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AGGIORNAMENTO AL 28.06.2019 |
ã |
PARCO ADDA NORD: le indagini penali avviate tempo
addietro
(si leggano i precedenti:
AGGIORNAMENTO AL 30.06.2017
→
AGGIORNAMENTO AL 17.07.2017
→
AGGIORNAMENTO AL 31.07.2017
→
AGGIORNAMENTO AL 30.09.2017
→
AGGIORNAMENTO AL 10.10.2017)
arrivano, pian piano, alla conclusione... |
ENTI LOCALI:
Assunse l’amante, rinviato a giudizio l’ex direttore del
Parco Adda Nord.
L’architetto ultrasessantenne Giuseppe Minei è accusato di
turbativa d’asta, abuso di ufficio e falso. Il dibattimento
si aprirà il prossimo 10 ottobre. Anche la donna che l’ex
direttore del parco fece assumere, Francesca Moroni, sarà
processata.
Con l’accusa di aver pilotato la nomina, creando «artificiosamente»
un posto di lavoro per la donna con cui «era legato da
una stabile relazione affettiva», facendole, quindi,
ottenere prima «l’assunzione e poi la progressione
funzionale ed economica», Giuseppe Minei,
ultrasessantenne architetto ed ex direttore del Parco Adda
Nord è stato rinviato a giudizio a Milano per turbativa
d’asta, abuso di ufficio e falso. Reato, il primo, che
costerà il processo anche lei, Francesca
Moroni, di 26 anni
più giovane di lui. Il dibattimento si aprirà il prossimo 10
ottobre davanti al Tribunale di Milano.
A deciderlo è stato il gup Giusy Barbara che ha accolto la
richiesta del pm Giovanni Polizzi, titolare delle indagini,
e la proposta di patteggiamento, pena sospesa, di un terzo
imputato, mentre la posizione di un quarto indagato era
stata stralciata per la richiesta di archiviazione.
L’inchiesta condotta dalla Squadra mobile, era partita in
seguito di un’ispezione dell’Agenzia Regionale
Anticorruzione.
La vicenda per cui oggi i due sono finiti a giudizio
riguarda in particolare le presunte «manovre» di
Minei —nel
capo di imputazione di parla di «complessiva strategia»—
per fare in modo che la giovane, pure lei architetto, e di
cui in precedenza era stato il capo nel Comune di Trucazzano,
nell’hinterland milanese, nel 2014 vincesse un concorso nel
Comune di Treviglio, contiguo al Parco.
Concorso in cui la donna, secondo la ricostruzione, si
piazzò seconda per essere, quindi, «ripescata» dalla
graduatoria da lui ed essere infine, tra il 2015 e il 2016,
assunta e promossa all’interno dell’Ente che allora
Minei
guidava (13.06.2019 – tratto da e link a https://milano.corriere.it). |
ENTI LOCALI:
Fece assumere amante, entrambi a giudizio. Pm
Milano, creò per lei il posto e poi la promosse.
Con l'accusa di aver pilotato la nomina, creando "artificiosamente"
un posto di lavoro per la donna con cui "era
legato da una stabile relazione affettiva",
facendole, quindi, ottenere prima "l'assunzione e
poi la progressione funzionale ed economica",
Giuseppe Minei,
ultrasessantenne architetto ed ex direttore del
Parco Adda Nord è stato mandato a giudizio a Milano
per turbativa d'asta, abuso di ufficio e falso.
Reato, il primo, che costerà il processo anche lei,
Francesca Moroni,
di 26 anni più giovane di lui. Il dibattimento si
aprirà il prossimo 10 ottobre davanti al Tribunale
di Milano.
A deciderlo è stato il gup Giusy Barbara che ha
accolto la richiesta del pm Giovanni Polizzi,
titolare delle indagini, e la proposta di
patteggiamento, pena sospesa, di un terzo imputato,
mentre la posizione di un quarto indagato era stata
stralciata per la richiesta di archiviazione
(13.06.2019 - tratto da e link a www.ansa.it). |
"A
questo punto sorge una domanda spontanea":
il Parco
Adda Nord ha deliberato, o meno, di "costituirsi
parte civile" nel processo per vedersi
riconosciuto, in caso di condanna, quantomeno il
danno all'immagine? |
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Regione Lombardia:
sulla "fungibilità" tra opere di
urbanizzazione 1^ e 2^ ai fini dello scomputo dei
corrispondenti oneri urbanizzativi.
La Corte dei Conti si è "ravveduta" ... ora, possiamo
stare tranquilli. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
In caso di realizzazione diretta da parte dell’operatore di
opere di urbanizzazione primaria aventi un valore maggiore
rispetto a quelli di urbanizzazione secondaria è possibile
scomputare indistintamente il valore di dette opere dagli
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
La convenzione urbanistica non può prevedere che la quota di
contributo concernente il costo di costruzione possa essere
assolta attraverso la realizzazione diretta da parte
dell’operatore di opere concordate con l’amministrazione
comunale perché la legge non lo prevede.
Giusta la soppressione dell'avverbio
"distintamente" di cui all'art.
46, comma 1, lett. b), della L.R. n. 12/2005 [ad opera
dell’articolo 21, comma 1, lettera h, della legge regionale
7 del 2010 (ndr: ex "Progetto
di Legge -PdL- 0431" di iniziativa del Presidente
della Giunta regionale nella cui
relazione consiliare di accompagnamento si evince
inequivocabilmente la ratio legis)], ed anche in sintonia con la legislazione
nazionale in materia, la realizzazione di opere di urbanizzazione può
essere scomputata dagli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, cumulativamente senza distinzione, a prescindere
dalla tipologia di opere effettivamente eseguite dal
privato, salvo clausole diverse e più onerose contenute
nella convenzione urbanistica.
---------------
Con riferimento all'interrogativo se la convenzione urbanistica può prevedere che la quota di
contributo sul costo di costruzione possa essere totalmente
assolta attraverso la realizzazione diretta da parte
dell’operatore di opere concordate con l’amministrazione
comunale la risposta è negativa, poiché la legge non lo
prevede e ciò contrasterebbe con il principio di legalità.
---------------
Il sindaco del comune di Trescore Balneario (BG) ha
richiesto alla Sezione un parere sull’interpretazione
dell’articolo 16 del DPR 380 del 2001 (Testo Unico
sull’edilizia), in merito allo scomputo totale o parziale
degli oneri di urbanizzazione per la realizzazione diretta
delle opere.
Chiede inoltre se, con riferimento all’articolo 46, comma
1, lettera b), della legge regionale 12 del 2005, sia
possibile, con la realizzazione diretta a cura dei
proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e
di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria,
la corresponsione al comune della eventuale differenza, nel
caso in cui gli oneri risultino inferiori a quelli previsti.
La richiesta è articolata in due distinti quesiti.
Nel primo
si domanda se, nel caso di realizzazione diretta da parte
dell’operatore di opere di urbanizzazione primaria aventi un
valore maggiore rispetto a quelli di urbanizzazione
secondaria, sia possibile “scomputare indistintamente il
valore di dette opere dagli oneri di urbanizzazione primaria
e secondaria”.
Nel secondo
se la convenzione urbanistica può prevedere che la quota
di contributo concernente il costo di costruzione possa
essere “totalmente assolta” attraverso la “realizzazione
diretta da parte dell’operatore di opere concordate con
l’amministrazione comunale”.
...
2. La questione dell’utilizzazione dei proventi dei
cosiddetti oneri di urbanizzazione e relative sanzioni è
stata ripetutamente scandagliata da questa Corte.
Si richiamano in particolare le deliberazioni di questa
Sezione (parere
09.02.2016 n. 38,
parere 23.03.2017 n. 81 e, da ultimo,
parere 20.12.2017 n. 372, dal cui esame è possibile ricostruire il complesso
quadro normativo, che è di seguito sinteticamente richiamato
ai fini dell’inquadramento della risposta ai quesiti
formulati e il
parere 23.02.2015 n. 83, in cui è trattata una
fattispecie analoga a quella sollevata nei quesiti in esame.
3. I quesiti richiamano indirettamente l’articolo 4 della
legge 847 del 1964 (urbanizzazione primaria) e l’articolo 44
della legge 865 del 1971 (urbanizzazione secondaria).
La legge 847 del 1964 autorizza i comuni a contrarre mutui
ai sensi della legge 167 del 1962 per realizzare, tra
l’altro, le opere di urbanizzazione primaria e secondaria
[rispettivamente lettere b) e c) dell’art. 1], come
specificate nell’articolo 4 della legge stessa.
Le opere di urbanizzazione primaria, indicate nell’art. 4,
sono: a) strade residenziali; b)
spazi di sosta o di
parcheggio; c)
fognature; d)
rete idrica; e)
rete di
distribuzione dell'energia elettrica e del gas; f)
pubblica
illuminazione; g)
spazi di verde attrezzato.
Queste sette fattispecie sono elencate nel
comma 7
dell’articolo 16 del TU sull’edilizia.
A queste vanno aggiunti gli impianti cimiteriali (ai sensi
dell’articolo 26-bis del decreto-legge 415 del 1989
convertito dalla legge 38 del 1990) e le
reti telefoniche
(circolare 31.03.1972, n. 2015 del ministero dei lavori
pubblici), non indicati nel TU.
Più recentemente (art. 6, comma 3-bis, legge n. 164 del
2014) è stata aggiunta la lettera g-bis), anch’essa non
indicata nel TU, relativa alle infrastrutture di reti
pubbliche di comunicazione, di cui agli
articoli 87 e 88 del
codice delle comunicazioni elettroniche, (decreto
legislativo 01.08.2003, n. 259, e successive modificazioni),
e opere di infrastrutturazione per la realizzazione delle
reti di comunicazione elettronica ad alta velocità in fibra
ottica in grado di fornire servizi di accesso a banda
ultra-larga effettuate anche all'interno degli edifici.
Di “cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di
reti di telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai
comuni sulla base dei criteri definiti dalle regioni”,
parla, infine, il
comma 7-bis dell’art. 16 del TU
sull’edilizia, introdotto dall’articolo 40, comma 8, della
legge 166 del 2002.
Le opere di urbanizzazione secondaria sono state introdotte
con la richiamata novella del 1971, che ha integrato l’art.
4 della legge 847 del 1964, specificando gli interventi la cui
indicazione era stata prevista dalla richiamata lettera c)
dell’art. 1.
Si tratta di: a) asili nido e scuole materne; b)
scuole
dell'obbligo (“nonché strutture e complessi per
l’istruzione superiore all’obbligo”); c)
mercati di
quartiere; d)
delegazioni comunali; e)
chiese e altri
edifici religiosi; f)
impianti sportivi di quartiere; g)
centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie; h)
aree
verdi di quartiere (“Nelle attrezzature sanitarie sono
ricomprese le opere, le costruzioni e gli impianti destinati
allo smaltimento, al riciclaggio o alla distruzione dei
rifiuti urbani, speciali, pericolosi, solidi e liquidi, alla
bonifica di aree inquinate”).
Le otto fattispecie, integrate dai richiami tra le
parentesi, sono riportate nel
comma 8 dell’articolo 16 del
più volte richiamato TU.
4. La distinzione tra le opere di urbanizzazione primaria
e secondaria (e dei connessi oneri), che i comuni
ogni cinque anni aggiornano, secondo quanto dispone il comma
5 dell’articolo 16 del TU, sulla base dei “riscontri e
prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria,
secondaria e generale”, assume sia nella legislazione
risalente, sia nelle più recenti innovazioni, una
connotazione che non presenta distinzioni sotto il profilo
del trattamento finanziario.
In altre parole, la struttura dell’opera da realizzare
implica interventi di urbanizzazione di diversa natura, cui
è associato un onere a carico dell’operatore, periodicamente
rivisto dai comuni in base al loro costo. Anche l’incidenza
degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è
stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base
alle tabelle che la regione definisce per classi di comuni
su parametri che non distinguono tra le due tipologie (comma
4 del richiamato articolo 16).
La classificazione tipologica e funzionale delle diverse
attrezzature e degli impianti, delle opere di urbanizzazione
tra primarie e secondarie non si riferisce a un carattere di
priorità delle diverse opere, che sono, tutte,
indispensabili e tra loro interconnesse e complementari,
quanto piuttosto alla più o meno immediata funzione
strumentale rispetto ai singoli manufatti (o nuove
destinazioni d’uso) cui accedono e alla successione
temporale con la quale generalmente vengono realizzate.
La distinzione strutturale attiene a un diverso profilo e si
ritrova in un altro punto del richiamato TU (articolo 2,
comma 12), dove le opere di urbanizzazione primaria sono
configurate come presupposto del permesso a costruire. Si
afferma, infatti, che il suo rilascio “è comunque
subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione
primaria o alla previsione da parte del comune
dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero
all'impegno degli interessati di procedere all'attuazione
delle medesime contemporaneamente alla realizzazione
dell'intervento oggetto del permesso”.
5. Com’è noto, infatti, il rilascio del permesso di
costruire da parte di un’amministrazione comunale comporta
per il privato la corresponsione di un contributo
commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione e al
costo di costruzione (art. 16, comma 1, del TU).
L'articolo 10 del testo unico elenca gli interventi soggetti
a permesso di costruire: interventi di nuova costruzione;
interventi di ristrutturazione urbanistica; interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso
(la zona A è quella che comprende le parti di territorio
aventi agglomerati urbani di carattere storico, artistico e
di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi,
comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte
integrante degli agglomerati stessi).
6. L’utilizzo dei proventi in esame, è stato oggetto di
ripetuti interventi del legislatore, che ha reintrodotto, da
ultimo, uno stringente vincolo di destinazione (comma 460
della legge 232 del 2016), come esaminato da questa Sezione
nel
parere 23.03.2017 n. 81 e
nel
parere 20.12.2017 n. 372.
Anche in questo caso la fattispecie è stata trattata senza
operare alcuna distinzione tra oneri derivanti da
urbanizzazione primaria e secondaria. Lo stesso si può
rinvenire nella precedente legislazione.
Nel
parere
09.02.2016 n. 38, in cui è ricostruito il
processo normativo, si afferma che <<Prima dell’attuale
“contributo per permesso di costruire”, i Comuni
riscuotevano … gli “oneri di urbanizzazione” previsti dalla
legge n. 10 del 1977, che subordinava la concessione
edilizia alla corresponsione di un contributo commisurato
all'incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo
di costruzione (art. 3). I proventi delle concessioni erano
versati in un conto corrente vincolato presso la tesoreria
del comune ed erano espressamente destinati alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei
centri storici, all'acquisizione delle aree da espropriare
per la realizzazione dei programmi pluriennali di cui
all'art. 13, “nonché, nel limite massimo del 30 per cento, a
spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale”
(art. 12, come modificato dall’art. 16-bis del decreto legge
n. 318 del 1986, convertito con modificazioni dalla legge n.
488 del 1986)>>.
Negli anni seguenti, fino alle richiamate disposizioni della
legge di bilancio per il 2017, la copiosa attività normativa
(ampiamente ricostruita nel richiamato
parere
09.02.2016 n. 38), ha modificato più volte la destinazione
dei proventi in esame, senza mai distinguere tra la loro
origine primaria o secondaria.
7. L’uniformità sotto il profilo finanziario degli oneri di
urbanizzazione condurrebbe il ragionamento sistematico a
propendere per l’ammissibilità dello scomputo in maniera
indistinta degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, qualora il titolare del permesso di costruire
abbia realizzato direttamente opere di urbanizzazioni
primarie d’importo maggiore rispetto a quanto dovuto in base
ai parametri tabellari.
La più recente giurisprudenza amministrativa sembra muoversi
in sintonia con il ragionamento finora svolto, come emerge
dalla decisione del Tar Campania-Salerno (sentenza 31.01.2017 n. 179): <<Fatte queste necessarie premesse,
vengono in considerazione il primo e secondo motivo di
ricorso, suscettibili di trattazione congiunta, coi quali si
contesta quanto affermato dall’ufficio a proposito della
riconducibilità del diritto allo scomputo alle sole opere di
urbanizzazione primaria e con esclusione, quindi, di quelle
di urbanizzazione secondaria, lamentando la violazione
dell’art. 16 d.P.R. n. 380/2001. Ebbene, va evidenziato,
come dedotto in ricorso, che secondo consolidato
orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione
di discostarsi in questa sede, “può ammettersi anche la scomputabilità del valore corrispondente alle opere di
urbanizzazione primaria dall'importo dovuto a titolo di
oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura
giuridica degli oneri di cui trattasi, non ravvisandosi
ragioni ostative alla compensazione tra obbligazioni
intercorrenti tra i medesimi soggetti e nascenti dal
medesimo rapporto convenzionale: difatti lo scomputo, totale
o parziale, della quota di contributo dovuta in caso di
realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione deve
essere effettuato senza distinzione tra opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, atteso che la mancata
distinzione nella sede legislativa specifica (art. 11 l.
28.01.1977 n. 10) delle due categorie di opere vieta
all'interprete di introdurre una siffatta distinzione” (cfr.
TAR Toscana-Firenze, sez. III,
11.08.2004, n. 3181;
Consiglio di Stato, sez. IV,
28.07.2005 n. 4015; TAR
Sicilia-Catania, sez. I,
02.02.2012 n. 279.>>.
8. Nella stessa direzione può essere articolato il
ragionamento se si considera la legge regionale 12 del 2005
che, all’articolo 46 (Convenzione dei piani attuativi),
disciplina la convezione alla cui stipulazione è subordinato
il rilascio dei permessi di costruzione che dispone “la
realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie
per allacciare la zona ai pubblici servizi; le
caratteristiche tecniche di tali opere devono essere
esattamente definite; ove la realizzazione delle opere
comporti oneri inferiori a quelli previsti [distintamente]
per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della
presente legge, è corrisposta la differenza; al comune
spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la
realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma
commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione
inerenti al piano attuativo, nonché all'entità ed alle
caratteristiche dell'insediamento e comunque non inferiore
agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale”.
Orbene, proprio l’avverbio distintamente è stato soppresso
dall’articolo 21, comma 1, lettera h, della legge regionale
7 del 2010 (ndr:
ex "Progetto di Legge -PdL- 0431" di
iniziativa del Presidente della Giunta regionale nella cui
relazione consiliare di accompagnamento si evince
inequivocabilmente la ratio legis) per cui, anche in sintonia con la legislazione
regionale, la realizzazione di opere di urbanizzazione può
essere scomputata dagli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, cumulativamente senza distinzione, a prescindere
dalla tipologia di opere effettivamente eseguite dal
privato, salvo clausole diverse e più onerose contenute
nella convenzione urbanistica.
9. Il nuovo codice degli appalti (decreto legislativo numero
50 del 2016), che ha dato inquadramento sistematico alle
tipologie di opere di urbanizzazione primaria e secondaria,
insieme al consolidato orientamento del giudice
amministrativo e alla novellata legislazione regionale,
porta questa Sezione al superamento di precedenti
orientamenti giurisprudenziali.
Il rispetto dei principi costituzionali “di tutela del
paesaggio, del suolo, del territorio e dell’ambiente in cui
si sviluppa la persona umana” e la protezione degli “imprescindibili
valori di vita e salute”, è garantito dalla
considerazione dell’esistenza delle opere di urbanizzazione
primaria come presupposto al rilascio del permesso di
costruzione.
In altre parole, se non sussistono, o non possono essere
realizzate, non si può costruire. In questo si fonda la
distinzione strutturale, che appare compatibile con il
trattamento unitario dello scomputo.
