017, n. 908). E nella circostanza le opere sono state realizzate quando nessun titolo le legittimava.
È altresì escluso che lo speciale strumento della c.d. variante semplificata per attività produttive (introdotta nell'ordinamento dall'art. 5 del D.P.R. n. 447/1998 ed oggi trasposta nell'art. 8 del D.P.R. n. 160/2010) possa essere utilizzata per sanare opere realizzate abusivamente (TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 19.12.2014, n. 2206), in quanto si tratta di un procedimento con la specifica ed esclusiva finalità di semplificare o rendere più celere la modifica dello strumento urbanistico e favorire l'installazione di strutture produttive, con un meccanismo procedurale più celere (TAR Puglia, sez. III Lecce, 14.01.2010, n. 146), mentre per la sanatoria di opere abusive l'unico schema applicabile è quello riconducibile all'art. 36 del D.P.R. 380/2001 (Consiglio di Stato Ad. Plen. 4/2009) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, Sez. II, sentenza 08.05.2019 n. 1033 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATA: Permessi non fruiti rimborsati. Il comune rifonde il contributo a chi rinuncia ad edificare. Una ricognizione delle pronunce recenti su oneri di urbanizzazione e costi di costruzione.
Soddisfatti o rimborsati. I titolari del permesso di costruire che rinunciano ai lavori, o comunque non utilizzano l'autorizzazione, possono ottenere dal comune la restituzione delle somme in precedenza versate a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione: pesa la natura tributaria degli esborsi. In capo all'amministrazione locale, infatti, si configura un indebito oggettivo e la rifusione del denaro sborsato dal privato può scattare anche pro quota quando il titolo edilizio risulta utilizzato solo in parte.
È quanto emerge dalla
sentenza 02.05.2019 n. 426, pubblicata dalla II Sez. della sede di Brescia del TAR Lombardia.
I fatti. Il comune è condannato a versare oltre 24 mila euro all'impresa edile per effetto dell'accoglimento del ricorso. A suo tempo la ditta ne aveva pagati 55 mila per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione ma poi aveva rinunciato a realizzare le opere assentite: l'avvio dei lavori, dunque, non risultava mai comunicato.
In seguito l'impresa voleva costruire quattro appartamenti in un altro comprensorio e aveva bisogno del permesso in sanatoria: con la pronuncia in esame ha ottenuto che l'importo dell'oblazione sia scalato dal versamento precedente e le sia pure restituita la differenza. Il punto è che il contributo concessorio risulta legato alla trasformazione del territorio: il mero pagamento non costituisce acquiescenza all'imposizione e se l'opera non viene realizzata il privato ottiene la restituzione in base all'articolo 2033 c.c. perché manca l'obbligazione di dare.
Gli interessi decorrono dalla notifica del ricorso perché non è provata la malafede dell'amministrazione. Il debito dell'ente è di valuta: l'impresa manca di dimostrare che sussiste il maggior danno ex articolo 1224, secondo comma, c.c. e quindi non risulta dovuta la rivalutazione monetaria.
I precedenti: incremento patrimoniale. Il contributo concessorio è uno dei nodi più spinosi da sciogliere in caso di nuove costruzioni. Non è al condominio, per esempio, che il comune può ingiungere il pagamento gli oneri di costruzione e urbanizzazione. La prestazione patrimoniale imposta dall'amministrazione, infatti, compensa l'attività svolta dall'ente che ha assicurato al nuovo insediamento gli allacci alle condotte dell'acquedotto e delle fognature: deve dunque restare a carico di chi è titolare del permesso di costruire, cioè dell'impresa che ha edificato lo stabile.
È quanto emerge dalla sentenza 480/2019, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Sicilia.
Accolto il ricorso del condominio: deve escludersi la legittimazione passiva dell'ente di gestione rispetto alla diffida e poi all'ingiunzione emesse dall'amministrazione locale. Risale al lontano 1990 l'allora concessione edilizia, oggi permesso di costruire: all'originaria titolare subentra un'altra ditta che completa i lavori nel 1992. Dopo vent'anni si sveglia il comune che pretende quasi 255 mila euro per contributi di urbanizzazione, costi di costruzione, penali, interessi e adeguamento.
 E oltre all'amministratore della società l'altro destinatario del provvedimento è quello del condominio. Che tuttavia non risulta obbligato perché è soltanto il patrimonio del costruttore a essere incrementato dall'intervento edilizio: il rilascio della concessione è fatto costitutivo dell'obbligo giuridico di corrispondere il contributo costituito in capo al cessionario. E il titolare della concessione volturata resta obbligato in solido al pagamento degli oneri con l'avente causa, salva la ripartizione dei costi frutto di accordi interni, a meno che i lavori non siano realizzati del tutto dal terzo.
Modifica onerosa. Può costare caro, poi, anche il semplice cambio di destinazione dell'immobile. Il laboratorio artigianale che diventa locale commerciale paga al comune gli oneri di urbanizzazione anche se la trasformazione non prevede la realizzazione di opere. E ciò perché il cambio di modo d'uso, pur se soltanto funzionale, deve ritenersi oneroso in quanto implica un passaggio fra categorie urbanistiche differenti.
È quanto emerge dalla sentenza 309/18, pubblicata dalla terza sezione del tribunale amministrativo regionale della Toscana.
Niente da fare per la srl: pagherà il contributo richiesto dal servizio edilizia privata dell'ente locale. Inutile dedurre che il mutamento di destinazione solo funzionale sarebbe attività libera e gratuita salvo diversa disposizione della legge regionale. Per legittimare il comune a pretendere il pagamento non serve il piano di localizzazione o distribuzione delle funzioni né l'adozione di altri atti urbanistici.
E ciò perché è in base all'articolo 5 del dm 1444/1968 che si ricava come il passaggio da bottega artigianale a esercizio commerciale determini di per sé l'aumento del carico urbanistico dei locali perché deve ritenersi una trasformazione significativa per i valori tutelati dalle norme: va dunque annoverato fra gli interventi da realizzare a titolo oneroso. Non giova allora alla società fare riferimento alla circolare della giunta regionale, che non può mutare l'inquadramento disposto dalla legge.
Obbligo eluso. Attenzione, però: scatta lo stop agli oneri di urbanizzazione quando il comune non sa spiegare come è arrivato a determinare la somma richiesta. Evita dunque il contributo concessorio la spa che intende ristrutturare l'immobile con cambio di destinazione a industriale a commerciale.
È quanto emerge dalla sentenza 1498/16, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Calabria.
Il ricorso della società che intende riconvertire lo stabilimento è accolto per la carenza di motivazione del provvedimento adottato dall'amministrazione locale. Un'omissione che peraltro continua anche in corso di causa perché anche dopo la richiesta ad hoc del collegio l'ente locale non riesce a motivare la sua istruttoria e, quindi, a rendere ragione del motivo per cui ha adottato la sua tabella A per addebitare gli oneri di urbanizzazione all'impresa che procede alla ristrutturazione.
L'azienda è quindi costretta a ricorrere al giudice perché non ha contezza del procedimento seguito dal punto di vista tecnico, istruttorio e contabile. E invece nel processo amministrativo incombe sull'ente l'onere di leale e fattiva collaborazione all'attività istruttoria disposta dal giudice.
Parcheggi gratis. Niente esborsi, infine, per le opere di utilità comune. L'impresa che realizza l'intervento edilizio non paga il contributo di costruzione sui parcheggi: il titolo per costruire, infatti, deve ritenersi gratuito per i posteggi perché costituiscono un'opera di urbanizzazione utile agli interessi della viabilità anche senza la mediazione di alcun edificio. Il tutto grazie alla legge regionale lombarda che ha superato il requisito della pertinenzialità al fabbricato.
È quanto emerge dalla sentenza 192/18, pubblicata dalla II Sez. del TAR Milano.
Accolto il ricorso dell'impresa che sta realizzando l'intervento edilizio nell'area di sua proprietà: si tratta della demolizione del fabbricato esistente e della ricostruzione, sempre a scopi residenziali, nel rispetto della volumetria precedente. Il comune dell'hinterland ambrosiano deve restituire alla società oltre 110 mila euro, vale a dire l'equivalente del contributo di costruzione relativo ai parcheggi. Il regime di gratuità dei posteggi si applica anche agli edifici nuovi e non soltanto a quelli preesistenti.
E non può dirsi che la legge lombarda stravolga la nozione di opere di urbanizzazione: i parcheggi costruiti all'interno dei comprensori abitativi, infatti, realizzati anche in eccedenza alla quota minima prevista per legge salvano le strade dalla sosta selvaggia delle auto e dunque contribuiscono a ridurre il traffico dei veicoli. D'altronde già in passato la normativa regionale qualificava i parcheggi come opere di urbanizzazione e dunque avrebbe dovuto far scattare lo stop al contributo di costruzione
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2019).

TRIBUTIP.a. in ritardo è evento ordinario. Il pagamento tardivo non è causa di forza maggiore. La Ctr Lazio sull’omesso versamento delle imposte. Sta al contribuente adottare precauzioni.
Un ritardato pagamento da parte della pubblica amministrazione non costituisce causa di forza maggiore che giustifica l'omesso versamento delle imposte.
Lo ha stabilito la Commissione tributaria regionale del Lazio, nella sentenza 03.04.2019 n. 2017, secondo cui il ritardo non può configurare un evento imprevedibile tale da rientrare nella fattispecie di forza maggiore. Piuttosto, il ritardo lamentato dal contribuente è ricorrente e prevedibile.
Il collegio ha affrontato questo tema in seguito a una eccezione sollevata da una srl che ha invocato l'applicazione dell'art. 6, comma 5, del dlgs n. 472/1997, dal titolo «Cause di non punibilità», secondo cui: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore». Ciò al fine di non pagare le sanzioni e gli interessi conseguenti all'omesso versamento di ritenute di acconto.
La Ctr ha chiarito, confermando la decisione dei giudici di prime cure, che se un imprenditore non ha versato quanto dovuto per ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione deve comunque essere soggetto al pagamento delle imposte in quanto non si tratta di una giustificazione valida come causa di forza maggiore. Questa decisione si inserisce sulla scia della giurisprudenza unionale (Corte di giustizia Ce C/314/06) secondo la quale la nozione di forza maggiore, in materia tributaria e fiscale, comporta l'esistenza di un elemento oggettivo (circostanze anormali ed estranee all'operatore) e di un elemento soggettivo (obbligo dell'interessato di premunirsi contro le conseguenze dell'evento anormale).
Non solo. I giudici di appello hanno rilevato che anche la Cassazione, in linea con la giurisprudenza costante del nostro paese e della Corte di giustizia europea appunto, afferma che non può considerarsi causa di forza maggiore il ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione in quanto prevedibile e considerato ordinario nella gestione dell'attività di impresa, tale per cui non spinge il ricorrente a un comportamento straordinario al di fuori di quanto quotidianamente accade durante la programmazione della gestione aziendale.
Inoltre la posizione espressa dalla Corte di giustizia europea nasce da principi formatisi in contesti diversi, come quello della regolamentazione agricola o delle regole relative ai termini per l'impugnazione di cui all'art. 45 dello Statuto della Corte di giustizia («Nessuna decadenza risultante dallo spirare dei termini può essere eccepita quando l'interessato provi l'esistenza di un caso fortuito o di forza maggiore»), la nozione di forza maggiore non si limita all'impossibilità assoluta, ma deve essere intesa nel senso di circostanze anormali e imprevedibili, indipendenti dall'operatore.
E ancora, elencando le definizioni di causa di forza maggiore, ai sensi dell'art. 14, n. 1, prima frase, della direttiva 92/12, la nozione è legata al fatto che la sopravvenienza non abbia potuto essere prevista in alcun modo da parte del contribuente.
Incombe ai giudici nazionali, tuttavia, verificare se tali condizioni sono soddisfatte nella fattispecie principale. Infatti, una diligenza sufficiente presuppone anche un comportamento attivo continuo, orientato verso l'identificazione e la valutazione dei rischi potenziali, nonché la capacità di adottare misure adeguate ed efficaci per prevenire la realizzazione di tali rischi.
Ne risulta che, come già precisato dalla Corte, la nozione di forza maggiore comporta, come già detto, un elemento oggettivo, relativo alle circostanze anormali ed estranee all'operatore, e un elemento soggettivo, costituito dall'obbligo dell'interessato di premunirsi contro le conseguenze dell'evento anormale, adottando misure appropriate senza incorrere in sacrifici eccessivi.
Nel caso considerato il soggetto in questione non ha adottato tutte le precauzioni, dovute non avendo sopportato rischi eccessivi onde evitare il mancato pagamento delle imposte. Per tale ragione la Commissione tributaria regionale ha respinto, adeguandosi alle decisioni dei giudici della Corte di giustizia europea e coerentemente con quanto stabilito dalla Corte di legittimità, le eccezioni sollevate dal contribuente.
Di diverso tenore la sentenza della Cassazione, la n. 17727 del 29/04/2019, per la quale, a seguito di ricorso inoltrato per una società in fase di liquidazione, in caso di omesso versamento dell'Iva, l'imprenditore che si trova nell'impossibilità per causa di forza maggiore, è assolto perché ha dovuto rispondere di debiti da soddisfare prioritariamente, come da art. 2777 c.c., rispetto ai tributi, come il versamento dei salari e stipendi e di contributi ai lavoratori; per cui trovandosi in periodi di difficoltà economica con scarsa liquidità non ha potuto agire diversamente, trovandosi in una situazione da lui non voluta per dolo o colpa grave e non essendo in grado di reperire altra liquidità tramite prestiti da banche o società finanziarie o accordi con fornitori o clienti.
Peraltro, l'obbligo civilistico del pagamento dei tributi non versati si riferisce esclusivamente alle imposte sui redditi, per cui secondo il Collegio il principio è soddisfare i crediti secondo un ordine gerarchico come da già citato art. 2777 c.c. che in caso di omessi pagamenti dovuti all'insufficienza di risorse tipico della fase liquidatoria di un'attività o di un'azienda in crisi comporta che nessuno specifico motivo di rimprovero può essere mosso all'imprenditore o altri.
Per dimostrare comunque che sono state adottate tutte le misure necessarie, si accantonano, per esempio, fondi sufficienti per fronteggiare future e prevedibili difficoltà in cui si può incorrere stante l'attività dell'impresa e il settore in cui opera.
In effetti, anche nel caso di pagamenti in ritardo da parte della pubblica amministrazione, l'imprenditore deve considerare i tempi che solitamente occorrono per pagare i fornitori. Ecco perché il mancato pagamento da parte di debitori pubblici o privati non integra di per sé la causa di forza maggiore, non essendo esimente il ritardo considerato se l'imprenditore, come nel caso precedente, non ha provveduto a fronteggiare questi rischi con le dovute precauzioni del caso senza che queste mutassero in costi eccessivi per l'attività
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Immobile urbanisticamente non conforme e responsabilità professionale del tecnico incaricato di redigere la relazione preliminare alla vendita.
La diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento della sua attività è quella media, cioè la diligenza posta nell'esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e attenzione medie. Ne consegue che ove il professionista, nello svolgimento dell’attività, non ponga la diligenza media, la sua responsabilità verso il cliente è disciplinata dai comuni principi della responsabilità contrattuale. Perciò il professionista risponde, oltre che per il dolo, anche per colpa lieve (TRIBUNALE di Firenze, Sez. III, sentenza 10.01.2019 n. 77).

AGGIORNAMENTO ALL'11.06.2019

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La Corte di Giustizia UE si è pronunciata: incarico "fiduciario" al legale per resistere in giudizio?
Detto altrimenti, le linee guida n. 12 dell'ANAC (ancorché non vincolanti) nonché i vari pareri espressi dalle varie Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti li possiamo tranquillamente cestinare sicché si possa tornare al vecchio e pratico incarico "intuitu personae" senza "lacci e lacciuoli" di sorta? (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.05.2012 n. 2730).

INCARICHI PROFESSIONALI: «Rinvio pregiudiziale – Procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi – Direttiva 2014/24/UE – Articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v) – Validità – Ambito di applicazione – Esclusione dei servizi di arbitrato e di conciliazione e di determinati servizi legali – Principi di parità di trattamento e sussidiarietà – Articoli 49 e 56 TFUE»
Per quanto riguarda i servizi forniti da avvocati, di cui all’articolo 10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24, dal considerando 25 di tale direttiva risulta che il legislatore dell’Unione ha tenuto conto del fatto che tali servizi legali sono di solito prestati da organismi o persone designati o selezionati secondo modalità che non possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti pubblici in determinati Stati membri, cosicché occorreva escludere tali servizi legali dall’ambito di applicazione della direttiva in parola.
A tale riguardo, occorre rilevare che
l’articolo 10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24 non esclude dall’ambito di applicazione di detta direttiva tutti i servizi che possono essere forniti da un avvocato a un’amministrazione aggiudicatrice, ma unicamente la rappresentanza legale del suo cliente nell’ambito di un procedimento dinanzi a un organo internazionale di arbitrato o di conciliazione, dinanzi ai giudici o alle autorità pubbliche di uno Stato membro o di un paese terzo, nonché dinanzi ai giudici o alle istituzioni internazionali, ma anche la consulenza legale fornita nell’ambito della preparazione o dell’eventualità di un siffatto procedimento. Simili prestazioni di servizi fornite da un avvocato si configurano solo nell’ambito di un rapporto intuitu personae tra l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla massima riservatezza.
Orbene, da un lato,
un siffatto rapporto intuitu personae tra l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla libera scelta del suo difensore e dalla fiducia che unisce il cliente al suo avvocato, rende difficile la descrizione oggettiva della qualità che si attende dai servizi da prestare.
Dall’altro,
la riservatezza del rapporto tra avvocato e cliente, il cui oggetto consiste, in particolare nelle circostanze descritte al punto 35 della presente sentenza, tanto nel salvaguardare il pieno esercizio dei diritti della difesa dei singoli quanto nel tutelare il requisito secondo il quale ogni singolo deve avere la possibilità di rivolgersi con piena libertà al proprio avvocato (v., in tal senso, sentenza del 18.05.1982, AM & S Europe/Commissione, 155/79, EU:C:1982:157, punto 18), potrebbe essere minacciata dall’obbligo, incombente sull’amministrazione aggiudicatrice, di precisare le condizioni di attribuzione di un siffatto appalto nonché la pubblicità che deve essere data a tali condizioni.
Ne consegue che, alla luce delle loro caratteristiche oggettive,
i servizi di cui all’articolo 10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24, non sono comparabili agli altri servizi inclusi nell’ambito di applicazione della direttiva medesima. Tenuto conto di tale differenza oggettiva, è altresì senza violare il principio della parità di trattamento che il legislatore dell’Unione ha potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escludere tali servizi dall’ambito di applicazione di detta direttiva.
Sotto un terzo profilo,
per quanto riguarda i servizi legali rientranti nelle attività che partecipano, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri, di cui all’articolo 10, lettera d), v), della direttiva 2014/24, tali attività, e pertanto tali servizi, sono escluse, ai sensi dell’articolo 51 TFUE, dall’ambito di applicazione delle disposizioni di detto Trattato relative alla libertà di stabilimento e di quelle relative alla libera prestazione di servizi ai sensi dell’articolo 62 TFUE.
Siffatti servizi si distinguono da quelli che rientrano nell’ambito di applicazione di tale direttiva poiché partecipano direttamente o indirettamente all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche.

Ne risulta che,
per loro stessa natura, i servizi legali connessi, anche occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri non sono comparabili, per le loro caratteristiche oggettive, agli altri servizi inclusi nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/24. Tenuto conto di tale differenza oggettiva, è, ancora una volta, senza violare il principio della parità di trattamento che il legislatore dell’Unione ha potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escluderli dall’ambito di applicazione della direttiva 2014/24.
Pertanto,
dall’esame delle disposizioni dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24 non è emerso alcun elemento che possa inficiare la loro validità alla luce dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché degli articoli 49 e 56 TFUE.

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Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sulla validità dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE (GU 2014, L 94, pag. 65).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, P.M., N.G.d.M. e P.V.d.S. e, dall’altro, il Ministerraad (Consiglio dei Ministri, Belgio) in merito all’esclusione, ad opera della normativa belga di trasposizione delle disposizioni della direttiva 2014/24, di determinati servizi legali dalle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici.
Contesto normativo
   Diritto dell’Unione
3 I considerando 1, 4, 24 e 25 della direttiva 2014/24 stabiliscono quanto segue:
   «(1) L’aggiudicazione degli appalti pubblici da o per conto di autorità degli Stati membri deve rispettare i principi del trattato [FUE] e in particolare la libera circolazione delle merci, la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi, nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza. Tuttavia, per gli appalti pubblici con valore superiore a una certa soglia è opportuno elaborare disposizioni per coordinare le procedure nazionali di aggiudicazione degli appalti in modo da garantire che a tali principi sia dato effetto pratico e che gli appalti pubblici siano aperti alla concorrenza.
(...)
   (4) La crescente diversità delle forme di intervento pubblico ha reso necessario definire più chiaramente il concetto stesso di appalto. Questo chiarimento in quanto tale non dovrebbe tuttavia ampliare l’ambito di applicazione della presente direttiva rispetto a quello della direttiva 2004/18/CE [del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU 2004, L 134, pag. 114)]. La normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici non intende coprire tutte le forme di esborsi di fondi pubblici, ma solo quelle rivolte all’acquisizione di lavori, forniture o prestazioni di servizi a titolo oneroso per mezzo di un appalto pubblico. (...)
(...)
   (24) È opportuno ricordare che i servizi d’arbitrato e di conciliazione e altre forme analoghe di risoluzione alternativa delle controversie sono di norma prestati da organismi o persone approvati, o selezionati, secondo modalità che non possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti. Occorre precisare che la presente direttiva non si applica agli appalti di servizi per la fornitura di tali servizi indipendentemente dalla loro denominazione nel diritto interno.
   (25) Taluni servizi legali sono forniti da prestatori di servizi designati da un organo giurisdizionale di uno Stato membro, comportano la rappresentanza dei clienti in procedimenti giudiziari da parte di avvocati, devono essere prestati da notai o sono connessi all’esercizio di pubblici poteri. Tali servizi legali sono di solito prestati da organismi o persone selezionate o designate secondo modalità che non possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti, come può succedere ad esempio per la designazione dei pubblici ministeri in taluni Stati membri. Tali servizi legali dovrebbero pertanto essere esclusi dall’ambito di applicazione della presente direttiva
».
4 L’articolo 10 di detta direttiva, intitolato «Esclusioni specifiche per gli appalti di servizi», dispone, alle lettere c) e d), quanto segue:
«La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi:
(...)
c) concernenti i servizi d’arbitrato e di conciliazione;
d) concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi legali:
   i) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 77/249/CEE del Consiglio [, del 22.03.1977, intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati (GU 1977, L 78, pag. 17)]:
      – in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato membro, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o conciliativa internazionale; oppure
      – in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro o un paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali;
   ii) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei procedimenti di cui alla presente lettera, punto i), o qualora vi sia un indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento in questione, sempre che la consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della direttiva [77/249];
(...)
   v) altri servizi legali che, nello Stato membro interessato, sono connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri
».
   Diritto belga
5 Con la legge sugli agli appalti pubblici, del 17.06.2016 (Moniteur belge del 14.07.2016, pag. 44219), il legislatore belga ha rivisto le norme per l’aggiudicazione degli appalti e ha reso conforme la propria legislazione con la direttiva 2014/24. L’articolo 28 di tale legge prevede quanto segue:
«§ 1°. Fatto salvo il paragrafo 2, non sono soggetti all’applicazione della presente legge gli appalti pubblici di servizi:
(...)
3° concernenti i servizi d’arbitrato e di conciliazione;
4° concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi legali:
   a) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della direttiva [77/249]:
      i. in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato membro, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o conciliativa internazionale; oppure
      ii. in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro o un paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali;
   b) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei procedimenti di cui al presente punto, lettera a), o qualora vi sia un indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento in questione, sempre che la consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della direttiva [77/249];
(...)
   e) altri servizi legali che, nel Regno, sono connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri;
(...)
§ 2. Il Re può stabilire le norme di aggiudicazione cui sono assoggettati gli appalti di cui al paragrafo 1, 4, lettere a e b, nei casi da esso stabiliti
».
Procedimento principale e questione pregiudiziale
6 Il 16.01.2017, P.M., N.G.d.M. e P.V.d.S., ricorrenti nel procedimento principale, avvocati e soggetti con una formazione giuridica, hanno adito il giudice del rinvio, il Grondwettelijk Hof (Corte costituzionale, Belgio), con un ricorso di annullamento delle disposizioni della legge sugli appalti pubblici, che escludono determinati servizi legali, nonché determinati servizi di arbitrato e di conciliazione, dall’ambito di applicazione di detta legge.
7 I ricorrenti nel procedimento principale fanno valere che tali disposizioni, poiché hanno l’effetto di sottrarre l’attribuzione dei servizi ivi previsti dalle norme in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici previste da suddetta legge, creano una differenza di trattamento che non può essere giustificata.
8 Il giudice del rinvio ritiene quindi che si ponga la questione se l’esclusione di tali servizi dalle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici pregiudichi gli obiettivi, perseguiti dal legislatore dell’Unione al momento dell’adozione della direttiva 2014/24, relativi alla piena concorrenza, alla libera prestazione di servizi e alla libertà di stabilimento, e se i principi di sussidiarietà e di parità di trattamento non avrebbero dovuto condurre a un’armonizzazione delle norme del diritto dell’Unione anche nei confronti di tali servizi.
9 Secondo tale giudice, per valutare la costituzionalità delle disposizioni legislative nazionali di cui è chiesto l’annullamento, è necessario esaminare se le disposizioni dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), di tale direttiva siano compatibili con i principi di parità di trattamento e di sussidiarietà nonché con gli articoli 49 e 56 TFUE.
10 Ciò considerato,
il Grondwettelijk Hof (Corte costituzionale) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«
Se l’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva [2014/24] sia conforme al principio di parità di trattamento, eventualmente in combinato disposto con il principio di sussidiarietà e con gli articoli 49 e 56 [TFUE], atteso che i servizi ivi menzionati sono esclusi dall’applicazione delle norme di aggiudicazione di cui alla citata direttiva, che garantiscono peraltro la piena concorrenza e la libera circolazione nell’acquisto di servizi ad opera della pubblica amministrazione».
Sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale
11 I governi ceco e cipriota contestano la ricevibilità della questione pregiudiziale e, pertanto, della domanda di pronuncia pregiudiziale.
12 Il governo ceco afferma che tale questione non ha alcun rapporto con l’effettività o con l’oggetto del procedimento principale, che riguarderebbe la questione se la Costituzione belga osti a che il diritto nazionale sottragga dall’ambito di applicazione delle norme nazionali in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici determinati servizi legali parimenti esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva 2014/24. Orbene, il diritto dell’Unione non imporrebbe a uno Stato membro di includere i servizi in questione nell’ambito di applicazione delle norme nazionali di trasposizione. Tale questione dovrebbe quindi essere valutata unicamente alla luce della Costituzione belga.
13 Il governo cipriota sostiene, dal canto suo, che la questione posta verte sulla conformità dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), di tale direttiva agli articoli 49 e 56 TFUE. Orbene, qualsiasi misura nazionale che avrebbe costituito oggetto di un’armonizzazione esauriente a livello dell’Unione dovrebbe essere valutata alla luce delle disposizioni di questa misura di armonizzazione, e non di quelle del diritto primario.
14 A tale proposito, occorre ricordare che, quando una questione concernente la validità di un atto adottato dalle istituzioni dell’Unione è sollevata dinanzi ad un giudice nazionale, spetta a quest’ultimo giudicare se una decisione su tale punto sia necessaria per pronunciare la sua sentenza e, pertanto, chiedere alla Corte di statuire su tale questione. Di conseguenza, qualora le questioni sollevate dal giudice nazionale riguardino la validità di una disposizione di diritto dell’Unione, in via di principio la Corte è tenuta a statuire [sentenze dell’11.11.1997, Eurotunnel e a., C‑408/95, EU:C:1997:532, punto 19, del 10.12.2002, British American Tobacco (Investments) e Imperial Tobacco, C‑491/01, EU:C:2002:741, punto 34, e del 28.03.2017, Rosneft, C‑72/15, EU:C:2017:236, punto 49].
15 La Corte può rifiutarsi di statuire su una questione pregiudiziale sottoposta da un giudice nazionale, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, soltanto qualora, segnatamente, non siano rispettati i requisiti relativi al contenuto della domanda di pronuncia pregiudiziale riportati all’articolo 94 del regolamento di procedura della Corte o appaia in modo manifesto che l’interpretazione di una norma dell’Unione o il giudizio sulla sua validità chiesti da tale giudice non abbiano alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto del procedimento principale o qualora il problema sia di natura ipotetica (sentenza del 28.03.2017, Rosneft, C‑72/15, EU:C:2017:236, punto 50).
16 Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio risulta che le disposizioni nazionali di cui trattasi nel procedimento principale, delle quali si chiede l’annullamento dinanzi al giudice del rinvio, riguardano la legge di trasposizione, nel diritto belga, della direttiva 2014/24 e, in particolare, l’esclusione di determinati servizi legali dall’ambito di applicazione di quest’ultima.
17 In siffatte circostanze, contrariamente a quanto sostenuto dai governi ceco e cipriota, la questione della validità dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24 non è priva di pertinenza ai fini dell’esito della controversia principale. Infatti, nell’ipotesi in cui l’esclusione prevista da dette disposizioni sia dichiarata invalida, le disposizioni di cui si chiede l’annullamento dinanzi al giudice del rinvio dovrebbero essere considerate contrarie al diritto dell’Unione.
18 Dalle considerazioni che precedono risulta che la questione posta, e pertanto la domanda di pronuncia pregiudiziale, è ricevibile.
Sulla questione pregiudiziale
19 Con la sua questione,
il giudice del rinvio chiede, in sostanza, alla Corte di pronunciarsi sulla validità dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24, alla luce dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché degli articoli 49 e 56 TFUE.
20 Per quanto concerne, in primo luogo, il principio di sussidiarietà e il rispetto degli articoli 49 e 56 TFUE, si deve ricordare, da un lato, che il principio di sussidiarietà, enunciato all’articolo 5, paragrafo 3, TUE, prevede che l’Unione, nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, intervenga solo e nei limiti in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione prospettata, possano essere realizzati meglio a livello dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 04.05.2016, Philip Morris Brands e a., C‑547/14, EU:C:2016:325, punto 215 e giurisprudenza citata).
21 Discende necessariamente dal fatto che
il legislatore dell’Unione ha escluso dall’ambito di applicazione della direttiva 2014/24 i servizi di cui all’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), di quest’ultima che esso ha, in tal modo, ritenuto che spettava ai legislatori nazionali determinare se tali servizi dovessero essere soggetti alle norme in materia di aggiudicazione di appalti pubblici.
22 Pertanto, non si può sostenere che tali disposizioni siano state adottate in violazione del principio di sussidiarietà.
23 Dall’altro lato, quanto al rispetto degli articoli 49 e 56 TFUE, il considerando 1 della direttiva 2014/24 enuncia che l’aggiudicazione di appalti pubblici da parte delle autorità degli Stati membri o in loro nome deve essere conforme ai principi del Trattato FUE, in particolare alle disposizioni relative alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi.
24 Secondo una giurisprudenza costante della Corte, infatti, il coordinamento a livello dell’Unione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici è diretto a eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei servizi e delle merci che tali procedure possono instaurare e a proteggere, quindi, gli interessi degli operatori economici stabiliti in uno Stato membro i quali intendano offrire beni o servizi alle amministrazioni aggiudicatrici stabilite in un altro Stato membro (v., in tal senso, sentenza del 13.11.2007, Commissione/Irlanda, C‑507/03, EU:C:2007:676, punto 27 e giurisprudenza citata).
25 Non ne consegue tuttavia che ‑
escludendo i servizi di cui all’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24 dall’ambito di applicazione di quest’ultima e, pertanto, non costringendo gli Stati membri a sottoporli alle norme in materia di aggiudicazione di appalti pubblici‑ questa stessa direttiva violerebbe le libertà garantite dai Trattati.
26 Per quanto concerne, in secondo luogo, il potere discrezionale del legislatore dell’Unione e il principio generale di parità di trattamento, secondo una giurisprudenza costante della Corte, quest’ultima ha riconosciuto al legislatore dell’Unione, nell’ambito dell’esercizio delle competenze a esso demandate, un ampio margine di discrezionalità quando la sua azione implica scelte di natura politica, economica e sociale, e quando è chiamato a effettuare valutazioni complesse (sentenze del 16.12.2008, Arcelor Atlantique et Lorraine e a., C‑127/07, EU:C:2008:728, punto 57, nonché del 30.01.2019, Planta Tabak, C‑220/17, EU:C:2019:76, punto 44). Solo la manifesta inidoneità di una misura adottata in tale ambito, in relazione allo scopo che l’istituzione competente intende perseguire, può inficiare la legittimità di tale misura (sentenza del 14.12.2004, Swedish Match, C‑210/03, EU:C:2004:802, punto 48).
27 Tuttavia, anche in presenza di un tale potere, il legislatore dell’Unione è tenuto a basare la sua scelta su criteri oggettivi e adeguati rispetto allo scopo perseguito dalla normativa di cui trattasi (sentenza del 16.12.2008, Arcelor Atlantique et Lorraine e a., C‑127/07, EU:C:2008:728, punto 58).
28 Inoltre, conformemente a una giurisprudenza costante della Corte, il principio generale della parità di trattamento, quale principio generale del diritto dell’Unione, impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato (sentenza del 16.12.2008, Arcelor Atlantique et Lorraine e a., C‑127/07, EU:C:2008:728, punto 23 e giurisprudenza citata).
29 La comparabilità di situazioni diverse è valutata tenendo conto di tutti gli elementi che le caratterizzano. Tali elementi devono, in particolare, essere determinati e valutati alla luce dell’oggetto e dello scopo dell’atto dell’Unione che stabilisce la distinzione di cui trattasi. Inoltre, devono essere presi in considerazione i principi e gli obiettivi del settore cui si riferisce l’atto in parola (sentenze del 12.05.2011, Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, C‑176/09, EU:C:2011:290, punto 32, nonché del 30.01.2019, Planta Tabak, C‑220/17, EU:C:2019:76, punto 37).
30
È alla luce di tali principi che occorre esaminare la validità dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii), e v), della direttiva 2014/24 con riferimento al principio della parità di trattamento.
31 Pertanto, per quanto riguarda, sotto un primo profilo, i servizi di arbitrato e di conciliazione di cui all’articolo 10, lettera c), della direttiva 2014/24, il considerando 24 di quest’ultima enuncia che gli organismi o persone che forniscono servizi di arbitrato e di conciliazione e altre forme analoghe di risoluzione alternativa delle controversie sono selezionati secondo modalità che non possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti.
32 Infatti, gli arbitri e conciliatori devono sempre essere accettati da tutte le parti della controversia e sono designati di comune accordo da queste ultime. Un ente pubblico che lanci una procedura di aggiudicazione di appalti pubblici per un servizio di arbitrato o di conciliazione non potrebbe, pertanto, imporre all’altra parte l’aggiudicatario di tale appalto in quanto arbitro o conciliatore comune.
33 Tenuto conto delle loro caratteristiche oggettive, i servizi di arbitrato e di conciliazione di cui all’articolo 10, lettera c), non sono pertanto comparabili agli altri servizi inclusi nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/24. Ne consegue che è senza violare il principio della parità di trattamento che il legislatore dell’Unione ha potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escludere i servizi di cui all’articolo 10, lettera c), della direttiva 2014/24 dall’ambito di applicazione di quest’ultima.
34 Sotto un secondo profilo,
per quanto riguarda i servizi forniti da avvocati, di cui all’articolo 10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24, dal considerando 25 di tale direttiva risulta che il legislatore dell’Unione ha tenuto conto del fatto che tali servizi legali sono di solito prestati da organismi o persone designati o selezionati secondo modalità che non possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti pubblici in determinati Stati membri, cosicché occorreva escludere tali servizi legali dall’ambito di applicazione della direttiva in parola.
35 A tale riguardo, occorre rilevare che
l’articolo 10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24 non esclude dall’ambito di applicazione di detta direttiva tutti i servizi che possono essere forniti da un avvocato a un’amministrazione aggiudicatrice, ma unicamente la rappresentanza legale del suo cliente nell’ambito di un procedimento dinanzi a un organo internazionale di arbitrato o di conciliazione, dinanzi ai giudici o alle autorità pubbliche di uno Stato membro o di un paese terzo, nonché dinanzi ai giudici o alle istituzioni internazionali, ma anche la consulenza legale fornita nell’ambito della preparazione o dell’eventualità di un siffatto procedimento. Simili prestazioni di servizi fornite da un avvocato si configurano solo nell’ambito di un rapporto intuitu personae tra l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla massima riservatezza.
36 Orbene, da un lato,
un siffatto rapporto intuitu personae tra l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla libera scelta del suo difensore e dalla fiducia che unisce il cliente al suo avvocato, rende difficile la descrizione oggettiva della qualità che si attende dai servizi da prestare.
37 Dall’altro,
la riservatezza del rapporto tra avvocato e cliente, il cui oggetto consiste, in particolare nelle circostanze descritte al punto 35 della presente sentenza, tanto nel salvaguardare il pieno esercizio dei diritti della difesa dei singoli quanto nel tutelare il requisito secondo il quale ogni singolo deve avere la possibilità di rivolgersi con piena libertà al proprio avvocato (v., in tal senso, sentenza del 18.05.1982, AM & S Europe/Commissione, 155/79, EU:C:1982:157, punto 18), potrebbe essere minacciata dall’obbligo, incombente sull’amministrazione aggiudicatrice, di precisare le condizioni di attribuzione di un siffatto appalto nonché la pubblicità che deve essere data a tali condizioni.
38 Ne consegue che, alla luce delle loro caratteristiche oggettive,
i servizi di cui all’articolo 10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24, non sono comparabili agli altri servizi inclusi nell’ambito di applicazione della direttiva medesima. Tenuto conto di tale differenza oggettiva, è altresì senza violare il principio della parità di trattamento che il legislatore dell’Unione ha potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escludere tali servizi dall’ambito di applicazione di detta direttiva.
39 Sotto un terzo profilo,
per quanto riguarda i servizi legali rientranti nelle attività che partecipano, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri, di cui all’articolo 10, lettera d), v), della direttiva 2014/24, tali attività, e pertanto tali servizi, sono escluse, ai sensi dell’articolo 51 TFUE, dall’ambito di applicazione delle disposizioni di detto Trattato relative alla libertà di stabilimento e di quelle relative alla libera prestazione di servizi ai sensi dell’articolo 62 TFUE.
Siffatti servizi si distinguono da quelli che rientrano nell’ambito di applicazione di tale direttiva poiché partecipano direttamente o indirettamente all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche.

40 Ne risulta che,
per loro stessa natura, i servizi legali connessi, anche occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri non sono comparabili, per le loro caratteristiche oggettive, agli altri servizi inclusi nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/24. Tenuto conto di tale differenza oggettiva, è, ancora una volta, senza violare il principio della parità di trattamento che il legislatore dell’Unione ha potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escluderli dall’ambito di applicazione della direttiva 2014/24.
41 Pertanto,
dall’esame delle disposizioni dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24 non è emerso alcun elemento che possa inficiare la loro validità alla luce dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché degli articoli 49 e 56 TFUE.
42 In relazione a quanto sopra esposto, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che
dall’esame di quest’ultima non è emerso alcun elemento che possa inficiare la validità delle disposizioni dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24 alla luce dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché degli articoli 49 e 56 TFUE.
Sulle spese
43 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara:
Dall’esame della questione non è emerso alcun elemento che possa inficiare la validità delle disposizioni dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, alla luce dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché degli articoli 49 e 56 TFUE (Corte di Giustizia UE, Sez. V, sentenza 06.06.2019 - C-264/18).

I pubblici dipendenti "onesti" con gli "attributi" (tecnicamente si dovrebbe dire "che agiscono con disciplina e onore") non sono estinti (anche se sono sempre più "mosche bianche"...).
Al Collega tanta stima e solidarietà: "Tieni duro, non mollare e avanti tutta".

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOREATI CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo zelo. Punito il comportamento ritorsivo contro un dipendente diligente.
Abuso d’ufficio per il sindaco che non rinnova l’incarico e nega l’indennità al responsabile di area come ritorsione per il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità del danno il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato l’accertamento della responsabilità contabile, poi esclusa, del primo cittadino e della giunta in merito ad alcune nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti della polizia locale. Un comportamento virtuoso che gli era costato il rinnovo della nomina a responsabile dell’area vigilanza e le indennità: in pratica un demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale, sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la linea della Corte d’Appello, il sindaco con le sue azioni ritorsive e discriminatorie, aveva prima di tutto violato la Costituzione. E, in particolare l’articolo a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo , secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche devono adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il quale, la Corte di merito aveva valorizzato la Carta per il reato di abuso d’ufficio (articolo del Codice penale) anziché norme specifiche. Ad avviso della difesa, infatti, la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la violazione di una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito che, pur avendo analizzato le norme sul conferimento degli incarichi e sull’impiego pubblico, non le hanno messe al centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano stati assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la conseguente valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di là del diritto al rinnovo dell’incarico e all’indennità. La Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più precisione la sfera dell’illecito «in modo che non consentisse indebite interferenze nell’azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni di riferimento». E non si può affermare che il riferimento alla legge non includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la Costituzione. In questo quadro pesa l’articolo , da valutare in sinergia con l’articolo , che impone di esercitare con disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’ amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere generale, in realtà le direttive hanno un immediato risvolto applicativo. È chiaro il rilievo dato all’inosservanza del principio di imparzialità che mette “fuori legge” ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni intenzionali e discriminatorie (articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2019).
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La condotta evidenzia discriminazioni e ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che discrimina e fa ritorsioni nei confronti del responsabile di un settore amministrativo dell'ente locale, non rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata corresponsione di indennità associate alla posizione e a un sostanziale demansionamento.

Così la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta dalle modifiche introdotte dalla legge 234/1997, fa riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione. Il legislatore ha voluto in questo modo delimitare con più precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di abuso di ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici. Ne deriva, affermano i giudici di legittimità, che il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del sindaco ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, che implica l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2019).
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MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al capo B), per la quale è stata pronunciata condanna, nel far riferimento al disposto dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1, comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far leva essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta del ricorrente in danno del Sa., indicando in tale quadro alcuni elementi descrittivi, aventi lo scopo di corroborare tale assunto, costituiti dall'utilizzo di una motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto privo di diploma di laurea, in assenza di una procedura comparativa, dal contributo che era stato fornito dal Sa. per l'accertamento della responsabilità contabile del Sindaco e della Giunta per i fatti di cui all'originario capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad iniziative per presunti illeciti commessi da agenti della Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo Giudice, che proprio sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta in danno del Sa. ha fondato il proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e 19 d.lgs. 165 del 2001, pur menzionati nel capo di imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono trovare accoglimento.
L'art. 323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 234 del 1997, fa riferimento ad una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento non può che essere intesa come rappresentativa del superamento di quei canoni esterni, posti da fonti ben individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il riferimento alla legge non includa altresì quello a fonti sovraordinate, prima di tutto la Carta fondamentale, cioè la Costituzione, ove parimenti in grado di definire in modo preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina di tale azione debba essere collocata nell'ambito costituzionale, in relazione a precise direttive che dalla Costituzione possano desumersi sia sul versante della stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di esso sia su quello dell'effettivo svolgimento dell'azione amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art. 97 Cost., da valutare in sinergia con l'art. 54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di carattere generale, in quanto in realtà siffatte direttive contengono un immediato risvolto applicativo, imponendo da un lato il rispetto della causa di attribuzione del potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di fuori dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità dell'azione, la quale non deve essere contrassegnata da profili di discriminazione e ingiustizia manifesta, aspetti di per sé contrastanti con l'intero assetto costituzionale dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione» (Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi, rv. 251498; Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo, rv. 263932).
E nel contempo
si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni (Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225; Cass. Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv. 265464).
Ciò significa che
l'art. 323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici.
Ne deriva che
il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora
deve rilevarsi la correttezza del ragionamento dei Giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, implicante l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal Giudice del lavoro nel provvedimento del 15/10/2014, è stato osservato:
   - che
l'apertura del procedimento per il mancato rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile dell'Area Vigilanza era stato caratterizzato da motivazioni (riferite alla necessità di rotazione per ragioni di prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive di qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie rispetto a quanto in diversa occasione rilevato;
   - che
il Sa. si era per contro distinto nel propiziare l'accertamento della responsabilità erariale del Sindaco e della Giunta nella vicenda della nomina di Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A) e nel contravvenire ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso ad iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili all'agente Ch.;
   - che
al momento di procedere alla nomina del nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il Sindaco aveva del tutto omesso di procedere ad una valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu. appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma sprovvisto del diploma di laurea, e ponendo il Sa. in posizione addirittura subordinata a colui che era stato il suo vice;
   - che
la richiesta di assegnazione di un'indennità di coordinamento o di maggiorazione dell'indennità di posizione, era stata negata senza una sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare l'accoglimento della richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe gestito la questione riguardante gli illeciti addebitati al Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che arbitrariamente posti a fondamento del carattere ritorsivo e discriminatorio del trattamento riservato al Sa., non rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno uno specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento dell'indennità, a fronte del contenuto assunto dall'azione amministrativa e del concreto sviamento del potere, esercitato con modalità contrastanti con le ragioni poste a fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le deduzioni, peraltro largamente assertive, riguardanti l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109 e 110 d.lgs. 267 del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata adozione di un'adeguata valutazione comparativa, tale da costituire specifica giustificazione della determinazione assunta:
va invero rilevato come tale mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a rafforzare il giudizio in ordine al contenuto discriminatorio di tale determinazione, così come la sostanziale assenza di una specifica motivazione del mancato riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto precedentemente prospettato in termini di correlazione con i desiderata del Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del diniego, quand'anche legato a valutazione discrezionale (per il rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi Cass. Sez. 6, n. 13341 del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres, rv. 215278, nonché la più recente Cass. Sez. 6, n. 21976 del 05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte dell'indennità fosse costituita da una convenzione, non riconducibile né alla legge né al regolamento: in realtà deve ribadirsi come la valutazione di illiceità riposi anche in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1.
Con riguardo al tema della c.d. doppia ingiustizia, si rileva in generale che accanto al profilo della violazione di legge o di regolamento (o della violazione dell'obbligo di astensione) che deve connotare la condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in alternativa, l'evento consumativo del delitto di abuso di ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia in base a profili autonomi rispetto a quelli che connotano la condotta sia quale proiezione di quegli stessi profili, ove idonei a qualificare il risultato prodotto (sul punto Cass. Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv. 265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo, rv. 262793).
D'altro canto
la nozione di danno ingiusto deve essere intesa non solo con riguardo a situazioni patrimoniali e a diritti soggettivi perfetti (Cass. Sez. 6, n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv. 268222), dovendosi aver riguardo ad ogni tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive di pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di danno ingiusto evocata dall'art. 2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di interessi legittimi (sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del 22/07/1999, rv., si rinvia per più recenti puntualizzazioni del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n. 16196 del 20/06/2018, rv. 649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv. 572035), ferma restando la concreta valutabilità della «chance», particolarmente rilevante nel caso di comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la doglianza incentrata sulla non configurabilità di un diritto soggettivo del Sa. a vedersi confermato l'incarico ed a fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di merito secondo i quali
la condotta discriminatoria e ritorsiva del ricorrente, sostenuta altresì da quello specifico animus, si è proiettata sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua posizione, valutabile in termini professionali e patrimoniali, pur a prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, in quanto ha compromesso in quello specifico momento la possibilità del Sa. di continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro determinato il sostanziale demansionamento, con sottoposizione a soggetto precedentemente a lui sottoposto, ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a comportamenti in linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono stati dunque correttamente qualificati come di per sé ingiusti, in quanto tali da pregiudicare la posizione del Sa. e da non trovare alcuna giuridica giustificazione, avuto riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in senso contrario che in prosieguo di tempo, dopo l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro, fosse stato riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui il Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta una nuova determinazione in merito alla spettanza dell'indennità con esito negativo per lo stesso Sa., avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la lesione già prodottasi, in conseguenza dell'illecito esercizio delle funzioni amministrative e del contenuto discriminatorio delle relative determinazioni, tali da arrecare di per sé, «hic et nunc», un pregiudizio contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità, insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso all'agire amministrativo.

Questione interessante:
cosa significa che "il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese", ex art. 167, comma 1, D.Lgs. n. 42/2004??

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CISANO BERGAMASCO (Bergamo) - art. 167 decreto legislativo n. 42 del 2004 - demolizione manufatto in zona paesaggisticamente vincolata e rimessione in pristino (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 01.07.2016 n. 19729 di prot.).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Le opere stagionali, ancorché la loro costruzione venga rinnovata nel tempo, non possano considerarsi precarie.
La natura precaria del manufatto va intesa, ai fini dell’identificazione del relativo regime abilitativo edilizio, non tanto e non solo con riferimento alla consistenza strutturale e dell’ancoraggio al suolo dei materiali di cui si compone, ma in termini funzionali, ovvero occorre accertare se si tratta di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in modo da poter essere agevolmente rimossa.
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La giurisprudenza è concorde nel ritenere che il carattere stagionale dell’uso del manufatto non implica la provvisorietà dell’attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove si svolge, anzi il rinnovarsi dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità dell’attività e dell’opera a ciò necessaria.
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Il manufatto in questione (
manufatto in legno adibito a bar delle dimensioni di mt 3.00 x mt 3.00 e di altezza di circa mt 6.00), quand’anche fosse strutturalmente amovibile, deve essere considerato, ai sensi dell’art. 3, lettera e), del d.P.R. n. 380/2001, un intervento di nuova costruzione che ai sensi dell’art. 10 dello stesso decreto necessita di permesso di costruire e, di converso, se realizzato in assenza del permesso di costruire, se ne deve ordinare la demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
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L
a natura abusiva dall’opera comporta l’impossibilità di riconoscere in capo all’autore un affidamento tutelabile sulla presunta conformità di essa alla legge, avendo il legislatore stabilito, senza spazio per valutazioni discrezionali in sede amministrativa, che l’interesse alla conservazione dell’abuso edilizio –interesse di mero fatto poiché ha titolo in una attività illecita- non è meritevole di alcuna tutela come non può esserlo l’ignoranza del disvalore giuridico di un’azione contraria alla legge.
Occorre infine ribadire che gli abusi edilizi sono considerati una lesione permanente dei valori ambientali e della funzione di governo del territorio con la conseguenza che la vigilanza e i connessi poteri sanzionatori costituiscono attività vincolata finalizzata a ripristinare le condizioni ambientali alterate dagli abusi nell’esercizio del potere repressivo di cui agli articoli 27 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001.
Proprio la natura vincolata dell’attività di repressione degli abusi edilizi, comporta poi che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non ha alcun effetto invalidante del provvedimento conclusivo ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.

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... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione e di rimessa in pristino del 03.05.2018 prot. n. 1338, notificata il successivo 08.05.2018 con la quale il Comune di Campotosto ha ordinato al sig. Le.Gi. nato a L'Aquila il ... residente a Campotosto in frazione Mascioni, via ... n. 62 c.f. ..., di demolire ovvero rimuovere, entro 90 giorni dalla data di notifica del presente provvedimento, il manufatto in legno adibito a bar delle dimensioni di mt 3.00 x mt 3.00 e di altezza di circa mt 6.00 sito il località “Ponte stecche” sul terreno riportato in catasto al n. 299 e 300 del foglio 40 del Comune di Campotosto.
...
Il ricorrente riferisce di essere comodatario avente causa dalla società ENEL S.p.a. della particella n. 299 del foglio 40 del catasto terreni del Comune di Campotosto, sulla quale nel 2013 ha realizzato e recintato un manufatto amovibile in legno per l’esercizio di attività stagionale di somministrazione di alimenti e bevande, segnalata al Comune di Campotosto con successive SCIA.
Con due motivi del ricorso in decisione Gi.Le. impugna l’ordinanza con la quale il Comune di Campotosto gli ha intimato la demolizione del manufatto in quanto abusivo.
...
Il ricorso è infondato.
La natura precaria del manufatto va intesa, ai fini dell’identificazione del relativo regime abilitativo edilizio, non tanto e non solo con riferimento alla consistenza strutturale e dell’ancoraggio al suolo dei materiali di cui si compone, ma in termini funzionali, ovvero occorre accertare se si tratta di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in modo da poter essere agevolmente rimossa.
L’opera, di superficie pari a nove metri quadrati e altezza di m. 2.50 (così descritta nel provvedimento impugnato), serve per la vendita stagionale di generi alimentari e dal 2013 occupa lo stesso sedime del quale il ricorrente riferisce di poter disporre a titolo di comodato.
Tuttavia il nulla osta dell’Ente parco, che il ricorrente indica a sostegno della legittimità del manufatto, ha validità permanente, a dimostrazione del fatto che si tratta di un’opera destinata ad un uso, non già provvisorio, né connesso ad esigenze contingenti, ma destinato a rinnovarsi annualmente in primavera, come si evince dalle SCIA commerciali che ininterrottamente, dal 2013 al 2015, il ricorrente ha presentato al Comune di Campotosto.
In proposito va osservato che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il carattere stagionale dell’uso del manufatto non implica la provvisorietà dell’attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove si svolge, anzi il rinnovarsi dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità dell’attività e dell’opera a ciò necessaria (Consiglio di stato, sez. 6, 21.02.2017, n. 795; Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2014, n. 2842; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 13.03.2017 n. 409; Cass. pen. sez. III, 30.06.2016 n. 36107).
Non ricorre poi la deroga prevista dall’art. 3, comma 1, lettera e.5), del d.P.R. n. 380/2001 che esonera dal preventivo rilascio del permesso di costruire i manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, che di norma vi sono soggetti, quando essi siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore.
Il ricorrente, che a detta deroga fa espresso riferimento, non prova però che il manufatto in questione sia ricompreso in una struttura ricettiva all’aperto, ma si limita ad allegare di essere titolare di un contratto di gestione decennale dell’area comunale di sosta per camper allestita su aree identificate da particelle catastali diverse da quelle sulle quali insiste il manufatto in legno.
Peraltro si evince agevolmente dalla consultazione per via telematica del “Geoportale cartografico catastale dell’Agenzia delle Entrate”, liberamente accessibile, che le particelle nn. 226, 227 e 751 di sedime dell’area di sosta non sono neppure contigue alla particella n. 300 sulla quale -come asserito dal Comune e non contestato dal ricorrente– insiste quasi per intero il chiosco da questi realizzato.
Ne consegue che, come correttamente osservato dal Comune, il manufatto in questione, quand’anche fosse strutturalmente amovibile, deve essere considerato, ai sensi dell’art. 3, lettera e), del d.P.R. n. 380/2001, un intervento di nuova costruzione che ai sensi dell’art. 10 dello stesso decreto necessita di permesso di costruire e, di converso, se realizzato in assenza del permesso di costruire, se ne deve ordinare la demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Inoltre l’ordinanza di demolizione fa espresso rinvio all’art. 35 del d.P.R. n. 380/2001 sul presupposto, parimenti incontestato, che il manufatto insiste in gran parte su suolo di proprietà del Comune su suolo demaniale, indisponibile da parte di soggetti diversi dall’Ente proprietario se non per atto di concessione.
Sul punto, che smentisce la legittimazione asserita del ricorrente a conseguire un titolo abilitativo sul presupposto che abbia la disponibilità del suolo ove insiste il manufatto, il ricorrente non muove alcuna censura.
Non ha alcuna rilevanza poi il fatto che l’Ente Parco nazionale “Gran Sasso e Monti della Laga” abbia rilasciato il nulla osta permanente alla realizzazione dell’opera in quanto ogni intervento realizzato su area soggetta a vincolo paesaggistico è soggetta al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica regionale o del Comune, eventualmente a tal fine delegato, anche se trattasi di opera temporanea, precaria e amovibile.
Lo si evince a contrario dall’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004 che elenca le opere che non necessitano dell’autorizzazione, fra le quali non figura la tipologia cui è riconducibile il manufatto in questione.
Quanto detto esclude che le segnalazioni rivolte al Comune dal ricorrente d’inizio attività edilizia o commerciale possano aver, da un lato, legittimato la realizzazione del fabbricato e, dall’altro, aver determinato un affidamento incolpevole sulla conformità dello stesso al regime edilizio vigente.
Sotto il primo profilo è evidente che l’ordine di demolizione non implica l’annullamento in autotutela –tanto meno tardivo per decorso del termine di cui all’art. 21-nonies- di un precedente titolo edilizio d’iniziativa privata per l’evidente ragione che la presentazione di una DIA o SCIA non produce alcun effetto se ha ad oggetto un l’intervento che, come in specie, deve essere assentito con permesso per costruire.
Ne consegue, sotto il secondo profilo, la natura abusiva dall’opera e l’impossibilità di riconoscere in capo all’autore un affidamento tutelabile sulla presunta conformità di essa alla legge, avendo il legislatore stabilito, senza spazio per valutazioni discrezionali in sede amministrativa, che l’interesse alla conservazione dell’abuso edilizio –interesse di mero fatto poiché ha titolo in una attività illecita- non è meritevole di alcuna tutela come non può esserlo l’ignoranza del disvalore giuridico di un’azione contraria alla legge.
Occorre infine ribadire che gli abusi edilizi sono considerati una lesione permanente dei valori ambientali e della funzione di governo del territorio con la conseguenza che la vigilanza e i connessi poteri sanzionatori costituiscono attività vincolata finalizzata a ripristinare le condizioni ambientali alterate dagli abusi nell’esercizio del potere repressivo di cui agli articoli 27 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001 (Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9).
Il primo motivo pertanto è respinto.
Proprio la natura vincolata dell’attività di repressione degli abusi edilizi, comporta poi che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non ha alcun effetto invalidante del provvedimento conclusivo ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
Anche il secondo motivo pertanto è respinto (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 27.05.2019 n. 273 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla procedura di un'istanza col SUAP in variante al P.G.T. vigente.
Ai sensi dell'art. 5 del d.P.R. 20.10.1998 n. 447, “Qualora il progetto presentato sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza.
Tuttavia, allorché il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro ma lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente convocare una conferenza di servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall'articolo 17 della legge 15.05.1997, n. 127, per le conseguenti decisioni, dandone contestualmente pubblico avviso.
Alla conferenza può intervenire qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto industriale.
Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150, si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale.
Non è richiesta l'approvazione della regione, le cui attribuzioni sono fatte salve dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n. 241".

Da ciò discende che
la decisione in ordine alla convocazione della conferenza di servizi impone all’Amministrazione di valutare ex ante, in una fase originaria, effettuando un’istruttoria appropriata, se sussistano o meno, secondo lo strumento urbanistico, aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero se queste, ove presenti, debbano ritenersi insufficienti in relazione al progetto presentato.
Peraltro,
la decisione di seguire il modello della conferenza di servizi, come avvenuto nella fattispecie all’esame, non preclude, ed anzi rafforza, in considerazione del coinvolgimento di una pluralità di enti, l’esigenza di istruire approfonditamente il procedimento, al fine di individuare l’area maggiormente idonea alla realizzazione del progetto edilizio.
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L’esigenza di appropriata istruttoria e motivazione non viene, peraltro, esclusa dalla preesistente decisione della variante assunta dalla conferenza di servizi, attesa la natura non vincolante della stessa.
Invero, per costante giurisprudenza, la proposta di variazione dello strumento urbanistico assunta dalla conferenza di servizi, da considerare alla stregua di un atto di impulso del procedimento volto alla variazione urbanistica, non è vincolante per il Consiglio comunale, che conserva le proprie attribuzioni e valuta autonomamente se aderirvi
.
Invero,
secondo i consolidati principi della giurisprudenza:
   a)
in linea di massima, l'onere di motivazione delle scelte urbanistiche gravante sulla Pubblica amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata";
   b) tuttavia,
le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un'area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative;
   c) in tal modo,
mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG, per le quali quest'ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un'area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale; in questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell'ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall'ente con il nuovo strumento urbanistico.
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8.3. Il Collegio, in considerazione dell’attività concretamente svolta dall’Amministrazione comunale nel corso dell’illustrato iter procedimentale, ritiene meritevoli di conferma le gravate statuizioni del primo giudice in ordine alla sussistenza dei vizi di difetto di istruttoria e di motivazione della determinazione-proposta del 21.05.2004 e della delibera consiliare n. 19 del 09.08.2004, quest’ultima peraltro affetta anche da illogicità ed arbitrarietà.
8.4. In primis, va premesso, sul piano normativo, che, ai sensi dell'art. 5 del d.P.R. 20.10.1998 n. 447, “Qualora il progetto presentato sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza.
Tuttavia, allorché il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro ma lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente convocare una conferenza di servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall'articolo 17 della legge 15.05.1997, n. 127, per le conseguenti decisioni, dandone contestualmente pubblico avviso.
Alla conferenza può intervenire qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto industriale.
Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150, si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale.
Non è richiesta l'approvazione della regione, le cui attribuzioni sono fatte salve dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n. 241
".
8.4.1. Da ciò discende che la decisione in ordine alla convocazione della conferenza di servizi impone all’Amministrazione di valutare ex ante, in una fase originaria, effettuando un’istruttoria appropriata, se sussistano o meno, secondo lo strumento urbanistico, aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero se queste, ove presenti, debbano ritenersi insufficienti in relazione al progetto presentato.
Peraltro, la decisione di seguire il modello della conferenza di servizi, come avvenuto nella fattispecie all’esame, non preclude, ed anzi rafforza, in considerazione del coinvolgimento di una pluralità di enti, l’esigenza di istruire approfonditamente il procedimento, al fine di individuare l’area maggiormente idonea alla realizzazione del progetto edilizio.
8.5. Con riferimento al caso di specie, in aderenza a quanto già osservato dal primo giudice, va rilevato che, tanto in occasione delle due sedute della conferenza di servizi quanto in sede di approvazione della variante al P.R.G., si procedeva, in assenza di un’idonea attività istruttoria, ad analizzare la sola proposta fondata sulla relazione del Responsabile del servizio urbanistica (arch. Go.).
8.5.1. Nessuna differente localizzazione veniva infatti proposta, e conseguentemente esaminata, dalle altre amministrazioni partecipanti alla conferenza (in primis, Regione e Provincia, dotate di specifica competenza nella materia urbanistica). In particolare, non depongono in senso contrario le prescrizioni con cui la Regione Umbria ha imposto la riduzione della variante proposta della zona di particolare interesse agricolo alla sola "area di sedime del nuovo edificio e alla strada di accesso al medesimo", precisando che le altre porzioni di terreno non direttamente investite dalle previsioni edificatorie rimanessero alla destinazione già impressa.
8.5.2. Così come, in occasione della seduta del Consiglio comunale, ad esito della quale si adottava l’impugnata variante, non veniva apprestata la necessaria attenzione alle osservazioni, di segno contrario, avanzate dal cons. Gi.Em., ritenendole agevolmente superate con la valorizzazione dell’eccezione proposta dal cons. Br.Pa. circa l’esistenza di un deposito di gas nell’area alternativa indicata.
Al riguardo, attesa l’inidoneità delle generiche osservazioni del cons. Br. ad escludere in assoluto che l'intervento potesse essere comunque localizzato nell'area in questione, tenuto conto che la stessa si estende per oltre diciotto ettari, si ritiene che l'Amministrazione comunale avrebbe dovuto verificare in concreto la possibilità di allocare l'intervento nell'area indicata dal cons. Gi..
L’esigenza di appropriata istruttoria e motivazione non viene, peraltro, esclusa dalla preesistente decisione della variante assunta dalla conferenza di servizi, attesa la natura non vincolante della stessa.
Invero, per costante giurisprudenza, la proposta di variazione dello strumento urbanistico assunta dalla conferenza di servizi, da considerare alla stregua di un atto di impulso del procedimento volto alla variazione urbanistica, non è vincolante per il Consiglio comunale, che conserva le proprie attribuzioni e valuta autonomamente se aderirvi (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.03.2017, n. 940; cfr. ex multis, id., sez. IV, n. 4151 del 2013).
8.6. L’acclarata assenza di sufficiente attività istruttoria (ed il conseguente difetto di motivazione degli atti impugnati) non può, peraltro, essere superata in considerazione della portata della discrezionalità dell’azione amministrativa nella fattispecie, la quale, attese le peculiarità della variante in esame, deve peraltro essere ritenuta decisamente circoscritta.
Invero, diversamente da quanto sostenuto da parte appellante, il Collegio osserva che, secondo i consolidati principi della giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2017, n. 4707; ex multis, id., sez. IV, 24.10.2018, n. 6063; id., sez. IV, 12.05.2016, n. 1917):
   a) in linea di massima, l'onere di motivazione delle scelte urbanistiche gravante sulla Pubblica amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata";
   b) tuttavia, le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un'area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative;
   c) in tal modo, mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG, per le quali quest'ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un'area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale; in questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell'ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall'ente con il nuovo strumento urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2019 n. 2954 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAPer espressa disposizione di legge (art. 19, comma 6-ter, della l. 241 del 1990, che fa seguito alla nota decisione della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011) la SCIA non costituisce provvedimento tacito, ed è dichiarato espressamente “non impugnabile”.
Ne consegue che, in mancanza di espressa e univoca dichiarazione della parte che ha reso la Segnalazione, la presentazione di una SCIA successiva ad una già depositata non ha l’effetto automatico di sostituirla, bensì, se del caso, ad essa si aggiunge integrandola.
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6. Preliminarmente va respinta l’eccezione di improcedibilità del ricorso.
Il Comune, come detto, ritiene che la presentazione della SCIA 404/2017 (con l’indicazione dell'avvenuto rilascio, nelle more, dell'autorizzazione paesaggistica) renda privo di interesse il gravame avverso la declaratoria di improcedibilità (rectius, annullamento) della SCIA 733/2016 in quanto quest’ultima sarebbe stata sostituita da una nuova SCIA, a sua volta dichiarata inefficace con la disposizione PG/2017/374419.
L’assunto del Comune parte dall’errato presupposto di considerare la SCIA alla stregua di un provvedimento amministrativo (sia pure tacito) la cui sostituzione con altro provvedimento determina la perdita di interesse all’annullamento, spostandosi detto interesse sul provvedimento successivo (fatta eccezione per i casi di atti meramente confermativi).
Invece, per espressa disposizione di legge (art. 19, comma 6-ter, della l. 241 del 1990, che fa seguito alla nota decisione della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15 del 2011) la SCIA non costituisce provvedimento tacito, ed è dichiarato espressamente “non impugnabile”.
Ne consegue che, in mancanza di espressa e univoca dichiarazione della parte che ha reso la Segnalazione, la presentazione di una SCIA successiva ad una già depositata non ha l’effetto automatico di sostituirla, bensì, se del caso, ad essa si aggiunge integrandola.
Quand’anche il contenuto sia identico, sia pure con variazioni (nel caso concreto, nella SCIA 404/2017, nella sezione B9.9 è aggiunta la specifica che l’area in questione è assoggettata alla l. 1497/1939 / d.lgs. 42/2004), si è in presenza di due atti privati, di cui uno dichiarato improcedibile dal Comune, l’altro anche ma con provvedimento successivo, che la parte ha conosciuto solo in seguito al deposito in giudizio da parte del Comune di Napoli (all. 11 prod. Comune del 17.07.2018) e per il quale, alla data della presente decisione (10.10.2018) sono ancora pendenti i termini per l’impugnazione considerata la sospensione feriale.
La scelta di impugnare il successivo provvedimento di improcedibilità spetta alla parte, come pure spetta a quest’ultima la decisione in ordine ai contenuti del ricorso, presumibilmente diversi stante il diverso tenore dei provvedimenti emessi dal Comune.
In questa sede, pertanto, la perdita di interesse al gravame non può conseguire alla esistenza di due o più diverse Segnalazioni certificate sul medesimo immobile, perché ciò implicherebbe l’indebita sostituzione della volontà del giudice rispetto alla scelta, manifesta, del privato di non sostituire una Scia con un’altra (nel caso, la SCIA 733/2016, con la SCIA 404/2017) e questo soprattutto in ragione –come rilevato dai ricorrenti nella memoria di replica del 19.09.2018– della circostanza che la seconda SCIA è stata anch’essa dichiarata inefficace, per cui l’eventuale accoglimento del gravame presentato per l’annullamento della declaratoria di inefficacia della prima SCIA (733/2016) ha l’evidente effetto di salvare l’attività svolta sino a quel momento, attività che invece diventerebbe automaticamente sine titulo per effetto dell’unione combinata di una decisione di improcedibilità del presente giudizio (sulla SCIA 733/2016) con la declaratoria di inefficacia della SCIA 404/2017 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 07.03.2019 n. 1334 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

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EDILIZIA PRIVATAL'art. 12, nono comma, della legge n. 246 del 2005, che ha modificato l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, ed in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha effetto retroattivo, né natura imperativa.
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L'art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, il quale prescrive che nelle nuove costruzioni e nelle aree di pertinenza delle stesse devono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, pone un vincolo pubblicistico di destinazione che non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli spazi stessi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla norma imperativa.
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3. Il primo motivo del ricorso principale è infondato.
Ed, invero la giurisprudenza di questa Corte, nel corso degli anni ha reiteratamente fatto propria la soluzione che esclude la portata retroattiva cella norme in esame, affermando che (cfr. Cass. n. 4301/2016) l'art. 12, nono comma, della legge n. 246 del 2005, che ha modificato l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, ed in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha effetto retroattivo, né natura imperativa (conf. Cass. n. 2236/2016; Cass. n. 1753/2013 che ha ribadito che la norma vale solo per il futuro, e cioè per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari, dovendosi escludere l'efficacia retroattiva della norma in quanto, da un lato, non ha natura interpretativa, per mancanza del presupposto a tal fine, costituito dall'incertezza applicativa della disciplina anteriore e, dall'altro, perché le leggi che modificano il modo di acquisto dei diritti reali o il contenuto degli stessi non incidono sulle situazioni maturate prima della loro entrata in vigore; Cass. n. 21003/2008).
La ricorrente auspica, senza peraltro addurre elementi di novità tali effettivamente da indurre ad un ripensamento dell'orientamento de quo, un mutamento della giurisprudenza che peraltro risulta essersi consolidata nel corso degli anni, conformandosi alle condivisibili argomentazioni già sviluppate nei precedenti richiamati, occorrendo a tal fine altresì rilevare che gli argomenti già espressi da Cass. n. 4264/2006 appaiono rafforzati dal fatto che ad oltre dieci anni da tale arresto, e nel perdurare di tale interpretazione che nega la retroattività della norma, il legislatore non è intervenuto per modificarla, restando cosi rafforzate le sue rationes decidendi.
...
5. Il quarto ed il quinto motivo devono essere del pari congiuntamente esaminati, stante la loro connessione, rivelandosi del pari privi di fondamento.
Ed, invero, la motivazione del giudice di appello si fonda sulla riaffermazione del principio ribadito nel ragionamento argomentativo anche da Cass. S.U. n. 12793/2005, nonché dagli altri precedenti, sempre ricordati dal giudice di appello, circa la nullità parziale dei contratti che sottraggano il diritto di uso sulle aree a tal fine destinate, secondo cui (cfr. Cass. n. 28345/2013)
l'art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, il quale prescrive che nelle nuove costruzioni e nelle aree di pertinenza delle stesse devono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, pone un vincolo pubblicistico di destinazione che non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli spazi stessi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla norma imperativa.
Trattasi di motivazione che consente di ritenere che sia stata implicitamente disattesa anche la doglianza di parte ricorrente di cui all'atto di appello, con la quale si lamentava del mancato riconoscimento della validità della rinuncia al diritto in esame fatta dall'attrice Gabriella Pasca Raymondo al momento del suo acquisto (per la espressa estensione della nullità derivante dalla violazione dell'art. 18 della legge n. 765/1967, anche alle ipotesi di rinuncia al diritto, si veda Cass. n. 5755/2004, nonché Cass. n. 973/1999), e che quindi permette di escludere la sussistenza della dedotta violazione dell'art. 112 c.p.c.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 28.01.2019 n. 2265).

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VARIBlog, i post lesivi vanno rimossi. Il gestore web che non si attiva risponde di diffamazione. Lo ha sostenuto la Cassazione: c’è concorso tra amministratore e autore dei contenuti.
L'amministratore di un sito internet che viene a conoscenza della pubblicazione, sul proprio blog, di contenuti lesivi dell'altrui reputazione e non si attiva tempestivamente a rimuoverli, commette il delitto di diffamazione aggravata (art. 595, 3° comma, c.p.) in concorso con l'autore delle espressioni offensive.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 20.03.2019 n. 12546, secondo cui la condotta omissiva dell'amministratore si traduce in «consapevole adesione, da parte di quest'ultimo, al significato dello scritto offensivo dell'altrui reputazione», con l'inevitabile effetto di replicare quel contenuto e amplificarne la portata diffamatoria.
Secondo i giudici di legittimità, dunque, il gestore del sito, in questo caso, il blogger, non risponde penalmente nel caso in cui «reso edotto dell'offensività della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo».
Il principio espresso dalla Corte di cassazione è coerente con la più recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Rolf Anders Daniel Pihl vs. Svezia; Delfi AS vs. Estonia; Magyar vs. Ungheria), tra l'altro richiamata, dagli stessi giudici di legittimità, nel testo della sentenza in esame. Infatti, secondo la Cedu «il fatto che il gestore avesse tempestivamente rimosso sia il post sia il commento offensivo, per di più scrivendo un nuovo post contenente la spiegazione di quanto accaduto e le scuse, era da ritenersi un comportamento idoneo a escluderne la responsabilità per concorso in diffamazione» con la conseguenza che, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte europea aveva «escluso la possibilità di ritenere automaticamente responsabile il gestore del sito per qualsiasi commento scritto da un utente, sempre che, una volta a conoscenza del contenuto diffamatorio del commento, si sia immediatamente ed efficacemente adoperato per rimuoverlo».
Il provvedimento della Cassazione consente di fare il punto sulla qualificazione giuridica e sui relativi profili di responsabilità penale degli amministratori/gestori dei siti internet attraverso i quali una moltitudine indefinita di utenti veicola, anche più volte al giorno, comunicazioni, messaggi, commenti, immagini, riproduzioni audio e video, che possono avere effetti diffamatori.
Va ricordato che la responsabilità dell'autore materiale della diffamazione on-line, colui che crea e pubblica in rete un contenuto offensivo dell'altrui reputazione, è pacifica: a titolo esemplificativo, la Cassazione penale ha più volte sottolineato che la «diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione aggravata», dal momento che «questa modalità di comunicazione di un contenuto informativo suscettibile di arrecare discredito alla reputazione altrui, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone» (sez. V, n. 4873, 01/02/2017).
Per quanto riguarda il coinvolgimento del gestore dello spazio web che ospita messaggi diffamatori pubblicati da terze persone, la giurisprudenza ha innanzitutto precisato che strumenti informatici quali social network, forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list sono certamente espressione del diritto, garantito all'articolo 21 della Costituzione, di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma non sono soggetti alle tutele e agli obblighi previsti dalla legge n. 47/1948 sulla stampa.
Sul punto, la Cassazione penale ha stabilito che solo la testata giornalistica telematica rientra nel concetto di «stampa» ai sensi della citata normativa, in quanto «è di intuitiva evidenza che un quotidiano o un periodico telematico, strutturato come vero e proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile (spesso coincidenti con quelli della pubblicazione cartacea), non può certo paragonarsi a uno qualunque dei siti web innanzi citati, in cui chiunque può inserire dei contenuti» (Sezioni unite penali, n. 31022, 17/07/2015; sez. V, n. 16751 del 19/02/2018).
Proprio alla luce di tale distinzione, la Cassazione ha precisato, sempre in tema di diffamazione, che solo il direttore della testata giornalistica telematica risponde ai sensi dell'articolo 57 del codice penale, per aver omesso di esercitare il controllo sul contenuto del periodico da lui diretto (sez. V, n. 1275, 23/10/2018).
Vale la pena ricordare che l'articolo 57 c.p. prevede, anche per il direttore responsabile del giornale telematico, una responsabilità penale a titolo di colpa e una relativa sanzione «diminuita in misura non eccedente un terzo» rispetto a quella astrattamente stabilita per l'autore materiale della diffamazione (reclusione da sei mesi a tre anni o multa non inferiore a euro 516 nel caso di diffamazione aggravata ex art. 595, 3° comma c.p.).
Per quanto concerne, invece, l'amministratore di un sito internet che ospita un blog, non potendo far riferimento ai criteri previsti dall'articolo 57 c.p., i giudici di legittimità, in assenza di specifiche indicazioni normative, hanno individuato un profilo di eventuale responsabilità penale attraverso le regole comuni. In buona sostanza, l'amministratore può rispondere in due circostanze: in qualità di autore materiale della diffamazione, oppure quale concorrente dell'autore materiale nel caso in cui, come si è già visto, non abbia rimosso tempestivamente, dallo spazio web che gestisce, contenuti offensivi di cui abbia avuto conoscenza.
In entrambe le ipotesi (autore materiale o concorrente), è opportuno segnalare che si tratta di una responsabilità dolosa e non colposa (come nel caso previsto all'articolo 57 c.p.), situazione che dovrebbe suggerire soprattutto agli amministratori di blog, forum e social network, vere e proprie piazze virtuali ove chiunque può inserire il proprio commento, una particolare attenzione, in generale, su quanto viene diffuso e, in particolare, su eventuali segnalazioni in merito all'offensività di contenuti già pubblicati
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.05.2019).
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MASSIMA
2.1. Va premesso che con la diffusione di internet e quindi con l'aumento esponenziale delle occasioni di connessione e condivisione in rete, si è posto il problema della previsione normativa di fattispecie che prevedano un sistema sanzionatorio finalizzato ad arginare il fenomeno della graduale crescita degli illeciti commessi dagli internauti.
La casistica di illeciti è variegata e, in ragione della iperbolica amplificazione del sistema, crea forti problematiche di tipizzazione: domain grabbing, furti di identità, cyberbullismo, diffamazione a mezzo internet, accesso abusivo a reti informatiche, pedopornografia, crypto-Locker e numerosi altri fenomeni ancora caratterizzano l'uso illecito del web.
In particolare, le condotte di diffamazione sono state facilitate dalla possibilità di un numero esponenziale degli utenti della rete internet di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati, per cui alla schiera di "opinionisti social" spesso si associano i cosiddetti "odiatori sul web", che non esitano -spesso dietro l'anonimato- ad esprimere giudizi con eloquio volgare ed offensivo.
Questa Corte è intervenuta quindi frequentemente in materia, precisando, per esempio, che
la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere "col mezzo della stampa", non essendo i social network destinati ad un'attività di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, P.M. in proc. Manduca, Rv. 26909001).
2.2. Incontroversa dunque la configurabilità in capo al soggetto che immette il commento diffamatorio in rete ai sensi dell'art. 595 cod. pen., più problematico è il tema della responsabilità dei fornitori di servizi informatici ovvero degli Internet Provider Service.
Va ovviamente chiarito che
anche i providers rispondono degli illeciti posti in essere in prima persona; così, il c.d. content provider, ossia il provider che fornisce contenuti, risponde direttamente per eventuali illeciti perpetrati con la diffusione dei medesimi.
Il vero problema della responsabilità del provider riguarda invece il caso in cui questo debba rispondere del fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle infrastrutture di comunicazione del network provider, del server dell'access provider, del sito creato sul server dell'host provider, dei servizi dei service provider o delle pagine memorizzate temporaneamente dai cache-providers.
La normativa di riferimento è contenuta nel decreto legislativo del 09.04.2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico. L'articolo 7 di tale direttiva definisce gli "internet service providers" quali "fornitori di servizi in internet".
Inoltre, l'articolo 2 del citato decreto legislativo chiarisce che per "servizi della società dell'informazione" si intendono le attività economiche svolte in linea -on-line- nonché i servizi indicati dall'articolo 1, comma 1, lettera b, della legge n. 317 del 1986, cioè qualunque servizio di regola retribuito, a distanza, in via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi. Tra queste prestazioni rientrano, a titolo esemplificativo, la fornitura dell'accesso ad Internet e a caselle di posta elettronica.
E' stata quindi sancita l'assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers.
Infatti, l'art. 15 della citata direttiva 2000/31/CE (recepito dall'art. 17 D.Igs. n. 70/2003), prevede quanto segue:
«1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. - 2. Gli stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell'informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l'identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati».
In particolare,
i providers non sono responsabili, in linea generale, quando svolgono servizi di c.d. mere conduit (art. 12), caching (art. 13) e hosting (art. 14).
Per quanto si dirà più avanti, nel sottolineare la diversa posizione dei blogger, va evidenziato che il considerando n. 42 della Direttiva in esame puntualizza che «le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l'attività di prestatore di servizi della società dell'informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell'informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate».
In particolare, l'attività di mere conduit, cioè di semplice trasporto, concerne sia la trasmissione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (a titolo d'esempio, una mail inviata da un utente), sia il fornire un accesso ad internet. Si tratta, in pratica, del ruolo svolto dall'access provider, irresponsabile per il contenuto delle informazioni trasmesse telematicamente qualora ricorrano tre condizioni, tutte negative: non dia origine alla trasmissione; non selezioni il destinatario della trasmissione; non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse. In altri termini, fin quando il provider si limita ad un ruolo passivo di mera trasmissione tecnica, senza restare coinvolto nel contenuto delle informazioni che transitano tramite il servizio offerto, non può essere ritenuto responsabile del contenuto medesimo.
Pur tuttavia, ciò non esclude la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri -come quello italiano, ex art. (art. 14, comma 3, d.lgs. 70/2003)- che un organo giurisdizionale o un'autorità amministrativa pretendano che il fornitore impedisca o ponga fine alla violazione perpetrata tramite il servizio prestato.
Il servizio di caching consiste nella memorizzazione automatica, intermedia e temporanea dei dati, sotto forma di file "cache", effettuata al solo scopo di rendere più efficace la sua successiva trasmissione ad altri destinatari del servizio. In relazione a tale successivo inoltro il fornitore è responsabile esclusivamente ove interferisca con le informazioni memorizzate ovvero non proceda alla rimozione dei dati memorizzati non appena venga effettivamente a conoscenza della circostanza che queste sono state rimosse dal luogo di origine o che verranno presto da questo rimosse.
2.3. La Direttiva europea non impone dunque al provider né l'obbligo generale di sorveglianza ex ante, né tanto meno l'obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.
La stessa normativa, tuttavia, impone ai providers di informare prontamente degli illeciti rilevati le autorità competenti e a condividere con le stesse ogni informazione che possa aiutare a identificare l'autore della violazione. Ed è significativa la circostanza per cui la mancata collaborazione con le autorità fa sì che gli stessi providers vengano ritenuti civilmente responsabili dei danni provocati.
Questa ipotesi di responsabilità ex post dell'ISP si fonda su quanto è previsto nell'art. 14, comma 1, lett. b), della Direttiva citata, il quale stabilisce una responsabilità in particolare per i c.d. hosting provider, dall'inglese "to host", che significa "ospitare", dal momento che il provider fornisce all'utente, ospitandolo, uno spazio telematico da gestire.
La scelta delle informazioni da fornire sarà però del soggetto che stipula il contratto di hosting con i provider, i quali sono responsabili nel caso in cui, effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito sui propri server, omettano di rimuoverlo. Dal punto di vista del diritto penale, si parlerebbe in tali fattispecie, laddove non si ritengano applicabili le esenzioni previste dalla Direttiva 31/2000, di una responsabilità dell'ISP per concorso omissivo nel reato commissivo dell'utente, se detto contenuto sia penalmente illecito.
La seconda forma di responsabilità sopra descritta è stata oggetto di alcune recenti pronunce giurisprudenziali, in materia penale e civile, le quali hanno individuato nella previsione dell'art. 14 della Direttiva europea (cui corrisponde quella dell'art. 16 D.lgs. n. 70/2003) la fonte di un obbligo d'impedimento a carico degli ISP, legittimante un'imputazione di responsabilità degli stessi a titolo concorsuale (Cass. Pen., Sez. 5, n. 54946 del 12/07/2016, Maffeis, di cui si parlerà più avanti).
Lo sviluppo giurisprudenziale sul tema, però, non è stato accompagnato da modifiche del testo normativo di riferimento, dimostratosi ormai inadeguato alla materia che si prefigge di regolare, è avanzato parallelamente ai cambiamenti tecnologici di Internet.
Invero, la frammentarietà delle fonti e degli interventi in materia non rendono semplice un'analisi sistematica delle fattispecie che vedono coinvolte le diverse tipologie di provider e l'atipicità delle loro attività, che -come sopra si è detto- presentano dinamiche e problematiche differenti.
La più evidente distinzione può essere riscontrata tra i cc.dd. Serch Engine Results Page ovvero i motori di ricerca come -ad esempio- Google, Bing o Qwant e i gestori dei siti sorgente ovvero piattaforme on-line, come ad esempio Facebook o YouTube, che ospitano o trasmettono i contenuti organizzati e messi a disposizione dal motore di ricerca.
2.4. Proprio quanto appena evidenziato rende palese l'intrinseca diversità tra gli internet providers e gli amministratori di blog, dal momento che questi ultimi non forniscono alcun servizio nel senso precisato, bensì si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su temi nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) "editoriale", impressa proprio dal gestore della suddetta piattaforma.
Insomma, il blog (termine che deriva dalla contrazione di web-log, ovvero "diario di rete") gestito quale sito personale è concepito principalmente come contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale grazie ad apposito software.
I contenuti del diario vengono visualizzati in forma anti-cronologica (dal più recente al più lontano nel tempo) e il sito è in genere gestito da uno o più blogger, che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale.
Quindi, il singolo intervento (pensiero, contenuto multimediale, ecc.) inserito dal blogger viene in genere definito post e l'applicazione utilizzata permette di creare i nuovi post identificandoli con un titolo, la data di pubblicazione e alcune parole chiave (tag).
Qualora l'autore del blog lo permetta, ovvero abbia configurato in questa maniera il blog, al post possono seguire i commenti dei lettori del blog.
Sempre più persone si avvicinano al mondo del blogging e indubbiamente il problema si pone perché -come si è detto- il blog consente l'interazione anche con soggetti terzi, che possono rimanere anonimi.
Orbene, qualora il blogger dovesse esser ritenuto responsabile per tutto quanto scritto sul proprio sito anche da altri soggetti, sarebbe ampliato a dismisura il suo dovere di vigilanza, ingenerando un eccessivo onere a carico dello stesso.
Certamente, però, quando il blog sia stato implementato di alcuni filtri nella pubblicazione dei contenuti, per evitare conseguenze penali il gestore è tenuto a vigilare ed approvare i commenti prima che questi siano pubblicati.
2.5. Va quindi esclusa una responsabilità personale del blogger quando questi, reso edotto dell'offensività della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo.
In tal senso si è espressa la sentenza del 09.03.2017 (sul caso Pihl vs. Svezia) della Corte Europea dei Diritti Umani, così chiarendo i limiti della responsabilità dei gestori di siti e blog per i commenti degli utenti che abbiano contenuto diffamatorio.
Nel caso esaminato dalla citata sentenza, risalente al 2011, su un blog gestito da un'associazione senza scopo di lucro, mediante un commento in relazione ad un post in cui si attribuiva ad un cittadino svedese, Phil, l'appartenenza ad un partito nazista, un soggetto anonimo accusava il medesimo di essere un consumatore abituale di sostanze stupefacenti. 
Pochi giorni più tardi, il soggetto leso chiedeva la rimozione di entrambi i contenuti, poiché veicolavano informazioni mendaci. L'associazione provvedeva secondo le richieste del soggetto danneggiato, aggiungendo altresì uno scritto di scuse. Nondimeno, la persona offesa citava in giudizio il gestore del blog, dal momento che questi non aveva preventivamente controllato il contenuto del post e del commento. La domanda di risarcimento veniva respinta dai giudici nazionali, posto che la mancata rimozione di un contenuto diffamatorio pubblicato da terzi prima della segnalazione dell'interessato integrava una condotta non sanzionabile secondo il diritto svedese. La persona offesa, esauriti i rimedi nazionali, adiva la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, lamentando che la legislazione domestica, nel non prevedere una responsabilità del gestore di blog in casi di tale genere, violava l'art. 8 della Convenzione, ovvero il diritto a vedere tutelata la propria vita privata nonché la propria reputazione.
La Corte europea, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha rilevato come lo scritto in questione, sebbene presentasse profili offensivi, non conteneva affermazioni che incitavano all'odio o alla violenza, evenienza che consente, secondo la tradizionale giurisprudenza della Cedu, una maggiore limitazione della libertà di espressione.
Ciò posto, nella sentenza in esame si è fatto riferimento ad alcune decisioni precedenti (Delfi AS vs. Estonia, Magyar vs. Ungheria), specificando che il bilanciamento operato dalle Corti nazionali sull'applicazione degli articoli 8 e 10 della CEDU, rispettivamente sul diritto alla privacy e sulla libertà di espressione, può essere superato dalla Corte EDU solo se vi sono motivi gravi.
In particolare, nel valutare tale possibilità la Corte Europea deve tenere conto del contesto, delle misure applicate dal gestore per prevenire o rimuovere i commenti lesivi dei diritti altrui e della responsabilità degli autori dei commenti.
Nel caso esaminato, secondo la Corte, il fatto che il gestore avesse tempestivamente rimosso sia il post sia il commento offensivo, per di più scrivendo un nuovo post contenente la spiegazione di quanto accaduto e le scuse, era da ritenersi un comportamento idoneo a escluderne la responsabilità per concorso in diffamazione.
La Corte europea ha quindi escluso la possibilità di ritenere automaticamente responsabile il gestore del sito per qualsiasi commento scritto da un utente, sempre che, una volta a conoscenza del contenuto diffamatorio del commento, si sia immediatamente ed efficacemente adoperato per rimuoverlo.
Per quanto si dirà anche più avanti, quindi,
il blogger può rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente.

VARICommento sul blog: va rimosso o è reato. Quando si risponde di formulazioni diffamatorie.
Se il blogger non rimuove diffama. La cassazione penale riordina i principi in ragione dei quali il blogger risponde del reato di diffamazione attraverso i commenti diretti che formula sul suo blog e per lo spazio che rilascia in esso ai commenti lesivi formulati da soggetti servi.
Nella
sentenza 20.03.2019 n. 12546 la Corte di Cassazione, Sez. V penale, nel rigettare il ricorso ha stabilito che il blogger che mette a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti è responsabile –in concorso con l'autore della diffamazione– quando, reso edotto dell'offensività di una pubblicazione, non rimuova tempestivamente il post offensivo.
«Se il gestore del blog apprende che sono stati pubblicati da terzi contenuti obiettivamente denigratori e non si attiva tempestivamente a rimuovere tali contenuti, finisce per farli propri e, quindi, per porre in essere ulteriori condotte di diffamazione, che si sostanziano nell'aver consentito, proprio utilizzando il suo blog, l'ulteriore divulgazione delle notizie diffamatorie».
Il ricorrente, infatti, non si era attivato celermente, avendo saputo della pubblicazione sul suo spazio internet di commenti che offendevano gravemente la reputazione del soggetto, addirittura mantenendo, consapevolmente fino a quando non è intervenuto l'oscuramento intimato dall'autorità giudiziaria, le espressioni lesive dell'altrui reputazione.
In linea con i principi della responsabilità personale del blogger, aggiungono i supremi giudici «È necessaria una verifica della consapevole adesione da parte di quest'ultimo al significato dello scritto offensivo dell'altrui reputazione, adesione che può realizzarsi proprio mediante la volontaria mancata tempestiva rimozione dello scritto medesimo».
La non tempestiva attivazione da parte del ricorrente, infine, al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog «equivale non al mancato impedimento dell'evento diffamatorio –rilevante ex art. 40, secondo comma, cod. pen.– ma alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell'altrui reputazione, con ulteriore replica della offensività dei contenuti pubblicarti su un diario che è gestito dal blogger»
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019).

VARI: Aggravante rilasciare dichiarazioni al blogger.
Mentre la diffusione di una dichiarazione lesiva della reputazione altrui attraverso siti web, diversi da quelli delle testate giornalistiche (blog, social media ed altre piattaforme) integra non una diffamazione semplice di competenza del giudice di pace ma un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, codice penale, sotto il profilo dell'offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, poiché la condotta realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, anche se non possa dirsi posta in essere col mezzo della stampa, non essendo i social network destinati ad un'attività di informazione professionale diretta al pubblico. In questo contesto, configura il reato di diffamazione, aggravato dal ricorso a un «mezzo di pubblicità», l'aver rilasciato dichiarazioni lesive della personalità altrui a un blogger.

È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione -Sez. V penale- con sentenza 16.04.2019 n. 16564 secondo la quale «è indubbio che rilasciare dichiarazioni ai blogger implichi non solo la consapevolezza ma anche il proposito della pubblicazione delle dichiarazioni stesse sul web».
Pur non potendosi, infatti, considerare i blog alla stregua delle testate giornalistiche, essi a tutti gli effetti costituiscono un moderno veicolo pubblicitario che raggiunge, al pari dei social media, un numero indeterminato di persone. Le dichiarazioni oggetto della causa erano state rilasciate durante una conferenza stampa, il cui sunto era stato successivamente postato dal Blogger nel suo spazio internet.
Non rileva, infine, l'aver il soggetto autore delle dichiarazioni ritenute offensive, l'essersi espresso in un momento non ufficialmente deputato alla classica intervista bensì nell'ambito di un incontro con altri giornalisti ove quanto detto può essere riportato nei resoconti stampa, e quindi anche sulle pagine di un blog (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019).
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MASSIMA
4.3 Sotto il profilo sostanziale va chiarito che la testata giornalistica telematica, funzionalmente assimilabile a quella tradizionale in formato cartaceo, rientra nella nozione di "stampa" di cui all'art. 1 della legge 08.02.1948, n. 47 (Sez. U, n. 31022 del 29/01/2015, Fazzo, Rv. 264090 - 01).
Mentre la diffusione di una dichiarazione lesiva della altrui reputazione attraverso siti web, diversi da quelli delle testate giornalistiche (blog, social media, altre piattaforme internet) integra non una diffamazione semplice di competenza del giudice di pace ma un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, anche se non possa dirsi posta in essere "col mezzo della stampa", non essendo i social network destinati ad un'attività di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, dep. 2017, Manduca, Rv. 269090 - 01).

VARI: Sulla chat c’è diffamazione. Fa la differenza il messaggio diretto a più persone. La Cassazione ha rigettato il ricorso avverso una sentenza del Giudice di pace.
Sulla chat c'è diffamazione. «L'eventualità che tra i fruitori del messaggio ritenuto gravemente offensivo vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate tali espressioni non configura l'illecito di ingiuria ma il delitto di diffamazione, posto che, sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (e-mail o internet) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l'offesa, il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori fa sì che l'addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore e offeso».

È questo il passaggio centrale della sentenza con la quale la Corte di Cassazione - Sez. V penale (sentenza 21.02.2019 n. 7904) ha rigettato il ricorso avverso la sentenza del Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Bari del gennaio 2018, che aveva dichiarato non luogo a procedere nei confronti dell'indagato per il delitto di cui all'art. 595 cod. pen., trattandosi di persona non imputabile perché minore degli anni 14 al momento del fatto.
A sostegno della decisione assunta, il giudice censurato aveva escluso che dagli atti d'indagine emergesse l'evidenza della prova richiesta ai fini dell'invocato proscioglimento nel merito del minore, atteso che il tenore dei messaggi a questi riferibili, versati nella chat di un gruppo su una nota piattaforma cui egli partecipava, non potevano dirsi ictu oculi privi di valenza offensiva per la reputazione di altra minore.
Secondo la Suprema corte, il profilo di doglianza che deduce l'inconfigurabilità del delitto di diffamazione, attesa la partecipazione della destinataria delle offese alla chat, ricorrendo, piuttosto, l'illecito civile di ingiuria, deve essere affrontato assumendo a parametro interpretativo i principi enunciati in tema di diffamazione commessa mediante «e-mail» o mediante «internet».
«La eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive non può indurre a ritenere che, in realtà, venga integrato l'illecito di ingiuria quanto piuttosto che il delitto di diffamazione, posto che, sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (“e-mail” o “internet”) consenta, in astratto, anche al soggetto vilipeso di percepire direttamente l'offesa, il fatto che messaggio sia diretto a una cerchia di fruitori -i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi-, fa sì che l'addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso di qui l'offesa alla reputazione della persona ricompresa nella cerchia dei destinatari del messaggio».
Nel caso in esame, conclude la Cassazione, dallo stesso tenore dei messaggi offensivi emergeva come la minore parte lesa del reato fosse estranea allo specifico contesto comunicativo, nel quale erano coinvolti i soli minori indagati dialoganti tra loro
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019).

UTILITA'

TRIBUTI: Massimario nazionale della Giustizia Tributaria di merito - II semestre 2017/I semestre 2018 (I edizione - tratto da www.cndcec.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Contributi regionali per la rimozione dell’amianto: approvazione dei criteri (ANCE di Bergamo, circolare 06.06.2019 n. 143).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Terre e rocce da scavo: il Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale pubblica le linee guida (ANCE di Bergamo, circolare 06.06.2019 n. 142).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Modifiche al Codice di Prevenzione Incendi (ANCE di Bergamo, circolare 31.05.2019 n. 139).

EDILIZIA PRIVATAEliminazione delle barriere architettoniche per non vedenti e ipovedenti ai sensi del DPR n. 503/1996, del DM n. 236/1989 e del DPR n. 380/2001 - Necessità di prevedere accorgimenti e misure idonee in sede progettuale e di tenere conto delle delle persone non vedenti e ipovedenti – INFORMATIVA PER GLI ORDINI TERRITORIALI E ATTIVITÀ DI SENSIBILIZZAZIONE DEGLI ISCRITTI ALL’ALBO (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 28.05.2019 n. 387).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Legge 03.05.2019, n. 37 - Legge europea 2018. Richiesta chiarimenti – Agenti immobiliari (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 22.05.2019 n. 128364 di prot.).
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Si fa riferimento all’istanza di interpello inoltrata da codesta Associazione allo scrivente ufficio con nota pec del 17 aprile u.s., concernente la legge in oggetto 03.05.2019, n. 37 (entrata in vigore il 26 maggio successivo) la quale, all’art. 2 - Disposizioni in materia di professione di agente d'affari in mediazione, Procedura di infrazione n. 2018/2175 – dispone la sostituzione dell’ articolo 5, comma 3, della legge 03.02.1989, n. 39 come segue: (...continua).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Linea guida sull'applicazione della disciplina per l'utilizzo delle terre e rocce da scavo (Sistema Nazionale per la Protezione dell'Ambiente, delibera 09.05.2019 n. 54/2019).

URBANISTICANovità nella consegna dei PGT in formato digitale (U.T.R. Bergamo, infocomuni marzo 2019 - n. 8).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Imposta di Bollo su istanze di rimborso di tariffe erroneamente versate per richiesta di Valutazione Impatto Ambientale e Autorizzazioni Integrate Ambientali - Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate, risposta 28.12.2018 n. 144).
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QUESITO
Il Ministero XXX ha chiesto chiarimenti in merito all’applicazione dell’imposta di bollo prevista dall’articolo 3, della Tariffa, allegato A, parte I, al D.P.R. 26.10.1972 n. 642, ovvero dall’art. 5, comma 5, della Tabella, allegato B annessa allo stesso DPR.
Più in particolare, il quesito riguarda le istanze di rimborso delle tariffe erroneamente versate sia per le richieste di valutazione di impatto ambientale sia per le autorizzazioni integrate ambientali.
Relativamente alla valutazione di impatto ambientale (di seguito VIA) l’istante riferisce che si tratta di “…una procedura amministrativa di supporto per l’Autorità competente (…) finalizzata ad individuare descrivere e valutare gli impatti ambientali di un’opera, il cui progetto è sottoposto ad approvazione o autorizzazione” e “Ciascun soggetto che intenda presentare (…) un’istanza di valutazione di impatto ambientale (…), è tenuto al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma …”. (...continua).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Trattamento fiscale applicabile ai fini dell’Iva alla tariffa relativa alla cessione del segno identificativo e alla tariffa per le ispezioni previste dalle norme in materia di esercizio e controllo degli impianti termici degli edifici – Artt. 3, 4 e 15 del Dpr 26.10.1972 n. 633 - Istanza di interpello ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate, risposta 28.12.2018 n. 141).
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QUESITO
L’istante espone la seguente fattispecie concernente l'individuazione del corretto trattamento fiscale ai fini IVA applicabile alla cessione del segno identificativo e alla tariffa per le ispezioni previste dalla Legge Regionale delle Marche del 20.04.2015, n. 19 (Norme in materia di esercizio e controllo degli impianti termici degli edifici).
L’istante premette che, ai sensi dell'art. 9, comma 2, del D.Lgs. 19.08.2005 n. 192, nonché dell'art. 9, comma 1, e dell'art. 10, comma 3, lett. c), del DPR 16.04.2013 n. 74, l'attività di controllo sugli impianti termici, e quindi l'applicazione delle tariffe necessarie a coprire i costi di tale attività e di tutto ciò che è ad essa correlato (come la gestione del catasto impianti), spettano alle Autorità competenti (ovvero ai comuni con più di 40.000 abitanti e, per il restante territorio, alle province) o ad eventuali organismi esterni da esse delegati. (...continua).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Cessione di diritti volumetrici - Agevolazioni ex art. 1, comma 88, legge n. 205/2017: imposte di registro, ipotecaria e catastale (Agenzia delle Entrate, risoluzione 24.10.2018 n. 80/E).
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L’interpellante… rappresenta la seguente fattispecie.
Il Comune X, con delibera approvata dal Consiglio Comunale, ha avviato la cessione mediante asta pubblica ai sensi del RD 23.05.1924, n. 827, dei diritti volumetrici di proprietà comunali allocati nelle unità di intervento di proprietà privata in esecuzione di una convenzione attuativa del piano particolareggiato adottato, che riguarda le aree e gli edifici situati nel Comune X.
Il piano di cui la convenzione costituisce attuazione, prevede, tra l’altro, la realizzazione di edifici con destinazione residenziale, commerciale, artigianale e di servizi e parcheggi.
Il Comune X, in quanto titolare di un’area ricompresa nell’ambito territoriale del piano particolareggiato nonché dei diritti volumetrici relativi a tale area, con propria determinazione dirigenziale ha approvato il bando relativo alla vendita con la procedura dell’asta pubblica, dei menzionati diritti volumetrici, fissando un prezzo di base d’asta.
A seguito dell’esperimento dell’asta pubblica, con successiva determinazione dirigenziale, il Comune ha aggiudicato in via definitiva i diritti volumetrici alla società Y proprietaria delle aree e degli edifici nei quali saranno allocati i diritti volumetrici in seguito alla cessione da parte del Comune X.
Ciò premesso, l’istante chiede di conoscere se all’atto di cessione dei diritti volumetrici aggiudicati sia applicabile la disciplina prevista dall’articolo 32 del DPR 29.09.1973, n. 601 (imposta di registro in misura fissa ed esenzione dalle imposte ipotecaria e catastale) richiamata dall’articolo 20 della legge 28.01.1977, n. 10, come modificato dall’articolo 1, comma 88, della legge 27.12.2017, n. 205, in base al quale “Ai provvedimenti, alle convenzioni e agli atti d’obbligo previsti dalla presente legge si applica il trattamento tributario di cui all’articolo 32, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 601. Il trattamento tributario di cui al primo comma si applica anche a tutti gli atti preordinati alla trasformazione del territorio posti in essere mediante accordi o convenzioni tra privati ed enti pubblici, nonché a tutti gli atti attuativi posti in essere in esecuzione dei primi. La disposizione di cui al secondo comma si applica a tutte le convenzioni e atti di cui all’articolo 40-bis della legge provinciale di Bolzano 11.08.1997, n. 13, per i quali non siano ancora scaduti i termini di accertamento e di riscossione ai sensi della normativa vigente o rispetto ai quali non sia stata emessa sentenza passata in giudicato”.
In sede di integrazione documentale, l’interpellante ha successivamente rappresentato che la cessione in parola è stata assoggettata ad IVA ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del DPR 26.10.1972, n. 633. (...continua).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Consulenza Giuridica – Art. 1 della legge n. 449 del 1997 – Piano Casa – Possibilità di fruire della detrazione del 36 per cento sulle spese di ristrutturazione in presenza di lavori di ampliamento (Agenzia delle Entrate, risoluzione 04.01.2011 n. 4/E).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: detrazione d’imposta del 55% per gli interventi di risparmio energetico previsti dai commi 344-345-346 e 347 della legge 27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria per il 2007) (Agenzia delle Entrate, circolare 31.05.2007 n. 36/E).

EDILIZIA PRIVATA - VARIOGGETTO: Profili interpretativi emersi nel corso di incontri con la stampa specializzata tenuti nel mese di Gennaio 2007 (Agenzia delle Entrate, circolare 16.02.2007 n. 11/E).
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Sintesi: La circolare riporta, raggruppate per argomento, le risposte fornite dalla scrivente in occasione di incontri con gli esperti della stampa specializzata, relative a quesiti concernenti l'applicazione delle disposizioni contenute nel decreto-legge 04.07.2006, n. 223, del decreto-legge 03.10.2006, n. 262 e della legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: IVA – Applicazione del punto 127-quaterdecies) della Tabella A, parte III, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26.10.1972, n. 633 agli interventi di recupero e risanamento conservativo di cui all’articolo 31, primo comma, lettera c), della legge 05.08.1978, n. 457. Istanza di interpello (Agenzia delle Entrate, risoluzione 22.01.2003 n. 10/E).
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Quesito.
L’Istituto di Previdenza ed Assistenza per i Dipendenti del Comune di ….. ha affidato ad una impresa di costruzioni l’appalto dei lavori di restauro e risanamento conservativo di parte di un edificio di proprietà del Comune di ……, destinato ad uffici e precisamente a sede amministrativa, uffici di presidenza e direzione dello stesso ente.
Posto che i lavori in questione ricadono nella fattispecie di cui all’articolo 31, primo comma, lettera c), della legge 05.08.1978, n. 457, il medesimo Istituto chiede di conoscere se alle relative prestazioni di servizi sia applicabile l’aliquota IVA del 10 per cento ai sensi del punto 127-quaterdecies) della Tabella A, parte III, allegata al decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972. (...continua).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Interpello …./2001-Art. 11, legge 27-7-2000, n. 212. Istanza prot. n……./2001 del……… 2001 (Agenzia delle Entrate, risoluzione 12.10.2001 n. 157/E).
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Quesito.
La società ……….., premesso che deve realizzare in “project financing” la costruzione di una piscina scoperta e ristrutturare l'impianto sportivo esistente (composto da piscina coperta e palestra) di proprietà del Comune di ……. e che, in base a concessione, avrà la gestione per trent'anni dell'intero impianto sportivo, chiede di conoscere se tali opere possano essere qualificate di "urbanizzazione secondaria" e godere, pertanto, dell'aliquota IVA ridotta del 10 per cento prevista dal punto 127-quinquies della Tabella A, parte III, allegata al d.P.R. 26.10.1972, n. 633. (...continua).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2019, "Approvazione dello schema di accordo tra Regione Lombardia e Anci Lombardia per la realizzazione di un progetto in materia di sviluppo e rigenerazione urbana" (deliberazione G.R. 03.06.2019 n. 1713).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2019, "Approvazione degli «Indirizzi regionali in materia di sportelli unici per le attività produttive (SUAP)» - Linee guida di attuazione dell’art. 7 della legge regionale 19.02.2014, n. 11 «Impresa Lombardia: per la libertà di impresa, il lavoro e la competitività»" (deliberazione G.R. 03.06.2019 n. 1702).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2019, "Linee di indirizzo per l’attuazione delle misure di dematerializzazione previste dalla d.g.r. n. 6077/2016" (circolare regionale 03.06.2019 n. 7).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 23 del 07.06.2019, "Legge di revisione normativa e di semplificazione 2019" (L.R. 06.06.2019 n. 9).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 07.06.2019 n. 132 "Regolamento relativo agli interventi di bonifica, di ripristino ambientale e di messa in sicurezza, d’emergenza, operativa e permanente, delle aree destinate alla produzione agricola e all’allevamento, ai sensi dell’articolo 241 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 01.03.2019 n. 46).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardiua, serie ordinaria n. 23 del 06.06.2019, "Interventi strutturali di prevenzione del rischio sismico sugli edifici strategici e rilevanti, in attuazione dell’ordinanza del capo del dipartimento di protezione civile n. 532/2018 (art. 2, comma 1, lettera b) - Criteri per l’individuazione degli interventi prioritari nelle zone a maggior rischio sismico" (deliberazione G.R. 03.06.2019 n. 1714).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 31.05.2019 n. 126 "Rilevazione dei prezzi medi per l’anno 2017 e delle variazioni percentuali annuali, in aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento, relative all’anno 2018, ai fini della determinazione delle compensazioni dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi" (Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, decreto 20.05.2019).

URBANISTICA: G.U. 31.05.2019 n. 126 "Linee guida per la valutazione di impatto sanitario (VIS)" (Ministero della Salute, decreto 27.03.2019).
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Linee guida per la valutazione di impatto sanitario.
La Valutazione di Impatto sulla Salute (VIS) rappresenta uno strumento a supporto dei procedimenti amministrativi e dei processi decisionali riguardanti programmi, piani e progetti sottoposti a valutazione d’impatto ambientale ed è una procedura che consente d’individuarne e analizzarne gli impatti sulla salute umana.
Così come previsto dalla normativa, la VIS consiste in un elaborato predisposto dal proponente sulla base delle linee guida adottate con decreto del Ministro della Salute, che si avvale dell’Istituto Superiore di Sanità, al fine di stimare gli impatti complessivi, diretti e indiretti, che la realizzazione e l’esercizio del progetto può procurare sulla salute della popolazione.
Queste linee guida si applicano a programmi, piani e progetti di competenza statale, tuttavia esse possono rappresentare un modello di riferimento per la valutazione degli impatti sulla salute di programmi, piani e progetti di rilevanza regionale, al fine di poter perseguire una uniforme metodologia di valutazione a livello nazionale.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 31.05.2019, "Disposizioni per il rilascio di autorizzazioni per l’esecuzione di «Attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche» ai sensi dell’art. 10, c. 1, della l. 353/2000" (deliberazione G.R. 27.05.2019 n. 1670).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 30.05.2019, "Terzo aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 23.05.2019 n. 7275).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 29.05.2019, "Aggiornamento del d.d.u.o. 21.11.2013 n. 19904 - Approvazione elenco delle tipologie degli edifici ed opere infrastrutturali di interesse strategico e di quelli che possono assumere rilevanza per le conseguenze di un eventuale collasso in attuazione della d.g.r. n. 19964 del 07.11.2003" (decreto D.U.O. 22.05.2019 n. 7237).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 28.05.2019, "Aggiornamento delle specifiche tecniche per l’interoperabilità e lo scambio dati tra le amministrazioni relative alla modulistica edilizia unificata e standardizzata regionale" (decreto D.S. 21.05.2019 n. 7141).

APPALTI: B.U.R. Piemonte, serie ordinaria n. 21, 2° suppl., del 23.05.2019, "INFORMATIVA IN MATERIA DI PROCEDURE DI GARA SVOLTE DA STAZIONI APPALTANTI/CENTRALI DI COMMITTENZA/SOGGETTI AGGREGATORI AI SENSI DEL D.LGS. 50/2016 “CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI”." (comunicato).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 22.05.2019, "Aggiornamento albo delle imprese boschive (l.r. 31/2008 – art. 57)" (decreto D.S. 15.05.2019 n. 6738).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 21 del 21.05.2019, "Modifiche agli articoli 2, 3, 5, 10, 15 e 16 della legge regionale 17.11.2016, n. 28 (Riorganizzazione del sistema lombardo di gestione e tutela delle aree regionali protette e delle altre forme di tutela presenti sul territorio)" (L.R. 17.05.2019 n. 8).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 21.05.2019, "Ordine del giorno concernente la revisione normativa delle leggi in materia di gestione e tutela dei parchi e delle aree protette" (deliberazione C.R. 07.05.2019 n. 510).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: A. Cacciari, La realizzazione delle opere pubbliche, il contenzioso sugli appalti e l’economia (10.06.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: G. Laddaga, GLI INCENTIVI PER FUNZIONI TECNICHE E LO IUS SUPERVENIENS (PublikaDaily n. 11 - 05.06.2019).

APPALTI: S. Usai, IL SOCCORSO ISTRUTTORIO INTEGRATIVO NELLA RECENTE GIURISPRUDENZA: LA QUALIFICAZIONE DEL TERMINE DI INTEGRAZIONE E LA CONFIGURAZIONE GIURIDICA DELL’ERRORE MATERIALE IN TEMA DI APPALTI (PublikaDaily n. 11 - 05.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: A. Sacchi, OBBLIGHI DI PUBBLICAZIONE DATI TRATTAMENTI ECONOMICI PERSONALE DIPENDENTE (PublikaDaily n. 11 - 05.06.2019).

ENTI LOCALI - VARI: L. Meneghini, TUTELA DELL’INCOLUMITÀ PUBBLICA DALL’AGGRESSIONE DEI CANI (PublikaDaily n. 11 - 05.06.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAGestione delle terre e rocce di scavo: le Linee guida del SNPA.
Il Consiglio del Sistema Nazionale per la Protezione dell'Ambiente ha approvato il manuale "Linea guida sull'applicazione della disciplina per l'utilizzo delle terre e rocce da scavo".

Giovedì 9 maggio si è tenuta una riunione del Consiglio del SNPA (Sistema Nazionale per la Protezione dell'Ambiente). Nella prima parte dell’incontro si è preso atto dell’approvazione telematica di una serie di documenti tecnici:
   - Linee guida per la redazione del ‘Rapporto sulla qualità dell’ambiente urbano’;
   - Linee guida sulla gestione delle “Terre e rocce di scavo’;
   - Rapporto tecnico “Elementi metodologici per la valutazione del rischio associato all’esposizione a contaminanti multipli, con particolare riferimento alla popolazione residente in aree di particolare rilevanza ambientale”;
   - Rapporto tecnico “Elementi metodologici per una valutazione multisorgente dell’esposizione a inquinanti chimici in ambienti indoor in aree di particolare rilevanza ambientale”.
E’ stata quindi ratificata, a seguito della deliberazione di una procedura SNPA sull’approvazione delle convenzioni di cui all’art. 3, comma 3, della L. n. 132/2016, la prima Convenzione fra SNPA e INGV (Istituto nazionale di geologia e vulcanologia), con il quale viene instaurato un rapporto di collaborazione e partnership, nell’ambito delle rispettive finalità istituzionali.
TERRE E ROCCE DA SCAVO. Con la delibera 09.05.2019 n. 54/2019, il Consiglio SNPA ha deliberato di approvare il manuale "Linea guida sull'applicazione della disciplina per l'utilizzo delle terre e rocce da scavo", e di ritenere tale atto, ai sensi dell'art. 8 del Regolamento di funzionamento, immediatamente esecutivo; per il territorio delle Province Autonome di Trento e Bolzano è applicato nel rispetto delle disposizioni dello statuto di autonomia speciale, delle relative norme di attuazione e della sentenza 212/2017 della Corte Costituzionale.
La Linea Guida è stata predisposta dal Gruppo di Lavoro n. 8 “Terre e rocce da scavo”, costituito nell’ambito delle attività previste dal programma triennale 2014-2016 del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente con l’obiettivo di produrre manualistica per migliorare l’azione dei controlli attraverso interventi ispettivi sempre più qualificati, omogenei e integrati.
In particolare, la realizzazione di manuali e linee guida è finalizzata ad assicurare l’armonizzazione, l’efficacia, l’efficienza e l’omogeneità dei sistemi di controllo e della loro gestione nel territorio nazionale, nonché il continuo aggiornamento, in coerenza con il quadro normativo nazionale e sovranazionale, delle modalità operative del Sistema nazionale e delle attività degli altri soggetti tecnici operanti nella materia ambientale.
La normativa di riferimento in materia di terre e rocce da scavo al momento della costituzione del GdL era rappresentata dalle seguenti norme:
   - art. 184-bis del d.lgs. n. 152/2006 sui sottoprodotti;
   - art. 185, commi 1, lett. b) e c), e 4 del d.lgs. 152/2006 per l’esclusione dalla qualifica di rifiuto;
   - DM 10.08.2012, n. 161, recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti;
   - DL 25.01.2012, n. 2 convertito con L. 24.03.2012, n. 28 che fornisce l’interpretazione autentica dell’art. 185 del d.lgs. 152/2006;
   - DL 21.06.2013, n. 69, Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia convertito con Legge 98/2013 per la qualifica delle terre e rocce da scavo, prodotte nei cantieri non sottoposti a VIA ed AIA, come sottoprodotti;
   - DL 12.09.2014, n. 133, Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche e l'emergenza del dissesto idrogeologico, convertito con modificazioni dalla L. 11.11.2014, n. 164;
   - DM 05.02.1998 per il recupero in procedura semplificata delle terre e rocce qualificate rifiuti.
A seguito dell’entrata in vigore DL 133/2014 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014, n. 164 che all’art. 8 prevedeva il riordino dell’intera materia, il GdL n. 8 “Terre e rocce da scavo” ha sospeso i propri lavori in attesa dell’emanazione della nuova normativa.
Il 07.08.2017 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il DPR del 13.06.2017, n. 120 “Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’art. 8 del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164.” Il DPR ha abrogato il DM 161/2012, l’articolo 184-bis, comma 2-bis, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 e gli articoli 41, comma 2, e 41-bis del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Il DPR 120/2017 non ha abrogato il comma 3-bis dell’art. 41 del citato decreto legge e relativo ai materiali di scavo proveniente dalle miniere dismesse, o comunque esaurite, collocate all’interno dei SIN. Detti materiali “possono essere utilizzatori nell’ambito delle medesime aree minerarie, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, miglioramenti fondiari, o viari oppure altre forme di ripristino …”. In relazione alle attività minerarie ancora in essere si ricorda invece che i materiali litoidi prodotti come obiettivo primario e come sottoprodotto dell’attività di estrazione effettuata in base a concessioni e pagamento di canoni, sono assoggettati alla normativa sulle attività estrattive.
Con l’emanazione del citato DPR è stato definito il quadro normativo di riferimento, pertanto il GdL n. 8 ha potuto riprendere i lavori che si sono sviluppati nelle seguenti attività finalizzate alla definizione di una Linea Guida per l'applicazione della disciplina:
   - analisi del DPR e individuazione delle criticità applicative (ad esempio modalità operative di campionamento, aspetti procedurali, ecc.);
   - definizione di un approccio comune finalizzato ad una applicazione condivisa delle diverse disposizioni con particolare riferimento ai compiti di monitoraggio e controllo attribuiti al SNPA, fermi restando i compiti di vigilanza e controllo stabiliti dalle norme vigenti per le Agenzie;
   - definizione di criteri comuni per la programmazione annuale delle ispezioni, dei controlli dei prelievi e delle verifiche delle Agenzie regionali e provinciali (27.05.2019 - commento tratto da e link a www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Pilotto, LA PUBBLICAZIONE DEI CONTRIBUTI PARI O SUPERIORI A 10 MILA EURO DA PARTE DEI BENEFICIARI: LE NOVITÀ DEL D.L. 34/2019 (PublikaDaily n. 10 - 22.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: M. Terzi, LA VERIFICA STRAORDINARIA DI CASSA A SEGUITO DELL’ELEZIONE DEL NUOVO SINDACO (PublikaDaily n. 10 - 22.05.2019).

APPALTI: S. Usai, LE NUOVE MODALITÀ DI CALCOLO DELLA SOGLIA DI ANOMALIA (PublikaDaily n. 10 - 22.05.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica (22.05.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1.- Necessità di un chiarimento; 2.- Tipologia e regime giuridico degli accessi (cenni sulle figure generali); 3.1.- Modalità e limiti della protezione dell’interesse alla conoscenza si differenziano a seconda che si tratti di una situazione soggettiva qualificata o di semplice interesse; 3.2.- (segue) Le limitazioni dell'accesso civico (disciplinate dall’art. 5-bis del dlgs 33/2013 e s.m.i.); 3.3.- (segue) Le limitazioni del diritto di accesso procedimentale (nella disciplina dell’art 24 della l. 241/1990 e s.mi..).  L’accesso “defensionale” non può essere oggetto di valutazione discrezionale; 4.- Il caso paradigmatico della diversa composizione del conflitto tra trasparenza e riservatezza; 5.- Osservazioni conclusive.

EDILIZIA PRIVATA: A. Veronese, Attività edilizia libera, C.A.L., C.I.L.A., S.C.I.A.: il punto sui titoli non titoli (13.05.2019 - link a www.amministrativistiveneti.it).
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Sommario: 1. Premessa normativa: l’attività edilizia libera; la comunicazione di avvio lavori, la comunicazione di inizio lavori asseverata; la segnalazione certificata di inizio attività; § 2. Attività edilizia libera; § 3. C.I.L.A.: natura, procedimento, poteri dell’amministrazione; § 4. S.C.I.A.: natura, procedimento, poteri dell’amministrazione, nuova agibilità; § 5. Le misure di salvaguardia; § 6. Onerosità dei titoli; § 7. Profili sanzionatori e penali (cenni); § 8. S.C.I.A. e il falso; § 9. C.I.L.A., S.C.I.A. e tutela del terzo anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 45/2019.

PUBBLICO IMPIEGO: A. Sacchi, CONFLITTO D’INTERESSE E ABUSO D’UFFICIO (PublikaDaily n. 9 - 08.05.2019).

APPALTI: S. Usai, L’INVERSIONE DELLA VERIFICA DEI REQUISITI NELLA NOVITÀ INTRODOTTA CON IL DECRETO-LEGGE “SBLOCCA CANTI ERI” (PublikaDaily n. 9 - 08.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: D. d'Alfonso, SPESE LEGALI: QUANDO SONO RIMBORSABILI E LE DIFFERENZE TRA DIPENDENTI E AMMINISTRATORI (PublikaDaily n. 9 - 08.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIMANUALE PER I SINDACI - ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2019 - Schemi di atti, delibere, indirizzi per i primi adempimenti (ANCI, maggio 2019).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Cicala, CONGEDO STRAORDINARIO PER ASSISTENZA AI DISABILI: NON È NECESSARIA LA CONVIVENZA EX ANTE - Commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 232 del 07.12.2018 (PublikaDaily n. 8 - 24.04.2019).

APPALTI: S. Usai, GLI ACQUISTI SOTTO SOGLIA COMUNITARIA DOPO IL DECRETO SBLOCCA CANTIERI (PublikaDaily n. 8 - 24.04.2019).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: LA TRATTATIVA DIRETTA SU MEPA (TD) PER L’ACQUISTO DI BENI E/O SERVIZI - INDICAZIONI OPERATIVE E FAC-SIMILE DI LETTERA DI NEGOZIAZIONE (PublikaDaily n. 8 - 24.04.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Nespoli, Notificazione a mezzo posta elettronica certificata: registro PP.AA. o IPA per gli indirizzi pec delle P.A.? (18.04.2019 - link a www.amministrativistiveneti.it).

APPALTI SERVIZI: C. P. Guarini, Una nuova stagione per l’in house providing? L’art. 192, co. 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, tra dubbi di legittimità costituzionale e sospetti di incompatibilità eurounitaria (17.04.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. L’ordinanza del Tar Liguria, sez. II, 15.11.2018, n. 886, e l’ordinanza del Consiglio di Stato, sez. V, 07.01.2019, n. 138: il perimetro delle questioni. – 2. L’in house providing: un lungo percorso tra legislatore, Corte costituzionale e giurisprudenza amministrativa. Cenni di contesto. – 2.1. (Segue) Il referendum abrogativo del 12-13.06.2011 e le sentenze della Corte costituzionale n. 24 del 2011 e n. 199 del 2012. Nuove linee interpretative per il bilanciamento tra tutela della concorrenza e autonomia organizzativa delle pp.aa. regionali e locali. – 2.2. (Segue) Gli ultimi “aggiustamenti” nazionali prima dell’intervento dell’Unione. – 3. Le direttive UE nn. 23, 24 e 25 del 2014, il «principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche» e l’in house come modulo organizzativo “ordinario”. – 4. Il divieto di gold plating, la l. delega 28.01.2016, n. 11, e i limiti del legislatore delegato. – 4.1. (Segue) La via della legittimità costituzionale praticata dal Tar Liguria: alcuni rilievi critici. – 4.2. (Segue) La strada del rinvio pregiudiziale interpretativo alla CGUE praticata dal Consiglio di Stato: le premesse per una nuova stagione dell’in house providing? – 5. Qualche breve spunto in ordine all’interferenza tra giudizi e al rischio di una eterogenesi dei fini.
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Abstract: Le presenti note ripercorrono i passaggi salienti dell’evoluzione (interna ed eurounitaria) dell’istituto dell’in house providing al fine di evidenziare quanto sfavorevole sia stato l’approccio (legislativo e giurisprudenziale) nazionale al suo utilizzo, prevalentemente collocato in un’area antagonista al principio concorrenziale. La cristallizzazione del «principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche», contemplato dalle direttive UE nn. 23, 24 e 25, sembra, invece, aver suggerito di modificare tale approccio.
Ciononostante, il legislatore italiano ha riproposto, nella “nuova” disciplina dei contratti pubblici, condizioni e limiti al ricorso all’in house providing (art. 192, co. 2, d.lgs. n. 50 del 2016), che paiono perpetuare un regime di sostanziale disfavore nei suoi confronti, alimentando la prospettiva della sua “natura” derogatoria o eccezionale. Tali incongruenze sono state avvertite da alcuni giudici amministrativi che hanno investito della questione sia la Corte costituzionale (il Tar Liguria) che la CGUE (il Consiglio di Stato). Il contenuto delle ordinanze di rinvio e i possibili effetti del sovrapporsi di tali rinvii costituiscono il fulcro della seconda parte di questo contributo.

LAVORI PUBBLICI: P. Michielan, Pregiudizio da opera pubblica legittima al bene non espropriato: presupposti per l’indennità dovuta (artt. 33 e 44 D.P.R. n. 327/2001) (15.04.2019 - link a www.amministrativistiveneti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Sacchi, LE SCADENZE DELLA TRASPARENZA 2019 (PublikaDaily n. 5 - 13.03.2019).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: S. Usai, PROGRAMMAZIONE DEGLI ACQUISTI DI FORNITURE E SERVIZI E BILANCIO DELLA STAZIONE APPALTANTE (PublikaDaily n. 5 - 13.03.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: S. Freguglia, L’UTILIZZO DELLE GRADUATORIE DOPO LA LEGGE DI BILANCIO (PublikaDaily n. 4 - 27.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: A. Sacchi, LA PUBBLICAZIONE DEI DATI DEI DIRIGENTI, DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 20/2019 (PublikaDaily n. 4 - 27.02.2019).

APPALTI: S. Usai, PARTECIPAZIONE DEL RUP IN COMMISSIONE DI GARA E L’ATTUALE ORIENTAMENTO GIURISPRUDENZIALE (PublikaDaily n. 4 - 27.02.2019).

PATRIMONIO: M. Terzi, I PROVENTI DA ALIENAZIONE DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE (PublikaDaily n. 3 - 13.02.2019).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: S. Usai, I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI INCENTIVI PER FUNZIONI TECNICHE (PublikaDaily n. 3 - 13.02.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Sacchi, LA LEGGE CD. “SPAZZA CORROTTI” (PublikaDaily n. 3 - 13.02.2019).

APPALTI: S. Usai, L’AFFIDAMENTO “DIRETTO” DI LAVORI PREVISTO NELLA LEGGE DI BILANCIO PER IL 2019 (PublikaDaily n. 2 - 30.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D. D'Alfonso, LA DESTINAZIONE DEI PROVENTI EX ART. 208 DEL CODICE DELLA STRADA (PublikaDaily n. 2 - 30.01.2019).

APPALTI: S. Usai, CODICE DEI CONTRATTI E NUOVA LEGGE DI BILANCIO N. 145/2018 (PublikaDaily n. 1 - 16.01.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Sacchi, DELIBERA ANAC N. 1074 DEL 21/11/2018: TUTTE LE NOVITÀ PER L’ANNO 2019 (PublikaDaily n. 1 - 16.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: S. Freguglia, GLI ULTIMI SVILUPPI INTERPRETATIVI SUI L IMITI PER GLI INCARICHI AI SENSI DELL’ART. 110 DEL D.LGS. 267/2000 (PublikaDaily n. 1 - 16.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Tallarida, I trasferimenti individuali nel rapporto di lavoro pubblico e privato (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Sommario: 1. Trasferimenti d’ufficio - 2. Norma generale - 3. La giurisprudenza in materia - 4. Disposizioni speciali - 5. ricongiungimento familiare - 6. Distacco, comando, trasferta o missione - 7. Trasferimenti a domanda - 8. il lavoro agile - 9. Contrattazione collettiva nazionale - 10. Considerazioni finali.

APPALTI: C. Colelli, La tutela processuale nel rito “super accelerato” degli appalti pubblici e i principi eurounitari - Corte di giustizia Ue, Sez. IV, ordinanza 14.02.2019, C-54/18 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Soldini, Qualche riflessione sull’accesso civico generalizzato a nota della sentenza n. 1546/2019 del Consiglio di Stato (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: T. Tessaro, Responsabilità diretta del funzionario od amministratore e limiti di riconoscibilità del debito fuori bilancio comunale (23.11.2018 - tratto da www.amministrativistiveneti.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Terzi, I PROVENTI DA ONERI DI URBANIZZAZIONE: DAL 2018 UN QUADRO NORMATIVO DEFINITIVO (PublikaDaily n. 2 - 31.01.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Sacchi, LA PUBBLICAZIONE DEI BENEFICI ECONOMICI (PublikaDaily n. 2 - 31.01.2018).

INCARICHI PROFESSIONALI: S. Usai, REDAZIONE ALBO PER AFFIDAMENTO INCARICHI LEGALI (PublikaDaily n. 2 - 31.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G. Sacchi, TRATTAMENTO DEI DIPENDENTI NEI PASSAGGI DI MOBILITÀ (PublikaDaily n. 2 - 31.01.2018).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHELa ratio della disciplina in materia è quella di valorizzare e premiare i diversi profili, tecnici e amministrativi, del personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all’esecuzione del contratto, consentendo l’erogazione degli incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici; a fronte di tale finalità ispiratrice non sembra esserci spazio per alcuna distinzione relativa alla tipologia di appalto e alla natura, corrente o di investimento, della spesa che lo finanzia.
Opinando diversamente, si introdurrebbe in materia una distinzione fra le diverse tipologie di appalto pubblico che non trova fondamento nel dato normativo e, anzi, contrasta con la considerazione unitaria delle tre fattispecie contrattuali che connota l’art. 113 del Codice dei contratti pubblici.
In definitiva, l’incentivo in esame è erogabile in tutte e tre le tipologie di contratti pubblici di appalto (lavori, servizi e forniture), purché ricorrano le condizioni di legge, tra cui in primo luogo lo svolgimento di una gara.
Per le ipotesi di appalti di servizi e forniture, una specifica condizione è posta dall’ultimo inciso del comma 2 dell’art. 113, che limita gli emolumenti incentivanti al «caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione»; sul punto vengono in rilievo le Linee guida ANAC n. 3 (recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni»), laddove la nomina del direttore dell’esecuzione del contratto, quale soggetto diverso dal RUP, è richiesta per gli appalti di importo superiore a una determinata soglia ovvero connotati da profili di complessità (§ 10.2)
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Con nota del 19.03.2019 il Sindaco del Comune di Triggiano (BA) ha formulato una richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della l. 05.06.2003, n. 131 in materia di incentivi per funzioni tecniche. In particolare, premesso che:
   - in base al comma 2 dell’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 (nel testo all’epoca vigente), «A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti» (prima parte) e «La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione» (ultima parte);
   - nei parere 24.01.2017 n. 5 e parere 28.09.2018 n. 140 la Sezione regionale di controllo per la Puglia si è espressa nel senso dell’impossibilità di riconoscere l’incentivo in rapporto alle attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, in quanto non presenti tra le attività elencate nell’art. 113 che, tra l’altro, fa espresso riferimento alle attività di programmazione della spesa per investimenti;
   - l’ultima parte sopra citata del comma 2 dell’art. 113, pur riconoscendo la possibilità di incentivare gli appalti di servizi e fornitura, non chiarisce se deve intendersi qualsiasi tipologia di appalto (relativo a spesa corrente o per investimenti) ovvero solo quello relativo alla spesa di investimento;
il Comune ha chiesto «se per gli appalti di affidamento dei servizi finanziati dalla spesa corrente, quali ad esempio i servizi socio-assistenziali, previa nomina del direttore dell’esecuzione e inserimento nel relativo programma biennale di cui all’art. 21 del D.Lgs. 50/2016, possano essere previsti e corrisposti gli incentivi per funzioni tecniche».
...
  2. Passando al merito, la risposta al quesito richiede una sintetica ricognizione del pertinente quadro normativo, connotato dalla successione nel tempo di diverse disposizioni (da ultimo quelle del d.l. 18.04.2019, n. 32), nonché della sua interpretazione ad opera del giudice contabile.
2.1 Riproducendo analoghe disposizioni contenute nell’art. 18 della l. 11.02.1994, n. 109 (recante la «Legge quadro in materia di lavori pubblici»), l’art. 92, commi 5 e 6, poi confluito nell’art. 93, commi 7-bis ss., del d.lgs. 12.4.2006, n. 163 (recante il «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE») prevedeva che –a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti– le amministrazioni pubbliche destinassero «ad un fondo per la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro», rinviando la definizione della percentuale effettiva a un regolamento dell’amministrazione.
L’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (recante il «Codice dei contratti pubblici») ha superato tale impianto, segnando il passaggio dal «fondo per la progettazione e l’innovazione» agli «incentivi per funzioni tecniche» (questa la rubrica dell’articolo in esame), mediante la previsione della possibilità per la P.A. di erogare emolumenti accessori al proprio personale per funzioni tecniche svolte in relazione ad attività puntualmente indicate in materia di appalti di lavori, servizi o forniture. Segnatamente, esso:
   - nel testo vigente dopo le modifiche del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 e fino a quelle del d.l. n. 32/2019 (cfr. infra), consentiva alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare a un apposito fondo –a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti (comma 1)– risorse finanziarie in misura non superiore al 2%, modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture posti a base di gara «per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti» (comma 2, primo inciso); la disposizione «si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione» (comma 2, ultimo inciso);
   - prevede che l’80% delle risorse finanziarie del fondo sia ripartito, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di un regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti; inoltre, gli incentivi complessivamente corrisposti nell’anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare il 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo (comma 3);
- dispone che gli incentivi in esame «fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture» (comma 5-bis, inserito dall’art. 1, comma 526, della l. 27.12.2017, n. 205 – legge di bilancio 2018).
2.2 La Sezione delle Autonomie ha avuto modo di pronunciarsi più volte sul quadro normativo in materia, cogliendone l’evoluzione. In dettaglio:
   - la
delibera 13.11.2009 n. 16 ha escluso, tra gli altri, gli incentivi per la progettazione interna di cui all’allora vigente art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 dai vincoli alla spesa per il personale posti dall’art 1, commi 557 e 562, della l. 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007), trattandosi di «spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento»; tali conclusioni sono state condivise dalle Sezioni Riunite con la deliberazione 04.10.2011 n. 51, che ha escluso l’incentivo per la progettazione interna dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 31.05.2010 n. 78 (convertito con modificazioni dalla l. 30.7.2010, n. 122);
   - con la deliberazione 13.05.2016 n. 18 è stato sancito, tra l’altro, che: i) il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 in favore del RUP non presuppone necessariamente che l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno dell’ente; ii) gli incentivi possono essere riconosciuti in favore delle figure professionali interne che svolgano le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata;
   - prendendo atto del nuovo quadro regolatorio derivante dall’adozione del Codice dei contratti pubblici, la deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha stabilito che gli incentivi ex art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 devono essere inclusi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della l. n. 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), stante la loro differenza rispetto agli incentivi alla progettazione ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 («il compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice degli appalti non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato. È anzi precisato nella legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr, l. n. 11/2016), che tale compenso va a remunerare specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto “escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione” (…) nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale)»); l’orientamento è stato ribadito dalla deliberazione 10.10.2017 n. 24;
   - successivamente, l’inserimento nell’art. 113 del comma 5-bis (alla stregua del quale gli incentivi fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture) ha indotto la Sezione delle Autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6) a ritenere che l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici così stabilita «ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici»; conseguentemente, gli incentivi ex art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 nel testo così modificato dalla l. n. 205/2017 non sono soggetti al vincolo posto al trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017;
   - da ultimo, la deliberazione 09.01.2019 n. 2, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche anche in relazione agli appalti di lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, ha riconsiderato le conclusioni a cui era pervenuta la deliberazione 23.03.2016 n. 10 nel precedente contesto normativo. In particolare, è stato affermato che:
      • a fronte dell’originaria finalità della disciplina in materia di spostare all’interno degli uffici attività di progettazione e capacità professionali di elevato profilo, l’art. 113 mira a stimolare e premiare i diversi profili, tecnici e amministrativi, del personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, consentendo l’erogazione degli incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture;
      • l’inserimento tra le attività incentivabili delle «verifiche di conformità», che rappresentano le modalità di controllo dell’esecuzione dei contratti di appalto di servizi e forniture (art. 102, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016), è rivelatore di una voluntas legis tesa a stimolare, attraverso gli incentivi, una più attenta gestione delle fasi della programmazione e dell’esecuzione anche dei contratti pubblici di appalto di servizi e forniture;
      • il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta la loro configurabilità «non più solo come spesa finalizzata ad investimenti, ma anche come spesa di funzionamento e, dunque, come spesa corrente»; in tal senso depone l’introduzione del comma 5-bis dell’art. 113 ad opera della l. n. 205/2017;
      • nel mutato quadro normativo –che non riproduce il divieto ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 di ripartire l’incentivazione per le attività manutentive– non vi sono motivi ostativi ad includere fra le attività tecniche incentivabili quelle connesse con lavori di manutenzione.
2.3 Infine, come sopra anticipato, l’art. 1, comma 1, lett. aa), del citato d.l. n. 32/2019 (recante «Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici», c.d. Sblocca cantieri) ha modificato il comma 2 dell’art. 113.
La novella è consistita nel sostituire il riferimento alle «attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici» con quello alle «attività di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione», lasciando inalterato il richiamo a quelle di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
In sostanza, è stata sancita la reintroduzione degli incentivi per la progettazione interna, abrogando tacitamente uno dei principi direttivi della legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr) della l. 28.01.2016, n. 11), sulla cui base era stato adottato l’art. 113 del Codice dei contratti pubblici.
3.
L’excursus normativo ed esegetico fin qui condotto consente di fornire risposta affermativa al quesito prospettato dall’Ente.
La ratio della disciplina in esame è quella di «stimolare, valorizzare e premiare i diversi profili, tecnici e amministrativi, del personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all’esecuzione del contratto, consentendo l’erogazione degli incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici» (deliberazione 09.01.2019 n. 2) e di «accrescere efficienza ed efficacia di attività tipiche dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso d’opera» (Sez. reg. contr. Toscana, parere 14.12.2017 n. 186, richiamata dalla deliberazione 09.01.2019 n. 2); a fronte di tale finalità ispiratrice, che invera il principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) e quelli dell’art. 1 della l. 07.08.1990, n. 241, non sembra esserci spazio per alcuna distinzione relativa alla tipologia di appalto e alla natura, corrente o di investimento, della spesa che lo finanzia.
Opinando diversamente, si introdurrebbe in materia una distinzione fra le diverse tipologie di appalto pubblico che non trova fondamento nel dato normativo e, anzi, contrasta con la considerazione unitaria delle tre fattispecie contrattuali che connota l’art. 113:
   - gli oneri previsti al comma 1 fanno carico agli «stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture» (comma 1);
   - le risorse finanziarie da destinare agli incentivi sono modulate «sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara» (comma 2);
   - l’80% delle risorse finanziarie è ripartito, «per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura», secondo specifici modalità e criteri (comma 3);
   - per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza «nell’espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture» per conto di altri enti, può essere riconosciuta una quota parte dell’incentivo (comma 5);
   - gli incentivi fanno capo al «medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture» (comma 5-bis); previsione che «impone che l’impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di riferimento»
(deliberazione 26.04.2018 n. 6).
In definitiva,
l’incentivo in esame è erogabile in tutte e tre le tipologie di contratti pubblici di appalto (lavori, servizi e forniture), purché ricorrano le condizioni di legge, tra cui in primo luogo lo svolgimento di una gara (ex multis, Sez. reg. contr. Liguria, parere 21.12.2018 n. 136; Sez. reg. contr. Marche, parere 08.06.2018 n. 28).
Per le ipotesi di appalti di servizi e forniture, una specifica condizione è posta dall’ultimo inciso del comma 2 dell’art. 113, che limita gli emolumenti incentivanti al «caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione»; sul punto vengono in rilievo le Linee guida ANAC n. 3 (recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni»), laddove la nomina del direttore dell’esecuzione del contratto, quale soggetto diverso dal RUP, è richiesta per gli appalti di importo superiore a una determinata soglia ovvero connotati da profili di complessità (§ 10.2) (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 22.05.2019 n. 52).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa.
Relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture, la disciplina sui predetti incentivi si applica solo nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione.
L’articolo 111, comma 2, del d.lgs. 50/2016 prevede che, di norma, il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture coincida il responsabile unico del procedimento.
La nomina del direttore dell’esecuzione è richiesta soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a € 500.000 ovvero di particolare complessità così come specificato nelle Linee guida ANAC n. 3/2016, le quali stabiliscono l’importo massimo e la tipologia di servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere con il progettista o con il direttore dell’esecuzione del contratto e, nel contempo, precisano dettagliatamente i casi in cui quest’ultimo deve essere soggetto diverso dal responsabile del procedimento (Linee guida n. 3, recanti: “Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico dei procedimenti per l’affidamento di appalti e concessioni”, destinate ad essere sostituite dal Regolamento unico).
La particolare complessità che giustifica la scissione delle due figure viene individuata, nelle Linee guida n. 3/2016, espressamente ed a prescindere dal valore delle prestazioni, nelle seguenti circostanze:
   1. interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico;
   2. prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario, supporto informatico);
   3. interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità;
   4. per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento
(massima tratta da www.self-entilocali.it).
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Il Sindaco pro tempore del Comune di Torri di Quartesolo (VI) ha inviato una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, in merito alla corretta applicazione della norma sugli incentivi per funzioni tecniche per appalti relativi a servizi e forniture.
Richiamato l’art. 113, comma 2, ultimo periodo, del d.lgs. n. 50/2016, nel testo aggiornato dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56, nella parte in cui prevede che: “la disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”, da interpretare alla luce delle prescrizioni delle Linee guida n. 3, “Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico dei procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni”, aggiornate dall'ANAC con deliberazione n. 1007 dell'11.10.2017, la cui disciplina sui presupposti e sulle modalità per la nomina dei RUP, nonché sulle "possibili ipotesi di coincidenza soggettivo con il progettista o con il direttore dell'esecuzione", andrebbe ascritta a pieno titolo all'ambito delle Linee Guida di contenuto vincolante, come ritenuto dal Consiglio di Stato nel parere n. 2044/2017, il Sindaco richiedente alla luce della prescrizione di cui al punto n. 10 delle predette Linee guida (rubricato “Importo massimo e tipologia di servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere con il progettista o con il direttore dell'esecuzione del contratto”), in particolare dei punti 10.1 e 10.2, perviene alla conclusione che negli appalti di servizi e forniture il riconoscimento degli incentivi per funzioni tecniche sia limitato ai casi in cui ricorra l'obbligo della nomina del direttore dell'esecuzione come soggetto diverso dal R.U.P. [appalti di importo superiore ad € 500.000,00; forniture o servizi che presentino le connotazioni di particolare complessità indicate al punto 10.2, lettere b), c), d) o e) delle predette Linee guida, a prescindere dal valore delle prestazioni].
A detta del richiedente, le suesposte considerazioni sarebbero avallate dal fatto che: a) negli appalti di servizi e forniture il direttore dell'esecuzione coincide col RUP e, quindi, non se ne richiede la nomina; b) la coincidenza delle due funzioni (di RUP e direttore dell'esecuzione) non è consentita, invece, negli appalti di importo superiore ai 500.000,00 euro e in quelli che presentino le caratteristiche previste dal punto 10.2 delle Linee guida; c) al di fuori di tali casi, la nomina di un direttore dell'esecuzione diverso dal RUP potrebbe configurarsi come elusiva del limite posto dal richiamato art. 113, comma 2, ultimo periodo, d.lgs. 50/2016 e s.m.i.. 
Ciò posto, nella richiesta di parere l’Amministrazione comunale prospetta anche una diversa interpretazione, alla luce della quale per gli appalti di cui trattasi sarebbe consentito nominare il direttore dell'esecuzione anche per soglie di valore pari o inferiore ad € 500.000,00 e senza che rilevi la presenza o meno delle specifiche condizioni poste dal punto 10.2, lett. da a) ad e) delle Linee guida.
Tale diversa interpretazione troverebbe fondamento nella rubricazione del punto 10 delle citate Linee guida, la cui formulazione lascerebbe intendere che, al di sotto dell’importo massimo di € 500.000,00 e per qualsivoglia tipologia di servizio e fornitura, il RUP possa, ma non necessariamente debba, coincidere con il direttore dell'esecuzione. A detta dell’Ente richiedente, in tali ipotesi, essendo comunque possibile nominare come direttore dell'esecuzione un dipendente diverso dal RUP, si verrebbe a realizzare il presupposto previsto dal citato art. 113, comma 2, ultima parte, per il riconoscimento degli incentivi in questione.
Alla luce di quanto sopra riportato, l’Ente rivolge a questa Sezione i seguenti quesiti:
   “1. Per gli appalti relativi a servizi e forniture, è possibile inserire nell'apposito regolamento comunale prescritto dall'art. 113, comma 3, del D.Lgs. 50/2016, una norma che preveda in generale la possibilità di riconoscere e liquidare gli incentivi per le funzioni tecniche indicate nello stesso art. 113 anche per gli appalti aventi ad oggetto prestazioni di valore inferiore ad € 500.000,00 che non siano riconducibili ad alcuna delle tipologie descritte lettere alle lettere b), e), d) o e) del paragrafo 10.2 delle Linee guida ANAC n. 3, ossia per quegli appalti per i quali non sussiste l'obbligo di nominare come direttore dell'esecuzione un soggetto diverso dal RUP, oppure nelle suddette ipotesi le funzioni di direttore dell'esecuzione devono essere svolte dal RUP e, quindi, non sussistono le condizioni previste dall'art. 113, comma 3, ultimo periodo, per il riconoscimento degli incentivi di cui trattasi?
   2. Qualora per esigenze organizzative l'Amministrazione Comunale decidesse di nominare comunque un direttore dell'esecuzione come soggetto diverso dal RUP anche in un appalto di valore inferiore ad € 500.000,00 e non riconducibile ad alcuna delle tipologie descritte lettere alle lettere b), e), d), e) del paragrafo 10.2 delle Linee guida ANAC n. 3, tale scelta comporterebbe il diritto al riconoscimento degli incentivi di cui trattasi?
”.
...
Con il primo dei quesiti formulati l’Ente richiama l’attenzione della Sezione sulla problematica concernente la possibilità di inserimento, nel regolamento comunale stilato ai sensi dell’art. 113, comma 3, del d.lgs. n. 50/2016, di una norma che preveda in generale la possibilità di riconoscere e liquidare gli incentivi per le funzioni tecniche indicate nello stesso art. 113 anche per gli appalti aventi ad oggetto prestazioni di valore inferiore ad € 500.000,00 o per i quali non sussista l'obbligo di nominare come direttore dell'esecuzione un soggetto diverso dal RUP.
In pratica l’Ente chiede se per detti appalti le funzioni di direttore dell'esecuzione devono essere comunque svolte dal RUP con conseguente insussistenza delle condizioni previste dall'art. 113, comma 3, ultimo periodo, per il riconoscimento degli incentivi di cui trattasi oppure se, attraverso l’adozione dell’apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, ai sensi del richiamato art. 113, comma 3, si possa prevedere in via generale una clausola derogatoria delle condizioni poste al comma 2 di tale articolato di legge al fine di poter riconoscere e liquidare gli incentivi per le funzioni tecniche indicate nello stesso art. 113 anche per gli appalti non riconducibili ad alcuna delle tipologie descritte lettere alle lettere b), e), d) o e) del paragrafo 10.2 delle Linee guida ANAC n. 3.
Il secondo quesito, a sua volta, involge la problematica relativa alla sussistenza del diritto, o meno, al riconoscimento degli incentivi di cui trattasi nel caso in cui, per esigenze organizzative, l'Amministrazione Comunale decidesse di nominare comunque un direttore dell'esecuzione come soggetto diverso dal RUP anche in un appalto di valore inferiore ad € 500.000,00 e non riconducibile ad alcuna delle tipologie descritte lettere alle lettere b), e), d), e) del paragrafo 10.2 delle Linee guida ANAC n. 3.
La risoluzione di entrambi i quesiti si colloca nell’alveo del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016 e s.m.i.) e, precisamente dell’art. 113, da esaminarsi in combinato disposto con gli artt. 31 e 213, nei testi aggiornati dapprima dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), dall’art. 1, comma 526, della L. 27.12.2017, n. 205 (Legge di bilancio 2018), e, quindi dal d.l. 18.04.2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici) nonché con le disposizioni di “maggior dettaglio” dettate dall’ANAC ai sensi del richiamato art. 31, comma 5, attraverso le Linee guida n. 3, recanti: “Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico dei procedimenti per l'affidamento di appalti e concessioni”, Approvate dal Consiglio dell’Autorità con deliberazione n. 1096 del 26.10.2016 ed aggiornate al d.lgs. 56 del 19/04/2017 con deliberazione del Consiglio n. 1007 dell’11.10.2017, aventi natura vincolante (Consiglio di Stato, parere n. 2044/2017).
Si evidenzia, peraltro, che a seguito dell’intervenuto d.l. 18.04.2019, n. 32 cit., le Linee guida dell’ANAC ex art. 31, comma 5, d.lgs. 50/2016, unitamente ai decreti adottati in attuazione delle previgenti disposizioni, dovranno essere sostituite dal regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice degli appalti, di cui al novellato art. art. 216, comma 27-octies, da emanarsi, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della relativa disposizione, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettere a) e b), della legge 23.08.1988, n. 400, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Le richiamate Linee guida, pertanto, troveranno applicazione fino alla data di entrata in vigore del predetto regolamento. Inoltre, va ulteriormente osservato che, per espressa volontà legislativa, le novelle così introdotte al d.lgs. 50/2016, trovano applicazione per le procedure i cui bandi o avvisi, con i quali si indice una gara, sono pubblicati successivamente alla data del 19.04.2019 (data di entrata in vigore del d.l.), nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, per le procedure in cui, alla medesima data, non sono ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
4.2. Nello specifico, ai fini della risoluzione delle questioni sottoposte, rileva in via generale l’art. 113, laddove, nel dettare la disciplina dei nuovi “incentivi per funzioni tecnici”, prescrive (testo vigente dal 19.04.2019) che: “Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti” (comma 1) e che “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione [modifica introdotta dal D.L. 18.04.2019, n. 32 art. 1, comma 1 lett. aa)], di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. (…..) La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione” (comma 2).
Il D.L. 18.04.2019, n. 32 ha disposto, altresì, che anche la suesposta modifica all’art 113, comma 2, trova applicazione per le procedure i cui bandi o avvisi, con i quali si indice una gara, sono pubblicati successivamente alla data del 19.04.2019 (data di entrata in vigore del decreto), nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure in cui, alla medesima data, non sono ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
La citata norma dispone che la ripartizione della parte più consistente delle risorse (l’80% del fondo costituito ai sensi del comma 2) debba avvenire “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. (…..) La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti (…)” (comma 3).
Ne consegue che
gli incentivi per le funzioni tecniche vanno a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito. Tali compensi, infatti, non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori. Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (in termini, Sezione delle autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6. In senso conforme: SRC Puglia parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108; SRC Lombardia parere 16.11.2016 n. 333).
Va rilevato, quindi, che
per l’erogazione di detti incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e la sede idonea, unitamente alla contrattazione decentrata, per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogati (Sezione delle autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6 cit.; SRC Veneto parere 07.09.2016 n. 353).
In altri termini, quindi,
gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge, comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate (ben note all’amministrazione richiedente) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa e, relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture, la disciplina sui predetti incentivi si applica solo “nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione (cfr. SRC Lombardia, parere 09.06.2017 n. 190; SRC Marche, parere 08.06.2018 n. 28; SRC Veneto, parere 27.11.2018 n. 455; SRC Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).
Quest’ultima circostanza ricorre soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a € 500.000 ovvero di particolare complessità così come specificato nelle Linee guida ANAC n. 3 del 2016, aggiornate con deliberazione del Consiglio n. 1007 dell’11.10.2017, le quali in ossequio a quanto disposto dall’art. 31, comma 5, della richiamata normativa, stabiliscono (par. 10) l’importo massimo e la tipologia di servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere con il progettista o con il direttore dell’esecuzione del contratto e, nel contempo, precisano dettagliatamente i casi in cui quest’ultimo deve essere soggetto diverso dal responsabile del procedimento (par. 10.2 lett. da a ad e).
4.3. Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come configurato a seguito delle ultime modifiche normative intervenute, occorre prendere atto, conclusivamente, che
al primo quesito formulato dal Sindaco del Comune di Torri di Quartesolo deve essere data risposta negativa.
Infatti,
l’applicabilità degli incentivi, nell’ambito dei contratti di affidamento di servizi e forniture, è contemplata soltanto “nel caso in cui sia nominato il direttore dell’esecuzione” (parte finale del comma 2, come modificata, in senso limitativo, dall’art. 76, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 56/2017), inteso quale soggetto autonomo e diverso dal RUP, e tale distinta nomina è richiesta soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo superiore a € 500.000,00 ovvero di particolare complessità, con valutazione spettante ai dirigenti secondo quanto specificato al punto 10 delle citate Linee guida emanate dall’ANAC per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina, ruolo e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e concessioni”.
A ciò aggiungasi (SRC Veneto, parere 27.11.2018 n. 455), che nella “gerarchia delle fonti del diritto, i regolamenti rappresentano delle fonti secondarie e dunque, per tale ragione non possono derogare o contrastare con la Costituzione, né con i principi in essa contenuti, non possono derogare o contrastare con le leggi ordinarie, salvo che sia una legge ad attribuire loro il potere -in un determinato settore e per un determinato caso- di innovare anche nell’ordine legislativo (delegificando la materia); non possono regolamentare le materie riservate dalla Costituzione alla legge ordinaria o costituzionale (riserva assoluta di legge), né derogare al principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi). Ne consegue evidentemente che il regolamento comunale non può prevedere una disciplina contra legem” che, in specie, determini la possibilità di prevedere autonomamente, in via generale, una clausola derogatoria delle condizioni poste al comma 2 del richiamato articolato di legge al fine di poter riconoscere e liquidare gli incentivi per le funzioni tecniche, ivi indicate, anche per gli appalti non riconducibili ad alcuna delle tipologie descritte nel paragrafo 10.2 delle Linee guida ANAC n. 3/2016.
Analogamente, per le argomentazioni già rappresentate in tema di presupposti normativi legittimanti l’erogazione degli incentivi di che trattasi,
va data risposta negativa anche al secondo quesito formulato dall’amministrazione comunale.
Sul punto, da un lato, appare opportuno rammentare che l’art. 113 D.lgs. n. 50/2016 contiene un sistema compiuto di vincoli per l’erogazione degli incentivi stessi e, dall’altro, ricordare come, per effetto delle modifiche apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 56 del 2017, i compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore dell’esecuzione, nomina richiesta -come ricordato recentemente anche dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione 09.01.2019 n. 2)- “secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità”.
In specie, premesso che l’art. 111, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e s.m.i. prevede che, di norma, il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture coincida il responsabile unico del procedimento, la particolare complessità che giustifica la scissione delle due figure viene individuata, dalla disciplina di attuazione del codice contenuta nelle citate Linee guida, espressamente ed a prescindere dal valore delle prestazioni, nelle seguenti circostanze: interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico (lett. b); prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario, supporto informatico) lett. c); interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità (lett. d); per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento (lett. e).
Dal quadro normativo sopra richiamato non si evincono ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del direttore dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi contemplate.
In proposito deve osservarsi, anche, che
la giurisprudenza contabile è concorde nell’escludere l’incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016 (Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18; SRC Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; SRC Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; SRC per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71). Ciò al fine di evitare un ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo stesso, con il ragionevole rischio di elusione del limite espressamente posto dall'art. 113, comma 2, ultimo periodo, che a chiari lettere riconduce, e circoscrive, gli incentivi per gli appalti di servizi o forniture alle ipotesi sopra rappresentate (rischio peraltro riconosciuto anche dalla stessa Amministrazione comunale richiedente).
La circostanza che la rubricazione del richiamato punto 10 faccia riferimento all’”importo massimo e tipologia di servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere con il progettista o con il direttore dell'esecuzione del contratto”, lungi dal giustificare la diversa interpretazione che consentirebbe, al di sotto dell’importo massimo di cui sopra e per qualsivoglia tipologia di servizio e fornitura, di nominare come direttore dell'esecuzione un dipendente diverso dal RUP, così realizzando il presupposto previsto dal citato art. 113, comma 2, ultima parte, per il riconoscimento degli incentivi in questione, ne avvalora, di fatto, la tesi contraria.
Infatti,
la determinazione dell’importo massimo individua con chiarezza il confine che impone la differenziazione delle due figure professionali. Al di sotto di detta soglia la nomina disgiunta delle stesse non è né necessaria, né tanto meno prevista, in quanto “il responsabile del procedimento svolge, nei limiti delle proprie competenze professionali, anche le funzioni di progettista e direttore dell'esecuzione del contratto” (par. 10.1): solo al superamento della stessa si impone la scissione delle due figure.
Entro il sopra delineato quadro complessivo l’Amministrazione comunale dovrà pertanto procedere ad effettuare le valutazioni discrezionali di propria spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul territorio (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 21.05.2019 n. 107).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEAlla Sezione Autonomie la decisione sulla retroattività dell'esclusione dai tetti degli incentivi tecnici.
Dopo la decisione della Sezione delle Autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6) che, grazie all'intervento della legge di bilancio 2018, ha finalmente considerato esclusi gli incentivi tecnici dai limiti dei tetti di crescita del salario accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), la Sezione regionale delle Marche (deliberazione 16.05.2019 n. 30) ha rimesso una nuova questione di massima.
Il problema, in questo caso, riguarda il contrasto tra i pareri fino a oggi resi da alcune sezione regionali, sulla retroattività dell'esclusione dai tetti degli incentivi tecnici.
Una parte della giurisprudenza contabile ha valorizzato la portata innovativa e non interpretativa della disposizione legislativa introdotta solo a partire dal 01.01.2018, mentre per altra giurisprudenza contabile l'effetto innovativo della disposizione legislativa non può non ripercuotersi anche sugli stanziamenti di bilancio, già effettuati per la realizzazione dell'opera pubblica (inclusi gli incentivi tecnici), i quali essendo già stanziati sui relativi capitoli dell'appalto non possono non avere conseguenze anche sulla cessazione dai limiti del tetto retributivo dei trattamenti accessori.
Il contrasto tra le sezione regionali
La legge di bilancio 2018, inserendo il comma 5-bis all'articolo 113 del Dlgs 50/2016 sugli incentivi tecnici, ha fatto mutare il precedente orientamento della Sezione delle Autonomie tanto da spingerla a considerare gli incentivi tecnici fuori dai limiti del salario accessorio. Sugli incentivi tecnici maturati dal Dlgs 50/2016 alla data delle nuove disposizioni legislative (01.01.2018) si sono formati due diversi orientamenti delle sezione regionali.
Un parte della giurisprudenza contabile (Sezione Lombardia parere 27.09.2018 n. 258), adeguandosi alla decisione della Sezione delle Autonomie, ha valorizzato la portata innovativa e non interpretativa delle modifiche introdotte dalla legge di bilancio 2018, per cui la norma non può che avere effetto solo dalla data della sua entrata in vigore dove gli incentivi sono stati considerati all'interno dei tetti del salario accessorio.
A supporto dell'inclusione degli incentivi nei limiti del fondo per le attività espletate prima del 01.01.2018 (data di validità della legge di bilancio 2018), militerebbero le disposizioni del Dlgs 50/2016 che all'articolo 216 ha inserito una norma transitoria secondo la quale, le disposizioni del codice dei contratti si applicherebbero solo ai bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore, nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del codice, qualora non siano ancora stati trasmessi gli inviti a presentare le offerte.
Queste disposizioni sarebbero compatibili con le precedenti decisioni della Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7deliberazione 10.10.2017 n. 24) che ha ritenuto gli incentivi tecnici inclusi nei limiti dei tetti del salario accessorio.
Altra parte della giurisprudenza contabile (Sezione Veneto parere 25.07.2018 n. 265 e parere 14.11.2018 n. 429) ha, invece, sfruttato le ultime indicazioni della Sezione delle Autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6) secondo cui «l'avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all'importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell'opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale».
In questo caso, sono tutti gli stanziamenti di bilancio già contabilizzati e impegnati che hanno subito l'adeguamento alla nuove disposizioni normative, inclusi gli incentivi tecnici, con la conseguenza che quest'ultimi cessano di concorrere al tetto retributivo dei trattamenti accessori.
Conclusioni
Spetterà ora alla Sezione delle Autonomie chiarire, in via definitiva, se gli incentivi maturati, nel periodo temporale che decorre dall'entrata in vigore del Dlgs 50/2016 fino al giorno anteriore all'entrata in vigore del comma 5-bis (01.01.2018), vadano o meno inclusi nel tetto dei trattamenti accessori.
Va da ultimo rilevato, come nessun passaggio sia stato effettuato dalla Sezione marchigiana in merito alla parere 25.07.2018 n. 264 della Sezione del Veneto, la quale aveva, invece, condizionato l'erogazione degli incentivi alla data di approvazione del regolamento (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 01.08.2018) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2019).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEVa sottoposta al Presidente della Corte dei conti la seguente questione di massima: “se gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso d.lgs., maturati nel periodo temporale che decorre dall’entrata in vigore dello stesso d.lgs., fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018) vadano inclusi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, successivamente sostituito dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017, nel caso la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi o forniture”.
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Con nota a firma del sindaco pro tempore del comune di Civitanova Marche (MC), pervenuta via PEC in data 09.04.2019 per il tramite del Consiglio delle autonomie locali (CAL), il comune di Civitanova Marche ha avanzato a questa Corte una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003, nei seguenti termini “Voglia l’adita Corte…esprimere il proprio parere vincolante in merito alla possibilità e/o legittimità di erogazione degli incentivi per funzioni tecniche, nel caso in cui la relativa spesa sia stata in precedenza imputata ai capitoli afferenti alla realizzazione dei singoli lavori, servizi e/o forniture affidate, nel periodo temporale che va dall’entrata in vigore dell’art. 113 del Codice degli appalti (16.04.2016), fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del comma 5-bis dello stesso art. 113 (introdotto a far data dal 01.01.2018); se, conseguentemente, l’aver predeterminato la provvista dei predetti incentivi per funzioni tecniche nei quadri economici dei singoli appalti, collochino tali risorse economiche al di fuori dei capitoli di spesa del bilancio comunale destinati alle retribuzioni accessorie del personale, anche prima dell’espressa previsione di cui al comma 5-bis dell’art. 113.
Al riguardo ha esposto quanto segue.
La richiesta di parere è stata avanzata al fine di individuare la corretta applicazione ed interpretazione dell’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, in materia di remunerazione delle funzioni tecniche svolte dal personale dipendente all’interno dell’ente pubblico, in relazione ai contratti di lavori, forniture e servizi affidati in appalto ed in particolare circa la corretta decorrenza ed applicazione del comma 5-bis (introdotto dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205 del 2017) che ha modificato ed integrato lo stesso art. 113, nella parte in cui stabilisce che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
L’ente locale ha precisato che, pur essendo pacifico che siffatti emolumenti incentivanti siano esclusi dal fondo per il trattamento accessorio solo a decorrere dal 01.01.2018 (ovverosia dopo l’integrazione dell’art. 113 con il comma 5-bis approvato con legge 205/2017 e non anche per il periodo precedente) sorgerebbe il dubbio circa l’applicazione retroattiva della norma nel periodo precedente al 2018 (dall’entrata in vigore dell’art. 113 della L. n. 50/2016 e cioè a far data dal 19.04.2016) qualora l’Amministrazione abbia già inserito gli incentivi per funzioni tecniche riconosciuti al personale al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture appaltati.
Nel ricostruire la normativa in applicazione, il comune richiedente il parere ha rammentato che l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2017 (Codice dei contratti pubblici) rubricato “incentivi per funzioni tecniche” consente, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione decentrato, di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche ed amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione e collaudo degli appalti di lavori, nonché a seguito delle integrazioni di cui all’art. 76 del D.Lgs. n. 56 del 2017 anche degli appalti di fornitura di beni e servizi.
Pur tuttavia l’Amministrazione comunale si è posta il problema della compatibilità di tale disposizione con all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, sostituito dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017, il quale ha disposto che, dal 01.07.2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale di ciascuna delle amministrazioni pubbliche non potesse superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016.
L’istante non disconosce che la Sezione delle Autonomie di questa Corte, con deliberazione n. 6 del 26.04.2018, ha precisato che, con l’introduzione del comma 5-bis citato, può evincersi che gli incentivi in questione non fanno carico ai capitoli di spesa del trattamento accessorio del personale, ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera e, quindi, fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto; per cui la separazione di tali emolumenti dai salari accessori del personale avverrà solo dal 01.01.2018.
Tuttavia il chiarimento richiesto a questa Sezione concerne, come cennato, gli appalti eseguiti nel periodo 2016-2017, nel vigore dell’originaria formulazione dell’art. 113 del D.Lgs, n. 50/2016, tenuto conto che l’imputazione degli incentivi tecnici in questione era già considerata nei singoli quadri economici degli appalti affidati.
...
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al vaglio della Sezione, appare opportuno effettuare un sintetico excursus della normativa in applicazione.
I c.d. incentivi tecnici furono introdotti per la prima volta dall’art. 18 della L. n. 109/1994, allo scopo di compensare l’attività del personale delle pubbliche amministrazioni impegnato nelle attività di progettazione interna agli enti pubblici in funzione anche del risparmio conseguente ai minori costi conseguenti al mancato ricorso a professionalità esterne.
La disciplina degli emolumenti in questione è poi stata regolata dal d.lgs. 163/2006, art. 923, commi 5 e 6, per confluire successivamente nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, dello stesso decreto legislativo, per essere quindi sostituita dall’attuale art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Sotto la vigenza di tale disciplina, la Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7deliberazione 10.10.2017 n. 24) ebbe ad affermare il principio che gli incentivi previsti dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 fossero da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015 (e successive modificazioni ed integrazioni introdotte dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017). Questi, infatti, a differenza di quelli previsti dall’art. 113, comma 1 (dovuti per la progettazione) assumerebbero carattere di continuità e sarebbero dunque assimilabili al trattamento economico accessorio del personale in servizio.
Successivamente l’art. 113, comma 2, citato ha subìto un primo intervento legislativo ad opera del d.lgs. n. 56/2017 ed infine –per quel che interessa in questa sede– ad opera della L. n. 205/2017, il cui art. 1, comma 526, ha introdotto il comma 5-bis nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, allo scopo di risolvere il problema interpretativo sorto intorno alla natura dell’incentivo stesso recita “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Sulla questione se detti incentivi fossero da ricomprendere nel vincolo dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, sostituito dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017 –come correttamente non ha mancato di rammentare l’Amministrazione richiedente il parere- si è espressa la Sezione delle Autonomie con deliberazione n. 6/2018, la quale ha espresso la massima che “gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
In altri termini è stato così superato il dubbio sulla natura di tali incentivi, che non sono più sottoposti al vincolo del trattamento accessorio che, invece, ha la sua fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto. Tanto dalla data dell’entrata in vigore della legge di bilancio 2018 (01.01.2018).
Con riferimento allo specifico quesito posto dal comune di Civitanova Marche, in relazione agli incentivi maturati nel periodo intertemporale in considerazione (anni 2016-2017) -e cioè se essi rientrino nei limiti di spesa del trattamento accessorio del personale- si riscontrano pronunce di segno opposto da parte delle Sezioni regionali di controllo.
In senso affermativo sono la Sezione regionale di controllo per il Veneto (
parere 13.11.2018 n. 405), la Sezione regionale di controllo per la Lombardia (parere 27.09.2018 n. 258) e la Sezione regionale di controllo per l’Umbria (parere 28.03.2019 n. 56).
Tali pronunce hanno infatti valorizzato la citata deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 6/2018, la quale ha espressamente riconosciuto la portata innovativa e non interpretativa del più volte citato art. 5-bis, per cui detta norma, per il principio tempus regit actum, non può che avere effetto dalla data della sua entrata in vigore.
In particolare, è stata considerata la disposizione transitoria contenuta nel codice dei contratti pubblici (art. 216 del d.lgs. n. 50/2016) secondo la quale le disposizioni del Testo unico si applicano alle procedure ed ai contratti per le quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore, nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure ed ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
In altri termini, fino all’entrata in vigore di tale novella normativa, resterebbe fermo il principio espresso dalla Sezione delle Autonomie con deliberazione 06.04.2017 n. 7deliberazione 10.10.2017 n. 24 secondo cui detti incentivi tecnici sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015 (e successive modificazioni ed integrazioni introdotte dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017).
Di segno opposto si riscontra l’avviso espresso dalla Sezione di controllo per il Veneto con parere 25.07.2018 n. 265 e parere 14.11.2018 n. 429.
Tali pronunce hanno considerato la citata deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle Autonomie, laddove testualmente recita che “l’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”. Per cui l’effetto innovativo del citato art. 5-bis non può non ripercuotersi sugli stanziamenti di bilancio già effettuati per la realizzazione dell’opera pubblica (tra i quali rientrano gli incentivi tecnici) i quali –essendo già stanziati sui relativi capitoli dell’appalto prima dell’avvento della novella introdotta dal citato articolo- cessano di concorrere al tetto retributivo dei trattamenti accessori.
In tal modo non è messo in discussione l’effetto innovativo e non retroattivo (interpretativo) del più volte citato art. 5-bis, giacché l’effetto del cumulo degli incentivi tecnici col trattamento accessorio del personale non si è consumato nell’anno 2017 (con l’accertamento del diritto alla corresponsione delle relative erogazioni ed il relativo impegno di spesa) ma è destinato ad essere considerato (e quindi escluso) in epoca successiva all’entrata in vigore della novella normativa.
In tal senso sembrano orientate le considerazioni svolte da Sezione Umbria con
parere 05.02.2018 n. 14, laddove si rileva che “sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato già disponevano che tutte le spese afferenti agli appalti di lavori, servizi e forniture debbano trovare imputazione negli stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il comma 5-bis rafforza tale intendimento ed individua come determinante ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati l’imputazione delle relative spese sul capitolo di spesa previsto per l’appalto”.
Peraltro la conclusione che siffatti incentivi tecnici non confluiscano nel vincolo posto al trattamento accessorio complessivo del personale era pure sostenuta da una cospicua giurisprudenza di questa Corte anche prima dell’avvento del citato art. 5-bis, nel rilievo (che si riscontra anche nella deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione autonomie) che “essi sono estremamente variabili nel corso del tempo e quindi difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale, che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno base (art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il riferimento, infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti dei vari enti pubblici”.
Pertanto, nel contrasto interpretativo più sopra compendiato, si ritiene opportuno sospendere il giudizio sulla richiesta di parere formulata dal sindaco del comune di Civitanova Marche e sottoporre al Presidente della Corte dei conti la relativa questione di massima, data l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa citata.
P.Q.M.
Visti l’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009, convertito nella l. 102/2009 e l’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, convertito nella l. 213/2012;
la Sezione sospende la decisione sul parere richiesto dal comune di Civitanova Marche per sottoporre al Presidente della Corte dei conti la seguente questione di massima: “
se gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso d.lgs., maturati nel periodo temporale che decorre dall’entrata in vigore dello stesso d.lgs., fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018) vadano inclusi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, successivamente sostituito dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017, nel caso la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi o forniture” (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, deliberazione 16.05.2019 n. 30).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE 1) il regolamento può disciplinare con effetto retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime normativo antecedente il D.lgs. 50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, D.lgs. 50/2016;
   2) il regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva;
   3) è escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo dell’attività incentivabile.