10. Con riferimento al secondo quesito
-se la convenzione urbanistica può prevedere che la quota di
contributo sul costo di costruzione possa essere totalmente
assolta attraverso la realizzazione diretta da parte
dell’operatore di opere concordate con l’amministrazione
comunale– la risposta è negativa, poiché la legge non lo
prevede e ciò contrasterebbe con il principio di legalità
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 14.05.2018 n. 154). |
...e correlata giurisprudenza amministrativa sempre
in materia di "fungibilità": |
EDILIZIA PRIVATA:
Vale la regola della scomputabilità del valore
corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria
realizzate dal lottizzante dall'importo dovuto a titolo di
oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura
giuridica degli oneri di cui trattasi, talché l’eccedenza dell’importo già
corrisposta nella forma di oneri di urbanizzazione
secondaria scomputati mediante la realizzazione diretta
delle opere di urbanizzazione (primarie e/o secondarie)
prescinde dalla tipologia delle opere stesse.
---------------
2. Con la prima doglianza la ricorrente lamenta il mancato
scomputo, nell’impugnata determinazione avente ad oggetto il
conguaglio dovuto, dell’eccedenza di importo per oneri di
urbanizzazione secondaria conteggiata in relazione alla
concessione edilizia del 2003 (euro 18.265,6).
Il rilievo è fondato.
Premesso che in forza della concessione edilizia sono stati
addebitati dal Comune oneri di urbanizzazione secondaria per
euro 99.156,11, superiori a quelli dovuti in relazione alla
attuale destinazione d’uso (euro 80.890,51), il Collegio
osserva quanto segue.
Gli oneri di urbanizzazione secondaria furono
originariamente scomputati a fronte della realizzazione, da
parte del lottizzante, di una strada di allacciamento alla
viabilità primaria (si veda l’art. 3 della convenzione,
costituente il documento n. 13 allegato al ricorso), ovvero
di un’opera funzionale sia alla destinazione industriale che
a quella commerciale.
Non vale pertanto a giustificare l’atto impugnato
l’indirizzo interpretativo, invocato dalla difesa del Comune
di Prato, secondo cui la quota corrisposta di oneri di
urbanizzazione concernenti la destinazione originaria può
essere detratta da quanto dovuto attualmente solo nella
parte in cui attiene ad opere di urbanizzazione fruibili
anche nell’ambito della nuova destinazione, in quanto nel
caso di specie le opere di urbanizzazione realizzate in
forza dello scomputo degli oneri di urbanizzazione
secondaria sono fruibili anche per la nuova destinazione.
In ogni caso, vale la regola della scomputabilità del valore
corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria
realizzate dal lottizzante dall'importo dovuto a titolo di
oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura
giuridica degli oneri di cui trattasi (TAR Toscana, III,
11.08.2004, n. 3181), talché l’eccedenza dell’importo già
corrisposta nella forma di oneri di urbanizzazione
secondaria scomputati mediante la realizzazione diretta
delle opere di urbanizzazione (primarie e/o secondarie)
prescinde dalla tipologia delle opere stesse.
Pertanto,
l’eccedenza di oneri di urbanizzazione secondaria può essere
detratta dall’importo degli oneri di urbanizzazione primaria
attualmente dovuti in relazione alla mutata destinazione
d’uso (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Secondo
consolidato orientamento giurisprudenziale, “può ammettersi
anche la scomputabilità del valore corrispondente alle opere
di urbanizzazione primaria dall'importo dovuto a titolo di
oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura
giuridica degli oneri di cui trattasi, non ravvisandosi
ragioni ostative alla compensazione tra obbligazioni
intercorrenti tra i medesimi soggetti e nascenti dal
medesimo rapporto convenzionale: difatti lo scomputo, totale
o parziale, della quota di contributo dovuta in caso di
realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione deve
essere effettuato senza distinzione tra opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, atteso che la mancata
distinzione nella sede legislativa specifica (art. 11 l.
28.01.1977 n. 10) delle due categorie di opere vieta
all'interprete di introdurre una siffatta distinzione”.
---------------
Deve tuttavia rilevarsi che la predetta convenzione
limita espressamente il diritto allo scomputo ai “soli
oneri di urbanizzazione primaria”.
Questa Sezione ha
avuto infatti modo di osservare che “l'art. 16, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l'art. 11, comma
1, della legge n. 10/1977) consente al privato di eseguire
direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al
pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di
ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria),
ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del
privato sia accettata dal Comune secondo le modalità e le
garanzie dettate dal medesimo e previste in una convenzione
o in un atto unilaterale d'obbligo. La concessione edilizia
è, infatti, normalmente onerosa, tranne le tassative ipotesi
di gratuità. Gli oneri di urbanizzazione sono previsti,
infatti, a carico del costruttore, quale prestazione
patrimoniale, a titolo di partecipazione di al costo delle
opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della
collettività che scaturiscono dagli interventi di
edificazione”.
---------------
II.1. Fatte queste necessarie premesse, vengono in
considerazione il primo e secondo motivo di
ricorso, suscettibili di trattazione congiunta, coi quali si
contesta quanto affermato dall’ufficio a proposito della
riconducibilità del diritto allo scomputo alle sole opere di
urbanizzazione primaria e con esclusione, quindi, di quelle
di urbanizzazione secondaria, lamentando la violazione
dell’art. 16 d.P.R. n. 380/2001.
Ebbene, va evidenziato, come dedotto in ricorso, che secondo
consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi
è ragione di discostarsi in questa sede, “può ammettersi
anche la scomputabilità del valore corrispondente alle opere
di urbanizzazione primaria dall'importo dovuto a titolo di
oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura
giuridica degli oneri di cui trattasi, non ravvisandosi
ragioni ostative alla compensazione tra obbligazioni
intercorrenti tra i medesimi soggetti e nascenti dal
medesimo rapporto convenzionale: difatti lo scomputo, totale
o parziale, della quota di contributo dovuta in caso di
realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione deve
essere effettuato senza distinzione tra opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, atteso che la mancata
distinzione nella sede legislativa specifica (art. 11 l.
28.01.1977 n. 10) delle due categorie di opere vieta
all'interprete di introdurre una siffatta distinzione”
(cfr. TAR Toscana Firenze, sez. III, 11.08.2004, n. 3181;
Consiglio di Stato, sez. IV,
28.07.2005 n. 4015; TAR Sicilia-Catania, sez. I 02.02.2012 n. 279).
Deve tuttavia rilevarsi, come controdedotto dalla difesa
comunale, che la predetta convenzione (artt. 6.3 e 14)
limita espressamente il diritto allo scomputo ai “soli
oneri di urbanizzazione primaria”. Questa Sezione ha
avuto infatti modo di osservare che “l'art. 16, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l'art. 11, comma
1, della legge n. 10/1977) consente al privato di eseguire
direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al
pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di
ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), ma tale
facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia
accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie
dettate dal medesimo e previste in una convenzione o in un
atto unilaterale d'obbligo. La concessione edilizia è,
infatti, normalmente onerosa, tranne le tassative ipotesi di
gratuità. Gli oneri di urbanizzazione sono previsti,
infatti, a carico del costruttore, quale prestazione
patrimoniale, a titolo di partecipazione di al costo delle
opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della
collettività che scaturiscono dagli interventi di
edificazione” (TAR Campania-Salerno, sez. I, 09.01.2015,
n. 28).
Non si riviene, quindi, agli atti il necessario elemento
volontaristico, riconducibile all’Amministrazione comunale,
di guisa che non può configurarsi il preteso diritto allo
scomputo.
I motivi in esame vanno quindi respinti in base alla stesse
disposizioni convenzionali invocate da parte ricorrente a
sostegno della sua pretesa
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2017 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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L'apertura di "pareti finestrate" sulla
facciata di un edificio
non è una
ristrutturazione edilizia "minore",
sicché non è sufficiente la mera denuncia di inizio
attività ma
abbisogna del permesso di costruire. |
EDILIZIA PRIVATA: Apertura
di porte e di finestre sul prospetto di un edificio: disciplina.
L’apertura di porte e di finestre
sul prospetto di un edificio va sempre qualificato come intervento di
ristrutturazione edilizia comportante modifica dei prospetti, assoggettato
(tuttora) al regime del permesso di costruire ex art. 10, primo comma, lett.
c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, non modificato dal decreto legge “Sblocca
Italia” 12.09.2014 n. 133, convertito in legge 11.11.2014 n. 164.
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Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il Condominio di Via ...
n. 12 ha agito per l’annullamento della determinazione dirigenziale rep. n.
3231 del 06.11.2017, di irrogazione delle sanzioni demolitoria e pecuniaria
per interventi edilizi asseritamente abusivi realizzati nel suddetto
fabbricato condominiale, nonché degli altri atti in epigrafe indicati.
Nello specifico, gli interventi sanzionati si sono sostanziati nella
realizzazione di un foro di 12 cm. di diametro per consentire il passaggio
di una tubazione in polipropilene del diametro di 11 cm, utilizzata per
convogliare i reflui fognari alla rete condominiale, nonché nella
realizzazione di una porta sul prospetto posteriore del fabbricato, con
affaccio sul cortile interno, di accesso secondario al medesimo.
...
4. Non meritano, per contro, accoglimento le deduzioni dirette a sostenere
l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui ingiunge il
ripristino dello stato dei luoghi relativamente alla realizzazione della
porta sul prospetto posteriore del fabbricato, con affaccio sul cortile
interno, di accesso secondario al medesimo.
4.1. Il Collegio premette, al riguardo, che sono estranei al presente
giudizio i profili eminentemente privatistici inerenti al contenzioso
insorto tra la ricorrente e la controinteressata, oggetto, peraltro, del
giudizio instaurato innanzi al giudice ordinario, rilevando, in via
esclusiva, la legittimità dell’operato dell’amministrazione.
4.1. Il Collegio non valuta suscettibili di positivo apprezzamento le
deduzioni della parte ricorrente con le quali è stata sostenuta la risalenza
della realizzazione della porta in questione all’epoca della edificazione
del fabbricato, con conseguente esclusione della sottoposizione al regime
del permesso di costruire.
E, invero, nessuno degli elementi prodotti in giudizio, inclusa la relazione
redatta da tecnico di parte depositata dalla difesa del Condominio
ricorrente in data 18.04.2019, sono idonei a comprovare la circostanza
asserita, con conseguente esclusione anche della richiesta istruttoria volta
a sollecitare il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio, venendo in
rilievo un onere probatorio gravante in via diretta sul condominio
ricorrente.
4.2. Si evidenzia, infatti, che la porta in questione non figura
rappresentata nel progetto presentato negli anni ’50 per la sopraelevazione
del fabbricato e che le circostanze evidenziate nella relazione tecnica
depositata in data 18.04.2019, a firma dell’Ing. Ze., segnatamente riferite
alla assenza di alterazioni dei materiali costruttivi anche con riferimento
alla pavimentazione, non rivestono i connotati della significatività,
venendo in rilievo non già la costruzione della parete bensì l’apertura di
un varco nella stessa, con conseguente non alterazione dei materiali
costruttivi del muro.
Del pari, non consta in atti che detta porta abbia mai costituito l’unico
accesso all’area cortilizia ed all’attiguo fabbricato in proprietà della
controinteressata, risultando, anzi, dalla documentazione depositata dalla
difesa di quest’ultima in data 30.03.2018 l’esistenza di un accesso da
altro ingresso, sicché tale circostanza priva di significatività anche
l’elemento costituito dalla originaria destinazione del fabbricato attiguo,
pure quanto alla utilizzazione dei locali lavatoi ubicati sul lastrico
solare dello stesso e successivamente demoliti.
Ai fini che ne occupano, inoltre, non può riconnettersi valenza probatoria
alla mail della Sig.ra Co. prodotta dalla difesa di parte ricorrente,
afferendo la narrazione ivi riportata ad eventi molto risalenti
rappresentati de relato e non supportati da evidenze obiettive. La
circostanza, infine, che non sia stato reperito, neppure a seguito di
accesso, il progetto originario del fabbricato non costituisce esimente
idonea ad elidere l’onere probatorio gravante sulla parte, potendo, invece,
rilevare ad altri fini, per quanto attiene, in particolare, l’ulteriore
contestazione incentrata sulla violazione del principio di proporzionalità
relativamente alla irrogazione della sanzione pecuniaria.
5. Esclusa, dunque, la realizzazione dell’opera in epoca precedente alla
legge urbanistica n. 1150 del 1942, il Collegio rileva che legittimamente
l’amministrazione comunale ha disposto l’ordine di ripristino con
riferimento alla porta in questione.
5.1. Si evidenzia, infatti, che
l’apertura di porte e di finestre sul
prospetto di un edificio va qualificato -sempre- come intervento di ristrutturazione edilizia comportante modifica dei prospetti, assoggettato
(tuttora) al regime del permesso di costruire ex art. 10, primo comma, lett.
c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380
(cfr: Corte di Cassazione penale, III
Sezione, 20.05.2014 n. 30575),
non modificato dal decreto legge “Sblocca
Italia” 12.09.2014 n. 133 (convertito in legge 11.11.2014 n. 164), che
(per quanto qui interessa) si limita a ricomprendere nell’ambito degli
interventi di manutenzione straordinaria, di cui all’art. 3, primo
comma, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, quelli (insussistenti nel
caso di specie) consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità
immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle
superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico,
purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si
mantenga l’originaria destinazione di uso.
5.2. E, invero, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza anche del
Giudice di Appello (Cons. St., n. 3173 del 2016; id. 380 del 2012),
l’apertura di porte finestrate e di finestre sul prospetto di un edificio va
qualificato -sempre- come intervento di ristrutturazione edilizia
comportante modifica dei prospetti, assoggettato (tuttora) al regime del
permesso di costruire ex art. 10, primo comma, lett. c), del d.P.R.
06.06.2001 n. 380
(cfr: Corte di Cassazione penale, III Sezione, n. 30575 del 2014)
(TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 17.06.2019 n. 7818 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'apertura
di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo
rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44
del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio
comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come
ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è
sufficiente la mera denuncia di inizio attività.
---------------
3.6.Resta, dunque, il fatto così come descritto nella sentenza impugnata che
si iscrive a pieno titolo nella fattispecie di reato contestata atteso che,
secondo l'interpretazione sistematica degli artt. 3, lett. d), 10, comma 1,
lett. c), 22, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, come modificati
dall'art. 30, comma 1, lett. a), c) ed e), dl. 21.06.2013, n. 69, convertito
con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013, e, da ultimo dall'art. 17,
comma 1, lett. d), d.l. n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalle
legge n. 164 del 2014, e 3, comma 1, lett. f), n. 2), d.l. n. 222 del 2016,
gli interventi edilizi che, come nel caso di specie, comportano
l'ampliamento della volumetria preesistente all'esterno della sagoma
esistente l'apertura di nuovi pareti finestrate, possono essere realizzati
solo con permesso di costruire o altro titolo equipollente trattandosi di
interventi classificabili come di "nuova costruzione" ai sensi della
lettera e.1) dell'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 38632 del
31/05/2017, Molari, Rv. 270826) e comunque non di ristrutturazione cd. "minore"
(Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Limongi, Rv. 259905, secondo cui,
l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio,
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato
previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un
intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile
come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non
è sufficiente la mera denuncia di inizio attività; nello stesso senso, da
ultimo, Sez. 3, n. 921 del 10/10/2017, dep. 2018, Carenza, n.m.; Sez. 3, n.
38853 del 05/04/2017, Zizzi, n.m.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.09.2018 n.
41256). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riguardo all'apertura delle finestre nel muro perimetrale,
questa Corte ha costantemente affermato trattarsi di un intervento che
necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo
sufficiente la mera denuncia d'inizio attività, configurando un'opera
comportante la modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come
ristrutturazione edilizia minore.
Ciò, peraltro, in adesione alla lettera dell'art. 10, comma 1, lett. c),
d.P.R. n. 380
del 2001, in tema di interventi subordinati a permesso di costruire, in
forza del
quale lo stesso provvedimento è richiesto -tra l'altro- per quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte
diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria
complessiva
degli edifici o dei prospetti.
---------------
4. Manifestamente infondata, poi, risulta anche la seconda doglianza del
Ca., relativa alle cd. opere minori.
Premesso che l'intero motivo -in esito ad una completa disamina delle norme di
riferimento in punto di titoli abilitativi- pare concernere soltanto la
realizzazione del bagno nel sottoscala, per la quale la Corte di appello ha
pronunciato sentenza di assoluzione, escludendo il mutamento di destinazione
d'uso; ciò premesso, si osserva comunque che, con riguardo all'apertura
delle
finestre nel muro perimetrale, questa Corte ha costantemente affermato
trattarsi
di un intervento che necessita del preventivo rilascio del permesso di
costruire,
non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività, configurando
un'opera
comportante la modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come
ristrutturazione edilizia minore (tra le altre, Sez. 3, n. 30575 del
20/05/2014,
Limongi, Rv. 259905; Sez. 3, n. 38338 del 21/05/2013, Cataldo, Rv. 256381).
Ciò, peraltro, in adesione alla lettera dell'art. 10, comma 1, lett. c),
d.P.R. n. 380
del 2001, in tema di interventi subordinati a permesso di costruire, in
forza del
quale lo stesso provvedimento è richiesto -tra l'altro- per quelli di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte
diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria
complessiva
degli edifici o dei prospetti.
E ferma restando, infine, la violazione
paesaggistica
comunque riscontrata anche nel caso di specie, tale da integrare anche la
violazione dell'art. 181 di cui alla rubrica. In ordine, infine,
all'abbattimento del
muro di confine, la Corte di appello -non espressamente contestata al
riguardo,
in assenza di considerazioni sul punto- ha evidenziato ancora non solo il
necessario titolo abilitativo, assente, ma anche l'incidenza dell'intervento
sul bene paesaggistico tutelato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.01.2018 n. 921). |
EDILIZIA PRIVATA: L'esecuzione
di interventi comportanti la modifica dei prospetti non rientra nelle
tipologie delle ristrutturazioni edilizie "minori" e, come tale,
richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire, non essendo
sufficiente il mero rilascio della denuncia di inizio attività.
---------------
1. I ricorsi sono solo parzialmente fondati e, dunque, devono essere accolti
per quanto di ragione.
2. Muovendo dal primo motivo di censura, con il quale i ricorrenti si
dolgono di una serie di profili concernenti la ritenuta illegittimità degli
atti amministrativi emessi da Ba.Zi., giova preliminarmente rilevare
l'infondatezza della tesi difensiva secondo cui l'intervento edilizio de
quo, consistito nella realizzazione, in luogo di una finestra, di una
porta di accesso/uscita al primo piano, protetta da un anta in metallo e
pennellatura in vetro, posta a circa due metri di altezza dalla sede
stradale, avrebbe potuto essere eseguito attraverso una super-D.I.A. ai
sensi dell'art. 22, comma 3, lett. a), del d.p.r. n. 380 del 2001.
Infatti, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte,
l'esecuzione di interventi comportanti, come nel caso in esame, la modifica
dei prospetti, non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie "minori"
e come tale richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire, non
essendo sufficiente il mero rilascio della denuncia di inizio attività (Sez.
3, n. 30575 del 20/05/2014, dep. 11/07/2014, Limongi, Rv. 259905; Sez. 3, n.
38338 del 21/05/2013, dep. 18/09/2013, Cataldo, Rv. 256381; Sez. 3, n.
834/2009 del 04/12/2008 dep. 13/01/2009, P.M. in proc. Della Monica, Rv.
242160; Sez. 3, n. 1893/2007 del 14/12/2006, dep. 23/01/2007, Cristiano, Rv.
235871).
Rilascio del permesso di costruire che, nel caso di specie, si imponeva,
secondo quanto correttamente riferito dalle sentenze di merito, anche alla
luce dell'art. 10, lett. h), del regolamento edilizio comunale, a mente del
quale dovevano ritenersi assoggettate a licenza di costruzione le opere
seguenti: "aperture, chiusura modifica di ingressi esterni, finestre
balconi"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.08.2017 n. 38853). |
IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti.
Il comune può ordinare la bonifica dei luoghi ai sensi del codice stradale.
Spetta al proprietario della strada garantire la sicurezza della
circolazione. Quindi se vengono rinvenuti rifiuti su una strada dell'Anas il
comune deve ordinare la pulizia e il ripristino dei luoghi.