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Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Gazzaniga (BG) pone una questione in merito alla interpretazione dell’art. 113 del D.lgs. n. 50 del 18/04/2016 e in particolare del comma 5-bis.
Nello specifico si chiede se l’avvenuto accantonamento, prima del 01/01/2018 delle somme relative agli incentivi per le funzioni tecniche nei capitoli previsti per i lavori e le forniture consente di escludere tali somme dalla spesa per il personale e pure dalla spesa per il trattamento accessorio, con conseguente legittimità della relativa liquidazione dopo l’approvazione del relativo regolamento.
Si chiede inoltre se i trattamenti accessori per attività programmate nell’anno 2017 ma aggiudicate e/o eseguite dopo il 01/01/2018 debbano essere escluse o meno dal calcolo della spesa e del trattamento accessorio erogato dall’Ente.
...
La questione degli incentivi per funzioni tecniche è stata ampiamente dibattuta e sul tema si sono pronunciate più volte, sia diverse Sezioni regionali della Corte dei Conti (Sez. Controllo Lombardia parere 07.11.2017 n. 307, Sez. Controllo Lazio , parere 06.07.2018 n. 57, Sez. Controllo Friuli Venezia Giulia parere 02.02.2018 n. 6, Sez. Controllo Veneto (parere 25.07.2018 n. 264, Sez. Lombardia parere 27.09.2018 n. 258, Sez. Liguria parere 03.04.2019 n. 31, Sez. Umbria parere 28.03.2019 n. 56), sia la Sezione Autonomie nella veste di organo nella propria funzione nomofilattica. Così anche la ricostruzione del quadro giuridico generale e della sua evoluzione nel tempo è stata ampiamente ripresa da questa stessa sezione regionale, dalla Sezione del Lazio e più recentemente dalla Sezione Liguria e dalla Sezione Umbria.
Il tema più specifico sollevato dalla richiesta di parere del Comune di Gazzaniga, cioè la valutazione della natura delle spese relative agli incentivi e più specificamente la loro imputabilità o meno tra le spese di personale, a sua volta ha avuto un approfondimento articolato che ha condotto a due distinte pronunce della Sezione Autonomie, in seguito alle diverse successive modifiche susseguitesi nel quadro normativo.
La prima pronuncia (deliberazione 06.04.2017 n. 7), precedente alla novella introdotta dal comma 526, art. 1, della legge 205/2017 che ha modificato l’art. 113 del D.lgs. 50/2016, aveva stabilito, a seguito di numerosi problemi interpretativi, che le spese per gli incentivi tecnici fossero a tutti gli effetti da includere tra i costi del personale e dunque da considerare nelle valutazioni dei relativi tetti di spesa.
Successivamente a questo chiarimento è poi intervenuta la modifica dell’art. 113 del D.lgs. 50/2016 per opera appunto della legge 205/2017, art. 1, comma 526, che ha introdotto il principio della allocazione delle spese per incentivi tecnici nei capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture.
Sulla base di questa modifica normativa, si è reso necessario un nuovo intervento della Sezione Autonomie per chiarire il nuovo quadro giuridico venutosi a creare. Pur sottolineando la interpretabilità della novella normativa, ai fini dell’inclusione delle spese per incentivi tra le voci di spesa del personale, la Sezione Autonomie conclude la sua pronuncia (deliberazione 26.04.2018 n. 6) affermando il seguente principio ”Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Rispetto alle questioni specifiche formulate dal Comune di Gazzaniga occorre poi chiarire in primo luogo che, come affermato in modo esplicito dalla Sezione Autonomie, la norma contenuta all’ art. 113, comma 5-bis, così come modificato dalla legge di bilancio per il 2018, non è norma interpretativa, ma innovativa e dunque non può certamente produrre alcun effetto retroattivo. Così si esprime al proposito la Sezione Autonomie: “Proprio alla luce dei suesposti orientamenti, va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere”.
E ancora nella stessa pronuncia si aggiunge: “Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale”.
Non solo dunque si ribadisce la portata innovativa e la irretroattività della norma, ma si sottolinea che tali incentivi gravano su risorse predeterminate, dunque appositamente da prevedere nelle poste di bilancio con un chiaro riferimento sinallagmatico tra le fasi di programmazione e realizzazione dell’opera e l’appostamento delle risorse destinate alla corresponsione degli incentivi.
A tale proposito, è intervenuto successivamente a valutare il problema cronologico, il parere della Sezione Lazio (Lazio parere 06.07.2018 n. 57) a cui hanno aderito sia la Sezione Lombardia (Lombardia parere 27.09.2018 n. 258), sia la sezione Umbria (Umbria parere 28.03.2019 n. 56). In primo luogo, per quanto riguarda il nuovo comma 5-bis dell’art. 113, ai fini della individuazione della linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, tale linea non può che essere individuata nella data del 01.01.2018, anche tenendo conto, come peraltro già affermato dalla Sezione Autonomie, che la disposizione introdotta dal comma 526 dell’art. 1 della legge di stabilità 2018 non ha natura di interpretazione autentica, ma innovativa.
Inoltre, in modo convincente la Sezione Lazio nello stesso parere afferma sul punto che “la fonte di copertura inizia a variare per tutte le procedure la cui programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti. Per cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data”.
Pur essendo intervenuto anche un parere difforme della sezione Veneto che giunge a conclusioni diverse (Sez. Veneto parere 14.11.2018 n. 429), questa sezione conferma nuovamente la posizione già assunta in passato e l’interpretazione cronologica riportata nel parere della Sezione Lazio a cui ha aderito di recente anche la Sezione Umbria.
Infine, sempre con riferimento alla questione cronologica, per quanto riguarda il ruolo che può assumere il regolamento previsto e necessario per l’erogazione degli incentivi si condivide quanto riportato nel parere della Sezione Liguria (Sez. Liguria parere 03.04.2019 n. 31) che esprime i seguenti principi di diritto:
   “
1) il regolamento può disciplinare con effetto retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime normativo antecedente il D.lgs. 50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, D.lgs. 50/2016;
   2) il regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva;
   3) è escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo dell’attività incentivabile
” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.05.2019 n. 163).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEDeve escludersi la possibilità di erogare gli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche previsti dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50 del 2016 in favore dei membri di una commissione di gara, a nulla rilevando la circostanza che l’attività di tale organo sia stata svolta da una Stazione Unica Appaltante.
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Il Sindaco del Comune di Trecate (NO), dopo aver richiamato i testi dei commi 2 e 5 dell’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, chiede a questo Corte di pronunciarsi “in merito all’erogazione dell’incentivo per funzioni tecniche ai membri della Commissione di gara di una Stazione Unica Appaltante, nel caso in cui i lavori della Stazione Unica Appaltante consistano unicamente nelle operazioni svolte dalla Commissione di gara stessa, ai sensi degli accordi convenzionali tra gli enti aderenti che prevedono il versamento di una quota di entità variabile a second[a] dell’importo dell’appalto al Comune capofila della SUA.
...
Ciò posto, si premette che il comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 2016 prevede, tra l’altro, la possibilità, per le amministrazioni aggiudicatrici, di destinare ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al due per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per remunerare “le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Il comma 5 del predetto articolo, invece, disciplina la possibilità per una centrale unica di committenza di richiedere una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal citato comma 2 per i compiti svolti da proprio personale nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti.
Sulla base delle predette norme, il Sindaco del Comune di Trecate chiede se il menzionato incentivo per funzioni tecniche possa essere riconosciuto anche “ai membri della Commissione di gara di una Stazione Unica Appaltante, nel caso in cui i lavori della Stazione Unica Appaltante consistano unicamente nelle operazioni svolte dalla Commissione di gara stessa, ai sensi degli accordi convenzionali tra gli enti aderenti che prevedono il versamento di una quota di entità variabile a second[a] dell’importo dell’appalto al Comune capofila della SUA”.
La risposta a tale quesito non può che essere negativa atteso che il dettato normativo non lascia margini di interpretazione in ordine alla possibilità di erogare gli incentivi in parola “esclusivamente” per le attività indicate dal comma 2 del D.Lgs. n. 50 del 2016, fra le quali non rientrano quelle svolte dai commissari di gara.
La ratio di tale norma è da individuare nello scopo di accrescere l’efficienza e l’efficacia di attività tipiche dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso d’opera (cfr. Sezione di controllo Toscana - parere 14.12.2017 n. 186).
Al riguardo, la Sezione di controllo Lazio (cfr. parere 06.07.2018 n. 57), esprimendosi in senso conforme in merito ad un analogo quesito, ha evidenziato la funzione premiale dell’istituto “volto ad incentivare, con un surplus di retribuzione, lo svolgimento di prestazioni intellettive qualificate che, ove fossero svolte –invece che da dipendenti interni ratione officii– da esterni sarebbero da considerare prestazioni di lavoro autonomo professionali. La ratio dei nuovi incentivi è, infatti, anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale utilizzo delle professionalità interne, rispetto al ricorso all’affidamento esterno di incarichi professionali, che sarebbero comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente, con aggravio della spesa complessiva”.
In ordine alla tassatività dell’elencazione delle attività incentivabili, secondo l’orientamento prevalente di questa Corte, la disciplina in parola è da considerarsi di natura eccezionale rispetto al principio generale di onnicomprensività del trattamento economico, per cui non sono ammissibili interpretazioni che vadano oltre le previsioni letterali della legge (cfr. Sezione regionale di controllo Puglia, parere 13.12.2016 n. 204, parere 24.01.2017 n. 5, parere 21.09.2017 n. 108 e deliberazione 09.02.2018 n. 9; Sezione regionale controllo Marche, parere 27.04.2017 n. 52, Sezione regionale controllo Lombardia parere 09.06.2017 n. 185, Sezione regionale controllo Veneto, parere 12.05.2017 n. 338; Sezione regionale controllo Sicilia, parere 30.03.2017 n. 71).
Orientamento consolidatosi con la deliberazione 26.04.2018 n. 6 con cui la Sezione delle autonomie, con riguardo ai soggetti potenzialmente destinatari degli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche, ha confermato che “si tratta, quindi, di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente prevista dalla legge”.
Alla luce del predetto orientamento, si ritiene che l’attività svolta dai membri di una Commissione di gara non rientri tra quelle enunciate dal comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 2016 trattandosi di attività priva di natura tecnico-esecutiva e meramente valutativa, da condurre in applicazione delle regole e dei criteri enunciati nel bando di gara (in senso conforme anche Sezione regionale controllo Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).
È necessario precisare, peraltro, che l’esclusione della possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche ai membri di una Commissione di gara è strettamente connessa alla tipologia di attività svolta da tale organo, per cui non assume alcuna rilevanza la circostanza, richiamata dall’Ente richiedente il presente parere, che tale Commissione sia incardinata presso una Stazione Unica Appaltante.
Per altro verso si evidenzia che il trattamento economico da riservare ai membri di una Commissione di gara è disciplinato dal comma 10 dell’art. 77 del DLgs. n. 50 del 2016 il quale prevede che, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita l'ANAC, è stabilito il compenso massimo per i commissari e sancisce espressamente il divieto di corrispondere compensi in favore dei dipendenti pubblici se appartenenti alla stazione appaltante.
Fermo restando il predetto divieto, l’entità di tale compenso non può superare i limiti indicati nell’allegato A del decreto ministeriale 12.02.2018, adottato in attuazione del predetto articolo di legge.
Conclusivamente, pertanto,
deve escludersi la possibilità di erogare gli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche previsti dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50 del 2016 in favore dei membri di una commissione di gara, a nulla rilevando la circostanza che l’attività di tale organo sia stata svolta da una Stazione Unica Appaltante (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 08.05.2019 n. 39).

QUESITI & PARERI

APPALTILa legge europea (l. 37 del 03/05/2019) apporta modifiche ai tempi di pagamento da parte delle p.a..
Domanda
L’assessore ai LLPP ha segnalato che una legge recentemente approvata dal Parlamento è intervenuta sulla normativa in materia di tempi di pagamento. Mi sapete dire di cosa si tratta?
Risposta
La legge segnalata è la c.d. ‘Legge europea 2018’ (nota in passato come ‘Legge comunitaria’). Si tratta della legge n. 37 del 03/05/2019, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 109 dello scorso 11 maggio. La norma, già in vigore dallo scorso 26 maggio, è stata adottata a seguito di specifica procedura di infrazione avviata dall’Unione Europea nei confronti dell’Italia per il ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni. In particolare, l’art. 5 della legge ha sostituito l’art. 113-bis del codice degli appalti riscrivendone in toto il testo. Cosa cambia rispetto al testo previgente?
In sostanza, al fine di ridurre i tempi di pagamento nei confronti delle ditte appaltatrici, si riducono i tempi intercorrenti fra l’emissione del certificato di pagamento e l’adozione degli stati di avanzamento. In precedenza infatti, per gli acconti del corrispettivo di appalti, i primi venivano emessi entro trenta giorni dai secondi, fatto salvo il caso che le parti avessero espressamente concordato in modo diverso (quindi potenzialmente anche peggiorativo), purché non gravemente iniquo per il creditore; ora i due documenti devono essere contestuali, ovvero al più, il certificato deve essere emesso non oltre sette giorni dall’adozione del s.a.l.
Il nuovo testo prevede che i pagamenti relativi agli acconti siano effettuati entro trenta giorni decorrenti dall’adozione di ogni stato di avanzamento dei lavori, salvo che sia espressamente concordato nel relativo contratto un diverso termine. Quest’ultimo, tuttavia, non può comunque essere superiore a sessanta giorni e deve essere oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche.
Per il collaudo e la verifica di conformità il vecchio testo faceva un generico rinvio all’art. 4 del d.lgs. 231/2002. Il nuovo comma 2 prevede ora che all’esito positivo del collaudo o della verifica di conformità, e comunque entro un termine non superiore a sette giorni dagli stessi, il responsabile unico del procedimento debba rilasciare il certificato di pagamento ai fini dell’emissione della fattura da parte dell’appaltatore.
Il relativo pagamento è effettuato nel termine di trenta giorni decorrenti dal suddetto esito positivo del collaudo o della verifica di conformità, salvo che sia espressamente concordato nel contratto un diverso termine, comunque non superiore a sessanta giorni e purché ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche.
Il certificato di pagamento, conclude e conferma il comma rispetto al passato, non costituisce presunzione di accettazione dell’opera, ai sensi dell’articolo 1666, secondo comma, del codice civile. Resta invece del tutto invariato il vecchio comma 2 dell’articolo, ora semplicemente spostato al comma 4, in materia di applicazione di penali negli appalti pubblici.
Infine cogliamo l’occasione per segnalare che sul tema dei pagamenti dei debiti commerciali delle p.a., intese in senso lato, è intervenuto di recente anche il c.d. ‘Decreto crescita’ (d.l. 34/2019). L’art. 22, inserisce il nuovo articolo 7-ter del d.lgs. 231/2002.
Esso stabilisce che a partire dal 2019 le società (quindi anche quelle partecipate dagli enti locali) «(…) danno evidenza dei tempi medi di pagamento delle transazioni effettuate nell’anno, individuando altresì gli eventuali ritardi medi tra i termini pattuiti e quelli effettivamente praticati. I medesimi soggetti danno conto nel bilancio sociale anche delle politiche commerciali adottate con riferimento alle suddette transazioni, nonché delle eventuali azioni poste in essere in relazione ai termini di pagamento».
Il decreto è ancora in corso di conversione. Non resta che attendere di vedere se il testo verrà confermato nella sua formulazione oppure no (10.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODistacco sindacale e straordinario.
Domanda
Un dipendente dell’Ente è stato collocato dallo scorso 1 novembre in distacco sindacale part-time al 50%.
Per il restante 50% presta regolarmente servizio presso questo Ente in due giorni settimanali (con orario giornaliero di 9 ore).
Può svolgere nelle suddette giornate lavoro supplementare di cui all’articolo 55 del CCNL del 21/05/2018?
Risposta
Occorre in primo luogo chiarire che la nozione di “lavoro supplementare” utilizzata nel CCNL del Comparto Funzioni Locali, sottoscritto in data 21.05.2018, attiene al rapporto di lavoro a tempo parziale e fa riferimento all’effettuazione di prestazioni di lavoro eccedenti l’orario ridotto concordato tra le parti ma contenute entro i limiti dell’orario a tempo pieno. Nell’eventualità di svolgimento di prestazioni aggiuntive del dipendente che superino anche la durata dell’orario normale di lavoro occorre, invece, riferirsi alla nozione di lavoro straordinario.
Fatta questo doverosa premessa, occorre fare riferimento, ai fini del corretto inquadramento della situazione rappresentata, a quanto dettato in materia di flessibilità dei distacchi sindacali dall’articolo 8 del CCNQ sulle modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative e permessi, nonché delle altre prerogative sindacali, sottoscritto il 04/12/2017.
Il comma 5 del summenzionato articolo 8 stabilisce che “il trattamento economico del lavoratore in distacco sindacale part-time ai sensi del comma 3 è quello previsto all’art. 19, comma 3 (Trattamento economico). Per il diritto alle ferie e per lo svolgimento del periodo di prova in caso di vincita di concorso o passaggio di qualifica (purché in tale ipotesi sia confermato il distacco sindacale con prestazione lavorativa ridotta) si applicano le norme previste nei singoli contratti collettivi di lavoro per il rapporto di lavoro part-time –orizzontale o 10 verticale– secondo le tipologie del comma 4. Tale ultimo rinvio va inteso solo come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali che, pertanto, non si configurano come un rapporto di lavoro part-time – e non incidono sulla determinazione delle percentuali massime previste, in via generale, per la costituzione di tali rapporti di lavoro”.
Pertanto, la summenzionata disposizione chiarisce che i rinvii alle norme in materia di part-time operati nell’ambito del CCNQ quale riferimento per la disciplina da applicare alle fattispecie menzionate vanno intesi meramente come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali, non configurando, pertanto, un rapporto di lavoro part-time ai sensi del contratto collettivo del comparto.
Ne deriva, quindi, che il caso sottoposto non va considerato alla stregua di un rapporto di lavoro a tempo parziale e che, conseguentemente, la nozione di lavoro supplementare non è appropriata (06.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIRUP non dirigente.
Domanda
Il nostro ente (un comune) sta procedendo con la costituzione di uno specifico ufficio di supporto al RUP. Nel nosto caso i RUP, in certi casi, non coincidono con i responsabili di servizio ma sono inquadrati comunque nella categoria D.
E’ possibile da parte del RUP non responsabile del servizio nominare, nell’ambito dell’ufficio di supporto, i responsabili di procedimento ai sensi della legge 241/1990 per lo svolgimento di specifici compiti dell’ambito del procedimento di affidamento? (es. nomina responsabile del procedimento per la predisposizione dell’avviso a manifestare interesse o per la predisposizione dell’albo dei prestatori o simili).
Risposta
La stazione appaltante può, nell’ambito della propria autonomia, organizzare come ritiene opportuno lo sviluppo/svolgimento delle procedure di affidamento, articolando anche alcune funzioni/compiti in modo differente prevedendo, come nel caso del quesito posto, anche uno specifico ufficio/servizio di supporto al RUP (anche, magari con funzioni di verifica formale della documentazione amministrativa delle gara e successiva verifica sostanziale).
Ciò che appare precluso alla stazione appaltante è la possibilità di scindere le funzioni del RUP, proprio perché responsabile unico della procedura (in questo senso, a titolo esemplificativo, il Governo ha impugnato la legge regionale della Sardegna in tema di appalti n. 8/2018 –e segnatamente alcuni commi dell’articolo 34– proprio per la previsione di due RUP guidati da un “responsabile di progetto”).
Pertanto, al netto di quanto evidenziato, l’ipotesi è praticabile ma si ritiene che il RUP non dirigente, ma solo funzionario non responsabile del servizio, non possa nominare gli specifici responsabili di procedimento ai sensi della legge 241/1990.
Questa prerogativa, oltre a non essere prevista né nell’articolo 31 né nelle linee guida ANAC n. 3, viene esclusa più o meno implicitamente dalla legge 241/1990 ed in particolare dall’articolo 5.
L’articolo citato al primo comma prevede che “il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all’unità la responsabilità della istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente, dell’adozione del provvedimento finale”.
Il secondo comma –quale disposizione di chiusura– chiarisce che “fino a quando non sia effettuata l’assegnazione” del procedimento “è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa (…)” .
Si ritiene quindi che la dinamica RUP/collaboratori debba essere “disciplinata” nell’ordine di servizio di assegnazione delle funzioni (il dott. ... potrà disporre dell’ausilio/collaborazione delle persone …..) – in sostanza con una individuazione dei responsbaili di procedimento a monte, in modo che in presenza di necessità il RUP non debba sempre chiedere l’intermediazione/intervento del dirigente/responsabile del servizio (05.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIModalità di accesso civico generalizzato.
Domanda
In un comune piccolo (sotto i 3mila abitanti) ci è pervenuta la prima richiesta di accesso agli atti, presentata ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013.
Non avendo situazioni precedenti a cui rifarci vorremmo capire, in particolare, se è possibile accedere e ottenere delle informazioni che l’ente deve assemblare, estrapolandoli da delibere e determinazioni delle posizioni organizzative.
Risposta
L’accesso civico generalizzato nasce con il decreto legislativo 23.05.2016, n. 97, il quale ha introdotto numerose e rilevanti modifiche al cosiddetto Decreto Trasparenza (d.lgs. 33/2013). Con le modifiche introdotte, la legislazione italiana si è arricchita di un nuovo concetto di diritto di accesso, che riguarda le informazioni detenute dalla pubblica amministrazione, con l’obiettivo di assicurare al cittadino un controllo “sociale” sull’azione amministrativa, oltre alla possibilità di verificare il rispetto dei tradizionali canoni costituzionali di buona amministrazione, imparzialità e trasparenza.
L’ Accesso civico generalizzato –anche conosciuto come FOIA – Freedom Of Information Act – Legge sulla libertà di informazione, in lingua italiana– consente a chiunque di richiedere dati e documenti ulteriori rispetto a quelli che le amministrazioni sono obbligate a pubblicare nel sito web, purchè siano dati in possesso dell’amministrazione.
Ciò significa, rispondendo allo specifico quesito, che l’ente non è tenuto a raccogliere ed estrapolare informazioni che non siano in suo possesso per rispondere ad un’istanza di accesso generalizzato, ma deve limitarsi a fornire documenti e dati che già detiene, senza necessità di rielaborazione dei contenuti stessi. In questo senso, dunque, la domanda di accesso va respinta.
L’unica attività di elaborazione permessa –anzi, dovuta– è quella che riguarda l’eventuale oscuramento dei dati personali (comuni, sensibili o giudiziari) eventualmente presenti nel documento o nell’informazione richiesta (la cosiddetta procedura di anonimizzazione), necessaria al fine di rendere possibile l’accesso. In questo caso, però, prima di accogliere la richiesta, si dovranno coinvolgere i controinteressati che potranno fornire una “motivata opposizione” entro dieci giorni.
Tornando all’istanza di accesso civico generalizzato presentata dal cittadino, come prima attività istruttoria occorre che siano verificati concretamente i documenti ed i dati richiesti. La richiesta di accesso, infatti, deve indicare, con precisione, i dati oggetto della domanda, consentendo all’amministrazione di identificare agevolmente le informazioni da rendere disponibili.
In pratica, dovranno essere ritenute NON ammissibili le richieste formulate in modo vago e generico, così come le domande che evidenziano espressamente la volontà del richiedente di accertare il possesso di dati o documenti da parte dell’amministrazione (cosiddetta: richiesta esplorativa).
In tali casi, si consiglia di assistere il richiedente in modo da giungere ad una adeguata definizione dell’oggetto dell’istanza.
Riguardo, invece, alla motivazione o giustificazione della richiesta di accesso civico generalizzato, si evidenzia che non è necessario che questa sia espressa a sostegno.
Tale libertà di accesso incontra, comunque, determinati limiti, individuati dal legislatore all’art. 5-bis del Decreto Trasparenza (n. 33/2013), il quale specifica le esclusioni disposte a tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti, di cui occorre tenere conto. Qualora si verifichino, in futuro, altre analoghe richieste, si suggerisce, inoltre:
   a) di consultare attentamente la delibera ANAC n. 1309 del 28.12.2016, avente ad oggetto le “Linee Guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013”;
   b) dotarsi di un regolamento interno (come previsto dall’ANAC) per rendere uniforme ed omogeneo l’esame delle istanze tra le varie strutture del comune;
   c) pubblicare nel sito web nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Accesso civico, i modelli di richiesta per i tre accessi previsti e cioè quelli del FOIA; l’accesso civico semplice (art. 5, comma 1, d.lgs. 33/2013) e l’accesso agli atti disciplinato dal Titolo V, della legge 07.08.1990, n. 241.
Dal momento che la normativa è pienamente operativa da dicembre 2016, per ulteriore approfondimento, è opportuno, in caso di richiesta “dubbia”, consultare anche i pareri emanati, in questi due anni e mezzo, dall’Autorità Garante per la Protezione dei dati (Garante Privacy italiano), rintracciabili al seguente link (04.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Protocollo on-line aperto. Accesso garantito ai consiglieri comunali. Ma il diritto va esercitato in modo consapevole, selezionando gli atti.
Può il consigliere comunale accedere da remoto al protocollo informatico del comune nel quale è stato eletto?

Il plenum della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16 marzo 2010, ha osservato che il diritto di accesso ed il diritto di informazione dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato (confermato dal successivo parere del 23.10.2012).
Il protocollo informatico è stato introdotto dall'art. 50 del dpr n. 445/2000, il quale, al comma 3, richiede la realizzazione o la revisione dei sistemi informativi automatizzati in conformità anche alle disposizioni di legge sulla riservatezza dei dati personali; gli artt. 53 e 55 del citato dpr n. 445/00 prevedono, rispettivamente, la «registrazione di protocollo» e la «segnatura di protocollo» che contengono una serie di dati che consentono la rintracciabilità dei documenti.
La citata commissione per l'accesso, già con il richiamato parere del 2010 stabiliva che «l'accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell'ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel)».
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (vedi relazione del 2004, pagg. 19 e 20) aveva specificato che «nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l'esercizio di tale diritto, ai sensi dell'art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità, che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all'amministrazione destinataria della richiesta accertare l'ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii del consigliere comunale».
Rilevando che la specifica materia dovrebbe trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'ente, si osserva che anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato art. 43 del dlgs n. 267/2000.
Già il Tar Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Sempre il Tar Sardegna, approfondendo la tematica, con la sentenza n. 531/2018, ha specificato che il «possesso delle chiavi di accesso telematico, rappresenta una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per l'esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti dell'amministrazione comunale, ma mediante una selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l'esibizione. Peraltro, una delle modalità essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo».
Appare dirimente, infine, la recentissima decisione n. 545 del 04/04/2019 con la quale il Tar Campania (sezione staccata di Salerno), ha confermato il diritto del consigliere comunale all'accesso anche da remoto al protocollo informatico dell'ente.
Lo stesso Tar Campania, confermando sostanzialmente quanto stabilito dal Tar Sardegna con la richiamata sentenza 531/2018, ha ribadito che tale esercizio non dovrebbe tuttavia essere esteso al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione -soggetta, invece, alle ordinarie regole in materia di accesso, tra le quali la necessità di richiesta specifica- ma ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo (numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto) (articolo ItaliaOggi del 31.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGOFurbetti cartellino e reato di truffa.
Domanda
La falsa attestazione della presenza in servizio integra il reato di truffa aggravata anche se il raggiro produce nel complesso assenze di pochi minuti?
Risposta
La copiosa e recente giurisprudenza che si è occupata dei furbetti del cartellino non ammette sconti nemmeno nei casi in cui la falsa attestazione della presenza in servizio derivi da manomissioni del sistema di rilevazione dell’orario di presenza che nel complesso producono assenze di pochi minuti.
Le ragioni delle diverse Cassazioni Penali (Cassazione Penale, sentenza, n. 20130 del 08.05.2018; Cassazione Penale, n. 3262 del 23.01.2019; Cassazione Penale n. 9900 del 05.03.2018; Cassazione Penale n. 22972 del 22.05.2018) si esprimono all’unisono, muovendo dall’assunto che la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli presenza, è condotta fraudolenta, idonea aggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili.
Apprezzabile però, non è sinonimo di rilevante.
Non va tenuto conto solo dell’aspetto economico del danno patrimoniale, incarnato nell’indebita percezione, da parte del lavoratore, di un emolumento retributivo in assenza di prestazione lavorativa resa; l’esiguità dell’aspetto economico non prevale infatti sul grave tradimento del rapporto fiduciario esistente tra dipendente e Amministrazione datrice di lavoro.
Le norme non ammettono una soglia di tolleranza al di sotto della quale non è integrata la fattispecie di reato: non nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio, in qualunque modo essa avvenga.
Anche una indebita percezione di poche centinaia di euro costituisce quindi un danno economicamente apprezzabile per il datore di lavoro pubblico.
L’esiguità della somma può tutt’al più integrare l’attenuante della speciale tenuità ma non certo impedire la configurabilità del reato di truffa aggravata.
In relazione alle situazioni che si palesano come meno gravi in quanto afferenti ad intervalli temporali esigui e a corrispondenti valori economici di somme indebitamente percepite, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 55-quinquies (False attestazioni o certificazioni) del d.lgs. 165/2001 nella parte in cui non prevede un’ipotesi attenuata per i casi di minore gravità.
La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 184, depositata il 04.10.2018, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 55-quinquies del d.lgs. 165/2001 (30.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTILa deroga alla rotazione nei micro acquisti dopo la legge di bilancio.
Domanda
Le linee guida n. 4 dell’autorità anticorruzione consentono di derogare al principio di rotazione – con sintetica motivazione – nel caso di acquisti di importo inferiore ai mille euro. Acquisti che possono essere effettuati senza obbligo di ricorrere al mercato elettronico.
La nuova legge di bilancio prevede la possibilità di acquisti fuori mercato entro i 5 mila euro: si deve ritenere che anche in questo caso sia possibile derogare al principio di rotazione?
Risposta
La legge di bilancio (n. 145/2018) con il comma 130, art. 1, introduce un importante adeguamento al comma 450, art. 1, della legge 296/2006 (comma capitale in tema di spending review) modificando la soglia –da somme inferiori ai mille euro a somme inferiori a 5mila euro– , per cui è consentito al RUP di procedere con l’acquisizione della commessa senza necessità di ricorrere al mercato elettronico.
E’ bene annotare che il RUP ha una mera facoltà di non agire attraverso il mercato elettronico ma, evidentemente, bene sarebbe –salvo situazioni estreme di urgenza oggettiva– sempre effettuare una escussione delle vetrine per verificare la presenza del prodotto.
Come evidenziato nel quesito, in relazione alla pregressa “micro” soglia dei mille euro, le linee guida n. 4 consentivano una deroga al criterio della rotazione con una sintetica motivazione.
Secondo l’autorità anticorruzione, è chiaro che esasperare il formalismo della rotazione anche per micro acquisizioni potrebbe avere un effetto deleterio rispetto ad esigenze di tempestività dell’acquisizione.
La stessa ANAC, con lo schema di linee guida di recente trasmesso al Consiglio di Stato, rileva la necessità di chiarire se anche in relazione ad importi fino ai 5mila euro il RUP possa o meno derogare al criterio dell’alternanza tra imprese consentendo il riaffido al pregresso affidatario e/o invitare al procedimento (qualora si volesse effettuare una competizione tra diversi preventivi) anche soggetti già invitati.
Se l’ANAC non fornisce una risposta sulla questione, occorre invece registrare –in tema– l’importante parere del Consiglio di Stato n. 1312/2019 reso proprio sullo schema di cui si è appena detto.
Proprio in relazione alla questione specifica –deroga alla rotazione nell’ambito dei 5mila euro– il Collegio testualmente puntualizza di condividere “l’innalzamento della soglia entro la quale è possibile, con scelta motivata, derogare al principio di rotazione”.
Pertanto, nell’ambito anche dei 5mila euro la rotazione può subire delle deroghe. Ora è chiaro che il RUP dovrà evitare artificiosi frazionamenti negli acquisti e, si deve ritenere secondo una prassi corretta, che la deroga potrebbe essere motivata nel limite massimo di un riaffido (già un secondo riaffido, salvo che si tratti di importi realmente esigui –es. 1.500 ciascuno–) esige una motivazione sicuramente più accurata.
A titolo esemplificativo, si può ritenere –sotto il profilo pratico– che il secondo riaffido, e nel terzo, potrebbe essere effettuato confrontando comunque i prezzi del mercato elettronico.
In ogni caso, la deroga deve avere una motivazione da inserire nella determinazione a contrattare (29.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIObblighi di pubblicazione dati e documenti amministratori comunali, dopo le elezioni.
Domanda
Il 26.05.2019 si è votato anche nel nostro comune per il rinnovo del Consiglio comunale e per l’elezione diretta del Sindaco. Quali obblighi e con quali tempistiche si deve procedere alla pubblicazione dei dati dei nuovi amministratori?
Risposta
Gli obblighi di pubblicazione per gli amministratori comunali sono dettagliatamente riportati nell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, cosiddetto Decreto Trasparenza.
Per il sindaco, i consiglieri comunali e gli assessori (se esterni) gli obblighi riguardano i seguenti documenti ed informazioni:
   a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;
   b) il curriculum;
   c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
   d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
   e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
   f) le dichiarazioni di cui all’art. 2, della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui all’art. 7.
La delibera ANAC n. 241 del 08.03.2017, ha specificato che relativamente alla situazione reddituale e patrimoniale (articolo 14, comma 1, lettera f), l’obbligo riguarda solamente gli amministratori dei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
Tra gli atti e documenti da pubblicare occorre distinguere tra quelli che gli uffici comunali hanno già a loro disposizione e quelli che possono essere forniti esclusivamente dagli amministratori.
Tra i documenti “detenuti” dall’ente rientrano quelli della:
   lettera a) – atto di nomina o di proclamazione;
   lettera c) – compensi di qualsiasi natura connessi alla carica e i rimborsi delle spese per missioni.
Dovranno essere richiesti agli amministratori e, da questi, consegnati agli uffici, i documenti e le dichiarazioni della:
   lettera b) – curriculum;
   lettera d) – dati relativi all’assunzione di altre cariche e i relativi compensi;
   lettera e) – altri eventuali incarichi a carico della finanza pubblica;
   lettera f) – dichiarazione dei redditi e situazione patrimoniale propria e dei famigliari qualora vi consentano. Oppure dichiarazione, dell’amministratore circa il mancato consenso del proprio coniuge e famigliari (figli; fratelli; genitori; nonni; nipoti, intesi come figli dei figli; eccetera).
I dati dovranno essere richiesti ai singoli amministratori, dopo l’insediamento degli organi, con nota a cura del Responsabile della Trasparenza che, di norma, nei comuni è il segretario comunale. Per i componenti della giunta, occorrerà attendere i decreti di nomina degli assessori da parte del sindaco.
Per la tempistica di pubblicazione, il comma 2, del citato art. 14, prevede che i documenti vengano pubblicati nel sito web, entro tre mesi dalla elezione o dalla nomina e per i tre anni successivi dalla cessazione del mandato, fatte salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado, che vengono pubblicate, solamente, fino alla cessazione del mandato.
A seguito dell’elezioni, quindi, l’ente –e per la durata di tre anni– dovrà organizzare due link. Uno con i dati dell’amministrazione scaduta e uno con le informazioni sull’amministrazione in carica, ricordandosi di eliminare il link dell’amministrazione cessata, trascorso il mese di maggio 2022.
Tutti i dati, come previsto nell’Allegato “1” della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, dovranno essere pubblicati, nel sito internet dell’ente nella sezione: Amministrazione trasparente > Organizzazione > Titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione e di governo.
bene rammentare, infine, che ai sensi dell’articolo 47, comma 1, del d.lgs. 33/2013, l’ANAC può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 euro, a carico del responsabile della mancata comunicazione dei dati, a seguito della mancata o incompleta comunicazione delle informazioni e dei dati di cui all’art. 14, concernenti:
   a) la situazione patrimoniale complessiva del titolare dell’incarico al momento dell’assunzione in carica;
   b) la titolarità di imprese, le partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei parenti entro il secondo grado;
   c) tutti i compensi cui da diritto l’assunzione della carica.
Il relativo provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Anticorruzione dovrà essere pubblicato sul sito internet dell’amministrazione (28.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborso permessi amministratori locali dipendenti di s.p.a. a totale partecipazione pubblica.
Ai sensi dell’art. 80 del TUEL, gli oneri relativi ai permessi retribuiti degli amministratori locali per l’espletamento delle loro funzioni pubbliche sono a carico dell’ente presso cui dette funzioni vengono svolte ove si tratti di lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici.
Per quanto concerne la natura delle società a totale partecipazione pubblica, il Consiglio di Stato, sez. I, ha da ultimo chiarito, con il parere 16.11.2011, n. 706, che ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL sono considerate “privati” -e quindi hanno diritto al rimborso da parte del Comune dei predetti oneri- tutte le società pubbliche, ad esclusione di quelle inserite nel conto economico consolidato individuate dall’ISTAT, ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196/2009, e di quelle che hanno per legge personalità giuridica di diritto pubblico.

Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di rimborsare gli oneri relativi ai permessi retribuiti fruiti da amministratori che sono dipendenti di azienda partecipata dell’Ente, ai sensi dell’art. 80 del TUEL. Il Comune precisa che l’azienda in questione è una SPA partecipata al 100% da soci pubblici.
L’art. 80 del TUEL stabilisce che le assenze dal servizio degli amministratori locali per partecipare alle riunioni degli organi politici di cui fanno parte, nonché quelle relative agli altri permessi previsti dalla legge per l’espletamento del mandato, sono retribuite dal datore di lavoro. La norma precisa altresì che, qualora detti amministratori siano lavoratori dipendenti di privati o di enti pubblici economici, gli oneri per i permessi retribuiti sono a carico dell'ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui all'articolo 79
[1].
Stante la formulazione testuale della norma, il rimborso degli oneri relativi ai permessi di cui si tratta da parte del Comune è correlato alla natura privata (o di ente pubblico economico) del datore di lavoro degli amministratore locali
[2].
Con riferimento ad amministratori dipendenti di s.p.a. a capitale interamente pubblico –nella specie, Poste Italiane S.p.a. e Ferrovie dello Stato S.p.a.– una prima posizione del Ministero è stata quella di escludere il rimborso dei permessi retribuiti a dette società da parte dell’ente locale, argomentando dalla natura pubblica di dette società affermata dal Consiglio di Stato
[3].
Peraltro, il Ministero ha successivamente ritenuto di richiedere un parere al Consiglio di Stato sulla natura pubblica o privata delle s.p.a. a capitale interamente pubblico, ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL.
Ebbene, il Consiglio di Stato, nell’auspicare un intervento chiarificatore del legislatore sull’effettiva natura delle s.p.a. pubbliche, che prescinda dal contesto e dall’applicazione di norme di settore, ha fornito un parere in relazione alle specifiche esigenze applicative della menzionata disposizione del D.Lgs. n. 267/2000.
In particolare, posto che l’art. 80 del TUEL fa riferimento soprattutto al rapporto di dipendenza dei lavoratori, il Consiglio di Stato ha preso in considerazione le normative di carattere generale che lo connotano, in relazione alla natura giuridica del datore di lavoro: in particolare, il D.Lgs. n. 165/2001, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, all’art. 1, comma 2, prevede analiticamente cosa si debba intendere per amministrazioni pubbliche, escludendo gli enti pubblici economici (e a fortiori le società per azioni a capitale pubblico). Inoltre, la L. n. 196/2009 (legge di contabilità e finanza pubblica), altra normativa di carattere generale, all’art. 1, commi 2 e 3, considera, ai fini della legge medesima, per amministrazioni pubbliche i soggetti espressamente indicati dall’ISTAT con specifico provvedimento da pubblicarsi nella G.U. entro il 30 settembre di ogni anno.
Alla luce di tali riferimenti normativi, il Consiglio di Stato ha affermato che sono da ritenersi amministrazioni pubbliche: a) tutte quelle elencate dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001; b) gli enti e gli altri soggetti inseriti nel conto economico consolidato individuati, ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196/2009, dall’ISTAT
[4]; c) quelle società alle quali la legge attribuisce espressamente “personalità giuridica di diritto pubblico”.
Conseguentemente –conclude il Consiglio di Stato– sono considerate “privati”, ai sensi dell’art. 80, secondo periodo, D.Lgs. n. 267/2000, e quindi non sono a loro carico gli oneri per i permessi retribuiti dei propri dipendenti correlati all’esercizio delle funzioni pubbliche, tutte le società pubbliche, ad esclusione di quelle inserite nel conto economico consolidato individuate dall’ISTAT in applicazione della normativa di cui al D.Lgs. n. 196/2009 richiamata, e di quelle che hanno per legge “personalità giuridica di diritto pubblico”.
Il Consiglio di Stato precisa come tale conclusione sia a favore di una soluzione di certezza giuridica che regga su dati normativi testuali e prescinda da interpretazioni legate all’accertamento della natura delle singole situazioni
[5].
Alla luce di quanto esposto, si ritiene che l’Ente possa far riferimento, per la soluzione del caso che lo riguarda, ai criteri elaborati dal Consiglio di Stato per l’individuazione della natura (privata o pubblica), ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL, della s.p.a. interamente pubblica datore di lavoro dei dipendenti amministratori,.
Un tanto anche avuto riguardo alla nota del Ministero dell’Interno n. 47 del 13.01.2012, con cui il Ministero trasmette ai Prefetti della Repubblica il parere del Consiglio di Stato n. 706/2011, con preghiera di darne la più ampia divulgazione presso le amministrazioni locali
[6].
---------------
[1] In tal caso, l'ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto, per retribuzioni ed assicurazioni, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. Il rimborso viene effettuato dall'ente entro trenta giorni dalla richiesta.
[2] La ratio della norma è infatti quella di salvaguardare l’esercizio delle funzioni pubbliche svolte da lavoratori dipendenti prevedendo il ristoro dei conseguenti oneri nei confronti dei soggetti datori di lavoro privati (o aventi natura di ente pubblico economico), ristoro escluso nei confronti dei soggetti datori di lavoro pubblici.
[3] Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, parere del 10.06.2010, ove il Ministero argomenta dalle considerazioni del Consiglio di Stato sez. VI, 02.03.2001, n. 1206 secondo cui Poste Italiane S.p.a. ha natura pubblica, sulla base del fatto che la stessa sia ancora interamente posseduta dallo Stato, che continui ad agire per il conseguimento di finalità pubblicistiche e che lo Stato, nella sua veste di azionista di maggioranza o totalitario, non possa che indirizzare le attività societarie a fini di interesse pubblico generale.
Allo stesso modo, la giurisprudenza amministrativa aveva affermato la natura pubblicistica di Ferrovie dello Stato S.p.a., nonostante la veste formalmente privatistica (Consiglio di Stato sez. VI, 16.12.1998, n. 1683; TAR Roma, sez. III, 06.08.2002, n. 7010, richiamati dal Ministero citato).
Per l’orientamento più recente, nel senso della natura privata di dette società, ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL, si veda sub nota 4.
[4] In proposito, il Consiglio di Stato osserva che l’elenco di cui al comunicato 24.07.2010 e a quello 30.09.2011 non comprende Ferrovie dello Stato S.p.a., Trenitalia S.p.a. e Poste Italiane S.p.a.
Lo stesso vale, da ultimo, per l’elenco di cui al comunicato dell’ISTAT pubblicato nella G.U. del 28.09.2018, n.d.r.
[5] Nel senso della rimborsabilità dei permessi a datori di lavoro aventi veste di s.p.a. a totale partecipazione pubblica, v. anche Corte dei conti Lombardia 26.09.2017, n. 256, con specifico riferimento ad un assessore dipendente di una s.p.a. a totale capitale pubblico che opera in affidamento diretto in house per la gestione del servizio idrico integrato.
La Corte dei conti Lombardia argomenta dal dato della qualificazione formale, ossia la costituzione in forma societaria con connessa distinzione soggettiva tra società e soci così come la separazione dei rispettivi patrimoni (che esclude che la provenienza pubblica delle risorse impiegate nel capitale sociale determini automaticamente l’acquisizione della natura pubblicistica delle disponibilità finanziarie della società). Conforme anche Corte dei conti Veneto 28.05.2014, n. 346, sulla rimborsabilità dei permessi a dipendente di s.p.a. a totale capitale pubblico, di cui il comune presso cui il lavoratore esercita le funzioni pubbliche detiene alcune quote.
In senso parzialmente difforme sotto quest’ultimo profilo: Corte dei conti Campania 18.09.2014, n 198 e Corte dei conti Lazio 09.09.2013, n. 182, che sostengono l’inclusione delle s.p.a. a totale partecipazione pubblica tra i soggetti aventi diritto al rimborso degli oneri per permessi retribuiti accordati a propri dipendenti per lo svolgimento di funzioni pubbliche presso enti locali diversi da quelli che ne detengono il capitale sociale”.
[6] Per completezza espositiva, si segnala la pronuncia del Tribunale ordinario di Roma, sez. II, n. 16106 del 19.07.2014, che ha ritenuto di escludere la rimborsabilità dei permessi ad una s.p.a. a capitale interamente pubblico, ritenendo che la stessa, pur avendo natura giuridica formale privata potesse essere parificata ai soggetti pubblici di cui all’art. 80 del TUEL, avuto riguardo alla funzione pubblica svolta di gestione tributaria.
Il Tribunale di Roma –a fronte della posizione del Consiglio di Stato, che, per individuare i soggetti aventi natura giuridica formale privata da parificarsi ai soggetti pubblici di cui all’art. 80 del TUEL, ha optato per una soluzione di certezza giuridica “che regga su dati normativi testuali e prescinda da interpretazioni legate all’accertamento della natura delle singole situazioni”– ha comunque ritenuto potersi verificare in via interpretativa se la s.p.a. a totale capitale pubblico di cui si trattava potesse essere parificata ai soggetti pubblici di cui all’art. 80 del TUEL.
Ed un tanto il Tribunale ha reputato possibile, sulla base dello statuto della società in questione, da cui emergeva che la stessa svolgeva esclusivamente attività istituzionali proprie dell’ente proprietario (unico socio), non compatibili con l’esercizio di attività di impresa in regime di concorrenza
(27.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, modifiche doc. La materia è demandata al regolamento. Non spetta allo statuto disciplinare il funzionamento dei consigli.
Può il presidente del consiglio rigettare una proposta di modifica allo statuto proposta da un consigliere comunale?
Un consigliere ha rappresentato di aver ricevuto una nota con la quale il presidente del consiglio comunale comunicava di non poter recepire validamente la proposta di modifica dello statuto in materia di quorum strutturale per le sedute di seconda convocazione perché in contrasto con il dispositivo recato dall'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Il citato art. 38, comma 2, come noto, ha demandato alla fonte regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, il funzionamento dei consigli e, in particolare, la determinazione del numero legale per la validità delle sedute, con il limite che detto numero non può, in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco».
Ai sensi dell'art. 8, comma 1, del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto che l'iniziativa per le deliberazioni consiliari si esercita mediante la formulazione di un testo di deliberazione e che la relativa iniziativa spetta alla giunta e a ciascun consigliere comunale. Il comma 2 del medesimo articolo prevede che il presidente, sulla scorta dei pareri delle competenti strutture comunali, può dichiarare inammissibili quelle proposte e quegli emendamenti privi della copertura o i cui testi contrastino con norme di legge, dello statuto o dei regolamenti comunali. Ai sensi del successivo comma 3, si individua il consiglio di presidenza, composto dal presidente e dai vicepresidenti, quale organo di reclamo per testi dichiarati inammissibili al dibattito consiliare.
Atteso il delineato contesto normativo, la nota del presidente del consiglio comunale avrebbe dovuto menzionare il contenuto dei pareri previsti dall'art. 8, comma 2, del regolamento sul consiglio comunale anche al fine di fornire elementi utili a rimodulare correttamente la proposta di modifica del quorum strutturale di seconda convocazione. In tal modo si sarebbe consentito il pieno svolgimento dello ius ad ufficium del consigliere con specifico riferimento all'esercizio del diritto di iniziativa deliberativa.
Nel merito, poiché ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, la materia concernente il quorum strutturale è demandata non allo statuto, ma al regolamento del consiglio, la proposta di modifica avrebbe dovuto riferirsi a tale fonte normativa
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

APPALTII controlli semplificati nel nuovo Decreto cd “blocca Cantieri.
Domanda
La disciplina semplificata sui controlli prevista dal decreto c.d. “Sblocca Cantieri” per le procedure effettuate sui mercati elettronici è applicabile a tutte le piattaforme?
Risposta
I nuovi commi 6-bis e 6-ter del d.lgs. 50/2016 cambiano la disciplina dei controlli sui requisiti di carattere generale ex art. 80 del codice nei mercati elettronici. In particolare il comma 6-bis recita “Ai fini dell’ammissione e della permanenza degli operatori economici nei mercati elettronici di cui al comma 6, il soggetto responsabile dell’ammissione verifica l’assenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80 su un campione significativo di operatori economici. Dalla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 81, comma 2, tale verifica sarà effettuata attraverso la Banca dati nazionale degli operatori economici di cui all’articolo 81, anche mediante interoperabilità fra sistemi. I soggetti responsabili dell’ammissione possono consentire l’accesso ai propri sistemi agli operatori economici per la consultazione dei dati, certificati e informazioni disponibili mediante la banca dati di cui all’articolo 81 per la predisposizione della domanda di ammissione e di permanenza ai mercati elettronici”, mentre il comma 6-ter “Nelle procedure di affidamento effettuate nell’ambito dei mercati elettronici di cui al comma 6, la stazione appaltante verifica esclusivamente il possesso da parte dell’aggiudicatario dei requisiti economici e finanziari e tecnico professionali”.
Con questa nuova formulazione il legislatore ha inteso realizzare un’effettiva semplificazione nelle procedure di affidamento tramite i mercati elettronici, ponendo infatti in capo al gestore della piattaforma il compito di effettuare a campione i controlli sugli operatori economici (ai fini dell’ammissione e della permanenza al mercato elettronico), circa il possesso dei requisiti generali ex art. 80 del codice, lasciando alla Stazione Appaltante l’onere di effettuare le verifiche sull’aggiudicatario dei requisiti economico-finanziari o tecnico-professionali eventualmente richiesti.
Nel caso di utilizzo del MePa, quale sistema che consente di gestire affidamenti diretti e procedure negoziate ex artt. 36 e 63 del codice, basato su bandi di abilitazione, rispetto ai quali i soggetti interessati richiedono di essere qualificati, previa dichiarazione circa il possesso degli specifici requisiti richiesti, la novella legislativa è sicuramente applicabile, realizzandosi dunque quella semplificazione in termini di economicità stessa del procedimento, tanto richiesta dagli operatori di settore, e senza il limite dei 40.000 euro come in precedenza previsto.
Per quanto riguarda le altre piattaforme telematiche, il funzionario deve verificare se lo strumento elettronico presenta una struttura analoga a quella del MePa, ovvero basata sulla prequalificazione degli operatori. Nel caso ad esempio della piattaforma Sintel, sistema che consente di gestire anche procedure ordinarie, al momento, per la registrazione e la qualificazione per i diversi acquirenti pubblici, non è obbligatorio per gli operatori economici presentare alcuna dichiarazione in ordine al possesso dei requisiti.
In questi casi, pertanto, dove le procedure telematiche non presentano un bando di abilitazione o albo fornitori vero e proprio, o nel caso di procedure aperte, diventa difficile poter sostenere che l’art. 36, comma 6-bis sia applicabile, rimanendo in capo alla Stazione Appaltante l’onere di verificare anche il possesso dei requisiti di cui all’art. 80 del codice (22.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa formazione obbligatoria in materia di anticorruzione, trasparenza, privacy e codici di comportamento.
Domanda
La formazione in materia di anticorruzione, trasparenza e privacy è obbligatoria in ogni anno? È possibile prevederla ad anni alterni?
Risposta
Gli obblighi di formazione in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, sono previsti da specifiche disposizioni, contenute nell’articolo 1, della legge 06.11.2012, n. 190 (cd Legge Severino). In particolare, meritano l’attenzione degli operatori:
   • il comma 5, lettera b);
   • il comma 8;
   • il comma 10, lettera c);
   • il comma 11.
In materia di attività formative è necessario, inoltre, tenere a mente anche il contenuto dell’articolo 15, comma 5, del decreto Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62
[1], che testualmente recita:
5. Al personale delle pubbliche amministrazioni sono rivolte attività formative in materia di trasparenza e integrità, che consentano ai dipendenti di conseguire una piena conoscenza dei contenuti del codice di comportamento, nonché un aggiornamento annuale e sistematico sulle misure e sulle disposizioni applicabili in tali ambiti.
Sull’argomento è intervenuta in più occasioni anche l’ANAC
[2], ribadendo che la formazione riveste un ruolo strategico nella prevenzione della corruzione e deve essere rivolta al personale dipendente, prevedendo due livelli differenziati:
   a) livello generale, rivolto a tutti i dipendenti: riguardante l’aggiornamento delle competenze e le tematiche dell’etica e della legalità;
   b) livello specifico, rivolto al responsabile della prevenzione, ai referenti, ai componenti degli organismi di controllo, ai dirigenti e funzionari addetti alle aree di rischio. In questo caso la formazione dovrà riguardare le politiche, i programmi e i vari strumenti utilizzati per la prevenzione e tematiche settoriali, in relazione al ruolo svolto da ciascun soggetto dell’amministrazione.
Ogni ente, nell’apposito capitolo dedicato alla formazione del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), dovrà quantificare le ore/giornate annue dedicate allo svolgimento dell’attività formativa, definendo anche le categorie di lavoratori a cui la stessa viene indirizzata.
Per quanto riguarda il Livello Generale, è possibile valutare l’opzione di erogare la formazione anche con cadenza biennale, a tutto il personale, mentre la formazione di Livello Specifico è necessario che venga prevista per ogni anno, nei confronti di tutte le figure che intervengono nell’attuazione delle misure previste in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza.
Le modalità su come si sia svolta l’attività formativa nell’ente, risultano oggetto di una specifica sezione della Relazione che deve essere compilata e pubblicata nel sito web, da parte del Responsabile prevenzione corruzione e trasparenza (RPCT).
Se si affronta la questione della trasparenza e degli obblighi di pubblicità, occorre, necessariamente, ragionare anche di tutela dei dati personali. In particolare ciò è necessario dopo la piena attuazione del Regolamento (UE) n. 2016/679, che è decorsa dal 25.05.2018.
Così come previsto dall’articolo 32, paragrafo 4, del medesimo Regolamento, occorre prevedere un obbligo di formazione per tutte le figure (dipendenti e collaboratori) presenti nell’organizzazione degli enti.
Sono direttamente interessati alla formazione:
   1. i Responsabili del trattamento;
   2. i Sub-responsabili del trattamento;
   3. gli incaricati del trattamento;
   4. il Responsabile Protezione Dati.
Una efficace attività formativa in materia di privacy costituisce un tassello rilevante del sistema di gestione della tutela dei dati personali, in grado di dare concretezza al principio di accontuability, inteso come capacità di dimostrare di aver adottato misure di sicurezza idonee ed efficaci.
Le Pubbliche amministrazioni, pertanto, dovranno organizzarsi per:
   • pianificare un percorso di formazione per tutte le figure coinvolte, inserendolo nel Piano Formativo annuale, tenendo conto della struttura dell’ente, i profili organizzativi, le finalità di ciascun corso, la possibilità di associare, con altri enti, l’attività formativa;
   • prevedere idonee risorse in sede di approvazione del bilancio;
   • prevedere prove finali di verifica del percorso formativo e sessioni di aggiornamento sulla base delle modifiche normative, organizzative e tecniche che interverranno;
   • stabilire aree di priorità nell’attività formativa partendo –ad esempio– dal Responsabile Protezione dei Dati (RPD) e dai suoi collaboratori; dalle figure apicali presenti nell’ente; i neo assunti; gli amministratori di sistema e tutto il personale autorizzato al trattamento.
Negli enti locali, la formazione in materia di privacy deve essere integrata con la digitalizzazione dei processi, con la riforma del Codice di Amministrazione digitale, con i codici di comportamento degli enti e con le ultime recenti novità normative in materia di trasparenza, prevenzione della corruzione, Foia e whistleblowing.
La formazione non deve essere considerata un mero adempimento burocratico, ma un’opportunità per:
   • rendere consapevoli gli operatori dei rischi connessi al trattamento dei dati, delle misure di sicurezza;
   • migliorare i processi organizzativi e i servizi erogati;
   • evitare danni reputazionali;
   • ridurre i rischi di sanzioni amministrative e rendere più competitiva l’organizzazione.
Riassumendo:
   a) la formazione in materia di prevenzione della corruzione, trasparenza e privacy è obbligatoria per ogni anno e le eventuali relative spese stanno fuori da tutti i tetti per la formazione;
   b) le ore/giornate annue vanno indicate nel PTPCT;
   c) è possibile valutare (indicandolo nel Piano) di somministrare la formazione di Livello generale ad anni alterni.
Da ultimo si sottolinea che anche l’Aggiornamento al PNA del 2018
[3], ribadisce che "sarebbe necessario garantire una maggiore formazione, a tutti i livelli, in materia di prevenzione della corruzione e della trasparenza”.
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[1] Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
[2] Delibera n. 72/2013; Determinazione n. 12 del 28/10/2015, paragrafo 5.
[3] Delibera ANAC n. 1074 del 21.11.2018
(21.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Assunzione spese registrazione atto costitutivo e statuto associativo.
Di norma l’onere derivante dalle spese di registrazione di scritture private, quali sono l’atto costitutivo e lo statuto di un’associazione, ricade su tutti i contraenti.
La circostanza che il Comune –il quale ha partecipato, unitamente ad altri soci fondatori, alla costituzione di un’associazione culturale non riconosciuta e senza fini di lucro– abbia stabilito di assumere integralmente le spese predette sembra configurare, nella sostanza, la concessione di un vantaggio economico, la cui disciplina generale si rinviene nell’art. 12 della L. 241/1990.

Il Comune, che ha formalmente aderito, in qualità di socio fondatore
[1], alla costituzione di un’associazione culturale non riconosciuta e senza fini di lucro, chiede un parere in merito alla possibilità dell’assunzione integrale, a carico dell’Ente, delle spese di registrazione degli atti fondativi dell’associazione (peraltro prevista dall’art. 8 della bozza di atto costitutivo dell’associazione, approvata, unitamente alla bozza di statuto, con deliberazione della Giunta comunale [2]), senza successiva rivalsa sulle risorse proprie della stessa.
Occorre, anzitutto, ricordare che l’attività consultiva cui è preposto questo Ufficio è volta a fornire un supporto all’Ente locale richiedente per le determinazioni che lo stesso è tenuto ad assumere nell’ambito della propria discrezionalità, che deve essere esercitata entro i limiti di legge, nonché alla luce delle proprie previsioni regolamentari in materia.
Ciò posto, auspicando di poter coadiuvare il Comune nella risoluzione della problematica rappresentata, questo Ufficio, sentito il Servizio finanza locale, delinea di seguito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Premesso che, di norma, l’onere derivante dalle spese di registrazione di scritture private (quali sono gli atti di cui si discute) ricade su tutti i contraenti, la circostanza che il Comune abbia stabilito di assumerle integralmente sembra configurare, nella sostanza, la concessione di un vantaggio economico, la cui disciplina generale si rinviene nell’art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241.
Tale norma dispone che «La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.» (comma 1), prescrivendo poi che «L’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1.» (comma 2).
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa rileva che:
   - la norma riveste carattere di principio generale dell’ordinamento giuridico ed in particolare della materia che governa tutti i contributi pubblici, la cui attribuzione deve essere almeno regolata da norme programmatorie che definiscano un livello minimo delle attività da finanziare
[3];
   - ai fini dell’adozione di provvedimenti volti a concedere sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., le pubbliche amministrazioni si devono attenere ai criteri e alle modalità stabiliti con proprio regolamento, poiché sia la predeterminazione di detti criteri, sia la dimostrazione del loro rispetto in sede di concessione dei benefici mirano ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa
[4] e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l’attività di erogazione della pubblica amministrazione deve in ogni caso rispondere a elementi oggettivi [5];
   - la predeterminazione dei criteri concernenti la destinazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, oltre a costituire corollario del principio generale di trasparenza, rappresenta la declinazione in via amministrativa delle finalità (politico-sociali o politico-economiche) che l’intervento pubblico intende perseguire
[6].
Va, al contempo, evidenziato che una Sezione regionale della Corte dei conti, con orientamento costante, afferma che in base alle norme e ai princìpi della contabilità pubblica non è rinvenibile alcuna disposizione che precluda all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, il finanziamento, anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo
[7].
Ad ogni modo, la stessa Sezione della Corte dei conti precisa che «gli enti locali possono deliberare contributi a favore di soggetti terzi in relazione alle iniziative ritenute utili per la comunità amministrata nel rispetto, in concreto, dei principi che regolano il legittimo e corretto svolgimento delle proprie potestà discrezionali, determinati proprio dall’articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241»
[8].
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[1] Al medesimo titolo sono intervenute ulteriori dieci parti, delle quali alcune a titolo personale ed altre in rappresentanza di associazioni locali già costituite.
[2] Con la medesima deliberazione il Sindaco ha ricevuto mandato per la sottoscrizione dei detti atti fondativi ed è stato autorizzato ad apportarvi le modifiche non sostanziali che si fossero rese eventualmente necessarie.
[3] Consiglio di Stato – Sez. V, sentenze 17.03.2015, n. 1373 e 23.03.2015, n. 1552.
[4] La finalità viene perseguita anche dall’art. 26 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e dall’art. 1, commi 125-129, della legge 04.08.2017, n. 124, come sostituiti dall’art. 35, comma 1, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34.
[5] TAR Puglia–Lecce, Sez. II, sentenza 25.10.2011, n. 1842.
[6] TAR Lombardia–Milano, Sez. III, sentenza 05.05.2014, n. 1142.
[7] Sez. reg. contr. Lombardia, pareri n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012, n. 218/2014, n. 248/2014, n. 262/2014, n. 79/2015, n. 121/2015 e n. 362/2017.
[8] Sez. reg. contr. Lombardia, parere n. 146/2019
(20.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALITardiva approvazione rendiconto.
Domanda
Sono assessore al bilancio di un comune di 3600 abitanti. Per una serie di ragioni riconducibili al turn over del personale del settore finanziario il mio ente deve ancora approvare il Rendiconto del 2018.
Essendo decorso il termine del 30 aprile, quali conseguenze ed effetti può avere tale ritardo? E’ prevista qualche sanzione specifica?
Risposta
Come ricordato dal lettore nel suo quesito, il termine per l’approvazione del rendiconto di esercizio è fissato dall’art. 227 del TUEL al 30 aprile dell’anno successivo a quello di riferimento. Il comma 2-bis di detto articolo, introdotto dal d.l. 174 del 2012 ha esteso l’applicazione del regime sanzionatorio, già previsto per la mancata approvazione del bilancio di previsione entro la scadenza di legge, al mancato rispetto del suddetto termine. La sanzione è contenuta all’art. 141, che si occupa delle ipotesi di scioglimento e di sospensione dei consigli comunali e provinciali.
Il comma 2 dell’articolo prevede testualmente che: “(…) trascorso il termine entro il quale il bilancio deve essere approvato senza che sia stato predisposto dalla giunta il relativo schema, l’organo regionale di controllo nomina un commissario affinché lo predisponga d’ufficio per sottoporlo al consiglio. In tal caso, e comunque quando il consiglio non abbia approvato nei termini di legge lo schema di bilancio predisposto dalla giunta, l’organo regionale di controllo assegna al consiglio, con lettera notificata ai singoli consiglieri, un termine non superiore a venti giorni per la sua approvazione, decorso il quale si sostituisce, mediante apposito commissario, all’amministrazione inadempiente. Del provvedimento sostitutivo è data comunicazione al prefetto che inizia la procedura per lo scioglimento del consiglio”.
La sanzione è pertanto assai grave; tuttavia lo scioglimento del consiglio non è certo automatico. Esso è l’ultimo atto di una procedura piuttosto lunga e articolata che richiede che si verifichino due condizioni: il decorso del termine del 30 aprile e la mancata approvazione dello schema di bilancio (in tale caso di rendiconto) da parte della Giunta comunale. Che cosa si deve intendere per schema di rendiconto? Per il bilancio di previsione non vi sono dubbi: a chiarirlo è l’art. 174 del TUEL che stabilisce che la competenza alla sua predisposizione (e approvazione) è dell’organo esecutivo. Ma per il rendiconto? L’art. 227 non dice nulla in merito. Si può fare allora riferimento alla relazione sulla gestione di cui all’art. 231 che, a norma dell’art. 151, comma 6 del TUEL compete all’organo esecutivo.
È pertanto da verificare innanzitutto se tale relazione sia stata approvata o meno dalla giunta con proprio atto deliberativo. I venti giorni assegnati dalla Prefettura quale ulteriore termine per approvare il rendiconto decorrono dalla data di notifica ai singoli consiglieri. Questa dipende dai tempi della Prefettura e segue, di norma, la richiesta a tutti gli enti ricadenti nel territorio di propria competenza, da parte di quest’ultima, dell’avvenuta (o meno) approvazione del rendiconto. Solo dopo aver avuto riscontro a tale richiesta ordinaria la Prefettura ha piena contezza degli enti inadempienti e potrà avviare la procedura sopra illustrata.
Ulteriore sanzione è prevista dall’art. 243, comma 6, lett. b), del TUEL: la mancata approvazione del rendiconto entro i termini di legge determina per gli enti inadempienti la condizione di enti strutturalmente deficitari. Come tali essi sono assoggettati ai controlli centrali in materia di copertura del costo di alcuni servizi. Detta condizione cessa con la sopravvenuta approvazione del rendiconto, sebbene tardiva.
Infine si segnala che sul tema si è pronunciata di recente anche la Corte dei conti. In particolare lo hanno fatto la Sezione Lombardia con deliberazioni n. 10/2018/PRSE e n. 32/2019/PRSE, la Sezione Molise con propria deliberazione n. 67 del 19/04/2019 e la Sezione Sicilia con propria deliberazione n. 86 del 19/04/2019.
Rinviando ad una loro lettura e disamina, si evidenzia qui come, in particolare la sezione lombarda, abbia rimarcato l’importanza di rispettare il termine del 30 aprile in quanto il rendiconto “(…) costituisce un imprescindibile riferimento per gli eventuali interventi sulla gestione in corso d’esercizio e per la successiva programmazione finanziaria” (20.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto di accesso di un consigliere al sistema informatico comunale.
L’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al protocollo informatico dell’Ente è uno strumento consentito ai consiglieri comunali, finalizzato a favorire la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa.
Peraltro, la determinazione delle modalità organizzative attraverso le quali viene garantito l’accesso ai consiglieri comunali rientra tra le prerogative di esclusiva competenza dell’Amministrazione.

Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso spettante ai consiglieri comunali. Più in particolare, premesso che un amministratore locale ha richiesto all’Ente l’accesso, tramite apposita password, al sistema informatico comunale “al fine di acquisire tempestivamente le informazioni necessarie all’espletamento del proprio mandato elettivo”, chiede se la consultazione del protocollo generale comunale debba limitarsi ad una presa visione generale dello stesso eventualmente seguita da una richiesta specifica e mirata di determinati atti/documenti o se tale consultazione già, ab origine, possa comprendere la presa visione di tutti gli atti e documenti allegati, ancorché relativi ad attività endoprocedimentali.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali è disciplinato all’articolo 43 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale, al comma 2, riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili devono considerare l’esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l’acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di quel collegio
[1].
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è quindi esercitato riguardo ai dati utili per l’esercizio del mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata all’interesse all’accesso del titolare di tale funzione pubblica, legittimandolo all’esame e all’estrazione di copia dei documenti che contengono le predette notizie e informazioni
[2].
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni sottese all’istanza di accesso, né a compiere alcuna valutazione circa l’effettiva utilità della documentazione richiesta ai fini dell’esercizio del mandato. A tale riguardo il Ministero dell’Interno ha evidenziato che “diversamente opinando, la P.A. assumerebbe il ruolo di arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato
[3].
Il diritto di accesso spettante agli amministratori locali, pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità dei cittadini ai sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n. 241, incontra il divieto di usare i documenti per fini privati o comunque diversi da quelli istituzionali, in quanto i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità collegate all’esercizio del mandato (presentazione di mozioni, interpellanze, espletamento di attività di controllo politico-amministrativo ecc.). Il diritto di accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto riferito ad atti palesemente inutili ai fini dell’espletamento del mandato.
[4]
Ancora è stato affermato che le richieste di accesso devono essere esercitate con modalità e forme tali da evitare intralci all’ordinario svolgimento dell’attività degli Uffici. Su questa linea la giurisprudenza ha specificato che: “Il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico
[5].
Con riferimento specifico alla richiesta di accesso al protocollo generale dell’Ente si è espresso il TAR Sardegna
[6] affermando che “deve essere accolta la richiesta dei consiglieri comunali di prendere visione del protocollo generale […] senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i Consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto, ai sensi dell’art. 43, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267”.
Anche il Ministero dell’Interno, nell’affrontare questioni analoghe a quella in esame, si è, anche di recente, espresso in termini favorevoli all’accesso rilevando, in particolare, che: “Anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto – ai sensi del citato articolo 43 del decreto legislativo n. 267/2000
[7].
Con specifico riferimento al protocollo informatico comunale la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nel parere del 22.02.2011 ha rilevato che “ai sensi della vigente normativa […] ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo informatico, al quale possono poi liberamente accedere i consiglieri comunali, i quali pertanto –tramite tale protocollo– possono prendere visione di tutte le determinazioni e le delibere adottate dall’ente; ciò in ottemperanza al principio generale di economicità dell’azione amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi
[8].
Le conclusioni di cui sopra sono state fatte proprie anche dal Ministero dell’interno
[9] il quale, investito della questione del diritto di accesso al sistema informativo comunale da parte dei consiglieri ha richiamato le determinazioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi tra cui quella secondo cui “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.UOEL) [10].
Preme, tuttavia, osservare che l’accesso come sopra configurato consentirebbe ai consiglieri di conoscere una moltitudine di dati personali e di informazioni anche aventi natura riservata e/o relative a determinate situazioni che esigono una dovuta tutela al fine di scongiurare una diffusione incontrollata di dati sensibili o comunque, la cui conoscenza, potrebbe essere fonte di disagio sociale
[11].
Come rilevato dall’Anci, “l’accesso diretto non può, però, essere esteso alla consultazione dei singoli atti anche per la presenza nei registri del protocollo di atti soggetti al segreto istruttorio o di atti personali o riservati la cui visione è un diritto del consigliere, comunque soggetta a valutazione da parte dell’amministrazione
[12].
In altri termini si potrebbe affermare che, ferme le considerazioni sopra espresse circa l’ampiezza del diritto di accesso spettante ai consiglieri comunali, occorrerebbe altresì considerare che “la determinazione delle modalità organizzative attraverso le quali viene garantito l’accesso ai Consiglieri comunali rientra tra le prerogative di esclusiva competenza dell’Amministrazione che dovranno evitare sia surrettizie limitazioni del diritto di accesso che aggravi ingiustificati al buon funzionamento dell’amministrazione
[13].
In questa direzione pare muoversi la recente sentenza del TAR Sardegna
[14] la quale, pur riconoscendo il diritto dei consiglieri comunali all’ottenimento delle chiavi di accesso al protocollo informatico dell’Ente, ha limitato tale diritto alla visione dei soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica.
Afferma, in particolare, detto TAR che “la richiesta di accedere al protocollo informatico, e quindi di essere in possesso delle chiavi di accesso telematico rappresenta una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per l’esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti dell’amministrazione comunale […] ma mediante una selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l’esibizione. Peraltro, una delle modalità essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo”.
Quanto, infine, all’accessibilità anche degli atti endoprocedimentali il Ministero dell’Interno ha rilevato che «salvo espressa eccezione di legge, ai consiglieri comunali non può essere opposto alcun divieto, determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo alla loro funzione visto, peraltro che ai sensi dell’art. 22, c. 1, lett. d), della legge n. 241/1990 anche gli atti interni rientrano nel concetto di “documento amministrativo”, indipendentemente dalla loro eventuale idoneità probatoria»
[15].
Riconosciuto, pertanto, il diritto di accesso dei consiglieri comunali nell’accezione sopra descritta, il Ministero dell’Interno ha ribadito, in varie occasioni, che “Fatto salvo il diritto dei consiglieri, la materia, comunque, dovrebbe trovare apposita disciplina regolamentare di dettaglio per il suo esercizio
[16].
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[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994, n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei documenti spetta “a qualunque cittadino che vanti un proprio interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute nella più ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione spettante ratione officii al consigliere comunale”. Tale principio è stato successivamente ripreso e confermato dal TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del 31.07.2009, n. 5879.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[4] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza del 23.09.2014, n. 2363.
[5] TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza del 13.11.2012, n. 2040.
[6] TAR Sardegna, sez. II, sentenza del 12.01.2007, n. 29.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 28.06.2018. Nello stesso senso si veda, anche, il parere del Ministero dell’Interno del 21.08.2018.
[8] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, plenum del 22.02.2011. La medesima Commissione in altra occasione (plenum del 23.10.2012) ha affermato che: “Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria attività amministrativa dell’ente locale, questa Commissione ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di servizio (fra gli ultimi, cfr. parere del 29.11.2009) e, più recentemente, anche al protocollo informatico”.
Si veda, altresì, il parere espresso dalla medesima Commissione del 03.02.2009 ove si afferma che: “Il ricorso a supporti magnetici o l’accesso diretto al sistema informatico interno dell’Ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa”.
[9] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[10] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, seduta plenaria del 16.03.2010.
[11] Osservazioni tratte da M. Lucca, “L’accesso al protocollo da parte del consigliere comunale”, reperibile sul seguente sito internet: www.mauriziolucca.com
[12] ANCI, parere del 19.06.2018.
[13] ANCI, parere del 19.06.2018, citato anche in nota 12.
[14] TAR Sardegna, Cagliari, sentenza del 31.05.2018, n. 531. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Toscana, Firenze, sentenza del 22.12.2016, n. 1844.
[15] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[16] Tra gli altri si veda Ministero dell’Interno parere del 28.06.2018
(15.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTI: Sulla esclusione delle imprese da gare pubbliche per pregresse condotte che integrano illeciti anticoncorrenziali (parere 06.08.2018-424435 - AL 27806/2018 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Con la nota indicata a margine, codesto Ufficio - richiestone da Consip S.p.A. - ha posto alla scrivente alcuni quesiti relativi alla rilevanza, quale motivo di esclusione dalla partecipazione alle procedure di gara per l’affidamento di contratti pubblici, di pregresse condotte delle imprese che integrano illeciti anticoncorrenziali.
Si chiede in primo luogo di conoscere - alla luce del pertinente quadro normativo e delle Linee guida pubblicate dall’ANAC - se, al fine anzidetto, la stazione appaltante debba valutare esclusivamente le condotte accertate con provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato divenuto inoppugnabile o confermato, quanto meno nella direzione di accertamento dell’illecito, con sentenza passata in giudicato, ovvero se possano avere rilievo anche illeciti che non siano divenuti già incontestabili da parte delle imprese interessate («primo quesito»).
In secondo luogo - e in relazione a una limitazione, in tal senso, contenuta nelle vigenti Linee guida dell’ANAC - si chiede di conoscere, anche con specifico riferimento a un recente cartello anticoncorrenziale accertato dall’AGCM, se, ai fini suddetti, debba esserci integrale coincidenza tra il mercato rilevante nel cui contesto si è realizzato l’illecito antitrust e mercato oggetto del contratto da affidare («secondo quesito»). (...continua).
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(parere 26.11.2018-606595 - AL 27806/2018 -
Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
Con nota prot. 424435/6 P del 06.08.2018, che si unisce in copia, la scrivente, in risposta alla nota indicata a margine, ebbe a rendere un parere sulla questione in oggetto [Illeciti antitrust gravi ex art. 80, comma 5, lett. c) del Codice dei contratti pubblici nelle posizioni di ANAC e AGCOM, ndr], relativamente -tra l’altro- alla operatività, quale motivo di esclusione dalle procedure di gara per l’affidamento di contratti pubblici, di pregresse condotte delle imprese che integrano illeciti anticoncorrenziali.
Nell’occasione, si è sostenuto che era da condividere la soluzione contenuta nelle Linee guida n. 6, non vincolanti, approvate dall’ANAC con delibera n. 1293 del 16.11.2016, secondo la quale l’accertamento definitivo dell’illecito antitrust -conseguente alla mancata impugnazione del provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che lo ha accertato o al passaggio in giudicato della decisione del giudice amministrativo di rigetto del ricorso dell’impresa interessata- non è condizione necessaria per disporre l’esclusione dell’impresa dalle gare. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Presidenza al vicesindaco se è consigliere. L’assessore esterno non può guidare l’assemblea non facendone parte.
È possibile affidare la carica di vice presidente del Consiglio comunale al vice sindaco, assessore esterno, in un comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti? Il vice sindaco facente funzioni può assumere il ruolo di presidente della commissione elettorale comunale e partecipare alle relative operazioni?
In merito al primo quesito, l'art. 64, comma 3, del Tuel (dlgs n. 267/2000), prevede che, nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto riguarda le funzioni di presidente del consiglio comunale, l'art. 39, comma 3, del citato dlgs prevede che nei comuni sino a 15 mila abitanti le stesse siano svolte dal sindaco, «salvo differente previsione statutaria», mentre il comma 1, stabilisce che le funzioni vicarie del presidente del consiglio, quando lo statuto non dispone diversamente, siano esercitate dal consigliere anziano. La normativa statale, pertanto, anche in carenza di specifiche disposizioni dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio.
Nel caso di specie, lo statuto del comune attribuisce al sindaco il potere di presiedere il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il consigliere anziano sia assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la presidenza è assunta dal consigliere che, nella graduatoria di anzianità… occupa il posto immediatamente successivo». Anche il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza in capo al sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di assenza o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice sindaco e ove questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di età. La disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma statutaria.
Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria dovrebbe essere prevalente sulla norma regolamentare.
Tuttavia, circa la possibilità, nei comuni fino a 15 mila abitanti, di far presiedere il consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vice sindaco non consigliere comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del 21.02.1996 (richiamato dal successivo parere n. 501 del 14.06.2001) (con riferimento all'estensione dei poteri del vice sindaco) ha affermato che il vice sindaco può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del consiglio comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di consigliere comunale. Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nella fattispecie in esame, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un soggetto che non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova adeguata soluzione nell'orientamento del Consiglio di Stato, espresso con pareri n. 94/1996 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che, nella sostanza, hanno avallato la linea interpretativa già seguita, in materia, dal ministero dell'interno.
In particolare l'Alto Consesso, rilevando che le funzioni del sindaco sospeso vengono svolte dal vice sindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che in caso di vicarietà, nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta confortata da riflessioni di carattere sistematico, poiché la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza medesima. Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse pubblico, è necessario riconoscere al vicesindaco reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in ordine alla specifica fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223, all'articolo 14, stabilisce che la commissione elettorale comunale è presieduta dal sindaco e in caso di assenza, impedimento o cessazione dalla carica, dall'assessore delegato o dall'assessore anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso dalle funzioni di ufficiale del governo, la commissione è presieduta dal commissario prefettizio incaricato di esercitare tali funzioni.
Nel caso di specie, alla luce delle disposizioni di cui al Tuel, dunque, il vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione elettorale in sostituzione del sindaco assente
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).

PATRIMONIO: Accordo (ex art. 15, l. 241/1990) tra una p.a. ed un ente pubblico economico per la concessione in uso di beni pubblici, presupposti e condizioni (parere 06.07.2018-363198, AL 19666/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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A) Con nota del 14.04.2017 codesta Amministrazione chiedeva alla Scrivente di esprimere il proprio parere in ordine alla possibilità di interpretare in via estensiva il comma 233 dell’art. 4 della L. n. 350/2003, recante disposizioni in materia di concessioni di spazi in comodato d’uso gratuito a favore delle amministrazioni pubbliche, al fine di verificare la possibilità di applicare tale disciplina nei confronti di ENIT - Ente nazionale italiano del turismo.
Il problema si poneva in quanto, a seguito della trasformazione di ENIT in ente pubblico economico, questo aveva perso il carattere di “amministrazione pubblica”, che costituisce il requisito indispensabile per poter accedere alla disciplina di cui al comma 233 citato. Tale disposizione infatti prevede la possibilità, per gli uffici all’estero, di concedere in comodato d’uso gratuito spazi a favore delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs n. 165/2001. (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Il rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n. 67/1997) in “un caso” di procedimento civile conclusosi in rito (parere 15.06.2018-321483, AL 28649/2016 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Con riferimento al quesito posto da codesta Avvocatura distrettuale in relazione all’istanza di rimborso in oggetto, esaminati gli atti, si osserva quanto segue.
Come è noto l’art. 18 del D.L. 25.03.1997, n. 67, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 23.05.1997, n. 135, così recita: “le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'avvocatura dello Stato. le amministrazioni interessate, sentita l'avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”.
Dunque la rimborsabilità delle spese legali affrontate da un dipendente pubblico in occasione di un procedimento giudiziario a suo carico presuppone non solo che l’agire incriminato sia strumentalmente connesso al diligente espletamento della pubblica funzione, come ripetutamente posto in luce dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.04.2005, n. 2041), ma anche ... (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Il (non) rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n. 67/1997) in caso di decreto di archiviazione per remissione della querela (parere 21.05.2018-269433, AL 43341/2016 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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In riscontro alla nota sopra indicata, relativa alla richiesta avanzata dal nominato in oggetto, questa Avvocatura non ritiene sussistere il diritto al rimborso delle spese giudiziali, ex art. 18 D.l. n. 67/1997, convertito in legge n. 135/1997.
Nel caso di specie, infatti, il decreto di archiviazione non ha escluso la responsabilità del Prof. (..) esaminando nel merito le imputazioni, come invece richiesto dall'art. 18 tenuto conto che il decreto è stato disposto esclusivamente per ragioni di rito, senza che sia stata effettivamente esclusa, con certezza, la responsabilità in ordine ai fatti addebitati ... (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALI: Modalità di applicazione della sospensione di diritto dalla carica elettiva ex art. 11, d.lgs 31.12.2012 n. 235 (parere 11.05.2018-253361-253362, AL 24089/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Con le note alle quali si fa riscontro codesto Ministero ha chiesto un parere in merito all'interpretazione dell'art. 11 del D.Lgs. n. 235 del 31.12.2012 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190), rappresentando che il dr. (...), allorché rivestiva la carica di Assessore e Vicesindaco del Comune di (...), era stato condannato per il reato di abuso d'ufficio di cui all'art. 323 del codice penale, con sentenza non definitiva del 10.11.2016; conseguentemente il Prefetto di Reggio Calabria, con decreto del 12.11.2016, aveva accertato nei suoi confronti l'esistenza di una causa di sospensione di diritto dalla carica, ai sensi dei commi 1 e 5 del predetto art. 11.
La consiliatura nel corso della quale la sospensione aveva operato si era, però, interrotta, a seguito della sospensione del Consiglio comunale, con provvedimento prefettizio del 23.12.2016, e del suo successivo scioglimento, disposto con d.P.R. 03.02.2017, adottato ai sensi dell'art. 141, comma 1, lettera b), n. 4), del D.Lgs. 235/2012.
Poiché l'interessato si era candidato alla carica di Sindaco dell'ente nelle successive consultazioni amministrative dell'11.06.2017, codesto Ministero, rilevando che, nell'eventualità in cui egli fosse risultato eletto, il Prefetto avrebbe dovuto adottare un nuovo provvedimento accertativo dell'esistenza di una temporanea causa ostativa all'espletamento del mandato, ha formulato, nella richiesta di parere, i seguenti due quesiti: ... (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Il rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n. 67/1997) solo in caso di esercizio dei compiti istituzionali espletati “senza violazione di doveri e senza conflitto di interessi con l’amministrazione” (parere 18.12.2017-602712, AL 26925/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Con riferimento all’istanza di rimborso in oggetto, preso atto del parere sfavorevole espresso da codesta Amministrazione, si osserva quanto segue.
Com’è noto l’art. 18 della legge 23.05.1997, n. 135 richiede, per il rimborso, che le spese legali siano relative a “giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti o atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali”.
Va osservato che la “ratio” del rimborso è quella di tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse, dell’Amministrazione, dalle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari relativi agli atti connessi all’espletamento dei compiti istituzionali.
In questo senso, è possibile imputare gli effetti degli atti del dipendente direttamente all’amministrazione di appartenenza solo quando risulti che l’agire incriminato di questi sia strettamente strumentale al regolare e diligente adempimento dei compiti istituzionali di servizio, vi sia quindi coincidenza di posizioni e non si concreti invero un conflitto di interessi con l’Amministrazione di appartenenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.04.2005, n. 2041). (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Il (non) rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n. 67/1997) in caso di assoluzione da parte del giudice penale per la particolare tenuità della condotta in contestazione (parere 13.12.2017-595824, AL 38066/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Il dipendente indicato in oggetto ha presentato istanza diretta ad ottenere il rimborso delle spese di difesa sostenute nell’ambito del procedimento penale per il reato militare di truffa militare continuata e pluriaggravata, definito con sentenza di assoluzione della Corte militare di appello di Roma, che, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, assolveva il militare perché il fatto non sussiste, con la seguente precisazione “.. pur ritenendo provata la condotta in contestazione ma avendo tuttavia a riferimento la pochezza della fattispecie sottoposta ad esame ..”.
Il militare ha allegato alla domanda, nota spese predisposta dal proprio legale per un importo complessivo di euro 20.898,00 (importo comprensivo di CPA ed IVA).
La scala gerarchica e codesta Amministrazione hanno espresso parere sfavorevole al rimborso, precisando che gli aspetti disciplinari della vicenda sono ancora al vaglio dell’Amministrazione, in attesa della definizione di un procedimento penale avviato dalla procura della Repubblica di Crotone per i reati di falsità materiale ed ideologica commessa da p.u. in atti pubblici e rifiuto di atti legalmente dovuti, sempre con riferimento ai medesimi fatti esaminati dai giudici militari. (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Il rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n. 67/1997) solo in caso di procedimenti giudiziari conseguenti ad atti compiuti o connessi all’espletamento dei compiti istituzionali (parere 11.12.2017-591316, AL 39953/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Il dipendente indicato in oggetto ha presentato istanza diretta ad ottenere il rimborso delle spese di difesa sostenute nell’ambito del procedimento penale per i reati di “insubordinazione con minaccia ed ingiuria continuate”, definito con sentenza resa dal Tribunale militare di Roma che, con sentenza confermata dalla Corte di Appello militare, ha assolto il militare perché il fatto non sussiste. Il dipendente ha allegato alla domanda una fattura predisposta dal legale che ha patrocinato il giudizio nei due gradi, per l’importo complessivo di € 900,85 (comprensivi di CPA ed IVA).
Risulta che a seguito dei fatti oggetto di contestazione in sede penale è stato adottato provvedimento sanzionatorio ministeriale di perdita del grado per rimozione, ai fini della responsabilità disciplinare. L’amministrazione di appartenenza ha espresso perplessità in merito alla spettanza del rimborso, non ritenendo sussistenti i requisiti richiesti dalla norma. (...continua).

LAVORI PUBBLICI: Gara pubblica, sulla regolarizzazione postuma della posizione previdenziale di un impresa subentrata in seguito a scorrimento della graduatoria (parere 05.12.2017-583778, AL 43320/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Con riferimento alla richiesta di parere formulata da codesta Amministrazione il 20.10.2017, si comunica quanto segue.
Codesto Provveditorato ha bandito la gara per la progettazione esecutiva e l'esecuzione dei lavori di realizzazione di efficientamento energetico ed uso di fonti rinnovabili sull'edificio H, presso la Caserma del Carabinieri "Salvo D'Acquisto" in Roma. La procedura di gara prescelta è stata quella dell’offerta economicamente più vantaggiosa, conclusasi in data 08.04.2015 con l’aggiudicazione provvisoria al Consorzio I.
Avverso l’aggiudicazione l’impresa C., seconda classificata, ha proposto ricorso dinanzi al TAR Lazio.
Con sentenza n. 6527/2016, depositata il 07.06.2016 il TAR ha accolto la domanda disponendo l’aggiudicazione dell’appalto all’impresa ricorrente.
Avverso tale pronuncia, il Consorzio Stabile I. ha proposto ricorso in appello al Consiglio di Stato che, con sentenza n. 5475/2016 del 28 dicembre 2016 ha rigettato il gravame.
Al fine di procedere alla stipula del contratto con la C., codesto Provveditorato ha richiesto, in data 25.06.2017 un nuovo DURC nel frattempo scaduto.
Tale documento è risultato “NON REGOLARE”.
All’impresa veniva, pertanto, richiesta la regolarizzazione (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CISANO BERGAMASCO (Bergamo) - art. 167 decreto legislativo n. 42 del 2004 - demolizione manufatto in zona paesaggisticamente vincolata e rimessione in pristino (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 01.07.2016 n. 19729 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Greve in Chianti (FI). Titoli abilitativi adottati in carenza di presupposta autorizzazione paesaggistica per errata applicazione dell'art. 142, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (MIBAC, nota 29.05.2012 n. 9907 di prot.).
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Si fa riferimento alla nota della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana prot. n. 19786 del 16.12.2011, assunta al protocollo di questo ufficio prot. n. 8686 del 15.05.2011, con la quale si chiedono indicazioni in merito al corretto modo di agire dell'Amministrazione a fronte della situazione verificatasi in diversi Comuni, fra cui quello di Greve in Chianti, ove risultano già realizzati o in corso di realizzazione numerosi interventi costruttivi assentiti con il solo permesso di costruire, rilasciato in difetto della presupposta autorizzazione paesaggistica, a causa di un'errata applicazione, da parte degli Uffici comunali, dell'art. 142, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio. (...continua).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante “l'ordinanza di demolizione non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura vincolata" e “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso ( o) il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso…”.
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In considerazione della natura totalmente vincolata dei provvedimenti di demolizione parimenti infondate sono le ulteriori censure svolte dai ricorrenti in rapporto all’omessa comunicazione di avvio del procedimento di repressione degli abusi edilizi o alla pretesa carenza o insufficienza della motivazione.
Per giurisprudenza costante, infatti, “l'ordinanza di demolizione non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura vincolata" (TAR Campania, Napoli , sez. VII, 15.03.2019, n. 1448; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 11.03.2019 n. 413) e “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso ( o) il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso…” (TAR Puglia, Lecce, Sez. III , 18.02.2019, n. 262; Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.03.2019 , n. 1942).
Parimenti non meritevoli di accoglimento sono, infine, le ultime doglianze esposte dai ricorrenti in rapporto alla pretesa sproporzione della sanzione della demolizione rispetto all’entità degli abusi ed alla asserita riconducibilità delle opere de quibus ad interventi di restauro o risanamento conservativo, realizzabili “in base a semplice SCIA” e, comunque, “assolutamente conformi al tessuto urbanistico di riferimento”.
Tali affermazioni sono del tutto contraddette dalla descrizione delle opere contenuta nei verbali di accertamento e nelle varie determinazioni di demolizione, nonché da quanto rappresentato nelle stesse domande di condono presentate in relazione ad una serie di immobili “monopiano” realizzati man mano nel corso degli anni, anche in aderenza l’uno all’altro, senza alcun titolo e con creazione ex novo di superfici e volumi.
Da qui l’assoluta impossibilità di qualificare le opere de quibus come restauro o risanamento conservativo, la sussumibilità delle stesse nell’alveo degli interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, comma 1, lett. e.1), del DPR n. 380/2001 e la piena congruità della sanzione di demolizione disposta dall’Amministrazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.06.2019 n. 7300 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICARisarcimento dei danni per tardiva definizione del procedimento di rilascio dell'autorizzazione per l'apertura di un centro commerciale.
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Edilizia – Convenzione urbanistica - Interventi attuativi dello strumento di pianificazione - potestà pubbliche che presiede al rilascio di tali titoli – E’ attuazione del programma concordato.
  
Risarcimento danni – Presupposti – Individuazione.
  
Risarcimento danni – Danno da ritardo - Presupposti – Individuazione.
  
Quando viene sottoscritta una convenzione urbanistica che preveda, nel programma negoziale concordato, l’esecuzione di una serie di interventi attuativi dello strumento di pianificazione, a loro volta soggetti a previo rilascio di un titolo amministrativo a natura ampliativa (come l’autorizzazione all’apertura di una grande struttura di vendita), anche l’esercizio delle potestà pubbliche che presiede al rilascio di tali titoli costituisce attuazione del programma concordato (1).
  
In materia di responsabilità della PA, affinchè sorga una obbligazione risarcitoria, è necessario che l’illegittimità del provvedimento della P.A. –anche quando sia posto in violazione di obblighi negoziali- comporti una lesione definitiva della situazione giuridica di cui si chiede tutela, consistente nella perdita di quella determinata utilità di interesse per il privato, il cui ottenimento –o il mantenimento della quale– dipende dall’azione della P.A. (2).
  
I termini di conclusione del procedimento hanno natura ordinatoria; la loro inosservanza non genera, infatti, decadenza dalla titolarità del potere o dal suo esercizio, in forza del principio di naturale continuità dell’azione amministrativa; in compenso, a tutela della parte istante, il procedimento amministrativo è soggetto ad un termine naturale e ragionevole di conclusione (variamente fissato nei regolamenti applicabili a ciascuna fattispecie, o, in mancanza, regolato in via residuale dalla legge) la cui inosservanza, laddove comporti un danno ingiusto a carico dell’istante, obbliga la P.A. al risarcimento, ex art. 2-bis, l. n. 241 del 1990.
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   (1) Da tale principio il Tar ha fatto conseguire che le Amministrazioni responsabili –salvo l’esito del doveroso controllo dei presupposti per il rilascio delle autorizzazioni diversi ed ulteriori da quelli già esaminati ed assolti nell’atto della sottoscrizione del negozio, che a loro volta dipendono dall’adempimento, da parte del privato, dei rispettivi oneri di progettazione dell’intervento– si obbligano a porre in essere il procedimento non solo in virtù del dovere di provvedere già esistente per legge, ma anche in forza della convenzione; pertanto, l’eventuale ritardo nell’esecuzione del doveroso obbligo di provvedere rileverà non più nei termini di una responsabilità ex art. 2043 cod. civ. (come generalmente si ritiene in relazione a tale fattispecie, quando viene in esame in contesti diversi da quelli caratterizzati dall’esistenza di una convenzione), ma nei termini di una responsabilità da inadempimento negoziale, con ogni conseguenza, specie in ordine al regime della prova ex artt. 1176 e 1218 cod. civ. ed in ordine al regime della prescrizione.
   (2) Ha aggiunto il Tar che qualora l’annullamento dell’atto illegittimo di diniego comporti la reviviscenza del procedimento e dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere in ordine ad una fattispecie di interesse legittimo pretensivo, non essendosi ancora concretizzata la perdita dell’utilità dipendente dall’azione della P.A., cui il privato richiedente aspira, non è prospettabile una responsabilità per risarcimento del danno, ad eccezione dei soli profili di lesione derivanti dal ritardo (da valutarsi nei limiti ed alle condizioni di cui all’art. 2-bis, l. n. 241 del 1990) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 05.06.2019 n. 7312 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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IIIa) E’ bene premettere,
in linea generale, che i termini di conclusione del procedimento hanno natura ordinatoria; la loro inosservanza non genera, infatti, decadenza dalla titolarità del potere o dal suo esercizio, in forza del principio di naturale continuità dell’azione amministrativa.
In compenso, a tutela della parte istante,
il procedimento amministrativo è soggetto ad un termine naturale e ragionevole di conclusione (variamente fissato nei regolamenti applicabili a ciascuna fattispecie, o, in mancanza, regolato in via residuale dalla legge) la cui inosservanza, laddove comporti un danno ingiusto a carico dell’istante, obbliga la P.A. al risarcimento, ex art. 2-bis della l. 241/1990 (su tali aspetti si rimanda a TAR Lazio, Roma, II-ter, 05.08.2014, nr. 8608 e richiami in essa contenuti).
Il ricorso trae fondamento, sul punto, dalla premessa secondo la quale la responsabilità da ritardo andrebbe sancita in ogni caso, a prescindere dall’esito del procedimento (o della sua stessa conclusione), essendo il “tempo” un bene autonomamente valutabile in considerazione dell’esigenza che va riconosciuta all’imprenditore di potersi determinare per tempo in ragione di un quadro normativo (quindi anche procedimentale e provvedimentale amministrativo) certo ed affidabile.
La giurisprudenza prevalente resta orientata a ritenere che
l'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento ex art. 2- bis, comma 1, l. n. 241/1990 richiede, ai fini della responsabilità della PA, “la prova circa la spettanza del bene della vita, il cui ottenimento è stato posticipato o pregiudicato dal ritardo doloso o colposo con cui l'Amministrazione ha concluso il relativo procedimento amministrativo (TAR Venezia, sez. III, 31/01/2019, n. 118; TAR Roma, sez. III, 15/01/2019, n. 503; TAR Napoli, sez. III, 08/01/2019, n. 82; TAR Palermo, sez. I, 23/11/2018, n. 2431; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. IV, 15/01/2019, n.358 che richiama Cassazione, Sezioni unite civili, ordinanza 17.12.2018, n. 32620).
Va rilevato che la tesi della parte ricorrente –sempre in linea di principio– trova conforto in un “obiter” dell’Adunanza Plenaria 04.05.2018 n. 5, nel quale si ritiene che
con l'art. 2-bis cit. "il legislatore -superando per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell'Adunanza plenaria 15.09.2005, n. 7- ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento (ad esempio, il diniego di autorizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento). Il danno deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale: il ritardo nell'adozione del provvedimento genera, infatti, una situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l'adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell'amministrazione.
A tacere del fatto che siffatta indicazione non risulta essere stata seguita dalla giurisprudenza successiva, non può non rilevarsi che l’A.P. stessa non manca di precisare che
è “onere del privato fornire la prova, oltre che del ritardo e dell'elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere.......
Il principio della risarcibilità del danno a prescindere dall’esito del procedimento, affermato (solo incidentalmente) dalla Ad. Plenaria nr. 5/2018 meriterebbe un ben maggiore ed adeguato approfondimento, posto che avendo riguardo alla natura aquiliana della responsabilità ex art. 2-bis della l. 241/1990, potrebbe invero predicarsi una immediata risarcibilità di danni conseguenti al “mero” ritardo, ma ciò solamente laddove (ed a condizione che) quest’ultimo risulti in concreto causa efficiente di una perdita definitiva ed attuale di una utilità dipendente non già dall’esito del procedimento apertosi per conseguire il provvedimento richiesto alla PA, ma dall’incertezza e dal protrarsi del procedimento stesso, quindi una utilità autonoma rispetto a quella dipendente dal provvedimento; e ciò a maggior ragione se ci si pone nell’ottica (preferita dal Collegio quanto al caso di specie) della responsabilità contrattuale da ritardo (nei casi in cui la conclusione del procedimento è oggetto di una previsione negoziale pubblica come la convenzione urbanistica), laddove l’inesatto adempimento (come il ritardo andrebbe qualificato) consentirebbe alla parte interessata di potersi avvantaggiare di un più favorevole regime di prova della responsabilità, ma senza poter prescindere, anche in tal caso, dall’esistenza di una lesione patrimoniale attuale e definitiva.
Tuttavia, nell’odierno giudizio, non sussistono i presupposti per accedere ad un siffatto approfondimento, perché, nonostante l’indubbio sforzo argomentativo, la prova di danni medio tempore già consumatisi per effetto del ritardo “mero”, ovvero concretamente risarcibili a prescindere dall’esito del procedimento (quale che sia la natura della responsabilità da ritardo, aquiliana in generale, contrattuale nel caso di specie), non è stata raggiunta, come conferma l’analisi delle specifiche voci di danno che sono elencate al punto IV del ricorso, esaminato a seguire.

EDILIZIA PRIVATAIn linea di diritto, che l’onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un’opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai fini della prova del momento di realizzazione dell'abuso, un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione -ovvero, le deduzioni con cui la stessa amministrazione rileva l'inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente-.
Ed infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori.
L’indagine sulla veridicità ed effettività di quanto viene dichiarato nell’istanza di condono edilizio costituisce compito specifico dell’amministrazione comunale che, fin dal sistema complessivamente risultante dalla l. 47/1985, in particolare dall’art. 4 (oggi trasfuso nel sistema di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380), la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale è riservata al Comune e detto potere/dovere di vigilanza concerne anche la attenta verifica circa la sussistenza dei presupposti per il rilascio di provvedimenti di condono edilizio.
Quindi, a carico dell’amministrazione comunale raggiunta dall’istanza di condono edilizio l’art. 31, comma 2, l. 47/1985 pone una indagine istruttoria per la verifica del requisito dell'ultimazione, rilevante ai fini del rilascio del condono, che si sviluppa attraverso due criteri alternativi: il criterio “strutturale", che vale nei casi di nuova costruzione e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti.
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Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici “ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”.
Costituisce principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili.
La nozione di completamento funzionale implica invece uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione. In altri termini l'organismo edilizio non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno) sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato ai predetti fini che siano state realizzate le opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso, ossia quelle opere che qualifichino in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione.
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7. – Va premesso, in linea di diritto, che l’onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un’opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr., in tal senso tra le molte e più di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2018 n. 1391).
Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai fini della prova del momento di realizzazione dell'abuso, un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione -ovvero, le deduzioni con cui la stessa amministrazione rileva l'inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente- (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2014 n. 2782 e 27.05.2010 n. 3378).
Ed infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6548).
L’indagine sulla veridicità ed effettività di quanto viene dichiarato nell’istanza di condono edilizio costituisce compito specifico dell’amministrazione comunale che, fin dal sistema complessivamente risultante dalla l. 47/1985, in particolare dall’art. 4 (oggi trasfuso nel sistema di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380), la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale è riservata al Comune e detto potere/dovere di vigilanza concerne anche la attenta verifica circa la sussistenza dei presupposti per il rilascio di provvedimenti di condono edilizio.
Quindi, a carico dell’amministrazione comunale raggiunta dall’istanza di condono edilizio l’art. 31, comma 2, l. 47/1985 pone una indagine istruttoria per la verifica del requisito dell'ultimazione, rilevante ai fini del rilascio del condono, che si sviluppa attraverso due criteri alternativi: il criterio “strutturale", che vale nei casi di nuova costruzione e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti.
Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici “ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”. Costituisce principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr., fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 16.10.1998 n. 130).
La nozione di completamento funzionale implica invece uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione. In altri termini l'organismo edilizio non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno) sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato ai predetti fini che siano state realizzate le opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.07.1995 n. 1071), ossia quelle opere che qualifichino in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04.07.2002 n. 3679) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.06.2019 n. 3696 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio non ignora come il criterio della vicinitas, in materia edilizia, valga a radicarlo in capo ai proprietari di fondi finitimi rispetto a quello dove sia in corso la realizzazione di un opus novum (dato che esso “sintetizza ellitticamente il criterio dello stabile collegamento in forza del quale il proprietario di un manufatto, limitrofo all'area in cui dovrebbe sorgere il manufatto oggetto di un permesso di costruire che dalla realizzazione di questo possa subire un pregiudizio, è titolare di un interesse qualificato e differenziato ad evitare finanche la realizzazione dell'opera, nonché -a più forte ragione- l'esecuzione di interventi edilizi abusivo”).
Con più specifico riguardo all’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi, rispetto ai soggetti sopra considerati “tale posizione, in quanto qualificata e differenziata e non meramente emulativa o preordinata ad un controllo generalizzato dell'azione amministrativa, basta, ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241 del 1990 e s.m.i., a legittimare il diritto di accesso alla documentazione amministrativa richiesta”.
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Deve osservarsi come “i titoli edilizi sono atti pubblici, di talché chi esegue le opere non può opporre un diritto di riservatezza”.
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... per l'accertamento
   - della antigiuridicità del silenzio opposto sull'istanza di accesso agli atti presentata dall'odierna ricorrente in data 26.11.2018 relativamente alla documentazione a corredo del permesso di costruire n. 279/2017 rilasciato dal Comune di Pozzallo in favore del Sig. Le.Gi.,
nonché per l'accertamento
   - del diritto di accesso della ricorrente alla documentazione sopra indicata;
...
La Sig.ra Ca.Fr., proprietaria di un fabbricato per civile abitazione in Pozzallo, identificato catastalmente al Foglio 7, Particella 1607 (ex 966), vedeva procedere alla realizzazione –sul lotto identificato catastalmente al Foglio 7, Particella 3858, confinante dal lato nord-est con il proprio– di un edificio senza alcun ritiro dal confine (a differenza di quanto invece era stato fatto in occasione della realizzazione dell’edificio del quale ella era proprietaria).
Per acquisire maggiori informazioni circa l’attività edilizia posta in essere sul fondo confinante, la Sig.ra Ca.Fr. avanzava –dapprima informalmente- al Comune di Pozzallo una richiesta di accesso avente ad oggetto il permesso di costruire n. 279/2017, e quindi, invitata dal medesimo ente locale a formalizzare la predetta istanza, una domanda che, oltre all’atto indicato in precedenza, aveva ad oggetto tutti quegli ulteriori che avrebbero dovuto far parte della medesima pratica.
...
Prima di poter passare all’esame della fondatezza o meno delle censure proposte con il ricorso in epigrafe, il Collegio non può non scrutinare ex officio il profilo relativo alla sussistenza, nel caso di specie, di un interesse a ricorrere in capo alla ricorrente.
Il Collegio certamente non ignora come il criterio della vicinitas, in materia edilizia, valga a radicarlo in capo ai proprietari di fondi finitimi rispetto a quello dove sia in corso la realizzazione di un opus novum (dato che esso “sintetizza ellitticamente il criterio dello stabile collegamento in forza del quale il proprietario di un manufatto, limitrofo all'area in cui dovrebbe sorgere il manufatto oggetto di un permesso di costruire che dalla realizzazione di questo possa subire un pregiudizio, è titolare di un interesse qualificato e differenziato ad evitare finanche la realizzazione dell'opera, nonché -a più forte ragione- l'esecuzione di interventi edilizi abusivo”: Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. 28.03.2019, n. 2063).
Con più specifico riguardo all’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi, rispetto ai soggetti sopra considerati “tale posizione, in quanto qualificata e differenziata e non meramente emulativa o preordinata ad un controllo generalizzato dell'azione amministrativa, basta, ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241 del 1990 e s.m.i., a legittimare il diritto di accesso alla documentazione amministrativa richiesta” (Consiglio di Stato, Sez. V, sent. 14.05.2010, n. 2966; TAR Toscana, Sez. III, sent. 07.12.2012, n. 1993; Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. 21.11.2006, n. 6790).
La ricorrente ha puntualmente evidenziato in ricorso i profili critici dell’intervento edilizio in corso di realizzazione sul fondo confinante, così individuandoli:
   - “il controinteressato ha, di recente, avviato lavori edili per la realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica senza alcun ritiro dal confine”;
   - “la nuova fabbrica sembra non rispettare la quota di campagna naturale coincidente con la quota stradale, bensì appare elevata artificiosamente di circa 1,20 ml.”.
Ora, è agevole rilevare come la prima delle criticità riscontrate riguardi profili con i quali non interferisce la legittimità/illegittimità del permesso di costruire n. 297/2017: e segnatamente il rispetto delle norme in materia di distanze ex art. 873 c.c. (così come integrato dai “regolamenti locali” ivi richiamati), sul quale non può in alcun modo incidere il provvedimento adottato a norma dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2011: dato che, a norma del suo terzo comma, “il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi”.
La stessa cosa però non può dirsi per quel che concerne l’asserito mancato rispetto del”la quota di campagna naturale, coincidente con la quota stradale”. Qui l’esercizio di poteri dominicali da parte del proprietario del fondo confinante, fuori dal divieto di atti emulativi ex art. 833 c.c. (i quali ovviamente qui non ricorrono, stante l’intrinseca utilitas che si riconnette alla costruzione di un fabbricato destinato a civile abitazione), non trova altro limite che negli atti di assenso rilasciati dall’ente locale competente in ordine alla modificazione dell’originario stato dei luoghi – sempre necessari “allorché la morfologia del territorio venga alterata in conseguenza di rilevanti opere di scavo, sbancamenti, livellamenti finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli” (ex plurimis e più di recente, Cass. Pen., Sez. III, Sent. 25.11.2014, n. 48990).
Ritiene pertanto il Collegio che, in base al profilo indicato da ultimo, sussista un obiettivo interesse della ricorrente ad ottenere la ostensione degli atti oggetto della propria formale istanza del 26/11/2018.
Passando al merito, deve osservarsi come “i titoli edilizi sono atti pubblici, di talché chi esegue le opere non può opporre un diritto di riservatezza” (TAR Sardegna, Sez. I, Sent. 26.04.2018, n. 376).
In considerazione di ciò, l’accesso formale richiesto dal Comune intimato appare ultroneo, e comunque la domanda mediante il quale esso è stato esercitato dalla ricorrente senz’altro meritevole di accoglimento, senza la necessità di alcuna specifica valutazione della posizione antagonista del soggetto impegnato nella realizzazione dell’intervento edilizio sul lotto identificato catastalmente al Foglio 7, Particella 3858, del Comune di Pozzallo (SR).
Di conseguenza il Collegio condanna il Comune di Pozzallo alla ostensione, entro il termine di giorni 30 dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza, di tutta la documentazione oggetto della domanda di accesso formulata dalla ricorrente in data 26/11/2018 (TAR Sicilia-Catania, Sez. VI, sentenza 03.06.2019 n. 1362 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIRilevanza dell’obbligo dichiarativo dei costi della sicurezza rispetto all'esecuzione del singolo contratto.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Costi manodopera – Omessa indicazione – Prescrizioni della gara – carenti ed ambigue sulla sussistenza del relativo obbligo dichiarativo –Non assume autonoma rilevanza escludente
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Costi sicurezza – Mancata indicazione – Prescrizioni della gara – Necessità obbligo dichiarativo – rispetto alla esecuzione del singolo contratto –Rilevanza escludente
  
L’omessa indicazione dei costi della manodopera da parte dell’aggiudicataria non assuma autonoma rilevanza escludente, dal momento che -nonostante la clausola di chiusura che rinvia al codice appalti- tanto le prescrizioni della lex specialis, quanto la struttura del modello allegato al disciplinare di gara ai fini della predisposizione dell’offerta tecnica, risultavano carenti ed ambigue sul punto in questione e potevano risultare ingannevoli rispetto alla sussistenza del relativo obbligo dichiarativo.
  
L’obbligo dichiarativo concernente i costi della sicurezza non si stempera in una dimensione dinamica e soggettiva (rapportata cioè alla gestione dell’impresa nel tempo) ma ha una rigida rilevanza statica ed oggettiva, essendo volto ad esplicitare gli oneri in argomento rispetto alla esecuzione del singolo contratto, onde garantire, in concreto, il soddisfacimento degli interessi pubblici di riferimento (1).
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   (1) Il Tar ha premesso che la Corte di Giustizia U.E., con la recente sentenza 02.05.2019 n. 309, pur accertando la compatibilità della prescrizione escludente, di cui al combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, con i principi di parità di trattamento e di trasparenza di derivazione europea, ha concluso nel senso che: “Spetta al giudice del rinvio, che è il solo competente a statuire sui fatti della controversia principale e sulla documentazione relativa al bando di gara in questione, verificare se per gli offerenti fosse in effetti materialmente impossibile indicare i costi della manodopera conformemente all'articolo 95, comma 10, del codice dei contratti pubblici e valutare se, di conseguenza, tale documentazione generasse confusione in capo agli offerenti, nonostante il rinvio esplicito alle chiare disposizioni del succitato codice. Nell'ipotesi in cui lo stesso giudice accertasse che effettivamente ciò è avvenuto, occorre altresì aggiungere che, in tal caso, in considerazione dei principi della certezza del diritto, di trasparenza e di proporzionalità, l'amministrazione aggiudicatrice può accordare a un simile offerente la possibilità di sanare la sua situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla legislazione nazionale in materia entro un termine stabilito dalla stessa amministrazione aggiudicatrice (v., in tal senso, sentenza del 02.06.2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto 51, e ordinanza del 10.11.2016, Spinosa Costruzioni Generali e Melfi, C-162/16, non pubblicata, EU:C:2016:870, punto 32)”.
Il Tar ha osservato che nel concreto caso di specie il disciplinare di gara sanzionava espressamente con l’esclusione dalla gara la mancata indicazione degli oneri aziendali relativi alla sicurezza, senza operare alcun riferimento ai costi della manodopera.
Il Tar ha chiarito che la dichiarazione dell’aggiudicataria che i costi della sicurezza sono “pari a zero” ha natura meramente apparente, dal momento che, nella sostanza, si risolve nella negazione dell’obbligo che grava sull’impresa rispetto alla ostensione dei costi in questione e nella elusione delle esigenze di tutela sottese all’art. 95, comma 10, del codice dei contratti.
Il Tar ha aggiunto che la giustificazione della ditta, con la dichiarazione che gli oneri di sicurezza risultano già regolarmente ammortizzati nell’esecuzione di pregresse commesse, appare manifestamente incongrua ed irragionevole, dal momento che in materia di appalti di lavori gli oneri per la sicurezza rappresentano un costo normalmente non eludibile, e che -a rigor di logica- eventuali vantaggi conseguiti in precedenti commesse, non assumono immediata e diretta rilevanza rispetto alla commessa a cui si riferisce la dichiarazione (TAR Molise, sentenza 03.06.2019 n. 204 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Commissari di gara, nessun compenso minimo.
Annullato il Decreto Ministeriale del MIT sui compensi minimi dei commissari di gara: la legge prevede solo i compensi massimi
Il decreto del MIT per la determinazione dei compensi dei commissari di gara (Decreto 12.02.2018) deve essere annullato nella parte in cui fissa il compenso lordo minimo per i componenti della commissione giudicatrice di cui all’art. 77 del Codice degli appalti, mentre secondo la legge doveva prevedere solo il massimo.
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1. Il Comune ricorrente ha impugnato il decreto del 12.02.2018, emanato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16.04.2018, avente ad oggetto: “Determinazione della tariffa di iscrizione all’albo dei componenti delle commissioni giudicatrici e relativi compensi”, nella parte in cui fissa anche un compenso minimo come da allegato A del decreto.
Si tratta di decreto emanato in virtù del comma 10 dell’art. 77 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (“Codice degli appalti”) che, al secondo capoverso, ha previsto che “Con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita l'ANAC, è stabilita la tariffa di iscrizione all'albo e il compenso massimo per i commissari. I dipendenti pubblici sono gratuitamente iscritti all'Albo e ad essi non spetta alcun compenso, se appartenenti alla stazione appaltante”.
Il Ministero, con il decreto impugnato, ha fissato anche i compensi minimi dei commissari, posti come limite minimo inderogabile.
Inoltre, nella tabella dei compensi allegata al decreto, sono previsti solo tre scaglioni di valore ed il primo, quello minore, è stato così fissato: € 20.000.000,00 per gli appalti di lavori - concessioni di lavori; € 1.000.000,00 per appalti e concessioni di servizi - appalti di forniture; € 200.000,00 per appalti di servizi di ingegneria e di architettura. Con riferimento a tutte le tre riportate tipologie di gara è stato previsto, per lo scaglione più basso, quale compenso minimo per ciascun commissario, l’importo di € 3.000,00 oltre rimborso spese.
Il Comune riferisce di non disporre, nella propria pianta organica, di figure professionali in numero sufficiente a ricoprire tutti i ruoli di commissari nelle commissioni giudicatrici di gare pubbliche e osserva che nel suo caso, comune di piccole dimensioni in cui la maggior parte delle gare sono di importi di gran lunga inferiori allo scaglione minimo per tutte e tre le tipologie di appalti, il decreto in parola comporterà l’impossibilità di procedere a buona parte delle gare necessarie al perseguimento dei fini istituzionali, attesa l’esosità dei rimborsi minimi previsti per i commissari di gara.
Quindi ha censurato il provvedimento per i seguenti motivi.
   1) Illegittimità - violazione di legge: art. 77 comma 10 del Codice degli appalti - eccesso di potere per eccesso dell’attribuzione di competenza ed erroneità dei presupposti - arbitrarietà - difetto di istruttoria.
L’atto impugnato violerebbe l’art. 77, comma 10, del “Codice degli appalti” il quale demanda al Ministero la previsione di un compenso massimo per i commissari, al fine di contenere la spesa pubblica e non anche, dunque, la previsione di un compenso minimo.
   2) Eccesso di potere: illogicità - irragionevolezza - sviamento – violazione dell’art. 37 Codice degli appalti.
Sarebbe illogica e viziata la previsione di un compenso minimo di € 3.000,00 da corrispondere a ciascun componente la commissione giudicatrice, sia per l’attività prestata per un appalto di lavori per complessivi € 20.000.000,00 sia per un appalto di importo ben inferiore, ad esempio di € 80.000,00.
Inoltre molte gare bandite dai Comuni sono rese possibili dall’utilizzo di finanziamenti europei FESR, per i quali è espressamente previsto che le spese generali siano contenute nel limite massimo del 10/12%; limite che, di fatto, viene rispettato anche in gare non finanziate. Tuttavia detto limite non potrebbe essere rispettato stanti i minimi tariffari fissati dall’impugnato decreto. Infatti, con un costo per il funzionamento della commissione non inferiore a € 10.980.00, sarebbe impossibile bandire tutte le gare di importo inferiore o uguale a € 91.500,00, perché già il solo costo della commissione risulterebbe superiore/uguale al 12% fissato per le spese generali.
L’amministrazione intimata si è costituita in giudizio solo formalmente, depositando una nota esplicativa a firma del Ragioniere Generale dello Stato, nella quale si chiarisce che la fissazione del compenso minimo era stata concordata con l’ANAC.
Con ordinanza n. 4713 del 02.08.2018 il DM impugnato è stato sospeso limitatamente alla fissazione di tariffe minime.
...
2. Il ricorso è fondato e va accolto.
L’art. 77, comma 10, D.Lgs. 50/2016 prevede che “Con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentite l’ANAC, è stabilita la tariffa di iscrizione all’albo e il compenso massimo per i commissari”.
Come già rilevato in sede cautelare,
il decreto impugnato, travalicando i limiti normativamente imposti al suo oggetto, ha fissato anche il compenso minimo per fasce di valore degli appalti a partire da € 3.000,00, ma ciò in mancanza di copertura legislativa.
Non può essere condivisa quindi la tesi dell’amministrazione, rilevabile dalla nota del 03.07.2018 del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze, secondo cui la fissazione di un compenso minimo è una “eventualità non proibita dalla norma primaria”.
Invero
va considerato il principio secondo cui il legislatore ubi voluit dixit: nella disposizione in rassegna il legislatore parla espressamente di compenso “massimo”, senza lasciare margini interpretativi in ordine alla possibilità di stabilire anche un compenso “minimo” o un compenso tout court, sicché ogni opzione ermeneutica che si risolvesse nell'aggiunta di un diverso “limite” da fissare dev'essere rifiutata “in quanto finirebbe per far dire alla legge una cosa che la legge non dice (e che, si presume, secondo il suddetto canone interpretativo, non voleva dire) (TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 06.03.2019, n. 3023).
Inoltre
deve aversi riguardo alla ratio sottesa alla disposizione in parola, che è quella del contenimento della spesa, reso possibile anche attraverso specifici meccanismi di trasparenza.
Invero,
nella relazione illustrativa della disposizione è espressamente indicato che “le spese relative alla commissione sono inserite nel quadro economico dell'intervento tra le somme a disposizione della stazione appaltante. Lo stesso comma prevede l’emanazione di un decreto ministeriale (emanato dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita l'ANAC) per la determinazione della tariffa di iscrizione all'albo e del compenso massimo per i commissari. I dipendenti pubblici sono gratuitamente iscritti all'Albo e ad essi non spetta alcun compenso, se appartenenti alla stazione appaltante”.
Dunque,
dovendo le spese per il funzionamento della commissione costituire una voce del quadro economico dell’intervento, mentre si spiega la fissazione di un compenso “massimo”, va in direzione decisamente contraria la fissazione di un compenso “minimo”.
Né, ad attribuire legittimità all’impugnato decreto, può soccorrere la circostanza, rappresentata dall’amministrazione nella nota innanzi citata, che la previsione di una misura minima dei compensi era stata condivisa con l'ANAC, che, con proprio parere del 02.11.2017, aveva evidenziato come la fissazione di un limite minimo del compenso avrebbe consentito “di scongiurare il rischio di determinazione del compenso al ribasso, a detrimento della prestazione”; si tratta di una esigenza che, per quanto apprezzabile, non poteva essere soddisfatta con lo strumento in parola, non essendo tale possibilità contemplata in una norma primaria.
Per completezza espositiva, e ferma restando l’illegittimità del decreto per le ragioni evidenziate, deve ulteriormente osservarsi che,
se la ratio della censurata opzione, consistita di fatto in uno sconfinamento dal perimetro dei poteri normativamente attribuiti al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, fosse da ravvisare nella volontà di dare decoro e dignità alla prestazione del commissario di gara, risulterebbe altresì irragionevole la soglia minima del compenso, così come livellata uniformemente in € 3.000,00 pur a fronte di procedure di complessità e di valore significativamente diversi.
Conclusivamente, per quanto precede, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto,
il decreto impugnato deve essere annullato nella parte in cui fissa il compenso lordo minimo per i componenti della commissione giudicatrice di cui all’art. 77 del “Codice degli appalti (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 31.05.2019 n. 6926 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha più volte affermato che in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio il Comune non può esimersi dal verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici sull’intervento proposto, ciò tuttavia vale solo nel caso in cui tali limiti siano realmente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte del Comune si traduca in una mera presa d’atto, senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra privati.
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7.1 - Tanto precisato, sono gli stessi appellanti a ricordare che allorquando si invoca l’usucapione occorre fornire la prova circa l’uso esclusivo, pacifico, pubblico ed incontrastato del bene, nonché la prova della durata ultraventennale continua del preteso possesso (cfr. Corte Cass., 14.01.2013, n. 709).
E’ evidente che un accertamento del genere comporta un’intensa attività istruttoria (così come per l’accertamento di una eventuale servitù costituita per destinazione del padre di famiglia), che non può ritenersi esigibile in capo all’amministrazione, la quale nel rilascio dei titoli edilizi, in rapporto all’assetto proprietario dei beni ed alla sussistenza di vincoli di natura reale sugli stessi, tendenzialmente deve basarsi sui dati desumibili dai pubblici registri e dai titoli documentali di provenienza dei beni, anche per evidenti ragioni di certezza.
Al riguardo, la giurisprudenza ha più volte affermato che in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, il Comune non può esimersi dal verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici sull’intervento proposto, ciò tuttavia vale solo nel caso in cui tali limiti siano realmente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte del Comune si traduca in una mera presa d’atto, senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra privati (Cfr. Cons. St., Sez IV, 30.12.2006 n. 8262; Cons. st. Sez VI, 20.12.2011 n. 6731; Cons. st. 26.01.2015 n. 316).
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve dunque essere confermata la sentenza impugnata dove ha ritenuto che l’usucapione, come eccepita dai ricorrenti, ai fini del presente giudizio “per valere come titolo costitutivo di un diritto reale deve essere accertata dal giudice competente in una sentenza come tale trascrivibile a garanzia della certezza delle situazioni giuridiche” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.05.2019 n. 3675 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini della legittimità di un atto amministrativo fondato su di una pluralità di ragioni, fra loro autonome, è sufficiente che anche una sola fra esse sia riconosciuta idonea a sorreggere l'atto medesimo, mentre le doglianze formulate avverso gli altri motivi devono ritenersi carenti di un sottostante interesse a ricorrere, giacché in nessun caso le stesse potrebbero portare all'invalidazione dell'atto.
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8 – Al rigetto delle censure appena esaminate consegue l’irrilevanza dell’ulteriore doglianza svolta nei confronti del provvedimento di diniego relativa al regime proprietario dell’area sulla quale insiste il fabbricato oggetto di sanatoria.
Invero, ai fini della legittimità di un atto amministrativo fondato su di una pluralità di ragioni, fra loro autonome, è sufficiente che anche una sola fra esse sia riconosciuta idonea a sorreggere l'atto medesimo, mentre le doglianze formulate avverso gli altri motivi devono ritenersi carenti di un sottostante interesse a ricorrere, giacché in nessun caso le stesse potrebbero portare all'invalidazione dell'atto (ex multis Cons. St. sez. IV, 07.04.2015, n. 1769) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.05.2019 n. 3675 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.

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9 - Con il terzo motivo di appello si critica la sentenza impugnata nel punto in cui ha ritenuto che il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia possa essere esercitato in ogni tempo e senza la necessità di una specifica motivazione in ordine alla perdurante sussistenza di un interesse pubblico a disporre una demolizione.
9.1 – Anche su tale aspetto la sentenza di primo grado deve trovare conferma.
La questione è stata infatti risolta dal recente arresto dell’Adunanza Plenaria (Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9), alla quale il Collegio aderisce, secondo la quale: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.05.2019 n. 3675 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere precarie sottratte al permesso di costruire - Destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo - Necessità - Artt. 3, 10, 44 d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Al fine di ritenere sottratto un manufatto al preventivo rilascio del permesso di costruire in ragione della sua asserita natura precaria, la stessa non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo.
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Nozione di costruzione urbanistica - Incremento del carico urbanistico - Manufatti non precari - Parametri analogicamente applicati ad opere simili - Giurisprudenza amministrativa - Art. 3, lett. e), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 812 cod. civ..
Per l'individuazione della nozione di costruzione urbanistica, non è determinante l'incorporazione nel suolo indispensabile per identificare, a norma dell'art. 812 cod. civ., il bene immobile, essendo sufficiente la destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile, con la conseguenza che l'elencazione contenuta nell'art. 3, lett. e) d.P.R. n. 380/2001, non può considerarsi esaustiva, giacché i parametri indicati possono essere analogicamente applicati ad opere simili.
A conclusioni analoghe è pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale
(Cons. Stato Sez. VI n. 2842 del 03/06/2014).

...
Natura e destinazione dell'opera precaria - Caratteristiche specifiche - Giurisprudenza - Lavori soggetti a permesso di costruire.
L'opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione, non comporta effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo, pertanto, l'intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche caratteristiche: la sua precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l'agevole amovibilità; deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso (Cass. Sez. 3, n. 36107/2016, Arrigoni e altro; Sez. 3, n. 6125/2016, Arcese; Sez. 3, n. 16316/2015, Curt; Sez. 3, n. 966/2015, Manfredini).
In conclusione, sono soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U.E., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato (Cass. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep. 2017), Palma)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.05.2019 n. 24149 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Poteri, doveri e verifiche del giudice penale - Legittimità del permesso di costruire in sanatoria - Conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia - Legittimità dell'autorizzazione paesaggistica.
Il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l'eventuale "disapplicazione" dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (Cass. Sez. 3, n. 46477/2017, Menga e altri, nonché, con riferimento all'autorizzazione paesaggistica, Sez. 3, n. 38856/2018, Schneider e altro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.05.2019 n. 24149 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Edilizia ed urbanistica – Attività edilizia – Opera precaria – Nozione – Individuazione.
   2. Edilizia ed urbanistica – Permesso di costruire – Necessità – Casi in cui sussiste – Individuazione.
  
1. La precarietà di una opera edilizia non può essere desunta dalle caratteristiche costruttive, dai materiali impiegati o dall’agevole sua amovibilità; invero, una opera precaria, per essere considerata tale, deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo e deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso (1).
   2. Sono soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U. (v. in part. l’art. 10, lett. a) del d.P.R. 380 del 2001), tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato (2).
Tra gli interventi di nuova costruzione indicati, dall’art. 3, alla lettera e), del T.U. sono elencati, nella attuale stesura, “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”.
Sono quindi soggetti a permesso di costruire tutte le strutture, di qualsiasi genere, tra le quali sono comprese quelle elencate a titolo di esempio, che siano destinate ad una stabile utilizzazione, non meramente transitoria (3).

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   (1) Cfr. Cass. Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro, Rv. 267759; Sez. 3, n. 6125 del 21/01/2016, Arcese, non massimata; Sez. 3, n. 16316 del 15/01/2015, Curti, non massimata; Sez. 3, n. 966 del 26.11.2014 (dep. 2015), Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 25965 del 22/06/2009, Bisulca, non massimata.
   (2) Cfr. Cass., Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep.2017), Palma, Rv. 268847; Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015), Agostini, Rv. 262475; Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.G. in proc. Dominelli e altro, Rv. 242741; Sez. 3, n. 6930 del 27/01/2004, laccarino, Rv. 227566; Sez. 3, n. 6920 del 21/01/2004, Perani, Rv. 227565; Sez. 3, n. 38055 del 30/09/2002, Raciti, Rv. 222849 ed altre prec. conf..
   (3) Ha precisato la sentenza in rassegna che l’esplicita menzione di detta tipologia di interventi nel Testo Unico ha, di fatto, codificato la figura giuridica di “costruzione” elaborata dalla giurisprudenza prima dell’entrata in vigore del TU. e nella quale rientravano tutti quei manufatti che, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, modificavano lo stato dei luoghi, in quanto, difettando obiettivamente del carattere di assoluta precarietà, erano destinati almeno potenzialmente a perdurare nel tempo, non avendo peraltro alcun rilievo a riguardo la distinzione tra opere murarie e di altro genere, né il mezzo tecnico con cui fosse assicurata la stabilità del manufatto al suolo (o al muro perimetrale di quello esistente), in quanto la stabilità non va confusa con l’irrevocabilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare un bisogno non temporaneo (così Sez. 3, n. 9138 del 07/07/2000, RM. in proc. Migliorini T. ed altro, Rv. 217217 ed altre prec. conf.).
Si è successivamente avuto modo di precisare che, ai fini della individuazione della nozione di costruzione urbanistica, non è determinante l’incorporazione nel suolo indispensabile per identificare, a norma dell’art. 812 cod. civ., il bene immobile, essendo sufficiente la destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile, con la conseguenza che l’elencazione contenuta nel menzionato art. 3, lett. e) non può considerarsi esaustiva, giacché i parametri indicati possono essere analogicamente applicati ad opere simili (Sez. 3, n. 37766 del 07/07/2005, Terrin, non massimata).
A conclusioni analoghe è pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale (Cons. Stato Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842) (massima e commento tratti da www.lexitalia.it)).
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SENTENZA
3. Va considerato, quanto alla consistenza dell'opera, che le dedotte caratteristiche di precarietà e facile amovibilità sono platealmente smentite dalla descrizione della stessa effettuata nella sentenza di appello sulla base delle emergenze processuali valorizzate nel giudizio di primo grado.
Si specifica, infatti, che dalla documentazione fotografica (e non anche, dunque, sulla sola base di dichiarazioni testimoniali) il manufatto realizzato si presentava come stabilmente infisso al suolo e dotato di pavimentazione circoscritta da un muretto di contenimento, aggiungendo, poi, che l'opera poggiava su pilastri in ferro, a loro volta ancorati su plinti in cemento armato e che, all'atto del sopralluogo da parte della polizia giudiziaria, era stato accertato anche un cambiamento del livello planovolumetrico e planoaltimetrico del terreno su cui l'opera era stata realizzata. In altra parte della sentenza impugnata (pag. 7) si evidenzia, poi, che i plinti su cui poggiava il manufatto "erano infissi su di una zattera in cemento sulla quale era stata poi posta una pavimentazione in lastre di pietra leccese".
Avuto riguardo a tali caratteristiche costruttive, risulta evidente che la dedotta precarietà dell'opera è del tutto insussistente.
4. Occorre a tale proposito richiamare l'attenzione su quanto già precisato in tema di interventi precari (Sez. 3, n. 31388 del 27/04/2018, Serio, non massimata), ricordando che l'art. 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001 individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene fornita dall'art. 3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che si intendono come tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti (che riguardano, lo si ricorda, gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge dalla semplice lettura della della relazione illustrativa al T.U.
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli eventualmente individuati con legge dalle regioni ai sensi del comma terzo del menzionato art. 3 e che pertanto, in relazione all'incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Sono dunque soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato (cfr. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep. 2017), Palma, Rv. 268847; Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015), Agostini, Rv. 262475; Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008 (dep. 2009), PG. in proc. Dominelli e altro, Rv. 242741; Sez. 3, n. 6930 del 27/01/2004, laccarino, Rv. 227566; Sez. 3, n. 6920 del 21/01/2004, Perani, Rv. 227565; Sez. 3, n. 38055 del 30/09/2002, Raciti, Rv. 222849 ed altre prec. conf.).
Tra gli interventi di nuova costruzione indicati, dall'art. 3, alla lettera e5), citata dalla ricorrente, sono elencati, nella attuale stesura, "l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricom presi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore".
La medesima disposizione, che ha subito nel tempo diverse modifiche, era così formulata all'epoca dei fatti per cui è processo: "l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee".
Le differenze, per quel che qui interessa, non rilevano, essendo chiara la finalità della norma di considerare interventi di nuova costruzione, quindi soggetti a permesso di costruire, tutte le strutture, di qualsiasi genere, tra le quali sono comprese quelle elencate a titolo di esempio, che siano destinate ad una stabile utilizzazione, non meramente transitoria.
L'esplicita menzione di detta tipologia di interventi nel Testo Unico ha, di fatto, codificato la figura giuridica di "costruzione" elaborata dalla giurisprudenza prima dell'entrata in vigore del TU. e nella quale rientravano tutti quei manufatti che, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, modificavano lo stato dei luoghi, in quanto, difettando obiettivamente del carattere di assoluta precarietà, erano destinati almeno potenzialmente a perdurare nel tempo, non avendo peraltro alcun rilievo a riguardo la distinzione tra opere murarie e di altro genere, né il mezzo tecnico con cui fosse assicurata la stabilità del manufatto al suolo (o al muro perimetrale di quello esistente), in quanto la stabilità non va confusa con l'irrevocabilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell'oggettiva destinazione dell'opera a soddisfare un bisogno non temporaneo (così Sez. 3, n. 9138 del 07/07/2000, P.M. in proc. Migliorini T ed altro, Rv. 217217 ed altre prec. conf.).
Si è successivamente avuto modo di precisare che, ai fini della individuazione della nozione di costruzione urbanistica, non è determinante l'incorporazione nel suolo indispensabile per identificare, a norma dell'art. 812 cod. civ., il bene immobile, essendo sufficiente la destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile, con la conseguenza che l'elencazione contenuta nel menzionato art. 3, lett. e) non può considerarsi esaustiva, giacché i parametri indicati possono essere analogicamente applicati ad opere simili (Sez. 3, n. 37766 del 07/07/2005, Terrin, non massimata).
A conclusioni analoghe è pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale
i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale (Cons. Stato Sez. VI n. 2842 del 03/06/2014).
Tali considerazioni coincidono, peraltro, con la nozione di precarietà dell'intervento edilizio in genere, individuata dalla giurisprudenza di questa Corte.
5. Gli interventi edilizi precari, categoria già individuata dalla giurisprudenza e dalla dottrina con inequivocabile indicazione delle specifiche caratteristiche, sono ora espressamente menzionati dall'art. 6 del d.P.R. 380/2001 che, nell'attuale formulazione, li descrive al comma 1, lett. e-bis) come opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all'amministrazione comunale.
In precedenza, il testo unico dell'edilizia conteneva riferimenti indiretti, che riguardavano gli interventi di cui all'art. 3, comma primo, lett. e.5) e quelli per le attività di ricerca descritti nell'art. 6.
L'opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione, non comporta effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo e la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che l'intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche caratteristiche: la sua precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l'agevole amovibilità; deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso (cfr. ex. pl . Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro, Rv. 267759; Sez. 3, n. 6125 del 21/01/2016, Arcese, non massimata; Sez. 3, n. 16316 del 15/01/2015, Curti, non massimata; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014 (dep. 2015), Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 25965 del 22/06/2009, Bisulca, non massimata).
Nel caso di specie, come si è osservato, i necessari requisiti individuati dalla richiamata giurisprudenza mancano del tutto ed, anzi, le caratteristiche costruttive accertate depongono, unitamente alla rilevata alterazione planovolumetrica e pianoaltimetrica del terreno, per un intervento destinato a durare nel tempo che ha già determinato una modifica dell'originario assetto dell'area su cui insiste.
Un'ulteriore conferma di una simile evenienza, che il ricorrente non coglie, è data dal fatto che, per dette opere, l'interessato ha ritenuto di dover richiedere un permesso di costruire in sanatoria (il cui rilascio viene ripetutamente enfatizzato in ricorso per sostenere la legittimità dell'intervento edilizio), che non sarebbe affatto necessario per un intervento precario nel senso dianzi individuato, atteso che la natura dell'opera precaria, che non determina stabili trasformazioni del territorio, non richiede per la sua realizzazione, come si è detto, alcun titolo abilitativo.
6. Deve pertanto ribadirsi che
al fine di ritenere sottratto un manufatto al preventivo rilascio del permesso di costruire in ragione della sua asserita natura precaria, la stessa non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo.
7. Per ciò che concerne, inoltre, il permesso di costruire in sanatoria, di cui diffusamente tratta il ricorso, deve in primo luogo osservarsi che lo stesso non è stato affatto "disapplicato" dai giudici dell'appello, i quali, invece, ne hanno evidenziato la estraneità rispetto alle opere effettivamente realizzate, osservano che lo stesso riguarda una struttura "con pannellature in vetro del tutto amovibili... fondazione realizzata con plinti prefabbricati, inseriti direttamente nella sabbia e su di essi poggeranno le travi in prefabbricato fissate ai plinti mediante particolari bullonature. La piattaforma, costituita da pannelli portanti prefabbricati, è poggiata sulle predette travi assemblate".
La Corte di appello, dunque, con motivazione del tutto coerente e logica e, come tale, insindacabile in questa sede di legittimità, ha operato un doveroso confronto tra quanto autorizzato e ciò che è stato effettivamente realizzato, escludendo, conseguentemente, la rispondenza delle opere al titolo abilitativo postumo.
Va in ogni caso osservato che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che
il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l'eventuale "disapplicazione" dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (si veda, da ultimo, Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga e altri, Rv. 273218, nonché, con riferimento all'autorizzazione paesaggistica, Sez. 3, n. 38856 del 4/12/2017 (dep. 2018), Schneider e altro, Rv. 273703).
Si tratta, peraltro, di un indirizzo interpretativo ormai consolidato, rispetto al quale si è dato ripetutamente conto anche di soluzioni interpretative solo apparentemente difformi e di altre, isolate, di non decisiva incidenza rispetto ad una stabile giurisprudenza ormai ultraventennale (si veda, a tale proposito, quanto evidenziato in Sez. 3, n. 50648 del 09/10/2018, Fabbri, non massimata; Sez. 3, n. 56678 del 21/09/2018, lodice, non massimata; Sez. 3, n. 49687 del 07/06/2018, Bruno non massimata).
E' appena il caso di ricordare, poi, che il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria avrebbe comunque comportato l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, non spiegando effetti rispetto alle violazioni del codice della navigazione e del codice dei beni culturali e del paesaggio pure contestate nel presente procedimento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.05.2019 n. 24149).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Illecito trasporto di rifiuti effettuato con il mezzo del coniuge - Confisca obbligatoria del mezzo - Proprietario del mezzo terzo estraneo - Onere di provare la buona fede - Non collegabile ad un comportamento negligente - Artt. 183, 208, 209, 211, 212, 214, 215, 216, 256, 259 d.lgs n. 152/2006.
In tema di illecita gestione dei rifiuti, al fine di evitare la confisca obbligatoria del mezzo prevista per il trasporto in assenza di valido titolo abilitativo dall'art. 259, comma secondo, d.lgs. 152/2006, incombe al terzo estraneo al reato, individuabile in colui che non ha partecipato alla commissione dell'illecito ovvero ai profitti che ne sono derivati, l'onere di provare la sua buona fede, ovvero che l'uso illecito del mezzo gli era ignoto e non collegabile ad un suo comportamento negligente.
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RIFIUTI - Attività di gestione dei rifiuti - Assenza di valido titolo abilitativo - Natura di reato istantaneo - Esclusione dell'occasionalità della condotta - Dati significativi - Effetti della sentenza di condanna - Art. 444 cod. proc. pen..
Il trasporto dei rifiuti rientra tra le attività di gestione, come espressamente previsto dall'art. 183, lett. n), d.lgs. 152/2006 e la sua effettuazione in assenza di valido titolo abilitativo configura un'ipotesi di illecita gestione sanzionata dall'art. 256 d.lgs. 152/2006.
Trattandosi, nel caso dell'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, di reato istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative previste dalla norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità della condotta da dati significativi, quali l'ingente quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei materiali.
Alla sentenza di condanna per tale reato (o a quella emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen.) consegue, come stabilito dall'art. 259, ultimo comma, d.lgs. 152/2006, la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto.

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RIFIUTI - Configurabilità del reato di gestione abusiva di rifiuti - Concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi - Non occasionalità della condotta - Indicazione di alcuni elementi significativi non esaustivi - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato di gestione abusiva di rifiuti, (art. 256, d.lgs. 152/2006) non rileva la qualifica soggettiva dell'agente, bensì la concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, da escludersi in ragione dell'esistenza di una minima organizzazione dell'attività, del quantitativo dei rifiuti gestiti, della predisposizione di un veicolo adeguato e funzionale al loro trasporto, dello svolgimento in più occasioni delle operazioni preliminari di raccolta, raggruppamento e cernita dei soli metalli, della successiva vendita e del fine di profitto perseguito dall'imputato.
Agli elementi significativi, indicativi lo svolgimento di un'attività implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei materiali, per individuare la natura non occasionale dell'attività di trasporto, vanno considerati, anche alternativamente, altri elementi univocamente sintomatici, quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita, deposito
(Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
Tuttavia, l'indicazione dei dati significativi della non occasionalità della condotta precedentemente elencati non sono, ovviamente, esaustivi, ben potendo il giudice far ricorso ad altri elementi obiettivamente significativi in relazione al caso concreto.

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RIFIUTI - Confisca dei mezzi di trasporto appartenenti ad un terzo estraneo al reato - Buona fede - Violazione di obblighi di diligenza - Addebito di negligenza - Terzo proprietario estraneo al reato - Onere della prova.
In materia di rifiuti, la confisca dei mezzi di trasporto appartenenti ad un terzo estraneo al reato non possa essere ordinata, sempre che nei suoi confronti non sia individuata la violazione di obblighi di diligenza e che risulti la buona fede, intesa quale assenza di condizioni che rendano probabile a suo carico un qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la possibilità dell'uso illecito della cosa e senza che esistano collegamenti, diretti o indiretti, ancorché non punibili, con la consumazione del reato.
Pertanto, grava sul terzo proprietario estraneo al reato l'onere di una rigorosa dimostrazione del necessario presupposto della buona fede, ovvero di non essere stato a conoscenza dell'uso illecito del mezzo o che tale uso non era collegabile ad un proprio comportamento negligente, al fine di ottenere la restituzione del mezzo ed evitare la confisca, rilevando anche che, in tali casi, la dimostrazione richiesta la terzo proprietario non configura un'ipotesi di inversione di onere della prova che la legge penale non consente, poiché non riguarda l'accertamento della responsabilità penale
(Sez. III n. 22026 del 29/04/2010, Grisetti; Conformi, Sez. 3, n. 46012 del 04/11/2008, Castellano; Sez. 3, n. 26529 del 20/05/2008, Torre; Sez. 3, n. 33281 del 24/06/2004, Datola)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.05.2019 n. 23818 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTILa giurisprudenza più volte ha evidenziato che l’obbligo di sopralluogo abbia valenza sostanziale, e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di formulare un’offerta consapevole e più aderente alle necessità dell’appalto, essendo esso strumentale a garantire una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi e conseguentemente funzionale alla miglior valutazione degli interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore precisione, la migliore offerta tecnica ed economica.
E’ stato così ritenuto non censurabile l’operato della stazione appaltante che aveva disposto l’esclusione dalla gara (bandita nella vigenza del precedente Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) per non essere stato il sopralluogo effettuato da tutte le imprese di un raggruppamento costituendo (ed in mancanza di deleghe rilasciate da alcune di esse) rilevando che in quel caso specifico (in cui era la stessa lex specialis a richiedere alle concorrenti “pena la non ammissione alla gara” di effettuare “preliminarmente…la presa visione degli elaborati progettuali a base di gara di appalto” ed eseguire apposito sopralluogo assistito in prossimità dei siti oggetto dell'intervento) venisse in rilievo “un adempimento che costituiva un elemento essenziale per la serietà e adeguatezza dell’offerta (in applicazione del principio di autoresponsabilità) e non una mera incompletezza o irregolarità documentale”.
In quel caso è stato osservato altresì che la specifica previsione della lex di gara (che espressamente comminava l’esclusione nell’ipotesi in cui l’offerta economica non contenesse l’attestazione di presa visione e di avvenuto sopralluogo) non fosse contraria alla normativa di settore o contraria al principio di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione alle gare (oltre che di parità di trattamento, trasparenza, imparzialità dell’azione amministrativa) in quanto funzionale a mettere la stazione appaltante al riparo da contestazioni postume e a garantire anche il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara (oggetto dell’affidamento in quel caso era la progettazione esecutiva, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, e l’ esecuzione dei lavori di dragaggio di fondali portuali).
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9. L’appello, i cui motivi possono essere trattati congiuntamente, è infondato, così che si può prescindere dall’esame dell’eccezione preliminare di inammissibilità e improcedibilità del ricorso di primo grado, riproposta dall’amministrazione appellata.
9.1. E’ sicuramente corretta la premessa, condivisa anche dal primo giudice, da cui muove l’appellante: è, infatti, vero che la giurisprudenza più volte ha evidenziato che l’obbligo di sopralluogo abbia valenza sostanziale, e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di formulare un’offerta consapevole e più aderente alle necessità dell’appalto, essendo esso strumentale a garantire una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi e conseguentemente funzionale alla miglior valutazione degli interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore precisione, la migliore offerta tecnica ed economica (cfr. Cons. Stato, VI, n. 2800 del 23.06.2016; IV, 19.10.2015, 4778).
E’ stato così ritenuto (Cons. Stato, V, 19.02.2018, n. 1037) non censurabile l’operato della stazione appaltante che aveva disposto l’esclusione dalla gara (bandita nella vigenza del precedente Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) per non essere stato il sopralluogo effettuato da tutte le imprese di un raggruppamento costituendo (ed in mancanza di deleghe rilasciate da alcune di esse) rilevando che in quel caso specifico (in cui era la stessa lex specialis a richiedere alle concorrenti “pena la non ammissione alla gara” di effettuare “preliminarmente…la presa visione degli elaborati progettuali a base di gara di appalto” ed eseguire apposito sopralluogo assistito in prossimità dei siti oggetto dell'intervento) venisse in rilievo “un adempimento che costituiva un elemento essenziale per la serietà e adeguatezza dell’offerta (in applicazione del principio di autoresponsabilità) e non una mera incompletezza o irregolarità documentale”; in quel caso è stato osservato altresì che la specifica previsione della lex di gara (che espressamente comminava l’esclusione nell’ipotesi in cui l’offerta economica non contenesse l’attestazione di presa visione e di avvenuto sopralluogo) non fosse contraria alla normativa di settore o contraria al principio di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione alle gare (oltre che di parità di trattamento, trasparenza, imparzialità dell’azione amministrativa) in quanto funzionale a mettere la stazione appaltante al riparo da contestazioni postume e a garantire anche il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara (oggetto dell’affidamento in quel caso era la progettazione esecutiva, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, e l’ esecuzione dei lavori di dragaggio di fondali portuali).
9.2. Sennonché tali principi non sono applicabili tout court al caso di specie.
9.2.1. Innanzitutto deve rilevarsi che l’oggetto stesso della procedura di gara (concernente la concessione della gestione tecnica della spiaggia libera attrezzata “lotto A e B” del relativo punto di ristoro, facente parte della concessione demaniale n. 15/2005 di cui è titolare il Comune e quindi in alcun modo comparabile con quella di cui al ricordato precedente giurisprudenziale) e le specifiche previsioni della legge di gara non consentono di ritenere che lo svolgimento del sopralluogo (ed il relativo attestato) avesse un valore sostanziale e fosse cioè indispensabile per la corretta formulazione dell’offerta.
E’ significativo che la carenza dell’obbligo di sopralluogo di cui si discute (pure astrattamente strumentale ad assicurare una piena ed esaustiva conoscenza dei luoghi) non è stato sanzionato con l’esclusione dalla gara dalla concorrente; né la previsione escludente può implicitamente ricavarsi dalla disciplina normativa ratione temporis applicabile alla fattispecie in oggetto: trattasi, infatti, di gara bandita nella vigenza del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, disciplina che, da un lato, ha abrogato (con l’art. 217, comma 1, lettera u, punto 2) l’art. 106 del d.P.R. 207 del 2010 (relativo all’obbligo di sopralluogo nei luoghi dell’appalto), senza sostituirlo con ulteriori previsioni a riguardo, dall’altro all’art. 79, comma 2, fa sì riferimento alle ipotesi in cui “le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara”, ma solo per farne conseguire la necessità che i termini per la presentazione delle offerte siano calibrati in modo che gli operatori interessati “possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte”.
9.2.2. Pertanto corrette risultano le statuizioni della sentenza impugnata che hanno ritenuto legittimo l’operato della stazione appaltante la quale, in virtù del divieto di aggravio del procedimento e del principio di massima partecipazione alle gare pubbliche, non poteva, in assenza di valide ragioni oggettive e immediatamente percepibili legate all’oggetto della gara, subordinare la partecipazione all’effettuazione del sopralluogo (e ricavarne l’estromissione della concorrente nel caso di sua inosservanza).
Non può di conseguenza ravvisarsi in concreto nel comportamento tenuto dall’amministrazione appellata alcuna violazione della par condicio competitorum.
Infatti il bando di gara non prevedeva l’obbligo di sopralluogo a pena di esclusione, in piena conformità alle statuizioni dell’art. 83, comma 8, ultimo periodo in base al quale “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle.”
A ciò aggiungasi che una simile clausola, ove prevista nella fattispecie, avrebbe violato, come rilevato dal giudice di prime cure, i principi di massima partecipazione alle gare e divieto di aggravio del procedimento, ponendo in capo all’operatore economico in maniera irragionevole un onere formale sproporzionato e ingiustificato, in quanto la sua inosservanza in alcun modo impediva il perseguimento dei risultati verso cui era diretta l’azione amministrativa, né il suo adempimento poteva dirsi funzionale a garantire il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara (sul punto del resto alcuna prova è stata fornita al riguardo).
9.2.3. Neppure era richiesta a pena di esclusione la presentazione, all’interno della documentazione amministrativa, della “attestazione di avvenuto sopralluogo” di cui al punto A.6 del bando di gara: ciò anche in ragione del fatto che si trattava di un documento formato nel contraddittorio con l’Amministrazione comunale e da questa rilasciato e dunque già in possesso della stazione appaltante, risultandone perciò l’ inserimento nella detta documentazione meramente facoltativo e comunque soccorribile.
In definitiva, l’esclusione della concorrente, invocata dall’appellante, non poteva essere disposta neppure in forza di un’eventuale eterointegrazione del bando poiché nessun principio generale, né alcuna norma imperativa, prevedono l’obbligatorietà del sopralluogo nelle procedure di affidamento in concessione della gestione di un bene pubblico, né la presentazione della relativa attestazione.
9.3. A tali valutazioni, già di per sé idonee a fondare il rigetto del gravame, deve poi aggiungersi che nel caso concreto l’obbligo di sopralluogo deve ritenersi assolto pienamente dall’aggiudicataria, non risultando le formalistiche censure di parte appellante idonee a sovvertire le motivazioni rese a riguardo dalla sentenza di primo grado.
Il Comune ha, infatti, prodotto in giudizio la documentazione attestante la legittimazione dei soggetti che avevano eseguito il sopralluogo, i quali, al di là della costituzione formale della società (intervenuta comunque prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte), avevano dichiarato di agire nell’interesse della società ai fini della partecipazione alla gara: in particolare, è stata versata in atti la bozza dell’atto costituivo recante la data del 27.12.2017 recante tutti i dati identificativi della società con indicazione dei soci, presentata in occasione del sopralluogo al fine di dimostrare la legittimazione del soggetto che lo avrebbe effettuato.
Deve altresì rilevarsi che i soggetti intervenuti al sopralluogo non soltanto avevano dichiarato di agire per conto e nell’interesse della società, ma di quella compagine societaria facevano parte, in quanto soci e amministratori.
Alla luce di tali risultanze pienamente valida ed efficace, ai fini che interessano, deve ritenersi l’attestazione di presa visione dei luoghi in data 29.12.2017.
Non è poi affatto priva di rilievo, come sostiene parte appellante, la circostanza che il sopralluogo sia stato ripetuto alla presenza di funzionari del Comune il 03.01.2018, in data successiva alla costituzione della società (avvenuta il 02.01.2018) e prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte: sebbene l’amministrazione legittimamente non abbia inteso rinnovare l’attestazione (in presenza di quella, pienamente valida ed efficace, relativa al primo sopralluogo), l’appellata ha fornito elementi indiziari, gravi, precisi e concordanti (sostanzialmente non contestati dall’appellante), ragionevolmente idonei e sufficiente a comprovare l’effettivo avvenuto sopralluogo (al solo fine di confermare la riferibilità ad essa del sopralluogo del 29.12.2017).
10. Alla stregua delle considerazioni svolte l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2019 n. 3581 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sui presupposti legittimanti l'adozione dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente.
Quanto ai presupposti, alle condizioni ed alle modalità di esercizio del potere riconosciuto ai sindaci dagli artt. 50 e 54 del T.U. n. 267 del 2000, vanno ribaditi i principi ripetutamente espressi dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo cui:
   - presupposti per l’adozione dell’ordinanza sindacale sono la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento;
   - nonché la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, o comunque la proporzionalità del provvedimento, non essendo possibile adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità;
   - il potere di ordinanza, inoltre, presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale.
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5. I motivi, che possono esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati.
A riscontro della fondatezza del secondo, quanto ai presupposti, alle condizioni ed alle modalità di esercizio del potere riconosciuto ai sindaci dagli artt. 50 e 54 del T.U. n. 267 del 2000, vanno ribaditi i principi ripetutamente espressi dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo cui:
   - presupposti per l’adozione dell’ordinanza sindacale sono la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento (Cons. Stato, V, 18.06.2018, n. 3727, tra le altre);
   - nonché la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti (Cons. Stato, VI, 10.12.2018, n. 6951), o comunque la proporzionalità del provvedimento (Cons. Stato, V, 26.04.2018, n. 2535), non essendo possibile adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità (Cons. Stato, V, 26.07.2016, n. 3369);
   - il potere di ordinanza, inoltre, presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale (così, da ultimo, Cons. Stato, V, 21.02.2017, n. 774, che richiama, nello stesso senso, i precedenti di cui a Cons. Stato, sez. V, 22.03.2016, n. 1189; 25.05.2015, n. 2967; 05.09.2015, n. 4499) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2019 n. 3580 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa legislazione statale in materia di condono presuppone la permanenza dell’opera da condonare nel corso del procedimento di condono.
In pendenza di tale procedimento, sono ammessi solo lavori di completamento dell’opera stessa, come risulta dalla chiara formulazione dell’art. 35, comma 12, della l. n. 47/1985. Non è invece ammissibile la sua sostituzione con un nuovo manufatto, anche se identico dal punto di vista volumetrico, della sagoma e della superficie.
Dunque, il condono può essere disposto solo per “i manufatti considerati nella loro consistenza oggettiva alla data di riferimento, per come indicati nella domanda di condono”.
In ogni caso, con riferimento alle fattispecie di rovina e integrale demolizione di un manufatto legittimamente assentito, evocate dall’appellante, va precisato che, poiché in questi casi viene meno l’esistenza del manufatto medesimo, viene meno anche l’efficacia della originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per volontà del suo titolare.
Ciò anche in caso di ristrutturazione edilizia, dato che essa postula la preesistenza del manufatto da ristrutturare, trattandosi altrimenti di nuova edificazione richiedente nuovo titolo edilizio.
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6. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
In merito alla rovina, documentata in atti, dei manufatti oggetto dei procedimenti di condono, il Collegio osserva che la legislazione statale in materia di condono presuppone la permanenza dell’opera da condonare nel corso del procedimento di condono. In pendenza di tale procedimento, sono ammessi solo lavori di completamento dell’opera stessa, come risulta dalla chiara formulazione dell’art. 35, comma 12, della l. n. 47/1985. Non è invece ammissibile la sua sostituzione con un nuovo manufatto, anche se identico dal punto di vista volumetrico, della sagoma e della superficie. Dunque, il condono può essere disposto solo per “i manufatti considerati nella loro consistenza oggettiva alla data di riferimento, per come indicati nella domanda di condono” (Cons. Stato, sez. VI, n. 4954/2018, cit.).
In ogni caso, con riferimento alle fattispecie di rovina e integrale demolizione di un manufatto legittimamente assentito, evocate dall’appellante, va precisato che, poiché in questi casi viene meno l’esistenza del manufatto medesimo, viene meno anche l’efficacia della originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per volontà del suo titolare (Cons. St. sez. V, 23.03.2000, n. 1610; sez. IV, 21.10.2008, n. 5162; CGARS, ad. sez. riun., 11.11.2014, n. 1229).
Ciò anche in caso di ristrutturazione edilizia, dato che essa postula la preesistenza del manufatto da ristrutturare, trattandosi altrimenti di nuova edificazione richiedente nuovo titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV 13.10.2010, n. 7476 e sez. V, 08.03.2011, n. 1452) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 28.05.2019 n. 3471 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Modifica del bando in sede di chiarimenti.
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Nell'interpretare le clausole del bando, deve darsi prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa, considerando che, in caso di oscurità ed equivocità, un corretto rapporto tra p.a. e privato che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell'azione amministrativa e di imparzialità, oltre che di quello specifico enunciato nell'art. 1337 c.c., impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l'affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che essa espressamente enuncia, restando il concorrente dispensato dal ricostruire, mediante indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati.
Pertanto, ove il dato testuale presenti ambiguità, deve essere prescelto il significato più favorevole all'ammissione del candidato, essendo conforme al pubblico interesse che alla procedura selettiva partecipi il più elevato numero di candidati
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I chiarimenti resi dalla stazione appaltante in corso di gara non possono modificare o integrare bando, disciplinare e capitolato, quanto invece limitarsi a fornire un'interpretazione autentica, in nome della massima partecipazione e del principio di economicità dell'azione amministrativa.
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In relazione all'inidoneità dei chiarimenti a modificare la lex specialis, nessun onere di impugnazione autonoma ed immediata è configurabile in capo alla concorrente lesa dalla loro applicazione
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Per giurisprudenza pacifica, nell'interpretare le clausole del bando, deve darsi prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa, considerando che, in caso di oscurità ed equivocità, un corretto rapporto tra p.a. e privato che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell'azione amministrativa e di imparzialità, oltre che di quello specifico enunciato nell'art. 1337 c.c., impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l'affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che essa espressamente enuncia, restando il concorrente dispensato dal ricostruire, mediante indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati.
Pertanto, ove il dato testuale presenti ambiguità, deve essere prescelto il significato più favorevole all'ammissione del candidato, essendo conforme al pubblico interesse che alla procedura selettiva partecipi il più elevato numero di candidati (TAR Campania, Napoli, Sez. V, 28.12.2018, n. 7426, TAR Marche, Sez. I, 29.10.2018, n. 697, C.S., Sez. III, 20.08.2018, n. 4981).
Con riferimento alla fattispecie per cui è causa, come detto, la lex specialis non imponeva univocamente che il team di professionisti fosse obbligatoriamente composto da dipendenti dei concorrenti.
Al contrario, la previsione secondo cui il personale indicato avrebbe dovuto essere “in forza” presso l’impresa, richiama la sussistenza di un legame del tutto generico tra concorrente e professionisti, compatibile con tipologie contrattuali diverse dalla subordinazione, trattandosi infatti di espressione in uso nel linguaggio comune, priva di un preciso significato giuridico, che deve conseguentemente essere interpretata alla luce del favor partecipationis.
III) Né peraltro rileva il chiarimento n. 2, pubblicato dal R.U.P. in data 12.07.2018, secondo cui, “in merito al criterio A1 il rapporto di lavoro del team tecnico è da intendersi come contratto di lavoro subordinato”, atteso che, per giurisprudenza pacifica, i chiarimenti resi dalla stazione appaltante in corso di gara non possono modificare o integrare bando, disciplinare e capitolato, quanto invece, limitarsi a fornire un'interpretazione autentica, in nome della massima partecipazione e del principio di economicità dell'azione amministrativa (TAR Sardegna, Sez. I, 29.11.2018, n. 997, C.S., Sez. III, 27.11.2018, n. 6721).
Inoltre, in relazione all'inidoneità dei chiarimenti a modificare la lex specialis, nessun onere di impugnazione autonoma ed immediata è configurabile in capo alla concorrente lesa dalla loro applicazione (TAR Toscana, Sez. III, 11.12.2018, n. 1630), dovendosi pertanto respingere l’eccezione preliminare di tardività sollevata dalla difesa di Aler.
In conclusione, il ricorso proposto con i motivi aggiunti va pertanto accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 28.05.2019 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente – Rifiuti – Bonifica – Ordinanza diretta ai proprietari dell’area inquinata – In mancanza di apposita e preventiva istruttoria diretta a verificare l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa, in capo ai proprietari, dell’abbandono dei rifiuti – Illegittimità.
E’ illegittima una ordinanza sindacale, adottata ai sensi del comma 3 dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006, con la quale è stato ingiunto alla società ANAS spa di bonificare un’area destinata a intersezione tra due strade statali, da rifiuti abbandonati da ignoti, mediante rimozione ed avvio a smaltimento degli stessi, ove risulti che l’Amministrazione comunale non abbia provveduto, attraverso idonea e preventiva istruttoria, a verificare in contraddittorio l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa, in capo alla società stessa, dell’abbandono dei rifiuti sul sito di proprietà e, in particolare, non abbia provveduto ad inviare preventivamente alla società destinataria dell’ordinanza, la comunicazione di avvio del procedimento, ex artt. 7 e segg. della legge n. 241 del 1990 e s.m.i. (massima tratta da www.lexitalia.it).
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L’ANAS, odierna appellante, ha impugnato dinanzi alla Seconda Sezione del Tar Palermo il provvedimento con il quale il Comune di Corleone le ha ingiunto di rimuovere e smaltire i rifiuti abbandonati ad opera d’ignoti presso l’intersezione tra la S.S. 118, km 31.400 con la dismessa S.S. 118 che conduce verso la Contrada S. Gandolfo.
...
L’appello è fondato e va accolto.
E’ anzitutto fondato il motivo con cui si lamenta la violazione dell’art. 7 l. n. 241/1990.
Il comma 3 dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 stabilisce infatti che chiunque viola i divieti di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.”
La norma quindi impone una verifica in contraddittorio e l’assenza di essa il rende il provvedimento impugnato in primo grado illegittimo.
Correttamente parte appellante insiste sulla carenza di urgenza che giustificasse l’omissione del contraddittorio e sottolinea la differenza tra scambio epistolare e formale comunicazione di avvio del procedimento.
Il procedimento previsto dall’art. 7 citato prevede una dinamica procedimentale che supporta la verifica in contraddittorio e non la mera corrispondenza tra enti con competenze diverse.
L’accoglimento di tale censura consente l’assorbimento di tutte le altre.
Per l’effetto, va annullata l’ordinanza sindacale 23.12.2011 n. 150 (CGARS, sentenza 28.05.2019 n. 497 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Deposito e spandimento rifiuti speciali allo stato liquido - Liquami zootecnici - Deroga alla disciplina sui rifiuti - Presupposti e limiti - AGRICOLTURA E ZOOTECNIA - Attività di fertirrigazione - Elementi idonei ad escludere l'utilizzazione di letame incompatibile - Quantità, qualità, tempi e modalità di distribuzione - Onere della prova - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Configura il reato di cui all'art. 256, comma 2, del Dlgs 152/2006, il deposito sul suolo rifiuti speciali allo stato liquido quali liquami prodotti da all'allevamento in assenza di autorizzazione e comunque fuori dei casi e procedure previste dalle norme in deroga alla disciplina sui rifiuti.
Sicché, la pratica della "fertirrigazione", idonea a sottrarre il deposito delle deiezioni animali alla disciplina sui rifiuti, richiede, in primo luogo, l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo spandimento, nonché l'adeguatezza di quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture e, in secondo luogo, l'assenza di dati sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione, quali, ad esempio, lo spandimento di liquami lasciati scorrere per caduta a fine ciclo vegetativo
(Cass.. Sez. 3, n. 40782 del 06/05/2015, Valigi).
Inoltre, tutte le attività idonee a sottrarre i rifiuti dalla relativa disciplina ordinaria e dalle correlate ipotesi di reato in quanto integranti un'eccezione alla regola devono essere dimostrate dalla parte che vi abbia interesse
(Cass. Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.05.2019 n. 23148 - link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVORO: Rischio di cadute dall'alto: la Cassazione sugli obblighi del datore di lavoro.
L'obbligo del datore di lavoro, nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di apprestare (quando possibile) impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali, non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza
In tema di infortuni sul lavoro, “l'uso delle cinture di sicurezza -misura di carattere generale e imperativo- deve essere adottato in tutti i casi in cui il lavoratore sia esposto al rischio di caduta dall'alto, con la sola esclusione della ipotesi di presenza di impalcati di protezione e di parapetti idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta: ne consegue che l'esonero dalla protezione delle cinture non è previsto allorché tali parapetti siano idonei soltanto a facilitare il lavoro, o, tutt'al più, ad attenuare soltanto il rischio”.
Lo ha ribadito la III Sez. penale della Corte di Cassazione con la recentissima sentenza 27.05.2019 n. 23140.
In questa sentenza la suprema Corte ha anche ricordato “
lo speculare e condivisibile principio per il quale in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro, nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di apprestare (quando possibile) impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, previsto solo sussidiariamente o in via complementare” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
18. Inammissibile, in primo luogo, è la seconda censura, in forza della quale l'adozione dei parapetti non sarebbe stata necessaria sul cantiere, attesa la (pacifica) dotazione agli operai della cintura di sicurezza.
Osserva la Corte, infatti, che la questione è posta in termini palesemente fattuali -quindi, irricevibili in questa sede- muovendo dall'asserzione secondo la quale non sarebbe "affatto pacifica, come sembra far credere la Corte Salernitana..., la tesi dell'obbligatorietà dei parapetti in aggiunta all'obbligatorietà delle cinture di sicurezza".
A ciò si aggiunga, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità ha già rilevato -in senso contrario a quanto dedotto nel ricorso- che
in tema di infortuni sul lavoro, l'uso delle cinture di sicurezza -misura di carattere generale e imperativo- deve essere adottato in tutti i casi in cui il lavoratore sia esposto al rischio di caduta dall'alto, con la sola esclusione della ipotesi di presenza di impalcati di protezione e di parapetti idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta: ne consegue che l'esonero dalla protezione delle cinture non è previsto allorché tali parapetti siano idonei soltanto a facilitare il lavoro, o, tutt'al più, ad attenuare soltanto il rischio (Sez. 4, n. 10213 del 13/01/2005, Vecchiato, Rv. 231249).
Quel che si concilia con lo speculare e condivisibile principio -richiamato anche nella sentenza impugnata- per il quale
in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro, nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di apprestare (quando possibile) impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, previsto solo sussidiariamente o in via complementare (per tutte, Sez. 4, n. 25134 del 19/04/2013, Urso, Rv. 256525).