In via generale, sono
illegittimi gli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione di tale sua mera qualità ed
in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’amministrazione
procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente
motivazione.
Sotto questo profilo è stato infatti ripetutamente affermato che
la
disciplina contenuta nel predetto art. 192 del 2006 è improntata ad una
rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, non residuando al riguardo
alcuno spazio per una responsabilità oggettiva, posto che per essere
ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturito l’abbandono
illecito di rifiuti occorre quantomeno la colpa, e che tale regola di
imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in
relazione -per l’appunto- ad un’eventuale responsabilità solidale del
proprietario dell’area.
A ben vedere la giurisprudenza è pervenuta a tale conclusione nel rilievo
che il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno
e notte, al fine di impedire ad estranei di penetrare nell’area e di
abbandonarvi i rifiuti: la richiesta di un impegno di tale entità -infatti-
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media che è
alla base della stessa nozione di colpa.
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L'abbandono di rifiuti lungo una strada statale configura una fattispecie
del tutto particolare, posto che risulta del tutto infondato l’assunto del
giudice di primo grado, secondo il quale l’obbligo per Anas S.p.a. di
rimuovere i rifiuti in questione non sarebbe imposto “da alcuna norma di
legge o regolamentare o di altra natura”.
Qui il regime di responsabilità del soggetto proprietario viene infatti per
contro a fondarsi in via esplicita ed inequivoca sulla disciplina contenuta
nell’art. 14 del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della strada), con
specifico riguardo alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze che è
ivi affermato in capo ai soggetti che ne sono proprietari o concessionari.
Più precisamente, il comma 1, lett. a), di tale articolo pone a carico degli
enti proprietari la “manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”,
nel mentre il susseguente comma 3 precisa che “per le strade in concessione
i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal
presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che sia
diversamente stabilito”.
Tra la disciplina di ordine generale contenuta nell’art. 192 del d.lgs. 152
del 2006 e quella specifica per i soggetti proprietari e concessionari di
strade contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 viene pertanto ad
instaurarsi un rapporto di specialità, contraddistinto dalla sussistenza
nell’ordinamento di una norma puntuale che, al fine di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione stradale, impone in via diretta
al soggetto proprietario o concessionario della strada di provvedere alla
sua pulizia e, quindi, di rimuovere i rifiuti depositati sulla strada
medesima e sulle sue pertinenze.
Tale obbligo può ben correlarsi anche alle concorrenti necessità
dell’incolumità pubblica, nonché all’esigenza di evitare pregiudizi
all’ambiente e a tutti coloro che sono insediati nel territorio, e deve
pertanto essere fatto rispettare -in caso di inadempienza del proprietario o
del concessionario- dall’amministrazione comunale, in quanto
istituzionalmente tenuta a esercitare tutte le funzioni amministrative che
riguardano la popolazione ed il territorio comunale, anche con precipuo
riguardo ai servizi resi alla comunità e all’assetto e all’utilizzazione del
territorio medesimo.
Se così è, condivisibilmente il Comune ha dunque emesso il provvedimento
impugnato nei confronti di Anas S.p.a., e ciò proprio in quanto quest’ultima
è istituzionalmente e inderogabilmente obbligata a mantenere la pulizia
della strada da essa gestita e delle sue pertinenze.
In tal senso la disciplina dell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 si configura
quale parametro normativo per l’individuazione del profilo della colpa
presupposto in via generale dall’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006; e la
disciplina medesima, proprio in quanto è direttamente presupposta dalla mera
circostanza della proprietà ovvero del rapporto concessorio del soggetto
inderogabilmente preposto alla sua osservanza, neppure necessita di essere
direttamente richiamata dai provvedimenti di rimozione dei rifiuti emessi
dalle autorità comunali, essendo –per l’appunto– insito ex lege nella stessa
qualità dell’ente indicato quale proprietario o concessionario della
pubblica strada la conseguente necessità di ottemperare all’obbligo di legge
ad esso comunque imposto.
---------------
1.1. In data 29.01.2008 gli agenti del Corpo Forestale dello Stato hanno
eseguito un sopralluogo in località Beneficio del Comune di San Giuseppe
Vesuviano (NA), accertando ivi la presenza di una consistente quantità di
rifiuti abbandonati nei pressi di una stradina laterale alla Strada Statale
n. 268, di proprietà dell’Anas S.p.a. e da essa adibita a viabilità di
servizio.
La circostanza è stata accertata contestualmente anche da personale
dipendente dall’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della
Campania (A.R.P.A.C.) e dal Comune di San Giuseppe Vesuviano.
In dipendenza di ciò, con ordinanza n. 22 dd. 28.02.2008 il Responsabile del
Servizio Urbanistica, Gestione Territorio, Progettazioni–LL.PP. e Catasto
del Comune di San Giuseppe Vesuviano, “vista la comunicazione ai sensi
dell’art. 192 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 dalla quale si rileva che in data
29.01.2008” il Corpo Forestale dello Stato “ha proceduto al sequestro
penale anche a carico di ignoti di circa 60 mc. di rifiuti speciali ex art.
155 del d.lgs. 152 del 2006, costituiti prevalentemente da rifiuti
provenienti da demolizioni, materiale plastico di vario genere, pneumatici
ed onduline presumibilmente contenenti amianto, insistenti all’interno delle
particelle nn. 204 - 1387 - 1384 - 1382 del foglio n. 6 del N.C.T. del
Comune di San Giuseppe Vesuviano – Contrada Beneficio” , “visto l’art.
192 (divieto di abbandono) del d.lgs. 03.04.2006, n. 154, commi 1-2-3 e 4” e
“viste le visure catastali dalle quali si evince che le predette
particelle sono di proprietà Anas”, ha ordinato all’Anas S.p.a., “nella
persona del legale rappresentante, dipartimento Centro 1, viale Kennedy 17
Fuorigrotta-Napoli, di provvedere ad horas alla rimozione ed allo
smaltimento dei rifiuti sopra citati, perché pericolosi per la pubblica
incolumità, ed alla bonifica del luogo, nel più breve tempo possibile, onde
evitare disagi alla popolazione nonché all’ambiente, previo dissequestro da
parte dell’Autorità Giudiziaria”: il tutto con la rituale avvertenza che
“la mancata ottemperanza … oltre a quanto stabilito dal Codice Penale,
vedrà costretta quest’Amministrazione a provvedere in danno del soggetto
obbligato al recupero delle somme anticipate, come previsto dal d.lgs. 152
del 2006”.
1.2. Con ricorso proposto sub R.G. 3167 del 2008 innanzi al TAR per la
Campania, Sede di Napoli, Anas S.p.a. ha chiesto l’annullamento di tale
provvedimento, deducendo al riguardo il difetto di notificazione del
provvedimento medesimo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 192 del
d.lgs. 152 del 2006 e dell’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997, n. 22, eccesso di
potere per difetto dei fatti e dei presupposti, nonché violazione degli artt.
13, 7 e 21 del d.lgs. 22 del 1997 ed eccesso di potere per difetto dei
presupposti sotto ulteriore profilo.
1.3. In tale primo grado di giudizio si è costituito il Comune di San
Giuseppe Vesuviano, concludendo per la reiezione del ricorso.
1.4. Con sentenza n. 6101 dd. 23.06.2008, resa a’ sensi degli allora vigenti
artt. 21 e 26 della l. 06.12.1971 n. 1034 e successive modifiche, la Sezione
V dell’adito TAR ha accolto il ricorso avuto riguardo -in via assorbente-
alle dedotte censure di violazione e falsa applicazione dell’art. 192 del
d.lgs. 152 del 2006 e degli artt. 14, 13, 7 e 21 del d.lgs. 22 del 1997,
nonché di eccesso di potere per difetto dei fatti e dei presupposti.
Il giudice di primo grado ha in tal senso affermato che “l’art. 14, comma
3, del d.lgs. 22 del 1997 … permette l’emissione dell’ordinanza di rimozione
anche nei confronti di soggetti, quali il proprietario del terreno e
soggetti che vi hanno diritti reali o personali di godimento, a titolo di
responsabilità solidale, unicamente nel caso che essi siano imputabili a
titolo di dolo o cola. Come già evidenziato dalla giurisprudenza di questo
Tribunale (tra le altre, sentt. n. 1618 del 2005, 2016 del 2005, 1273 del
2008), dalla quale non vi è motivo di discostarsi, nel caso in esame non
ricorre nessuno dei presupposti previsti dal citato art. 14 del d.lgs. 22
del 1997, atteso che la presenza di rifiuti nell’area di competenza dell’Anas
non è imputata all’Ente, quale responsabile in solido con l’autore
dell’abbandono, né in via diretta, a titolo di dolo o di colpa. In
particolare, non è possibile affermare che la stessa Anas sia tenuta a
salvaguardare il proprio territorio da qualsiasi forma di discarica prodotta
da ignoti, non provenendo tale obbligo da alcuna norma di legge o
regolamentare o di altra natura”.
L’adito TAR ha compensato integralmente tra le parti le spese e gli onorari
di causa.
2.1. Con l’appello in epigrafe il Comune di San Giuseppe Vesuviano chiede
ora la riforma di tale sentenza, deducendo al riguardo error in iudicando
in relazione all’art. 14 del dlgs. 22 del 1997 e all’art. 192 del d.lgs. 192
del 2006.
L’appellante insiste in tal senso sulla sussistenza della colpa in capo all’Anas
S.p.a. in ordine alla mancata rimozione dei rifiuti nell’area di sua
proprietà, e ciò anche con riguardo a quanto disposto dall’art. 14 del
d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della Strada).
...
3.1. Tutto ciò premesso, l’appello va accolto.
3.2. Va premesso che in tema di abbandono dei rifiuti, l'art. 14 del d.lgs.
n. 22/1997 (cd. "decreto Ronchi") invero stabiliva che il
proprietario dell’area utilizzata per l’abbandono abusivo di rifiuti fosse
tenuto a provvedere al loro smaltimento solo a condizione che ne fosse
dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell’illecito per aver
posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o
colposo, escludendo conseguentemente che la norma configurasse un’ipotesi
legale di responsabilità oggettiva.
Tale disciplina è stata abrogata per effetto dell’art. 264, comma 1, lettera
i), del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, il cui art. 192 riproduce il tenore
dell’abrogato art 14, con riferimento quindi alla necessaria imputabilità a
titolo di dolo o colpa del proprietario dell’immobile in cui è avvenuto
l’abbandono, ma in più integra il precedente precetto precisando che
l’ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente “in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai
soggetti preposti al controllo” (cfr. sul punto, ad es., Cons. giust.
amm. Sicilia, Sez. giurisd., 23.05.2012, n. 460).
Il Collegio non ignora -ed, anzi, condivide- il principio di ordine generale
affermato al riguardo dalla giurisprudenza, secondo il quale sono
illegittimi gli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione di tale sua mera qualità ed
in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’amministrazione
procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente
motivazione.
Sotto questo profilo è stato infatti ripetutamente affermato che la
disciplina contenuta nel predetto art. 192 del 2006 è improntata ad una
rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, non residuando al riguardo
alcuno spazio per una responsabilità oggettiva, posto che per essere
ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturito l’abbandono
illecito di rifiuti occorre quantomeno la colpa, e che tale regola di
imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in
relazione -per l’appunto- ad un’eventuale responsabilità solidale del
proprietario dell’area (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V,
19.03.2009 n. 1612 e 25.08.2008 n. 4061).
A ben vedere la giurisprudenza è pervenuta a tale conclusione nel rilievo
che il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno
e notte, al fine di impedire ad estranei di penetrare nell’area e di
abbandonarvi i rifiuti: la richiesta di un impegno di tale entità -infatti-
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media che è
alla base della stessa nozione di colpa (cfr., ex plurimis,: Cons.
Stato, Sez. V, 08.03.2005, n. 935); e in tale situazione, quindi, e senza
che sia stato comprovata la sussistenza di un nesso causale tra la condotta
del proprietario e l’abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un
concreto obbligo per i proprietari sarebbe inesigibile proprio in quanto
riconducibile -si ribadisce- ad una responsabilità oggettiva non contemplata
dalla legge (cfr. ibidem).
La presente fattispecie si configura -peraltro- del tutto particolare, posto
che risulta del tutto infondato l’assunto del giudice di primo grado,
secondo il quale l’obbligo per Anas S.p.a. di rimuovere i rifiuti in
questione non sarebbe imposto “da alcuna norma di legge o regolamentare o
di altra natura”.
Qui il regime di responsabilità del soggetto proprietario viene infatti per
contro a fondarsi in via esplicita ed inequivoca sulla disciplina contenuta
nell’art. 14 del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della strada), con
specifico riguardo alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze che è
ivi affermato in capo ai soggetti che ne sono proprietari o concessionari.
Più precisamente, il comma 1, lett. a), di tale articolo pone a carico degli
enti proprietari la “manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”,
nel mentre il susseguente comma 3 precisa che “per le strade in
concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada
previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che
sia diversamente stabilito”.
Tra la disciplina di ordine generale contenuta nell’art. 192 del d.lgs. 152
del 2006 e quella specifica per i soggetti proprietari e concessionari di
strade contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 viene pertanto ad
instaurarsi un rapporto di specialità (così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. V,
14.03.2019, n. 1684), contraddistinto dalla sussistenza nell’ordinamento di
una norma puntuale che, al fine di garantire la sicurezza e la fluidità
della circolazione stradale, impone in via diretta al soggetto proprietario
o concessionario della strada di provvedere alla sua pulizia e, quindi, di
rimuovere i rifiuti depositati sulla strada medesima e sulle sue pertinenze.
Tale obbligo può ben correlarsi anche alle concorrenti necessità
dell’incolumità pubblica, nonché all’esigenza di evitare pregiudizi
all’ambiente e a tutti coloro che sono insediati nel territorio, e deve
pertanto essere fatto rispettare -in caso di inadempienza del proprietario o
del concessionario- dall’amministrazione comunale, in quanto
istituzionalmente tenuta a esercitare tutte le funzioni amministrative che
riguardano la popolazione ed il territorio comunale, anche con precipuo
riguardo ai servizi resi alla comunità e all’assetto e all’utilizzazione del
territorio medesimo (cfr. art. 13 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Se così è, condivisibilmente il Comune ha dunque emesso il provvedimento
impugnato nei confronti di Anas S.p.a., e ciò proprio in quanto quest’ultima
è istituzionalmente e inderogabilmente obbligata a mantenere la pulizia
della strada da essa gestita e delle sue pertinenze.
In tal senso la disciplina dell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 si configura
quale parametro normativo per l’individuazione del profilo della colpa
presupposto in via generale dall’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006; e la
disciplina medesima, proprio in quanto è direttamente presupposta dalla mera
circostanza della proprietà ovvero del rapporto concessorio del soggetto
inderogabilmente preposto alla sua osservanza, neppure necessita di essere
direttamente richiamata dai provvedimenti di rimozione dei rifiuti emessi
dalle autorità comunali, essendo –per l’appunto– insito ex lege nella
stessa qualità dell’ente indicato quale proprietario o concessionario della
pubblica strada la conseguente necessità di ottemperare all’obbligo di legge
ad esso comunque imposto.
4. Dall’accoglimento del ricorso in epigrafe consegue, in riforma della
sentenza impugnata, l’integrale reviviscenza del provvedimento impugnato in
primo grado (Consiglio di Stato,
Sez. II,
sentenza 13.06.2019 n. 3967 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA: L'approvazione
del piano di lottizzazione “non è un atto dovuto, anche se il progetto sia
conforme al piano regolatore generale, ma costituisce comunque espressione
di potere discrezionale dell'autorità chiamata a valutare l'opportunità di
dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale,
essendovi fra quest'ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di
necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza”.
In sostanza, la mera astratta conformità urbanistica del piano di
lottizzazione, non esclude la possibilità di una piena valutazione dei
contenuti di quest'ultimo e ciò perché altrimenti si finirebbe con lo
snaturare finanche la funzione di indirizzo politico spettante all’organo
consiliare, che è appunto l’unico soggetto deputato dal legislatore, anche
regionale, all’approvazione dello strumento attuativo.
Pertanto, il Consiglio Comunale esercita pur sempre poteri di pianificazione
del territorio comunale e non di semplice riscontro della conformità del
piano allo strumento generale.
Ne consegue che al Consiglio Comunale va riconosciuto ampio potere
discrezionale nella valutazione delle soluzioni proposte, quand’anche
conformi agli strumenti urbanistici primari.
L'assenza di discrezionalità caratterizza semmai il successivo rilascio del
titolo edilizio una volta del piano di lottizzazione sia stato approvato e
non certo l'approvazione dello strumento attuativo, la cui previsione da
parte delle norme tecniche d'attuazione risponde proprio all'esigenza di
consentire una valutazione discrezionale in ordine al concreto assetto che
si intende imprimere al territorio.
In ossequio ai principi generali, l'esercizio di potere discrezionale deve
ovviamente essere accompagnato da congrua motivazione, che nel caso di
specie, contrariamente a quanto prospettato in ricorso, è espressamente
enunciata prima nella unitaria dichiarazione di voto dei singoli consiglieri
e poi nella parte finale dell’atto impugnato.
---------------
Ritiene il Collegio che il ricorso sia infondato.
Invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, dal quale il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi,
contrariamente a quanto prospettato in ricorso, l'approvazione del piano di
lottizzazione “non è un atto dovuto, anche se il progetto sia conforme al
piano regolatore generale, ma costituisce comunque espressione di potere
discrezionale dell'autorità chiamata a valutare l'opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi
fra quest'ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria
compatibilità, ma non di formale coincidenza” (cfr. in termini, Tar
Calabria–Catanzaro, sez. I, 06/06/2008, n. 624; Consiglio di Stato, sez. IV,
19/09/2012, n. 4977 e la giurisprudenza ivi richiamata).
In sostanza, la mera astratta conformità urbanistica del piano di
lottizzazione, non esclude la possibilità di una piena valutazione dei
contenuti di quest'ultimo e ciò perché altrimenti si finirebbe con lo
snaturare finanche la funzione di indirizzo politico spettante all’organo
consiliare, che è appunto l’unico soggetto deputato dal legislatore, anche
regionale, all’approvazione dello strumento attuativo.
Pertanto, il Consiglio Comunale, nell’esercizio delle funzioni attribuite
dall’art. 14 l.r. n. 71/1978, esercita pur sempre poteri di pianificazione
del territorio comunale e non di semplice riscontro della conformità del
piano allo strumento generale.
Ne consegue che al Consiglio Comunale va riconosciuto ampio potere
discrezionale nella valutazione delle soluzioni proposte, quand’anche
conformi agli strumenti urbanistici primari.
L'assenza di discrezionalità caratterizza semmai il successivo rilascio del
titolo edilizio una volta del piano di lottizzazione sia stato approvato e
non certo l'approvazione dello strumento attuativo, la cui previsione da
parte delle norme tecniche d'attuazione risponde proprio all'esigenza di
consentire una valutazione discrezionale in ordine al concreto assetto che
si intende imprimere al territorio.
In ossequio ai principi generali, l'esercizio di potere discrezionale deve
ovviamente essere accompagnato da congrua motivazione, che nel caso di
specie, contrariamente a quanto prospettato in ricorso, è espressamente
enunciata prima nella unitaria dichiarazione di voto dei singoli consiglieri
e poi nella parte finale dell’atto impugnato
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 12.06.2019 n. 1432 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Nota sulle modifiche al codice dei
contratti
(ANCI, 24.06.2019).
---------------
Al riguardo si legga:
●
Codice dei contratti, la nota dell'Anci sulle modifiche
introdotte dalla Legge Sblocca-cantieri. I principali
contenuti d’interesse del Capo I della legge n. 55/2019
(25.06.2019 - link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Legge 14.06.2019 n. 55 “Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto legge 18.04.2019 n. 32, recante
disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei
contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi
infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione
a seguito di eventi sismici”
(Consulta Regionale Ordini Ingegneri Lombardia,
nota 19.06.2019 n. 200/2019 di prot.).
---------------
Al riguardo si legga:
●
Sblocca-cantieri, Ingegneri Milano: la preventiva
autorizzazione scritta per tutte le zone sismiche è una
follia. Finzi (Ordine degli Ingegneri di Milano):
“Si bloccano tutte le opere compresa la messa in sicurezza
del patrimonio edilizio scolastico. Basta a norme scritte da
chi non ha esperienza sul campo” (24.06.2019 - link a
www.casaeclima.com).
●
Sblocca-cantieri e interventi strutturali in zone sismiche:
gli Ingegneri lombardi denunciano criticità.
Alcune criticità non consentiranno agli Ordini territoriali
degli Ingegneri di espletare le proprie funzioni
istituzionali di legge quali garantire la tutela delle
prestazioni degli iscritti, coadiuvare le amministrazioni
pubbliche nell’interesse della committenza pubblica e
privata (21.06.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
APPALTI:
Legge 14.06.2019, n. 55, di
conversione del DL 18.04.2019, n. 32 (c.d. decreto “SBLOCCA-CANTIERI”)
GURI n. 140 del 17.06.2019 - Esame e commento (ANCE,
18.06.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: LINEE
GUIDA SULLA DISCIPLINA DELLE TERRE E ROCCE DA SCAVO - nota
ANCE di analisi alla guida SNPA
(ANCE, giugno 2019). |
EDILIZIA PRIVATA: ELIMINAZIONE
DELLE BARRIERE ARCHITETTONICHE PER NON VEDENTI E IPOVEDENTI
AI SENSI DEL DPR N. 503/1996, DEL DM N. 236/1989 E DEL DPR
N. 380/2001 - NECESSITÀ DI PREVEDERE ACCORGIMENTI E MISURE
IDONEE IN SEDE PROGETTUALE E DI TENERE CONTO DELLE ESIGENZE
DELLE PERSONE NON VEDENTI E IPOVEDENTI – INFORMATIVA PER GLI
ORDINI TERRITORIALI E ATTIVITÀ DI SENSIBILIZZAZIONE DEGLI
ISCRITTI ALL’ALBO
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare
28.05.2019 n. 387 - link a http://cni-online.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Quali leve per la rinascita dei centri urbani?
(ANCE, 21.06.2019).
---------------
●
INCENTIVI
SPECIFICI PER LE IMPRESE DEL MEZZOGIORNO:
- Bonus investimenti Sud - Sgravio contributivo per
l’occupazione nel Mezzogiorno - Resto al Sud - Zone franche
●
INCENTIVI GENERALI PER L’INTERO SISTEMA
PRODUTTIVO: - Iper
e super ammortamento - Nuova Sabatini - Credito d’imposta
formazione - Mini IRES - Credito d’imposta in Ricerca e
Sviluppo
●
INCENTIVI PER LA RIGENERAZIONE URBANA:
- Incentivi alla valorizzazione edilizia - Sismabonus per
gli acquisti - Sismabonus - Ecobonus |
EDILIZIA PRIVATA: Sismabonus
sull'acquisto di unità immobiliari antisismiche
(ANCE, giugno 2019).
---------------
Al riguardo si legga:
●
DL Crescita: sismabonus esteso alle zone a rischio
sismico 2 e 3. Da Ance la guida riepilogativa “Sismabonus
sull’acquisto delle unità immobiliari antisismiche”
(21.06.2019 - link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La
responsabilità nell'appalto - Rassegna di giurisprudenza
(ANCE, 20.05.2019).
---------------
Al riguardo si legga:
●
La responsabilità nell’appalto: il punto sulla
giurisprudenza. Dall'Ance la rassegna di giurisprudenza
aggiornata al 20.05.2019 (29.05.2019 -
link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, maggio 2019). |
EDILIZIA PRIVATA: SISMA
BONUS: LE DETRAZIONI PER GLI INTERVENTI ANTISISMICI
(Agenzia delle Entrate, febbraio 2019). |
VARI: LE
AGEVOLAZIONI FISCALI SULLE SPESE SANITARIE
(Agenzia delle Entrate, settembre 2018). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Chiarimenti e linee guida in materia di collocamento
obbligatorio delle categorie protette. Articoli 35 e 39 e
seguenti del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 - Legge
12.03.1999, n. 68 - Legge 23.11.1998, n. 407 - Legge
11.03.2011, n. 25
(direttiva
24.06.2019 n. 1/2019). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 28.06.2019, "Disposizioni in merito
alla proroga dei termini assegnati al commissario regionale del Parco Adda
Nord con d.g.r. n. XI/577 del 01.10.2018" (deliberazione
G.R. 21.06.2019 n. 1784). |
APPALTI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 26.06.2019 "Patto di
integrità in materia di contratti pubblici della Regione
Lombardia e degli enti del sistema regionale di cui all’all.
A1 alla l.r. 27.12.2006, n. 30" (deliberazione
G.R. 17.06.2019 n. 1751). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: G.U.
25.06.2019 n. 147, suppl. ord. n. 24, "Ripubblicazione
del testo del decreto-legge 18.04.2019, n. 32, coordinato
con la legge di conversione 14.06.2019, n. 55,
recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio del settore
dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi
infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione
a seguito di eventi sismici»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 24.06.2019 "Approvazione
della disciplina per il riconoscimento delle spese dei
consorzi di bonifica per la realizzazione delle opere di
bonifica e irrigazione (art. 95, comma 5-bis, l.r. 31/2008),
delle opere di difesa del suolo (artt. 28, 29 e 30 l.r.
4/2016) e delle attività di gestione del reticolo idrico
principale (art. 23 l.r. 37/2017)" (deliberazione
G.R. 10.06.2019 n. 1730). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
22.06.2019 n. 145 "Interventi per la concretezza delle
azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione
dell’assenteismo" (Legge
19.06.2019 n. 56). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 25 del 21.06.2019, "Modifiche
alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle
leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e
sviluppo rurale)" (L.R.
18.06.2019 n. 11). |
EDILIZIA PRIVATA -URBANISTICA: Proposta
di Progetto di Legge “MISURE DI SEMPLIFICAZIONE E
INCENTIVAZIONE PER LA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE,
NONCHE’ PER IL RECUPERO DEL PATRIMONIO EDILIZIO ESISTENTE.
MODIFICHE E INTEGRAZIONI ALLA LEGGE REGIONALE 11.03.2005, N.
12 (LEGGE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO) E AD ALTRE LEGGI
REGIONALI”
(deliberazione
G.R. 17.06.2019 n. 1741). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: M.
T. Massi,
Le nuove soglie per appalti di lavori, servizi e forniture e i criteri di
aggiudicazione (25.06.2019 - tratto da
www.fondazioneifel.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: A.
Berti,
Diritto di accesso e diritto di informazione del giornalista
(24.06.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
ABSTRACT
Il diritto di accesso ai dati ed ai documenti amministrativi rappresenta uno
strumento fondamentale per la effettiva realizzazione ed attuazione del
“diritto di informazione” del giornalista, che è diritto tutelato dalla
Costituzione, dalle Convenzioni internazionali, dai Trattati dell’Unione
europea e dalla stessa legislazione nazionale.
Lo strumento più consono a realizzare tale diritto è l’accesso civico
generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, D.Lgs. 33/2013 (introdotto dal
D.Lgs. 97/2016), mentre non più attuale e proficuo appare l’utilizzo
dell’accesso documentale ex L. 241/1990.
A prescindere dalla soluzione che si voglia dare, in via generale, alla
dibattuta e controversa questione della c.d. “funzionalizzazione”
dell’accesso civico generalizzato, l’interesse pubblico insito
nell’esercizio dell’attività giornalistica ed il peculiare statuto
professionale del giornalista sono tali da rendere inesigibile e non
giustificabile un controllo in sede amministrativa ed in sede giudiziale in
ordine alla finalità dell’istanza di accesso presentata dal giornalista,
dovendo ammettersi una sua legittimazione soggettiva generale all’esercizio
di tale diritto, ferme restando le limitazioni stabilite dall’art. 5-bis
D.Lgs. 33/2013 ed il controllo sulle “modalità di esercizio” del diritto, in
conformità ai principi di “buona fede e correttezza”.
---------------
Sommario: 1. Introduzione. - 2) La legittimazione del giornalista
all’accesso documentale ex Legge 241/1990. - 3) La legittimazione del
giornalista all’accesso civico generalizzato ex art. 5, comma 2, D.Lgs.
33/2013. - 3.1) Le norme a tutela del c.d. “diritto di informazione” del
giornalista. - 3.2) La riserva di Legge in tema di “restrizioni” della
“libertà di informazione” del giornalista. - 3.3) L’interesse pubblico
connaturato all’esercizio dell’attività giornalistica. - 4) Conclusioni. |
APPALTI:
E. Leonetti, Sblocca-cantieri:
le principali novità sui contratti pubblici dopo la conversione
(20.06.2019 - tratto da
www.fondazioneifel.it). |
APPALTI: Codice
Appalti e motivo facoltativo di esclusione dalle gare: nuova sentenza della
Corte Ue.
Secondo la Corte di giustizia europea la norma di cui all’articolo 80, comma
5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici non è idonea a preservare
l’effetto utile del motivo facoltativo di esclusione previsto dalla
direttiva 2014/24/UE (...continua)
(20.06.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
APPALTI: Legge
Sblocca-cantieri: esclusione dalle gare per irregolarità fiscali solo se
accertate. Come richiesto dall'Ance, è stata ripristinata
l’esclusione dalle gare d’appalto unicamente nell’ipotesi di irregolarità
fiscali e contributive “gravi e definitivamente accertate” secondo la
formulazione originaria, già contenuta nel Codice dei contratti pubblici (20.06.2019
- link a www.casaeclima.com). |
APPALTI: M.
Lipari,
Il rito superspeciale in materia di ammissioni
e di esclusioni (art. 120, co. 2-bis e 6-bis del cpa) va in soffitta. E,
ora, quali conseguenze pratiche? (20.06.2019 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: - 1. La soppressione del rito superspeciale di cui
all’art. 120, commi 2-bis e 6-bis del CPA. - 2. Le ragioni della riforma e
la scelta della decretazione d’urgenza. Un coro (quasi) unanime di
entusiastica approvazione: un rafforzamento del diritto di difesa? - 3. Una
soppressione davvero necessaria? - 4. Il regime transitorio. I processi
iniziati dopo l’entrata in vigore della riforma. - 5. La sanatoria delle
preclusioni maturate nel previgente regime processuale. - 6. I problemi
aperti. La tutela degli interessi strumentali e la questione dei ricorsi
incrociati reciprocamente escludenti. L’impugnazione della propria
esclusione. - 7. Resta la mera facoltà di impugnazione immediata del
provvedimento recante le ammissioni e le esclusioni? La giurisprudenza della
CGUE e la comunicazione del provvedimento. - 8. I ricorsi finalizzati alla
corretta determinazione della platea dei concorrenti e la
“cristallizzazione” delle medie: un caso di persistente onere di immediata
impugnazione del provvedimento recante le ammissioni e le esclusioni? |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Legge
Sblocca-cantieri: riepilogo delle principali novità. Il focus del Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti (19.06.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: I
vincoli e le distanze nell’edilizia:
Vincoli (A. Piola) -
Esempi di distanze nell'edilizia (A. Antico) (17.06.2019 -
tratto da www.amministrativistiveneti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: D.
Chinello,
Presupposti e requisiti dell’ordinanza di demolizione di opere abusive
(15.06.2019 - tratto da www.amministrativistiveneti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Antoniol,
La confisca edilizia
(15.06.2019 - tratto da
www.amministrativistiveneti.it). |
APPALTI: Sblocca-cantieri:
fino al 31/12/2020 disciplina semplificata per i lavori di manutenzione.
La disciplina semplificata è finalizzata a consentire l'affidamento dei
lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria sulla base del progetto
definitivo e l’esecuzione a prescindere dall'avvenuta redazione e
approvazione del progetto esecutivo (11.06.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
SICUREZZA LAVORO: B.
Camparada,
Divagazioni storiche sui coordinatori per la sicurezza
(giugno 2019 - tratto da www.insic.it). |
APPALTI: M.
Terrei,
I VERBALI DI GARA NELL’ERA DELLE PIATTAFORME
ELETTRONICHE DI NEGOZIAZIONE
(giugno 2019 - tratto da www.ambintediritto.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il verbale. Breve descrizione di
carattere generale. – 2.1. sulla forma del verbale - 3. Il soggetto
verbalizzante. - 4. I contenuti e le formalità delle verbalizzazioni. - 5.
La redazione del verbale. - 6. Il verbale nella normativa Appalti. - 7. La
funzione assegnata dalla norma alle Piattaforme Elettroniche di
Negoziazione. - 7.1. Le norme tecniche dei sistemi telematici nella
Direttiva e nel Codice. – 7.2. Circolare n. 3 del 06.12.2016 dell’Agenzia
per l’Italia Digitale (AGID). – 7.2.1. Circolare n. 3/2016 AGID – Appendice.
– 7.2.2. I sistemi telematici di acquisto e le norme tecniche. Una
riflessione sul verbale - 8. Le procedure di esame e valutazione delle
offerte con l’avvento delle Piattaforme Elettroniche di Negoziazione. – 8.1.
L’avvio della seduta di gara. – 8.2. l’accesso alla Piattaforma e l’avvio
della seduta di gara. – 8.3. La pubblicità delle sedute di gara. - 8.4.
l’analisi della documentazione amministrativa. - 8.5. l’analisi dell’offerta
tecnica. - 8.6. l’analisi dell’offerta economica. - 9. Le procedure di
valutazione dell’anomalia. – 10. I verbali di gara nel MePA (Mercato
elettronico della Pubblica Amministrazione). - 11. Conclusioni. |
CORTE DEI CONTI |
EDILIZIA PRIVATA:
Dal 2018, gli “oneri di urbanizzazione”
cesseranno di essere un’entrata genericamente destinata a
investimenti, per tornare a essere un'entrata
vincolata per legge, con tutte le conseguenze del caso.
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Il sindaco della Città di Segrate (MI) ha richiesto alla
Sezione un parere sulla possibilità di utilizzare negli
esercizi 2018 e 2019 quota dei proventi derivanti da “oneri
di urbanizzazione” e “monetizzazione di aree a standards”,
per l’estinzione anticipata di mutui, assunti in precedenza,
esclusivamente, per il finanziamento di spese d’investimento
finalizzate alla realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, al fine di sostenere il piano di
riequilibrio (Piano) richiesto dal comune.
A tale scopo ha precisato nella richiesta che, nell’ambito
del Piano il comune intende attuare, nel corso degli
esercizi 2018 e 2019, “una significativa operazione di
riduzione del debito residuo” (mutui in corso di
ammortamento assunti precedentemente con istituti bancari
per la realizzazione di opere pubbliche), per
“l’alleggerimento della rigidità strutturale del bilancio”.
L’ammontare di proventi che si propone di impiegare a tale
fine è di 10 milioni con riferimento agli oneri di
urbanizzazione (2018 e 2019) e 4 milioni in relazione alla
“monetizzazione di aree a standards” (2018). Si esclude
esplicitamente il finanziamento con questi proventi
“dell’indennizzo dovuto all’istituto mutuante a fronte del
recesso anticipato del contratto”.
...
Con specifico riferimento alla richiesta oggetto la presente
pronuncia, non può essere, in pendenza dell’esame del Piano
di riequilibrio, essere considerata ammissibile, pur
presentando profili sostanziali che meritano di essere
considerati.
In tal senso, ferme restando le ragioni dell'inammissibilità
del quesito sotto il profilo oggettivo, a ogni buon conto
questa Sezione ricorda che la questione dell’utilizzazione
dei proventi dei cosiddetti oneri di urbanizzazione e
relative sanzioni è stata ripetutamente scandagliata da
questa Corte (si richiamano in particolare il
parere 09.02.2016 n. 38 ed
il
parere 23.03.2017 n. 81
di questa Sezione), dal cui
esame è possibile ricostruire il complesso quadro normativo.
Il quesito richiama espressamente l’art. 4 della legge 847
del 1964 (urbanizzazione primaria) e l’art. 44 della legge
865 del 1971 (urbanizzazione secondaria).
Come si evince dalla richiesta di parere, di questi mutui,
assunti per eseguire gli investimenti di cui al punto
precedente e in questo momento in fase di ammortamento, il
comune vorrebbe, per un ammontare complessivo pari a 14
milioni di euro, operare un’estinzione anticipata,
utilizzando quota equivalente di proventi derivanti da oneri
di urbanizzazione e da monetizzazione di aree a standard.
Un aspetto rilevante del quesito attiene quindi al grado di
libertà che l’ordinamento vigente consente al comune
nell’impiego di queste risorse.
Il legislatore, come rileva anche il comune nella nota di
richiesta del parere, è intervenuto di recente sul punto,
con l’art. 1, commi 460 e 461, della legge 232 del 2016
(legge di bilancio 2017), che prescrive la destinazione
esclusiva e senza vincoli temporali (dal 01.01.2018) dei
“proventi dei titoli abitativi edilizi e delle sanzioni
previste” a specifiche fattispecie dallo stesso indicate.
Con la legge richiamata (comma 460) è stato ripristinato uno
stringente vincolo di destinazione, dal 2018, per “i
proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni
previste dal testo unico sull’edilizia” (DPR 380 del 2001),
che “sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali
alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e
straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei
centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di
riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di
costruzioni abusive, all’acquisizione e alla realizzazione
di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di
tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio,
anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del
rischio idrogeologico e sismico e della tutela e
riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a
interventi volti a favorire l’insediamento di attività di
agricoltura nell’ambito urbano”.
Da ultimo, con il decreto legge 148 del 2017 (decreto
fiscale collegato alla manovra di bilancio per il 2018)
il
legislatore è nuovamente intervenuto sul punto, integrando
le fattispecie previste nel comma 460 con le “spese di
progettazione per opere pubbliche".
La richiamata norma inserita nella legge di bilancio per il
2017, indica, dopo la modifica del decreto legge 148 del
2017, otto fattispecie esplicitamente individuate, cui
destinare “esclusivamente e senza vincoli temporali” i
proventi “dei titoli abitativi edilizi e delle sanzioni”.
Si reintroduce quindi, con il richiamato comma 460 della
legge di bilancio per il 2017, un vincolo di destinazione
dell'entrata ritornando, in pratica, alla logica
dell’originaria legge 10 del 1977 (cosiddetta legge Bucalossi).
Dal 2018, gli “oneri di urbanizzazione”
cesseranno di essere un’entrata genericamente destinata a
investimenti, per tornare a essere un'entrata
vincolata per legge, con tutte le conseguenze del caso, come
rilevato nel
parere 23.03.2017 n. 81 di questa sezione.
Se da un lato il vincolo introdotto, esclusivo e permanente,
non sembra consentire impiego diverso, non si possono non
richiamare le molteplici analogie tra le fattispecie
richiamate nel citato comma 460 e l’oggetto stesso dei
mutui, contratti per il finanziamento di spese
d’investimento finalizzate alla realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria.
Inoltre, sotto un diverso profilo non si può non rilevare
che l’impiego di entrate per la riduzione di spese della
medesima natura, sia per il titolo (entrate in conto
capitale contro spese in conto capitale), sia per la durata
(entrate temporanee contro spese temporanee) contrasta con
la tendenza alla dequalificazione della spesa che la Corte
ha più volte rilevato in senso negativo (v. fra le ultime,
sul punto, le deliberazioni nn. 382/2015/PRSE; 360/2015/PRSE;
160/2015/PRSE; 155/2015/PRSE; 152/2015/PRSE).
Nella stessa direzione si muove il richiamo alla deliberazione n. 317/2011/PAR sezione Lombardia sul rimborso
del recesso anticipato, di cui si esclude, seguendo le
indicazioni della Corte, la contabilizzazione nel titolo III.