SICUREZZA LAVOROLa norma di cui al dlgs 14.08.1996 n. 494 è stata introdotta per ampliare -non certo per restringere- la sfera di tutela del lavoratore e dei luoghi di lavoro, espandendo -non certo limitando- le figure di garanzia e gli obblighi ad esse relativi, particolarmente avvertiti qualora i lavori da eseguire siano complessi o prevedano interferenze tra i vari soggetti coinvolti.
Ecco dunque il Piano di Sicurezza e Coordinamento (i cui contenuti minimi sono definiti dagli artt. 2, 3 e 4, d.P.R. n. 223), redatto dal committente o dal responsabile dei lavori; il Piano di Sicurezza Sostitutivo, redatto a cura dell'appaltatore e del concessionario; il Piano Operativo di Sicurezza, redatto da ciascun datore di lavoro delle imprese esecutrici; strumenti che, all'evidenza, non si sostituiscono, ma si integrano, nell'ottica di una messa in sicurezza del cantiere che il legislatore tende a garantire sempre con maggiore rigore.
Come confermato, del resto, dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha delineato gli ambiti di responsabilità anche del committente (dal quale, peraltro, non può esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, occorrendo verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo; senza tuttavia rimuovere alcun profilo di responsabilità in capo al datore di lavoro, primo destinatario della posizione di garanzia nei confronti dei propri dipendenti, allorquando -anche a fronte di competenze altrui- destini gli stessi a mansioni oggettivamente pericolose, in ragione del generale contesto in cui si svolgono.

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20. Infondata, di seguito, risulta la terza censura del ricorso Vi., con la quale si deduce la violazione del d.lgs. 14.08.1996, n. 494 (Attuazione della direttiva 92/57/CEE concernente le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili) e del d.P.R. 222 del 03.07.2003, con mancanza di motivazione su un punto decisivo della controversia; la tesi difensiva -per la quale questa disciplina avrebbe posto integralmente in capo al committente, non al datore di lavoro quale il Vi., l'eventuale obbligo di adottare i parapetti nell'ambito del PSC (Piano Sicurezza e Coordinamento)- non può esser infatti accolta.
21. Osserva il Collegio, al riguardo, che la normativa richiamata è stata introdotta per ampliare -non certo per restringere- la sfera di tutela del lavoratore e dei luoghi di lavoro, espandendo -non certo limitando- le figure di garanzia e gli obblighi ad esse relativi, particolarmente avvertiti qualora i lavori da eseguire siano complessi o prevedano interferenze tra i vari soggetti coinvolti.
Ecco dunque il Piano di Sicurezza e Coordinamento (i cui contenuti minimi sono definiti dagli artt. 2, 3 e 4, d.P.R. n. 223), redatto dal committente o dal responsabile dei lavori; il Piano di Sicurezza Sostitutivo, redatto a cura dell'appaltatore e del concessionario; il Piano Operativo di Sicurezza, redatto da ciascun datore di lavoro delle imprese esecutrici (il Vi., nel caso di specie); strumenti che, all'evidenza, non si sostituiscono, ma si integrano, nell'ottica di una messa in sicurezza del cantiere che il legislatore tende a garantire sempre con maggiore rigore.
Come confermato, del resto, dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha delineato gli ambiti di responsabilità anche del committente (dal quale, peraltro, non può esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, occorrendo verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo; tra le altre, Sez. 4, n. 27296 del 02/12/2016, Vettor, Rv. 270100; Sez. 4, n. 44131 del 15/07/2015, Heqimi, Rv. 264974), senza tuttavia rimuovere alcun profilo di responsabilità in capo al datore di lavoro, primo destinatario della posizione di garanzia nei confronti dei propri dipendenti, allorquando -anche a fronte di competenze altrui- destini gli stessi a mansioni oggettivamente pericolose, in ragione del generale contesto in cui si svolgono (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.05.2019 n. 23140).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIValutazione di impatto ambientale.
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Ambiente - Valutazione di impatto ambientale – Verifica impatto che il complesso delle nuove opere ha sull’ambiente – Omissione – Illegittimità.
E’ illegittima per difetto di istruttoria la valutazione di impatto ambientale posta in essere prescindendo dal considerare l’impatto che il complesso delle nuove opere ha sull’ambiente (1).
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   (1) Il Tar Toscana stabilisce che la valutazione di impatto ambientale implica un esame dell’impatto complessivo che le singole opere hanno sull’ambiente, in quanto la definizione del grado di modifica dell’ambiente (se in misura più o meno penetrante) non può che essere essenziale, consentendo di valutare se le alterazioni conseguenti alla realizzazione delle opere possano ritenersi "accettabili" alla stregua di un giudizio comparativo che tenga conto della necessità di salvaguardare preminenti valori ambientali e dell’impatto della realizzazione di una determinata opera, in applicazione ai fondamentali principi di precauzione e prevenzione del diritto dell’ambiente.
Ne consegue l’emergere di un difetto di istruttoria tutte quelle volte che la valutazione di compatibilità ambientale sia stata posta in essere prescindendo dal considerare l’impatto che il complesso delle nuove opere ha sull’ambiente e, ciò, operando un rinvio di detta valutazione all’esecuzione di un considerevole numero di prescrizioni, in un contesto nel quale le azioni da compiere non erano sufficientemente definite e che, pertanto, avrebbero richiesto inevitabilmente nuove valutazioni conseguenti all’esame istruttorio ancora da svolgere.
Lo scopo delle prescrizioni è, infatti, quello di individuare le condizioni più idonee per meglio garantire la compatibilità ambientale, funzione quest’ultima che presuppone un’avvenuta valutazione positiva dell’opera circa l’incidenza di quest’ultima sugli elementi naturalistici del territorio.
Nel caso di specie il progetto presentato dall’Enac consisteva in un “Masterplan Aeroportuale” che rinviava alla fase esecutiva le valutazioni di incidenza sull’ambiente riferite a circa 142 prescrizioni che implicavano, tra l’altro, lo spostamento di un corso d’acqua; il sotto-attraversamento di un’autostrada; la ricollocazione del bacino denominato “Lago di Peretola” (peraltro sottoposto a vincolo paesaggistico), l’interramento di quest’ultimo e la creazione ex novo di un’area umida di circa 9,7 ettari con trasferimento della fauna e della vegetazione e, ciò, oltre all’esame degli scenari probabilistici del rischio di incidente aereo.
In particolare il Tar ha ritenuto esistenti i seguenti principi di diritto:
   a) a prescindere dal fatto che si ritenga applicabile che la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 104 del 2017 (che modifica gli artt. 20 e ss., d.lgs. n. 152 del 2006), laddove consente che gli elaborati progettuali siano predisposti con un livello informativo e di dettaglio equivalente a quello del progetto di fattibilità, o al contrario (come sostengono i ricorrenti) un livello di definizione al progetto esecutivo di cui all’art. 93 comma 6, del d.lgs. 163/2006, è comunque indispensabile che il progetto di un’opera pubblica, alla base della valutazione di impatto ambientale, contenga quel grado di dettaglio minimo e sufficiente affinché si possa addivenire ad una corretta valutazione degli effetti che l’opera ha sull’ambiente circostante.
   b) l’art. 25, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006 prevede l’ammissibilità di prescrizioni che, tuttavia, sono espressamente qualificate come condizioni per la realizzazione, l'esercizio e la dismissione del progetto, nonché quelle condizioni dirette ad evitare, prevenire, ridurre e, se possibile, compensare gli impatti ambientali significativi e negativi; si tratta di allora di opere e modalità esecutive eventuali e accessorie, che si pongono a valle di un progetto comunque definito e compiuto, quanto meno in tutti quegli elementi sufficienti per effettuare un giudizio sull’impatto delle opere rispetto all’ambiente circostante.
   c) le opere e gli interventi da realizzare nell’ambito delle prescrizioni non possono che avere un carattere “accessorio” rispetto al giudizio di compatibilità, attenendo alla fase di esecuzione del progetto e non riguardare aspetti che avrebbero dovuto essere valutati e risolti in sede di VIA.
   d) la valutazione di compatibilità ambientale non può avere natura condizionata se le prescrizioni a cui è subordinata non possiedono un reale contenuto precettivo, recando per contro indicazioni meramente orientative ipotetiche, e, in ogni caso, non può trattarsi di indicazioni la cui concreta realizzabilità non sia stata preventivamente (Tar Toscana, sez. II, 23.12.2010, n. 6867);
   e) la valutazione di impatto ambientale ha, infatti, il fine di sensibilizzare l'autorità decidente, attraverso l'apporto di elementi tecnico-scientifici idonei ad evidenziare le ricadute sull'ambiente derivanti dalla realizzazione di una determinata opera, a salvaguardia dell'habitat. Tale valutazione non può che implicare una complessiva ed approfondita analisi di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente considerato, per valutare in concreto il sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità socio-economica perseguita (Cons. St., sez. V, 06.07.2016, n. 3000 id., sez. IV, 24.03.2016, n. 1225);
   f) il concetto di valutazione di impatto ambientale implica che le opere da valutare siano state preventivamente definite (quanto meno nelle linee essenziali), senza che possano emergere nuovi aspetti suscettibili di condizionare l’avvenuta valutazione di compatibilità ambientale.
   g) se le opere da realizzare non sono state compiutamente definite è la stessa valutazione di compatibilità ambientale a risultare parziale, non essendo stato possibile verificare in che misura l’ambiente ne risulterebbe modificato, dall'altro, dell'interesse pubblico sotteso all'esecuzione dell'opera, potendo gli organi amministrativi preposti al procedimento di v.i.a. dettare prescrizioni e condizioni diretto solo a meglio garantire la compatibilità ambientale dell'opera progettata (Tar Milano, sez. III, 08.03.2013, n. 627).
   h) nell’ipotesi in cui la progettazione esecutiva comporti importanti variazioni all'opera già esaminata, tali da alterarne le caratteristiche è necessario che in sede di approvazione del progetto definitivo l'autorità amministrativa manifesti la consapevolezza del susseguirsi dei provvedimenti e li ritenga compatibili con le risultanze della valutazione di impatto ambientale e, ciò, al fine di consentire in sede giurisdizionale il sindacato di legittimità sulla ragionevolezza di tali determinazioni e di quella che esclude la rinnovazione della medesima valutazione (Cons. St., sez. VI, 12.05.2006, n. 2694; id., sez. IV, 11.04.2007, n. 1649) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 27.05.2019 n. 789 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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1.8 Ciò premesso è possibile esaminare le argomentazioni proposte, anticipando sin d’ora come sia da accogliere il quarto, l’ottavo e il dodicesimo motivo.
1.9 Con dette censure le parti ricorrenti sostengono che il decreto VIA n. 377/2017, avente ad oggetto il Master Plan 2014-2029 dell’aeroporto di Firenze, sarebbe illegittimo in quanto subordinato a prescrizioni in gran parte prive di contenuto precettivo che, di fatto, avrebbero l’effetto di posticipare valutazioni che, invece, avrebbero dovuto essere eseguite prima della conclusione del procedimento di VIA.
2. Al contrario le Amministrazioni resistenti sostengono che l’aver imposto delle prescrizioni non comporterebbe un rinvio delle valutazioni di compatibilità ambientale che, in realtà, sarebbero state effettuate nell’ambito del procedimento in questione.
Le condizioni apposte sarebbero dirette esclusivamente a effettuare alcuni approfondimenti al fine di individuare le migliori modalità esecutive.
A parere delle Amministrazioni sopra citate la circostanza che procedimento VIA sia giunto a conclusione nella vigenza del d.lgs. 104/2017, consentirebbe l’applicazione di detta nuova disciplina, laddove prevede che gli elaborati progettuali siano predisposti con un livello informativo e di dettaglio equivalente a quello del progetto di fattibilità, non richiedendo così un grado di specificazione pari al progetto esecutivo di cui all’art. 93, comma 6, del d.lgs. 163/2006.
2.1 L’ottemperanza alle condizioni, inoltre, è stata verificata dall’apposito Osservatorio costituito dal Ministero dell’Ambiente che, a sua volta, ha confermato le valutazioni alle quali era giunto il decreto 377/2018.
2.2 Come si andrà a dimostrare
è dirimente constatare che il progetto sottoposto a VIA non conteneva quel grado di dettaglio minimo e sufficiente affinché il Ministero dell’Ambiente addivenisse ad una corretta valutazione di compatibilità ambientale, non essendosi individuati compiutamente le opere da realizzare.
2.3 Il progetto presentato dall’Enac consiste in un “Masterplan Aeroportuale”, documento che il Ministero dell’Ambiente ha ritenuto assimilabile ad un “progetto definitivo”, consentendo la sua sottoposizione alla procedura di compatibilità ambientale.
2.4 L’esame della documentazione in atti consente inoltre di evincere come si sia in presenza di opere di considerevole impatto ambientale che implicano, tra l’altro, lo spostamento di un tratto del Fosso Reale, il sotto-attraversamento dell’Autostrada A11; la riorganizzazione dello svincolo della A11 per Sesto Fiorentino e Osmannoro e la ricollocazione del bacino denominato “Lago di Peretola” e di alcuni bacini del sito “La Querciola”, oltre alla delocalizzazione di parte dei “boschi della piana”.
2.5 L’incidenza della realizzazione di dette opere sul sistema ambientale risulta evidente laddove si consideri che l’area di compensazione di “Mollaia” consiste nella “creazione di un sistema di nuovi ambienti ad acquitrino e bosco idrofilo, mentre l’area di compensazione di Santa Croce concerne la sostituzione del Lago di Peretola, prevedendo l’interramento di quest’ultimo e la creazione ex novo di un’area umida di circa 9,7 ettari con trasferimento della fauna e della vegetazione.
2.6 Tali considerazioni risultano paradossalmente rafforzate dall’esame della documentazione depositata nel corso del giudizio e riferita al procedimento di localizzazione delle opere di pubbliche di interesse statale, in relazione al quale è stata convocata la conferenza di servizi ai sensi dell’art. 3, comma 1, del Dpr 383/1994.
2.7 Nel prosieguo del procedimento sono intervenute una serie di variazioni e integrazioni rispetto agli atti in possesso del Ministero dell’Ambiente nel momento in cui è stato adottato il giudizio di compatibilità ambientale.
2.8 E’ stata, infatti, dettagliata la realizzazione delle opere idrauliche esterne all’area di sedime aeroportuale comprendenti, tra le altre, l’opera di deviazione del Fosso Reale, l’attraversamento dell’Autostrada A11, la realizzazione delle casse di espansione (aree di laminazione) e le opere di compensazione ambientale funzionali alla mitigazione dell’impatto sui siti protetti.
In particolare per quanto concerne le opere idrauliche va evidenziato che la documentazione progettuale originariamente prodotta in sede di VIA non conteneva l’indicazione delle relazioni geologiche, sismiche ed idrologiche, nonché le verifiche geotecniche.
2.9 La documentazione presentata nell’ambito del procedimento urbanistico conferma come in sede di VIA sia stato presentato un progetto parziale e comunque insufficiente a consentire una compiuta valutazione degli impatti ambientali, essendosi rinviato detto giudizio alle fasi progettuali successive, devolvendo le attività di verifica della corretta esecuzione delle prescrizioni al costituendo Osservatorio Ambientale.
3. L’assenza dell’esperimento di una corretta fase istruttoria risulta dimostrata dal fatto che il decreto sopra citato contiene un numero di prescrizioni (pari a circa 70) che, per le loro caratteristiche, hanno l’effetto di condizionare la valutazione di compatibilità ambientale contenuta nel provvedimento impugnato.
3.1 In particolare dalle prescrizioni contenute nel decreto 377/2018 è possibile desumere che è stato rinviato alla fase esecutiva lo studio riferito agli scenari probabilistici del rischio di incidente aereo (prescrizione n. 3) e la stima del rischio di incidente rilevante con strutture soggette alla Direttiva Seveso, presenti sulle direttrici di atterraggio e decollo (prescrizione n. 4); la verifica della conformità delle nuove aree di laminazione previste dal SIA (prescrizione n. 28); l’individuazione di una soluzione progettuale che consenta di realizzare il sotto attraversamento dell’autostrada A11 da parte del nuovo corso del Fosso Reale (prescrizione n. 29); è stata posticipata l’individuazione delle soluzioni a tutte le interferenze della nuova pista con l’assetto idraulico e con le infrastrutture stradali della zona interessata dal progetto (prescrizione n. 33); è stata rinviata l’individuazione delle soluzioni per risolvere l’interferenza tra la pista e la già programmata cassa di laminazione del PUE di Castello, nonché di quella già prevista dal Comune di Sesto Fiorentino sul Canale di Cinta Orientale per la messa in sicurezza del Polo Universitario di Sesto Fiorentino (prescrizione n. 34); non è stata posta in essere la progettazione esecutiva e l’analisi del rischio di bird strike (prescrizione n. 46), così come la redazione di un progetto di massima degli ambienti umidi previsti a compensazione della distruzione delle aree naturali, di cui al punto precedente (prescrizione n. 49).
3.2 La prescrizione n. 29 prevede che “il proponente in sede di progettazione esecutiva dovrà correttamente sviluppare la soluzione di attraversamento dell’autostrada A11 presentata nel SIA (e documentazione integrativa) risolvendo la problematica tecnica evidenziata nel parere del Genio Civile di Bacino Arno Toscana del 19.10.2015”.
3.1 Particolarmente incidenti sono le opere previste nelle prescrizioni n. 28, 30 e 33, laddove si rinvia alla fase di progettazione esecutiva la verifica dell’adeguatezza delle nuove aree di laminazione.
3.2 Tra le prescrizioni suscettibili di incidere maggiormente sulla valutazione di compatibilità ambientale vanno annoverate le opere da realizzare e relative all’assetto idrologico-idraulico della Piana fiorentina (in questo senso si veda l’ottavo motivo del ricorso).
3.3 Analogamente con la prescrizione n. 46 (dodicesimo motivo) viene integralmente rimandata alla fase di progettazione esecutiva l’analisi del rischio di “bird strike”, fattispecie quest’ultima in relazione alla quale, peraltro, si era già pronunciato questo Tribunale.
La sentenza 1310/2016 aveva avuto modo di chiarire la necessità di una preventiva realizzazione di detto studio, disponendo che “la localizzazione della pista di volo può di per sé porre un problema di intercettazione dei volatili. Il rischio di bird strike attiene infatti all’ubicazione dell’aeroporto, e quindi la sua valutazione si rende necessaria già al momento della scelta di piano. Non si tratta, cioè, di impatto sull’ambiente evidenziabile solo in sede di predisposizione del progetto, ovvero in fase di VIA, essendo già evincibile al momento della localizzazione dell’opera la possibilità o meno di intercettazione di passaggi dell’avifauna, sia in relazione ai percorsi migratori, sia in relazione alla vicinanza di aree alberate o di corsi d’acqua, che notoriamente attraggono gli uccelli”.
3.4 In questo senso è anche la prescrizione A3 “rischio di incidente aereo”, laddove si richiede la predisposizione di uno studio “riferito agli scenari probabilistici sul rischio di incidenti aerei”, finalizzato a “descrivere e quantificare i rischi per la salute umana e l’ambiente derivanti dalla vulnerabilità aeroportuale a gravi incidenti”.
3.5 Ciò premesso è evidente che il “progetto esecutivo” sia, di per sé, deputato ad introdurre solo le specifiche, i dettagli e le modalità delle lavorazioni da svolgere, non potendo costituire il momento in cui effettuare “scelte progettuali” o nuove “valutazioni” circa gli impatti dell’opera sulle componenti ambientali o in merito i rischi derivanti dall’esecuzione del progetto (si vedano ad esempio le prescrizioni nn. 3, 4, 29, 33 34, 46, 48 e 49).
3.6 L’art. 25, comma 4, del d.lgs. 152/2006 prevede l’ammissibilità di prescrizioni che sono espressamente qualificate come condizioni per la realizzazione, l'esercizio e la dismissione del progetto, nonché quelle condizioni dirette ad evitare, prevenire, ridurre e, se possibile, compensare gli impatti ambientali significativi e negativi.
3.7 Si tratta di prescrizioni, quindi, eventuali e accessorie, che si pongono a valle di un progetto comunque definito e compiuto, quanto meno in tutti quegli elementi indispensabili per effettuare un giudizio sull’impatto delle opere rispetto all’ambiente circostante.
3.8 Ne consegue che le opere e gli interventi da realizzare non possono che avere un carattere “accessorio” rispetto al giudizio di compatibilità, attenendo alla fase di esecuzione del progetto e non riguardare aspetti che dovevano essere valutati e risolti in sede di VIA.
3.9
E’, infatti, noto che la valutazione di impatto ambientale ha il fine di sensibilizzare l'autorità decidente, attraverso l'apporto di elementi tecnico-scientifici idonei ad evidenziare le ricadute sull'ambiente derivanti dalla realizzazione di una determinata opera, a salvaguardia dell'habitat.
Tale valutazione non può che implicare una complessiva ed approfondita analisi di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente considerato, per valutare in concreto il sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità socio-economica perseguita (Cons. di Stato Sez. V, sentenza n. 3000 del 06/07/2016; Cons. di Stato Sez. IV, sentenza n. 1225 del 24/03/2016).
4. Ulteriori pronunce hanno poi, confermato
la necessità di una nuova valutazione tutte le volte che la progettazione esecutiva comporti importanti variazioni all'opera già esaminata, tali da alterarne le caratteristiche.
In tali casi, è necessario che in sede di approvazione del progetto definitivo l'autorità amministrativa manifesti la consapevolezza del susseguirsi dei provvedimenti e li ritenga compatibili con le risultanze della valutazione di impatto ambientale e, ciò, al fine di consentire in sede giurisdizionale il sindacato di legittimità sulla ragionevolezza di tali determinazioni e di quella che esclude la rinnovazione della medesima valutazione (Cons. di Stato Sez. VI, sentenza n. 2694 del 12/05/2006 e Cons. Stato Sez. IV, 11/04/2007, n. 1649).
4.1
Nel caso di autorizzazione per la costruzione di un'opera, la violazione delle prescrizioni vincolanti dettate in sede di VIA, tali da dare vita ad un'opera da ritenersi sostanzialmente differente da quella autorizzata, si deve ritenere di per sé idonea ad inficiare irrimediabilmente la procedura (Cons. Stato Sez. VI Sent., 03/10/2007, n. 5105).
4.2
E’ evidente che la maggior parte delle opere sopra citate risultano “rilevanti” e astrattamente idonee ad alterare l’ambiente e, ciò, con l’effetto che le scelte da operare in sede esecutiva sono in realtà suscettibili di incidere sulla valutazione di idoneità ambientale già posta in essere.
4.3 Come si è avuto modo di anticipare le prescrizioni di cui si tratta si riferiscono allo spostamento di un fiume, alla necessità di reperire volumi di compensazione idrauliche delle aree agricole, opere queste ultime la cui necessità era stata rilevata anche dal Piano di Bonifica, evidenziando che gli interventi di cui si tratta ricadono in aree classificate a pericolosità idraulica media ed elevata.
4.4 Si consideri, peraltro, che la verifica dell'ottemperanza a dette condizioni non è stata demandata ai due Ministeri che hanno emesso il provvedimento di VIA, bensì ad un organismo a composizione mista dove è presente (con diritto di voto) lo stesso proponente ENAC (e senza diritto di voto) la società Toscana Aeroporti (e quindi il soggetto che gestisce l’aeroporto), mentre è stata esclusa dall'Osservatorio la presenza di ogni rappresentante dei Comuni ricorrenti, circostanza che ha impedito a questi ultimi di presentare specifici rilievi una volta approvati i progetti esecutivi.
4.5 Detta modalità di procedere contrasta con la finalità primaria del procedimento di VIA, diretta com’è a dare concreta applicazione ai fondamentali principi di precauzione e prevenzione del diritto dell’ambiente.
4.6
E’ il complessivo tenore delle prescrizioni che dimostra come la valutazione di compatibilità ambientale sia stata posta in essere prescindendo dall’esame dell’impatto che le nuove opere potrebbero avere sull’ambiente, in un contesto nel quale le azioni da compiere non sono sufficientemente definite e che, pertanto, richiedono inevitabilmente nuove valutazioni conseguenti all’esame istruttorio ancora da svolgere.
5.8 Al contrario
lo scopo delle prescrizioni è quello di individuare le condizioni più idonee per meglio garantire la compatibilità ambientale, funzione quest’ultima che presuppone un avvenuta valutazione positiva dell’opera circa l’incidenza di quest’ultima sugli elementi naturalistici del territorio.
5.9
Il concetto di valutazione di impatto ambientale implica, allora, che le opere da valutare siano state preventivamente definite (quanto meno nelle linee essenziali), risultando comunque possibile valutare l’incidenza di queste ultime sugli elementi naturalistici del territorio.
6.
Nell’ambito della VIA la definizione del grado di modifica dell’ambiente (se in misura più o meno penetrante) non può che essere essenziale, in quanto consente di valutare se le alterazioni conseguenti alla realizzazione delle opere possano ritenersi "accettabili" alla stregua di un giudizio comparativo che tenga conto, da un lato, della necessità di salvaguardare preminenti valori ambientali, dall'altro, dell'interesse pubblico sotteso all'esecuzione dell'opera, potendo gli organi amministrativi preposti al procedimento di v.i.a. dettare prescrizioni e condizioni per meglio garantire la compatibilità ambientale dell'opera progettata (TAR Lombardia Milano Sez. III Sent., 08/03/2013, n. 627).
6.1
Al contrario se le opere da realizzare non sono state compiutamente definite è la stessa valutazione di compatibilità ambientale a risultare parziale, non essendo stato possibile verificare in che misura l’ambiente ne risulterebbe modificato.
6.2 Anche questo Tribunale (TAR Toscana, Sez. II, 23.12.2010, n. 6867), ha avuto modo di affermare che
la valutazione di compatibilità ambientale non può avere natura condizionata se le prescrizioni a cui è subordinata non possiedono un reale contenuto precettivo, recando per contro indicazioni meramente orientative ipotetiche, e, in ogni caso, non può trattarsi di indicazioni la cui concreta realizzabilità non sia stata preventivamente verificata.
6.3
Ne consegue che la previsione di un numero così elevato di prescrizioni, ma soprattutto il carattere e il tenore di queste ultime, dimostra inevitabilmente il difetto di istruttoria in cui è incorsa l’Amministrazione, che è stata obbligata a posticipare la valutazione dei relativi impatti ambientali.
6.4 Le censure sopra citate sono, pertanto, fondate.
La circostanza che il procedimento di valutazione della compatibilità urbanistica è tutt’ora in corso e che verrà posto in essere nell’applicazione del diverso procedimento di cui all'art. 81 del DPR n. 616/1977 - analogamente al fatto che la pronuncia di questo Tribunale relativa al PIT e al procedimento di VAS è al vaglio del Consiglio di Stato in sede di appello, suggerisce di assorbire le ulteriori deduzioni proposte.
6.5 Il ricorso è, pertanto, fondato e va accolto, con conseguente annullamento nei limiti della parte motiva dei provvedimenti in epigrafe indicati.

ATTI AMMINISTRATIVI: Mancato deposito delle ricevute di avvenuta consegna della notifica a mezzo p.e.c..
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza Corte di Cassazione, la notifica a mezzo posta elettronica certificata non si esaurisce con l’invio telematico dell’atto, ma si perfeziona soltanto a seguito della consegna del plico informatico nella casella di posta elettronica del destinatario.
La prova della consegna al destinatario è costituita dalla ricevuta di avvenuta consegna e, dunque, la mancata produzione in giudizio della ricevuta di avvenuta consegna della notifica a mezzo p.e.c. determina l’inesistenza della notificazione.
Inoltre, nel sistema del processo amministrativo telematico l’art. 14, comma 4, del D.P.C.M. n. 40 del 2016 stabilisce che: “Le ricevute di cui all'articolo 3-bis, comma 3, della legge 21.01.1994, n. 53, la relazione di notificazione di cui al comma 5 dello stesso articolo e la procura alle liti sono depositate, unitamente al ricorso, agli altri atti e documenti processuali, esclusivamente sotto forma di documenti informatici, con le modalità telematiche stabilite dalle specifiche tecniche di cui all'articolo 19”.
Ne consegue che la mancata produzione sotto forma di documenti informatici in via telematica delle suddette ricevute determina l’inammissibilità del ricorso
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 24.05.2019 n. 6482 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Ritenuto che:
   - il ricorso si palesa inammissibile per le ragioni di seguito esposte di cui le parti sono state rese edotte in udienza, in conformità alle previsioni dell’art. 73, comma 3, c.p.a.;
   - la difesa della parte ricorrente non ha fornito prova della ritualità della notificazione del ricorso che consta essere stata eseguita a mezzo p.e.c., ai sensi della l. n. 53 del 1994, non essendo state prodotte le ricevute di accettazione e di avvenuta consegna;
   - sul punto è opportuno evidenziare che la notifica p.e.c. a mente dell’art. 3-bis L. 53/1994 (introdotto dalla L. n. 228/2012), “si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dall’articolo 6, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 11.02.2005, n. 68, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 11.02.2005, n. 68”.
Il gestore p.e.c. del mittente fornisce a quest’ultimo la ricevuta di accettazione, che contiene “i dati di certificazione che costituiscono prova dell’avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata” (art. 6, comma 1, D.P.R. 68/2005).
Il gestore p.e.c. del destinatario fornisce altresì al mittente la ricevuta di avvenuta consegna (art. 6, comma 2, D.P.R. 68/2005), che dà prova che il “messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all’indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione” (art. 6, comma 3, D.P.R. 68/2005).
Qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a norma dell’articolo 3-bis, l’avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi dell’articolo 23, comma 1, del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82” (art. 9, comma 1-bis, L. 53/1994).
La medesima procedura va seguita “In tutti i casi in cui l’avvocato debba fornire prova della notificazione e non sia possibile fornirla con modalità telematiche” (art. 9, comma 1-ter, L. 53/1994);
   - la Suprema Corte di Cassazione, muovendo dall’analisi delle suddette norme, ha rilevato come la notifica a mezzo posta elettronica certificata non si esaurisca con l’invio telematico dell’atto, ma si perfezioni soltanto a seguito della consegna del plico informatico nella casella di posta elettronica del destinatario. La prova della consegna al destinatario è costituita dalla ricevuta di avvenuta consegna e, dunque, la mancata produzione in giudizio della ricevuta di avvenuta consegna della notifica a mezzo p.e.c. determina l’inesistenza della notificazione (cfr., ex multis, Cass. Sez. lavoro, 07.10.2015, n. 20072);
   - nel sistema del processo amministrativo telematico, inoltre, l’art. 14, comma 4 del D.P.C.M. n. 40 del 2016 stabilisce che: “Le ricevute di cui all'articolo 3-bis, comma 3, della legge 21.01.1994, n. 53, la relazione di notificazione di cui al comma 5 dello stesso articolo e la procura alle liti sono depositate, unitamente al ricorso, agli altri atti e documenti processuali, esclusivamente sotto forma di documenti informatici, con le modalità telematiche stabilite dalle specifiche tecniche di cui all'articolo 19”;
   - nella fattispecie, la difesa della ricorrente non ha prodotto le sopra indicate ricevute, essendosi limitata a depositare, in data 29.04.2019, successivamente alla rilevazione in udienza della causa di inammissibilità in trattazione, una dichiarazione priva di qualsivoglia allegato;
   - deve, altresì, escludersi l’ammissibilità del beneficio della rimessione in termini, non sussistendo nella fattispecie in esame elementi idonei a fondare, sia pure solo astrattamente, la concessione di detto beneficio;
   - in conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso va dichiarato inammissibile;

EDILIZIA PRIVATACon riguardo al possesso del titolo idoneo al rilascio della concessione o permesso di costruire, l’amministrazione comunale deve considerare eventuali limiti e vincoli di carattere privatistico, anche di natura reale, laddove siano certi e non contestati, posto che la legittimità del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2001, non può essere inficiata da posizioni dei terzi che abbiano la consistenza di semplici pretese di utilizzazione del bene oggetto dell’assentita attività edificatoria.
L’amministrazione comunale, infatti, ha l’onere di verificare il rispetto dei limiti privatistici (discendenti dall'esercizio dell'autonomia negoziale, tra i quali spiccano gli iura in re aliena, come il diritto di servitù), purché essi “siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto".
In altri termini, l’amministrazione non è tenuta affatto a condurre approfondite e dispendiose verifiche circa i rapporti tra le parti contendenti.
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10.1. - Con riguardo al possesso del titolo idoneo al rilascio della concessione o permesso di costruire, l’amministrazione comunale deve considerare eventuali limiti e vincoli di carattere privatistico, anche di natura reale, laddove siano certi e non contestati, posto che la legittimità del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2001, non può essere inficiata da posizioni dei terzi che abbiano la consistenza di semplici pretese di utilizzazione del bene oggetto dell’assentita attività edificatoria.
L’amministrazione comunale, infatti, ha l’onere di verificare il rispetto dei limiti privatistici (discendenti dall'esercizio dell'autonomia negoziale, tra i quali spiccano gli iura in re aliena, come il diritto di servitù), purché essi “siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto” (cfr. C.d.S., sez. IV, 10.12.2007, n. 6332; C.d.S., sez. IV, 12.03.2007, n. 1206).
In altri termini, l’amministrazione non è tenuta affatto a condurre approfondite e dispendiose verifiche circa i rapporti tra le parti contendenti (Tar Campania, Napoli, sez. IV, n. 1165 del 25.02.2011)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 24.05.2019 n. 438 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento al rispetto delle distanze legali, precisato che la questione non si pone con riferimento ai volumi tecnici (non costituendo, questi, costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c., non devono essere considerati ai fini del computo delle distanze dai confini), si deve rilevare ulteriormente come i locali seminterrati, ossia quei locali che sporgono dal terreno per un’altezza inferiore a tre metri, non siano assoggettabili alla norma sulla distanza legale tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
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In forza del principio di cui all’art. 878 del codice civile, il muro di cinta di altezza non superiore a tre metri non rileva ai fini del rispetto delle distanze delle costruzioni dal confine; e consente, quindi, la realizzazione di costruzioni “in aderenza” al muro posto sul confine, purché aventi altezza non superiore a tre metri.
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10.2. - In secondo luogo, con riferimento al rispetto delle distanze legali, precisato che la questione non si pone con riferimento ai volumi tecnici (non costituendo, questi, costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c., non devono essere considerati ai fini del computo delle distanze dai confini), si deve rilevare ulteriormente come i locali seminterrati, ossia quei locali che sporgono dal terreno per un’altezza inferiore a tre metri, non siano assoggettabili alla norma sulla distanza legale tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
E, nel caso di specie, come risulta dall’esame degli elaborati progettuali allegati alla domanda di condono (cfr. deposito del 17.09.2011 del Comune di Olbia), sia il locale tecnico trasformato in una unità edilizia residenziale costituita da un vano e da un bagno (oggetto della concessione in sanatoria n. 2160 del 26.05.2010), sia la cantina ubicata nel piano seminterrato e trasformata in unità edilizia residenziale costituita da due camere con due w.c., due ripostigli e un corridoio (concessione in sanatoria n. 2170 del 26.05.2010), hanno altezze inferiori a tre metri.
Il dato assume rilievo anche per quanto concerne l’applicazione delle norme sulla distanza dal confine. Entrambi i manufatti per cui è controversia sono stati realizzati –come si è visto– ad un’altezza inferiore a quella alla quale sarebbe consentito realizzare il muro di cinta.
Da ciò consegue l’operatività del principio di cui all’art. 878 del codice civile, per il quale il muro di cinta di altezza non superiore a tre metri non rileva ai fini del rispetto delle distanze delle costruzioni dal confine; e consente, quindi, la realizzazione di costruzioni “in aderenza” al muro posto sul confine, purché aventi altezza non superiore a tre metri.
10.3. - Non sussistono, pertanto, le condizioni affinché possa concretamente operare la distanza minima di 5 metri dal confine prevista dal Piano regolatore generale, in quanto tale prescrizione non opera per le costruzioni di altezza non superiore ai tre metri, posto che in questo caso le esigenze di igiene e ornato pubblico sottese alla citata previsione pianificatoria in concreto non sussistono
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 24.05.2019 n. 438 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.
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9. Con i primi due motivi l’appellante afferma che la sentenza di primo grado non avrebbe tenuto conto della vetustà delle opere contestate anche con riferimento al legittimo affidamento che si sarebbe determinato.
Le censure non sono fondate in ragione della non sanabilità degli abusi per la violazione della normativa sulle distanze.
L’Adunanza plenaria n. 9 del 2017, infatti, ha stabilito (confermando l’orientamento prevalente della giurisprudenza risalente) che «il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino».
Conseguentemente, deve essere respinta anche l’istanza istruttoria di consulenza tecnica (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 23.05.2019 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mancato rispetto della distanza minima tra pareti finestrate.
Circa il mancato rispetto delle distanze il Collegio si richiama ai seguenti principi affermati dalla giurisprudenza
   a) l’art. 9 del d.m. del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi;
   b) la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
   c) l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel PRG al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce quindi un principio assoluto ed inderogabile, che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti;
   d) ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore volumetria e/o dall’utilizzabilità della stessa a fini abitativi;
   e) la sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante; risulta, in tal caso, inapplicabile il criterio di prevenzione, che si esaurisce, viceversa, con il completamento, dal punto di vista strutturale e funzionale, della prima costruzione.
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10. Per quanto riguarda il mancato rispetto delle distanze, alla base del provvedimento impugnato, il Collegio si richiama ai seguenti principi affermati dalla giurisprudenza e recentemente sintetizzati nella sentenza della IV Sezione n. 6378/2018:
   a) l’art. 9 del d.m. del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108; Cons. Stato, Sez. V, 19.10.1999 n. 1565; da ultimo, Cass. civ., Sez. II, 03.10.2018 n. 24076); conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. Cass., Sez. II, 16.08.1993 n. 8725 e 07.06.1993 n. 6360);
   b) la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Cons. St., Sez. V, 16.02.1979, n. 89). Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass., Sez. II, 30.03.2001 n. 4715), indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass., Sez. II, 03.08.1999 n. 8383; Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909; id., 02.11.2010, n. 7731);
   c) l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel PRG al posto della norma illegittima (Cass. civ., Sez. II, 29.05.2006, n. 12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce quindi un principio assoluto ed inderogabile (Cass. civ., Sez. II, n. 11013/2002), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost., n. 232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata (Cass. civ., Sez. II, n. 23495/2006), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti (Cons. St., Sez. IV, 3094 del 2007);
   d) ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore volumetria e/o dall’utilizzabilità della stessa a fini abitativi (Cass., n. 8383 del 1999, cit.);
   e) la sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante; risulta, in tal caso, inapplicabile il criterio di prevenzione, che si esaurisce, viceversa, con il completamento, dal punto di vista strutturale e funzionale, della prima costruzione (Cass. n. 5049/2018).
Nel caso si specie non è in discussione che le distanze previste non siano state rispettate e, in considerazione della loro inderogabilità, non è rilevante la proprietà degli immobili.
Non sono pertanto accoglibili le censure proposte dall’appellante al terzo e quarto motivo (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 23.05.2019 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Finestre e luci.
Premesso che l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci, non possono essere considerate “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile aperture munite di grate di ferro e collocate ad un’altezza tale dal pavimento del luogo al quale si vuole dare luce ed aria che non consentono le funzioni della veduta in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza e non sono raggiungibili normalmente senza l’ausilio di strumenti appositi, non permettendo cioè né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.05.2019 n. 1168 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
3. Venendo all’esame del merito il Collegio ritiene che abbia carattere prioritario ed assorbente l’esame del secondo motivo di ricorso.
Se infatti, come ritenuto dal ricorrente, le distanze previste dall’art. 9 del D.M. 1444/1968 non debbono essere rispettate con riferimento alle luci, vengono meno anche le assunte ragioni di illegittimità del permesso di costruire e di interesse pubblico al suo annullamento in autotutela, e cade anche l’ordine di demolizione contestato con i successivi motivi.
In merito occorre specificare che la Sezione (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30/11/2018 n. 2706) ha affermato che “
l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n. 4628; cfr., nella giurisprudenza civile, Cassazione civile, sez. II, 20.12.2016, n. 26383). L’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture”.
Nel caso di specie né nel sopralluogo del tecnico comunale del 14.09.2017 né nel provvedimento impugnato il Comune ha preso posizione in merito alla natura delle aperture.
In sede giudiziale poi né il Comune né la controinteressata hanno contestato la qualificazione delle c.d. “finestrature con interposte parti apribili ed entrambe munite di grate in ferro”, come qualificate nel verbale di sopralluogo, in termini di luci o vedute.
Dall’esame degli atti e delle fotografie prodotte risulta chiaro che
le aperture di cui si discute sono qualificabili in termini di luce e non di veduta.
Esse infatti sono munite di grate di ferro e sono collocate ad un’altezza tale dal pavimento del luogo al quale si vuole dare luce ed aria, che non sono esercitabili le funzioni della veduta in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza (Cass. n. 18910 del 2012; Cass. n. 7267 del 2003) e non sono le stesse raggiungibili normalmente senza l’ausilio di strumenti appositi.
Non possono quindi di certo considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-, ma semplici “luci” in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce (in questo senso Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.10.2015 n. 4628).
Ne consegue, anche senza l’accertamento specifico dell'altezza prescritta ex art. 901 c.c., che è possibile affermare, senza ombra di dubbio, che le aperture in questione non sono “vedute” (sulla sufficienza di tale prova negativa Cass. Civile Ord. Sez. 2 19/02/2019 n. 4830) e quindi vanno qualificate come “luci” ai sensi dell'art. 902 c.c..
Ne consegue, assorbite le restanti censure, che il ricorso va accolto in quanto l’annullamento in autotutela del permesso di costruire è stato disposto per violazione della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate prevista dall’art. 9 del DM 1444/1968, in mancanza dei presupposti per l’applicazione della suddetta normativa.
Il venir meno del provvedimento di autotutela determina la caducazione dell’ordine di demolizione, di cui il primo costituisce atto presupposto.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Danno da rumore causato dal supermercato: sentenza della Cassazione.
L'evento di disturbo deve essere potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone. Il fastidio non deve essere limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di propagazione.
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1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, per come articolati, non sono inammissibili; sono infondati il terzo ed il quarto motivo di ricorso, per le ragioni che seguono.
1.1. Dal contenuto della motivazione deve ritenersi che la condanna sia stata pronunciata per la contravvenzione di cui al comma 1 dell'art. 659 cod. pen.
La condotta sanzionata dal secondo comma dell'art. 659 cod. pen. è soltanto quella costituita dalla violazione delle disposizioni della legge o delle prescrizioni dell'autorità che disciplinano l'esercizio della professione o del mestiere, mentre l'emissione di rumori eccedenti la normale tollerabilità ed idonei a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone rientra nella previsione del comma 1, indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale i rumori provengono, quindi anche nel caso in cui l'abuso si concretizzi in un uso smodato dei mezzi tipici di esercizio della professione o del mestiere rumoroso.
1.2. Il disturbo della pubblica quiete può essere causato esorbitando dal normale esercizio di una determinata attività con condotte concretamente idonee a disturbare il riposo e le occupazioni di un numero indeterminato di persone.
I concetti di rumori eccedenti la normale tollerabilità ed idonei a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, oggetto dell'art. 659 comma 1 cod. pen., sono diversi dai limiti massimi o differenziali di emissione del rumore il cui superamento integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447.
Per la ricostruzione dell'ambito applicativo dell'art. 659, comma 1, del comma 2 dell'art. 659 cod. pen. e dell'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, può richiamarsi Cass. Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Rv. 263433, Montoli e altro.
1.3. Nel reato previsto dall'art. 659 cod. pen. l'oggetto della tutela penale è dato dall'interesse dello Stato alla salvaguardia dell'ordine pubblico, considerato nel particolare aspetto della tranquillità pubblica, consistente in quella condizione psicologica collettiva, inerente all'assenza di perturbamento e di molestia nel corpo sociale.
Il bene giuridico protetto viene offeso dal disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, cagionato mediante rumori, e cioè da suoni intensi e prolungati, di qualunque specie e natura, atti a determinare il turbamento della tranquillità pubblica, o da schiamazzi.
1.4. Secondo la giurisprudenza, invero, per integrare il reato di cui all'art. 659, comma 1, è necessario che il fastidio non sia limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa (Sez. 3, 13.05.2014, n. 23529, Ioniez, Rv. 259194), o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di propagazione (Sez. 1, 14.10.2013, n. 45616, Virgillito, Rv. 257345), occorrendo invece la prova che la propagazione delle onde sonore sia estesa quanto meno ad una consistente parte degli occupanti l'edificio, in modo da avere una diffusa attitudine offensiva ed una idoneità a turbare la pubblica quiete.
La rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare (Cass. Sez. 1, 29.11.2011, n. 47298, lori, Rv. 251406; Sez. 3, 27.01.2015, n. 7912, Contino).
1.5. Tanto premesso, deve rilevarsi che dalla sentenza impugnata risulta che le fonti di rumore fossero costituite in origine dall'attività dell'esercizio commerciale, quindi a partire dalla loro installazione, dai frigoriferi esterni, rimossi nel settembre 2012. Secondo la sentenza, pagina 2, anche dopo la rimozione dei frigoriferi esterni le immissioni sonore non erano state neutralizzate; nel novembre del 2012 si accertò il superamento dei limiti per le emissioni sonore da parte dei frigoriferi interni. Tale ultima fonte rumorosa fu neutralizzata nell'aprile del 2013.
1.6. Deve però rilevarsi che non risulta motivato il requisito della diffusività; come già indicato, l'evento di disturbo deve essere potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone. Il fastidio non deve essere limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di propagazione.
Dalla sentenza emerge che il disturbo è stato di fatto percepito solo da due famiglie, quella di Po.Al. e quella di Mo.; dal provvedimento impugnato risulta che l'indicazione delle altre famiglie che avrebbero riferito di subire le immissioni sonore è avvenuta senza neanche indicare con precisione la fonte dell'informazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2019 n. 22459).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Reato di deposito incontrollato di rifiuti non pericolosi - Configurabilità nei confronti di qualsiasi soggetto - Responsabilità - Qualifica formale dell'agente o della natura dell'attività economica - Ininfluenza - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti non pericolosi, di cui all'art. 256, comma 2, D.Lvo n. 152/2006, è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell'esercizio, anche di fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla qualifica formale dell'agente o della natura dell'attività medesima (Sez. 3, n. 56275 del 24/10/2017, Marcolini), e nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell'esercizio di una attività economica di qualunque natura, non essendo circoscritto ai soli titolari di imprese che svolgono le attività di gestione di rifiuti di cui al comma primo dell'art. 256, D.Lvo n. 152/2006 (Sez. 3, n. 19969 del 14/12/2016, dep. 2017, Boldrin, Rv. 269768; Sez. 3, n. 30133 del 05/04/2017, Saldutti e altro, Rv. 270323) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2019 n. 22451 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOAbuso d'ufficio e falso al comandante della polizia locale che tollera il commercio illegale.
Il comandante della Polizia locale che chiude un occhio su una serie di attività illecite dei venditori ambulanti è responsabile penalmente e non trova giustificazione neanche quando lamenta di aver avuto un atteggiamento non doloso, ma di semplice e diffusa tolleranza.
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I reati per i quali è intervenuta condanna nei due gradi di merito chiamano in causa Be. nella qualità di pubblico ufficiale in quanto Comandante della Polizia Locale di Bagnara Calabria:
   - con il capo C)
è contestato il reato continuato di abuso d'ufficio, per aver procurato ad un ambulante sprovvisto di autorizzazione un ingiusto vantaggio patrimoniale consistito nel libero svolgimento dell'attività e nell'ingiusto risparmio delle sanzioni amministrative (accertato il 26/06/2012);
   - con il capo D)
sono contestati i reati continuati di omissione d'atti d'ufficio e di omessa denuncia in relazione alla mancata identificazione degli ambulanti autori del reato di cui all'art. 474 cod. pen. e alla conseguente mancata adozione di atti di polizia giudiziaria (accertato il 30/09/2012);
   - con il capo F) sono contestati i reati continuati di omissione d'atti d'ufficio e di omessa denuncia in relazione alla mancata identificazione degli autori di un abuso edilizio e alla conseguente mancata adozione di atti di polizia giudiziaria (accertato il 26/06/2012);
   - con il capo L) è contestato il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico, perché, a seguito di presentazione di istanza da parte di Fr.An.Ca. diretta ad ottenere l'autorizzazione ad occupare una porzione di suolo pubblico per un'attività commerciale, formava un parere attestando falsamente che l'occupazione rispettava le prescrizioni del codice della strada, laddove l'occupazione stessa insisteva tra due strade -con ciò creando pericolo per la circolazione veicolare- e interamente sul marciapiede (il 05/07/2011);
   - con il capo M) è contestato il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico, perché attestava falsamente in una nota esplicativa di aver provveduto ad una ricognizione generale delle occupazioni già in essere da parte degli esercizi commerciali, accertando che le occupazioni relative ad una serie di locali non rispettavano i requisiti del codice della strada, laddove già all'atto del rilascio del parere le occupazioni non erano conformi a detti requisiti (il 27/06/2012);
   - con il capo O) è contestato in concorso a Be., a Ca.Fu. e ad An.Fu. il reato continuato di invasione di suolo demaniale (accertato il 09/08/2012).
...
2. Muovendo dal ricorso nell'interesse di Be., il primo motivo, nella parte relativa all'imputazione sub C), è inammissibile.
Ripercorso il compendio probatorio nella parte d'interesse, la Corte di appello ha osservato che i dati probatori rendono ragione non già di un singolo episodio nel quale l'imputato ha mostrato un atteggiamento di tolleranza nei confronti di un commerciante abusivo, ma di un indiscriminato e diffuso clima di illegalità che investiva tutto il territorio di Bagnara Calabra: i fatti di cui all'imputazione, osserva dunque la Corte distrettuale, sono ben lontani dall'atteggiamento di tolleranza prospettato dalla difesa, in quanto rappresentano «una sorta di scelta dettata dalle priorità che portavano a privilegiare taluni aspetti piuttosto che altri», colorandosi di «vera e propria tolleranza all'illegalità diffusa che mal si concilia ed anzi si contrappone a quelli che sono i doveri del pubblico ufficiale», tanto più che Be. «non si limitava ad una condotta tendente a favorire il commerciante abusivo ma andava oltre rallentando l'iter relativo alla contravvenzione elevata mostrando con tale condotta successiva la volontà di favorire il predetto commerciante».
Nei termini indicati, la sentenza impugnata ha dato conto della prova del dolo intenzionale sulla base di una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633), ossia di elementi concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (Sez. 6, n. 52882 del 27/09/2018, Pastore, Rv. 274580).
Il ricorso reitera le censure in ordine al dolo intenzionale e alla riconducibilità dei fatti ad una sorta di tolleranza occasionale, omettendo di confrontarsi con i dati richiamati dal giudice di appello e con le inferenze tratte, in termini immuni da vizi logici, sulla base di essi: dati che, come si è visto, rendono ragione del carattere tutt'altro che occasionale delle condotte oggetto dell'imputazione e della loro proiezione finalistica a "favorire" l'ambulante, secondo il testuale riferimento tratto da una conversazione intercettata.
Le censure, pertanto, sono del tutto carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3. Il primo motivo, nella parte relativa all'imputazione sub D), è del pari inammissibile.
In premessa, mette conto rimarcare come i giudici di merito abbiano ricondotto alla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 361 cod. pen. l'omissione del doveroso rapporto all'autorità giudiziaria della messa in vendita di prodotti contraffatti da parte dei venditori ambulanti e a quella di cui all'art. 328 cod. pen. l'omesso sequestro della merce e l'omessa identificazione dei detentori.
Ciò posto, le censure reiterano quelle esaminate e disattese dalla Corte distrettuale, che ha escluso l'invocata irrilevanza penale delle omissioni in questione in ragione di asserite ragioni di interesse superiore (collegate alla festa patronale e al notevole afflusso di persone), richiamando i dati probatori dimostrativi, da un lato, dell'ostacolo alla viabilità determinato proprio dall'esposizione della merce contraffatta e, dall'altro, della circostanza che l'imputato omise di intervenire per assecondare le sollecitazioni di un terzo («un santo in paradiso che li ha salvati»).
Anche per questo capo, il ricorso si sottrae alla specifica disamina critica della motivazione resa dalla Corte distrettuale sulla base di dati probatori non contestati e con argomentazione esente da cadute di conseguenzialità logica (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 21.05.2019 n. 22145).

EDILIZIA PRIVATALa recinzione è attività che viene permessa ex art. 841 c.c. per precludere a terzi l’ingresso nella proprietà privata ed ha rilievo edilizio solo quando fatta con materiale che le diano un ancoramento al terreno.
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La recinzione in pali di legno e rete metallica non è idonea a concretare un reale impatto sul territorio, assumendo in realtà le caratteristiche proprie di un modesto intervento volto a tutelare la proprietà privata e, quindi, costituente esercizio di un'attività del tutto libera.
Tale aspetto rileva anche in relazione al vincolo ambientale esistente, laddove l'opera realizzata non integra gli estremi di un intervento edilizio, in quanto l'esistenza del vincolo, pur comportando l'applicazione di una specifica normativa di protezione, non modifica la disciplina dei titoli edilizi.

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La recinzione è attività che viene permessa ex art. 841 c.c. per precludere a terzi l’ingresso nella proprietà privata ed ha rilievo edilizio solo quando fatta con materiale che le diano un ancoramento al terreno.
La recinzione in pali di legno e rete metallica non è idonea a concretare un reale impatto sul territorio, assumendo in realtà le caratteristiche proprie di un modesto intervento volto a tutelare la proprietà privata e, quindi, costituente esercizio di un'attività del tutto libera.
Tale aspetto rileva anche in relazione al vincolo ambientale esistente, laddove l'opera realizzata non integra gli estremi di un intervento edilizio, in quanto l'esistenza del vincolo, pur comportando l'applicazione di una specifica normativa di protezione, non modifica la disciplina dei titoli edilizi ( TAR Toscana 1703/2015, 391/2012 ) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.05.2019 n. 757 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: La scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero del piano di lottizzazione) rileva esclusivamente nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi, con la conseguenza che "mentre per i crediti espressi in un importo monetario (ad esempio, il contributo di costruzione) decorre il normale termine di prescrizione decennale, la cessione gratuita di aree non è soggetta a prescrizione, almeno finché l'Amministrazione non decida di liberare il fondo dei privati disponendo la monetizzazione dello standard".
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Devono altresì richiamarsi i principi giurisprudenziali secondo cui la scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero del piano di lottizzazione) rilevi esclusivamente nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 20.07.2012, n. 28), con la conseguenza che "mentre per i crediti espressi in un importo monetario (ad esempio, il contributo di costruzione) decorre il normale termine di prescrizione decennale (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.05.2014 n. 464), la cessione gratuita di aree non è soggetta a prescrizione, almeno finché l'Amministrazione non decida di liberare il fondo dei privati disponendo la monetizzazione dello standard (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 15.09.2015 n. 991)" (cfr. TAR Lombardia-Brescia, sez. I, 22/10/2018 n. 1005 e 25.09.2018 n. 902) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 21.05.2019 n. 423 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI SERVIZIAppalti con manodopera con analisi qualità/prezzo. L’Adunanza plenaria risolve un contrasto giurisprudenziale.
Gli appalti di servizi ad alta intensità di manodopera devono sempre essere affidati utilizzando il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, anche se si tratta di appalti che abbiano caratteristiche standard.
A questa conclusione, recepita quasi «in diretta» nel decreto-legge sblocca cantieri, è giunto il Consiglio di stato con la sentenza 21.05.2019 n. 8 in Adunanza plenaria che ha risolto una querelle giurisprudenziale sull'interpretazione degli articoli 50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice appalti (dlgs 50/2016).
Si trattava di comprendere quale criterio di aggiudicazione si dovesse adottare in caso di appalto che avesse contemporaneamente caratteristiche di alta intensità di manodopera (ovvero il cui costo per tale voce dell'offerta sia «pari almeno al 50% dell'importo totale del contratto») e standardizzate.
Il contrasto di giurisprudenza (applicazione del criterio qualità/prezzo o del criterio del minore prezzo) si era determinato a causa di alcune pronunce (della terza sezione) che avevano affermato la prevalenza del criterio del massimo ribasso ai sensi dell'art. 95, comma 4, lett. b), del codice appalti sul presupposto che la tipologia di cui alla lett. b) del comma 4 dell'art. 95 (servizi e forniture standardizzate) riguardasse un ipotesi del tutto differente dall'appalto «ad alta intensità di manodopera» di cui all'art. 95, comma 3, lett. a) «che concerne prestazioni comunque tecnicamente fungibili».
La terza sezione, sottolinea l'Adunanza plenaria, non aveva effettuato un'analisi del rapporto strutturale tra le due diverse disposizioni di legge. Diversamente, dicono i giudici, si sarebbe invece arrivati alla conclusione che in ogni caso i servizi ad alta intensità di manodopera, ancorché standardizzati, devono essere aggiudicati con il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo.
L'argomento peraltro era già stato trattato dall'Autorità nazionale anticorruzione che aveva affermato che i servizi ad alta intensità di manodopera, seppure standardizzati, rientrano nell'ambito di applicazione del comma 3 dell'art. 95 e quindi devono essere aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo. Una tesi sposata anche dall'Adunanza plenaria in virtù del «carattere speciale e derogatorio di quest'ultima regola (prezzo più basso) rispetto a quella generale» che impone il ricorso al criterio qualità/prezzo.
Peraltro del contenuto dell'Adunanza plenaria, quasi «in diretta», si è tenuto conto anche nell'ambito dell'esame del decreto-legge n. 32/2019, il c.d. sblocca cantieri. Infatti con un emendamento all'articolo 1, comma 1, lettera s), approvato il 17 maggio, si era provveduto ad un intervento modificativo del comma 4 dell'articolo 95 del codice dei contratti pubblici che stabilisce i casi in cui si possa ricorrere al criterio del «prezzo più basso» e cita anche i «servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato».
L'emendamento chiarisce che da questi appalti di servizi e forniture standardizzate sono comunque sempre esclusi i «i servizi ad alta intensità di manodopera di cui al comma 3, lettera a)». E così il cerchio sembra essersi chiuso in una apparentemente virtuoso rapporto fra legislatore e giudice
(articolo ItaliaOggi del 25.05.2019).

APPALTI SERVIZIL’Adunanza plenaria ha pronunciato sull’obbligo di ricorrere al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa nel caso di servizi ad alta intensità di manodopera.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente più vantaggiosa - Servizi ad alta intensità di manodopera – Necessità.
Gli appalti di servizi ad alta intensità di manodopera ai sensi degli artt. 50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei contratti pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del comma 4, lett. b), del medesimo codice (1).
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   (1) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. III, 05.02.2019, n. 882.
Ha chiarito l’Alto consesso che in questo senso va composto il contrasto di giurisprudenza venutosi a creare per effetto delle pronunce richiamate dalla Sezione rimettente, in particolare per effetto della sentenza della III Sezione del 13.03.2018, n. 1609, che pure per un servizio di vigilanza antincendio a favore di un’azienda sanitaria locale, aveva invece affermato la prevalenza del criterio del massimo ribasso ai sensi dell’art. 95, comma 4, lett. b), del codice dei contratti pubblici (peraltro supponendo che: «la tipologia di cui alla lett. b) del comma 4 dell’art. 95 attiene ad un ipotesi ontologicamente del tutto differente sia dall’appalto “ad alta intensità di manodopera” di cui all’art. 95, comma 3, lett. a), che concerne prestazioni comunque tecnicamente fungibili»; e non già all’esito di un’analisi del rapporto strutturale tra le due diverse disposizioni di legge).
Richiamato il principio poc’anzi espresso, va quindi ribadito che le caratteristiche di servizio ad alta intensità di manodopera della vigilanza antincendio non consentono che lo stesso sia aggiudicato con il criterio del massimo ribasso, benché caratterizzato anche da una forte standardizzazione dello attività in esso comprese.
Ha affermato che il comma 3 dell’art. 95 del Codice dei contratti si pone ad un punto di convergenza di valori espressi in sede costituzionale e facoltà riconosciute a livello europeo ai legislatori nazionali, per la realizzazione dei quali nel codice dei contratti pubblici il miglior rapporto qualità/prezzo è stato elevato ad criterio unico ed inderogabile di aggiudicazione per appalti di servizi in cui la componente della manodopera abbia rilievo preponderante.
Sulla base dell’analisi normativa interna ed europea, e della cornice indirizzo politico-legislativo ad esse presupposta, si può dunque pervenire a definire il rapporto tra i commi da 2 a 5 dell’art. 95 in esame nel senso seguente:
   - ai sensi del comma 2 le amministrazioni possono aggiudicare i contratti di appalto pubblico secondo il criterio (ora denominato in generale) dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata dal miglior rapporto qualità/prezzo o che abbia a base il prezzo o il costo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia;
   - in attuazione della facoltà riconosciuta agli Stati membri dalla direttiva 2014/24/UE di escludere o limitare per determinati tipi di appalto il solo prezzo o il costo (art. 67, par. 2, ultimo cpv., sopra citato), e in conformità ai criteri direttivi della legge delega n. 11 del 2016, il comma 3 pone invece una regola speciale, relativa tra l’altro ai servizi ad alta intensità di manodopera, derogatoria di quella generale, in base alla quale per essi è obbligatorio il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo;
   - per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate si riespande invece la regola generale posta dal comma 2, con il ritorno alla possibilità di impiegare un criterio di aggiudicazione con a base l’elemento prezzo, e precisamente il «minor prezzo», purché questa scelta sia preceduta da una «motivazione adeguata».
Nell’ipotesi in cui un servizio ad alta intensità di manodopera abbia contemporaneamente caratteristiche standardizzate ai sensi del comma 4, lett. b), del medesimo art. 95, come nel caso che ha dato origine alla rimessione a questa Adunanza plenaria, vi è un concorso di disposizioni di legge tra loro contrastanti, derivante dal diverso ed antitetico criterio di aggiudicazione rispettivamente previsto per l’uno o l’altro tipo di servizio e dal diverso grado di precettività della norma. Si pone quindi un conflitto (o concorso apparente) di norme, che richiede di essere risolto con l’individuazione di quella prevalente. Il conflitto così prospettato non può che essere risolto a favore del criterio di aggiudicazione del miglior rapporto qualità/prezzo previsto dal comma 3, rispetto al quale quello del minor prezzo invece consentito in base al comma 4 è subvalente.
La soluzione ora espressa (di recente riaffermata dalla V Sezione di questo Consiglio di Stato, con sentenza 24.01.2019, n. 605) è infatti conseguenza diretta di quanto rilevato in precedenza, e cioè del carattere speciale e derogatorio di quest’ultima regola rispetto a quella generale, laddove il criterio del minor prezzo ai sensi del comma 4 ne segna invece il ritorno, con la riaffermazione della facoltà di scelta discrezionale dell’amministrazione di aggiudicare l’appalto secondo un criterio con a base il (solo) prezzo.
Il ritorno alla regola generale incontra tuttavia un ostacolo insuperabile nella deroga prevista nel comma 3, che impone alle amministrazioni un obbligo anziché una mera facoltà, per cui per effetto di essa in tanto è possibile aggiudicare i contratti di appalto di servizi con caratteristiche standardizzate al massimo ribasso in quanto il servizio non abbia nel contempo abbia caratteristiche di alta intensità di manodopera (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 21.05.2019 n. 8 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAUn intervento di demolizione e successiva ricostruzione può essere qualificato come di ristrutturazione edilizia solo laddove vi sia una certa continuità tra la nuova opera e quella precedente alla demolizione.
Il criterio discretivo tra l’intervento di “demolizione e ricostruzione” e la “nuova costruzione” è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a “nuova costruzione”, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia.
Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzioné si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi, per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi.
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8.1.2. L’appellante, nel motivo in esame, affida i propri rilievi ad un’ulteriore osservazione che impinge nella qualificazione giuridica dell’intervento realizzato, riconducibile, secondo le sue prospettazioni, alla fattispecie di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, laddove annovera tra gli interventi edilizi anche quelli di ristrutturazione c.d. pesante, che portano alla realizzazione di un organismo edilizio diverso dal preesistente.
Tale intervento, tuttavia, anche nella sua versione cosiddetta “pesante”, è da intendere come un intervento di recupero, che nel caso di specie non si configura dal momento che, come sopra precisato, il manufatto preesistente risulta interamente demolito. A sua volta il concetto stesso di ampliamento non può prescindere dalla permanenza in situ di una parte del manufatto preesistente nella sua consistenza edilizia originaria, nel caso di specie insussistente.
Infatti un intervento di demolizione e successiva ricostruzione può essere qualificato come di ristrutturazione edilizia solo laddove vi sia una certa continuità tra la nuova opera e quella precedente alla demolizione. Il criterio discretivo tra l’intervento di “demolizione e ricostruzione” e la “nuova costruzione” è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a “nuova costruzione”, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia.
Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto “proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzione’ si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi” per cui “la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.08.2018, n. 4880).
Nel caso di specie, tale conformità con il preesistente non sussiste e pertanto emergono i presupposti per ritenere le opere de quibus non suscettibili di sanatoria, avuto riguardo a quanto statuito dall’art. 2 della legge Regione Lombardia n. 31 del 2004, che, nell’introdurre una disciplina più restrittiva rispetto all’art. 32 del D.L. n. 269 del 2003, consente la sanabilità degli “ampliamenti entro i limiti massimi del 20 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, di 500 metri cubi” ed esclude, invece, dal condono “le opere abusive relative a nuove costruzioni, residenziali e non, qualora realizzate in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi agli strumenti urbanistici generali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”.
La natura dell’intervento quale opera di “nuova costruzione” invece che di ampliamento, come afferma parte appellante, comporta quindi che esso non è riconducibile all’alveo applicativo del condono come regolato dalla disciplina regionale, promulgata a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 196 del 2004
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 3208 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si lamenta che l’emissione dell’ordine demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla necessaria partecipazione procedimentale.
La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione procedimentale.
Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio come “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, né un’ampia motivazione”.

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8.3. Infondato è anche il terzo mezzo, col quale, nel reiterare la corrispondente censura di primo grado (pagina 10 dei motivi aggiunti), si lamenta che l’emissione dell’ordine demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla necessaria partecipazione procedimentale.
La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione procedimentale.
Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595, nonché Cons. Stato n. 2799/18), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un’ampia motivazione”.
Peraltro, come correttamente rilevato dal Tribunale, le osservazioni presentate dall’appellante avverso l’ordinanza di demolizione riproponevano sostanzialmente argomenti già confutati dall’Amministrazione con il diniego di condono, osservazioni che, quindi, non hanno imposto all’Amministrazione di ripercorrere anche nella (consequenziale) ordinanza di demolizione quanto già controdedotto nel precedente diniego.
Dagli atti di causa è peraltro dato rilevare che, a seguito del diniego di condono del 30.05.2007, il Comune di Seregno ha comunicato al signor Lu. Di Na. l’avviso di avvio procedimentale del 28.05.2008, a seguito del quale questi ha fatto pervenire, in data 01.07.2008, le sue controdeduzioni a proposito delle quali l’Amministrazione, nel corpo dell’ingiunzione a demolire, evidenzia che “quanto osservato non trova riscontro negli atti d’ufficio e nella documentazione depositata presso questa Amministrazione”.
Da tale sia pur sintetica locuzione si evince che l’Amministrazione si è soffermata sul contributo partecipativo reso dal destinatario del provvedimento demolitorio
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 3208 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’ingiustificata inottemperanza all’ordine di demolizione comporti l’automatica acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del TU Edilizia.
In base al comma 4 della stessa disposizione, l’accertamento di tale inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all’iscrizione nei registri immobiliari ed all’immissione nel possesso, per cui il relativo atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di esternare e formalizzare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo all’amministrazione, che si è già prodotto per il mero decorso del tempo, una volta che sia venuto a scadenza il termine previsto dalla legge e indicato nel provvedimento di demolizione
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Il verbale d’inottemperanza non è impugnabile, in quanto “Il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell’area di sedime debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti all’ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili, in mancanza di impugnazione dell’atto con cui si ingiunge la demolizione o di irricevibilità dell’impugnazione tardivamente proposta avverso tale atto”.
La notificazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, inoltre, “non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l’inadempimento dell’ordine di demolizione, non è quindi necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell’abuso prima di adottare il provvedimento con cui si disponga l’acquisizione gratuita, rilevando l’adempimento della notificazione all’interessato dell’accertamento formale dell’0inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all’ente l’immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell’acquisizione”.
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Nella disciplina statale non par dubbio che il proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost..
E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere ‘personale’ ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio.
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9. L’appello è infondato.
9.1. I rilievi sollevati col gravame in esame impingono nella stessa dinamica del procedimento sanzionatorio innescato dall’esecuzione di opere edilizie abusive, evidenziandosi che la contestazione circa la legittimazione passiva rispetto all’atto che dispone l’acquisizione dell’abuso al patrimonio indisponibile del Comune non postula l’efficace impugnativa della previa ordinanza demolitoria.
Invero, l’appellante avversa il passaggio della motivazione dell’impugnata sentenza, col quale il giudice di prime cure ha evidenziato la natura automatica dell’effetto acquisitivo alla scadenza del termine per l’esecuzione della sanzione demolitoria, che è stata sì impugnata dall’appellante ma con ricorso dichiarato improcedibile dal Tribunale con la sentenza n. 264 cit..
9.2. Per vero, questo Consiglio ha ribadito, di recente, che l’effetto acquisitivo si produce automaticamente al decorso del termine di 90 giorni previsto per l’esecuzione della demolizione e che il verbale che attesta l’inottemperanza all’ordine demolitorio non è suscettibile di autonoma impugnativa.
Per il primo profilo si è infatti osservato che: “La giurisprudenza sul punto è concorde nel ritenere che l’ingiustificata inottemperanza all’ordine di demolizione comporti l’automatica acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del TU Edilizia. In base al comma 4 della stessa disposizione, l’accertamento di tale inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all’iscrizione nei registri immobiliari ed all’immissione nel possesso, per cui il relativo atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di esternare e formalizzare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo all’amministrazione, che si è già prodotto per il mero decorso del tempo, una volta che sia venuto a scadenza il termine previsto dalla legge e indicato nel provvedimento di demolizione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2015 n. 1884)” (cfr. sentenza Cons. Stato, sez. IV, 16.01.2019, n. 398).
Per il secondo aspetto, questo Consiglio ha rilevato che il verbale d’inottemperanza non è impugnabile, in quanto “Il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell’area di sedime debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti all’ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili, in mancanza di impugnazione dell’atto con cui si ingiunge la demolizione o di irricevibilità dell’impugnazione tardivamente proposta avverso tale atto” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.07.2018, n. 4479).
La notificazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, inoltre, “non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l’inadempimento dell’ordine di demolizione, non è quindi necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell’abuso prima di adottare il provvedimento con cui si disponga l’acquisizione gratuita, rilevando l’adempimento della notificazione all’interessato dell’accertamento formale dell’0inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all’ente l’immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell’acquisizione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.05.2014, n. 2368).
Vale quindi il principio, confermato di recente da questo Consiglio, secondo cui “Nella disciplina statale, infatti, non par dubbio che il proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio. La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost.. E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere ‘personale’ ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.07.2017, n. 3366; Cons. Stato, sez. VI, 15.04.2015, n. 1927).
Alla luce dell’orientamento assunto da questo Consiglio, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, le critiche sollevate dall’appellante non sono in grado di superare le statuizioni in rito contenute nell’impugnata sentenza, aventi effetto preclusivo all’indagine del merito del ricorso, che pertanto vanno in questa sede confermate (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 3207 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire formatosi per silentium: é ammessa la decadenza per mancato avvio dei lavori?
Due cittadine pugliesi presentavano istanza per ottenere dal Comune un permesso di costruire. L’Amministrazione civica si guardava bene dal pronunciarsi sulla domanda e, a detta delle istanti, sulla stessa si formava il silenzio assenso.
Ad un certo punto il Comune emanava invece un provvedimento di decadenza del titolo, formatosi per silentium, sul presupposto che le due donne non avevano iniziato i lavori tempestivamente.
A questo punto costoro presentavano ricorso al TAR assumendo in particolare che l’atto contestato era viziato da sviamento, travisamento, contraddittorietà-illogicità.
Il TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 725, ha accolto l’impugnativa.
Il Collegio ha preliminarmente osservato che la formazione del silenzio-assenso (art. 5 legge 12.07.2011 n. 106) sulla domanda di permesso di costruire (art. 20, comma 8, del T.U. 6 giugno 2001 n. 380) postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti amministrativi e tecnici, sia soggettivi che oggettivi, di accoglibilità, in quanto in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei detti presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può validamente formarsi.
Tale forma di silenzio, che origina un titolo edilizio tacito, equivalente al provvedimento, pur tuttavia non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio edilizio, che rimane inalterato, bensì introduce solo un’alternativa modalità, presuntivamente semplificata, di tipo “rimediale” per il conseguimento dell’autorizzazione anelata, laddove l’amministrazione rimanga inerte.
Tuttavia trattasi pur sempre di un’alternativa posta nell’interesse del destinatario, ossia del soggetto passivo che “attende” il provvedimento.
Secondo l’interessante pronuncia dei giudici pugliesi, la natura rimediale (e derogatoria) del silenzio-assenso, infatti, va qualificata in senso per così dire “protettivo” dell’interesse del richiedente all’irrinunciabilità dell’atto esplicito e formale, preordinato ad evitare l’avvio di un’attività a gravoso impatto territoriale ed economico, peraltro non facilmente reversibile.
Ciò posto, non può dunque che essere riconosciuta la facoltà per il privato di optare per il permesso di costruite in forma espressa, laddove sia pur prevista la formazione del titolo in forma tacita (e per di più condizionata).
L’interpretazione da fornirsi in ordine alla “scala” degli atti di assenso agli interventi edilizi previsti dalla normativa di specie (D.P.R. 06.06.2001 n. 380), va compiuta in senso razionale. Se, dunque, per un intervento minore è sufficiente la S.C.I.A., ma su richiesta di parte può optarsi per il rilascio di un permesso di costruire espresso, è quindi, secondo la logica giuridica, necessario che, per un intervento maggiore, dove è previsto il permesso di costruire, si possa pretendere il rilascio di un permesso espresso, seppure in alternativa in base alla normativa possa risultare sufficiente il silenzio-assenso, peraltro previsto solo in funzione rimediale all’inerzia e sottoposto a talune condizioni.
E’ stato quindi affermato che rimane nella disponibilità del privato l’opzione per il rilascio di un provvedimento espresso (art. 2, comma 1, L. 07.08.1990 n. 241), sancito dalla normativa edilizia (D.P.R. 06.06.2001 n. 380) come regola generale, laddove sia stata prevista, come regola speciale (ma deve ritenersi a ratione solo in via alternativa), la formazione di un silenzio-assenso.
Difatti, la validità dell’auto-qualificazione compiuta e la completezza o meno della documentazione, utili a formare il titolo edilizio tacito, costituisce, anche a seconda della complessità dell’intervento costruttivo a realizzarsi, una questione talvolta opinabile, in relazione alla quale il soggetto istante ben può conservare l’interesse a optare per il rilascio di un titolo edilizio espresso da parte dei competenti uffici comunali, onde evitare di esporsi al successivo esercizio del potere di autotutela, con lesione della propria sfera economico-patrimoniale.
Ragion per cui, giammai l’Amministrazione comunale può pronunciare una “decadenza” in ordine al titolo edilizio tacito (presuntivamente) formatosi, qualora sia stato richiesto, più volte nel tempo –com’è avvenuto nel caso di specie– l’emanazione di un provvedimento espresso. In altri termini, non può pronunciarsi una decadenza, in ordine ad un provvedimento inespresso e di contenuto indeterminato e indeterminabile, alla stregua della normativa da applicarsi in concreto.
In buona sostanza con la sentenza in commento il Comune di Trani è stato obbligato, laddove invero specificamente richiesto e sollecitato, a pronunciarsi sul rilascio del permesso edilizio in modo espresso, stante il principio generale imposto dall’art. 2, comma 1, della citata L. n. 241 del 1990: con conseguente annullamento dell’atto di decadenza (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it - TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 725 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATADecadenza, per mancata conclusione dei lavori, del permesso edilizio rilasciato per silenzio-assenso.
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Edilizia – Permesso di costruire – Rilasciato per silenzio-assenso – Decadenza per mancata conclusione dei lavori – Esclusione.
L’amministrazione comunale non può pronunciare la decadenza per mancata attivazione e conclusione dei lavori, in ordine al titolo edilizio tacito (presuntivamente) formatosi, qualora sia stato richiesto, più volte nel tempo, l’emanazione di un provvedimento espresso; non è infatti configurabile la decadenza su un atto tacito “condizionato” alla presenza di tutti i requisiti previsti dall’art. 20, comma 8, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (completezza documentale ed esclusione da vincoli), che sono suscettibili di vario apprezzamento oggettivo e soggettivo (auto-qualificazione) e, quindi, sono indeterminati ex se nel loro contenuto precettivo (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che la formazione del silenzio-assenso (art. 5, l. 12.07.2011. n. 106) sulla domanda di permesso di costruire (art. 20, comma 8, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti amministrativi e tecnici, sia soggettivi che oggettivi, di accoglibilità, giacché in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei detti presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può validamente formarsi (Cons. St., sez. IV, 12.07.2018, n. 4273; id. 05.09.2016, n. 3805).
Detta forma di silenzio-assenso non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio edilizio, che rimane inalterato, bensì introduce solo un’alternativa modalità semplificata di tipo “rimediale” per il conseguimento dell’autorizzazione edilizia anelata, posta nell’interesse del destinatario, che “attende” il provvedimento. Resta pertanto ferma l’irrinunciabilità dell’atto esplicito e formale.
2.- Deve, quindi, ritenersi che, allo stesso modo in cui il legislatore ha previsto, in favore del richiedente il titolo edilizio, per gli interventi sottoposti a S.C.I.A., la facoltà di optare per il permesso di costruire espresso (art. 22, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), è quindi a fortiori riconosciuta la facoltà di optare per il permesso di costruite in forma espressa, laddove sia pur prevista la formazione del titolo in forma tacita (e per di più condizionata).
L’interpretazione da fornirsi in ordine alla scala degli atti di assenso agli interventi edilizi previsti dalla normativa di specie (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), va infatti compiuta in senso razionale.
Se per un intervento minore è sufficiente la S.C.I.A., ma su richiesta di parte può optarsi per il rilascio di un permesso di costruire espresso, è quindi, secondo la logica giuridica, necessario che, per un intervento maggiore, dove è previsto il permesso di costruire, si possa pretendere il rilascio di un permesso espresso, seppure in alternativa in base alla normativa possa risultare sufficiente il silenzio-assenso, peraltro previsto solo in funzione rimediale all’inerzia e sottoposto a talune condizioni.
Rimane nella disponibilità del privato l’opzione per il rilascio di un provvedimento espresso (art. 2, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241), sancito dalla normativa edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380) come regola generale, laddove sia stata prevista, come regola speciale, ma deve ritenersi a ratione solo in via alternativa, la formazione di un silenzio-assenso, in quanto anche gli strumenti autorizzativi diversi o minori (c.d. S.C.I.A. e C.I.L.A.) sono consentiti solo nei casi speciali espressamente contemplati e fanno comunque salva la possibilità di scelta della richiesta da parte dell’interessato per il rilascio di un provvedimento espresso (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 725 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
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per l’annullamento:
   - del provvedimento prot. n. 3567/29.01.2019, con cui il Comune di Trani ha dichiarato la decadenza del permesso di costruire tacito, formatosi in ordine all’istanza delle ricorrenti (pratica n. 111/2009) per omesso avvio dei lavori entro il termine annuale.
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1.- In fatto, le sorelle La. hanno impugnato il provvedimento di decadenza, per omesso avvio dei lavori entro il termine annuale, pronunciato in ordine al permesso di costruire tacito, formatosi –secondo quanto ritenuto dal Comune di Trani– sulla domanda di rilascio del permesso edilizio presentata dalle ricorrenti.
Difatti, l’amministrazione comunale intimata, a fronte della presentazione dell’istanza di permesso di costruire, ha serbato silenzio, senza adottare un provvedimento espresso.
Pertanto, le ricorrenti hanno impugnato il provvedimento in epigrafe per eccesso di potere, assumendo in particolare l’atto viziato da sviamento, travisamento, contraddittorietà-illogicità. Inoltre, venivano contestate la correttezza e la trasparenza dell’azione amministrativa e la violazione del giudicato di una precedente pronuncia giurisdizionale intervenuta sulla vicenda.
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2.- In diritto, va, in via preliminare, osservato che
la formazione del silenzio-assenso (art. 5 legge 12.07.2011 n. 106) sulla domanda di permesso di costruire (art. 20, comma 8, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380) postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti amministrativi e tecnici, sia soggettivi che oggettivi, di accoglibilità, giacché in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei detti presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può validamente formarsi (Cons. St., sez. IV, 12.07.2018 n. 4273; Cons. St., sez. IV, 05.09.2016 n. 3805).
La giurisprudenza (TAR Puglia, Bari, sez. III, 14.01.2016 n. 37) ha già avuto modo di precisare che
detta forma di silenzio, che origina un titolo edilizio tacito, equivalente al provvedimento, pur tuttavia non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio edilizio, che rimane inalterato, bensì introduce solo un’alternativa modalità, presuntivamente semplificata, di tipo “rimediale” per il conseguimento dell’autorizzazione anelata, laddove l’amministrazione rimanga inerte.
Epperò, trattasi pur sempre di un’alternativa posta nell’interesse del destinatario, ossia del soggetto passivo che “attende” il provvedimento.
La natura rimediale (e derogatoria) del silenzio-assenso, infatti, va qualificata in senso per così dire “protettivo” dell’interesse del richiedente all’irrinunciabilità dell’atto esplicito e formale, preordinato ad evitare l’avvio di un’attività a gravoso impatto territoriale ed economico, peraltro non facilmente reversibile.