Il divieto di utilizzare la riduzione di spese in conto
capitale per alimentare corrispondentemente spese correnti
(e, specularmente, l’utilizzo di entrate in conto capitale
per sostenere spese correnti) trova la sua ratio
nell’esigenza di non peggiorare il risparmio pubblico
(risultato differenziale tra entrate correnti e spese
correnti), mentre, com’è noto, tali spostamenti non
producono effetti sul saldo netto da finanziare (risultato
differenziale tra entrate e spese finali).
Nel senso di evitare la dequalificazione della spesa è anche
il richiamo all’art. 1, comma 443, della legge 228 del 2012
(legge di stabilità per il 2013), che consente, in
applicazione dell’art. 162, comma 6, del TUEL, la
destinazione dei proventi da alienazione di beni
patrimoniali disponibili, alla esclusiva copertura di spese
d’investimento, ovvero, per la parte eccedente, alla
riduzione del debito (la norma è richiamata in correlazione
alla natura di entrata patrimoniale dei proventi da
“monetizzazione di aree a standard”, classificata nel Titolo IV, entrate in conto capitale).
La necessità di sostenere il piano di riequilibrio attivato
con deliberazione del consiglio comunale numero 1 del 13.02.2017, e successivamente approvato con deliberazione
consiliare n. 19 del 12.05.2017 (e rettificato con
successiva deliberazione n. 21 del 19/05/2017), attualmente
in fase di istruttoria (Piano di riequilibrio 2017–2026),
non può non far rilevare come la procedura di riequilibrio
pluriennale si configura come “una terza fattispecie che si
aggiunge” a quelle già previste dal TUEL, relative
rispettivamente agli enti in condizioni strutturalmente
deficitarie e a quelli in situazioni di dissesto
finanziario.
In altre parole la situazione debitoria, cui il Piano deve
fornire “una quantificazione veritiera e attendibile”,
intesa in senso largo, nelle molteplici dimensioni assunte
dallo squilibrio finanziario, diventa il punto cruciale sul
quale focalizzare la governance finanziaria. Tutte le
energie amministrative e contabili devono essere quindi
spese, una volta valutati positivamente i presupposti, nel
tentativo di evitare il dissesto, che diviene un percorso
obbligato al verificarsi delle condizioni previste dall’art.
244 del TUEL.
Si rileva pertanto, in conclusione,
la coesistenza di due
problematiche, indotte, la prima, dalla legge di bilancio
per il 2017, che reintroduce il vincolo di destinazione
sugli “oneri di urbanizzazione”, e, la seconda, dalla
normativa sul riequilibrio pluriennale (art. 243-bis del TUEL), finalizzata al superamento di una situazione di grave
precarietà finanziaria (Corte dei Conti, Sez. controllo
Lombardia,
parere 20.12.2017 n. 372). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
- i proventi dei titoli
abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo
unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (c.d. “oneri di urbanizzazione”)
possono essere destinati anche al finanziamento di spese
correnti nei limiti degli utilizzi stabiliti, per il
2017, dall’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n.
208
e per 2018 e gli esercizi seguenti dall’art. 1, comma 460,
della legge 11.12.2016, n. 232;
- i proventi derivanti “dalla monetizzazione di aree a standard”
possono essere destinati solo a spese di investimento
secondo quanto stabilito l’art. 46, comma 1, della legge
regionale 11.03.2005, n. 12;
- i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali
disponibili possono essere destinati, di regola, solo alla
copertura di spese di investimento o alla
riduzione dell’indebitamento ai sensi dell’art. 1, comma
443, della legge 24.12.2012, n. 228 e dell’art. 56-bis,
comma 11, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito
dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Tali entrate possono essere utilizzate anche per il
finanziamento di spese correnti esclusivamente nelle ipotesi
eccezionali previste dall’art. 255, comma 9, del TUEL ove
l’ente versi in situazione di dissesto; dall’art. 243-bis,
comma 8, lett. g), del TUEL ove l’ente abbia fatto ricorso
alla procedura di riequilibrio pluriennale; dall’art. 2,
comma 4, del DM 02.04.2015 per il ripiano del maggior
disavanzo di amministrazione derivante dal passaggio al
nuovo sistema contabile armonizzato
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Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Sala
Comacina (CO) formula una richiesta di parere
riguardante le entrate destinabili al finanziamento di spese
correnti, ponendo i seguenti quesiti:
1. è possibile utilizzare per l’anno 2017 a finanziamento delle
spese correnti, oltre agli oneri di urbanizzazione, anche i
proventi derivanti da monetizzazione di aree sempre inerenti
il rilascio di permessi a costruire pertanto direttamente
collegati agli oneri di urbanizzazione?
2. è possibile utilizzare tali proventi (oneri di urbanizzazione e
monetizzazione di aree) a finanziamento delle spese correnti
anche nel bilancio pluriennale per gli anni 2018-2019?
3. è possibile utilizzare proventi da alienazione di un terreno di
proprietà comunale, già deliberata nel 2016 in corso di
procedura di gara, per finanziare la spesa corrente nel
bilancio pluriennale 2018-2019?
...
La risposta ai quesiti formulati dal Comune è ricavabile
dalla lettura dei principi generali e delle specifiche
disposizioni di legge che, nel quadro dell’ordinamento
finanziario e contabile degli enti locali, fissano il regime
di utilizzazione e di destinazione delle entrate iscritte a
bilancio.
Il principio dell’”unità”, compreso tra i principi contabili
generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n.
118 (allegato 1) e a cui gli enti locali devono conformare
la gestione finanziaria, dopo avere affermato che “è il
complesso unitario delle entrate che finanzia
l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la
totalità delle sue spese durante la gestione” -aggiunge che–
“le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente
al finanziamento di spese di investimento”.
Lo stesso principio stabilisce ancora che “i documenti
contabili non possono essere articolati in maniera tale da
destinare alcune fonti di entrata a copertura solo di
determinate e specifiche spese, salvo diversa disposizione
normativa di disciplina delle entrate vincolate”.
Viene quindi ribadito, in via generale, il divieto di
finanziare spese correnti con entrate in conto capitale che
trova giustificazione anche nell’esigenza di assicurare il
mantenimento degli equilibri di bilancio degli enti locali
espressa dall’art. 162, comma 6, del decreto legislativo 10.08.2000, n. 267 (TUEL).
L’utilizzazione di entrate in conto capitale per
finanziamento di spese correnti, in deroga al principio
sopra richiamato, può essere autorizzata solo da specifiche
disposizioni di legge quali sono state quelle che,
nell’ultimo decennio, hanno riguardato i proventi derivanti
dai c.d. “oneri di urbanizzazione”.
Rinviando al
parere 09.02.2016 n. 38 di questa Sezione per una approfondita analisi
sulla natura di tali entrate e sull’evoluzione legislativa
dell’utilizzazione delle stesse, si richiamano di seguito le
disposizioni in vigore per gli anni 2017 e 2018 e seguenti,
attinenti alla richiesta di parere.
L’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n. 108
(legge di stabilità per il 2016) dispone che “per gli anni
2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle
sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all'articolo 31,
comma 4-bis, del medesimo testo unico, possono essere
utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di
manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del
patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle
opere pubbliche”.
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232
(legge di bilancio per il 2017), dispone viceversa che “a
decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli
abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo
unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6
giugno 2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza
vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione
ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi
compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a
interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di
demolizione di costruzioni abusive, all'acquisizione e alla
realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a
interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della
mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della
tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico,
nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di
attività di agricoltura nell'ambito urbano”.
Ne viene che i proventi in parola, per la componente cui è
da riconoscersi natura di entrata in conto capitale, (cfr.
Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 09.02.2016 n. 38, cit.), nel 2017 potranno
essere destinati totalmente al finanziamento delle spese
correnti elencate dalla legge di stabilità per il 2016 in
deroga al principio di generica destinazione a spese di
investimento.
A decorrere dal 01.01.2008, viceversa, le entrate
derivanti dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi e
dalle relative sanzioni dovranno essere destinate solo agli
specifici utilizzi, attinenti prevalentemente a spese in
conto capitale, stabiliti dalla legge di bilancio per il
2017.
Per effetto della predetta legge, in altri termini, dal 2018
i proventi da “oneri di urbanizzazione” cesseranno di essere
entrate con destinazione generica a spese di investimento
per divenire entrate vincolate a determinate categorie di
spese ivi comprese le spese correnti, limitatamente agli
interventi di manutenzione ordinaria sulle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria.
Del mutato quadro legislativo, nel senso sopra descritto, il
Comune dovrà tenere conto nella predisposizione del bilancio
di previsione 2017-2019.
Diversa è la disciplina degli dei proventi derivanti dalla
c.d. “monetizzazione di aree a standards”, consistente nel
versamento al Comune di un importo alternativo alla cessione
diretta delle aree necessarie alle opere di urbanizzazione,
la cui destinazione è viceversa demandata alla legislazione
regionale.
Per la Lombardia l’art. 46, comma 1, della legge regionale
11.03.2005, n. 12 stabilisce al riguardo che “i proventi
delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono
utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti
nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica”.
Il vincolo di destinazione specifica stabilito dalla fonte
regionale sopra richiamata esclude pertanto che tali
proventi, in conformità alla loro natura di entrate in conto
capitale, possano essere destinati al finanziamento di spese
correnti.
Né si può ammettere un’applicazione analogica delle
disposizioni di legge prima citate sull’utilizzazione di
proventi derivanti dagli oneri di urbanizzazione.
Questa Sezione, con il
parere 26.06.2006 n. 6, si è già pronunciata sulla questione nei
termini che si riferiscono di seguito:
“Occorre tuttavia osservare che mentre il contributo di
costruzione risulta un provento connesso al rilascio del
permesso di costruire commisurato, secondo quanto disposto
dall’art. 16 DPR 380/2001, a tariffe determinate dal Consiglio
Comunale i proventi della monetizzazione trovano fondamento
nelle convenzioni che consentono a soggetti privati
obbligati a cedere la proprietà di aree a favore dei Comuni
di corrispondere, in alternativa totale o parziale, una
somma commisurata all’utilità̀ economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non superiore al
costo di acquisto di altre aree avente analoghe
caratteristiche.
La monetizzazione costituisce un’obbligazione alternativa
alla cessione da parte dei privati di aree che potrebbero
risultare non utili ai fini dell’interesse pubblico.
Pertanto tale entrata non può che essere classificata, al
titolo IV –Entrate derivanti da alienazioni, da
trasferimenti di capitale e da riscossione di crediti– e,
come tale, essere destinata al finanziamento di spese di
investimento, ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma
1 lett. a) della legge regionale 11.03.2005, n. 12 alla
realizzazione degli interventi previsti nel Piano dei
servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a
destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese correnti costituirebbe un
manifesto depauperamento del patrimonio comunale,
configurando un evidente pregiudizio alla sana gestione
finanziaria dell’ente locale”.
Che le entrate in conto capitale siano destinate
esclusivamente al finanziamento di spese di investimento
impedisce poi che, di regola, i proventi derivanti
dall’alienazione di beni patrimoniali possano essere
utilizzati per finanziare spese correnti.
Il principio, è ribadito anche dall'art. 1, comma 443, della
legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il
2013) che recita: "in applicazione del secondo periodo del
comma 6 dell'art. 162 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, i proventi da alienazioni di beni patrimoniali
disponibili possono essere destinati esclusivamente alla
copertura di spese di investimento ovvero, in assenza di
queste o per la parte eccedente, per la riduzione del
debito".
Si richiama anche l’art. 56-bis, comma 11, del decreto-legge
21.06.2013, n. 69 convertito dalla legge 09.08.2013,
n. 98 nel testo modificato dall’art. 7, comma 5, del
decreto-legge 19.06.2015, n. 78 ove si stabilisce che
“in considerazione dell'eccezionalità della situazione
economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di
riduzione del debito pubblico, al fine di contribuire alla
stabilizzazione finanziaria e promuovere iniziative volte
allo sviluppo economico e alla coesione sociale, è altresì
destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato,
con le modalità di cui al comma 5 dell'articolo 9 del
decreto legislativo 28.05.2010, n. 85, il 10 per cento
delle risorse nette derivanti dall'alienazione
dell'originario patrimonio immobiliare disponibile degli
enti territoriali, salvo che una percentuale uguale o
maggiore non sia destinata per legge alla riduzione del
debito del medesimo ente. Per gli enti territoriali la
predetta quota del 10% è destinata prioritariamente
all'estinzione anticipata dei mutui e per la restante quota
secondo quanto stabilito dal comma 443 dell'articolo 1 della
legge 24.12.2012, n. 228. Per la parte non destinata
al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato, resta fermo
quanto disposto dal comma 443 dell'articolo 1 della legge 24.12.2012, n. 228”.
Disposizioni speciali che, in deroga al principio generale
confermato anche dalla disciplina sopra richiamata,
consentano in via eccezionale di utilizzare entrate
derivanti dall’alienazione di beni patrimoniali disponibili
per finanziare spese correnti, sono quelle previste per le
esigenze di risanamento dell’ente locale nelle ipotesi di
dissesto (art. 255, comma 9, del TUEL), di ricorso alla
procedura di riequilibrio pluriennale (art. 243-bis, comma
8, lett. g) o di ripiano dal maggior disavanzo derivante dal
riaccertamento straordinario dei residui nel passaggio al
nuovo sistema contabile armonizzato (art. 2, comma 4, del DM
02.04.2015 “Criteri e modalità di ripiano dell'eventuale
maggiore disavanzo di amministrazione derivante dal riaccertamento straordinario dei residui e dal primo
accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità, di
cui all'articolo 3, comma 7, del decreto legislativo n. 118
del 2011”).
Alla luce delle predette considerazioni è possibile
affermare, in risposta ai quesiti formulati nella presente
richiesta di parere, che:
- i proventi dei titoli
abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo
unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (c.d. “oneri di urbanizzazione”)
possono essere destinati anche al finanziamento di spese
correnti nei limiti degli utilizzi stabiliti, per il
2017, dall’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n.
208
e per 2018 e gli esercizi seguenti dall’art. 1, comma 460,
della legge 11.12.2016, n. 232;
- i proventi derivanti “dalla monetizzazione di aree a standard”
possono essere destinati solo a spese di investimento
secondo quanto stabilito l’art. 46, comma 1, della legge
regionale 11.03.2005, n. 12;
- i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali
disponibili possono essere destinati, di regola, solo alla
copertura di spese di investimento o alla
riduzione dell’indebitamento ai sensi dell’art. 1, comma
443, della legge 24.12.2012, n. 228 e dell’art. 56-bis,
comma 11, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito
dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Tali entrate possono essere utilizzate anche per il
finanziamento di spese correnti esclusivamente nelle ipotesi
eccezionali previste dall’art. 255, comma 9, del TUEL ove
l’ente versi in situazione di dissesto; dall’art. 243-bis,
comma 8, lett. g), del TUEL ove l’ente abbia fatto ricorso
alla procedura di riequilibrio pluriennale; dall’art. 2,
comma 4, del DM 02.04.2015 per il ripiano del maggior
disavanzo di amministrazione derivante dal passaggio al
nuovo sistema contabile armonizzato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 23.03.2017 n. 81). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oneri di urbanizzazione. Destinazione e
qualificazione delle entrate derivanti dai permessi di
costruzione e dalle relative sanzioni.
Un sindaco ha chiesto un parere in merito alla possibilità
di continuare a destinare i proventi da concessioni edilizie
e relative sanzioni al finanziamento delle spese di
manutenzione ordinaria del patrimonio comunale contabilmente
inserite nella spesa corrente.
I magistrati contabili della Lombardia hanno ricordato che
l’allocazione in bilancio e la conseguente corretta
utilizzazione delle entrate derivanti dai contributi per il
rilascio dei permessi di costruire è stata oggetto di
ripetute modifiche da parte del legislatore.
Di recente, la legge n. 208/2015, entrata in vigore il
giorno 01.01.2016, è intervenuta in materia, stabilendo che
“per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle
concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione per le
sanzioni di cui all’articolo 31, comma 4-bis, del medesimo
testo unico” –le quali, per espressa previsione del
successivo comma 4-ter, spettano al comune e sono destinate
esclusivamente alla demolizione ed alla rimessione in
pristino delle opere abusive, nonché all’acquisizione ed
all’attrezzatura di aree destinate a verde pubblico–, “possono
essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per
spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e
del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione
delle opere pubbliche” (art. 1, comma 737).
Tale disposizione contiene una specifica previsione
facoltizzante, circa la destinazione dell’entrata, di cui
l’ente, nella propria autonomia, potrà dunque avvalersi
negli anni 2016 e 2017 e viene a configurare un’espressa
disciplina, parzialmente derogatoria rispetto al regime
ordinario d’imputazione di detti proventi, che tuttavia
conferma a contrario, sotto il profilo concettuale, la
tendenziale annoverabilità degli stessi, quantomeno pro
parte, fra quelli di parte capitale (tanto che per destinare
integralmente tali entrate a spese di parte corrente il
legislatore ha ritenuto necessario dettare una disposizione
ad hoc) (commento tratto da www.self-entilocali.it).
---------------
Il Sindaco del Comune di Cernusco sul Naviglio (MI)
–dopo aver ricordato il contenuto precettivo:
a) dell’art.
49, comma 7, della legge n. 449 del 1997
(che ammette la destinazione di alcuni proventi delle
concessioni edilizie e delle relative sanzioni al
finanziamento delle spese di manutenzione del patrimonio
comunale);
b) dell’art.
2, comma 8, della legge n. 244 del 2007 (che ha invece
stabilito, per gli anni 2008, 2009 e 2010, la possibilità di
destinare i proventi delle concessioni edilizie e delle
relative sanzioni, nella misura non superiore al cinquanta
per cento, al finanziamento delle spese correnti e, in
misura non superiore al venticinque per cento,
esclusivamente alle spese di manutenzione ordinaria del
verde, delle strade e del patrimonio comunale);
c) dell’art. 2, comma 41, della legge n. 11 del 2010 (recte:
del decreto legge n. 225 del 2010, convertito con
modificazioni dalla legge n. 11 del 2010); dell’art. 10,
comma 4-ter, del decreto legge n. 35 del 2013, convertito
con modificazioni dalla legge n. 64 del 2013, e dell’art. 1,
comma 536, della legge n. 190 del 2014 (che hanno
progressivamente prorogato la vigenza di tale previsione
sino a tutto il 2015)– ha posto alla Sezione il seguente
quesito:
●
se, in mancanza di analoga previsione per il 2016, in
considerazione della (asseritamente) non abrogata previsione
di cui all’art.
49, comma 7, della legge n. 449 del 1997, sia
possibile per l’ente continuare a destinare i proventi da
concessioni edilizie e relative sanzioni, secondo la
previsione da ultimo riportata, al finanziamento delle spese
di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale
contabilmente inserite nella spesa corrente.
...
1.- In via preliminare, la Sezione precisa che la decisione
di procedere ad una determinata spesa attiene al merito
dell’azione amministrativa e rientra, pertanto, nella piena
ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente;
spetta altresì all’ente procedere alle attività
amministrative e giuscontabili conseguenti alla
qualificazione della spesa, oggetto del presente parere.
2.- Ciò posto, si osserva che la richiesta attiene ad un
complesso normativo già ampiamente scandagliato dalle
Sezioni regionali di questa Corte (v., sistematicamente, la
deliberazione 27.11.2013 n. 123
della Sezione regionale di controllo per la
Basilicata e la deliberazione n. 168/2013/PAR
della Sezione
regionale di controllo per il Piemonte). A
fini di chiarezza e coerenza sistematica, è necessario
muovere da quanto affermato nelle richiamate deliberazioni.
In esse, in particolare, s’era già rilevato che
l’allocazione in bilancio e la conseguente corretta
utilizzazione delle entrate derivanti dai contributi per il
rilascio dei permessi di costruire è stata oggetto di
ripetute modifiche da parte del legislatore. Prima
dell’attuale “contributo per permesso di costruire”,
i Comuni riscuotevano infatti gli “oneri di
urbanizzazione” previsti dalla legge n. 10 del 1977, che
subordinava la concessione edilizia alla corresponsione di
un contributo commisurato all'incidenza delle spese di
urbanizzazione, nonché al costo di costruzione (art. 3).
I proventi delle concessioni erano versati in un conto
corrente vincolato presso la tesoreria del comune ed erano
espressamente destinati alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di
complessi edilizi compresi nei centri storici,
all'acquisizione delle aree da espropriare per la
realizzazione dei programmi pluriennali di cui all'art. 13,
“nonché, nel limite massimo del 30 per cento, a spese di
manutenzione ordinaria del patrimonio comunale” (art.
12, come modificato dall’art. 16-bis del decreto legge n.
318 del 1986, convertito con modificazioni dalla legge n.
488 del 1986).
L’art. 49, comma 7, della legge n. 449 del 1997, senza
novellare il testo del predetto art. 12, ha stabilito, come
s’è visto, che i proventi delle concessioni edilizie e delle
sanzioni “di cui all'articolo 18 della legge 28.01.1977,
n. 10, e successive modificazioni” (cioè relative ai
lavori assentiti prima dell’entrata in vigore della predetta
legge) e “all'articolo 15 della medesima legge, come
sostituito ai sensi dell'articolo 2 della legge 28.02.1985,
n. 47” (relative cioè, in generale, alle opere soggette
al novellato regime concessorio) potevano essere destinati “anche”
al finanziamento di spese di manutenzione del patrimonio
comunale. Tale previsione non fissava alcun limite
all’impiego e non indicava la natura, ordinaria o
straordinaria, della manutenzione.
In quel contesto si era già chiarito che tale ultima
disposizione, in virtù di un’interpretazione
logico-sistematica (basata sulla locuzione “anche”),
permetteva nella sostanza un superamento delle soglie
d’impiego di cui all’art. 12 della legge n. 10 del 1977 e
quindi veniva ad affiancarsi ad essa (v. ancora quanto
ricordato dalla Sezione regionale di controllo per la
Basilicata nella
deliberazione 27.11.2013 n. 123).
3.- L’art. 136, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 ha
successivamente abrogato espressamente, nel ridisciplinare
interamente la materia, anche l’art. 12 della legge n. 10
del 1977; l’art. 16, comma 1, ha al contempo introdotto il
contributo per il rilascio del permesso di costruire,
commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione,
nonché al costo di costruzione. Tale contributo –come emerge
dall’ermeneusi congiunta dell’art. 12, primo comma, e
dell’art. 16, secondo comma, del medesimo testo unico– mira
in primis a bilanciare il costo derivante all’ente
dal consumo del territorio, sub specie in particolare della
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria
necessarie ad inserire il realizzando immobile nel tessuto
urbano (fatto sta che è rimessa al privato la facoltà di
realizzare parte di tali opere a scomputo del predetto
contributo).
In definitiva, come questa Sezione ha già avuto modo di
rilevare, la natura del contributo di costruzione è pertanto
assimilabile a quella dei precedenti oneri, poiché il
pagamento di entrambi è motivato dal rilascio della
concessione, ora permesso, ad eseguire interventi di
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio
(deliberazione n. 1/pareri/2004).
A parere di altre Sezioni regionali di questa Corte e
condivise da questa Sezione l’intervento normativo organico
di settore, rappresentato dal citato testo unico, ha
determinato la tacita abrogazione –in via consequenziale–
anche del citato art. 49, comma 7, della legge n. 449 del
1997, in quanto nel sistema normativo così ridefinito gli
espressi riferimenti normativi contenuti nel predetto comma
7 venivano inevitabilmente a “cadere nel vuoto”; ciò
ha determinato l’ulteriore conseguenza, in mancanza di una
diversa ed espressa previsione di legge, del venir meno
della relativa facoltà, ivi stabilita, di destinazione dei
proventi riscossi a titolo di contributi per il rilascio del
permesso di costruire (v. ancora Sezione regionale di
controllo per la Basilicata,
deliberazione 27.11.2013 n. 123;
Sezione controllo Piemonte, deliberazione n. 168/2013/SRCPIE/PAR).
Tale interpretazione trova altresì conferma nella circolare
07.04.2004, n. 39656, della Ragioneria Generale dello Stato,
la quale ha affermato che, alla luce del novellato quadro
normativo, “i proventi derivanti dalle
concessioni edilizie non sono più soggetti al vincolo di
destinazione per chiara espressione di volontà del
legislatore, che ha voluto attribuire agli enti locali piena
discrezionalità nell'utilizzo di tali risorse,
evidenziandone così la loro natura tributaria”.
Tale constatazione, privando del presupposto interpretativo
l’argomentazione avanzata dall’ente nella formulazione della
richiesta di parere, già di per sé permette di risolvere la
relativa questione di diritto; tuttavia, interpretando in
termini sostanziali detta richiesta, questa Sezione ritiene
di dover prendere posizione circa la destinazione a bilancio
di dette entrate, questione effettivamente oggetto del
dubbio del comune istante; ciò implica la necessità di
esaminare la natura giuridica di tali entrate e la relativa
disciplina giuridica complessiva.
4.– Al riguardo, si deve ricordare che, in conseguenza del
venir meno di un’espressa destinazione, s’era in quel
contesto sottolineato che l’entrata derivante dal rilascio
dei permessi di costruire finisse per confluire nel totale
delle entrate –ed in particolare, s’è ritenuto, in quelle di
natura tributaria– che intrinsecamente sono destinate a
finanziare il totale delle spese, secondo il principio
dell’unità di bilancio (art. 162, comma 2, T.U.E.L.), con
l’ulteriore conseguenza della riallocazione di queste
risorse, in considerazione del venir meno del predetto
vincolo legislativo di destinazione di cui all’art. 12 della
legge n. 10 del 1977 e ss.mm.ii., tra quelle che
contribuiscono complessivamente a determinare gli equilibri
di bilancio ex art. 193, comma 3, del T.U.E.L. (cfr. ancora
questa Sezione, deliberazione 1/parere/2004; cfr. altresì la
predetta circolare della Ragioneria Generale dello Stato ed
il Principio contabile n. 2, par. 20, dei “Principi
contabili per gli Enti locali” elaborati nel 2004,
principio che ha ritenuto detta entrata ascrivibile al
Titolo I dell’Entrata, cioè alle entrate tributarie).
Peraltro, se tale allocazione da un lato, in quel medesimo
contesto, ha portato a considerare astrattamente l’entrata
come liberamente disponibile per il finanziamento (anche) di
spese correnti, dall’altro, essa non ha fatto venir meno la
natura intrinsecamente aleatoria e irripetibile della
risorsa stessa, natura che trova una conferma nella
specifica forma di accertamento per essa prevista dei
Principi contabili del 2004 (accertamento effettuato sulla
base degli introiti effettivi); pertanto tale risorsa, anche
nel sistema derivante dall’entrata in vigore del d.P.R. n.
380 del 2001, non avrebbe comunque potuto essere destinata a
finanziare spese correnti consolidate e ripetibili, come
ripetutamente rilevato anche da questa Sezione (v. fra le
ultime, sul punto, le deliberazioni nn. 382/2015/PRSE;
360/2015/PRSE; 160/2015/PRSE; 155/2015/PRSE; 152/2015/PRSE).
5.– Sul punto il legislatore è successivamente intervenuto
più volte ed ha delineato un complessivo orientamento,
composto dal susseguirsi di disposizioni aventi un’efficacia
temporalmente limitata, che deve essere in questa sede
attentamente valutato:
a) già con l’art. 1, comma 43, della legge n. 311 del 2004, il
legislatore ha infatti ritenuto opportuno reintrodurre
limiti all’utilizzo dei proventi delle concessioni edilizie
per il finanziamento delle spese correnti, stabilendo che “(i)
proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni
previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380, possono essere
destinati al finanziamento delle spese correnti entro il
limite del 75 per cento per l’anno 2005 e del 50 per cento
per il 2006”;
b) con l’art. 1, comma 713, della legge n. 296 del 2006 ha poi
stabilito che dette entrate, per l'anno 2007, potessero
essere utilizzate per una quota non superiore al 50 per
cento per il finanziamento di spese correnti e per una quota
non superiore ad un ulteriore 25 per cento esclusivamente
per spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale;
c) con l’art.
2, comma 8, della legge n. 244 del 2007
ha infine disposto che detti proventi, per gli anni 2008,
2009 e 2010, potessero essere utilizzati per una quota non
superiore al 50 per cento per il finanziamento di spese
correnti e per una quota non superiore ad un ulteriore 25
per cento esclusivamente per spese di manutenzione ordinaria
del verde, delle strade e del patrimonio comunale;
d) l’efficacia di tale ultima disposizione è stata successivamente
estesa agli anni 2011 e 2012 dal comma 41 dell'art. 2 del
decreto legge n. 225 del 2010, convertito con modificazioni
dalla legge n. 10 del 2011; agli anni 2013 e 2014 dal comma
4-ter dell’art. 10 del decreto legge n. 35 del 2013,
convertito con modificazioni dalla legge n. 64 del 2013, ed
in ultimo a tutto il 2015 dal comma 536 dell'art. 1 della
legge n. 190 del 2014.
Al contempo, il comma 3 dell’art. 4 della legge n. 10 del
2013 –con una previsione entrata in vigore il 16.02.2013 e
tuttavia già abrogata a far data dal 01.01.2015 ad opera
dell’art. 77, comma 1, lett. g), del decreto legislativo n.
118 del 2011, come modificato dal decreto legislativo n. 126
del 2014– ha stabilito, con una disposizione d’indole
generale, che “(l)e
maggiori entrate derivanti dai contributi per il rilascio
dei permessi di costruire e dalle sanzioni previste dal
testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinate alla
realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione, di
recupero urbanistico e di manutenzione del patrimonio
comunale in misura non inferiore al 50 per cento del totale
annuo”.
Tale ultima disposizione, sia pure già espressamente
abrogata ad opera del legislatore, è stata fatta oggetto
d’interpretazione da parte delle Sezioni regionali di
controllo di questa Corte (v. in particolar modo Sezione
controllo Piemonte, deliberazione n. 168/2013/PAR).
In quella sede s’è chiarito che, in assenza
di una proroga delle disposizioni prima richiamate (facoltizzanti
l’impiego di detti proventi per la parziale copertura della
spesa corrente), si sarebbe necessariamente determinata
l’impossibilità di procedure ad un’imputazione siffatta:
infatti l’obbligo di destinare i proventi a sole spese di
investimento sarebbe derivato direttamente dall’art. 162,
comma 6, del T.U.E.L., nel testo all’epoca vigente, e
dall’art. 9, comma 1, lett. b), dalla legge n. 243 del 2012,
il quale stabilisce l’obbligo di perseguire un equilibrio di
bilancio inteso non solo come saldo non negativo, in termini
di competenza e di cassa, tra le entrate finali e le spese
finali, ma anche quale saldo non negativo, sempre in termini
di competenza e di cassa, tra le entrate correnti e le spese
correnti, incluse le quote di capitale delle rate di
ammortamento dei prestiti.
Ne conseguiva che il richiamato comma 3
dell’art. 4 della legge n. 10 del 2013 veniva qualificato in
definitiva come una previsione vincolante una quota dei
proventi in parola a “determinate spese correlate al tipo
di entrata, ma pur sempre nell’ambito di una destinazione
complessiva a spese di investimento”;
in quest’ottica ne conseguiva ulteriormente,
secondo quanto affermato dalla Sezione regionale,
che il riferimento a spese di “manutenzione del
patrimonio comunale”,
in quella previsione contenuto, dovesse
essere comunque interpretato nel senso di riferirsi, per
avere interventi effettivamente così finanziabili, ad opere
“di manutenzione straordinaria del patrimonio”.
Tale ultima interpretazione –successivamente, come s’è
detto, privata di base legale in virtù dell’abrogazione del
richiamato comma 3 dell’art. 4– è comunque indice
–unitamente al predetto orientamento legislativo, letto a
contrario– di un’evoluzione del quadro normativo nel senso
del progressivo riconoscimento, ai proventi collegati
all’assentimento dell’attività edificatoria, della natura di
entrata di parte capitale.
6.- Tuttavia tale complessiva
qualificazione,
valida nel suo significato generale, deve
essere declinata in maniera più analitica,
a parere di questa Sezione, a seconda delle
diverse componenti in cui concretamente si articola
l’entrata derivante dal rilascio dei permessi di costruire,
componenti mantenute distinte, come si vedrà, anche dal
principio 3.11. dell’Allegato 4/2 al decreto legislativo n.
118 del 2011.
In effetti, secondo quanto già affermato da questa Corte (v.
Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione
n. 219/2015/PAR) –peraltro sulla scorta anche dell’ampia
giurisprudenza amministrativa resa in materia (v. in
generale TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.05.2014, n. 464;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; TAR
Lombardia, Brescia, sez. II, 25.03.2011, n. 469; Consiglio
di Stato, sez. V, 23.01.2006, n. 159)– va specificamente
rilevato che il contributo collegato all’assentimento
dell’attività edilizia si compone invero di due distinti
elementi:
●
uno,
di natura contributiva,
afferente alle spese per l’urbanizzazione del territorio, e
che costituisce pertanto una modalità di concorso del
privato agli “oneri sociali” derivanti
dall’incremento del carico urbanistico;
●
l’altro, di natura impositiva,
conseguente invece all’aumento della capacità contributiva
del titolare dell’opera, in ragione dell’incremento, in
virtù dell’assentimento dell’attività edilizia, del
patrimonio immobiliare detenuto da quest’ultimo soggetto;
mentre il contributo sul costo di costruzione consiste in
una prestazione patrimoniale ascrivibile alla categoria dei
tributi locali, in quanto il prelievo non si basa, come nel
caso degli oneri di urbanizzazione, sui costi collettivi
derivanti dall’insediamento di un nuovo edificio, ma
sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato
dall’intervento edilizio stesso, gli oneri propriamente di
urbanizzazione sono invece ascrivibili alla categoria dei “corrispettivi
di diritto pubblico” e sono, conseguentemente, dovuti in
ragione dell’obbligo del privato di partecipare ai costi
delle opere di trasformazione del territorio di cui in
definitiva si giova.
Come s’è detto, tale natura “corrispettiva” emerge
con evidenza da più indici normativi, sia derivanti dalla
possibilità di scomputare le opere pubbliche realizzate dal
privato dagli oneri dovuti, sia connessi alla possibilità di
escludere specifiche attività edilizie, in determinate
ipotesi, dal versamento dal contributo sul costo di
costruzione, ma non dal versamento degli oneri di
urbanizzazione (v. le ipotesi contemplate dagli artt. 17 e
18, da un lato, e dall’art. 19, dall’altro, del d.P.R. n.
380 del 2001; cfr. altresì l’art. 43, comma 2-ter, della
legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005).
Quanto alla corretta allocazione in
bilancio e utilizzazione delle entrate derivanti dal
rilascio dei permessi di costruire,
in generale e sul presupposto dell’assenza di specifiche
normative applicabili, non può dunque che
muoversi dal riconoscimento di tale natura duale
dell’entrata,
peraltro affermata, nell’àmbito dell’armonizzazione, anche
dal principio 3.11. dell’Allegato 4/2 al decreto legislativo
n. 118 del 2011, come modificato dal decreto legislativo n.
126 del 2014, il quale correttamente evidenzia che “(l)'obbligazione
per i permessi di costruire è articolata in due quote”:
●
“(l)a prima (oneri di
urbanizzazione) è
immediatamente esigibile, ed è collegata al rilascio del
permesso al soggetto richiedente, salva la possibilità di
rateizzazione (eventualmente garantita da fidejussione),
●
la seconda (costo
di costruzione) è
esigibile nel corso dell'opera ed, in ogni caso, entro 60
giorni dalla conclusione dell'opera”
medesima, con le relative conseguenze in tema d’accertamento
ed imputazione (infatti “la prima quota è
accertata e imputata nell'esercizio in cui avviene il
rilascio del permesso, la seconda è accertata a
seguito della comunicazione di avvio lavori e imputata
all'esercizio in cui, in ragione delle modalità stabilite
dall'ente, viene a scadenza la relativa quota”; cfr. al
riguardo anche gli artt. 38, comma 7-bis, e 43 ss. della
legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005).
Alla luce di tale considerazione, sempre in generale e sul
presupposto dell’assenza di specifiche normative applicabili
(cioè nell’ottica in cui è stata emessa la richiesta di
parere), si deve conseguentemente rilevare
che le entrate connesse al versamento degli oneri di
urbanizzazione hanno necessariamente natura di entrate
di parte capitale, derivando in definitiva dal “consumo”
del suolo, cioè dall’irreversibile (almeno in linea
tendenziale) impiego di un bene pubblico, ed essendo
intrinsecamente destinate alla realizzazione di opere, volte
al razionale e salubre impiego dello stesso, destinate
comunque ad incrementare il “patrimonio immobiliare”
dell’ente, sub specie di realizzazione (diretta o indiretta)
di beni rientranti nelle categorie, a seconda delle
evenienze, del demanio
(ad es. strade, piazze, acquedotti, v. gli artt. 822,
secondo comma, e 824 c.c.), o del
patrimonio indisponibile
(v. al riguardo l’art. 826, terzo comma, c.c.).
In tali ipotesi infatti si verte nell’ambito di entrate
naturalmente destinate all’incremento dei beni annoverabili
nel “patrimonio” latamente inteso dell’ente e che,
come tali, devono essere rappresentate nel bilancio; in
particolare la naturale allocazione di tali entrate è dunque
tra le risorse di parte capitale, ordinariamente
utilizzabili solo per spese di investimento, salvo le
eccezioni di legge (art. 162, comma 6, del T.U.E.L.; v. per
la nozione d’investimento l’art. 3, comma 18, della legge n.
350 del 2003).
Quanto invece alle entrate connesse al
versamento dei contributi sul costo di costruzione,
la natura tributaria delle stesse le fa invece
necessariamente riconfluire, come già rilevato da questa
Sezione nella deliberazione n. 1/pareri/2014, nel totale
delle entrate che, come tali, in virtù del principio
dell’unità di bilancio
(art. 162, comma 2, del T.U.E.L.),
finiscono coll’esser destinate a finanziare il totale delle
spese, con l’ulteriore conseguenza della riallocazione di
queste risorse tra quelle che contribuiscono
complessivamente a determinare gli equilibri di bilancio ex
art. 193, comma 3, del T.U.E.L.
La diversa modalità d’accertamento e
d’imputazione delle due “quote” dell’entrata
induce a ritenere che non vi sia invero rischio di
commistione fra le stesse
(v. ancora il principio 3.11. dell’Allegato 4/2 al decreto
legislativo n. 118 del 2011, come modificato dal decreto
legislativo n. 126 del 2014).
Discorso analogo –sempre sui medesimi presupposti
prima indicati– deve essere fatto anche per le entrate
connesse alle sanzioni in materia edilizia, stante la
natura intrinsecamente “accessoria” delle stesse
rispetto alla disciplina sostanziale la cui violazione
risulta tramite esse sanzionata
(arg. ex Corte costituzionale, sentenze nn. 350 e 365 del
1991; 307 e 362 del 2003): da un’attenta
ricostruzione del dato normativo s’evince infatti come
alcune di tali sanzioni si ricollegano alla realizzazione di
opere di “straordinaria amministrazione”, di modo che
seguono la propria intrinseca natura di entrate latamente di
parte capitale
(cfr. ad es. gli artt. 31, comma 4-ter, e 33, comma 6, del
d.P.R. n. 380 del 2001), mentre altre
svolgono funzioni diverse, di deterrenza o di oblazione
(v. gli artt. 33, comma 2; 34, comma 2; 36, comma 2; 37,
commi 1, 2, 3, 4 e 5; 38, comma 1 del d.P.R. n. 380 del
2001), che necessariamente le avvicinano a
quel fenomeno impositivo/tributario che genera entrate
destinate a coprire, per il principio dell’unità del
bilancio, la generalità delle spese.