3.- Deve, quindi, ritenersi che,
allo stesso modo in cui il legislatore ha previsto, in favore del richiedente il titolo edilizio, per gli interventi sottoposti a S.C.I.A., la facoltà di optare per il permesso di costruire espresso (art. 22, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), è quindi a fortiori da ritenersi che debba essere riconosciuta la facoltà di optare per il permesso di costruite in forma espressa, laddove sia pur prevista la formazione del titolo in forma tacita (e per di più condizionata).
L’interpretazione da fornirsi in ordine alla scala degli atti di assenso agli interventi edilizi previsti dalla normativa di specie (d.P.R. 06.06.2001 n. 380), va compiuta in senso razionale.
Se per un intervento minore è sufficiente la S.C.I.A., ma su richiesta di parte può optarsi per il rilascio di un permesso di costruire espresso, è quindi, secondo la logica giuridica, necessario che, per un intervento maggiore, dove è previsto il permesso di costruire, si possa pretendere il rilascio di un permesso espresso, seppure in alternativa in base alla normativa possa risultare sufficiente il silenzio-assenso, peraltro previsto solo in funzione rimediale all’inerzia e sottoposto a talune condizioni.
Difatti, nella misura in cui la surriferita disciplina ha introdotto a carico del privato, che richiede il permesso di costruire, una serie di gravosi oneri di auto-qualificazione (anche opinabili), circa il possesso dei requisiti dell’intervento edilizio da realizzarsi e di attestazione di conformità dello stesso ai presupposti di legge, il silenzio-assenso non è affatto incondizionato e per di più fa comunque salvi i poteri di autotutela dell’amministrazione (art. 20, comma 3, legge 07.08.1990 n. 241).
Tali poteri di autotutela, nella forma dell’auto-annullamento, sono esercitabili, quando il permesso di costruire sia tacito, nell’ipotesi in cui è necessario tutelare l’interesse pubblico alla legittima utilizzazione del territorio, sotto il profilo urbanistico-edilizio, in presenza di situazioni non significativamente consolidate dei privati per il tempo trascorso
(Cons. St., sez. IV, 05.09.2016 n. 3805; Cons. St., sez. IV, 28.06.2016 n. 2908; Cons. St., sez. IV, 12.07.2013 n. 3749).
4.- In ultima analisi,
va affermato che rimane nella disponibilità del privato l’opzione per il rilascio di un provvedimento espresso (art. 2, comma 1, legge 07.08.1990 n. 241), sancito dalla normativa edilizia (d.P.R. 06.06.2001 n. 380) come regola generale, laddove sia stata prevista, come regola speciale, ma deve ritenersi a ratione solo in via alternativa, la formazione di un silenzio-assenso, in quanto anche gli strumenti autorizzativi diversi o minori (c.d. S.C.I.A. e C.I.L.A.) sono consentiti solo nei casi speciali espressamente contemplati e fanno comunque salva la possibilità di scelta della richiesta da parte dell’interessato per il rilascio di un provvedimento espresso.
Difatti,
la validità dell’auto-qualificazione compiuta e la completezza o meno della documentazione, utili a formare il titolo edilizio tacito, costituisce, anche a seconda della complessità dell’intervento costruttivo a realizzarsi, una questione talvolta opinabile, in relazione alla quale il soggetto istante del provvedimento autorizzatorio edilizio ben può conservare l’interesse a optare per il rilascio di un titolo edilizio espresso da parte dei competenti uffici comunali, onde evitare di esporsi al successivo esercizio del potere di autotutela, con lesione della propria sfera economico-patrimoniale.
5.- Motivo per cui,
giammai l’amministrazione comunale può pronunciare una “decadenza” in ordine al titolo edilizio tacito (presuntivamente) formatosi, qualora sia stato richiesto, più volte nel tempo –com’è avvenuto nel caso di specie– l’emanazione di un provvedimento espresso.
Il Comune di Trani è, dunque, obbligato ex lege, laddove invero specificamente richiesto e sollecitato, a pronunciarsi sul rilascio del permesso edilizio in modo espresso, stante il principio generale imposto dall’art. 2, comma 1, della legge 07.08.1990 n. 241.
Di conseguenza,
non è configurabile la decadenza su un atto tacito “condizionato” alla presenza di tutti i requisiti previsti dall’art. 20, comma 8, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (completezza documentale ed esclusione da vincoli), che sono suscettibili di vario apprezzamento oggettivo e soggettivo (auto-qualificazione) e, quindi, sono indeterminati ex se nel loro contenuto precettivo.
Non può pronunciarsi una decadenza, in ordine ad un provvedimento inespresso e di contenuto indeterminato e indeterminabile, alla stregua della normativa da applicarsi in concreto.
6.- In conclusione, il Comune di Trani, in quanto sollecitato al rilascio di un permesso di costruire in forma espressa, è tenuto ad emanare il relativo provvedimento e non può persistere nell’omissione. Di conseguenza, è illegittimo il provvedimento di decadenza impugnato nel presente ricorso, come specificato in epigrafe.
Ergo, il ricorso va accolto e annullato il provvedimento di decadenza impugnato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. Il contributo unificato va rifuso, in applicazione dell’art. 13, comma 6-bis, del d.P.R. 30.05.2002 n. 115.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Furbetti del cartellino, licenziamento d’obbligo. CORTE D’APPELLO DI GENOVA: PRESUNTA BUONA FEDE NON È FONTE DI ANNULLAMENTO.
Una presunta buona fede del furbetto del cartellino non può essere fonte di annullamento del licenziamento per giusta causa.
La Corte d'appello di Genova, con la sentenza 20.05.2019 n. 250/2019 respinge su tutta la linea il ricorso presentato da uno dei furbetti del cartellino di San Remo, che aveva chiesto la revisione della sentenza di primo grado, con la quale era già stata respinta la domanda di annullamento del licenziamento.
La corte di appello non dà spazio alcuno alle ragioni difensive, che oggettivamente per molti versi appaiono artificiose e insostenibili. In particolare, appunto, il passaggio difensivo secondo il quale la sanzione del licenziamento risulterebbe eccessiva, perché il comune non avrebbe tenuto conto della circostanza che il dipendente era convinto della sufficienza di un consenso verbale del proprio responsabile all'allontanamento dall'ufficio.
I giudici sono trancianti: il dipendente essendo alle dipendenze da molti anni dal comune non poteva non essere a conoscenza dell'obbligo, imposto da sempre da leggi e contratti collettivi, di timbrare il cartellino presenze sia in entrata che in uscita. Inoltre, la violazione contestata dal comune non riguarda tanto la circostanza dell'omessa timbratura quanto l'elemento ancor più grave della fraudolenta alterazione della presenza in servizio. Infatti, a carico del dipendente interessato era stato rilevato di aver manomesso le timbrature, facendo risultate entrate ed uscite dall'ufficio in orari diversi da quelli effettivi.
Né ha retto lo spunto difensivo alla «situazione di stress» connessa alla necessità di prestare assistenza alla madre anziana. La sentenza evidenzia come le indagini abbiano comprovato che il dipendente licenziato fosse stato visto ripetutamente rientrare in ufficio con i sacchetti della spesa. La Corte d'appello non manca, inoltre, di rilevare che i fatti addebitati concernono circa 50 alterazioni delle timbrature, per mezzo delle quali, per altro, il dipendente si era accreditato ore di straordinario illegittimamente.
Ma non basta: ad escludere ogni buona fede è la circostanza che il licenziato ha anche timbrato più volte per i colleghi, ricevendo in cambio analoghi indebiti favori: il che è ulteriore prova del comportamento certamente fraudolento, che, secondo anche insegnamenti della Cassazione, impongono l'adozione della misura del licenziamento, non essendo consentito dalla legge adottare sanzioni di natura «conservativa», come la sospensione dal servizio.
La Corte d'appello ha rigettato anche altri rilievi di presunta nullità del licenziamento, quali, tra tutti presunte incompatibilità tra ruolo di responsabile dell'ufficio dei procedimenti disciplinari e segretario generale. Il comune di San Remo a suo tempo affidò alla segretaria la responsabilità dei procedimenti disciplinari: la Corte d'appello osserva che l'Anac con una nota del 06.11.2016 ha confermato la correttezza dell'incarico.
Allo stesso modo, nonostante l'ufficio per i procedimenti disciplinari fosse monocratico, costituito solo dal segretario generale del comune, nulla gli vietava, come effettivamente accaduto, di acquisire da soggetti terzi, in particolare gli agenti di polizia giudiziaria competenti alle indagini penali scattate a suo tempo, elementi utili per l'istruttoria: questo, a differenza di quanto reclamato in appello, non aveva modificato l'assetto monocratico dell'ufficio, né invalidato il procedimento.
Del tutto privo di fondamento, ancora, sono state considerate le richieste di pronuncia di nullità per violazione del principio del giudice precostituito per legge, applicabile ovviamente solo ai procedimenti giurisdizionali, ai quali non appartiene certo il procedimento disciplinare.
Né migliore fortuna hanno avuto le doglianze legate alla presunta mancata qualificazione del soggetto agente nelle lettere di comunicazione degli atti del procedimento e del licenziamento: le note inviate al dipendente licenziato erano scritte su carta intestata del comune e ricondotte alla competenza del segretario generale, incaricato anche quale dirigente del personale, quindi senza alcun dubbio riproducenti una volontà da ricondurre a quella del comune quale datore di lavoro
(articolo ItaliaOggi del 22.05.2019).

URBANISTICA: La lottizzazione abusiva ex art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001 prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell’alienante.
L’ordinamento contempla di per sé due ipotesi fenomeniche di lottizzazione abusiva che possono verificarsi in modo separato o anche concomitantemente: l’una c.d. “materiale” o “sostanziale”, posta in essere con l’esecuzione di opere in aree non adeguatamente urbanizzate che determinino una trasformazione edilizia ovvero urbanistica del territorio in violazione degli strumenti urbanistici vigenti o adottati o comunque di leggi statali o regionali; l’altra c.d. “cartolare” (definita peraltro correntemente anche come “giuridica” o “negoziale”), che viceversa si realizza mediante il compimento di atti di disposizione tra vivi comportanti il frazionamento dei terreni in modo tale da determinarne in maniera inequivocabile la destinazione d’uso a scopo di edificazione contra legem.
Con riferimento specifico alla predetta lottizzazione c.d. “
cartolare” è stato ripetutamente rimarcato che la fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche –con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti.
Ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “
cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti (cfr. ibidem).
Detto altrimenti, l’attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che l’attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori.
Per quanto attiene alle ipotesi di lottizzazione c.d. “
materiale” è stato rimarcato che la realizzazione delle opere deve risultare globalmente apprezzabile in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione cui compete la pianificazione urbanistico-edilizia.
Le opere medesime devono essere quindi valutate con riguardo alla complessiva ratio dell’art. 30 in esame, il cui bene giuridico tutelato risiede infatti nella necessità di salvaguardare la potestà programmatoria, delle amministrazioni titolari delle funzioni di pianificazione del territorio. nonché le connesse attribuzioni di controllo sull’ordinato svolgersi delle attività urbanistico-edilizie, ossia –più in generale- del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione delle aree edificate in rapporto agli standard apprestabili.
Sintomatica al fine dell’accertamento della lottizzazione abusiva c.d. “
materiale” è ad esempio la realizzazione sistematica di manufatti, soprattutto se suscettibili di stravolgere, per le proprie caratteristiche, la destinazione del suolo, siccome avulsi da ogni connessione funzionale con quest’ultima, nonché nella realizzazione di suddivisioni, recinzioni, cancelli, impianti di illuminazione, reti di distribuzione di acqua, energia elettrica, gas, strade o spazi aperti di accesso ai lotti, ecc..
Né pare superfluo in questo contesto ribadire che la natura permanente delle sopradescritte attività “
materiali” e/o “cartolari” perpetrate conra legem rende tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e, vieppiù, che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie.
In tal senso una giurisprudenza ormai del tutto consolidata afferma che la lottizzazione abusiva ex art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell’alienante.
Sotto questo profilo opportunamente è stato anche richiamato in via di coerenza sistematica la giurisprudenza penale laddove, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita utilizzazione del territorio.
Sempre in tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato possono al più utilizzare l’argomento al mero fine dell’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828), nel mentre l’argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune,segnatamente contemplata dall’art. 30, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato.
Né è superfluo precisare che l'ordinanza di sospensione contemplata dall’art. 30, comma 7, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto provvedimento vincolato al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati incisi, e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile –proprio per quanto evidenziato poc’anzi- alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito avente natura permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Il medesimo provvedimento di sospensione, inoltre, ha natura cautelare e non sanzionatoria, né richiede l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento a’ sensi dell’art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241, essendo giustificata l’omissione di tale obbligo in presenza di ragioni derivanti da particolari esigenze di celerità.
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4.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
4.2.1. Come è ben noto, la disciplina delle fattispecie di lottizzazione abusiva è contenuta nell’art. 30 del T.U. approvato con d.P.R. 05.06.2001, n. 380, che ivi codifica le disposizioni normative che in prosieguo di tempo sono intervenute a normare la materia, ossia l’art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47, gli artt. 1, comma 3-bis e 7, del d.l. 23.04.1985, n. 146, convertito con modificazioni con l. 21.06.1985, n. 298, e gli artt. 107 e 109 del T.U. approvato con d.lgs. 18.08.2000, n. 267.
Il testé riferito art. 30 dispone -per quanto qui segnatamente interessa– che “si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio” (cfr. ivi, comma 1).
I susseguenti commi da 2, 3, 4, 4-bis e 5 recano disposizioni tassative in ordine alla ricezione, formazione e comunicazione degli atti pubblici mediante i quali si trasferiscono tra vivi, ovvero si costituiscono o si sciolgono le comunioni di diritti reali ricadenti su terreni, allo scopo di prevenire l’insorgere della fattispecie.
Il comma 6, abrogato per effetto dell’art. 1 del D.P.R. 09.11.2005, n. 304, ineriva sempre agli adempimenti riguardanti la comunicazione di tali atti.
Ferma restando l’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 44, comma 1, lett. c), prima parte del medesimo T.U. n. 380 del 2001, “nel caso in cui il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale accerti l’effettuazione di lottizzazione di terreni a scopo edificatorio senza la prescritta autorizzazione, con ordinanza da notificare ai proprietari delle aree ed agli altri soggetti indicati nel comma 1 dell’articolo 29” (ossia il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore, e –ove del caso– direttore dei lavori: cfr. ivi) “ne dispone la sospensione. Il provvedimento comporta l’immediata interruzione delle opere in corso ed il divieto di disporre dei suoli e delle opere stesse con atti tra vivi, e deve essere trascritto a tal fine nei registri immobiliari” (cfr. art. 30 cit., comma 7).
Trascorsi novanta giorni, ove non intervenga la revoca del provvedimento di cui al comma 7, le aree lottizzate sono acquisite di diritto al patrimonio disponibile del comune il cui dirigente o responsabile del competente ufficio deve provvedere alla demolizione delle opere. In caso di inerzia si applicano le disposizioni concernenti i poteri sostitutivi di cui all’articolo 31, comma 8”, esercitati dall’amministrazione regionale (cfr. ibidem, comma 8).
Gli atti aventi per oggetto lotti di terreno, per i quali sia stato emesso il provvedimento previsto dal comma 7, sono nulli e non possono essere stipulati, né in forma pubblica né in forma privata, dopo la trascrizione di cui allo stesso comma e prima della sua eventuale cancellazione o della sopravvenuta inefficacia del provvedimento del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale” (cfr. ibidem, comma 9).
Va ancora evidenziato che tutte le disposizioni surriferite “si applicano agli atti stipulati ed ai frazionamenti presentati ai competenti uffici del catasto dopo il 17.03.1985, e non si applicano comunque alle divisioni ereditarie, alle donazioni fra coniugi e fra parenti in linearetta ed ai testamenti, nonché agli atti costitutivi, modificativi od estintivi di diritti reali di garanzia e di servitù” (cfr. ibidem, comma 10).
4.2.2. Dalla lettura delle su riportate disposizioni consta dunque che l’ordinamento contempla di per sé due ipotesi fenomeniche di lottizzazione abusiva che possono verificarsi in modo separato o anche concomitantemente: l’una c.d. “materiale” o “sostanziale”, posta in essere con l’esecuzione di opere in aree non adeguatamente urbanizzate che determinino una trasformazione edilizia ovvero urbanistica del territorio in violazione degli strumenti urbanistici vigenti o adottati o comunque di leggi statali o regionali; l’altra c.d. “cartolare” (definita peraltro correntemente anche come “giuridica” o “negoziale”), che viceversa si realizza mediante il compimento di atti di disposizione tra vivi comportanti il frazionamento dei terreni in modo tale da determinarne in maniera inequivocabile la destinazione d’uso a scopo di edificazione contra legem (cfr. per ulteriori approfondimenti su tale distinzione, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108, e l’ulteriore giurisprudenza ivi richiamata).
Con riferimento specifico alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare” è stato ripetutamente rimarcato che la fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche –con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 03.08.2012, n. 4429, e Sez. IV, 13.05.2011, n. 2937).
Ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti (cfr. ibidem).
Detto altrimenti, l’attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che l’attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori (cfr. al riguardo, ex plurimis, la già citata sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108, nonché Cons. Stato, Sez. IV, 31.03.2009, n. 2004).
Per quanto attiene alle ipotesi di lottizzazione c.d. “materiale” è stato rimarcato che la realizzazione delle opere deve risultare globalmente apprezzabile in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione cui compete la pianificazione urbanistico-edilizia.
Le opere medesime devono essere quindi valutate con riguardo alla complessiva ratio dell’art. 30 in esame, il cui bene giuridico tutelato risiede infatti nella necessità di salvaguardare la potestà programmatoria, delle amministrazioni titolari delle funzioni di pianificazione del territorio. nonché le connesse attribuzioni di controllo sull’ordinato svolgersi delle attività urbanistico-edilizie, ossia –più in generale- del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione delle aree edificate in rapporto agli standard apprestabili (così, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 06.06.2018, n. 3416).
Sintomatica al fine dell’accertamento della lottizzazione abusiva c.d. “materiale” è ad esempio la realizzazione sistematica di manufatti, soprattutto se suscettibili di stravolgere, per le proprie caratteristiche, la destinazione del suolo, siccome avulsi da ogni connessione funzionale con quest’ultima (cfr. sul punto, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 03.08.2010, n. 5170, e 01.06.2010, n. 3475), nonché nella realizzazione di suddivisioni, recinzioni, cancelli, impianti di illuminazione, reti di distribuzione di acqua, energia elettrica, gas, strade o spazi aperti di accesso ai lotti, ecc. (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 11.10.2006, n. 6060).
4.2.3. Né pare superfluo in questo contesto ribadire che la natura permanente (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 30.08.2016, n. 4651, e Sez. VI, 18.09.2013, n. 4651) delle sopradescritte attività “materiali” e/o “cartolari” perpetrate conra legem rende tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e, vieppiù, che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie.
In tal senso una giurisprudenza ormai del tutto consolidata afferma che la lottizzazione abusiva ex art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell’alienante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2016, n. 26).
Sotto questo profilo opportunamente Cons. Stato, Sez. IV, 03.04.2014, n. 1589, ha anche richiamato in via di coerenza sistematica la giurisprudenza penale laddove, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita utilizzazione del territorio (cfr. Cass. pen., Sez. III, 13.02.2014, n. 2646; id., 03.12.2013, n. 51710; id., 27.04.2011, n. 21853).
Sempre in tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato possono al più utilizzare l’argomento al mero fine dell’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828), nel mentre l’argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune,segnatamente contemplata dall’art. 30, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, 23.03.2018, n. 1878).
Né è superfluo precisare che l'ordinanza di sospensione contemplata dall’art. 30, comma 7, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto provvedimento vincolato al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati incisi, e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile –proprio per quanto evidenziato poc’anzi- alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito avente natura permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 30.08.2016, n. 3721, e 16.04.2012 n. 2185).
Il medesimo provvedimento di sospensione, inoltre, ha natura cautelare e non sanzionatoria, né richiede l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento a’ sensi dell’art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241, essendo giustificata l’omissione di tale obbligo in presenza di ragioni derivanti da particolari esigenze di celerità (così Cons. Stato, Sez. VI, 09.10.2018, n. 5805) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 17.05.2019 n. 3196 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione accessorio alla condanna penale per reati edilizi - Riesame in sede esecutiva - Pendenza di un procedimento amministrativo - Sospensione o revoca - Presupposti - Bilanciamento di interessi - Fattispecie - Art. 31 d.P.R. 380/2001.
L'ordine di demolizione accessorio alla condanna penale per reati edilizi, insuscettibile di passare in giudicato, è riesaminabile in sede esecutiva ove può essere revocato in presenza di determinazioni della autorità o giurisdizione amministrativa incompatibili con l'abbattimento del manufatto oppure può essere sospeso quando sia ragionevolmente prevedibile, in base a elementi concreti, che un tale provvedimento sarà adottato in breve arco temporale.
Mentre la revoca, (che si fonda sul sopravvenire di legittimi provvedimenti amministrativi che siano assolutamente incompatibili con l'ordine stesso o per aver conferito all'immobile altra destinazione o per essersi proceduto alla regolarizzazione postuma di opere che, pur non conformi alle norme urbanistico-edilizie ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in cui vennero eseguite, lo siano divenute solo successivamente), nel caso di specie, non è configurabile in difetto di provvedimenti incompatibili con l'ordine di demolizione impartito ai ricorrenti, la pendenza di un procedimento amministrativo per il conseguimento di un titolo concessorio in sanatoria non è invece di ostacolo, in astratto, ad un provvedimento di sospensione, dovendosi tuttavia a tal fine contemperare due interessi, tra loro configgenti, ed entrambi meritevoli di protezione: quello pubblico alla tutela del territorio con la rapida riparazione del bene violato e quello del privato ad evitare un danno irreparabile in presenza di una situazione giuridica che potrebbe evolversi a suo favore.
Fattispecie: abuso edilizio consistito nella realizzazione, in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione della Soprintendenza su un'area soggetta a vincolo paesaggistico con contestuale violazione della normativa per le costruzioni in cemento armato ed in zona sismica.

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Reati urbanistici - Ordine di demolizione - Istanza di condono o di sanatoria - Passaggio in giudicato della sentenza di condanna - Richiesta di revoca o sospensione - Riesame in sede esecutiva - Poteri e verifiche del giudice dell'esecuzione.
In materia di reati urbanistici, in presenza di una istanza di condono o di sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di revoca o sospensione dell'ordine di demolizione di opere accertate come abusive, è tenuto ad una attenta disamina dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura ed, in particolare:
   a) a verificare il possibile risultato dell'istanza e se esistono cause ostative al suo accoglimento;
   b) nel caso di insussistenza di tali cause, a valutare i tempi di definizione del procedimento amministrativo e sospendere l'esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento dello stesso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2019 n. 21383 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPa responsabile del danno anche quando il dipendente agisce a scopo personale.
Lo Stato o l’ente pubblico rispondono del danno subìto dal terzo per l’illecito del dipendente, anche quando agisce solo per scopi personali, estranei ai fini dell’amministrazione. La corresponsabilità scatta purché l’azione illecita sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni svolte dal dipendente infedele. E dunque se questa non sarebbe stata possibile senza l’esercizio del ruolo, per quanto svolto in modo illecito.
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A. Inquadramento della fattispecie.
1. La sentenza impugnata ha rigettato la domanda risarcitoria della vittima del peculato del cancelliere in base all'orientamento della giurisprudenza di legittimità (richiamando: Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 17/09/1997, n. 9260; Cass. 06/12/1996, n. 10896; Cass. 13/12/1995, n. 12786; Cass. 03/12/1991, n. 12960) secondo cui, affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente, poiché il fondamento di quella risiede nel rapporto di immedesimazione organica, deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, anche la riferibilità all'Amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente si manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto; tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli del tutto estraneo all'amministrazione o perfino contrario ai fini che essa persegue ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l'attività del dipendente e la P.A. (militando nello stesso senso anche Cass. 12/04/2011, n. 8306, nonché, in precedenza e tra le altre: Cass. 08/10/2007, n. 20986; Cass. 18/03/2003, n. 3980).
2. Il ricorrente si affida ad un unitario motivo, con cui denuncia, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 28 Cost. e dell'art. 2049 cod. civ., dolendosi dell'esclusione della responsabilità del Ministero; nega che «ai fini dell'applicazione dell'art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità fra il comportamento del funzionario e l'evento dannoso, debba necessariamente ricorrere anche l'ulteriore, troncante presupposto della "riferibilità all'amministrazione di quel comportamento"»; contesta che debba «ricadere esclusivamente sul danneggiato la scelta dell'Amministrazione di affidare la direzione di un ufficio a soggetto rivelatosi privo dei requisiti morali»; chiede che risponda del «danno ... occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli».
3. Sostiene, ancora, il Di Be. che il principio secondo cui la responsabilità dell'Amministrazione, nelle ipotesi previste dall'art. 28 Cost., debba ritenersi esclusa ogni qual volta l'agente, profittando delle sue precipue funzioni, abbia dolosamente commesso il fatto per ritrarre egli stesso utilità, non troverebbe giustificazione nel dettato costituzionale, né in norme di legge, integrando un «disparitario postulato assolutamente privo di sostrato logico e giuridico, che non solo svuota di ogni contenuto quella norma di garanzia (evidentemente posta a tutela dell'amministrato), ma ne sbilancia smaccatamente gli effetti a tutto favore dell'Amministrazione»; sicché la Corte di merito avrebbe dovuto piuttosto aderire al diverso orientamento espresso con la sentenza di questa Corte, VI Sez. Pen., n. 13799 del 31.03.2015, secondo cui «è configurabile la responsabilità civile della P.A. anche per le condotte dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse sono poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l'occasione offerta dall'adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono, inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali funzioni, in applicazione di quanto previsto dall'art. 2049 cod. civ.» (annullato così il rigetto della domanda risarcitoria nei confronti di imputato che, quale agente di Ufficio notifiche esecuzioni e protesti, si era appropriato di titoli di credito ed effetti cambiari a lui consegnati per il protesto, commettendo i reati di peculato, falso e truffa).
4. Pertanto, per il ricorrente la responsabilità del Ministero si fonda sul fatto che, come emerso nelle fasi di merito, lo Sc. aveva esplicato l'attività criminosa, non imprevedibile in assoluto, nella qualità di funzionario di cancelleria e che solo grazie a quella veste istituzionale gli era stato possibile accedere alla cassaforte ove i libretti vincolati erano custoditi, falsificare i mandati di pagamento e conseguirne di persona l'incasso.
5. Dal canto suo il Ministero, eccepita la tardività del ricorso, invoca la giurisprudenza di legittimità sulla necessità, ai fini della responsabilità diretta dell'Amministrazione, della riferibilità a questa della condotta del funzionario o del dipendente, come esplicazione dell'attività di quella in virtù del rapporto organico, ricollegabile ad attribuzioni proprie di lui: tanto da escludere ogni responsabilità nel caso, come quello in esame, di condotta sorretta da un fine strettamente personale ed egoistico del funzionario o dipendente ed anzi contrario agli scopi istituzionali perseguiti dall'Amministrazione.
6. Con la memoria depositata per l'udienza del 09/04/2019, poi, il Ministero nega la rilevanza dell'invocata giurisprudenza di legittimità penale, da un lato perché anch'essa postula i caratteri dell'assoluta imprevedibilità ed eterogeneità della condotta dell'agente rispetto ai suoi compiti istituzionali (in modo da non consentire un collegamento con essi) e dall'altro perché la stessa P.A. avrebbe potuto costituirsi parte civile nel procedimento penale per peculato contro il suo funzionario evidentemente infedele, attesa la natura plurioffensiva del delitto di peculato per il quale quello è stato poi condannato.
7. Il Pubblico Ministero, infine, nella requisitoria scritta con ampiezza di riferimenti ricostruisce i termini della questione, iniziando dalla disamina della natura della responsabilità di Stato ed Enti pubblici per i fatti illeciti commessi dai propri dipendenti e funzionari; illustra una prima impostazione ermeneutica, propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella penalistica più risalente (ma pure di quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato per il fatto illecito dei propri dipendenti sussiste solo in applicazione di criteri pubblicistici e quindi esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali e, in virtù del rapporto organico, allorché quella vada imputata direttamente all'ente (con orientamento definito consolidato da Cass. n. 15930/2002, seguita poi, tra le altre, da Cass. nn. 2089 e 27246 del 2008, 8306 e 29727 del 2011, 21408/2014 e 8991/2015); ma ricorda pure una seconda interpretazione, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica (Cass. pen. nn. 21195/2011, 40613/2013, 13799 e 44760 del 2015) e di una giurisprudenza civilistica ora più remota e poi superata, ora minoritaria (Cass. nn. 20928/2015 e 17836/2007), ora riferita a rapporti di preposizione privatistici (Cass. nn. 2226/1990, 20924/15, 22058/2017, 4298/2019) e quindi non assimilabili al rapporto che lega il pubblico dipendente allo Stato o all'ente pubblico, la quale riconosce la responsabilità di questi pure in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti a quelli elaborati per la responsabilità del preponente ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., ammettendola così in ipotesi di nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
8. Nella stessa requisitoria scritta si dubita poi della sussistenza di un effettivo contrasto: da un lato, per la costanza nella configurazione di una responsabilità diretta e, dall'altro, per la sussistenza di questa esclusivamente in caso di condotta del dipendente strumentalmente connessa con l'attività d'ufficio, benché non esclusa in ipotesi di condotta dolosa o con abuso di poteri o con violazione di legge o di un ordine, purché si innesti nell'attività dell'ente e sia anche soltanto indirettamente collegabile alle sue attribuzioni e non sia connotata dal carattere dell'imprevedibilità ed eterogeneità rispetto a queste ultime, sì da escluderne ogni collegamento con le medesime, dovendo rimettersi il superamento delle discrasie all'apprezzamento di fatto delle circostanze concrete. Per l'errore di diritto consistente nella violazione di tale principio si chiede così l'accoglimento del ricorso.
B. L'ordinanza di rimessione.
9. L'ordinanza di rimessione (05/11/2018, n. 28079), esclusa la tardività del ricorso in base al testo dell'art. 327 cod. proc. civ. applicabile in ragione della data di instaurazione del giudizio in primo grado, identifica come oggetto della controversia la questione della sussistenza o meno della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del dipendente quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee all'amministrazione di appartenenza; ed individua la ragione della sua devoluzione a queste Sezioni Unite nella rilevata non univocità, sul punto, delle conclusioni della giurisprudenza di legittimità.
10. Da un lato, la prevalente giurisprudenza civile di legittimità ha ravvisato il fondamento della responsabilità di Stato ed enti pubblici nell'art. 28 della Costituzione -la cui ratio è quella di un più agevole od ampio conseguimento del risarcimento da parte del danneggiato- e, basandosi tale norma sul rapporto di immedesimazione organica, solo in virtù del quale l'attività posta in essere dal funzionario (o dipendente) è sempre imputabile all'ente di appartenenza, ne ha desunto la configurazione di una responsabilità diretta o per fatto proprio, ma soltanto se l'attività dannosa si atteggi come esplicazione dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico e cioè tenda, sia pur con abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto (richiamando: Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass. 30/01/2008, n. 2089; Cass. 17/09/1997, n. 9260). 
Ne conseguirebbe l'esclusione di quella responsabilità in tutti i casi in cui la condotta sia sorretta da un fine esclusivamente privato od egoistico, o a maggior ragione se contrario ai fini istituzionali dell'ente (Cass. 12/04/2011, n. 8306; Cass. 8/10/2007, n. 20986, Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 18/03/2003, n. 3980; Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass. 13/12/1995, n. 12786).
11. Dall'altro lato, però, almeno in tempi recenti la giurisprudenza penale di legittimità configura la responsabilità civile della pubblica amministrazione pure per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a perseguire finalità esclusivamente personali e mercé la realizzazione di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l'occasione necessaria offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione del criterio previsto dall'art. 2049 cod. civ. (Cass. pen., 20/01/2015, n. 13799 -poi richiamata da Cass. pen. 03/04/2017, n. 35588, ma preceduta da Cass. pen. 11/06/2003, n. 33562- in consapevole contrasto con l'orientamento precedente, di cui è stata ulteriore espressione la più recente Cass. pen. 04/06/2015, n. 44760).
12. Ad analoga estensione della responsabilità civile si assiste nella giurisprudenza civile di legittimità in altri ambiti di preposizione, meramente privatistici, quali quelli propri dei funzionari di banche o dei promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria, in ordine ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei preponenti anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso che è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente ex art. 2049 cod. civ. e non viene meno in caso di commissione da parte del preposto di un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale (v. già Cass. 06/03/2008, n. 6033; successivamente, v.: Cass. 16/04/2009, n. 9027; Cass. 24/07/2009, n. 17393; Cass. 25/01/2011, n. 1741; Cass. 24/03/2011, n. 6829; Cass. 13/12/2013, n. 27925; Cass. 04/03/2014, n. 5020; Cass. 10/11/2015, n. 22956).
Di qui il rilievo della non univocità della giurisprudenza in materia e la rimessione della relativa questione a queste Sezioni Unite.
C. La normativa applicabile.
13. Pertinenti per la risoluzione della questione sono:
   - l'art. 28 della Costituzione, per il quale, com'è noto: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici»;
   - l'art. 2049 cod. civ., rubricato «responsabilità dei padroni e dei committenti», per il quale «i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
14. Sostanzialmente neutri ai fini che qui interessano, per il rinvio espresso che operano ai principi ed alle norme vigenti, si rivelano invece alcuni articoli del t.u. 10.01.1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in particolare gli artt. 22 e 23, i cui rispettivi primi commi prevedono:
   - «l'impiegato che, nell'esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell'art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo. L'azione di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l'azione diretta nei confronti dell'Amministrazione qualora, in base alle norme ed ai principi vigenti dell'ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello Stato»;
   - «è danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave; restano salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti».
D. La normativa costituzionale.
15. È noto l'ampio dibattito, soprattutto in dottrina e all'indomani dell'entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell'art. 28 della Costituzione: superate le prime tesi sulla natura meramente sussidiaria della responsabilità di Stato od ente pubblico rispetto a quella dell'agente, è invalso il riconoscimento della natura concorrente o solidale delle due responsabilità, ricostruita quella dello Stato od ente pubblico come diretta, in forza dei principi sull'immedesimazione organica dovendo escludersi che l'attività posta in essere al di fuori dei compiti istituzionali dal pubblico funzionario o dipendente potesse imputarsi allo Stato o ente pubblico.
16. Non ha incontrato il favore degli interpreti la ricostruzione della responsabilità della Pubblica Amministrazione per l'illecito del suo dipendente quale responsabilità indiretta (o per fatto altrui, dovendo la Pubblica Amministrazione sopportare i rischi delle conseguenze dannose degli atti posti in essere da coloro che agiscono per suo conto), né altra tesi eclettica, che ha prospettato la natura composita di quella stessa responsabilità, dovendo l'Amministrazione rispondere in via diretta per i danni causati nello svolgimento dell'attività provvedimentale (l'unica rispetto alla quale si configurerebbe un'immedesimazione organica, in quanto esplicazione della funzione diretta al perseguimento del pubblico interesse e posta in essere da funzionari dotati del potere rappresentativo -organi in senso stretto- attraverso cui l'Ente esprime la sua volontà ed agisce nei rapporti esterni) ed in via indiretta per i danni causati
nell'espletamento di ogni altra attività, tra cui quella materiale.
17. Nella prevalente dottrina pubblicistica la tesi della responsabilità diretta da rapporto organico in funzione limitativa si fonda sulla tesi del contenimento dell'innovazione portata dalla norma costituzionale: questa non starebbe nell'immutazione della natura della responsabilità dell'Ente, che andrebbe sempre qualificata, come nel sistema anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, in termini di responsabilità diretta o per fatto proprio; essa invece starebbe nella previsione, accanto alla responsabilità diretta della pubblica amministrazione, di una concorrente responsabilità, sempre diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l'Ente di appartenenza, solo ove tale responsabilità solidale fosse prevista da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato la scelta se far valere l'una o l'altra od entrambe.
19. La giurisprudenza amministrativa è, poi, ferma nel ritenere interrotta l'imputazione giuridica dell'attività posta in essere da un organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato, Sez. 5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11.08.2012, n. 536), o comunque allorché il soggetto agente, legato alla P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la P.A., nell'ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell'Ente (TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno dell'imputabilità dell'atto all'Amministrazione, per interruzione del rapporto organico, determina la nullità dell'atto stesso, per mancanza di uno degli «elementi essenziali» -ex art. 21-septies, l. n. 241 del 1990- individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo alla stessa P.A., escludendosi che l'atto de quo possa dirsi posto in essere da una P.A. nell'esplicazione di un'attività amministrativa).
20. E la stessa Corte costituzionale ha reiteratamente statuito (tra le altre: Corte cost. n. 64 del 1992, con richiami a Corte cost. n. 18 del 1989, n. 26 del 1987, n. 148 del 1983, n. 123 del 1972) che l'art. 28 Cost. stabilisce la responsabilità diretta per violazione di diritti tanto dei dipendenti pubblici per gli atti da essi compiuti, quanto dello Stato o degli enti pubblici, rimettendone la disciplina dei presupposti al legislatore ordinario, con la precisazione che (Corte cost. nn. 18 del 1989 e 88 del 1963) la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico può esser fatta valere anteriormente o contestualmente a quella dei funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario.
E. La normativa codicistica.
21. Il codice civile regola la responsabilità dei padroni e committenti, mutuandola pedissequamente dalla previsione del Code civil francese (ed in particolare dal suo originario art. 1384, che oggi corrisponde all'art. 1242, in forza dell'Ordonnance n. 2016-31 del 10/02/2016, in vigore dal 01/10/2016), a mente del quale «les maitres et les commettants ... sont solidairement responsables du dommage causé ... par leurs domestiques et préposés dans les fonctions auxquelles ils les ont employés»; in tale fattispecie si conferma, analogamente ad altre ipotesi di responsabilità civile senza colpa, la deroga al principio ohne Schuld keine Haftung, che permea sia l'altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (quello tedesco in punto di Deliktsrecht, benché in via di graduale superamento e solo in determinati settori, mediante la ricostruzione di obblighi derivanti direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona fede e, poi, dalla novella del BGB sulla sussistenza di obblighi di protezione più ampi rispetto a quelli di prestazione, tali da riverberare i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto), sia il sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone appunto ed almeno in linea generale un difetto di due diligence).
22. Il concetto di padrone o committente, in origine riferito ad economie rudimentali e connotate da rapporti assai stretti di preposizione, è stato via via ampliato in forza di un'interpretazione evolutiva, per essere esteso a molte figure di soggetti che, per conseguire i propri fini, si avvalgono dell'opera di altri a loro legati in forza di vincoli di varia natura (e non necessariamente di dipendenza: su tale specifico punto, tra le prime, v. Cass. 16/03/2010, n. 6325).
23. Si è, al riguardo, superata l'originaria configurazione della responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio, quando questo si identificava almeno in una colpa in eligendo o in vigilando: il testo normativo non concede al responsabile alcuna prova liberatoria, cosicché il ricorso alla fictio della presunzione assoluta di colpa si risolve nell'introduzione artificiosa nella norma di un presupposto che le è irrilevante; al contrario (benché in dottrina si parli anche di responsabilità diretta o per il fatto proprio di essere il preponente), si è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
24. Si tratta (per tutte: Cass. 09/06/2016, n. 11816, ove ulteriori richiami giurisprudenziali; più di recente: Cass. ord. 12/10/2018, n. 25373; Cass. 14/02/2019 n. 4298; quanto al rapporto tra ente pubblico concedente e concessionario, Cass. 20/02/2018, n. 4026, espressamente fonda la responsabilità del primo sull'inserimento del secondo nell'apparato organizzativo della P.A.) di un'applicazione moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del quale l'avvalimento, da parte di un soggetto, dell'attività di un altro per il perseguimento di propri fini comporta l'attribuzione al primo di quella posta in essere dal secondo nell'ambito dei poteri conferitigli.
25. Ma una tale appropriazione di attività deve comportarne l'imputazione nel suo complesso e, così, sia degli effetti favorevoli che di quelli pregiudizievoli: un simile principio risponde ad esigenze generali dell'ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell'operato di altri (poco importa se per scelta od utilità, come nel caso delle persone fisiche, o per necessità, come in ogni altro caso, in cui è indispensabile il coinvolgimento di persone fisiche ulteriori e distinte per l'imputazione di effetti giuridici ad entità sovraindividuali).
26. Dalla correlazione di tale specifica forma di responsabilità ai vantaggi che sia lecito per il preponente attendersi dall'avvalimento dell'altrui operato la giurisprudenza civile di legittimità per i rapporti privatistici di preposizione e quella più recente penale di legittimità hanno ricavato la necessità di un nesso di occasionalità necessaria tra esercizio delle incombenze e danno al terzo (quale ultimo elemento costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione ed all'illiceità del fatto del preposto): nesso che è stato ritenuto sussistente non solamente se il fatto dannoso derivi dall'esercizio delle incombenze, ma pure nell'ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad esporre il terzo all'ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi abbia abusato della sua posizione od agito per finalità diverse da quelle per le quali le incombenze gli erano state affidate.
27. Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità necessaria (e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura in cui le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso possibile la realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte: Cass. 24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni, non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un'attività del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse all'espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/2016, cit.).
28. Non ha infatti giuridico fondamento accollare a chicchessia le conseguenze dannose di condotte del preposto in alcun modo collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione, ove cioè non riconducibili al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste -anche sotto forma di deviazione dal fine perseguito o di contrarietà ad esso o di eccesso dall'ambito dei poteri conferiti- secondo un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione.
29. L'appropriazione dei risultati delle altrui condotte deve, in definitiva, essere correlata (e, corrispondentemente, limitata) alla normale estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle oggetto della preposizione ad esse collegate, sia pure considerandone le violazioni o deviazioni oggettivamente probabili: sicché chi si avvale dell'altrui operato in tanto può essere chiamato a rispondere, per di più senza eccezioni e la rilevanza del proprio elemento soggettivo, delle sue conseguenze dannose in quanto egli possa ragionevolmente raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni dei poteri conferiti o almeno tenerne conto nell'organizzazione dei propri rischi; e così risponde di quelle identificate in base ad un giudizio oggettivizzato di normalità statistica, cioè riferita non alle peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come di verificazione probabile o -secondo i principi di causalità adeguata elaborati da questa Corte fin da Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576- «più probabile che non», in un dato contesto storico.
F. La natura della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici.
30. Deve allora constatarsi una non piena coerenza tra le impostazioni ermeneutiche di questa Corte di legittimità: una prima, propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella preponderante penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto organico, quella vada imputata direttamente all'ente; una seconda, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più recente e di parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata, ora minoritaria, ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione privatistici), in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
31. Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più, nell'odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall'esercizio di poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell'esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
32. In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere.
33. Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in violazione dei criteri generali dell'art. 2043 cod. civ., al risarcimento del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500) o si riconduce all'estrinsecazione del potere pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell'ambito e nell'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364; tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363).
34. Orbene, nel primo caso (attività provvedimentale o, se si volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di pubblicistiche ed istituzionali potestà), l'immedesimazione organica -di regola- pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta all'ente; del resto, con l'introduzione dell'art. 21-septies legge n. 241 del 1990 pure la carenza di un elemento essenziale -in genere esclusa se l'atto integra l'elemento oggettivo di un reato- comporta la mera nullità e non più l'inesistenza dell'atto, come invece voleva la dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l'attribuibilità all'ente dell'atto nullo poiché delittuoso, sia pure a certe condizioni).
35. Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o comunque materiale, ove pure vada esclusa l'operatività del criterio di imputazione pubblicistico fondato sull'attribuzione della condotta del funzionario o dipendente all'ente (questione non immediatamente rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata), non può però negarsi l'operatività di un diverso criterio: non vi è alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato o dell'ente pubblico -se correttamente ricostruita, pure ad evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni- al di fuori dell'esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli altri presupposti validi in caso di avvalimento dell'operato di altri.
36. Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o dell'ente pubblico, in palese contrasto con il principio di uguaglianza formale di cui all'art. 3, comma primo, Cost. e col diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello sovranazionale dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 04.08.1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed entrata in vigore il 10/10/1955) e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata, in versione consolidata, sulla G.U. dell'U.E. del 30/03/2010, n. C83, pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona -ratificato in Italia con L. 02.08.2008, n. 130- e cioè 01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente.
37. Ed una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poiché la tutela dei diritti non può mai a queste essere -se non altro sic et simpliciter o in linea di principio- sacrificata (come, in campo sovranazionale, riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo 14/11/2017, IV sez., Spahie e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n. 20514/15 e altri) e poiché in ogni caso va garantita, affinché possa dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un'adeguata tutela risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera, GMgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119).
38. In definitiva, non può più accettarsi, perché in insanabile contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti.
39. Si tratta, riprendendo una tesi non ignota alla stessa dottrina pubblicistica (sopra, punto 16), della ricostruzione sistematica di un regime di responsabilità articolato, corrispondente alla composita natura delle condotte dello Stato e degli enti pubblici: a seconda che cioè esse siano poste in essere nell'esercizio, pur se eccessivo o illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della titolarità o dell'esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni), sia pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite.
40. Nel primo caso, l'illecito è riferito direttamente all'Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale principio dell'art. 2043 cod. civ.; nel secondo caso, con le precisazioni di cui appresso, la responsabilità civile dell'Ente deve invece dirsi indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e desunti dall'art. 2049 cod. civ.
41. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente (salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale scolastico -ex art. 61 cpv. legge 11.07.1980, n. 312, su cui v. Corte cost. n. 64 del 1992- o dei magistrati ex lege 113/1987, su cui v. tra le altre Corte cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve farsi eccezione quando vi sia un'esplicita diversa previsione normativa che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l'ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell'agente o viceversa.
42. Ritengono queste Sezioni Unite che debba allora superarsi la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto: l'art. 28 Cost. non preclude l'applicazione della normativa del codice civile, piuttosto essendo finalizzata all'esclusione dell'immunità dei funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico ed alla contemporanea riaffermazione della responsabilità della P.A.; ne consegue che la concorrente responsabilità della P.A. e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest'ultimo al di fuori delle finalità istituzionali di quella deve seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regole del diritto comune.
43. Del resto, più non osta all'applicabilità dell'art. 2049 cod. civ. l'originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa.
44. Nemmeno l'ontologica differenza tra rapporto di preposizione institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo funzionario o dipendente osta alla generalizzazione del principio dell'art. 2049 cod. civ., poiché questo è solamente espressione di un generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli ma anche pregiudizievoli, dell'attività non di diritto pubblico dei soggetti di cui ci si avvale; e che la P.A. possa rivestire la qualità di parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello.
45. Ancora, solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali) di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell'obbligazione risarcitoria l'attribuzione (talora normativamente prevista: v. ad es. l'art. 22, cpv., del richiamato d.P.R. 10.01.1957, n. 3) di questo per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto di cui all'art. 2049 cod. civ.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512), salva per quest'ultimo la prova della colpa pure dell'amministrazione.
G. L'occasionalità necessaria.
46. Alla puntualizzazione dell'ambito di operatività del criterio di imputazione ricondotto ai principi dell'art. 2049 cod. civ. va premesso un richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile.
47. A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni Unite di cui alle sentenze nn. 576 ss. del dì 11/01/2008 (alla cui esauriente motivazione, tuttora valida e meritevole di piena condivisione, qui basti un richiamo), ai fini della definizione della causalità materiale nell'ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
48. Tuttavia, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se quest'ultima risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di sviluppo della serie causale già in atto.
49. Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l'evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest'ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che -secondo l'id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante- integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce l'antecedente necessario e sufficiente. E, sempre secondo i citati precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell'agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione dell'evento.
50. Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo dell'illecito (la colpevolezza), ove questo per l'ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro efficienza peculiare nel senso dell'elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra l'illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di questa Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478, 2480 e 2482).
51. Non è questa la sede per esaminare le differenze tra causa ed occasione o concausa, né per sanare la contradictio in adiecto della nozione di occasionalità necessaria: infatti, basta qui rilevare che questa coinvolge una peculiare specie di relazione di causalità, visto che, nella concreta elaborazione che finora se ne è operata e con le precisazioni di cui appresso, una tale occasionalità necessaria si identifica con quella peculiare relazione tra l'uno e l'altro tale per cui la verificazione del danno- onseguenza non sarebbe stata possibile senza l'esercizio dei poteri conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non sufficiente; ma qui va affermata la necessità che tale valutazione di impossibilità sia operata in base ai principi della causalità adeguata appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ex ante, di regolarità causale atta a determinare l'evento, vale a dire di normalità -in senso non ancora giuridico, ma naturalistico-statistico- della sua conseguenza.
52. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l'ente pubblico nella fattispecie di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell'agente (non potendo dipendere il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell'atteggiamento psicologico dell'autore del fatto), ma in relazione all'oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o -a maggior ragione- contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.
53. La conseguenza è l'integrale applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un'adeguata delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole sopra ricordate; in secondo luogo, vige l'elisione del nesso in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a determinare l'evento; in terzo luogo, si applica la regola generale dell'art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478, 2480 e 2482 del 2018).
54. Soprattutto, però, è insito nel concetto stesso di causalità adeguata che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo, anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch'esse oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri.
55. In tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell'organizzazione della propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili) sequenze causali dell'estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni) conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. n. 13799 del 2015 cit.).
56. Ne deriva che quest'ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di quell'estrinsecazione, quand'anche distorta o deviata o vietata: in tanto assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante fattispecie dei danni causati dall'illecito del pubblico funzionario, ogni altra conclusione sull'occasionalità necessaria, tra cui l'estensione alla mera agevolazione della commissione del fatto.
H. Sintesi.
57. Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare una natura composita della responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico per il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i principi della responsabilità indiretta elaborati per l'art. 2049 cod. civ. all'attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e solidale responsabilità per i danni causati da condotte del preposto pubblico definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non improbabile delle normali condotte di regola inerenti all'espletamento delle incombenze o funzioni conferite, anche quale violazione o come sviamento o degenerazione od eccesso, purché anche essi prevenibili perché oggettivamente non improbabili.
58. Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire, purché:
   - si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto dell'estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa - e quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto - non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta; nonché
   - si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell'esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti.
59. Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere del fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa nell'applicazione anche in materia di danni da attività non provvedimentale della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sé solo idoneo a reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di concorso del fatto almeno colposo di costoro.
60. La questione sottoposta a queste Sezioni Unite dall'ordinanza interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di diritto: «
lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa -e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi- non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo»
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 16.05.2019 n. 13246).

PATRIMONIOIl sindaco non è obbligato a chiudere la scuola a basso indice di sicurezza sismica.
La non rispondenza del fabbricato adibito a scuola materna ai criteri antisismici aggiornati non impone di per sé la dichiarazione di inagibilità dell'edificio ma determina soltanto un dovere di programmazione degli interventi edilizi necessari per il suo adeguamento sismico.
Pertanto, non è imputabile per il reato di omissione di atti d'ufficio il sindaco che non dispone l'immediata chiusura della scuola tramite ordinanza contingibile e urgente (articolo 54 del Tuel Dlgs 267/2000).
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RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Modena ricorre avverso l'ordinanza la quale il Tribunale di Modena ha, in accoglimento del riesame proposto ai sensi degli artt. 322 e 324 cod. proc. pen. dall'indagato Ba.Cl., annullato il decreto col quale il G.i.p. di quello stesso Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo dell'immobile adibito a scuola d'infanzia comunale in Serramazzoni nell'ambito del procedimento avviato nei confronti di Ro.Ru. e Cl.Be., sindaci pro-tempore del Comune di Serramazzoni e pertanto ufficiali di governo, il primo dall'anno 2013 al 10/06/2018 e il secondo a partire da tale ultima data, nonché nei confronti di Gi.Ga., Assessore ai lavori pubblici del medesimo Comune dal luglio 2013 ad oggi.
Con lo stesso provvedimento impugnato, il Tribunale disponeva a restituzione dell'immobile in questione all'amministrazione comunale proprietaria.
I soggetti sopra nominati sono indagati per il reato di cui agli artt. 110 e 328 cod. pen. perché, nelle suddette rispettive qualità, indebitamente rifiutavano un atto dei loro uffici che, per ragioni di sicurezza pubblica, avrebbe dovuto essere compiuto senza ritardo.
Secondo la prospettazione accusatoria essi, preso atto della "Relazione tecnica, valutazione della sicurezza strutturale del fabbricato ad uso scuola materna" di proprietà comunale sito in Serramazzoni, Via IV Novembre n. 195 che evidenziava un indice di rischio sismico pari a 0,26, di gran lunga inferiore al limite minimo di 0,6 previsto dalle NCT 2018 con riguardo a interventi di miglioramento sismico su edifici esistenti, omettevano di dichiarare l'inagibilità di detta scuola materna nonché di provvedere all'immediata chiusura della stessa previa adozione di ordinanza contingibile e urgente ex art. 54 D.L.vo 267/2000.
L'ordinanza impugnata ha in primo luogo ritenuto la mancanza di autonoma valutazione del G.i.p. circa i presupposti legittimanti il disposto sequestro.
Ha quindi in ogni caso escluso che la normativa vigente imponga l'obbligatorietà della messa fuori servizio dell'opera non appena se ne riscontri l'inadeguatezza rispetto alle azioni ambientali non controllabili dall'uomo e soggette ad ampia variabilità nel tempo ed incertezza nella loro determinazione, sicché i proprietari o i gestori delle singole opere, siano essi enti pubblici o soggetti privati, sono chiamati a definire e programmare i provvedimenti più idonei, commisurati alla vita naturale nominale restante dell'opera, alla sua classe d'uso e alla disponibilità di risorse ordinarie o straordinarie allo scopo destinate.
Da ciò consegue, ad avviso del Tribunale del riesame, che
la non rispondenza di costruzioni preesistenti agli indici di sicurezza sismica posti dalle Norme tecniche di costruzione (NTC) non determina di per sé un obbligo di intervento di salvaguardia rilevante ai sensi dell'art. 328, comma 1, cod. pen., dovendosi per questo escludere nel caso di specie la sussistenza del fumus commissi delicti. In tal senso, il mero carattere probabilistico astratto del parametro espresso dall'indice di sicurezza sismica non assumerebbe una valenza autonoma, trattandosi della definizione di un rischio diacronico che proietta la sua funzione sul piano della programmazione degli interventi edilizi necessari all'adeguamento sismico piuttosto che su quello della diagnostica del rischio attuale.
Il Tribunale non ha quindi ritenuto in contrasto con i paradigmi tecnico-amministrativi applicabili alla fattispecie l'azione amministrativa intrapresa dal Comune, che ha provveduto in primo luogo a dare soluzione alle rilevate criticità statiche mediante la realizzazione di pertinenti interventi strutturali, ed ha programmato, nel più ampio contesto di maggiori e più immediati investimenti per l'adeguamento sismico di altre scuole, un investimento triennale per il miglioramento e l'adeguamento sismico della scuola sottoposta a sequestro (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 15.05.2019 n. 21175).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Discarica abusiva - Realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi - Responsabilità del proprietario del terreno - Configurabilità in forma omissiva - Esclusione - Produttori e detentori dei rifiuti - Presenza di un obbligo giuridico - Limiti - Artt. 192, 256 d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, il proprietario di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Pertanto, non è configurabile in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano illecitamente depositato i rifiuti, in quanto nessun obbligo di controllo può ravvisarsi in carico del proprietario medesimo, mentre gli obblighi di corretta gestione e smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi.

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RIFIUTI - Smaltimento dei rifiuti - Centro di raccolta - Violazione di sigilli - Principio del cui prodest ed altri elementi di fatto di sicuro valore indiziante - Art. 349 cod. pen. - Giurisprudenza.
In caso di violazione di sigilli, punita dall'art. 349 cod. pen., risponde della stessa il titolare dell'impresa individuale di smaltimento dei rifiuti, al cui centro di raccolta i sigilli risultavano apposti, sulla base del principio del cui prodest, atteso che deve presumersi che la prosecuzione dell'attività non possa che essere riferita al titolare della stessa, in assenza della prova della estraneità del medesimo alla attività illecita. In generale, comunque, è stata ritenuta non censurabile, in sede di legittimità, la sentenza del giudice di appello che fondi il giudizio di colpevolezza sul principio del cui prodest, qualora esso sia supportato da altri elementi di fatto di sicuro valore indiziante (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.05.2019 n. 21080 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Recinzione in prossimità dell’argine di un fiume.
In considerazione di quello che è l’interesse pubblico perseguito dal RD 368/1904, deve ritenersi che la norma si applichi a tutti i manufatti in grado di interferire con la pulizia delle sponde, l’uso degli argini e il normale alveo del corso d’acqua.
Ne consegue che manufatto costituito da un basamento in cemento armato sormontato da una rete metallica va qualificato una “fabbrica” assoggettata alle prescrizioni dell’articolo 133 R.D. n. 368/1904 che indica gli atti o fatti vietati in modo assoluto rispetto ai “corsi d'acqua, strade, argini ed altre opere d'una bonificazione” (fattispecie relativa a una recinzione che sorge a 1,20 m. dalla mezzeria di un canale)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.05.2019 n. 1074 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
7.1. Il ricorso è infondato: il che consente di prescindere, per ragioni di economia processuale, dalla disamina delle eccezioni preliminari sollevate sia dalla difesa del Comune, che da quella del Consorzio (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. III, sentenza n. 9086/2016).
7.2. Il ragionamento deve necessariamente muovere dal dato normativo.
Ebbene, il R.D. n. 368/1904 (recante il “Regolamento sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi”) all’articolo 133 disciplina le fasce di inedificabilità assoluta rispetto a «corsi d’acqua, strade, argini ed altre opere d’una bonificazione». In particolare, per quanto qui di interesse, la testé richiamata disposizione regolamentare vieta in una fascia compresa tra i 4 e i 10 m. dal corso d’acqua la realizzazione di “fabbriche” o “fabbricati”.
Ed, infatti, la deliberazione consortile n. 125 del 31.05.2007, in esecuzione della suvvista disposizione, esercitando la discrezionalità riconosciutagli all’interno dell’intervallo predeterminato dalla norma, ha fissato in 6 m. la fascia di rispetto per i canali derivatori.
7.3.1. Sennonché, è irrilevante che la recinzione di cui si discute sia stata realizzata prima della su ricordata deliberazione consortile, posto che non è in contestazione che essa sorge a 1,20 m. dalla mezzeria del canale, quindi comunque entro la minor fascia di 4 m. fissata dal R.D. n. 168/1904, ovverosia in area comunque assoggettata a vincolo di inedificabilità.
Questo significa che in nessun caso la recinzione avrebbe potuto essere collocata in quel punto.
E significa, altresì, che, giusta quanto dispone l’articolo 33, primo comma, lettera a), L. n. 47/1985, espressamente richiamato dall’articolo 32, comma 27, D.L. n. 269/2003 (convertito in L. n. 326/2003), il manufatto in alcun modo non è sanabile.
7.3.2. Né può sostenersi che la recinzione non costituisca una “fabbrica” e, dunque, non sia assoggettata alle prescrizioni dell’articolo 133 R.D. n. 368/1904.
Come condivisibilmente osservato dalla difesa del Consorzio, in considerazione di quello che è l’interesse pubblico perseguito, deve ritenersi che la norma si applichi a tutti i manufatti in grado di interferire con la pulizia delle sponde, l’uso degli argini e il normale alveo del corso d’acqua. E, nel caso di specie, il manufatto è costituito da un basamento in cemento armato sormontato da una rete metallica: il che ne fa sicuramente una “fabbrica” ai fini sopra visti.
7.3.3. Nemmeno può opporsi –così come tenta di fare la difesa di parte ricorrente- che la recinzione di cui si discute è allineata alla recinzione di altre proprietà che costeggiano il canale e che recentemente anche il Comune ha realizzato dall’altra parte del canale una palizzata a protezione della pista ciclabile.
Infatti, anche ammettendo che le allegazioni siano confermate, non costituisce certo causa di illegittimità l’essersi l’Autorità procedente allontanata da una prassi illegittima (cfr., TAR Emilia Romagna–Parma, sentenza n. 242/2016). La violazione di una norma di legge non repressa non legittima affatto la reiterazione della violazione medesima (cfr., TAR Toscana, Sez. III, sentenza n. 507/2015).
7.4. In questo quadro, il ritiro in autotutela di un provvedimento (i.e. il permesso di costruire in sanatoria) che ab origine non avrebbe potuto essere rilasciato si configura come atto vincolato (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 2799/2018), come tale non necessitante di una motivazione ulteriore rispetto ai presupposti che legittima l’esercizio di un potere nella sostanza repressivo (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 3659/2018).
7.5. Infine, il richiamo operato dalla revoca in autotutela del permesso di costruire in sanatoria alle sanzioni previste dall’articolo 26 del Regolamento consortile è privo di valenza provvedimentale, costituendo un semplice avviso rispetto a provvedimenti che saranno adottati in un secondo momento e a poteri ancora da esercitare.
8.1. In conclusione, il ricorso è infondato e per questo viene respinto.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione non autorizzata di rifiuti - Rilevanza della "assoluta occasionalità" - Singola condotta assolutamente occasionale - Valutazione rimessa al giudice del merito - Art. 256, c. 1, d.lgs. n. 152/2006.
La rilevanza della "assoluta occasionalità", ai fini dell'esclusione della tipicità dell'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, deriva non già da un'arbitraria delimitazione interpretativa della norma, bensì dal tenore della fattispecie penale, che, punendo l'attività" di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione, concentra il disvalore su un complesso di azioni, che, dunque, non può coincidere con una singola condotta assolutamente occasionale. Inoltre, il profilo dell'assoluta occasionalità della condotta è oggetto precipuo della valutazione di fatto rimessa al giudice del merito, e dunque questione essenzialmente probatoria, che, ove congruamente motivata, non è suscettibile di censura in sede di legittimità.
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RIFIUTI - Natura della assoluta occasionalità - Limiti di carattere soggettivo o oggettivo - Soggetto agente (privato, imprenditore, ecc.) - Ininfluenza - Minimum di organizzazione - Altri elementi - Giurisprudenza.
L'assoluta occasionalità non può essere ricavata esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto agente (privato, imprenditore, ecc.), dovendo, invece, ritenersi non integrata in presenza di una serie di indici dai quali poter desumere un minimum di organizzazione che escluda la natura solipsistica della condotta.
In particolare, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256 d.lgs. n. 152 del 2006, il carattere non occasionale della condotta di trasporto illecito di rifiuti può essere desunto da indici sintomatici, quali la provenienza del rifiuto da un'attività imprenditoriale esercitata da chi effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto indicative di precedenti attività preliminari di prelievo, raggruppamento, cernita, deposito
(Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017 - dep. 25/07/2017, Ricevuti; in senso conforme, Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016 - dep. 29/02/2016, P.M. in proc. Revello, la quale ha escluso l'occasionalità della condotta atteso che, pur essendo stato effettuato il trasporto in un'unica occasione, l'ingente quantità di rifiuti denotava lo svolgimento di un'attività commerciale implicante un minimum di organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei materiali).
Altri elementi indicativi per valutare l'occasionalità o meno del trasporto possono trarsi dal dato ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, dalla disponibilità di un veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, dal fine di profitto perseguito
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2019 n. 20467 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATASono le tamponature esterne a realizzare in concreto i volumi di un edificio, rendendoli individuabili e calcolabili, con la conseguenza che la realizzazione di tali tamponature produce senz’altro effetti in termini di aumento di volume.
Gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o risanamento conservativo), ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia; ciò in quanto “gli interventi di manutenzione straordinaria sono caratterizzati da un duplice limite: uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell’edificio, e l’altro di ordine strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione”.
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In secondo luogo, premesso che sul fabbricato, come risulta dalla relazione tecnica riferita al sopralluogo effettuato dai tecnici comunali in data 09.12.2008, erano stati compiuti interventi di tamponamento con aumento volumetrico ed era stata creata superficie utile con costruzione di vani ad uso residenziale con i relativi necessari servizi, il Collegio ritiene che tali opere non possano essere ricondotte alla manutenzione straordinaria come argomentato dall’appellante.
Non sussistono infatti ragioni per discostarsi dalla giurisprudenza di questo Consiglio per la quale: sono le tamponature esterne a realizzare in concreto i volumi di un edificio, rendendoli individuabili e calcolabili (Cons. Stato, sez. VI, 27.06.2008, n. 3286), con la conseguenza che la realizzazione di tali tamponature produce senz’altro effetti in termini di aumento di volume; “gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o risanamento conservativo), ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia” (Cons. Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4523); ciò in quanto “gli interventi di manutenzione straordinaria sono caratterizzati da un duplice limite: uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell’edificio, e l’altro di ordine strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione” (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2007, n. 1388) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 3058 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl discrimine tra ristrutturazione e realizzazione di nuovo organismo edilizio è chiaro nella giurisprudenza di questo Consiglio, secondo la quale per aversi ristrutturazione occorre che sia conservata la struttura fisica della costruzione preesistente o che questa sia oggetto di una ricostruzione se non fedele, comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della struttura preesistente.
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7. L’appello è infondato.
Il Collegio ritiene di affrontare in primo luogo le doglianze di parte appellante con cui si deplora che non sia stata data applicazione all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 (Testo unico per l’edilizia). Tale disposizione prevede, in caso di ristrutturazione edilizia eseguita in assenza di permesso o in totale difformità da esso, l’irrogabilità della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, nell’eventualità che non sia possibile la rimessione in pristino, come avverrebbe nella fattispecie, considerato anche che il piano seminterrato ha una funzione di sostegno del piano terra.
Tali doglianze sono infondate in quanto nella fattispecie non ricorre il presupposto della ristrutturazione edilizia in presenza del quale è applicabile l’invocato art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001. L’accertamento svolto dal Comune di Piombino ha evidenziato opere edilizie abusive che hanno portato alla realizzazione di nuovi volumi e superfici -tra cui la costruzione di un intero piano seminterrato, di una tettoia e di una scala, nonché un manufatto del tutto nuovo- dando luogo ad un nuovo organismo edilizio con modificazione dell’originaria destinazione d’uso agricola in residenziale, per il quale sarebbe stato necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
Il discrimine tra ristrutturazione e realizzazione di nuovo organismo edilizio è chiaro nella giurisprudenza di questo Consiglio, secondo la quale per aversi ristrutturazione occorre che sia conservata la struttura fisica della costruzione preesistente o che questa sia oggetto di una ricostruzione se non fedele, comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della struttura preesistente (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. V, 10.09.2012, n. 4771, Sez. IV, 07.04.2015, n. 1763), requisiti che non ricorrono nella fattispecie.
Infatti, in variazione essenziale dalla concessione rilasciata per la demolizione e ricostruzione di annessi agricoli precari condonati, la realizzazione di pergolato e la posa in opera di un impianto di subirrigazione, è stata invece accertata la realizzazione di un immobile in muratura, costruito su due piani invece di uno, con un piano aggiuntivo seminterrato fuori sagoma, suddiviso in stanze, con cucina ammobiliata e servizio igienico, allacciatura alla fornitura di energia elettrica e acqua, con cambio della destinazione d’uso.
A fronte di tale accertamento, risultano prive di rilevo le doglianze di parte appellante riferite al primo piano dell’edificio, relative all’erroneità di alcune misure indicate nell’ordinanza di demolizione e all’assenza di allacci alle reti di servizi e allo scarso mobilio di tale piano.
Correttamente quindi l’Amministrazione comunale ha disposto la demolizione ai sensi dell’art. 132 della l.r. n. 1/2005 (Norme per il governo del territorio), che, con disposizioni analoghe a quelle contenute nell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, prevede l’ingiunzione di demolizione delle opere eseguite in variazione essenziale rispetto al titolo edilizio (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 3057 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' infondato l’argomento con cui si censura l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione comunale nella valutazione della difformità delle opere realizzate rispetto al titolo edilizio.
Per sua natura tale attività non ha carattere discrezionale, essendo limitata ad un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
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Questo Consiglio ha chiarito, con un orientamento da tempo consolidato, che “le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg., l. n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento non va inteso in senso formalistico, ma risponde all’esigenza di provocare l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla concreta portata del provvedimento finale”.
Infatti, l’ingiunzione di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e vincolato, finalizzato a sanzionare la costruzione di opere realizzate senza il prescritto titolo edilizio e, ai fini della sua adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario.
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Anche l’argomento con cui si censura l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione comunale nella valutazione della difformità delle opere rispetto al titolo edilizio è infondato. Per sua natura tale attività non ha carattere discrezionale, essendo limitata ad un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 29.03.2019, n. 2086).
Il motivo d’appello relativo alla violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990 è infondato.
Questo Consiglio ha chiarito, con un orientamento da tempo consolidato, che “le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg., l. n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento non va inteso in senso formalistico, ma risponde all’esigenza di provocare l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla concreta portata del provvedimento finale” (ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 13.08.2018, n. 4918).
Infatti, l’ingiunzione di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e vincolato, finalizzato a sanzionare la costruzione di opere realizzate senza il prescritto titolo edilizio e, ai fini della sua adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario; essi, comunque, nella fattispecie, non avrebbero potuto far venire meno la circostanza che le opere erano state realizzate senza il necessario titolo (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 3057 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 17 del D.P.R., 08.06.2001, n. 380, comma 3, lettera c), prevede l’esenzione del contributo per “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici".
In base al dato testuale della norma e alla sua costante interpretazione giurisprudenziale, la esenzione esige il concorso di due presupposti, e cioè, uno oggettivo, l’ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e l’altro soggettivo, l’esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale (ovvero da parte di privati concessionari dell’ente pubblico, purché le opere siano inerenti all’esercizio del rapporto concessorio).
Pertanto, è necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività.
Se alla luce dell’evoluzione del concetto di pubblica amministrazione, inteso non più meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le amministrazioni formalmente previste e riconosciute come tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori individuali, società per azioni) che esercitino un’attività pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di longamanus della p.a., tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, l’orientamento della giurisprudenza, dal quale il Collegio non ritiene di potersi discostare nel caso di specie, interpreta restrittivamente le fattispecie di esenzione, richiedendo che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione, sia, per le sue oggettive caratteristiche, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività; ciò in quanto il pagamento degli oneri concessori, essendo finalizzato alla realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie al corretto assetto del territorio, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione, costituisce un principio generale dell’ordinamento le cui eccezioni sono di stretta interpretazione.
Sulla base di tali principi, viene, quindi, affermata la non sufficienza di un nesso di mera strumentalità dell’opera a un interesse generale, richiedendosi l’esclusiva finalizzazione alla realizzazione dell’interesse generale.
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L’appello è infondato.
L’art. 17 del D.P.R., 08.06.2001, n. 380, comma 3, lettera c), prevede l’esenzione del contributo per “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici".
In base al dato testuale della norma e alla sua costante interpretazione giurisprudenziale, la esenzione esige il concorso di due presupposti, e cioè, uno oggettivo, l’ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e l’altro soggettivo, l’esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale (ovvero da parte di privati concessionari dell’ente pubblico, purché le opere siano inerenti all’esercizio del rapporto concessorio) (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 20.11.2017, n. 5356; sez. V, 07.05.2013, n. 2467; sez. IV, 02.03.2011, n. 1332).
Pertanto, è necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività.
Se alla luce dell’evoluzione del concetto di pubblica amministrazione, inteso non più meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le amministrazioni formalmente previste e riconosciute come tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori individuali, società per azioni) che esercitino un’attività pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di longamanus della p.a., tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, l’orientamento della giurisprudenza, dal quale il Collegio non ritiene di potersi discostare nel caso di specie, interpreta restrittivamente le fattispecie di esenzione, richiedendo che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione, sia, per le sue oggettive caratteristiche, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività; ciò in quanto il pagamento degli oneri concessori, essendo finalizzato alla realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie al corretto assetto del territorio, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione, costituisce un principio generale dell’ordinamento le cui eccezioni sono di stretta interpretazione.
Sulla base di tali principi, viene, quindi, affermata la non sufficienza di un nesso di mera strumentalità dell’opera a un interesse generale, richiedendosi l’esclusiva finalizzazione alla realizzazione dell’interesse generale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 06.06.2016, n. 2394; 07.07.2014, n. 3421) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 3054 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa chiacchiera in ufficio è prova. Registrare di nascosto i colleghi non viola la privacy. La Cassazione sul licenziamento per giusta causa: il dialogo deve essere pertinente.
Registrare di nascosto le conversazioni con i colleghi non costituisce motivo di licenziamento per giusta causa. Infatti è legittimo il comportamento del lavoratore finalizzato a precostituirsi un mezzo di prova contro il datore di lavoro per una causa futura o imminente. È dunque possibile produrre in giudizio le registrazioni occulte di vari colloqui avvenuti con i colleghi, in quanto il diritto di difesa prevale sulla tutela della privacy. Attenzione però: le registrazioni sul lavoro sono consentite a patto che i dialoghi siano pertinenti alla tesi da sostenere in giudizio e il mezzo utilizzato non ecceda le finalità.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 10.05.2019 n. 12534.
Il caso. La vicenda portata all'attenzione della Suprema corte riguarda un licenziamento per giusta causa, ai sensi dell'art. 2119 cod. civ., nei confronti di un dirigente sorpreso a registrare sul posto di lavoro conversazioni con i colleghi. Nel caso di specie, sia il Tribunale sia la Corte d'appello di Bologna, avevano dichiarato, concordemente, la legittimità del provvedimento espulsivo intimato al lavoratore a causa del suo comportamento ostile assunto contro l'azienda nell'esecuzione del suo rapporto di lavoro.
Tra i fatti che l'azienda aveva contestato al dirigente (per esempio l'auto assegnazione dei periodi di congedo per le ferie), c'era anche la circostanza di aver registrato in modo occulto, e quindi all'insaputa degli interlocutori, vari colloqui con i suoi colleghi di lavoro. Il lavoratore impugnava le decisioni delle pronunce di primo e secondo grado di giudizio e ricorreva in Cassazione.
I motivi. Tra i motivi del ricorso, il lavoratore sollevava l'errore di diritto della Corte di merito per avere ritenuto che le registrazioni delle conversazioni effettuate con i colleghi rientrassero tra le condotte non consentite. Infatti, a parere del ricorrente, la registrazione di una conversazione all'insaputa dell'interlocutore deve ritenersi legittima e validamente utilizzabile in sede processuale qualora necessaria per tutelare e far valere un diritto in sede giudiziaria.
Inoltre, il lavoratore lamentava che i giudici della Corte d'appello, nell'affermare la legittimità del licenziamento, si fossero limitati a fare riferimento alla nozione astratta di «giusta causa» dovendo, comunque, essere verificata la sussistenza in correlazione con i criteri concordati dalle parti collettive nell'individuare le condotte di rilevanza disciplinare e nel graduare le relative sanzioni.
La sentenza. I giudici della Corte hanno cassato la decisione dei giudici di merito riconfermando la propria giurisprudenza in materia di registrazioni occulte sul luogo di lavoro. Al riguardo, gli ermellini hanno affermato che l'utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non esige il consenso dei presenti, in ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra.
Ne consegue che è legittima, e inidonea a integrare un illecito disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto (Cass. n. 11322 del 10/05/2018 n. 11322; Cass. n. 27424 del 29/12/2014).
Conclusioni. Dalla lettura della sentenza derivano sostanzialmente due conclusioni: da un lato è legittimo registrare di nascosto i colleghi per precostituirsi un mezzo di prova contro il datore di lavoro in una possibile vertenza contro di questi, dall'altro, invece, le registrazioni sul lavoro sono consentite a patto che i dialoghi siano pertinenti alla tesi da sostenere in giudizio e il mezzo utilizzato non ecceda le finalità.
Quindi, la registrazione video o audio può essere rivolta ad acquisire le prove per un processo che si ha solo intenzione di intentare ma che non è stato ancora avviato. Questo comportamento, alla luce della giurisprudenza di legittimità, non può essere considerato reato, anzi costituisce l'esercizio di un diritto
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.05.2019).
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MASSIMA
11.1. E', invece, da accogliere la censura che investe la ritenuta illiceità tout court delle registrazioni di conversazioni fra colleghi, addebitate al Bu., dovendosi dare continuità alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale
l'utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio; ne consegue che è legittima, ed inidonea ad integrare un illecito disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto (Cass. 10/5/2018 n. 11322; Cass. 29/12/2014 n. 27424).
La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata in relazione alla censura accolta con rinvio ad altro giudice di secondo grado, che si indica nella Corte di appello di Bologna in diversa composizione, il quale procederà ai fini della verifica della esistenza della giusta causa di licenziamento alla rivalutazione degli addebiti contestati sulla base del principio richiamato.
Al giudice del rinvio è demandato il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Fanghi derivanti dalle deiezioni animali - Natura di rifiuti pericolosi - Esclusione - Giurisprudenza.
Le deiezioni animali in assenza di altra specificazione, debbono essere considerate rifiuti non pericolosi. Nella fattispecie, pertanto, non si integra il reato di attività di gestione dei rifiuti non autorizzata, ex art. 256, comma 1, lettera b), e 6, del dlgs n. 152 del 2006, per aver smaltito illecitamente rifiuti sanitari e fanghi provenienti dalla conduzione di due canili (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2019 n. 19900 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose - Disturbo della pubblica quiete - Verifica del superamento della soglia della normale tollerabilità - Elementi probatori - Dichiarazioni.
La verifica del superamento della soglia della normale tollerabilità non deve essere necessariamente effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, occorrendo, ciò nondimeno accertare la diffusa capacità offensiva del rumore in relazione al caso concreto.
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INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa - Esercizio di un "mestiere rumoroso" - Disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone - Piano di zonizzazione acustica - Calcolo dei cd. limiti differenziali - Contenuto del documento unico attività produttive (DUAP) - Fattispecie - Giurisprudenza.
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, va classificata come esercizio di un "mestiere rumoroso", in quanto l'uso di tali strumenti è strettamente connesso e necessario all'esercizio dell'attività autorizzata, con la conseguenza che il superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti massimi o differenziali di emissione del rumore integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, l. 26.10.1995, n. 447 (Sez. 3, n. 34920 del 11/06/2015 - dep. 18/08/2015, Masselli).
Nella fattispecie, tuttavia, non risulta che il bar fosse stato autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, di talché l'attività svolta da detto bar non è classificabile come esercizio di un "mestiere rumoroso", con conseguente applicazione della fattispecie di cui al comma 1 dell'art. 659 cod. pen..
Difatti nel DUAP, nell'ambito delle attività di somministrazione di alimenti e di bevande del locale, non era stata indicata anche l'emissione sonora effettuata tramite strumentazione meccanica e casse acustiche con la prescritta predisposizione della documentazione di impatto acustico.

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INQUINAMENTO ACUSTICO - Bene tutelato dall'art. 659 cod. pen. - Nozione di quiete pubblica - Configurabilità del reato - Diffusività dell'evento di disturbo.
Il bene tutelato dall'art. 659 cod. pen. è rappresentato dalla quiete pubblica, la quale implica di per sé l'assenza di disturbo per la pluralità dei consociati, per la sussistenza del reato è necessario che i rumori abbiano una tale diffusività che l'evento di disturbo sia idoneo ad essere risentito dalla collettività, in tale accezione ricomprendendosi ovviamente il novero dei soggetti che si trovino nell'ambiente o, comunque, in zone limitrofe alla provenienza della fonte sonora, atteso che la valutazione circa l'entità del fenomeno rumoroso va fatta in relazione alla sensibilità media del gruppo sociale in cui il fenomeno stesso si verifica.
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INQUINAMENTO ACUSTICO - Società in accomandita semplice - Responsabilità ex art. 659 cod. pen. - Individuazione.
Nelle società in accomandita semplice, per il reato di cui all'art. 659 cod. pen., la responsabilità della società spetta al socio accomandatario al quale è stata conferita l'amministrazione della società e, quindi, la rappresentanza nei rapporti con i terzi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19230 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Superamento della normale tollerabilità: non è sempre necessaria una perizia.
In tema di inquinamento acustico, la verifica del superamento della soglia della normale tollerabilità non deve essere necessariamente effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, occorrendo, ciò nondimeno, accertare la diffusa capacità offensiva del rumore in relazione al caso concreto (massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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3. Il secondo e il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente stante la stretta correlazione logica e giuridica delle questioni dedotte, sono infondati.
3.1. Invero, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, va classificata come esercizio di un "mestiere rumoroso", in quanto l'uso di tali strumenti è strettamente connesso e necessario all'esercizio dell'attività autorizzata, con la conseguenza che il superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti massimi o differenziali di emissione del rumore integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, l. 26.10.1995, n. 447 (così, da ultimo, Sez. 3, n. 34920 del 11/06/2015 - dep. 18/08/2015, Masselli, Rv. 264739).
Nel caso in esame, tuttavia, non risulta che il bar fosse stato autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, di talché l'attività svolta da detto bar non è classificabile come esercizio di un "mestiere rumoroso", con conseguente applicazione della fattispecie di cui al comma 1 dell'art. 659 cod. pen.; e difatti il Tribunale ha correttamente osservato che nel DUAP, nell'ambito delle attività di somministrazione di alimenti e di bevande del locale, non era stata indicata anche l'emissione sonora effettuata tramite strumentazione meccanica e casse acustiche con la prescritta predisposizione della documentazione di impatto acustico.
3.2. A tal proposito, non rileva nemmeno l'invocata disciplina regionale di cui agli artt. 22, 23 e 28 l.r. Sardegna n. 5 del 2006; invero, è dirimente osservare che l'art. 28, al comma 3, stabilisce espressamente quanto segue: "resta inteso che l'esercizio delle attività del comma 2" -che contempla, ai fini che qui rilevano, l'effettuazione di piccoli trattenimenti musicali senza ballo"-, "deve necessariamente avvenire nel rispetto di tutte le disposizioni vigenti, in quanto applicabili, ed in particolare di quelle in materia (...) di inquinamento acustico".
Stante il chiaro dettato letterale della norma, è perciò evidente che i "piccoli trattenimenti musicali" non possono derogare alla disciplina dettata dal comma 1 dell'art. 659 cod. pen.
4. Il quarto motivo è infondato.
Invero, poiché il bene tutelato dalla fattispecie in esame è rappresentato dalla quiete pubblica, la quale implica di per sé l'assenza di disturbo per la pluralità dei consociati, per la sussistenza del reato è necessario che i rumori abbiano una tale diffusività che l'evento di disturbo sia idoneo ad essere risentito dalla collettività, in tale accezione ricomprendendosi ovviamente il novero dei soggetti che si trovino nell'ambiente o, comunque, in zone limitrofe alla provenienza della fonte sonora, atteso che la valutazione circa l'entità del fenomeno rumoroso va fatta in relazione alla sensibilità media del gruppo sociale in cui il fenomeno stesso si verifica.
Il Tribunale ha, perciò, ritenuto la sussistenza del reato, desumendolo dalla diffusività del rumore, ben percepibile al di fuori dell'edificio da cui proveniva, anche in pieno orario notturno, arrecando così disturbo al riposo di un numero indeterminato di persone: non solo le due persone offese che abitano nell'appartamento sopra il bar (che, proprio per la contiguità tra i due edifici, erano maggiormente esposte all'inquinamento acustico in orario notturno), ma anche chi abita nelle vicinanze, essendo l'esercizio pubblico ubicato non in un luogo isolato, ma in una zona centrale della città, come emerge dalla sentenza impugnata (p. 4) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19230).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Ampliamento di un fabbricato - Concetto urbanistico di pertinenza - Giurisprudenza - Manufatto distinto e separato da quello principale - Asservimento - Fattispecie: costruzione di un nuovo vano in adiacenza alla preesistente abitazione - Permesso di costruire - Art. 3, 10, 36, 44, 45, 71 e ss. 83, 93, 95, d.P.R. 380/2001 (T.U.E.).
In materia di reati edilizi, l'ampliamento di un fabbricato preesistente non può considerarsi pertinenza, ma parte integrante dell'edificio e privo di autonomia rispetto ad esso, perché, una volta realizzato, ne completa la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato (Sez. 3, n. 4139/2018).
La pertinenza, richiede che si tratti di un manufatto distinto e separato da quello principale a cui è asservito, essendovi in caso contrario ampliamento dell'edificio che, laddove avvenga «all'esterno della sagoma esistente» è da considerarsi intervento di nuova costruzione ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1), T.U.E., assoggettato a permesso di costruire ai sensi del successivo art. 10, comma 1, lett. a). Per questo la giurisprudenza ha sempre ritenuto necessario detto provvedimento (o la previgente concessione edilizia) nel caso, ad es., di trasformazione di balconi in verande (Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 2014, Summa), di tettoie realizzate sul lastrico solare (Sez. 3, n. 21351/2010, Savino), di porticato addossato ad un fabbricato (Sez. 3, n. 33657/2006, Rossi).
Nella specie, l'ampliamento dell'edificio residenziale in questione con costruzione di un nuovo vano in adiacenza alla preesistente abitazione -vano che al momento del sopralluogo era destinato a cucina- esclude la possibilità di invocare il concetto urbanistico di pertinenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni in zona sismica - Natura precaria o permanente dell'intervento e materiali utilizzati - Sicurezza e pubblica incolumità - Controllo preventivo da parte della P.A. - Necessità - Artt. 83 e 95 d.P.R. n. 380/2001 - Disciplina sismica - Applicazione a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica.
Le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento (Sez. 3, n. 9126/2017, Aliberti).
La sentenza impugnata, poi, richiama il corretto principio secondo cui il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è configurabile anche in caso di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo, del citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime (Sez. 3, n. 30651 del 20/12/2016, dep. 2017, Rubini e a., Rv. 270233; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Morini, Rv. 250369).

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Reati edilizi in zona sismica - Depositato allo sportello unico "in sanatoria" degli elaborati progettuali - Effetti - Contravvenzione antisismica - Comunicazione richiesta dall'art. 93 T.U.E.
Il deposito allo sportello unico "in sanatoria" degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica, che punisce l'omesso deposito preventivo di detti elaborati in quanto l'effetto estintivo è limitato dall'art. 45 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 alle sole contravvenzioni urbanistiche (Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Braccolino e aa., Rv. 246462; il principio è stato di recente ritenuto estensibile anche ai reati previsti dagli artt. 71 ss. d.P.R. 380 del 2001 per la violazione della disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica: Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018, Cardella) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Zona paesaggisticamente vincolata - Interventi che incidono sull'aspetto esteriore degli edifici - Natura di reato di pericolo - Effettivo pregiudizio per l'ambiente - Esclusione Art. 181 d.lgs. 42/2004.
Il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato (Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon e a.), tali certamente essendo gli interventi che incidano sull'aspetto esteriore degli edifici (Sez. 3, del 21/06/2011, Fanciulli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAlla plenaria la questione se la società incorporante possa essere considerata responsabile del danno ambientale causato dalla incorporata.
La IV Sez. del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la questione giuridica della possibilità di considerare la società incorporante responsabile del danno ambientale causato dalla società incorporata.
Alla plenaria la questione se la società incorporante possa essere considerata responsabile del danno ambientale causato dalla incorporata.
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Danno ambientale – Responsabilità – Società – Fusione per incorporazione – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se una società incorporante, nel regime anteriore alla modifica del diritto societario, possa essere considerata responsabile dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata ai sensi dell’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 (e, in seguito, degli artt. 242 ss. d.lgs. n. 152 del 2006) (1).
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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la IV Sez. del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza plenaria la questione della possibilità di considerare responsabile l’incorporante per l’inquinamento ambientale posto in essere dall’incorporata ai sensi dell’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997, come poi sostituito, in sostanziale continuità normativa, dagli artt. 242 ss. d.lgs. n. 152 del 2006.
   II. – L’originaria ricorrente aveva impugnato una determinazione dirigenziale del 2015 mediante la quale la stessa era stata diffidata a procedere alla bonifica delle aree contaminate da cromo esavalente e da solventi clorurati. Il Tar per il Piemonte aveva, in primo grado, respinto il ricorso. Il Consiglio di Stato respingeva, con sentenza non definitiva, tutte le censure dell’appellante ad eccezione di una in relazione alla quale, con l’ordinanza in commento, ne riteneva necessaria la devoluzione all’Adunanza plenaria.
In particolare, l’appellante rappresentava di non aver mai gestito direttamente l’impianto in questione, di non esserne mai stata proprietaria e che la contaminazione era imputabile ad altre società che avevano gestito l’impianto.
La società che aveva gestito il citato sito fino al 1986 si sarebbe poi estinta nel luglio del 1991, al momento dell’incorporazione nella società appellante.
L’appellante ritiene, quindi, che: il d.lgs. n. 22 del 1997 (cd. decreto Ronchi), il cui art. 17 avrebbe per la prima volta introdotto nell’ordinamento l’obbligo di procedere a bonifica in capo al soggetto responsabile di eventi di contaminazione, non potrebbe essere applicato ad episodi di inquinamento verificatisi anteriormente alla propria vigenza; l’ordine di bonifica non potrebbe essere a lei diretto in quanto non avrebbe mai direttamente posto in essere alcuna condotta inquinante; la società incorporata dall’appellante non avrebbe trasferito alcuna situazione soggettiva di obbligo di fare sia perché la condotta di contaminazione non avrebbe avuto alcun disvalore giuridico al momento in cui è stata commessa, sia perché la legislazione vigente ratione temporis non avrebbe conosciuto l’istituto.
Il collegio ha, quindi, osservato che:
      a) secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa:
         a1) le disposizioni vigenti anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 22 del 1997 contemplano divieti o doveri, ma non contengono specifici obblighi di fare del genere di quelli prescritti dall’art. 17 del decreto Ronchi, che introduce una misura ablatoria personale, la cui adozione crea in capo al destinatario un obbligo di attivazione, consistente nel porre in essere determinati atti e comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale dei siti inquinanti;
         a2) l’art. 17 del decreto Ronchi non ha carattere meramente procedimentale, in quanto la disposizione non è destinata a regolare l’attuazione in via amministrativa, al momento della scoperta dell’inquinamento, dell’obbligo di risarcimento di cui all’art. 2058 c.c., ma ha carattere pienamente sostanziale e non è riconducibile a mera species del genus della responsabilità aquiliana;
         a3) in base alla teoria della “continuità normativa”, infatti, ogniqualvolta al formale succedersi di previsioni legislative non corrisponda un’effettiva eliminazione né una radicale modifica della normativa cronologicamente anteriore, i precetti in questa contenuti, malgrado la legge sopravvenuta e l’immutazione del veicolo normativo, continuano a sopravvivere nell’ordinamento giuridico, anche se trasfusi in altri contenenti legislativi.
In particolare, si ha continuità normativa tra due prescrizioni normative se la disposizione temporalmente posteriore è diretta alla tutela di beni giuridici identici rispetto alla precedente;
         a4) nel caso di specie, l’applicazione della teoria in esame consente di riconoscere come esistenti nel patrimonio del dante causa, effetti giuridici precisati da leggi successive da reputarsi in continuità normativa con le prescrizioni vigenti prima dell’estinzione del dante causa;
         a5) secondo questa ricostruzione, tuttavia, l’art. 2043 c.c. e le altre ipotesi di responsabilità speciale previste nel Codice civile non possono ritenersi in continuità normativa con l’art. 17 in quanto: a differenza dell’art. 2043 c.c., l’art. 17 postula sempre l’intermediazione di un procedimento e di un provvedimento amministrativo; gli artt. 2043 ss. c.c. determinano la costituzione di un’obbligazione risarcitoria pecuniaria, salvo che sia accolta una richiesta di risarcimento in forma specifica, mentre l’art. 17 è costitutivo di un primario obbligo di fare del responsabile dell’inquinamento e di un sussidiario ed eventuale obbligo di intervento pubblicistico del Comune e, in via di ulteriore subordine, di un obbligo di intervento della Regione; l’art. 2043 c.c. richiede la prova del danno ambientale, mentre per l’art. 17 è sufficiente il mero pericolo di inquinamento o, nel caso di contaminazione, il superamento dei limiti di accettabilità stabiliti dal d.m. n. 471 del 1999; diverso è il criterio di imputazione soggettiva della responsabilità, che nel decreto Ronchi è sempre oggettivo; diversi sono i legittimati passivi (nel 2043 c.c. il danneggiante e i suoi successori a titolo universale, mentre nell’art. 17 l’autore diretto dell’inquinamento, in disparte il parallelo onere di attivazione del proprietario del terreno inquinato ove questi intenda scongiurare il pregiudizio al regime giuridico del bene immobile conseguente all’adozione di ordinanze di bonifica); solo l’art. 17 determina all’adozione delle ordinanze la costituzione di un onere reale sul fondo e la previsione di cause di prelazione, sotto forma di un privilegio speciale immobiliare e di un privilegio generale mobiliare, del credito per le spese di bonifica e di messa in sicurezza; l’art. 2043 c.c. si pone in rapporto di specialità con l’art. 18 della l. n. 349 del 1986, mentre le misure di cui all’art. 17 concorrono con il danno ambientale; di regola le controversie relative alle due fattispecie sono sottoposte a differenti giurisdizioni;
         a6) da tali differenze, la giurisprudenza ha tratto il principio secondo cui “un’eventuale applicazione dell'art. 17 ad un soggetto estinto prima del 1997 trasmoderebbe in una non consentita applicazione retroattiva della legge", giacché "nell'ipotesi in esame non è ravvisabile una remota partecipazione causale del successore a titolo universale all'eziogenesi dell'evento”. Non sarebbe nemmeno praticabile l’opzione ermeneutica della trasmissione iure successionis dell’obbligo di provvedere, ostandovi la discontinuità normativa che separa l’art. 17 dalle norme codicistiche in tema di responsabilità extracontrattuale;
      b) pur condividendosi le argomentazioni della giurisprudenza in ordine alle differenze ontologiche fra l’art. 17 del decreto Ronchi e gli artt. 2043 ss. c.c., tuttavia, può dubitarsi del fatto che una società che abbia incorporato un'altra società (direttamente o tramite incorporazioni intermedie) nel regime anteriore alla modifica del diritto societario non possa essere considerata essa stessa, ai sensi e per gli effetti dell'applicazione dell'art. 17 del decreto Ronchi (e, in seguito, degli artt. 242 e ss. del d.lgs. n. 152 del 2006), soggetto direttamente responsabile dell’inquinamento;
         b1) la fusione è disciplinata nelle sue conseguenze dall’art. 2504-bis ss. c.c., ai sensi del quale, nella formulazione in vigore a decorrere dal 2005, la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione;
         b2) per le fusioni antecedenti all’introduzione della citata disposizione, la giurisprudenza riteneva che la fusione per incorporazione determinasse l’estinzione della società incorporata e il trasferimento dei relativi diritti e obblighi in capo all’incorporante, in esito a una vicenda assimilabile a una successione in universum jus;
         b3) nel vigore dell’attuale testo la giurisprudenza qualifica la fusione come una vicenda evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico che, pur in presenza di un nuovo assetto organizzativo, conserva la propria identità. Tale ricostruzione del fenomeno non sarebbe applicabile alle fusioni anteriori all’entrata in vigore della nuova disciplina che avrebbe carattere innovativo e non interpretativo;
         b4) in termini generali la commissione di una condotta contra jus cristallizza, in capo all’autore, una correlativa responsabilità giuridica. Nel caso di specie, quindi, la responsabilità per la compromissione ambientale è divenuta parte del complessivo patrimonio giuridico della società che ha causato la contaminazione. “Ciò posto, il Collegio si interroga se tale responsabilità giuridica per condotte già allora pienamente contra jus, quale componente giuridicamente qualificata del complessivo patrimonio della società incorporata, ovvero in diversa prospettiva quale effetto giuridico già interamente prodottosi, non possa essere anch'essa traslata nel patrimonio della società incorporante, in virtù della portata generale del fenomeno della successione a titolo universale”;
         b5) l’art. 17 del decreto Ronchi non ha natura penalistica né afflittiva, ma mira a ripristinare il bene ambiente leso, mediante l’imposizione autoritativa e unilaterale da parte dell’amministrazione di un obbligo di facere in capo al responsabile al fine di ovviare a un danno ancora attuale;
         b6) l’art. 17: si affianca alle ordinarie forme di tutela civile, artt. 2043, 2050 e 2058 c.c., previste in favore dei privati lesi dalla condotta di inquinamento; plasma un istituto a tutela dell’interesse pubblico alla preservazione del bene ambiente, attribuendo agli enti esponenziali della collettività locale la potestà di ordinare al responsabile l’adozione di condotte tese alla bonifica dell’area.  L’ordinamento ha quindi creato, per tutelare il bene ambiente, uno strumento pubblicistico teso a consentire il recupero materiale del valore ambiente a cura e spese del responsabile della contaminazione. La misura, pur differenziandosi dall’art. 2058 c.c., sembra svolgere una funzione ripristinatoria-reintegratoria che ne impedisce l’ascrizione all’ambito del diritto punitivo, che non è finalizzato a recuperare il bene leso, ma a depauperare la sfera giuridica del soggetto autore di una condotta contra jus;
      c) in conclusione:
         c1) l’istituto disciplinato dall’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 può trovare applicazione anche a fenomeni di inquinamento verificatisi prima della sua entrata in vigore, alla sola condizione che l’evento compromissione dell’ambiente sia ancora attuale;
         c2) il carattere universale della successione in universum jus potrebbe determinare la responsabilità dell’incorporante se si muovesse dalla considerazione che, al momento dell’incorporazione, nel patrimonio della incorporata era già presente la responsabilità per la commissione di un atto già allora oggettivamente contra jus;
         c3) “l'antecedente condotta di inquinamento posta in essere dall'incorporata, in quanto già allora anti-giuridica, ha generato in capo ad essa, secondo il criterio norma-fatto-effetto, una responsabilità che, a seguito dell'incorporazione, non potendo andare dispersa (il principio della conservazione dei valori giuridici è immanente nell'ordinamento - cfr. art. 1367 c.c.), non può che essere confluita, come posta passiva, nel patrimonio dell'incorporante. In tale ottica, peraltro, non si ravviserebbe alcuna applicazione retroattiva dell'art. 17, posto che una conclusione siffatta si limiterebbe a riconnettere ad un danno ancora attuale le conseguenze che il vigente diritto contempla: di tale conseguenze non potrebbe che rispondere la società succeduta a titolo universale al soggetto che ebbe a causare quel danno”.
   III. – Per completezza si segnala quanto segue:
      d) con sentenza non definitiva 07.05.2019, n. 2926, la medesima sezione ha respinto le altre censure formulate dall’appellante, precisandosi nell’ordinanza in rassegna che l’eventuale adesione dell’Adunanza plenaria alla tesi della responsabilità della società incorporante condurrebbe al definitivo rigetto dell’appello, mentre l’adesione alla tesi contraria comporterebbe l’accoglimento del ricorso in appello e l’annullamento del provvedimento impugnato in primo grado;
      e) nel senso della mancanza di responsabilità della incorporante per fatti attribuibili all’incorporata si veda Cons. Stato, sez. V, 05.12.2008, n. 6055 nitidamente analizzata nella sentenza in rassegna (in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2009, 279, con nota di ROMANELLI; Riv. giur. ambiente, 2009, 365, con nota di DE CESARIS), secondo cui, tra l’altro:
- “L'art. 17 d.leg. n. 22/1997 presenta, rispetto al plesso normativo composto dagli art. 2043, 2050 e 2058, differenze talmente numerose e tanto profonde da non consentire la formulazione di alcun giudizio di continuità tra le stesse; ne discende che l'applicazione dell'art. 17 ad un soggetto estinto prima del 1997 si risolve in una non consentita applicazione retroattiva della legge”;
- “La peculiarità dell'istituto disciplinato dall'art. 17, che non trova antecedenti diretti nella previgente disciplina, risiede nella sua natura di misura ablatoria personale, consentita in apicibus dall'art. 23 cost., la cui adozione crea in capo al destinatario un obbligo di attivazione, consistente nel porre in essere determinati atti e comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale dei siti inquinati”;
- “Nei confronti dei successori di società responsabili degli inquinamenti, estintesi prima del 1997, non è possibile applicare l'art. 17 d.leg. n. 22/1997; è però possibile far valere l'ordinaria responsabilità civilistica di tipo aquiliano e, sul versante amministrativo, rimangono comunque adottabili, in base alle regole della c.d. «successione economica», i provvedimenti contingibili e urgenti, ove ne ricorrano i presupposti stabiliti dall'ordinamento”;
- “In sede amministrativa il contraddittorio procedimentale sugli accertamenti tecnici può svolgersi secondo regole diverse da quelle di cui all'art. 223 disp. att. c.p.p. e la regola del preventivo avviso, pur configurandosi come una forte tutela, non è sempre imposta dall'ordinamento né deve essere necessariamente osservata, potendo ugualmente assicurarsi una piena dialettica tra l'amministrazione e gli interessati seguendo altri schemi procedurali, come quelli previsti nell'all. 2 d.m. ambiente 25.10.1999 n. 471 sul prelievo e l'analisi dei campioni”;
      f) per un’applicazione della successione fra imprese in materia di concorrenza si veda Corte di giustizia CE, 11.12.2007, C-280/06, Autorità garante concorrenza e mercato c. Ente tabacchi it. (in Foro amm.-Cons. Stato, 2007, 3305, in Giurisdiz. amm., 2007, III, 1228, in Giust. civ., 2008, I, 549, in Guida al dir., 2008, fasc. 1, 92, con nota di DE PASQUALE, e in Rass. avv. Stato, 2008, fasc. 1, 114, con nota di CHIECO), secondo cui, tra l’altro: “Qualora una condotta costitutiva di una stessa infrazione alle regole della concorrenza (art. 81 seg. Ce) sia stata posta in essere da una determinata impresa e successivamente proseguita da un altro ente che ad essa è succeduto, tale secondo ente può essere sanzionato per l'infrazione nella sua interezza, qualora si dimostri che entrambi gli enti sono posti sotto la tutela della stessa autorità pubblica; ciò vale anche nel caso in cui il primo ente non abbia cessato di esistere”;
      g) nel senso che la normativa introdotta dall’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 si applichi a qualunque situazione di inquinamento dei suoli in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo stesso è orientato, Cons. Stato, sez. VI, 09.10.2007, n. 5283 (in Ambiente, 2008, 749, con nota di RINALDI);
      h) con riferimento al rapporto tra incorporante e incorporata nella giurisprudenza di legittimità, si vedano:
         h1) per le fusioni anteriori all’introduzione nel Codice civile dell’art. 2504-bis c.c.:
- Cass. civ., sez. un., 28.12.2007, n. 27183 (in Foro it., 2008, I, 2920, con nota di DESIATO; Corriere giur., 2008, 1413, con nota di GODIO), secondo cui, tra l’altro:
   - “La fusione di società mediante incorporazione, avvenuta prima della riforma del diritto societario di cui al d.leg. 6/2003 e dell'introduzione dell'art. 2504-bis c.c., realizza una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale e produce gli effetti, tra loro indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e  passivi facenti capo a questa, della società incorporante, la quale assume la medesima posizione processuale della società estinta, con tutte le limitazioni e i divieti ad essa inerenti; ne consegue che la stessa non può proporre domande nuove per l'attribuzione di diritti autonomi e indipendenti dal diritto successorio, mentre può far valere i diritti azionati dal dante causa, anche prima della successione, ma acquisibili soltanto nel corso del tempo (quali il risarcimento dei danni derivanti da illecito permanente iniziato prima della fusione, i cui effetti dannosi si siano però protratti anche successivamente)”,
   - “La fusione di società mediante incorporazione avvenuta prima della riforma del diritto societario di cui al d.leg. n. 6 del 2003 ed all'introduzione dell'art. 2504-bis c.c., realizza una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale e produce gli effetti, tra loro indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo a questa, della società incorporante, per cui quest'ultima, al pari di qualsiasi successore universale, assume la stessa posizione processuale dell'attore, con tutte le limitazioni ed i divieti ad essa inerenti; ne consegue che la stessa non può proporre domande nuove per l'attribuzione di diritti autonomi ed indipendenti dal diritto successorio, mentre le si debbono riconoscere i diritti fatti valere dal dante causa, anche quelli azionati prima della successione, ma acquisibili solo nel corso del tempo; spetta quindi alla società incorporante il risarcimento dei danni derivanti da illecito permanente (nella specie illecita captazione di acque pubbliche), iniziato prima della fusione i cui effetti dannosi si siano però protratti anche successivamente”;
- Cass. civ., sez. I, 16.02.2007, n. 3695 (in Giust. civ., 2008, I, 2261), secondo cui “La fusione per incorporazione di società realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati, mentre non si verifica alcun mutamento nella titolarità dei preesistenti rapporti giuridici della incorporante, anche se successivamente alla fusione essa abbia mutato la propria denominazione (ciò costituendo mera modifica dell'atto costitutivo, che non determina l'estinzione dell'ente e la nascita di un nuovo e diverso soggetto giuridico); ne consegue la persistente validità della procura generale ad lites rilasciata dalla società incorporante a un determinato avvocato e l'ammissibilità dell'appello da lui proposto, in forza di quella procura, in nome della società incorporante (sia pure con la nuova denominazione) già presente nel giudizio di primo grado”;
- Cass. civ., sez. I, 22.06.1999, n. 6298 (in Foro it., 2000, I, 379), secondo cui “La fusione della società mediante incorporazione determina automaticamente l'estinzione della società assoggettata a fusione ed il subingresso della società incorporante nei rapporti ad essa relativi, crea una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale mortis causa, che, agli effetti processuali, trova la propria disciplina nell'art. 300 c.p.c., e provoca l'interruzione del processo ove il procuratore della società incorporata abbia fatto la prescritta comunicazione dell'evento realizzatosi nel corso del giudizio, dalla quale decorre il termine semestrale per la riassunzione del processo; tale principio deve ritenersi tuttora in vigore pur a seguito delle sentenze della corte costituzionale n. 139 del 1967 e 159 del 1971, concernenti, come ribadito dalla stessa corte con le successive pronunce n. 136 del 1992 e n. 18 del 1999, esclusivamente le ipotesi di morte, radiazione o sospensione dall'albo del procuratore (sent. n. 139 del 1967), e di morte della parte, ovvero di perdita di capacità della stessa verificatasi prima della costituzione in giudizio (sent. n. 159 del 1971), le ipotesi, cioè, in cui l'interruzione del processo interviene automaticamente all'atto della realizzazione dell'evento impeditivo e non, invece, le ipotesi di morte, o perdita della capacità di una delle parti verificatasi dopo che quest'ultima si sia costituita in giudizio, in cui l'interruzione non è automatica, ma interviene solo se il procuratore abbia comunicato l'evento, senza che un siffatto sistema differenziato si ponga in contrasto con gli art. 3 e 24 cost.”;
         h2) per le fusioni successive all’entrate in vigore dell’art. 2504-bis c.c., da intendersi come disposizione che ha dato ingresso ad una vicenda evolutivo-modificativa dello stesso rapporto giuridico, si veda: Cass. civ., sez. VI, 16.05.2017, n. 12119, secondo cui “In tema di fusione per incorporazione, l'art. 2504-bis c.c., nel testo modificato dal d.leg. n. 6 del 2003, nel prevedere la prosecuzione dei rapporti giuridici, anche processuali, in capo al soggetto unificato quale centro unitario di imputazione di tutti i rapporti preesistenti, risolve la fusione in una vicenda evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che, pur in presenza di un nuovo assetto organizzativo, conserva la propria identità (nella specie, la suprema corte ha cassato la sentenza della commissione tributaria regionale, che aveva accolto il ricorso avverso il diniego di rateizzazione avanzato da una società incorporante un'altra società, già in precedenza decaduta dal detto beneficio)”;
         h3) nel senso che l’art. 2504-bis c.c. abbia carattere innovativo e non interpretativo Cass. civ., sez. I, 26.01.2016, n. 1376 (in Corriere giur., 2017, 1363, con nota di FANCIARESI), secondo cui, tra l’altro, “In tema di fusione, l'art. 2504-bis c.c., introdotto dalla riforma del diritto societario (d.leg. n. 6 del 2003), ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni (per unione od incorporazione) anteriori all'entrata in vigore della nuova disciplina (01.01.2004), le quali, pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano, tuttavia, dalla successione mortis causa perché la modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, sicché quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, né alcun pregiudizio subisce la incorporante (o la società risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole, neppure applicandosi, a dette fusioni, la disciplina dell'interruzione di cui agli art. 299 e seg. c.p.c.”;
         h4) sulle conseguenze processuali si vedano anche:
- Cass. civ., sez. un., 17.09.2010, n. 19698 (in Corriere giur., 2010, 1565, con nota di MELONCELLI, in Foro it., 2011, I, 472, con nota di DALFINO, in Mondo bancario, 2011, fasc. 1, 53), secondo cui “L'art. 2504-bis c.c., nel testo introdotto dall'art. 6 d.leg. 17.01.2003 n. 6, secondo cui la fusione di società non determina l'estinzione della società fusa, non è una norma di interpretazione autentica e non ha, quindi, efficacia retroattiva” e “nella modificazione dell’organizzazione societaria, invece, il fenomeno è riconducibile alla volontà del soggetto e pertanto non sussiste l’esigenza garantistica che giustifica il verificarsi dell’effetto interruttivo e del conseguente onere di riassunzione dell’altra parte. La società che ‘viene meno’ a seguito della volontaria fusione non è pregiudicata dalla continuazione di un processo di cui era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la società incorporante o risultante dalla fusione, la quale può intervenire nel processo e, comunque, ha il potere di impugnare la decisione sfavorevole”;
- Cass. civ., sez. un., 14.09.2010, n. 19509 (in Guida al dir., 2010, fasc. 40, 46, con nota di PIRRUCCIO; Foro it., 2011, I, 472, con nota di DALFINO; Giur. it., 2011, 1073 (m), con nota di BERTOLOTTI, e in Giur. comm., 2011, II, 888, con nota di ZORZI), secondo cui:
   - “L'impugnazione notificata presso il procuratore costituito di una società che, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica), si sia estinta per incorporazione, deve ritenersi valida se l'impugnante non abbia avuto notizia dell'evento modificatore della capacità della persona giuridica, mediante notificazione di esso (fattispecie anteriore alla modifica dell'art. 2504-bis c.c. ad opera del d.leg. 17.01.2003 n. 6)”;
   - “In tema di fusione per incorporazione, realizzata prima dell'entrata in vigore del novellato art. 2504-bis c.c., l'impugnazione è validamente notificata al procuratore costituito di una società che, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica) si sia estinta per incorporazione, se l'impugnante non abbia avuto notizia dell'evento modificatore della capacità della giuridica mediante la notificazione di esso”;
   - “Ai fini dell'applicazione della disciplina processuale della notificazione degli atti e dell'interruzione ex art. 300 c.p.c., la modificazione dell'organizzazione societaria costituisce fenomeno riconducibile alla volontà del soggetto e pertanto non sussiste l'esigenza garantistica che giustifica il verificarsi dell'effetto interruttivo e del conseguente onere di riassunzione dell'altra parte; la società che «viene meno» a seguito della volontaria fusione non è pregiudicata dalla continuazione di un processo di cui era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la società incorporante o risultante dalla fusione, la quale può intervenire nel processo e, comunque, ha il potere di impugnare la decisione sfavorevole”;  
         h5) sottolinea DALFINO, nota a Cass. civ., sez. un., 17.09.2010, n. 19698 (cit.), che la tesi della natura innovativa della modifica dell’art. 2504-bis, 1° comma, c.c. non è condivisibile, “infatti, già nella vigenza dell’art. 2504-bis c.c. testo previgente, appariva ragionevole sostenere l’inidoneità estintiva della fusione societaria e la sua configurabilità, piuttosto, quale operazione modificativo-evolutiva volta al potenziamento dei soggetti coinvolti. A tal proposito, non sembrava decisivo il riferimento letterale alle «società estinte», a fronte della reale portata del fenomeno sul piano sostanziale; sicché, oggi la norma —che utilizza la diversa formula «società partecipanti alla fusione», stabilendo che queste proseguono «in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione»— non fa che confermare quanto era già possibile dedurre prima del d.leg. 6/2003”.
Con particolare riferimento all’interruzione, osserva l’A., che, anche prima dell’introduzione dell’art. 2504-bis c.c., la fusione societaria costituiva un atto volontario, come tale non riconducibile alla ratio degli artt. 299 ss. c.p.c.;
      i) sulla disciplina europea della fusione di società per azioni ai fini della tutela dei soci e dei terzi, si veda Corte di giustizia UE, sez. V, 05.03.2015, C-343/13, Modelo Continente Hipermercados S A (in Foro it., 2015, IV, 191):
         i1) secondo la Corte “L'art. 19, par. 1, terza direttiva 78/855/Cee del consiglio, del 09.10.1978, basata sull'art. 54, par. 3, lett. g), del trattato e relativa alle fusioni delle società per azioni, come modificata dalla direttiva 2009/109/Ce del parlamento europeo e del consiglio del 16.09.2009, va interpretato nel senso che una «fusione mediante incorporazione», ai sensi dell'art. 3, par. 1, di detta direttiva, comporta la trasmissione, alla società incorporante, dell'obbligo di pagare l'ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa”;
         i2) la Corte aderisce ad un’interpretazione evolutiva dell’art. 19 della terza direttiva 78/855/Cee del consiglio del 09.10.1978, come successivamente modificata, il quale, se alla lett. a) prescrive che il trasferimento universale, tanto tra la società incorporata e la società incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell’intero patrimonio attivo e passivo della società incorporata alla società incorporante, alla successiva lett. c) stabilisce che la società incorporata si estingue. La Corte ritiene che l’estinzione si porrebbe in contraddizione con la natura stessa della fusione per incorporazione, la quale consiste nel trasferimento dell’intero patrimonio della società incorporata alla società incorporante tramite uno scioglimento senza liquidazione;
         i3) il principio espresso nella massima, pertanto, è diretto a garantire la tutela degli interessi dei soci e dei terzi all’atto della fusione per incorporazione, dovendosi annoverare fra i terzi anche coloro i quali siano destinati ad essere qualificati come creditori in data successiva rispetto alla fusione, ma in base a situazioni sorte in data antecedente;
         i4) il principio appare destinato a rimanere fermo anche a seguito dell’abrogazione della direttiva 78/855, a far data dal 01.07.2011, ad opera della direttiva 2011/35/Ue del parlamento europeo e del consiglio, del 05.04.2011, relativa alle fusioni delle società per azioni;
      j) sulle modificazioni soggettive delle società (anche ad esito di fallimento) responsabili di danni ambientali ovvero proprietarie di terreni e sul regime generale della responsabilità ambientale anche con riferimento alla successione ereditaria, si vedano:
         j1) Cons. Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672 (in Fallimento, 2018, 586, con nota di D'ORAZIO, in Foro amm., 2017, 1541, e in Riv. giur. ambiente, 2017, 726 (m), con note di VANETTI, FISCHETTI), secondo cui, tra l’altro:
- “La curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può avvantaggiarsi dell'esimente interna di cui al 3° comma dell'art. 192, d.leg. n. 152/2006 (codice dell'ambiente), lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata; nella qualità di detentore dei rifiuti la curatela fallimentare è obbligata a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero”;
- “In base al diritto comunitario (art. 14, par. 1, dir. 2008/98/Ce), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti, e questa regola costituisce un'applicazione del principio «chi inquina paga»; in definitiva, la detenzione dei rifiuti fa sorgere automaticamente un'obbligazione «comunitaria» avente un duplice contenuto: (a) il divieto di abbandonare i rifiuti; (b) l'obbligo di smaltire gli stessi; aggiungasi che, se per effetto di categorie giuridiche interne, questa obbligazione non fosse eseguibile, l'effetto utile delle norme comunitarie sarebbe vanificato; solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può invocare l'esimente interna dell'art. 192 3° comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152”;
         j2) per una complessiva ricostruzione del sistema, Cass. civ., sez. I, 20.07.2016, n. 14935 (in Foro it., 2017, I, 1406, e in Danno e resp., 2017, 203, con nota di TINTINELLI), secondo cui:
- “Proposta dal ministero dell'ambiente e da un'autorità portuale domanda di ammissione al passivo della procedura di amministrazione straordinaria di una società ritenuta responsabile dell'inquinamento di alcune aree, è erronea la decisione di non ammettere il credito avente a oggetto il rimborso delle spese già erogate dagli istanti per la messa in sicurezza e il ripristino dei siti contaminati, ove il giudice di merito si sia basato sull'assenza di prova del nesso di causalità tra le attività produttive dell'impresa e l'inquinamento riscontrato, non tenendo conto della relazione dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, né disponendo una consulenza tecnica d'ufficio”;
- “Ove una controversia volta al risarcimento del danno ambientale sia ancora pendente alla data di entrata in vigore della l. 06.08.2013 n. 97, mentre è ormai esclusa la risarcibilità per equivalente, il giudice può ancora conoscere della domanda, individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa ivi prescritte e, per il caso di loro omessa o incompleta esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti”;
- “La liquidazione del danno ambientale per equivalente è ormai esclusa alla data di entrata in vigore della l. n. 97 del 2013, ma il giudice può ancora conoscere della domanda pendente alla data di entrata in vigore della menzionata legge in applicazione del nuovo testo dell'art. 311 d.leg. n. 152 del 2006 (come modificato prima dall'art. 5-bis, 1º comma, lett. b), d.l. n. 135 del 2009 e poi dall'art. 25 l. n. 97 del 2013), individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati”.
Nel caso di specie, la società che gestiva un gruppo siderurgico era ritenuta tra i corresponsabili dell’inquinamento prodotto da acciaierie di Piombino e dalla ferriera di Servola a Trieste. La società veniva quindi ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria cui faceva seguito la dichiarazione dello stato di insolvenza.
In relazione alle problematiche ambientali, facevano valere in sede concorsuale alcune ragioni di credito sia il Ministero dell’ambiente, sia l’autorità portuale di Trieste. All’avvio della procedura di amministrazione straordinaria, come pure nel momento della richiesta di insinuazione al passivo, il testo che regola il risarcimento del danno ambientale, art. 311 d.leg. n. 152 del 2006, era quello risultante dalle modifiche apportate dall’art. 5-bis d.l. n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 166 del 2009.
Con tale intervento normativo era, in particolare, modificato il secondo comma della disposizione dove l’alternativa tra ripristino della precedente situazione e risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato veniva sostituita da un meccanismo più complesso. Si partiva, cioè, dall’addossare al responsabile l’obbligo di ripristinare a proprie spese lo status quo ante, per poi dichiararlo tenuto a adottare le misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva 2004/35/Ce; infine, soltanto quando gli anzidetti rimedi risultassero in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell’art. 2058 c.c. o comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, il danneggiante sarebbe stato obbligato in via sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale. In pendenza dell’esame della domanda di ammissione al passivo, l’art. 311 subiva un’ulteriore trasformazione, in virtù dell’art. 25 l. n. 97 del 2013.
Nella rubrica veniva eliminato il riferimento al risarcimento per equivalente patrimoniale; a sua volta, il secondo comma era totalmente riscritto, conferendo rilievo primario alle misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, quindi, attribuendo al ministero dell’ambiente, in caso di fallimento delle stesse, il compito di determinare i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e di agire nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.
Nel rendere esecutivo lo stato passivo, il giudicante disattendeva le istanze del ministero con riferimento al danno ambientale. La successiva opposizione ai sensi dell’art. 98 della legge fallimentare era respinta in quanto: non risultava dimostrato che il comportamento dell’impresa poi assoggettata ad amministrazione straordinaria spiegasse un’effettiva incidenza causale sul degrado dei siti; con riferimento ai costi degli interventi da effettuare in vista del ripristino delle aree, riconoscere i corrispondenti crediti avrebbe di fatto comportato un risarcimento per equivalente monetario, non più consentito dalla più recente versione dell’art. 311, ritenuta applicabile ai giudizi pendenti e non ancora definiti da sentenza passata in giudicato; l’autorità portuale era in ogni caso carente di legittimazione attiva rispetto al risarcimento del danno ambientale.
La Corte di Cassazione, contrariamente, affermava che: rispetto al nesso eziologico, l’indagine avrebbe dovuto fare i conti con quanto emergeva dalla relazione tecnica predisposta dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale e poteva essere, se del caso, arricchita mediante una consulenza tecnica d’ufficio; per quel che concerne la legittimazione attiva, l’art. 311 attribuisce in via esclusiva al ministero dell’ambiente la legittimazione a esperire l’azione risarcitoria in materia di danno all’ambiente, ma, nel caso di specie, si era formato il giudicato endofallimentare in ordine alla legittimazione dell’Autorità portuale di Trieste, dal momento che la stessa era stata ammessa al passivo dal giudice delegato, senza che la relativa statuizione fosse impugnata dal commissario straordinario.
La Corte invece concorda con il giudice di merito in ordine all’esclusione del risarcimento per equivalente pecuniario. I giudici della legittimità si riportano ai precedenti che hanno sancito l’applicabilità, ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della l. n. 97 del 2013, del novellato art. 311 d.leg. n. 152 del 2006; anche rispetto alle domande risarcitorie proposte in epoca anteriore, l’unica condanna pecuniaria del danneggiante potrà riguardare soltanto il costo, determinato dal giudice, delle misure di riparazione non eseguite;
         j3) Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765 (in Foro it., 2017, III, 513; Nuovo dir. amm., 2016, fasc. 4, 23, con nota di BUZZANCA; Riv. giur. ambiente, 2016, 303 (m), con nota di MASCHIETTO VANETTI), secondo cui: “È legittima l'ordinanza comunale contenente l'obbligo di rimozione dei rifiuti e di bonifica rivolto al proprietario del terreno nella sua qualità di erede del responsabile dell'inquinamento in quanto l'obbligo ripristinatorio, avendo natura patrimoniale, è trasmissibile agli eredi”; “Fermo che gli obblighi ripristinatori, avendo natura patrimoniale, sono trasmissibili agli eredi dell'originario destinatario dell'ordinanza sindacale ex art. 14 d.leg. 05.02.1997 n. 22, gli obblighi di bonifica ambientale sorgono in capo non soltanto al proprietario dell'area inquinata, e al locatore del medesimo, ma anche di chiunque si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli - e per ciò stesso imporgli - di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente (nella specie è stata riformata la sentenza di prime cure che escludeva la responsabilità degli eredi per essere stato accertato che anche questi né avevano impedito lo sversamento dei rifiuti sui propri suoli, né avevano provveduto alla rimozione degli stessi, omettendo di impedire che l'attività di devastazione delle aree oggetto dell'ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni)”;
         j4) con specifico riferimento alla bonifica di siti inquinati: Cons. Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509, secondo cui, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell’inquinamento, e cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità; ciò impone un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione, accertamento che presuppone un’adeguata istruttoria, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità; è stato d’altra parte puntualizzato che, se è vero, per un verso, che l’amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento —secondo il principio cui si ispira anche la normativa comunitaria, la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione—, per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di correzione dei danni e rientra pertanto nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l’individuazione dell’eventuale responsabile; Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2016, n. 1301 (in Riv. giur. ambiente, 2016, 298 (m), con nota di MASCHIETTO, e in Foro amm., 2016, 812), secondo cui l’art. 192 d.leg. 03.04.2006, n. 152, esige che il sindaco dia formale comunicazione di avvio del procedimento al soggetto destinatario di un’ordinanza di rimozione rifiuti (e bonifica) e consenta l’instaurazione del contraddittorio sugli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al controllo, l’ordinanza emessa in difetto delle predette garanzie procedimentali è illegittima; Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3544 (in Ragiusan, 2016, fasc. 385, 114), secondo cui il proprietario di un’area inquinata, non responsabile dell’inquinamento, non è tenuto agli oneri di bonifica per come imposti dalla pubblica amministrazione, non potendo determinarsi in capo alla società appellante la responsabilità dell’inquinamento del sito (risalente a molti decenni addietro e imputabile eziologicamente all’attività inquinante di altri soggetti giuridici), la stessa società non è tenuta ad eseguire la caratterizzazione dell’area, secondo le prescrizioni impostele dall’amministrazione all’esito della conferenza decisoria);
         j5) Cons. Stato, sez. II, 18.05.2015, n. 933 (in Foro amm., 2015, 1454);
         j6) Cons. Stato, Ad. plen., 13.11.2013, n. 25, e 25.09.2013, n. 21 (in Giurisdiz. amm., 2013, ant., 53, in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 2296, in Giornale dir. amm., 2014, 365 (m), con nota di SABATO, in Riv. giur. edilizia, 2013, I, 835, in Riv. amm., 2013, 715, e in Ragiusan, 2014, fasc. 361, 131), secondo cui “Si rimette all'esame della corte di giustizia Ue la questione pregiudiziale di corretta interpretazione relativa al se i principi dell'Ue in materia ambientale sanciti dall'art. 191 par. 2 Tfuee dalla dir. Ce 21.04.2004 n. 35 (art. 1 e 8 n. 3, tredicesimo e ventiquattresimo considerando) -in particolare, il principio «chi inquina paga», il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all'ambiente- ostino a una normativa nazionale, quale quella delineata dagli art. 244, 245 e 253 d.leg. 03.04.2006 n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest'ultimo gli interventi di riparazione, non consente all'autorità amministrativa di imporre l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell'inquinamento, prevedendo, a carico di quest'ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi di bonifica” (per la risposta della Corte di giustizia infra § k2);
         j7) Cons. Stato, sez. II, 20.05.2013, n. 263, che -richiesto dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, direzione generale per la tutela del territorio e delle risorse idriche, di esprimere il proprio parere sul ricorso straordinario al presidente della repubblica proposto per l’annullamento del provvedimento del comune di Bagnolo di Po di rigetto dell’istanza presentata per la revoca parziale e per l’annullamento dell’ordinanza comunale n. 13 del 05.10.2006 con cui è esteso alla ricorrente, in luogo del fratello defunto, l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi e di rimozione, recupero e smaltimento dei materiali depositati abusivamente in un’area del citato comune, circa la trasmissibilità dell’obbligazione- ha espresso l’avviso che «risulta evidente a questa sezione che, accettando l’eredità, la ricorrente è subentrata nel patrimonio del dante causa, gravato di una passività rappresentata dall’obbligazione di risanare l’area trasformata illecitamente in discarica di rifiuti»;
      k) nella giurisprudenza europea con riferimento alla responsabilità ambientale del successore si vedano:
         k1) Corte di giustizia UE, 13.07.2017, C-129/16, Túrkevei Tejtermelo Kft (in Foro it., 2017, IV, 496, in Urbanistica e appalti, 2017, 815, con nota di CARRERA; Riv. giur. ambiente, 2017, 489 (m), con nota di MASCHIETTO,; Riv. giur. edilizia, 2017, I, 1235 (m), con nota di PAGLIAROLI, nonché oggetto della News US in data 20.07.2017), secondo cui:
- “Le disposizioni della direttiva 2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli art. 191 e 193 Tfue devono essere interpretate nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l'inquinamento illecito, un'altra categoria di persone solidalmente responsabili di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che occorra accertare l'esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme ai principî generali di diritto dell'Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei trattati Ue e Fue e degli atti di diritto derivato dell'Unione”;
- “L'art. 16 direttiva 2004/35/Ce e l'art. 193 Tfue devono essere interpretati nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, ai sensi della quale non solo i proprietari di fondi sui quali è stato generato un inquinamento illecito rispondono in solido, con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno ambientale, ma nei loro confronti può anche essere inflitta un'ammenda dall'autorità nazionale competente, purché una normativa siffatta sia idonea a contribuire alla realizzazione dell'obiettivo di protezione rafforzata e le modalità di determinazione dell'ammenda non eccedano la misura necessaria per raggiungere tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare”;
         k2) Corte di giustizia UE, 04.03.2015, C-534/13, Min. ambiente c. Soc. Fipa Group (in Foro it., 2015, IV, 293; Urbanistica e appalti, 2015, 635, con nota di CARRERA, in Riv. giur. ambiente, 2015, 33 (m), con note di MASCHIETTO, POZZO, GAVAGNIN, in Rass. forense, 2015, 138, in Giur. it., 2015, 1480 (m), con note di VIPIANA PERPETUA, VIVANI, in Riv. quadrim. dir. ambiente, 2015, fasc. 1, 186, con nota di GRASSI, in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 137, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2015, 946, con nota di ANTONIOLI, in Nuovo notiziario giur., 2015, 615, con nota di CARDELLA, in Ragiusan, 2016, fasc. 381, 122), secondo cui: “La direttiva 2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi”.
La sentenza in esame ha escluso distonie tra la direttiva 2004/35/Ce e le disposizioni italiane secondo le quali, ove sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito od ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, l’autorità competente non può imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 07.05.2019 n. 2928 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Preavviso di rigetto nel procedimento di sanatoria.
L’istituto del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis legge n. 241/1990 si applica anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza di sanatoria che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto collaborativo.
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.. per l'annullamento:
   - della ordinanza n. 3 in data 14.02.2017, Prot. n. 625, notificata in data 16.02.2017, con la quale il Responsabile dell'Area Tecnica comunale ha ingiunto di provvedere alla demolizione del “… fabbricato adibito a garage di superficie pari a mq 48,90 utili in lato nord del confine stradale";
   - di ogni altro atto presupposto, preordinato, connesso e/o, comunque, consequenziale, ivi inclusi la comunicazione di avvio del procedimento n. Prot. 585 in data 23.02.2016, il verbale di sopralluogo in data 28.05.2016, nonché la nota in data 07.02.2017 con la quale il Responsabile dell'Area Tecnica, “… preso atto della difformità dell'opera realizzata rispetto alla comunicazione n. 1848 in data 21.07.2015 (formazione di pergolato in legno) ed in totale assenza del Permesso di costruire …”, ha comunicato la “…non procedibilità della soluzione proposta in quanto l'area su cui sorge il fabbricato oggetto di contestazione è inibita all'edificazione…”.
...
Risulta, innanzitutto, fondata la censura, di carattere formale, di violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, in relazione all’adozione della nota comunale del 02.07.2017.
Invero, l’istituto del preavviso di rigetto di cui al succitato art. 10-bis si applica anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza presentata dall’interessato che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto collaborativo (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2018, n. 2615; id., 01.03.2018, n. 1269; TAR Sardegna, sez. II, 20.09.2018, n. 797; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 08.09.2017, n. 2137).
La comunicazione comunale del 02.07.2017 è, dunque, illegittima, e va annullata, non essendo stata data la possibilità alla ricorrente di partecipare al procedimento al fine di fornire il proprio apporto collaborativo, esponendo le ragioni a sostegno della propria domanda (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 04.05.2019 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATAMancato uso del permesso di costruire, comune tenuto a restituire gli oneri di urbanizzazione.
Il privato che rinunci o non utilizzi più il permesso di costruire ha diritto a richiedere all’Amministrazione le somme versate a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, dovuti per l’ottenimento del permesso.
È quanto afferma il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la sentenza 02.05.2019 n. 426.
Il caso
Il Tribunale amministrativo per la Lombardia, sede distaccata di Brescia, Sezione II, ha deciso che, in caso di rinuncia o mancato utilizzo del permesso di costruire, «l’Amministrazione deve essere condannata, ai sensi dell’articolo 2033 cod. civ., alla restituzione delle somme indebitamente percepite a titolo di oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione, oltre interessi sino all’effettivo soddisfo, da calcolarsi, non essendo stata provata la sua malafede, a decorrere dal giorno della domanda e, quindi, dal giorno di notificazione dell’atto introduttivo».
La parte ricorrente, a seguito di un permesso di costruire, aveva corrisposto all’Amministrazione comunale il pagamento dovuto per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché per i costi di costruzione. Tuttavia, il privato, successivamente, non ha mai dato seguito al permesso di costruire, rinunciando all’esecuzione delle opere e non comunicando mai, per l’appunto, la data di inizio dei lavori. Pertanto, presentava quindi una richiesta di rimborso degli oneri di costruzione già pagati e riscossi dal Comune. A seguito di tale richiesta, dato che il Comune rimaneva inerte nonostante l’intervento di una diffida, il privato, con ricorso, ha investito il Tar Brescia della questione.
Il Giudice, dopo aver verificato la tempestività della domanda, in accordo col termine prescrizionale ordinario decennale, nell’accogliere il ricorso, ha ricordato un precedente analogo del Tar Lombardia, Milano, Sezione II, sentenza 07.01.2016, n. 12, secondo cui «il contributo concessorio è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio. Pertanto, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare. Ne consegue che, qualora il privato, rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, sorge in capo all’Amministrazione ex articolo 2033 c.c. l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione nonché, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione».
Diritto alla restituzione delle somme versate
La sentenza in commento si allinea a principi già affermati in giurisprudenza.
In particolare, appare utile richiamare una sentenza analoga del Tar Catania, 18.01.2013, n. 159, secondo cui, «Allorché il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla Pa, anche ex articolo 2033 o, comunque, 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione. Il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente».
Del medesimo avviso anche Consiglio di Stato, Sezione IV, 20.05.2011, n. 3027, secondo cui, «Il pagamento effettuato per ottenere la concessione edilizia seppure dovuto nel momento del rilascio di quest’ultima essendone la condizione», nel momento in cui il permesso di costruzione non è stato utilizzato dal privato, che aveva già provveduto al pagamento degli oneri, «s’è trasformato, dal lato del Comune, per quanto già considerato, in riscossione senza titolo di una somma che quest’ultimo è tenuto a restituire a mente dell’articolo 2033 con decorrenza degli interessi dalla data della domanda non potendo ritenersi la sua mala fede al momento della riscossione stessa» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.05.2019).
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SENTENZA
A seguito del rilascio del Permesso di Costruire n. 22/2010, la ricorrente provvedeva, secondo quanto sostenuto in ricorso, a corrispondere all’amministrazione comunale la somma di Euro 55.779,75 per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e costo di costruzione.
La stessa società rinunciava, però, all’esecuzione delle opere assentite e per tale ragione non comunicava mai l’inizio dei lavori e, il 10.09.2013, presentava una richiesta di rimborso degli oneri corrisposti.
Nel silenzio del Comune, la ricorrente, da un lato diffidava il Comune al pagamento e, dall’altro, chiedeva allo stesso un permesso di costruire in sanatoria relativamente a opere di ristrutturazione edilizia, con formazione di 4 unità immobiliari, all’interno della residenza “Ma.” in Località Cambrembo.
Con il permesso di costruire in sanatoria n. 01/2014, il Comune chiedeva, quindi, alla Ju. srl, il pagamento dell’oblazione per 31.553,06 euro e, nel corso dell’anno 2016, le parti formalizzavano la compensazione dei rispettivi rapporti di debito–credito a mezzo di scritture contabili.
Il 28.09.2016, parte ricorrente chiedeva al Comune il pagamento del credito residuo, per un importo pari a Euro 24.226,69, giustificando la propria pretesa alla luce del principio secondo cui
il pagamento del contributo di costruzione non costituisce acquiescenza alla sua imposizione e pertanto l’azione di ripetizione per indebito totale o parziale è pienamente legittima vista la natura tributaria del contributo (TAR Lombardia–Milano, sez. II, del 14.04.2004, n. 1463).
La domanda, così formulata, da ritenersi tempestiva in quanto proposta entro il termine prescrizionale ordinario decennale, appare suscettibile di positivo apprezzamento.
Essa trova fondamento nel fatto che “
il contributo concessorio è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio. Pertanto, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare. Ne consegue che, qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, sorge in capo all’Amministrazione ex art. 2033 c.c. l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione nonché, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione; con la precisazione che il diritto alla restituzione sorge non solo nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente” (TAR Lombardia–Milano, sez. II, del 07.01.2016, n. 12; in senso conforme: TAR Sicilia–Catania, sez. II, del 27.01.2017, n. 189).
L’Amministrazione deve, dunque, essere condannata, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., alla restituzione della somma indebitamente percepita a titolo di oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione, pari ad euro 24.226,69 (il cui ammontare non è contestato),
oltre interessi sino all’effettivo soddisfo, da calcolarsi, non essendo stata provata la sua malafede, a decorrere dal giorno della domanda e, quindi, dal giorno di notificazione dell’atto introduttivo del presente giudizio.
Trattandosi di debito di valuta (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 20.12.1996, n. 11440), e non essendo stata dimostrata la sussistenza del maggior danno ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ. (TAR Campania Napoli, sez. IV, 02.04.2015, n. 1907), non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria.

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sull'abuso d'ufficio del pubblico dipendente.
Il dolo intenzionale tipico dell'art. 323 cod. pen. prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, purché tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento "non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori, concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto.
Il dolo intenzionale deve essere, quindi, ricavato da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" dell'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del suo comportamento, cosicché la certezza che la volontà dell'agente sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto non può provenire esclusivamente dal comportamento "non iure", ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale del soggetto attivo, l'apparato motivazionale del provvedimento, la presenza o meno di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti, che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno.
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Ulteriore carenza di motivazione si riscontra anche in ordine al concorso del ricorrente nel reato di abuso d'ufficio, in quanto il Tribunale ha ritenuto integrato il reato in ragione della macroscopica illegittimità della proroga rilasciata dall'ufficio tecnico, nonostante la Soprintendenza archeologica avesse segnalato, già nell'agosto 2015, l'assenza di documentazione relativa ad una concessione demaniale marittima rilasciata al Ge., sollecitandone la trasmissione urgente per l'adozione dei provvedimenti vincolanti di competenza, in assenza dei quali la concessione doveva ritenersi illegittima; ha inoltre, affermato che il rilascio della proroga in violazione di legge e l'evidente vantaggio patrimoniale conseguito dal Ge. rende superfluo l'accertamento di un accordo collusivo tra il Ge. e il dirigente dell'ufficio tecnico.
La motivazione sul punto è apparente, in quanto secondo l'orientamento di questa Corte il dolo intenzionale tipico dell'art. 323 cod. pen. prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, purché tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento "non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori, concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (Sez. 6, n. 52882 del 27/09/2018, Pastore, Rv. 274580 - 01; Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma, Rv.272331).
Il dolo intenzionale deve essere, quindi, ricavato da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" dell'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del suo comportamento (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280), cosicché la certezza che la volontà dell'agente sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto non può provenire esclusivamente dal comportamento "non iure", ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale del soggetto attivo, l'apparato motivazionale del provvedimento, la presenza o meno di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti, che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255368; Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia, Rv. 237916), nella specie mancanti, specie a fronte di proroghe rilasciate in base a disposizioni normative, che prorogavano i termini di scadenza delle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative.
Il concorso del ricorrente non risulta sorretto da una adeguata e logica motivazione, non risultando evidenziato il previo concerto e/o l'istigazione o la determinazione criminosa del privato né valutato l'affidamento riposto dal privato nel comportamento della P.A., che sino all'adozione dell'ultimo provvedimento censurato aveva esitato favorevolmente le richieste di proroga (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 30.04.2019 n. 17989).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Deposito incontrollato - Rifiuti speciali non pericolosi - Fanghi derivanti dalle operazioni di lavaggio degli ortaggi - Classificazione tra rifiuto e sottoprodotto - Disciplina eccezionale e derogatoria - Applicabilità - Onere della prova - Responsabilità del legale rappresentante committente e del titolare dell'impresa esecutrice - Artt. 184-bis e 256 d.lgs, n. 152/2006.
Configura il reato di cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152/2006, il deposito incontrollato (di circa 50 metri cubi) di rifiuti speciali non pericolosi quali fanghi palabili derivanti dalla pulizia delle vasche di decantazione delle acque di lavaggio degli ortaggi.
Nella specie, l'escavazione e il deposito sul terreno per l'essiccamento sono condotte ritenute estranee all'attività produttiva di lavaggio e confezionamento per la vendita degli stessi, con conseguente esclusione dell'ipotesi del sottoprodotto di cui all'art. 184-bis D.Lvo n. 152/2006 ed applicazione della disciplina derogatoria sui rifiuti.
Inoltre, i ricorrenti non hanno assolto alla prova positiva della qualificazione degli scarti come sottoprodotto che grava su di loro poiché si tratta d'ipotesi di esclusione da responsabilità, fondata su una disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria
(Cass., Sez. 3, n. 56066 del 19/09/2017, Sacco e altro)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.04.2019 n. 17819 - link a www.ambientediritto.it).

TRIBUTI: Ici, società agricole agevolate. Benefici estesi a chi esercitava l’attività prima del 2012. La Cassazione fa dietrofront sul trattamento di favore e condanna il comune alle spese.
La Cassazione ha cambiato ancora una volta idea sui benefici fiscali per le società agricole. È tornata sui propri passi, dopo aver negato in precedenza il trattamento agevolato per le attività agricole svolte in forma societaria e, come se non bastasse, ha condannato l'amministrazione comunale a pagare le spese processuali.
Con la sentenza 30.04.2019 n. 11415 - V Sez. civile, infatti, ha affermato che le agevolazioni Ici vanno riconosciute agli imprenditori agricoli che esercitano l'attività in forma societaria anche prima del 2012.
Dunque, si applicano anche alle società e non solo alle persone fisiche che hanno la qualifica di coltivatori diretti o imprenditori agricoli. E se il terreno è posseduto e condotto da una società non può essere assoggettato a imposizione come area edificabile, ancorché l'immobile abbia questa qualificazione in base al piano regolatore comunale.
Per i giudici di legittimità, «le disposizioni di cui al dlgs n. 228 del 2001, e del dlgs n. 99 del 2004, hanno profondamente inciso sulla stessa configurazione del requisito soggettivo per la fruizione dell'agevolazione fornendo una lettura più in linea con la normativa eurounitaria».
In particolare le agevolazioni Ici, consistenti nel considerare agricolo anche il terreno posseduto da una società di persone, si applicano qualora possa essere «considerata imprenditore agricolo professionale ove lo statuto preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all'art. 2135 c.c., e almeno un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo ovvero abbia conoscenze e competenze professionali».
Le interpretazioni della Cassazione. Sulla questione de qua permangono incertezze dovute a pronunciamenti della Cassazione del tutto contrastanti.
La Cassazione con l'ordinanza n. 375/2017, in linea con la sentenza n. 11415, ha stabilito che le agevolazioni Ici vanno riconosciuti agli imprenditori agricoli che esercitano l'attività in forma societaria anche prima del 2012. I benefici fiscali si applicano anche alle società agricole e non solo alle persone fisiche che hanno la qualifica di coltivatori diretti o imprenditori agricoli. Quindi, se il terreno è posseduto e condotto da una società agricola non può essere assoggettato a imposizione come area edificabile, nonostante l'immobile abbia questa qualificazione in base al piano regolatore comunale.
Mentre con la successiva ordinanza 22484/2017 ha sostenuto il contrario. Ha fatto marcia indietro e ha escluso che possano spettare le agevolazioni, diversamente da quanto stabilito con l'ordinanza 375/2017, alle società in qualsiasi forma costituite.
Le società agricole non hanno diritto a fruire dei benefici fiscali Ici fino al 2011, considerato che la norma di legge riconosceva espressamente il trattamento agevolato solo alle persone fisiche.
La normativa speciale, che disciplina questo tributo, impedisce che possa essere applicato lo stesso trattamento che il regime fiscale ordinario riserva ad altre imposte, facendo rientrare le società nella nozione giuridica di imprenditori agricoli professionali (Iap).
In effetti l'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997, considerato norma speciale, imponeva che «ai fini Ici» il terreno fosse posseduto e condotto dall'agricoltore persona fisica. Non a caso i giudici di legittimità, con l'ordinanza n. 14734/2014, avevano sostenuto che le agevolazioni Ici previste dall'articolo 9 del decreto legislativo 504/1992 si applicassero unicamente agli imprenditori agricoli individuali. E' ormai pacifico, invece, che le società fruiscono delle agevolazioni Imu, ai sensi dell'articolo 13 del dl Monti (201/2011).
La finzione giuridica di non edificabilità dell'area. Bisogna ricordare che il terreno sul quale venivano esercitate le attività agricole non era soggetto all'Ici come area edificabile, anche se il bene era qualificato come tale dal piano regolatore comunale.
Dalla formulazione letterale degli articoli 2 e 9 del decreto legislativo 504/1992, però, sembrava che fosse escluso il beneficio della finzione giuridica di non edificabilità dei terreni per le società agricole in qualsiasi forma costituite.
Il citato articolo 2, applicabile anche all'Imu, dispone che sono considerati non fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai coltivatori diretti o da imprenditori agricoli sui quali persiste l'utilizzazione agro-silvo-pastorale. Il citato articolo 58 prevedeva che, per quanto concerne le agevolazioni Ici sui terreni agricoli, si considerassero coltivatori diretti o imprenditori agricoli a titolo principale solo le «persone fisiche» iscritte negli appositi elenchi comunali previsti dall'articolo 11 della legge 9/1963 e soggette al corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità, vecchiaia e malattia.
L'esenzione per i terreni. Se esistono i presupposti per la finzione giuridica di non edificabilità, le aree relative oggi non possono essere assoggettate a imposizione neppure come terreni agricoli.
Dal 2016 non sono tenuti al pagamento dell'imposta i titolari di terreni montani o di collina ubicati nei comuni elencati nella circolare del ministero dell'economia e delle finanze 9/1993. Inoltre, sono esonerati i terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla loro ubicazione, quelli ubicati nelle isole minori, nonché quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile.
Il legislatore, come è già avvenuto in passato, per individuare i comuni montani o di collina rinvia alla circolare ministeriale 9/1993. Quindi, non fa più fede l'elenco predisposto dall'istituto nazionale di statistica (Istat), al quale le amministrazioni locali hanno dovuto fare riferimento per il 2015. Nell'elenco allegato alla circolare, redatto utilizzando i dati forniti dal ministero dell'agricoltura e delle foreste, sono indicati i comuni, suddivisi per provincia di appartenenza, sul cui territorio i terreni agricoli saranno esenti dall'imposta municipale, come previsto dall'articolo 7, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 504/1992. Se a fianco dell'indicazione del comune non è riportata alcuna annotazione, vuol dire che l'esenzione opera sull'intero territorio.
Qualora, invece, sia riportata l'annotazione parzialmente delimitato «PD», l'agevolazione sarà circoscritta a una parte del territorio.
Questo comporta che negli enti montani e di collina non sono più richiesti requisiti soggettivi in capo ai possessori dei terreni, ma conta solo la loro inclusione nella circolare ministeriale. Gli altri terreni, indipendentemente dalla loro ubicazione, possono invece fruire del trattamento agevolato solo se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola. Sono poi esonerati dal prelievo i terreni ubicati nei comuni delle isole minori di cui all'allegato A della legge 448/ 2001 e quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
Fino al 2015 erano esonerati dal pagamento coloro che erano titolari di terreni ubicati in comuni montani, sia agricoli che incolti, e parzialmente montani. Per questi ultimi l'esonero dal pagamento dell'Imu spettava solo qualora i terreni fossero posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli. I comuni parzialmente montani erano indicati in un elenco predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (Istat). Pertanto, non tutti gli agricoltori potevano fruire dell'esenzione sui terreni.
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Conta il possesso di diritto.
Le agevolazioni Ici e Imu spettano al coltivatore diretto o all'imprenditore agricolo solo nel caso in cui possieda, di diritto, il terreno. Le norme richiedono il possesso del bene da parte del titolare, nella sua qualità di soggetto passivo, oltre che la conduzione del terreno da parte dello stesso.
Se la conduzione del terreno è effettuata sulla base di un contratto di affitto o di comodato da parte di un soggetto diverso dal proprietario non si ha diritto ai benefici fiscali. In questi casi l'agricoltore che non sia possessore di diritto dei terreni non è soggetto al pagamento delle imposte locali e, per l'effetto, non ha bisogno di fruire delle agevolazioni.
Le stesse regole valgono per la Tasi sulle aree edificabili possedute e condotte da coltivatori diretti e imprenditori agricoli. Gli agricoltori non pagano l'imposta sui servizi indivisibili sulle aree edificabili se utilizzate per l'esercizio delle attività agricole
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.05.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di restauro e risanamento conservativo - Area sottoposta a vincolo - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Mutazione della qualificazione tipologica del manufatto preesistente - Esclusione - Necessità del permesso di costruire e nulla osta Art. 181 d.lgs. n. 42/2004 - Art. 44, D.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In materia edilizia, ai fini della configurabilità di un intervento quale restauro e risanamento conservativo non possono essere mutati la qualificazione tipologica del manufatto preesistente, ovvero i caratteri architettonici e funzionali che ne consentono la qualificazione in base alle tipologie edilizie, gli elementi formali che configurano l'immagine caratteristica dello stesso e gli elementi strutturali, che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio (Sez. 3, n. 16048/2006, D'Antoni; in senso conforme, Sez. 3, n. 1978/2015, Sgalambro e altro; Sez. 3, n. 6873/2017, P.M. in proc. Buti e altri).
Fattispecie: prolungamento di una tettoia preesistente, allo scopo di evitare la forte irradiazione solare della facciata e il surriscaldamento dei locali interni
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.04.2019 n. 17732 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di reati urbanistici, nel caso di costruzione in zona agricola, la destinazione del manufatto alle opere dell'agricoltura ed il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo in capo a chi lo realizza -tanto al momento della richiesta e del rilascio del permesso di costruire, quanto al tempo della eventuale voltura del titolo abilitativo in favore di terzi- sono elementi rilevanti nella valutazione della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per la valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria.
Si è, in particolare, affermato che non è sufficiente il possesso temporaneo di fatto della qualifica di imprenditore agricolo professionale (ai sensi dell'art. 1, comma 5-ter, d.lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, in quanto i requisiti soggettivi per il rilascio di tale permesso devono esistere al momento della richiesta ed al momento del rilascio del titolo abilitativo; inoltre, il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo deve sussistere non solo al momento del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, ma anche al momento della voltura del titolo abilitativo in favore di terzi, al fine di garantire l'effettiva destinazione delle opere all'agricoltura.
Per l'edificazione in zona agricola la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono, dunque, elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico nonché per l'eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria.

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Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di reati urbanistici, nel caso di costruzione in zona agricola, la destinazione del manufatto alle opere dell'agricoltura ed il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo in capo a chi lo realizza -tanto al momento della richiesta e del rilascio del permesso di costruire, quanto al tempo della eventuale voltura del titolo abilitativo in favore di terzi- sono elementi rilevanti nella valutazione della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per la valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria.
Si è, in particolare, affermato che non è sufficiente il possesso temporaneo di fatto della qualifica di imprenditore agricolo professionale (ai sensi dell'art. 1, comma 5-ter, d.lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, in quanto i requisiti soggettivi per il rilascio di tale permesso devono esistere al momento della richiesta ed al momento del rilascio del titolo abilitativo (Sez. 3, n. 46085 del 29/10/2008, Monetti e altro, Rv. 24177001); inoltre, il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo deve sussistere non solo al momento del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, ma anche al momento della voltura del titolo abilitativo in favore di terzi, al fine di garantire l'effettiva destinazione delle opere all'agricoltura (Sez. 3, n. 33381 del 05/07/2012, Pmt in proc. Murgioni e altri, Rv. 25365901).
Per l'edificazione in zona agricola la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono, dunque, elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico nonché per l'eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria (Sez. 3, n. 7681 del 13/01/2017, Rv. 269159) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.04.2019 n. 17723).

EDILIZIA PRIVATA: La cessione di cubatura è un istituto di fonte negoziale, la cui legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale, in forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
E si è precisato che
tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni delle quali le principali, rilevanti nella vicenda esaminata, sono costituite:
   a) dall'essere i terreni in questione se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità;
   b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità urbanistica, avere cioè tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di fabbricabilità originario, perché altrimenti, in assenza di dette condizioni, attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.

Si è, inoltre, rimarcato che
si potrebbe verificare, laddove si ritenesse legittima la "cessione di cubature" fra terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione di "affollamento edilizio" in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l'attuazione dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più manifesto ove fosse consentita la "cessione di cubatura" fra terreni aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso indice di edificabilità; essendo, infatti, evidente che ove fosse consentito l'asservimento di un terreno avente un indice di fabbricabilità più vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una diversa destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano presieduto alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di edificabilità dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione, rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte; nel caso esaminato, si era, quindi, rilevata la illegittimità della cessione di cubatura fra terreni caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi e l'abusività dell'utilizzo di tale strumento negoziale in quanto grossolanamente volto alla elusione dei principi e delle regole in materia di pianificazione edilizia, abusività ritenuta poi ridondante in senso negativo sulla legittimità dei permessi a costruire rilasciati.
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La censura attiene alla applicabilità alla fattispecie in esame della "cessione di cubatura", prevista dal 5, comma 3, del d.l. n. 70/2011, convertito con modificazione nella legge n. 106 del 2011 e trasfuso nell'art. 5, comma 1, lett. c).
Questa Suprema Corte (Sez. 3, n. 8635 del 18/09/2014, dep. 27/02/2015, Rv. 262512) ha chiarito che la cessione di cubatura è un istituto di fonte negoziale, la cui legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale (per tutte si richiama Consiglio di Stato, Sezione V, 28.06.2000, n. 3636), in forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
E si è precisato che tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni delle quali le principali, rilevanti nella vicenda esaminata, sono costituite:
   a) dall'essere i terreni in questione se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità;
   b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità urbanistica, avere cioè tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di fabbricabilità originario, perché altrimenti, in assenza di dette condizioni, attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
Si è, inoltre, rimarcato che si potrebbe verificare, laddove si ritenesse legittima la "cessione di cubature" fra terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione di "affollamento edilizio" in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l'attuazione dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più manifesto ove fosse consentita la "cessione di cubatura" fra terreni aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso indice di edificabilità; essendo, infatti, evidente che ove fosse consentito l'asservimento di un terreno avente un indice di fabbricabilità più vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una diversa destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano presieduto alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di edificabilità dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione, rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte; nel caso esaminato, si era, quindi, rilevata la illegittimità della cessione di cubatura fra terreni caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi e l'abusività dell'utilizzo di tale strumento negoziale in quanto grossolanamente volto alla elusione dei principi e delle regole in materia di pianificazione edilizia, abusività ritenuta poi ridondante in senso negativo sulla legittimità dei permessi a costruire rilasciati.
Tali argomentazioni sono state ribadite, negli stessi termini, nelle successive pronunce (Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017, dep. 19/01/2018, Rv. 271770; Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017, Nespoli ed altri, non massimata)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.04.2019 n. 17723).

EDILIZIA PRIVATA: Violazione sostanziale e/o formali in materia antisismica - Omessa denuncia lavori in zona sismica - Configurabilità del reato - Zona inclusa tra quelle a basso indice sismico - Violazione delle prescrizioni tecniche antisismiche - Decorrenza del termine di prescrizione - Giurisprudenza - Artt. 44, 83, 93 e 95, d.P.R. n. 380/2001.
Il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è configurabile anche in caso di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo, del d.P.R. n. 380/2001, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime (Sez. 3, n. 30651/2017, Rubini; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Marini).
Quanto al reato di cui all'art. 95, d.P.R. n. 380 del 2001, la decorrenza iniziale del termine di prescrizione è stata variabilmente risolta a seconda che sia contestata la violazione sostanziale delle prescrizioni tecniche in materia antisismica (nel qual caso la permanenza ha termine con la cessazione dei lavori; cfr. Sez. Un., n. 18 del 23/07/1999, Lauriola; Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro) o, come nel caso di specie, che vengano contestate le violazioni formali della omessa denunzia dei lavori e/o dell'omesso deposito dei progetti (nel qual caso si registra un contrasto di giurisprudenza tra chi ritiene la natura istantanea del reato - Sez. Un., n. 18/1999; Sez. 3, n. 20728 del 29/03/2018, Staiano; Sez. 3, n. 23656 del 26/05/2011, Armatori -e chi, invece, ne afferma la natura permanente con cessazione alla data di adempimento degli obblighi formali ovvero di cessazione dei lavori- così, da ultimo, Sez. 3, n. 12235 del 11/02/2014, Petrolo; Sez. 3, n. 1145 del 08/10/2015, Stabile; Sez. 3, n. 2209 del 03/06/2015, Russo).

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Costruzione abusiva - Reato di natura permanente - Decorrenza e cessazione della permanenza - Edificio concretamente funzionale - Provvedimento di sequestro.
Il reato di costruzione abusiva cessa con il totale esaurimento dell'attività illecita e, quindi:
   a) quando siano terminati i lavori di rifinitura
(Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, secondo cui deve ritenersi "ultimato" solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni; Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali);
   b) ovvero, se precedente, con il provvedimento di sequestro, che sottrae all'imputato la disponibilità di fatto e di diritto dell'immobile
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.04.2019 n. 17701 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA"Volumi tecnici" sono solo quelli strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda), che non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
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6. Non hanno miglior fortuna le censure relative al capo B della rubrica che imputa al Di Fr. di aver rilasciato il permesso di costruire n. 8 del 02/02/2010 che, per quanto qui rileva, autorizzava il Bu. a realizzare, in variante al precedente permesso, un "volume tecnico" espressamente finalizzato ad estendere il fabbricato fino al confine con la proprietà Al., in spregio all'art. 11 delle NTA del nuovo PRG (approvato il 28/10/2009 e pubblicato sulla GU della Regione Sicilia il 24/12/2009) che imponeva una distanza minima dal confine di 5 metri.
6.1. Tale volume, secondo la descrizione della Corte di appello, «eliminava l'intercapedine immaginaria che si esisteva tra l'immobile del Bu. (fino a quel momento posto da distanza variabile dalla linea di confine con la proprietà Al. da cm. 65 a m. 1), ponendolo sulla linea di confine. Tale volume tecnico risulta avere lunghezza pari a m. 11 e larghezza da cm. 60 a m. 1 ed altezza non inferiore a 3 m. e presenta un tetto a falde».
Si trattava di «un vano chiuso con accesso autonomo (...) posto lungo tutto il lato ovest del fabbricato del Bu., con un impatto visivo considerevole», in quanto impegnava più della metà del prospetto ovest del fabbricato.
Il vano realizzato, prosegue la Corte, «non può ritenersi suscettibile di alcun uso abitativo, considerata la larghezza variabile (dunque al saldo dei muri) da 55-60 cm. a 90 cm. circa. Dunque risulta materialmente impossibile che il vano possa avere un uso abitativo, mancando, peraltro, di collegamenti interni con il resto del fabbricato. Tuttavia, le dimensioni del vano, di forma trapezioidale (pari a circa mc. 27), appaiono del tutto sproporzionate rispetto alla funzione tecnica da svolgere o di ricovero di opere, visto che i pozzetti di ispezione che dovrebbe contenere sono di norma realizzati all'aria aperta e non necessitano di alcuna sovrastruttura), rivelando quale destinazione principale -peraltro apertamente dichiarata nel progetto di variante- quella funzionale, ossia annullare la distanza del fabbricato autorizzato con C.E. n. 132/09
a seguito della quale risulta emessa la C.E. n. 8/10 di cui si discute): proprio per questo motivo risulta realizzato con tale imponenza».
6.2. La Corte di appello ha correttamente escluso che tale volume aggiuntivo possa qualificarsi come "tecnico"; "volumi tecnici" sono solo quelli strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda), che non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Casu, Rv. 267289; Sez. 3, n. 14281 del 04/02/2016, Mocetti, Rv. 266394; Sez. 3, n. 2187 del 03/12/1992, dep. 1993, Fluss, Rv. 192757; Sez. 3, n. 1488 del 21/09/2017, dep. 2018, n.m.; Sez. 7, n. 20755 del 24/06/2016, dep. 2017) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2019 n. 17516).