7.- Peraltro, la recente legge n. 208 del 2015, entrata in
vigore il giorno 01.01.2016, è intervenuta in materia,
stabilendo che "(p)er gli anni 2016 e
2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni
previste dal testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta
eccezione per le sanzioni di cui all'articolo 31, comma
4-bis, del medesimo testo unico” –le quali, per espressa
previsione del successivo comma 4-ter, spettano al comune e
sono destinate esclusivamente alla demolizione ed alla
rimessione in pristino delle opere abusive, nonché
all'acquisizione ed all'attrezzatura di aree destinate a
verde pubblico–, “possono essere utilizzati per una quota
pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria
del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché
per spese di progettazione delle opere pubbliche”
(art. 1, comma 737).
Tale disposizione contiene una specifica
previsione facoltizzante, circa la destinazione
dell’entrata, di cui l’ente, nella propria autonomia, potrà
dunque avvalersi negli anni 2016 e 2017 e viene a
configurare un’espressa disciplina, parzialmente derogatoria
rispetto al regime ordinario d’imputazione di detti
proventi, che tuttavia conferma a contrario, sotto il
profilo concettuale, la tendenziale annoverabilità degli
stessi, quantomeno pro parte, fra quelli di parte capitale
(tanto che per destinare integralmente tali entrate a spese
di parte corrente il legislatore ha ritenuto necessario
dettare una disposizione ad hoc).
8.- Spetta al Comune di Cernusco sul Naviglio, sulla base
dei principi espressi dalla giurisprudenza contabile, oltre
che da questo stesso parere, valutare la fattispecie
concreta al fine di addivenire, nel caso di specie, al
migliore esercizio possibile del proprio potere di
autodeterminazione in riferimento alla corretta copertura
della spesa, nel rispetto del quadro legislativo ratione
temporis di volta in volta applicabile, anche in
considerazione della natura propria dello specifico
intervento concretamente realizzato (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 09.02.2016 n. 38). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO: Cambio
turno.
Domanda
È possibile per un dipendente chiedere autonomamente il “cambio
turno”? Come funziona?
Risposta
Premesso che la fattispecie non è normata da alcuna
disciplina di contratto e di legge, il cambio turno non
esiste dal punto di vista giuridico, per cui l’unico
soggetto che legittimamente può regolamentare in materia è
il datore di lavoro (dirigente) nell’esercizio dei suoi
poteri conferitegli dall’art. 5, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
La regolamentazione va inserita nel disciplinare sull’orario
di lavoro e non richiede alcuna partecipazione sindacale
diversa dalla sola informazione.
Ciò detto, le motivazioni che legittimano il cambio turno
sono definite e perimetrate dal datore di lavoro che deve
tenere conto del rischio che conduce un abuso di questo
istituto.
Non sono le motivazioni personali generiche dei lavoratori a
prevalere sull’esigenza di rispettare le condizioni
legittimanti l’indennità di turno (in proposito si legga la
delibera della Corte dei Conti Molise n. 25/2016).
Un utilizzo incontrollato di cambi turni può far venire meno
la legittimità della corresponsione della relativa
indennità, producendo ad esempio un disequilibrio tra turni
mattutini e pomeridiani nell’arco del mese, è quindi dovere
e compito del datore di lavoro monitorare e regolamentare un
corretto e proprio utilizzo del cambio turno.
Tale ipotesi, del resto, è certamente riconducibile ad una
forma di flessibilità, non normata, e che per questa ragione
richiede di essere regolamentata tenuto conto di quanto
sopra (27.06.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: Il
codice CPV e il nuovo strumento di ricerca sul MEPA.
Domanda
La prassi nel nostro ente è quella di procedere agli
acquisti su MePa partendo da un prodotto specifico, con
invito rivolto a tutti gli operatori iscritti. Tuttavia
all’ultima procedura ha partecipato il solo fornitore che ha
pubblicato a catalogo il prodotto specifico.
Ci sono modalità operative che garantiscono una maggior
partecipazione?
Risposta
L’approvvigionamento su MePa partendo da un prodotto
specifico presuppone, in ogni caso, la verifica circa la
corretta allocazione del catalogo pubblicato dall’operatore
nella corrispondente categoria di abilitazione di cui agli
specifici capitolati tecnici.
Ogni capitolato (cfr. allegati al Capitolato d’oneri su MePa)
contiene la descrizione delle prestazioni che possono essere
offerte dagli operatori che si abilitano per quel
particolare bando, consistenti in un elenco di CPV, ovvero
quei codici numerici che mirano a standardizzare mediante un
unico sistema di classificazione gli appalti pubblici, e che
offrono uno strumento adeguato in ordine alla corretta
individuazione dell’oggetto dell’affidamento.
Al momento il sistema MePa non procede ad una verifica circa
il corretto caricamento del prodotto da parte
dell’operatore, che nel caso di specie potrebbe aver
inserito un bene informatico, ad esempio un computer
portatile [1],
in un bando di abilitazione diverso, ad esempio quello “Arredi”
[2]. In
questo caso gli operatori invitati non avevano la
disponibilità del prodotto richiesto, con la conseguenza che
non solo la concorrenza è stata falsata, ma la Stazione
Appaltante non ha potuto effettivamente confrontare più
offerte per ottenere il prezzo migliore.
Con riferimento al quesito sopra riportato, salva l’ipotesi
di prestazione richiesta con caratteristiche o prezzo non
sostenibili, si può ipotizzare che il problema derivante
dalla mancata partecipazione, nonostante il numero altissimo
degli invitati (tutti gli abilitati alla categoria) sia
stato determinato da un errato caricamento.
(...continua) (26.06.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Alcuni
dipendenti di questo Comune chiedono informazioni circa la
abrogazione dell'istituto del nulla osta alla mobilità
presso altri Enti di cui si è parlato nell'ambito dei
provvedimenti sulla "concretezza".
Quale è la normativa di riferimento?
Nella Gazzetta Ufficiale n. 145 del 22.06.2019 è stata
pubblicata la L. 19.06.2019, n. 56 "Interventi per la
concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e
la prevenzione dell'assenteismo" (cosiddetta "legge
concretezza") che entra in vigore il 07.07.2019.
L'art. 3, comma 4, della citata norma prevede "Al fine di
ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, per il
triennio 2019-2021, fatto salvo quanto stabilito
dall'articolo 1, comma 399, della legge 30.12.2018, n. 145,
le amministrazioni di cui al comma 1 possono procedere, in
deroga a quanto previsto dal primo periodo del comma 3 del
presente articolo e all'articolo 30 del decreto legislativo
n. 165 del 2001, nel rispetto dell'articolo 4, commi 3 e
3-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101 …".
La norma in questione prevede:
1) una deroga temporanea, anche se ampia (2019-2021) relativamente
alla necessità della preventiva determinazione di avvio
delle procedure di reclutamento (art. 35 TUPI);
2) una deroga all'attivazione delle procedure di mobilità
obbligatoria di cui all'art. 30. Tali deroghe sono
facoltative e non riguardano il c.d "nulla osta" alla
mobilità che, pertanto, rimane adempimento necessario
nell'ambito delle procedure di mobilità.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 30.03.2001, n. 165
D.L. 31.08.2013, n. 101
L. 19.06.2019, n. 56, art. 3
(26.06.2019 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
tra carica di assessore e consigliere per padre e figlio.
Domanda
A seguito delle elezioni comunali del 26.05.2019 è risultato
eletto un consigliere comunale. Il sindaco, costituendo la
Giunta, ha nominato assessore esterno il padre del
consigliere.
Si determina il caso di conflitto d’interesse tra
consigliere ed assessore? Chi dei due deve lasciare la
carica?
Risposta
Il caso in esame –a prescindere da ragioni di opportunità
che saranno state valutate, si immagina, dal sindaco prima
di procedere alle nomine– non comporta nessuna causa di
incompatibilità o situazione di conflitto d’interesse, né
per il consigliere comunale (figlio), né per il padre
(assessore esterno).
Le norme a cui occorre fare riferimento per l’esame della
situazione sono le seguenti:
• articoli da 63 a 67 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
recante: “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali";
• Capo IV (articoli da 10 a 12) del decreto legislativo 31.12.2012,
n. 235, recante “Testo unico delle disposizioni in
materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche
elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1,
comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190”;
• articolo 1, comma 42, della legge 06.11.2012, n. 190;
• articoli 46, comma 2 e 47, del TUEL 267/2000;
• articolo 1, comma 137, della legge 07.04.2014, n. 56 (25.06.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Articolazione orario lavoro.
Domanda
Abbiamo la necessità di aprire lo sportello al pubblico
anche il sabato modificando quindi l’orario di lavoro a due
dipendenti. Avrei bisogno di sapere cosa dobbiamo fare per
procedere in tal senso?
Risposta
La modifica dell’articolazione dell’orario di lavoro è
oggetto di confronto con le parti sindacali. La dinamica del
confronto è indicata all’art. 5 del contratto che riportiamo
di seguito:
1. Il confronto è la modalità attraverso la quale si instaura un
dialogo approfondito sulle materie rimesse a tale livello di
relazione, al fine di consentire ai soggetti sindacali di
cui all’art. 7, comma 2, di esprimere valutazioni esaustive
e di partecipare costruttivamente alla definizione delle
misure che l’ente intende adottare.
2. Il confronto si avvia mediante l’invio ai soggetti sindacali
degli elementi conoscitivi sulle misure da adottare, con le
modalità previste per la informazione. A seguito della
trasmissione delle informazioni, ente e soggetti sindacali
si incontrano se, entro 5 giorni dall’informazione, il
confronto è richiesto da questi ultimi. L’incontro può anche
essere proposto dall’ente, contestualmente all’invio
dell’informazione. Il periodo durante il quale si svolgono
gli incontri non può essere superiore a trenta giorni. Al
termine del confronto, è redatta una sintesi dei lavori e
delle posizioni emerse.
3. Sono oggetto di confronto, con i soggetti sindacali di cui
all’articolo 7, comma 2:
a) l’articolazione delle tipologie dell’orario di
lavoro;
b) i criteri generali dei sistemi di valutazione
della performance;
c) l’individuazione dei profili professionali;
d) i criteri per il conferimento e la revoca
degli incarichi di posizione organizzativa;
e) i criteri per la graduazione delle posizioni
organizzative, ai fini dell’attribuzione della relativa
indennità;
f) il trasferimento o il conferimento di attività
ad altri soggetti, pubblici o privati, ai sensi dell’art. 31
del D. Lgs. n. 165/2001;
g) la verifica delle facoltà di implementazione
del Fondo risorse decentrate in relazione a quanto previsto
dall’art. 15, comma 7;
h) i criteri generali di priorità per la mobilità
tra sedi di lavoro dell’amministrazione;
i) negli enti con meno di 300 dipendenti, linee
generali di riferimento per la pianificazione delle attività
formative.
A seguire e a confronto concluso (30 giorni) va redatta una
determina dirigenziale (20.06.2019 - tratto da e link
a www.publika.it). |
APPALTI:
Rotazione e partecipazione del pregresso affidatario in
diversa veste giuridica (come mandatario di un RTI).
Domanda
Sono sempre più numerosi i quesiti in tema di rotazione.
Soprattutto sull’intensità del criterio e se questo possa
estendersi anche al caso in cui il pregresso affidatario
chieda di essere invitato ad un procedura negoziata per una
prestazione identica alla precedente (per cui risulta
contraente della stazione appaltante) ma in forma giuridica
differente ovvero non singolarmente ma in raggruppamento.
L’appaltatore, si legge nel quesito, ritiene che in questo
caso non gli si possa opporre la rotazione.
È possibile avere un riscontro?
Risposta
La questione della rotazione costituisce espressione di una
delle problematiche maggiormente sentite dai RUP e dagli
stessi appaltatori. Inutile rammentare che la giurisprudenza
e la stessa ANAC risultano particolarmente sensibili alla
problematica interpretando in modo radicale l’alternanza tra
le imprese.
La motivazione dell’alternanza poggia sull’esigenza di
evitare che il pregresso affidatario (anche se diventato
tale in virtù di una gara pubblica) possa avvantaggiarsi
dell’esperienza di gestione dell’appalto della c.d. rendita
di posizione derivante dall’essere stato contraente e,
quindi, di essere ben in grado di intercettare –a differenza
degli altri appaltatori– i desiderata della stazione
appaltante.
La rotazione deve operare nel caso di successione di appalti
della medesima tipologia e, generalmente, a prescindere
dagli importi. Opera nel caso in cui, ad una prima
aggiudicazione per gara pubblica segua una procedura
negoziata e non al contrario.
La rotazione può subire dei contingentamenti/deroghe nel
caso in cui la stazione appaltante si sia dotata di un
proprio regolamento in cui abbia previsto della fasce di
importo (pertanto potrebbe non operare nell’ambito della
stessa fascia di importo anche se si tratta della medesima
prestazione/lavoro già acquisito).
Negli altri casi, per evitare la rotazione (sia sul
precedente aggiudicatario sia sui soggetti già invitati) è
necessario che il RUP operi con avvisi pubblici a
manifestare interessi (o direttamente con bando di gara)
aperti senza limitazione alcuna sulle partecipazioni.
Venendo alla questione posta nel quesito, in tempi
recentissimi la stessa ANAC ha escluso che il pregresso
affidatario possa riproporre la propria candidatura per la
successiva aggiudicazione della stessa tipologia di appalto
partecipando in diversa forma giuridica (ad esempio come
mandatario di un raggruppamento).
In questo senso, con il parere n. 422/2019, l’autorità
anticorruzione –secondo una indicazione preziosa per il RUP–
ha chiarito che in relazione alla “gara per lavori afferenti
alla medesima categoria e fascia di importo” l’eventuale
partecipazione del pregresso affidatario “anche se nella
veste di mandante di un R.T.I. (rectius concorrente in
raggruppamento), ponendosi in contrasto con il principio di
rotazione”, determinerebbe una violazione di legge.
Pertanto, in siffatte ipotesi la deroga è possibile solo con
adeguata motivazione del RUP che non può che essere fondata
o sulla esiguità di proposte (appaltatori) nel mercato e
nella competitività delle offerte (sempre che nel precedente
appalto abbia ben operato senza rilievi) (19.06.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Questo
Ministero si trova spesso di fronte a contestazioni su vizi
procedurali collegati alla non corretta applicazione del
preavviso di rigetto sia nei procedimenti ad istanza di
parte che in quelli d'ufficio.
Quale è la corretta applicazione della norma anche
eventualmente alla luce della giurisprudenza?
La giurisprudenza formatasi in merito alla applicazione
dell'art. 10-bis (comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza), il cosiddetto "preavviso
di rigetto" è una fra le più copiose dalle massime si
possono ricavare alcuni principi fondamentali.
Ad esempio si sottolinea la diversità strutturale e di
finalità fra la comunicazione di avvio del procedimento
amministrativo (art. 7, L. 07.08.1990, n. 241, applicabile
ai procedimenti d'ufficio) ed il preavviso di rigetto
previsto (art. 10-bis , applicabile ai procedimenti ad
istanza di parte). In merito alla applicazione dell'istituto
alle SCIA a mio avviso esso non trova applicazione in quanto
non costituiscono procedimenti ad istanza di parte.
Tuttavia il recente Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud.
21.05.2019) 27.05.2019, n. 3453 l'ha ritenuto applicabile ad
una specifica ed "anomala" segnalazione certificata,
quella prevista dall'art. 87-bis, D.Lgs. 01.08.2003, n. 259.
Il preavviso di rigetto:
- ha lo scopo di far conoscere all'amministrazione procedente le
ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che
potrebbero contribuire a far assumere una diversa
determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti
gli interessi in gioco; tuttavia, tale scopo viene meno ed è
di per sé inidoneo a giustificare l'annullamento del
provvedimento nei casi in cui il suo contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in
quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia
raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non
modificabilità.
Quindi, il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto non
comporta l'automatica illegittimità del provvedimento
finale, quando, in ipotesi, possa trova applicazione l'art.
21-octies della stessa legge, secondo il quale il giudice
non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non
abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un
provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
- attiva una fase endoprocedimentale e la sua attivazione
interrompe i termini per concludere il procedimento. I
termini inizieranno nuovamente a decorrere dalla data di
presentazione delle osservazioni del privato o, in mancanza,
dalla scadenza del termine di dieci giorni assegnato per la
presentazione delle predette osservazioni.
- è strumento fondamentale di tutela dell'interessato e non deve
essere applicato in modo formale (o addirittura
formalistico). Da ciò la giurisprudenza ne deduce la
inapplicabilità ai casi in cui l'interessato non avrebbe
margini per dimostrare un diverso esito dell'istruttoria;
- stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei
procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, o altri
procedimenti analoghi di natura speciale.
La PA quindi:
- nel provvedimento conclusivo (negativo) che segue alla fase di
preavviso di provvedimento negativo deve esplicitare le
ragioni che intende porre a fondamento del proprio diniego
integrarandole con le argomentazioni finalizzate a confutare
la fondatezza delle osservazioni formulate dall'interessato
nell'ambito del contraddittorio;
- non ha un obbligo di puntuale motivazione e/o confutazione delle
controdeduzioni presentate a seguito del preavviso di
rigetto dell'istanza, di cui all'art. 10-bis, L. 07.08.1990,
n. 241, poiché le ragioni ostative all'accoglimento delle
medesime ben possono evincersi dalla motivazione del
provvedimento di diniego emanato a conclusione del
procedimento.
Alla luce di questo quadro giurisprudenziale, in estrema
sintesi, se ne deduce l'importanza dell'istituto
(obbligatorio, ma senza conseguenze automatiche di
illegittimità) nei procedimenti ad istanza di parte; la sua
attivazione comporta la riapertura dei termini del
procedimento e l'avvio di una ulteriore fase
endoprocedimentale di analisi delle ragioni di diniego, da
svolgere anche con decisione semplificata.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 10-bis
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. IV, 17.05.2019, n. 3190 - Cons. Stato Sez.
VI, 24.04.2019, n. 2627 - Cons. Stato Sez. VI, 03.04.2019,
n. 2203 - Cons. Stato Sez. III, 22.02.2019, n. 1236 - Cons.
Stato Sez. VI, 01.02.2019, n. 801 - Cons. Stato Sez. VI,
18.01.2019, n. 484 - Cons. Stato Sez. IV, 11.01.2019, n. 256
- Cons. Stato Sez. V, 22.10.2018, n. 6024 - Cons. Stato Sez.
V, 09.10.2018, n. 5793 - Cons. Stato Sez. IV, 27.09.2018, n.
5562 - Cons. Stato Sez. VI, 27.09.2018, n. 5557 - Cons.
Stato Sez. IV, 28.062018, n. 3984
(19.06.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il responsabile per la transizione al digitale.
DOMANDA:
Qual è la procedura da seguire per la corretta nomina del
responsabile per la transizione al digitale nel nostro
comune e quali sono le sue competenze?
RISPOSTA:
In riferimento a quanto richiesto, la Circolare del Ministro
per la Pubblica Amministrazione n. 3 dell’01/10/2018
-emanata per sollecitare tutte le Amministrazioni Pubbliche
a individuare al loro interno il Responsabile per la
Transizione al Digitale (RTD) previsto dal CAD- costituisce
una utile guida per gli enti che, nonostante l’obbligo di
effettuare tale adempimento a partire dal 14.09.2016 (art.
17 CAD), non vi abbiano ancora provveduto.
Ancora persiste forse l’opinione che si tratti di un
ulteriore adempimento burocratico e non di una figura
essenziale, chiamata a svolgere un ruolo centrale per la
concreta applicazione nei territori, degli indirizzi dettati
dall'AgID (Agenzia per l’Italia Digitale). Un passaggio
significativo è rappresentato dal fatto che la figura è di
diretta nomina del vertice dell’Amministrazione. Nel caso di
un Comune, essa deve essere diretta emanazione del Sindaco e
della Giunta (questo aspetto è sintomatico della chiara
volontà del legislatore di ricondurre immediatamente al
vertice dell’amministrazione la governance della
transizione al digitale.