EDILIZIA PRIVATA: Mentre le "varianti in senso proprio", ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le "varianti essenziali", ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
Si è ricordato, in particolare, che «secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte,
la nozione di "variante" deve ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto all'originario progetto e che gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, riguardano la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato
».
Il nuovo provvedimento (da rilasciarsi con il medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire) rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario ed in questo rapporto di complementarietà e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in variante, che giustifica -tra l'altro- le peculiarità del regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale.
Rimangono sussistenti, infatti, tutti i diritti quesiti e ciò rileva specialmente nel caso di sopravvenienza di una nuova contrastante normativa che, se non fosse ravvisatale l'anzidetta situazione di continuità, renderebbe irrealizzabile l'opera.
E' stato, quindi, affermato che
costituisce "variante essenziale" ogni variante incompatibile con il disegno globale ispiratore del progetto edificatorio originario, sia sotto l'aspetto qualitativo che sotto l'aspetto quantitativo.
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Nel D.P.R. n. 380 del 2001 non si rinviene alcun riferimento espresso all'istituto della variante essenziale ma, per la configurazione dell'ambito di tale istituto, può essere utile tenere conto della definizione (comunque non coincidente e che non ne esaurisce il concetto) di "
variazione essenziale" posta dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32.
Ed ai sensi dell'art. 32 potrà aversi variazione essenziale "quando si verifica una o più delle seguenti condizioni":
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Caratteri peculiari presentano, poi, le c.d. "
varianti leggere o minori in corso d'opera" (già disciplinate dalla L. n. 10 del 1977, art. 15, comma 12, e poi dalla L. n. 47 del 1985, art. 15, modificato nuovamente dalla L. n. 662 del 1996).
Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 2, -come modificato dal D.Lgs. n. 301 del 2002- prevede che sono sottoposte a denuncia di inizio dell'attività (ora SCIA a seguito delle successive modifiche dell'art. 17, comma 1, lett. m), n. 1, del d.l. 12.09.2014 n. 133 conv., con modificazioni nella l. 11.11.2014 n. 164) le varianti a permessi di costruire che:
   - non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie;
   - non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia;
   - non alterano la sagoma dell'edificio; non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
La denuncia di inizio dell'attività (ora SCIA) costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori.
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6. Non hanno miglior fortuna le censure relative al capo B della rubrica che imputa al Di Fr. di aver rilasciato il permesso di costruire n. 8 del 02/02/2010 che, per quanto qui rileva, autorizzava il Bu. a realizzare, in variante al precedente permesso, un "volume tecnico" espressamente finalizzato ad estendere il fabbricato fino al confine con la proprietà Al., in spregio all'art. 11 delle NTA del nuovo PRG (approvato il 28/10/2009 e pubblicato sulla GU della Regione Sicilia il 24/12/2009) che imponeva una distanza minima dal confine di 5 metri.
6.1. Tale volume, secondo la descrizione della Corte di appello, «eliminava l'intercapedine immaginaria che si esisteva tra l'immobile del Bu. (fino a quel momento posto da distanza variabile dalla linea di confine con la proprietà Al. da cm. 65 a m. 1), ponendolo sulla linea di confine. Tale volume tecnico risulta avere lunghezza pari a m. 11 e larghezza da cm. 60 a m. 1 ed altezza non inferiore a 3 m. e presenta un tetto a falde».
Si trattava di «un vano chiuso con accesso autonomo (...) posto lungo tutto il lato ovest del fabbricato del Bu., con un impatto visivo considerevole», in quanto impegnava più della metà del prospetto ovest del fabbricato.
Il vano realizzato, prosegue la Corte, «non può ritenersi suscettibile di alcun uso abitativo, considerata la larghezza variabile (dunque al saldo dei muri) da 55-60 cm. a 90 cm. circa. Dunque risulta materialmente impossibile che il vano possa avere un uso abitativo, mancando, peraltro, di collegamenti interni con il resto del fabbricato. Tuttavia, le dimensioni del vano, di forma trapezioidale (pari a circa mc. 27), appaiono del tutto sproporzionate rispetto alla funzione tecnica da svolgere o di ricovero di opere, visto che i pozzetti di ispezione che dovrebbe contenere sono di norma realizzati all'aria aperta e non necessitano di alcuna sovrastruttura), rivelando quale destinazione principale -peraltro apertamente dichiarata nel progetto di variante- quella funzionale, ossia annullare la distanza del fabbricato autorizzato con C.E. n. 132/09 a seguito della quale risulta emessa la C.E. n. 8/10 di cui si discute): proprio per questo motivo risulta realizzato con tale imponenza».
6.2. La Corte di appello ha correttamente escluso che tale volume aggiuntivo possa qualificarsi come "tecnico"; "volumi tecnici" sono solo quelli strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda), che non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Casu, Rv. 267289; Sez. 3, n. 14281 del 04/02/2016, Mocetti, Rv. 266394; Sez. 3, n. 2187 del 03/12/1992, dep. 1993, Fluss, Rv. 192757; Sez. 3, n. 1488 del 21/09/2017, dep. 2018, n.m.; Sez. 7, n. 20755 del 24/06/2016, dep. 2017).
6.3. La Corte di appello ha però ritenuto possibile l'intervento sul rilievo che si tratta di variazione non essenziale ai sensi dell'art. 4, legge reg. Sicilia n. 37 del 1985, che, in attuazione del previgente art. 8, legge n. 47 del 1985 (oggi art. 32, d.P.R. n. 380 del 2001), esclude la natura essenziale della variazione quando le opere aggiuntive non comportano un aumento della cubatura dell'immobile superiore al 20%.
6.4. 5ull'argomento questa Corte ha recentemente ribadito (Sez. 3, n. 34148 del 13/06/2018, Ulcini, n.m.) che mentre le "varianti in senso proprio", ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le "varianti essenziali", ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
Si è ricordato, in particolare, che «secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. 3, n. 9922 del 20/01/2009, Rv. 243103; Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010, Rv. 247687; Sez. 3, n. 7241 del 09/02/2011, Rv. 249544),
la nozione di "variante" deve ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto all'originario progetto e che gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, riguardano la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato
» (vedi C. Stato, Sez. 4, 11.04.2007, n. 1572).
Il nuovo provvedimento (da rilasciarsi con il medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire) rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario ed in questo rapporto di complementarietà e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in variante, che giustifica -tra l'altro- le peculiarità del regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale.
Rimangono sussistenti, infatti, tutti i diritti quesiti e ciò rileva specialmente nel caso di sopravvenienza di una nuova contrastante normativa che, se non fosse ravvisatale l'anzidetta situazione di continuità, renderebbe irrealizzabile l'opera. E' stato, quindi, affermato che
costituisce "variante essenziale" ogni variante incompatibile con il disegno globale ispiratore del progetto edificatorio originario, sia sotto l'aspetto qualitativo che sotto l'aspetto quantitativo.
Nel D.P.R. n. 380 del 2001, si è detto, non si rinviene alcun riferimento espresso all'istituto della variante essenziale ma, per la configurazione dell'ambito di tale istituto, può essere utile tenere conto della definizione (comunque non coincidente e che non ne esaurisce il concetto) di "variazione essenziale" posta dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32. Ed ai sensi dell'art. 32 potrà aversi variazione essenziale "quando si verifica una o più delle seguenti condizioni":
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
E si è sottolineato che caratteri peculiari presentano, poi, le c.d. "varianti leggere o minori in corso d'opera" (già disciplinate dalla L. n. 10 del 1977, art. 15, comma 12, e poi dalla L. n. 47 del 1985, art. 15, modificato nuovamente dalla L. n. 662 del 1996).
Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 2, -come modificato dal D.Lgs. n. 301 del 2002- prevede che sono sottoposte a denuncia di inizio dell'attività (ora SCIA a seguito delle successive modifiche dell'art. 17, comma 1, lett. m), n. 1, del d.l. 12.09.2014 n. 133 conv., con modificazioni nella l. 11.11.2014 n. 164) le varianti a permessi di costruire che:
   - non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie;
   - non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia;
   - non alterano la sagoma dell'edificio; non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
La denuncia di inizio dell'attività (ora SCIA) costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2019 n. 17516).

EDILIZIA PRIVATA: L'incompletezza della documentazione allegata alla domanda di permesso di costruire esonera l'amministrazione dell'obbligo di pronunciarsi in maniera espressa su di essa entro i prescritti termini procedimentali.
Invero “il silenzio-assenso non può, infatti, formarsi in assenza della documentazione completa, in quanto l'eventuale inerzia dell'Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non avrebbero potuto mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso”.
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6 - La censura è infondata.
Correttamente il TAR ha rilevato, in conformità al noto insegnamento della giurisprudenza, che l'incompletezza della documentazione allegata alla domanda di permesso di costruire esonera l'amministrazione dell'obbligo di pronunciarsi in maniera espressa su di essa entro i prescritti termini procedimentali (Cons. St., Sez. V, 22.09.2015, n. 4424: “il silenzio-assenso non può, infatti, formarsi in assenza della documentazione completa, in quanto l'eventuale inerzia dell'Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non avrebbero potuto mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso”).
6.1 - In applicazione di tale principio, il TAR ha escluso che sull’istanza si sia formato il silenzio-assenso, constatando che soltanto in allegato alla comunicazione di inizio lavori del 23.10.2013 era stata prodotta all'amministrazione la necessaria asseverazione di conformità del progetto alle prescrizioni urbanistico-edilizie.
Il TAR ha altresì rilevato che la documentazione tecnica originariamente prodotta con la domanda di permesso di costruire, oltre ad attestare la conformità del progetto con lo strumento urbanistico e il regolamento edilizio del comune di Frattamaggiore anziché Crispano, aveva anche un contenuto più limitato
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.04.2019 n. 2581 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata dell’amministrazione, con la conseguenza che l’eventuale mancata partecipazione del privato al relativo procedimento non consente in ogni caso di pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua dell’art. 21-octies della legge 241/1990.
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10 – Deve essere rigettato anche il motivo con il quale si lamenta l’omissione degli adempimenti partecipativi di cui alla legge 241/1990.
Invero, per quanto attiene a quest’ultima violazione procedimentale, va ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata dell’amministrazione, con la conseguenza che l’eventuale mancata partecipazione del privato al relativo procedimento non consente in ogni caso di pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua dell’art. 21-octies della legge 241/1990 (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 734 del 2014; Cons. St., sez. V, n. 3337 del 2012; Cons. St., sez. V, n. 4764/2011)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.04.2019 n. 2581 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per realizzare una nuova volumetria, e quindi una «nuova costruzione», occorre il rilascio di un permesso di costruire (o del titolo avente efficacia equivalente). Si può solo ammettere, nei limiti in cui le disposizioni urbanistiche (e paesaggistiche) lo consentano, la realizzazione di modesti volumi tecnici, ma solo nei suddetti limiti e se strettamente necessari all’uso per il quale sono destinati.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, possono considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che sono realizzati per esigenze tecnico-funzionali della costruzione (per la realizzazione di impianti elettrici, idraulici, termici o di ascensori) che non possono essere ubicati all’interno di questa e che sono del tutto privi di propria autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale. Si è, quindi, escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito «al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica».
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La pertinenza può essere riconosciuta, ai fini edilizi, se vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, e (soprattutto) se l'opera pertinenziale ha una dimensione ridotta e modesta rispetto alla cosa cui esso inerisce, tale da rendere l’opera priva di un autonomo valore di mercato e non comportante un carico urbanistico o una alterazione significativa dell'assetto del territorio.
Non può quindi ritenersi meramente pertinenziale, ai fini del possesso dei necessari titoli abilitativi edilizi (e paesaggistici), un’opera quando determina, come nella fattispecie, un nuovo volume di consistenti dimensioni su un’area diversa e ulteriore rispetto a quella già occupata dal preesistente edificio principale.
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1.1.– Le opere realizzate dalla società appellante sono costituite da due corpi di fabbrica realizzati in legno lamellare e infissi al suolo, della dimensione di circa 55 mq l’uno, di circa 125 mq l’altro e dell’altezza fino a 3,13 metri l’uno e fino a 4,50 metri l’altro. In considerazione dei materiali utilizzati, delle dimensioni plano-volumetriche e del carattere non precario, l’intervento edilizio in esame costituisce senza dubbio una «nuova costruzione» –nella cui nozione rientra, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.1), del d.P.R. n. 380 del 2001, la «costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente […]»–, come tale soggetta al regime del permesso di costruire (ai sensi dell’art. 10 del testo unico dell’edilizia).
1.2.− In quanto non conforme alla disciplina urbanistica (la circostanza è incontestata tra le parti), e quindi integrando anche un abuso di carattere sostanziale, non sussistevano i presupposti per procedere all’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del testo unico dell’edilizia, il quale (come noto) è diretto a sanare le opere eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi «alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
1.3.− L’assunto appena svolto non può essere contestato adducendo che le opere realizzate conduce a ritenere che non si tratta nel caso di specie di meri volumi tecnici.
Come si è detto sopra, per realizzare una nuova volumetria, e quindi una «nuova costruzione», occorre il rilascio di un permesso di costruire (o del titolo avente efficacia equivalente). Si può solo ammettere, nei limiti in cui le disposizioni urbanistiche (e paesaggistiche) lo consentano, la realizzazione di modesti volumi tecnici, ma solo nei suddetti limiti e se strettamente necessari all’uso per il quale sono destinati.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, possono considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che sono realizzati per esigenze tecnico-funzionali della costruzione (per la realizzazione di impianti elettrici, idraulici, termici o di ascensori) che non possono essere ubicati all’interno di questa e che sono del tutto privi di propria autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale. Si è, quindi, escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito «al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica» (Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.11.2014, n. 5428; Sez. VI, 29.01.2015, n. 406).
Facendo applicazione di tali principi, si deve osservare che, nel caso di specie, l’appellante ha sostenuto la strumentalità del manufatto rispetto all’immobile principale, senza dimostrare, né la necessità tecnica di creare a tal fine un così rilevante ingombro (di circa 55 mq l’uno, di circa 125 mq l’altro e dell’altezza fino a 3,13 metri l’uno e fino a 4,50 metri l’altro), né che sussiste l’impossibilità di ubicare tali impianti all’interno dei locali già esistenti della costruzione principale (ovvero anche all’aperto).
Va aggiunto, per completezza, che neanche potrebbe avere rilievo, per giustificare la realizzazione dell’opera in questione in assenza del necessario titolo abilitativo, la sua destinazione pertinenziale.
Per principio consolidato, infatti, la pertinenza può essere riconosciuta, ai fini edilizi, se vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, e (soprattutto) se l'opera pertinenziale ha una dimensione ridotta e modesta rispetto alla cosa cui esso inerisce (Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615), tale da rendere l’opera priva di un autonomo valore di mercato e non comportante un carico urbanistico o una alterazione significativa dell'assetto del territorio (Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 406 del 29.01.2015).
Non può quindi ritenersi meramente pertinenziale, ai fini del possesso dei necessari titoli abilitativi edilizi (e paesaggistici), un’opera quando determina, come nella fattispecie, un nuovo volume di consistenti dimensioni su un’area diversa e ulteriore rispetto a quella già occupata dal preesistente edificio principale (in termini, Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4290 del 26.08.2014) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.04.2019 n. 2577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Deposito temporaneo - Qualificazione del deposito ex art. 183 T.U.A. - Onere della prova - Produttore rifiuti - Raggruppamento di rifiuti - Condizioni - Tempi e sicurezze - Fattispecie: abbandono di rifiuti in modo incontrollato in un'area di una massa di macerie edili - Artt. 183 e 256 d.lgs. n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, l'onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall'art. 183 D.lgs. 03.04.2006, n. 152, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria.
Mentre, ricorre la figura del deposito temporaneo solo nel caso di raggruppamento di rifiuti e del loro deposito preliminare alla raccolta ai fini dello smaltimento per un periodo non superiore all'anno o al trimestre (ove superino il volume di 30 mc), nel luogo in cui gli stessi sono materialmente prodotti o in altro luogo, al primo funzionalmente collegato, nella disponibilità del produttore e dotato dei necessari presidi di sicurezza
(Sez. 3, n. 50129 del 28/06/2018 - dep. 07/11/2018, D.)
(Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 17.04.2019 n. 16716 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria - Emissioni in atmosfera - Condotta di esercizio abusivo di attività produttiva di emissioni in atmosfera - Artt. 256 e 279, d.lgs. n. 152/2006 - Fattispecie: esercizio di attività di lavorazione marmi e ceramica, in assenza di autorizzazione alle emissioni in atmosfera - Violazione delle semplici prescrizioni autorizzative - Possesso dell'autorizzazione - Sanzione amministrativa.
La condotta di esercizio abusivo di attività produttiva di emissioni in atmosfera, è una condotta prevista e punita dal comma 1 dell'art. 279, d.Lgs. n. 152 del 2006, in quanto tale costituente tutt'ora reato, laddove invece, il richiamo alla sanzionabilità amministrativa, previsto dal comma 2-bis della citata disposizione, è relativo alla sola violazione delle semplici prescrizioni autorizzative, che evidentemente presuppongo il possesso dell'autorizzazione, situazione non ravvisabile nel caso di specie, in cui l'attività veniva svolta senza l'autorizzazione prevista dalla legge.
Trova, quindi, applicazione il principio per cui la contravvenzione prevista dall'art. 279, comma 1, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 è un reato proprio riferibile al "gestore dell'attività" da cui provengono le emissioni, quale soggetto obbligato a richiedere l'autorizzazione ai sensi dell'art. 269 del citato d.lgs. n. 152 del 2006
(Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 17.04.2019 n. 16669 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Modifiche che comportano la necessità di una nuova effettuazione della VIA.
La necessità di rinnovazione della VIA o della verifica di assoggettabilità a VIA sorge solo nel caso di modifiche che comportino la realizzazione di un'opera radicalmente diversa da quella già esaminata, che comporti il peggioramento dell'impatto dell'opera stessa sull'ambiente.
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nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale e nell'effettuare la verifica preliminare, l'amministrazione esercita un'amplissima discrezionalità che, si badi bene, non ha solo natura tecnica ma ha anche natura amministrativa dovendo la stessa amministrazione effettuare l'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e la loro ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera.
Questa attività di apprezzamento e bilanciamento dei contrapposti interessi è sindacabile dal giudice amministrativo soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l'istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale.
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24. Per quanto riguarda invece la ritenuta necessità di procedere ad una nuova verifica di assoggettabilità a VIA, si deve osservare che, in base all’art. 24, comma 9-bis, del d.lgs. n. 152 del 2006, solo le modifiche sostanziali comportano la necessità di una nuova effettuazione della valutazione. L’ art. 5, primo comma, lett. l-bis), del d.lgs. n. 152 del 2006 stabilisce poi che si ha modifica sostanziale di un progetto, opera o impianto solo nel caso in cui la variazione sia tale da incidere in maniera significativa e negativa sull'ambiente o sulla salute umana.
25. Applicando queste norme, la giurisprudenza ha chiarito che la necessità di rinnovazione della VIA o della verifica di assoggettabilità a VIA sorge solo nel caso di modifiche che comportino la realizzazione di un'opera radicalmente diversa da quella già esaminata, che comporti il peggioramento dell'impatto dell'opera stessa sull'ambiente (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.10.2010, n. 1142; id., sez. VI, 04.04.2008 n. 1414; TAR Lazio Roma, sez. I, 15.07.2013, n. 6997).
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28. Si possono ora affrontare le specifiche questioni sollevate nel primo motivo nel quale, come visto, si evidenzia che l’Amministrazione avrebbe effettuato valutazioni non adeguate con riferimento all’impatto del traffico veicolare, ed avrebbe adottato il provvedimento finale positivo discostandosi dai pareri espressi da ARPA e dal Comune ricorrente e non attendendo il parere richiesto al Ministero dell’Ambiente.
29. A questo proposito, si osserva preliminarmente che, nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale e nell'effettuare la verifica preliminare, l'amministrazione esercita un'amplissima discrezionalità che, si badi bene, non ha solo natura tecnica ma ha anche natura amministrativa dovendo la stessa amministrazione effettuare l'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e la loro ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera. Questa attività di apprezzamento e bilanciamento dei contrapposti interessi è sindacabile dal giudice amministrativo soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l'istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2018, n. 1240; id., 27.03.2017, n. 1392; TAR Lazio Roma, sez. II, 26.11.2018, n. 11460)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 17.04.2019 n. 861 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Collaudo di opere pubbliche - Azione di garanzia per i vizi e difetti dell'opera nei confronti dell'appaltatore - Termini di decadenza e prescrizione - Art. 1667 c.c. - Presupposti.
In tema di appalti, i termini di decadenza e prescrizione per l'esperimento dell'azione di garanzia per i vizi e difetti dell'opera, di cui all'art. 1667 c.c., nei confronti dell'appaltatore di opera pubblica, iniziano a decorrere dall'approvazione del collaudo riguardo ai vizi e difetti rivelatisi precedentemente o contemporaneamente al suo esperimento, poiché è solo con il collaudo che l'opera può dirsi formalmente accettata dalla Pubblica Amministrazione, e tuttavia detto principio è applicabile sempre che il collaudo sia avvenuto nel rispetto dei termini previsti dalla legge (nella specie, n. 741 del 1981, art. 5, applicabile ratione temporis), poiché, in mancanza, i suddetti termini di decadenza e prescrizione decorrono dalla scadenza del termine previsto per il collaudo, tranne che il committente dimostri che questo non sia avvenuto per fatto imputabile all'impresa (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 15.04.2019 n. 10501 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATACassazione: la disciplina edilizia antisismica è sottratta alla legislazione regionale.
La disciplina edilizia antisismica e quella per le costruzioni in conglomerato cementizio armato attengono alla sicurezza statica degli edifici, rientrante nella competenza esclusiva dello Stato.
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Dei rapporti tra la summenzionata disciplina regionale e la normativa statale contenuta nel D.p.r. 380/2001 si è ripetutamente occupata la giurisprudenza di questa Corte.
Si è così avuto modo di chiarire che, in ogni caso, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali fissati dalla legislazione nazionale e, conseguentemente, devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi (Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez. 3, n. 2017 del 25/10/2007 (dep. 2008), Giangrasso, Rv. 238555; Sez. 3, n. 33039 del 15/06/2006, RM. in proc. Moltisanti, Rv. 234935. Conf., ma con riferimento ad altre disposizioni normative della Regione siciliana, Sez. 3, n. 4861 del 09/12/2004 (dep. 2005), Garufi, Rv. 230914; Sez. 3, n. 6814 del 11/01/2002, Castiglia V, Rv. 221427)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.04.2019 n. 15746).

EDILIZIA PRIVATA: Sono da considerarsi "volumi tecnici" (la cui realizzazione in difetto del permesso di costruire non integra la contravvenzione di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380/2001) quei volumi strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione alla quale si connettono, alla duplice condizione negativa che tali impianti non possano trovare ubicazione, per evidenti ragioni di funzionalità, entro il corpo dell'edificio asservito e che non vi sia sproporzione, in termini di ingombro, tra tali volumi e le esigenze effettivamente sussistenti.
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Né coglie nel segno la deduzione difensiva che invoca, comunque, l'applicazione dell'art. 32, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, risultando evidente che l'opera in esame non può configurarsi come volume tecnico.
Va ricordato che sono da considerarsi "volumi tecnici" (la cui realizzazione in difetto del permesso di costruire non integra la contravvenzione di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380/2001) quei volumi strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione alla quale si connettono, alla duplice condizione negativa che tali impianti non possano trovare ubicazione, per evidenti ragioni di funzionalità, entro il corpo dell'edificio asservito e che non vi sia sproporzione, in termini di ingombro, tra tali volumi e le esigenze effettivamente sussistenti (Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Rv. 267289; Sez. 3, n. 14281 del 04/02/2016, Rv. 266394)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.04.2019 n. 15746).

APPALTIRti, imprese mandanti non decidono sui lavori. Non possono agire di propria iniziativa.
In assenza di specifica disciplina di gara che individui la prestazione principale di un appalto, è vietato ai concorrenti definire di propria iniziativa la scomposizione delle prestazioni; illegittimo ammettere un raggruppamento verticale di imprese (Rti) se non è individuabile con chiarezza quale sia la prestazione principale.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 05.04.2019 n. 2243 per un caso in cui la lex specialis della gara non conteneva una specifica suddivisione delle prestazioni dedotte in contratto, non distinguendo in particolare tra prestazione principale e secondaria. Si poneva, quindi, il quesito se fosse legittimo che i concorrenti procedessero di propria iniziativa alla scomposizione delle prestazioni.
La sentenza propende per la soluzione negativa giustificando la scelta in ragione della disciplina legale della responsabilità delle imprese riunite in associazione temporanea (Rti). Nel previgente ordinamento (art. 37, dlgs 163/2006, ma oggi art. 48, commi 2 e 5, dlgs 50/2016), nei raggruppamenti verticali, le responsabilità dei concorrenti che si fanno carico delle parti secondarie del servizio è circoscritta all'esecuzione delle prestazioni di rispettiva competenza.
Ma se è così, hanno detto i giudici, non è possibile rimettere alla loro libera scelta l'individuazione delle prestazioni principali e di quelle secondarie (attraverso l'indicazione della parte del servizio di competenza di ciascuno) perché questo comporterebbe l'elusione della norma in materia di responsabilità solidale, prevista per la sola mandataria nei raggruppamenti verticali (dove la mandataria esegue la prestazione «principale») e per tutte nei raggruppamenti orizzontali (dove l'apporto di competenza è in capo a tutte le imprese raggruppate, pro quota).
Da ciò, hanno detto i giudici, deriva che la possibilità di ammettere a una gara un raggruppamento di tipo verticale è legittima solo laddove la stazione appaltante abbia preventivamente individuato negli atti di gara, con chiarezza, le prestazioni «principali» e quelle «secondarie», fattispecie che non ricorreva nel caso in esame
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).
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MASSIMA
5.2. E’ pacifico che la lex specialis della gara per cui è causa non conteneva una specifica suddivisione delle prestazioni dedotte in contratto, non distinguendo in particolare tra prestazione principale e secondaria.
Non era indi consentito ai concorrenti di procedere di propria iniziativa alla suddetta scomposizione.
Il divieto, come chiarito dalla giurisprudenza anche recente di questo Consiglio di Stato (V, 14.05.2018, n. 2855; 07.12.2017, n. 5772; III, 09.05.2012, n. 2689), da cui non vi sono ragioni per discostarsi, si giustifica in ragione della disciplina legale della responsabilità delle imprese riunite in associazione temporanea, dettata nel previgente ordinamento della materia dall’art. 37, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006, in base al quale nei raggruppamenti verticali, la responsabilità dei concorrenti che si fanno carico delle parti secondarie del servizio è circoscritta all’esecuzione delle prestazioni di rispettiva competenza, si talché non è possibile rimettere alla loro libera scelta l’individuazione delle prestazioni principali e di quelle secondarie (attraverso l’indicazione della parte del servizio di competenza di ciascuno) e la conseguente elusione della norma in materia di responsabilità solidale, in assenza di apposita previsione nella disciplina di gara, e, oggi, dall’analoga disciplina -qui applicabile- di cui all’art. 48, commi 2 e 5, del d.lgs. n. 50 del 2016, disponenti, rispettivamente, che “Nel caso di forniture o servizi, per raggruppamento di tipo verticale si intende un raggruppamento di operatori economici in cui il mandatario esegue le prestazioni di servizi o di forniture indicati come principali anche in termini economici, i mandanti quelle indicate come secondarie; per raggruppamento orizzontale quello in cui gli operatori economici eseguono il medesimo tipo di prestazione; le stazioni appaltanti indicano nel bando di gara la prestazione principale e quelle secondarie”, e che “L’offerta degli operatori economici raggruppati o dei consorziati determina la loro responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante, nonché nei confronti del subappaltatore e dei fornitori. Per gli assuntori di lavori scorporabili e, nel caso di servizi e forniture, per gli assuntori di prestazioni secondarie, la responsabilita' e' limitata all'esecuzione delle prestazioni di rispettiva competenza, ferma restando la responsabilita' solidale del mandatario”.
Questa Sezione (sentenza n. 5772 del 2017, cit.) ha precisato, in particolare, che
la distinzione tra raggruppamenti verticali e orizzontali non è puramente nominalistica, ma discende dalle concrete e specifiche attribuzioni delle imprese associate, secondo il principio enunciato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza 13.06.2012, n. 22, a mente del quale “La distinzione tra a.t.i. orizzontali e a.t.i. verticali [...] poggia sul contenuto delle competenze portate da ciascuna impresa raggruppata ai fini della qualificazione a una determinata gara: in linea generale, l’a.t.i. orizzontale è caratterizzata dal fatto che le imprese associate (o associande) sono portatrici delle medesime competenze per l’esecuzione delle prestazioni costituenti l’oggetto dell'appalto, mentre l’a.t.i. verticale è connotata dalla circostanza che l’impresa mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione prevalente, diverse da quelle delle mandanti, le quali possono avere competenze differenziate anche tra di loro, sicché nell'a.t.i. di tipo verticale un’impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni secondarie scorporabili”.
Con la conseguenza che
la possibilità di ammettere a una gara un raggruppamento di tipo verticale si rende attuabile solo laddove la stazione appaltante abbia preventivamente individuato negli atti di gara, con chiarezza, le prestazioni “principali” e quelle “secondarie, fattispecie che, come detto, non ricorre nel caso in esame.
Né rileva la circostanza che i modelli di domanda allegati al disciplinare della gara per cui è causa prevedessero tale possibilità (conforme, Cons. Stato, V, n. 2855 del 2018, cit.), e che Eu. non li abbia gravati.
Infatti, come visto, la questione si pone non al livello della teorica ammissibilità o inammissibilità, in sé e per sé considerata, della partecipazione alla gara di un raggruppamento di tipo verticale, bensì sul piano, autonomo ancorché necessariamente presupposto, della presenza, o meno, nella lex specialis, della suddivisione delle prestazioni in principali e secondarie.
Di modo che, una volta acclarata l’inesistenza di tale suddivisione, a nulla vale opporre la modalità della concreta strutturazione formale conferita a tali modelli, che sono del tutto ininfluenti in tema di distinzione tra prestazioni principali e secondarie e che non possono concorrere al fine di evidenziare profili di ambiguità o contraddizioni nella formulazione delle disposizioni della lex specialis sul punto, rilevanti ai fini dell’applicazione del principio del favor partecipationis.
Essi modelli, infatti, costituendo un ausilio per l’operatore economico concorrente alla gara predisposto dalla stazione appaltante, possono sì essere astrattamente significativi in ordine al suo legittimo affidamento in ordine alla rituale partecipazione alla procedura, ma non al punto da incidere sul regime delle responsabilità nei confronti della stazione appaltante in cui refluisce l’aspetto della modalità di partecipazione alla gara secondo la tipologia del raggruppamento prescelto (che non dà luogo ex se alla creazione di un soggetto autonomo e distinto dalle imprese che lo compongono né a un loro rigido collegamento strutturale, sicché nelle ATI orizzontali ciascuna delle imprese riunite è responsabile solidalmente nei confronti della stazione appaltante, mentre nelle ATI verticali le mandanti rispondono ciascuna per le prestazioni assunte e la mandataria risponde in via solidale con ciascuna delle imprese mandanti in relazione alle rispettive prestazioni secondarie, secondo quanto chiarito da Ad. Plen. n. 22 del 2012, cit.).
Viene infatti in evidenza non il principio di favor partecipationis, ma i principi, di pari rango, di efficacia, economicità ed efficienza dell’azione amministrativa, che si concretano, in una procedura a evidenza pubblica, nell’esigenza dell’amministrazione di ottenere, nel complesso, la garanzia di una prestazione che si collochi al livello richiesto nella legge di gara, secondo il ruolo operativo che ciascuna delle imprese associate si è autonomamente assegnata in sede di partecipazione, e che, operando ex ante, non può essere rimessa, come pure ritiene la ricorrente, alla sola cauzione definitiva.
Per le stesse ragioni appena esposte è altresì ininfluente sia che le società facenti parte del RTI Ci.Fo. fossero in possesso dei requisiti previsti dalla lex specialis per partecipare alla gara anche in forma orizzontale, in quanto non si tratta qui di stabilire in astratto la possibilità di tali imprese di partecipare alla gara, bensì di verificare la ritualità della modalità, evidentemente immodificabile (trattandosi di elemento essenziale, anche a mezzo del soccorso istruttorio), con cui esse vi hanno partecipato in concreto, sia la questione, di puro fatto, afferente il rilevante distacco tra il punteggio conseguito dalle offerte delle due partecipanti nella graduatoria di merito della procedura.
Quanto, infine, al principio della tassatività delle cause di esclusione, la Sezione può limitarsi a richiamare quanto rilevato dal giudice di primo grado, in ordine alla circostanza che la già evidenziata essenzialità della corrispondenza tra suddivisione delle prestazioni da parte della stazione appaltante e possibilità di partecipazione di un raggruppamento di tipo verticale, direttamente prevista dal Codice dei contrati pubblici, legittima l’integrazione ex lege delle regole di gara.

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Reato di scarico di acque reflue industriali - Officina meccanica e autolavaggio veicoli - Natura di insediamenti produttivi - Assimilabilità agli scarichi civili - Esclusione - Assenza di autorizzazione o scaduta - Art. 137, d.lgs. n. 152/2006.
Lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche (Sez. 3, n. 51889 del 21/07/2016; Sez. 3, n. 26543 del 21/05/2008; Sez. 3, n. 985 del 05/12/2003; Sez. 3, n. 5465 del 26/03/1999, secondo cui gli impianti di autolavaggio hanno natura di insediamenti produttivi in quanto utilizzano in grande quantità e continuità non solo detersivi ma anche altri materiali che interagiscono nelle operazioni di lavaggio dando luogo ad un inquinamento chimico ripetuto e costante).
Ne consegue che non è possibile configurare una assimilabilità degli stessi agli scarichi civili provenienti da insediamenti abitativi e caratterizzati da uso limitato di detersivi. Inoltre, l'art. 124, comma 8, d.lgs. n. 152 del 2006, consente il mantenimento provvisorio degli scarichi per i quali sia stato chiesto "tempestivamente" il rinnovo dell'autorizzazione.

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Reato ambientale - Scarico di acque reflue industriali senza autorizzazione - Inapplicabilità della circostanza attenuante o diminuente per successivo rilascio dell'autorizzazione - Giurisprudenza.
Al reato di scarico di acque reflue industriali senza autorizzazione non è applicabile la circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., perché la stessa è incompatibile con la natura contravvenzionale e di pericolo della fattispecie di cui all'art. 137 D.Lgs. n. 152 del 2006, rispetto alla quale non trova applicazione nemmeno la diminuente di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. in caso di successivo rilascio dell'autorizzazione, in quanto il conseguimento del titolo abilitativo non comporta di per sé l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze del reato ambientale, avendo solo l'effetto di rendere lecita la condotta successiva (Sez. 3, n. 3199 del 02/10/2014) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 04.04.2019 n. 14762 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Effluenti di allevamento - Fertirrigazione - Presupposti - AGRICOLTURA E ZOOTECNIA - Utilizzazione agronomica - Esistenza effettiva di colture - D.M. 25/02/2016 - Giurisprudenza.
Ai fini della sottrazione delle deiezioni animali dalla normativa sui rifiuti è necessario che la loro utilizzazione in agricoltura avvenga nel rispetto delle condizioni di liceità indicate dal D.M. 07.04.2006 (oggi D.M. 25.02.2016) e della normativa regionale (Sez. 3, n. 9104 del 15/01/2008, Manunta).
La pratica della fertirrigazione, inoltre, prevede l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo spandimento, nonché l'adeguatezza di quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture e, in secondo luogo, l'assenza di dati sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione (Sez. 3, n. 40782 del 06/05/2015, Valigi)
(Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 04.04.2019 n. 14760 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Abbandono di rifiuti - Obbligo giuridico di impedire l'evento - Esclusione - Condotta omissiva da parte del proprietario del terreno - Responsabilità in caso di inerzia - Presupposti e limiti - Inottemperanza all'ordinanza di rimozione - Artt. 255 e 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, la semplice inerzia conseguente all'abbandono da parte di terzi o la consapevolezza, da parte del proprietario del fondo, di tale condotta da altri posta in essere, non sono idonee a configurare il reato e ciò sul presupposto che una condotta omissiva può dare luogo a ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi del comma secondo dell'art. 40 cod. pen., ovvero sussista l'obbligo giuridico di impedire l'evento.
A tali conclusioni deve pervenirsi anche nel caso in cui il proprietario del terreno non si attivi per la rimozione dei rifiuti, in quanto la responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che questi può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Inoltre, l'obbligo giuridico di impedire l'evento, non può certamente essere ravvisato nell'inottemperanza all'ordinanza di rimozione, provvedimento successivo all'abbandono, che presuppone, infatti, il previo accertamento dello stesso e l'inosservanza del quale configura autonomo reato, sanzionato dall'art. 255, comma 3, d.lgs. 152/2006
(cfr. Sez. 3, n. 39430 del 12/06/2018, Pavan).

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RIFIUTI - Mancata indicazione degli articoli di legge violati - Irrilevanza - Esercizio del diritto di difesa.
In materia di rifiuti, la mancata indicazione degli articoli di legge violati è irrilevante quando il fatto addebitato sia puntualmente e dettagliatamente esposto, in modo tale che non possa insorgere alcun equivoco sul pieno esercizio del diritto di difesa (Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013 (dep. 2014), Russo ed altre prec. conf.) e, nei ricorsi, la lesione dell'esercizio del diritto di difesa viene apoditticamente censurata, senza tuttavia fornire alcuna indicazione concreta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.03.2019 n. 13606 - link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVORO: Cassazione: al direttore dei lavori compete l'alta sorveglianza delle opere. Tale sorveglianza, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta comunque il controllo della realizzazione dell'opera nelle sue varie fasi.
Con l'ordinanza 14.03.2019 n. 7336, la II Sez. civile della Corte di Cassazione ha ribadito il suo costante orientamento secondo cui, “
in tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell'opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della "diligentia quam in concreto"; rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi”.
Pertanto, non si sottrae a responsabilità “
il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al committente; in particolare l'attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell'alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta comunque il controllo della realizzazione dell'opera nelle sue varie fasi e pertanto l'obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell'arte e la corrispondenza dei materiali impiegati” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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SENTENZA
IV. L'ottavo motivo del ricorso R.G. 3038/2014 deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1176 cpv., 1218, 2226 e 2236 c.c., quanto all'adempimento della prestazione dovuta dal direttore dei lavori architetto Ma.Gi..
IV.1. Anche questa censura è fondata.
La Corte d'Appello di Torino ha sostenuto che, quanto agli accertati vizi e difformità "di poco momento" dei lavori edili eseguiti dall'impresa Scafidi (avendo compromesso meno di 1/10 del totale delle opere), non vi fosse corresponsabilità del direttore dei lavori, non essendo lo stesso "tenuto ad essere costantemente presente in cantiere e a rilevare tutto quanto eseguito (come al microscopio)", ed essendo perciò da imputare soltanto all'appaltatore le manchevolezze accertate.
I ricorrenti evidenziano come tali difetti accertati consistano nel cattivo funzionamento della fossa biologica e nell'errata contabilizzazione dello sbancamento del cortile.
Va qui ribadito il costante orientamento di questa Corte (del quale non ha tenuto conto la sentenza impugnata, non avendo svolto la corretta sussunzione delle risultanze di causa in tali principi giurisprudenziali), secondo cui,
in tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell'opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della "diligentia quam in concreto"; rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi.
Non si sottrae, dunque, a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al committente; in particolare l'attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell'alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta comunque il controllo della realizzazione dell'opera nelle sua varie fasi e pertanto l'obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell'arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (Cass. Sez. 2, 03/05/2016, n. 8700; Cass. Sez. 2, 24/04/2008, n. 10728; Cass. Sez. 2, 27/02/2006, n. 4366; Cass. Sez. 2, 20/07/2005, n. 15255).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva - Esistenza di un precedente giudicato assolutorio – Principio di autonomia dei giudizi – Progresso edificatorio – Fatto nuovo – Fattispecie.
In tema di lottizzazione abusiva, l’esistenza di un precedente giudicato assolutorio non interdice né condiziona le valutazioni che in un diverso successivo processo il giudice deve compiere relativamente allo stesso tipo di reato riferito alla stessa area, quando per effetto della costruzione di altri fabbricati e di nuove opere di urbanizzazione abusiva i medesimi luoghi abbiano subito una trasformazione ulteriore rispetto allo stato che costituiva l’oggetto del precedente giudizio.
Infatti quando ciò accade, indipendentemente dal principio di autonomia dei giudizi, ‘‘il progresso edificatorio“ e degli interventi di urbanizzazione abusivi nella stessa area, da un punto di vista processuale configura un fatto nuovo (fattispecie relativa ad un’area di campagna che a partire dagli anni ’90 al 2013, attraverso una serie inarrestata di lottizzazioni cartolari e materiali, in poco tempo aveva di fatto trasformato la destinazione urbanistica a verde agricolo, impressa dal PRG, in residenziale, con tanto di impianti e di opere di urbanizzazione al servizio delle abitazioni e di nuova toponomastica. Una precedente sentenza, che aveva ad oggetto lo stato dei luoghi nel 2005, non aveva riconosciuto la sussistenza di una lottizzazione abusiva).

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DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reato di violazione dei sigilli connesso alla prosecuzione della costruzione abusiva – Computo della prescrizione – Regime probatorio.
Ai fini del computo della prescrizione del reato di violazione dei sigilli connesso alla prosecuzione della costruzione abusiva vale il medesimo regime probatorio; è pacifico, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che grava sull'imputato che voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con quella di esecuzione dell'opera incriminata.
Tale onere probatorio, peraltro, non può ritenersi assolto attraverso fonti dichiarative ma presuppone la dimostrazione attraverso elementi di prova documentali -fatture di acquisto di materiali edili; rilievi fotografici attestanti lo stato dei luoghi alla data della asserita retrodatazione; etc.- che consentano di supportare la prospettazione difensiva in ordine all’epoca di consumazione del reato in data antecedente a quella risultante dalla contestazione mossa dal PM
(TRIBUNALE di Palermo, Sez. III penale, sentenza 19.02.2019 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAl fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale delle opere medesime, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere in modo adeguato l’impatto effettivo degli interventi compiuti.
I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati cioè in maniera “frazionata”.
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Di seguito si formulano talune considerazioni specifiche sulle opere realizzate anche “singolarmente considerate”, in particolare circa la modifica di alcuni vani porta-finestra in finestra, e viceversa e sulle canne fumarie.
Sul primo aspetto, relativo alla modifica dei prospetti, occorre operare una distinzione tra i concetti di sagoma e prospetto.
Il primo, riguarda la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro, considerato in senso verticale e orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli oggetti e gli sporti; il secondo individua gli sviluppi in verticale dell’edificio e quindi la facciata dello stesso, rientrando nella fattispecie anche le aperture presenti sulle pareti esterne. Attengono al prospetto gli interventi che modificano l’originaria conformazione estetico architettonica dell’edificio, realizzati sulla facciata o sulle pareti esterne del fabbricato, senza superfici sporgenti.
La modifica dei prospetti, pertanto, deve considerarsi quale intervento edilizio autonomo, riconducibile (sempre avendo riguardo alla disciplina applicabile applicando il principio “tempus regit actum”), al “genus” della ristrutturazione edilizia, riscontrabile in fattispecie quali apertura di nuove finestre, chiusura di quelle preesistenti e loro apertura in altre parti; nella apertura di una nuova porta di ingresso sulla facciata dell’edificio o comunque su una parete esterna dello stesso; nella trasformazione di vani finestra in altrettante porte–finestre..
Al contrario, non sarebbe da ricondursi a tale tipologia di intervento tutto ciò che, pur riguardando la facciata dell’edificio, non ha rilievo edilizio, o si concretizza nel rinnovamento o nella sostituzione delle finiture dell’immobile, nell’integrazione o nel mantenimento in efficienza degli impianti tecnologici esistenti, o che si sostanzia in interventi interni al fabbricato.
Dunque, gli interventi comportanti modifiche dei prospetti descritti nella fattispecie rientrano nella tipologia, applicabile “ratione temporis”, della ristrutturazione edilizia e, in quanto tali, richiedono il rilascio del permesso di costruire.
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Sul tema “canne fumarie”, e sulla necessità di un permesso di costruire qualora l’impatto sia significativo, va rammentata la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto.
Invero, è necessario il previo rilascio del permesso di costruire, rientrandosi nella categoria dei lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, qualora tali strutture non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile.
Si ritiene occorrente il permesso di costruire tutte le volte in cui venga in rilievo un intervento il quale, per dimensioni, altezza e conformazione, risulti incidere in modo significativo sul prospetto e sulla sagoma della costruzione sulla quale la canna fumaria è installata; mentre soltanto l’intervento di mera sostituzione di una canna fumaria (ma non è questo il nostro caso), con le stesse dimensioni e identica localizzazione rispetto alla precedente, va considerato di manutenzione straordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
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4.2. Sulla qualificazione da dare agli interventi eseguiti, inerenti, giova rammentarlo, alla realizzazione di:
   - “manufatto in legno di mt. 3,00 x 4,00 adibito a deposito attrezzi, legnaia in muratura di mt. 3,00 x 0,67,
   - modifica di alcuni vani porta-finestra in finestra e viceversa,
   - sul prospetto ovest due canne fumarie di cui una in muratura e l’altra in rame,
   - sul prospetto est una struttura orizzontale in legno di mt. 7,40 x 4,30 su un lato e mt. 3,40 x 1,40 sull’altro adibita a tettoia e terrazza,
   - strada di mt. 135 circa, piazzale in betonelle, marciapiede lungo il perimetro dell’edificio
“,
in termini generale va ricordato che l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo applicabile “ratione temporis” alla fattispecie in esame, dispone che "interventi di ristrutturazione edilizia" (sono) gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e (ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente), fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.
L’art. 10 del t.u. edilizia, nel testo applicabile “ratione temporis”, stabilisce a sua volta che “costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia [che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e)] che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso”.
Ciò premesso sul piano normativo, sempre in via preliminare va considerato che il TAR ha correttamente preso in esame dette opere, realizzate su un’area assoggettata a vincolo paesistico, nel loro “insieme sistematico”, che porta “ad un organismo in tutto od in parte diverso dal precedente” incidendo in modo tutt’altro che irrilevante sulla consistenza volumetrica, sulla sagoma e sui prospetti dell’edificio preesistente, confermando nella sostanza la qualificazione che ne aveva dato l’Amministrazione comunale.
Questo perché, prima di tutto, al fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale delle opere medesime, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere in modo adeguato l’impatto effettivo degli interventi compiuti.
I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati cioè in maniera “frazionata”.
Essi, al contrario, nel –peculiare, invero- contesto qui in discussione, debbono essere vagliati in un quadro di insieme, e non segmentato.
Ciò non toglie che si possano, qui di seguito, formulare talune considerazioni specifiche sulle opere realizzate anche “singolarmente considerate”, in particolare circa la modifica di alcuni vani porta-finestra in finestra, e viceversa, profilo sul quale sembra appuntarsi l’attenzione degli appellanti, specie in memoria, e sulle canne fumarie.
Sul primo aspetto, relativo alla modifica dei prospetti, occorre operare una distinzione tra i concetti di sagoma e prospetto. Il primo, riguarda la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro, considerato in senso verticale e orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli oggetti e gli sporti; il secondo individua gli sviluppi in verticale dell’edificio e quindi la facciata dello stesso, rientrando nella fattispecie anche le aperture presenti sulle pareti esterne. Attengono al prospetto gli interventi che modificano l’originaria conformazione estetico architettonica dell’edificio, realizzati sulla facciata o sulle pareti esterne del fabbricato, senza superfici sporgenti.
La modifica dei prospetti, pertanto, deve considerarsi quale intervento edilizio autonomo, riconducibile (sempre avendo riguardo alla disciplina applicabile applicando il principio “tempus regit actum”), al “genus” della ristrutturazione edilizia, riscontrabile in fattispecie quali apertura di nuove finestre, chiusura di quelle preesistenti e loro apertura in altre parti; nella apertura di una nuova porta di ingresso sulla facciata dell’edificio o comunque su una parete esterna dello stesso; nella trasformazione di vani finestra in altrettante porte–finestre (in tema di modifiche di prospetti e necessità di permesso di costruire v. Cass. pen. nn. 921/2017, 20846/2015, 30575/2014, 38338/2013, 834/2008).
Al contrario, non sarebbe da ricondursi a tale tipologia di intervento tutto ciò che, pur riguardando la facciata dell’edificio, non ha rilievo edilizio, o si concretizza nel rinnovamento o nella sostituzione delle finiture dell’immobile, nell’integrazione o nel mantenimento in efficienza degli impianti tecnologici esistenti, o che si sostanzia in interventi interni al fabbricato.
Ma non è questo il nostro caso e, sotto detta angolazione, come rilevato sopra al p. 1., in tema di opere interne e impianti tecnologici (alloggiamento dell’autoclave e della caldaia), il TAR ha accolto in parte i ricorsi, con statuizioni sulle quali è sceso il giudicato.
Dunque, gli interventi comportanti modifiche dei prospetti descritti nella fattispecie rientrano nella tipologia, applicabile “ratione temporis”, della ristrutturazione edilizia e, in quanto tali, richiedono il rilascio del permesso di costruire, sicché le sentenze impugnate, sul punto, sono corrette e vanno confermate.
L’intervento di modifica di alcuni vani porta–finestra in finestra e viceversa, già di per sé qualificabile come intervento di ristrutturazione da assoggettare a permesso di costruire, è stato accompagnato, come si è detto sopra, da una serie di opere ulteriori che, come si è anticipato, il TAR ha correttamente considerato nel loro insieme.
In relazione al principio “tempus regit actum” non può quindi trovare applicazione la sopravvenuta “normativa mitigatrice” di cui al d.P.R. n. 31/2017, salve rimanendo ovviamente eventuali iniziative autonome che parte appellante riterrà di assumere alla luce della normativa sopravvenuta più favorevole.
Sul tema “canne fumarie”, e sulla necessità, sempre “ratione temporis”, di un permesso di costruire qualora l’impatto sia significativo, va rammentata la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto.
Per Cons. Stato, VI, n. 553 del 2016, è necessario il previo rilascio del permesso di costruire, rientrandosi nella categoria dei lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, qualora tali strutture non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile.
Si ritiene occorrente il permesso di costruire tutte le volte in cui venga in rilievo un intervento il quale, per dimensioni, altezza e conformazione, risulti incidere in modo significativo sul prospetto e sulla sagoma della costruzione sulla quale la canna fumaria è installata; mentre soltanto l’intervento di mera sostituzione di una canna fumaria (ma non è questo il nostro caso), con le stesse dimensioni e identica localizzazione rispetto alla precedente, va considerato di manutenzione straordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Data l’incidenza delle canne fumarie e l’esigenza di valutare gli interventi nell’insieme, dunque, la statuizione del TAR sul punto risulta corretta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.02.2019 n. 902 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente) quando si tratti di un "manufatto edilizio".
Fatta salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera come, ad esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma.
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Nemmeno può poi trovare accoglimento la deduzione secondo la quale, nel caso in esame, circa il deposito attrezzi, la legnaia e la tettoia, verrebbero in considerazione opere di natura pertinenziale.
Vengono invece in rilievo manufatti che, per consistenza e tipologia, hanno comportato una trasformazione del territorio e del suolo non irrilevante e che in modo corretto sono stati fatti ricadere nella categoria degli interventi che richiedono il permesso di costruire ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In proposito, più volte questo Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica (cfr. Cons. St., Sez. VI, 02.01.2018, n. 24, 02.02.2017, n. 694, 04.01.2016, n. 19, 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012).
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.).
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente) quando si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952). Fatta salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera come, ad esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Esaminando da vicino la fattispecie, anche alla luce della documentazione in atti, il carattere pertinenziale delle opere sembra escluso proprio in ragione delle caratteristiche dei manufatti e della considerazione e valutazione degli stessi compiuta in maniera globale e unitaria dalla pubblica autorità.
Evidente, poi, la trasformazione del territorio e, comunque, l’alterazione dello stato dei luoghi legata alla realizzazione di strada, marciapiedi e piazzale.
Di qui, la correttezza della decisione comunale, avallata nelle sentenze impugnate, di applicare la sanzione della demolizione di cui all’art. 31 del t.u. n. 380 del 2001 (a differenza di quanto sostiene la parte appellante, la quale invoca, implicitamente ma non per questo meno sicuramente, la irrogazione di una sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37 del t.u. dell’edilizia, considerando inapplicabile il regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del t.u. medesimo) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.02.2019 n. 902 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

INCARICHI PROGETTUALIPrestazione professionale senza iscrizione all'Albo: niente compenso. Cassazione: è irrilevante la circostanza che l’elaborato sia controfirmato da un altro professionista competente in materia.
Con l'ordinanza 24.01.2019 n. 2038, la Corte di Cassazione -Sez. II civile- ha confermato che l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale, effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, in contrario non rilevando la circostanza che il progetto dell'opera realizzando risulti redatto da altro professionista (un ingegnere) cui quello incaricato (un geometra) si sia al riguardo rivolto, dal personale possesso del titolo abilitante da parte di quest'ultimo dipendendo la validità del negozio.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale della suprema Corte, ricorda la sentenza, “la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri e degli architetti sono illegittime, cosicché a rendere legittimo un progetto redatto da un geometra non rileva che esso sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere, altresì, titolare della progettazione, trattandosi di incombenze che devono essere inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
10. Con il quinto motivo, il ricorrente Lo.Sa., lamentando la violazione e l'erronea interpretazione ed applicazione dell'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929, dell'art. 17 della l. n. 64 del 1974, dell'art. 2 della l. n. 1086 del 1981 nonché degli artt. 1418 e 2231 c.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello ha rigettato la domanda riconvenzionale proposta ritenendo che il contratto di prestazione d'opera professionale stipulato da un geometra, tutte le volte in cui il progetto prevede l'adozione, anche in minima parte, di strutture in cemento armato in una futura costruzione civile, è nullo ai sensi dell'art. 1418 c.c., per violazione di una norma imperativa, e non dà diritto ad alcun compenso, laddove, al contrario, in base alle norme previste dal r.d. n. 274 del 1929, che disciplina le competenze professionali del geometra, dalla l. n. 144 del 1949, che ha approvato la relativa tariffa, dal r.d. n. 2229 del 1939, dalla successiva l. n. 1086 del 1971 e dalla l. n. 64 del 1964, rientra nella competenza dei geometri anche la progettazione di costruzioni di cemento armato, purché, secondo un'indagine da svolgere caso per caso, tali costruzioni, sotto il profilo tecnico-qualitativo, rientrino, per i problemi tecnici che implicano, nella loro competenza professionale, al pari della direzione dei relativi lavori, e che, secondo il criterio economico-quantitativo, non comportino pericoli per l'incolumità pubblica.
11. Il motivo è infondato.
Il ricorrente, infatti, ha riproposto argomenti già più volte esaminati e disattesi dal
la giurisprudenza civile di questa Corte, la quale ha costantemente evidenziato come ai geometri sia solo consentita, ai sensi della norma contenuta nell'art. 16, lett. m), del r.d. n. 274 del 1929, la progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione in ogni caso di opere che prevedono l'impiego di strutture in cemento armato, a meno che non si tratti di piccoli manufatti accessori, nell'ambito di fabbricati agricoli o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per l'incolumità pubblica.
Peraltro, trattandosi di una scelta inequivoca del legislatore dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse,
i limitati margini di discrezionalità accordati all'interprete attengono soltanto alla valutazione dei requisiti della modestia delle costruzioni, della non necessità di complesse operazioni di calcolo ed all'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, mentre invece, per l'altra condizione, costituita dalla natura di annesso agricolo o industriale agricolo dei manufatti, eccezionalmente progettabili dagli anzidetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato, non vi sono margini di sorta, attesa la chiarezza e tassatività del precetto normativo, esigente un preciso requisito (la suddetta destinazione), che o c'è o non c'è.
Disattesa, per le suesposte considerazioni, la possibilità di un'interpretazione estensiva della citata disposizione, deve altresì escludersi, ai sensi dell'art. 14 disp. gen., l'applicabilità analogica della deroga, contenuta nell'art 16, lett. m), del r.d. cit., al generale divieto di progettazione di opere in cemento armato, in considerazione della evidenziata natura eccezionale della norma, che pertanto non si presta, de iure condito, ad adattamenti di tipo "evolutivo", quale che sia la meritevolezza delle esigenze al riguardo prospettate.
Va ancora precisato, per completezza, che di nessun apporto alla suddetta tesi è il richiamo alle previsioni contenute nei testi normativi disciplinanti le costruzioni in cemento armato e quelle nelle zone sismiche, considerato che sia l'art. 2 della l. n. 1086 del 1971, sia l'art. 17 della l. n. 64 del 1974 fanno riferimento, per quanto attiene alla progettazioni in questione da parte delle varie categorie di professionisti, ai limiti delle rispettive competenze, così chiaramente rinviando, senza introdurre autonomi ed innovativi criteri attributivi di competenza, alle previgenti rispettive normative professionali di riferimento, tra le quali, dunque, per quanto riguarda i geometri, quella in precedenza esaminata, che è rimasta immutata (Cass. n. 19292 del 2009; conf., Cass. n. 27441 del 2006; Cass. n. 6649 del 2005; Cass. n. 3021 del 2005; Cass. n. 5961 del 2004; Cass. n. 15327 del 2000; Cass. n. 5873 del 2000; Cass. n. 3046 del 1999; Cass. n. 1157 del 1996).
Ne
consegue la nullità del contratto di affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, trattandosi di attività demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929 (Cass. n. 5871 del 2016; Cass. n. 19989 del 2013, per cui il contratto di progettazione e direzione dei lavori relativo a costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato stipulato da un geometra anteriormente all'abrogazione -ad opera del d.lgs. n. 212 del 2010- del r.d. n. 2229 del 1939, è nullo in quanto contrario a norme imperative, sul rilievo che la menzionata abrogazione, comportando l'introduzione di una disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa previgente, non ha prodotto effetti retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non ha, dunque, influito sulla invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in cui lo stesso è stato concluso).
La decisione impugnata è, dunque, sul punto giuridicamente corretta: la corte d'appello, infatti, dopo aver accertato, in fatto, che l'edificio progettato dal ricorrente era destinato ad abitazione e richiedeva la realizzazione di opere in cemento armato, ha giustamente ritenuto la nullità del relativo contatto trattandosi di progetto redatto da un geometra in materia estranea alla relativa competenza professionale.
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14. Con il settimo motivo, il ricorrente Lo.Sa., lamentando la violazione e l'erronea interpretazione ed applicazione dell'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929, dell'art. 17 della l. n. 64 del 1974, dell'art. 2 della l. n. 1086 del 1981 nonché degli artt. 1418 e 2231 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello, in accoglimento dell'eccezione di nullità contrattuale, ha rigettato la domanda riconvenzionale proposta ritenendo irrilevante che l'attività di progettazione e di direzione dei lavori delle strutture in cemento armato fosse stata eseguita, in accordo con i committenti, dall'arch.
Da., laddove, in realtà, ove il tecnico laureto abbia assunto, in modo esplicito, sia nei confronti del committente privato, che della pubblica amministrazione, la responsabilità per tutti quei profili che nell'ottica della tutela della pubblica incolumità richiedono specificamente il suo intervento, la normativa di legge sulle competenze professionali non può dirsi violata.
15. Il motivo è infondato.
Escluso, infatti, per quanto in precedenza esposto, ogni rilievo ai fatti che la sentenza non ha espressamente rappresentato quali oggetto del suo accertamento, non avendo il ricorrente dedotto il come e il quando ne avesse fatto allegazione nel corso del giudizio di merito, la Corte non può che ribadire il principio per cui il progetto redatto da un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri è illegittimo, a nulla rilevando né che sia stato controfirmato da un ingegnere, né che un ingegnere abbia eseguito i calcoli del cemento armato e diretto le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere, altresì, titolare della progettazione, assumendosi la relativa responsabilità.
Ne consegue che, nella suddetta ipotesi, il rapporto tra il geometra ed il cliente è radicalmente nullo ed al primo non spetta alcun compenso per l'opera svolta, ai sensi dell'art. 2231 c.c. (Cass. n. 6402 del 2011).
È appena il caso di ricordare che nell'ambito della disciplina normativa sopra evidenziato, dal quale emerge una chiara ripartizione di competenze tra geometri ed altri professionisti in riferimento alla progettazione ed alla direzione di opere relative a costruzioni ed edifici, trova fondamento l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, secondo cui la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri e degli architetti sono illegittime, cosicché a rendere legittimo un progetto redatto da un geometra non rileva che esso sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere, altresì, titolare della progettazione, trattandosi di incombenze che devono essere inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
Anche per tale ragione, dunque, correttamente la sentenza impugnata ha concluso per la nullità del contratto (Cass. n. 3021 del 2005, secondo cui,
per il disposto dell'art. 2231 c.c., l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, in contrario non rilevando la circostanza che il progetto dell'opera realizzando risulti redatto da altro professionista (nel caso, un ingegnere) cui quello incaricato (nel caso, un geometra) si sia al riguardo rivolto, dal personale possesso del titolo abilitante da parte di quest'ultimo dipendendo la validità del negozio).

EDILIZIA PRIVATA - VARIIl promissario acquirente si rifiuta legittimamente di perfezionare l'atto di trasferimento dell'appartamento privo della certificazione di abitabilità..
Il rifiuto del promissario acquirente di stipulare il contratto di compravendita definitivo di un immobile privo dei certificati di agibilità, abitabilità e di conformità alla concessione edilizia, anche se il mancato rilascio dipende dall'inerzia del Comune, è giustificato in quanto l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà dell'immobile idoneo ad assolvere alla funzione economico-sociale e a soddisfare bisogni che inducono all'acquisto, per cui tali certificati risultano essenziali.
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Con l'unico motivo di ricorso si lamenta la falsa applicazione ed estensione al contratto preliminare delle norme disciplinanti il contratto di compravendita, in particolare degli artt. 1470 e 1477 c.c., in relazione all'art. 360, 1° comma, n. 3 c.p.c..
Afferma la ricorrente che la Corte territoriale ha errato nell'applicare al caso di specie le predette norme che, in quanto dettate per il contratto di compravendita, possono operare solo a seguito della stipulazione del definitivo, e non anche per effetto della conclusione del contratto preliminare.
Le obbligazioni gravanti sul venditore, tra le quali rientra anche quella della consegna della cosa oggetto della compravendita, dei titoli e dei documenti relativi alla proprietà della cosa venduta, vanno eseguite al momento della stipula del definitivo, non potendosene esigere l'adempimento nella fase precedente.
Il ricorso deve essere rigettato.
In tal senso rileva che, con accertamento in fatto i i giudici di appello hanno ritenuto che la ricorrente avesse garantito la totale regolarità urbanistica dell'immobile, e che quindi "avrebbe dovuto fornire al promissario acquirente la documentazione attestante tale regolarità", documentazione in cui rientra inequivocabilmente anche il certificato di abitabilità, ritenendo che tale obbligo fosse consequenziale all'assunzione della garanzia quanto alla regolarità urbanistica del bene.
Peraltro è consolidato orientamento di questa Corte quello per cui
il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di agibilità e di conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato rilascio dipende da inerzia del Comune -nei cui confronti, peraltro, è obbligato ad attivarsi il promittente venditore- è giustificato, ancorché anteriore all'entrata in vigore della legge 28.02.1985, n. 47, perché l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene, per cui i predetti certificati devono ritenersi essenziali (Cass. nn. 10820/2009 e 15969/2000).
Nella vendita di immobile destinato ad abitazione, il certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto, come ricorda Cass. n. 1514/2006, al punto tale che esso è in grado di incidere sull'attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico-sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità.
D'altronde, ed anche prima della formale stipula del definitivo, si è affermato che (cfr. Cass. n. 13969/2006) nel caso in cui il preliminare preveda la consegna anticipata del bene, rientra tra le obbligazioni gravanti sul promittente venditore anche quella di allegare il certificato di abitabilità dell'immobile contestualmente alla consegna dell'appartamento, nel caso in cui sia anche anticipato il pagamento del prezzo (conf. Cass. n. 4513/2001).
In tale ottica, reputa il Collegio che non possa essere censurata la valutazione compiuta dai giudici di appello circa l'attualità dell'obbligo della ricorrente di dover consegnare il certificato in questione, attese le reiterate richieste di parte intimata, così come comprovate dall'istruttoria svolta, ed avvenute in prossimità proprio della scadenza del termine per la stipula del definitivo, e con il chiaro intento quindi di mettere a disposizione del notaio rogante tutta la documentazione idonea ad assicurare la verifica circa la regolarità urbanistica del bene.
Trattasi di soluzione che costituisce a ben vedere una piana applicazione del principio della buona fede.
Al riguardo può richiamarsi quanto ritenuto in passato da questa Corte (cfr. Cass. n. 20399/2004, Cass. n. 13345/2006), secondo cui
in tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase, sicché la clausola generale di buona fede e correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione di un contratto (art. 1375 cod. civ.), concretizzandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto.
La buona fede, pertanto, si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del "neminem laedere", senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell'altra parte (nel precedente del 2004 è stata confermata la sentenza della Corte d'Appello che, in relazione all'esecuzione di un contratto preliminare di vendita immobiliare antecedente l'entrata in vigore della legge n. 47 del 1985, aveva ritenuto inadempienti i promittenti venditori in quanto essi non avevano proceduto a sanare l'immobile, abusivamente costruito, e ad acquisire il relativo certificato di abitabilità, e ciò aveva fatto sebbene tale condotta omissiva non fosse stata esplicitamente sanzionata nell'accordo negoziale).
Ad avviso del Collegio,
a fronte di un'assunzione della garanzia circa la regolarità urbanistica del bene, se, come dedotto in ricorso, il certificato de quo era già esistente, l'omessa risposta alle richieste di consegna dello stesso da parte del promissario acquirente in epoca prossima alla scadenza del termine previsto per la stipula del definitivo, allorquando quindi si palesava la necessità di entrarne in possesso, costituisce comportamento evidentemente contrario ai principi di buona fede, laddove allo stesso abbia fatto poi seguito la dichiarazione di recesso della promittente venditrice sul presupposto del mancato rispetto del termine de quo, e giustifica quindi l'accoglimento della domanda di risoluzione per inadempimento della ricorrente (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 14.01.2019 n. 622).

EDILIZIA PRIVATAComodato verbale per le agevolazioni.
Per accedere alle detrazioni relative a spese di ristrutturazione di un immobile, non è necessario che sia registrato il contratto di comodato gratuito in virtù del quale i soggetti che effettuino quegli interventi hanno la disponibilità dell'immobile stesso, nel quale oltretutto vivono.

È il principio che si legge nella sentenza 23.08.2018 n. 282/1/2018 emessa dalla prima sezione della Ctp di Varese chiamata a giudicare su un ricorso proposto da due coniugi avverso una cartella di pagamento successiva a controlli automatici con cui l'ufficio aveva disconosciuto ai due l'applicazione delle detrazioni per ristrutturazioni immobiliari dagli stessi effettuate.
Secondo i ricorrenti, che rappresentavano di vivere sin dal giorno del matrimonio in un immobile di proprietà dei genitori della donna, in virtù di un comodato gratuito, pur non registrato, il diritto di fruire delle agevolazioni per gli interventi di risparmio energetico attuati sull'abitazione spettava loro in ogni caso. Il diritto alla detrazione, infatti, non doveva ritenersi subordinato alla registrazione di un contratto di comodato, come invece sostenuto dall'ufficio.
La Ctp condivideva la tesi dei ricorrenti, peraltro richiamando anche altra giurisprudenza di merito, in particolare della Ctr Emilia Romagna (sent. 2914/3/2016), dalla quale si evince espressamente che anche il contratto di comodato concluso solo verbalmente e non registrato dà diritto alla detrazione per spese di ristrutturazione. Quest'ultima spetta, infatti, a fronte della detenzione, del possesso o della disponibilità dell'immobile e non ne rappresenta un presupposto la necessità di registrazione del contratto di comodato a monte. Tale opinione è ormai accolta dalla giurisprudenza delle commissioni tributarie.
Si richiama, all'uopo, anche la Ctp di Como (sent. 43/5/2013) che ha affermato che, ai fini agevolativi, sono irrilevanti il titolo giuridico (proprietà, o altro diritto reale, o contratto ad effetti obbligatori) e la forma del contratto (scritta o verbale) in base al quale il contribuente che ha sostenuto quelle spese di ristrutturazione detiene l'immobile.
Nel caso di specie, tuttavia, se infondata era sul punto l'eccezione di mancata registrazione del comodato sollevata dall'ufficio, nel merito i ricorsi venivano comunque respinti poiché i lavori non riguardavano interventi su immobile esistente ma erano tesi ad un aumento di volumi, quindi a una nuova costruzione non agevolabile..
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Con ricorsi riuniti nn. 586 e 688/2017 depositati in data rispettivamente 23/10/2017 e 01.12.2017, deposito dì documenti in data 17.05.2018 e memoria 28/05/2018 P.M.-M.L. si opponevano alle cartelle di pagamento (…) con le quali l'Agenzia delle Entrate di Varese per l'anno di imposta 2012 a seguito di controllo automatizzato non aveva riconosciuto le detrazioni per interventi di ristrutturazione per interventi finalizzati al risparmio energetico e per l'arredo degli immobili ristrutturati: precisavano i ricorrenti che l'Agenzia aveva agito per tre motivi: 1 - nessuna titolarità dell'immobile; 2 - lavori inquadrabili come nuova costruzione; 3 - mancanza di prova dell'esistenza dì riscaldamento; eccepivano: 1 - dal momento del matrimonio vivevano nell'immobile di proprietà dei genitori di M. per comodato gratuito che, anche se non registrato, è idoneo a dare il diritto alla detrazione; 2 - si tratta di sopraelevazione che è considerata ristrutturazione anche se c'è aumento di volumetria perché quest'ultimo è funzionale alla sopraelevazione; 3 - fornivano la prova dello smaltimento della vecchia stufa esistente; depositavano perizia dell'arch. Z. circa l'aumento di volumetria; chiedevano raccoglimento del ricorso, previa sospensione respinta per entrambi i
ricorsi prima della riunione degli stessi. Si costituiva l'Agenzia in data 02.11.2017 quanto a RG 586 e 12/01/2018 quanto a RG 688 precisando che 1- il contratto deve essere registrato; (…)
Quanto alla questione relativa alla necessità di registrazione del contratto di comodato, la Commissione ritiene che la stessa non sia necessaria: non esiste infatti nessuna norma che impone la registrazione del contratto di comodato d'uso per usufruire delle detrazioni, ma solo una prassi (errata) adottata dall'Agenzia delle Entrate che non deve essere considerata vincolante per i contribuenti. In base alla Legge 296/2006 e al dm 19.02.2007 per accedere alla detrazione gli aspetti da considerare sono la detenzione, il possesso e la disponibilità dell'immobile (cfr. Ctr. Emilia-Romagna 2914/3/2016). Sul punto, pertanto, è infondata l'eccezione sollevata dall'ufficio.
Quanto al resto invece i ricorsi devono essere respinti. Quando, a seguito dell'intervento di recupero, vengano realizzati nuovi e ulteriori volumi sono detraibili le sole spese effettuate per gli interventi eseguiti sul volume esistente, mentre quelli che riguardano il nuovo volume sono considerati come nuova costruzione e pertanto non sono in alcun modo agevolabili (…) (articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Sul pagamento della quota di iscrizione all'albo professionale per poter svolgere il mansionario quotidiano.
Nelle attività rientranti tra quelle svolte dal personale rientra la 'predisposizione di progetti inerenti la realizzazione, la manutenzione di edifici, impianti e sistemi di prevenzione di strutture comunali', attività per le quali è prevista l'abilitazione all'esercizio della professione da cui deriva, in presenza delle condizioni soggettive ed oggettive previste, l'obbligo di iscrizione all'albo professionale.
Non vi è tuttavia alcuna norma che espressamente preveda il rimborso da parte dell'amministrazione dei costi di iscrizione all'albo, richiamando a tale scopo la difesa del ricorrente la norma di cui all'art. 1719 c.c..
Tale ricostruzione difensiva è stata avallata dalla giurisprudenza di legittimità.
Segnatamente Cassazione civile, sez. lav., 16/04/2015 n. 7776 ha stabilito: "Il pagamento della tassa annuale di iscrizione all'Elenco speciale annesso all'Al. degli avvocati, per l'esercizio della professione forense nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro, rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività, che, in via normale, devono gravare sull'Ente stesso. Quindi, se tale pagamento viene anticipato dall'avvocato-dipendente deve essere rimborsato dall'Ente medesimo, in base al principio generale applicabile anche nell'esecuzione del contratto di mandato, ai sensi dell'art. 1719 c.c., secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali necessari".
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Con ricorso regolarmente notificato il ricorrente, dipendente del Comune di Pozzuoli con la qualifica professionale di Architetto, abilitato all'esercizio della professione ed iscritto all'Al. degli Architetti di Napoli, inquadrato nella Cat. (omissis) del CCNL dipendenti Enti locali del 31.03.1999 come Istruttore Tecnico Direttivo, conveniva in giudizio il Comune di Pozzuoli affinché fosse accertato e dichiarato il suo diritto al rimborso delle tasse annuali (dal 2007 al 2015) di iscrizione all'Al. professionale degli Architetti, dallo stesso anticipate, e condannato il Comune di Pozzuoli a corrispondere all'odierno ricorrente la somma di € 1.222,66.
Si costituiva il Comune di Pozzuoli che contestava nel merito le avverse deduzioni, eccependo la prescrizione quinquennale e l'infondatezza della domanda; concludeva chiedendo il rigetto del ricorso.
All'odierna udienza la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo e sulla scorta delle motivazioni che seguono.
E' infondata l'eccezione di prescrizione il cui termine, decennale ex art. 2946 c.c., non è decorso attendendo la prima pretesa all'anno 2007 ed essendo stato, il ricorso, notificato il 19.05.2016. Peraltro agli atti vi è missiva inoltrata dal ricorrente in data 15.11.2015 idonea, anch'essa, ad interrompere il decorso del termine prescrizionale.
Il Comune, costituendosi, eccepisce la genericità delle allegazioni in merito al contenuto effettivo delle mansioni disimpegnate dal ricorrente.
E' incontestato tuttavia che il Di Ma. abbia espletato mansioni riconducibili alla cat. (omissis) del CCNL dipendenti Enti locali del 31.03.1999.
Ebbene, nelle attività rientranti tra quelle svolte dal personale appartenente alla suddetta categoria rientra la 'predisposizione di progetti inerenti la realizzazione, la manutenzione di edifici, impianti e sistemi di prevenzione di strutture comunali', attività per le quali è prevista l'abilitazione all'esercizio della professione da cui deriva, in presenza delle condizioni soggettive ed oggettive previste, l'obbligo di iscrizione all'albo professionale.
Non vi è tuttavia alcuna norma che espressamente preveda il rimborso da parte dell'amministrazione dei costi di iscrizione all'albo, richiamando a tale scopo la difesa del ricorrente la norma di cui all'art. 1719 c.c..
Tale ricostruzione difensiva è stata avallata dalla giurisprudenza di legittimità.
Segnatamente Cassazione civile, sez. lav., 16/04/2015 n. 7776 ha stabilito: "Il pagamento della tassa annuale di iscrizione all'Elenco speciale annesso all'Al. degli avvocati, per l'esercizio della professione forense nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro, rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività, che, in via normale, devono gravare sull'Ente stesso. Quindi, se tale pagamento viene anticipato dall'avvocato-dipendente deve essere rimborsato dall'Ente medesimo, in base al principio generale applicabile anche nell'esecuzione del contratto di mandato, ai sensi dell'art. 1719 c.c., secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali necessari".
Il ricorso va dunque accolto con conseguente condanna del Comune a pagare al ricorrente la somma di € 1.222,66 oltre interessi legali (TRIBUNALE di Napoli, Sez. lavoro, sentenza 21.11.2017 n. 7954).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: L’alta vigilanza del coordinatore per l'esecuzione dei lavori.
La Sezione osserva che
«i compiti assegnati al coordinatore per la sicurezza, per quanto afferenti alla generale configurazione dei lavori alla stregua di funzioni di alta vigilanza, si caratterizzano nondimeno nella descrizione normativa anche per un connotato di effettività e concretezza in funzione delle perseguite finalità di prevenzione, ciò escludendo che tale funzione possa risolversi in un mero disbrigo di attività formali e di verifiche astratte e superficiali», e che «a tale figura pertiene non solo il compito di organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori».
Ammette che «non sussiste a carico del coordinatore per l’esecuzione dei lavori un obbligo di presenza continuativa –operativa– sul cantiere (demandata al datore di lavoro e ai soggetti da lui preposti alla sicurezza dei lavoratori)
», e tuttavia chiarisce che «egli è comunque tenuto a programmare ed effettuare le visite periodiche nel modo più idoneo e funzionale all’espletamento dei suoi compiti di vigilanza, nonché a informarsi scrupolosamente sullo sviluppo delle opere, verificando specificamente (per ciascuna fase) l’effettiva realizzazione e adozione delle prescritte misure di sicurezza, provvedendo a contestare per iscritto ai titolari delle imprese coinvolte le violazioni riscontrate alla disciplina antinfortunistica, segnalandole contestualmente al committente».
Insegna, dunque, che, per un verso, «
egli non è obbligato a tal fine a controllare momento per momento l’esecuzione dei lavori», e che, per l’altro, è obbligato «comunque a pianificare le proprie verifiche ovvero a precostituire un sistema di controlli che siano in grado di consentirgli l’effettivo assolvimento del compito comunque a lui affidato, non potendo in tal senso certamente bastare una osservazione superficiale della situazione complessiva del cantiere, ma occorrendo una puntuale e concreta verifica del modo in cui i diversi lavori vengono effettivamente organizzati nella loro fase esecutiva, sotto il profilo della sicurezza e della concreta (non meramente astratta o apparente) adozione delle misure indicate nel piano».
Di qui un’indicazione operativa preziosa per il coordinatore: «
non basta al coordinatore dimostrare di essersi recato periodicamente in cantiere, ma occorre dimostrare che quanto accertato consentiva una tranquillante verifica della concreta, effettiva e prevedibilmente costante adozione delle misure predisposte nel piano per quella data fase dei lavori, di modo che quel che legittimamente resta sottratto ai suoi compiti di vigilanza è il caso episodico e contingente –scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori, ovvero da una episodica inosservanza di misure di sicurezza comunque predisposte, pur effettivamente approntate ed esistenti in cantiere, agevolmente utilizzabili e adeguate– come tale affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro o del suo preposto; non invece l’evento riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione».
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Per verificare se un infortunio coinvolga la responsabilità del coordinatore per la sicurezza, si devono analizzare le caratteristiche del rischio dal quale è scaturita la caduta; occorre, cioè, comprendere se si tratti di un accidente contingente, scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori, come tale affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro o del suo preposto, o se, invece, l’evento stesso sia riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione.
In tale ultimo ambito è affidato al coordinatore per la sicurezza il dovere di alta vigilanza, che non implica la costante presenza nel cantiere con ruolo di controllo delle contingenti lavorazioni, ma comporta certamente la verifica della conformità delle caratteristiche strutturali di base delle lavorazioni alle norme prevenzionistiche.
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Con sempre maggiore efficacia, la Corte Suprema sta chiarendo la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione dei lavori (sul tema v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 659 ss., cui adde, da ultimo, Cass. 01.09.2014, n. 36510, Caporale e altri, in ISL, 2014, 11, 551; Cass. 05.05.2014, n. 8515, Landi e R.C., ibid., 2014, 7, 365; Cass. 05.05.2014, n. 18459, Brioschi e altri, ibid., 2014, 7, 363; Cass. 05.05.2014, n. 18436, Angele, ibid., 2014, 7, 366).
  
A) Per cominciare, la sentenza Cardarelli (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 23.01.2015 n. 3272) esamina un’ipotesi in cui il datore di lavoro capocantiere e il coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione (nominato dalla committente s.r.l.) furono dichiarati colpevoli del reato di omicidio colposo, per «non avere impedito a un lavoratore autonomo (pure condannato) di manovrare l’autopompa per il getto del calcestruzzo in vicinanza di una linea elettrica ad alto voltaggio in funzionamento, così procurando la morte per folgorazione di un operaio intento all’opera di sversamento del calcestruzzo».
Nel confermare la condanna, la Sez. IV premette che «agli imputati risulta essere stato addebitato il rimprovero di non avere imposto la corretta applicazione della procedura prevista nel piano di sicurezza e di coordinamento, così come integrato dal piano operativo della sicurezza, in relazione alle operazioni di getto di calcestruzzo nella parete di contenimento posta al di sotto della linea elettrica area alimentata a 8.400 volt, al fine di mantenere la distanza minima di sicurezza di metri cinque tra il braccio dell’autopompa e i conduttori elettrici», «ancor più ove si consideri che quella stessa mattina il primo getto era stato effettuato (nella piena ed evidente consapevolezza del rischio) sotto la direzione del datore di lavoro, il quale aveva impartito le disposizioni ritenute necessarie al lavoratore autonomo».
Aggiunge che «entrambi gli imputati avevano avuto modo di concretamente sperimentare la pericolosità del sito, in quanto appena qualche giorno prima altro operaio era stato coinvolto in un analogo incidente, dal quale era uscito miracolosamente incolume e che la gravità della situazione aveva imposto riunioni tra datore di lavoro, coordinatore, ed esponenti della società, nell’interesse della quale operava il lavoratore autonomo, senza che si fosse acceduto alle misure preventive risolutive, costituite dalla richiesta di temporanea disattivazione della linea o dell’uso di congegni di autolimitazione del braccio dell’autobetoniera o di altri efficaci ed effettive cautele».
  
B) Particolarmente ampia è poi l’analisi svolta dalla sentenza Bartoli (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 17.11.2014 n. 47283).
La Sez. IV osserva che «la figura del coordinatore per l’esecuzione dei lavori è stata introdotta nell’ambito di una generale e più articolata ridefinizione delle posizioni di garanzia e delle connesse sfere di responsabilità correlate alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili –a fianco di quella del committente- allo scopo di consentire a quest’ultimo di delegare, a soggetti qualificati, funzioni e responsabilità di progettazione e coordinamento, altrimenti su di lui ricadenti, implicanti particolari competenze tecniche», e che «la funzione di vigilanza è alta e non si confonde con quella operativa demandata al datore di lavoro ed alla figure che da esso ricevono poteri e doveri: il dirigente ed il preposto».
Subito, però, avverte che «
i compiti assegnati al coordinatore per la sicurezza, per quanto afferenti alla generale configurazione dei lavori alla stregua di funzioni di alta vigilanza, si caratterizzano nondimeno nella descrizione normativa anche per un connotato di effettività e concretezza in funzione delle perseguite finalità di prevenzione, ciò escludendo che tale funzione possa risolversi in un mero disbrigo di attività formali e di verifiche astratte e superficiali», e che «a tale figura pertiene non solo il compito di organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori».
Ammette che «
non sussiste a carico del coordinatore per l’esecuzione dei lavori un obbligo di presenza continuativa –operativa– sul cantiere (demandata al datore di lavoro e ai soggetti da lui preposti alla sicurezza dei lavoratori)», e tuttavia chiarisce che «egli è comunque tenuto a programmare ed effettuare le visite periodiche nel modo più idoneo e funzionale all’espletamento dei suoi compiti di vigilanza, nonché a informarsi scrupolosamente sullo sviluppo delle opere, verificando specificamente (per ciascuna fase) l’effettiva realizzazione e adozione delle prescritte misure di sicurezza, provvedendo a contestare per iscritto ai titolari delle imprese coinvolte le violazioni riscontrate alla disciplina antinfortunistica, segnalandole contestualmente al committente».
Insegna, dunque, che, per un verso, «egli non è obbligato a tal fine a controllare momento per momento l’esecuzione dei lavori», e che, per l’altro, è obbligato «comunque a pianificare le proprie verifiche ovvero a precostituire un sistema di controlli che siano in grado di consentirgli l’effettivo assolvimento del compito comunque a lui affidato, non potendo in tal senso certamente bastare una osservazione superficiale della situazione complessiva del cantiere, ma occorrendo una puntuale e concreta verifica del modo in cui i diversi lavori vengono effettivamente organizzati nella loro fase esecutiva, sotto il profilo della sicurezza e della concreta (non meramente astratta o apparente) adozione delle misure indicate nel piano».
Di qui un’indicazione operativa preziosa per il coordinatore: «non basta al coordinatore dimostrare di essersi recato periodicamente in cantiere, ma occorre dimostrare che quanto accertato consentiva una tranquillante verifica della concreta, effettiva e prevedibilmente costante adozione delle misure predisposte nel piano per quella data fase dei lavori, di modo che quel che legittimamente resta sottratto ai suoi compiti di vigilanza è il caso episodico e contingente –scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori, ovvero da una episodica inosservanza di misure di sicurezza comunque predisposte, pur effettivamente approntate ed esistenti in cantiere, agevolmente utilizzabili e adeguate– come tale affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro o del suo preposto; non invece l’evento riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione».
In questo quadro, la Sez. IV prende atto che, nel caso di specie, «
punto nodale è se il controllo operato dal coordinatore imputato fosse sufficiente ad esaurire i suoi doveri o se, nella situazione data, esso si sia rivelato meramente formale e superficiale», e che «la risposta negativa data a tale quesito muove essenzialmente dal rilievo della inadeguatezza in concreto del ponte mobile (c.d. trabattello) rispetto alle esigenze lavorative, tale da aver condotto al sistematico mancato utilizzo dello stesso». Con un giudizio finale di «inadeguatezza del controllo operato dall’imputato che, nella misura in cui si è limitato alla mera presa d’atto dell’esistenza di almeno un trabattello, si rivela inosservante degli specifici doveri a lui imposti riferibili non solo alla astratta previsione delle misure di sicurezza (nel caso, il trabattello), ma anche alla verifica della sua effettiva e concreta predisposizione in cantiere e della sua adeguatezza».
  
C) Anche la sentenza Turroni (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 17.10.2014 n. 43466) illumina l’approdo interpretativo ultimamente raggiunto dalla Corte Suprema.
Infatti, chiarisce che, «per verificare se un infortunio coinvolga la responsabilità del coordinatore per la sicurezza, si devono analizzare le caratteristiche del rischio dal quale è scaturita la caduta; occorre, cioè, comprendere se si tratti di un accidente contingente, scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori, come tale affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro o del suo preposto, o se, invece, l’evento stesso sia riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione», e che «
in tale ultimo ambito è affidato al coordinatore per la sicurezza il dovere di alta vigilanza, che non implica la costante presenza nel cantiere con ruolo di controllo delle contingenti lavorazioni, ma comporta certamente la verifica della conformità delle caratteristiche strutturali di base delle lavorazioni alle norme prevenzionistiche».
E rileva che, «
nel caso di specie, la corte d’appello ha logicamente tratto, dalla ritenuta difformità del ponteggio realizzato nel cantiere rispetto al progetto ed alle norme prevenzionistiche di riferimento, l’insorgenza a carico del coordinatore per la sicurezza del generico dovere, riferibile alla sua posizione funzionale, di procedere all’immediata adozione di tutte le cautele concretamente necessarie a impedire che l’esecuzione di attività lavorative in prossimità di tali ponteggi potesse costituire un possibile pericolo per i lavoratori ivi coinvolti, individuando un rischio evidentemente riconducibile alla omessa verifica della conformità delle caratteristiche strutturali di base delle lavorazioni alle norme prevenzionistiche»
(tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 3/2015).

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