Per questa sua caratteristica, il Responsabile per la
transizione al digitale:
- In quanto ufficio dirigenziale (per legge) sarà sovraordinato,
nelle sue attività, alle altre figure apicali, compreso il
Segretario Generale.
- In quanto figura interna all’Amministrazione non può essere un
consulente esterno.
- il Responsabile dovrà essere dotato di competenze in materia
organizzativa/manageriale, informatica e di informatica
giuridica.
Un errore da evitare dovrebbe essere quello di far ricadere
la nomina su tre tipologie di soggetti: i responsabili dei
CED o “dell’informatica”; i Segretari Generali; i
dipendenti privi di specifiche competenze.
E’ stato a tal proposito fatto notare che nell’ambito della
P.A. non è consueto imbattersi in figure professionali in
grado di sommare le competenze informatiche e quelle
organizzative/manageriali. Manca infatti nei titolari di
competenza informatica, anche se di alto livello, vuoi una
cultura organizzativa che un potere tale da indirizzare le
scelte di cambiamento necessarie. Per contro le figure
professionali con capacità e poteri organizzativi, molto
spesso, finiscono con l’esercitarli in modo burocratico.
Restando in ambito organizzativo, lo stesso CAD prevede la
possibilità per le amministrazioni diverse dalle
amministrazioni dello Stato di esercitare le funzioni di RTD
anche in forma associata. Tale opzione organizzativa,
raccomandata specialmente per le PA di piccole dimensioni,
può avvenire in forza di convenzioni o, per i Comuni, anche
mediante l’unione di comuni. La convenzione disciplinerà
anche le modalità di raccordo con il vertice delle singole
amministrazioni. Le funzioni dovranno riguardare un unico
ufficio dirigenziale, fermo restando il numero complessivo
degli uffici.
Riepilogando, una volta nominato, il RTD:
1) risponde direttamente all’organo di vertice politico (nel caso
dei Comuni al Sindaco) o, in sua assenza, a quello
amministrativo dell’ente (Segretario comunale);
2) pone in essere tutte le azioni necessarie per la realizzazione
di servizi pubblici rivisitati in un’ottica che ne preveda
la piena integrazione con le nuove tecnologie;
3) pianifica e coordina gli acquisti di soluzioni e sistemi
informatici, telematici e di telecomunicazione, al fine di
garantirne la compatibilità con gli obiettivi di attuazione
dell’agenda digitale e con quelli stabiliti nel piano
triennale;
4) garantisce la piena operatività della propria attività,
costituendo tavoli di coordinamento con gli altri dirigenti
dell’amministrazione, proponendo l’adozione di circolari e
atti di indirizzo sulle materie di propria competenza (ad
esempio in materia di approvvigionamento di beni e servizi);
5) ha il potere di avvalersi dei più opportuni strumenti di
raccordo e consultazione con le altre figure coinvolte nel
processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione
(responsabili per la gestione, responsabile per la
conservazione documentale, responsabile per la prevenzione
della corruzione e della trasparenza, responsabile per la
protezione dei dati personali).
Si ritiene utile infine segnalare che la figura del “Difensore
civico per il digitale” per ciascuna pubblica
amministrazione, non è più necessaria in quanto la nuova
versione del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) ha
introdotto il Garante Unico per i diritti digitali,
correggendo la precedente versione che prevedeva un
difensore civico per ogni pubblica amministrazione.
L’aspetto nuovo consiste nel fatto che la figura diventa
unica per tutto il territorio nazionale (art. 17, comma
1-quater, del CAD con le modifiche introdotte dal Decreto
Legislativo n. 217 del 13.12.2017 entrato in vigore il
27.01.2018), potendocisi avvalere del Difensore Civico
Digitale unico e indipendente istituito presso l'AgID.
Qualora già nominato occorrerà revocarlo non avendo più
ragion d’essere (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La distanza minima per il portico.
DOMANDA:
E' stata depositata istanza di sanatoria edilizia ai sensi
dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i. per un portico
costruito in aderenza al fabbricato principale, realizzato
con tre pilastri in legno, con copertura in tavolato e
aperto su tre lati; l'intervento ricade in zona classificata
dal P.I. vigente, "C1" residenziale.
Il portico risulta realizzato a ml 5,00 dal confine di
proprietà e a 7,00 ml dall'edificio residenziale dei
confinanti; la parete del fabbricato confinante, opponente e
fronteggiante il portico oggetto di sanatoria, risulta cieca
cioè con assenza di luci e vedute. Premesso che questo
Comune deve ancora adottare il R.E.T., il cui termine in
Veneto è stato prorogato fino al 31.12.2019, in base al
vigente Regolamento Edilizio comunale, artt. 3-5, la
realizzazione di un “portico” comporta, in
particolare, incremento della superficie coperta e
conseguentemente l'obbligo del rispetto della distanza sia
dai confini che dai fabbricati; inoltre lo stesso
regolamento edilizio prevede che la distanza tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, sia pari a minimo
ml 10,00 mentre quella tra pareti entrambe non finestrate
sia pari a minimo ml 6,00.
Il tecnico progettista dichiara che la parete di un portico
deve essere considerata cieca in quanto non presenta ne luci
ne vedute, e pertanto il portico realizzato risulta
sanabile.
Alla luce delle varie sentenze di TAR, C.d.S. e Cassazione,
sul tema della applicazione del D.M. 1444/1968 - distanza
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, si
chiede se ai fini dell'applicazione del suddetto D.M.
1444/1968, e quindi del sopra citato regolamento edilizio,
la parete di un “portico” possa essere considerata “parete
finestrata”, e pertanto con l'obbligo del rispetto dei
minimi 10.00 ml inderogabili, o possa essere considerata “parete
cieca”, e quindi, con l'obbligo del rispetto dei minimi
6,00 ml previsti dal regolamento edilizio comunale, in
presenza di pareti opponenti entrambe non finestrate.
RISPOSTA:
Con riferimento alla questione sollevata nel quesito posto,
si rileva che la Cassazione civile, a partire dalla sentenza
n. 27418 del 13.12.2005, ha superato il proprio precedente
orientamento, secondo cui la distanza minima di 10 metri fra
pareti finestrate di edifici antistanti non sarebbe
applicabile alla diversa situazione di un portico aperto
fronteggiante l’edificio in costruzione (Cass. 17.12.1993 n.
12506), affermando che la verifica della distanza legale fra
costruzioni deve essere effettuata tenendo conto del
porticato secondo la regola del vuoto per pieno.
In particolare, secondo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione in tema di distanze tra edifici «al fine di
verificare il rispetto della distanza legale nelle
costruzioni, qualora una di esse sia provvista di porticato
aperto, con pilastri allineati al muro di facciata, deve
tenersi conto anche del porticato, secondo la regola del
“vuoto per pieno”, in quanto, anche nel caso in cui tra i
pilastri del porticato non siano realizzate pareti esterne
di collegamento, la fabbrica possiede i requisiti di
consistenza, solidità, stabilità ed immobilizzazione al
suolo che ne fanno una costruzione, soggetta alla disciplina
sulle distanze» (in questo senso, Cass. civ., sez. II,
06.05.2014 n. 9679; Cass. civ., 26.07.2013, n. 18119; Cass.
civ., 14.03.2011 n. 5934; Cass. civ. 13.12.2005, n. 27418).
Il suddetto orientamento è stato richiamato e condiviso
anche dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, Adunanza
delle Sezioni Riunite del 03.02.2017, numero 339/2017 e data
spedizione 02.05.2017; Tar Toscana, Firenze, sez. III,
23.12.2014, n. 2153; Tar Toscana, Firenze, sez. III,
09.01.2017, n. 2).
Infatti, nella sopra citata pronuncia del Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana è stato
ribadito e precisato quanto segue: «Ritiene questo
Consiglio che la distanza tra edifici vada calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano, e comunque in relazione a tutte
le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela; essa va computata in relazione a tutti
gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia
la funzione, aventi i caratteri della solidità, della
stabilità e della immobilizzazione, ivi compresi i porticati
aperti, secondo il criterio del “vuoto per pieno” (salvo che
non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni
con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da
potersi definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e
dell'igiene)».
Alla luce della giurisprudenza sopra citata ed in
considerazione anche del fatto che, in base al vigente
Regolamento Edilizio comunale, la realizzazione di un “portico”
comporta incremento della superficie coperta e
conseguentemente l'obbligo del rispetto della distanza sia
dai confini che dai fabbricati, l’applicazione del D.M.
1444/1968 nonché del sopra citato regolamento edilizio
comporta l’obbligo del rispetto dei minimi 10.00 ml
inderogabili tra il “portico” in questione e
l’edificio residenziale dei confinanti (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
di un amministratore locale.
Non sussiste alcuna causa di
incompatibilità per un consigliere comunale che svolge la
propria attività di lavoratore dipendente presso altro
comune, qualora i due enti locali (unitamente ad altri
comuni) abbiano in essere diverse convenzioni per la
gestione in forma associata delle proprie funzioni e
servizi. Ciò anche qualora l’indicato consigliere comunale
venisse nominato assessore presso il medesimo comune.
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di
eventuali cause di incompatibilità per un consigliere
comunale che svolge la propria attività di lavoratore
dipendente, non titolare di posizione organizzativa, presso
altro comune, considerato che i due enti locali (unitamente
ad altri Comuni) hanno in essere diverse convenzioni per la
gestione in forma associata delle proprie funzioni e
servizi. Ciò specie qualora l’indicato consigliere comunale
venisse nominato assessore presso il medesimo comune.
In via preliminare si ricorda che le cause di
incompatibilità degli amministratori locali, in quanto
limitative del diritto di elettorato passivo garantito
dall’articolo 51 della Costituzione, hanno carattere
tassativo e non possono quindi essere applicate a situazioni
non espressamente previste.
Ciò premesso si ritiene che la fattispecie prospettata non
integri alcuna causa di incompatibilità prevista dalla legge
[1].
In particolare, la norma che potrebbe in astratto venire in
rilievo è l’articolo 60, comma 1, num. 7), in combinato
disposto con l’articolo 63, comma 1, num. 7), del D.Lgs.
267/2000, la quale prevede una situazione di
ineleggibilità/incompatibilità tra l’essere dipendente di un
comune ed il rivestire la carica di consigliere comunale del
medesimo comune. Nel caso in esame l’amministratore locale è
dipendente giuridicamente di altro comune rispetto a quello
presso il quale svolge il proprio mandato elettivo.
Né ha rilievo per l’eventuale insorgenza della causa di
incompatibilità il fatto che tra i Comuni interessati
sussistano delle convenzioni per l’esercizio associato delle
funzioni comunali: si osserva, infatti, che ai fini della
sussistenza della indicata causa di incompatibilità ciò che
conta è esclusivamente il rapporto di dipendenza giuridica
non rilevando il fatto che l’effettiva attività svolta possa
essere resa anche nell’interesse del comune presso cui
svolge il proprio mandato elettivo.
Si ricorda, altresì, al riguardo, che la convenzione è una
forma collaborativa tra enti locali la quale è inidonea a
far sorgere entità distinte ed autonome rispetto ai comuni
che si associano. Ciò anche qualora il testo convenzionale
preveda l’istituzione di uffici comuni ai quali affidare
l’esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti
partecipanti all’accordo, i quali possono definirsi come
articolazioni interne, prive di personalità giuridica.
Tali conclusioni non mutano anche qualora l’indicato
consigliere comunale venisse nominato assessore dal proprio
sindaco. Non è dato, infatti, ravvisare, con riferimento
alla fattispecie in riferimento, l’esistenza di cause di
incompatibilità ulteriori valevoli per i soli assessori
comunali.
Per questi ultimi il legislatore statale ha, invece, dettato
una previsione specifica all’articolo 78, comma 3, TUEL il
quale recita: “I componenti la giunta comunale competenti
in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici
devono astenersi dall’esercitare attività professionale in
materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da
essi amministrato”.
La norma disciplina la particolare situazione in cui
potrebbe venire a trovarsi un assessore comunale al quale
venga conferita la delega in materia di edilizia,
urbanistica e lavori pubblici e che, al contempo, svolga la
propria attività professionale nel medesimo territorio da
esso amministrato e relativamente allo stesso ambito di
materia cui si riferisce la delega assessorile ricevuta.
Premesso che la norma non introduce alcuna causa di
incompatibilità né è prevista alcuna sanzione specifica in
caso di sua violazione [2],
si rileva che essa in ogni caso non verrebbe in rilevo nel
caso di specie atteso che l’amministratore locale svolge
attività di lavoro dipendente e non autonomo.
In particolare, anche qualora questi venisse nominato
assessore con delega in materia di urbanistica, di edilizia
e di lavori pubblici e, al contempo, svolgesse la propria
attività di lavoratore dipendente nello stesso ambito della
delega conferitagli dal sindaco[3] non risulterebbe
integrata la fattispecie sopra descritta: soltanto esigenze
di opportunità, da valutarsi in relazione all’effettiva
attività svolta e ad ogni altra circostanza del caso
concreto, potrebbero deporre a favore di soluzioni che siano
rispettose delle esigenze di imparzialità e di buona
amministrazione che sempre devono connotare l’agère della
pubblica amministrazione.
Per completezza espositiva si segnala, infine, anche il
disposto di cui all’articolo 78, comma 2, TUEL, applicabile
a tutti gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2,
secondo cui essi “devono astenersi dal prendere parte
alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto
grado. L'obbligo di astensione non si applica ai
provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i
piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della
deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di
parenti o affini fino al quarto grado.”
Anche tale previsione non introduce alcuna causa di
incompatibilità ma individua alcune fattispecie generatrici
di conflitto di interesse la presenza delle quali impone un
obbligo di astensione in capo all’amministratore locale che
eventualmente si venga a trovare in una delle situazioni
indicate dalla norma citata.
---------------
[1] Per completezza espositiva si segnala che non vengono
in rilievo nel caso in esame le cause di inconferibilità
previste dal decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante
“Disposizioni in materia di inconferibilità e
incompatibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni e presso gli enti privati in controllo
pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della
legge 06.11.2012, n. 190” atteso che in tale sede non si
contemplano cause ostative al conferimento della carica di
assessore.
[2] Resta tuttavia per i soggetti coinvolti la personale
responsabilità politica nei confronti del corpo elettorale
ed eventualmente la responsabilità deontologica nei
confronti dell’ordine di appartenenza.
[3] Sul presupposto che, come riferito dall’Ente, tutte le
funzioni comunali sono svolte in convenzione tra i comuni in
riferimento di talché l’attività lavorativa svolta potrebbe
riguardare anche quella propria degli altri Comuni in
convenzione (06.06.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: I
lavori possono ritenersi iniziati ove implichino il concentramento di mezzi
e di manodopera, la messa a punto dell'organizzazione del cantiere,
l'innalzamento di elementi portanti, lo scavo e il riempimento in
conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del
piano di campagna o almeno l'esecuzione di scavi preordinati al getto delle
fondazioni, non risultando idonei ad evitare la decadenza del titolo
autorizzatorio, invece, semplici sbancamenti di terreno.
---------------
Come sopra accennato, il fulcro giuridico-fattuale della complessiva vicenda
provvedimentale è costituito dalla verifica in ordine al decorso del termine
di 12 mesi per l’inizio dei lavori che avrebbe determinato l’automatica
decadenza della determinazione provinciale di approvazione del progetto.
Sul punto va premesso in diritto che, secondo la consolidata giurisprudenza
anche riferita ad interventi de quibus, i lavori possono ritenersi
iniziati ove implichino il concentramento di mezzi e di manodopera, la messa
a punto dell'organizzazione del cantiere, l'innalzamento di elementi
portanti, lo scavo e il riempimento in conglomerato cementizio delle
fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna o almeno
l'esecuzione di scavi preordinati al getto delle fondazioni, non risultando
idonei ad evitare la decadenza del titolo autorizzatorio, invece, semplici
sbancamenti di terreno (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI 19.09.2017 n. 4381
e 30.09.2013 n. 4855; sez. V, 15.07.2013 n. 3823; TAR Valle d'Aosta, sez. I,
18.04.2018 n. 26; TAR Veneto, sez. II, 12.03.2015 n. 299).
Nel caso di specie, per un verso, gli esiti dell’istruttoria condotta
dall’ente provinciale e trasfusi nella motivazione del provvedimento
impugnato risultano in linea con tali assunti, disvelando compiutamente
l’assenza di tali indici dimostrativi; per altro verso, le opposte
argomentazioni di parte ricorrente, peraltro condotte non sul piano
controfattuale ma di indiretti indizi giuridico-formali, non si presentano
idonei a superare tali evenienze istruttorie.
Ed, invero, quanto al primo aspetto, dagli atti richiamati nella motivazione
del provvedimento decadenziale e da quelli versati in atti (verbali e
supporti fotografici di entrambe le parti) emerge sia l’assenza di
esecuzione di scavi di fondazione e, a fortiori, di realizzazione di
opere murarie, sia la stessa propedeutica organizzazione del cantiere,
venendo in rilievo una non significativa opera di sbancamento, recinzione
dell'area con minima strumentazione e peraltro sgombra di altri mezzi
d'opera, di materiali di costruzione e di maestranze.
Ne deriva che –ribadito il principio di diritto per cui il concetto di “inizio
dei lavori”, ai fini del termine di cui all'art. 15, comma 2, del d.P.R.
n. 380/2001 (al quale, alla luce della previsione ex art. 24, comma 2, della
l.r. Veneto n. 3/2000, va ricondotta la norma del successivo comma 4,
specificamente inerente al termine di inizio dei lavori di realizzazione
degli impianti di gestione dei rifiuti) non si riferisce a qualsiasi lavoro
preordinato ad una costruzione edilizia, bensì a quelle opere e lavori prima
citati che la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto necessari ed idonei
ad evitare la decadenza del titolo autorizzatorio– nel caso di specie appare
congruamente istruita e sufficientemente motivata la determinazione
provinciale.
Né, quanto al secondo profilo, in senso opposto convincono gli argomenti di
parte ricorrente, incentrati, come detto, non sul medesimo piano di prova
dei fatti (attraverso la documentata descrizione di lavori in concreto
eseguiti ed idonei ad impedire la decadenza del titolo autorizzatorio, anche
attraverso ulteriori profili di convincimento, quali documenti contabili del
cantiere), ma sul confronto con precedenti ordini di sospensione adottati
dal comune e con la correlativa ricaduta in punto di imputabilità del
ritardo.
Orbene, in senso contrario s’osserva come “l’inizio dei lavori”
richiamato in precedenti provvedimenti comunali inibitori della loro
ulteriore prosecuzione, per un verso, rileva sul diverso piano di
misure cautelari attivate proprio per effetto del timore di un loro
incipiente avvio (e non già, come ai fini qui in esame, di significativo
mutamento dell’area per effetto dell'impianto del cantiere e della
esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo
edificio); per altro verso ed in correlazione col precedente assunto,
come ivi comunque vengano in rilievo meri interventi di sbancamento e lavori
di movimento terra.
Quanto infine all’ulteriore richiamo alle citate ordinanze comunali di
sospensione dei lavori, quali ipotesi di impedimento oggettivo e scusabile
ad eseguire i lavori di realizzazione dell'impianto (factum principis),
in disparte la mancata richiesta di proroga, s’osserva in senso contrario
come nell’impugnato atto compiutamente si dia conto della neutralizzazione
dei relativi periodi e di un puntuale computo sia dell’ampio termine
precedente che di quello residuo, superandosi altresì il richiamo a quella
situazione di incertezza giuridica che, in ogni caso, lungi dal costituire
ulteriore causa di sospensione automatica del termine, avrebbe al più
legittimato una richiesta di proroga mai presentata.
Ne discende, pertanto, la congruità istruttorio-motivazionale degli atti
impugnati e di riflesso l’infondatezza della spiegata domanda risarcitoria
stante l’inconfigurabilità nella specie di un danno ingiusto eziologicamente
riconducile ad un non corretto esercizio della funzione amministrativa
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 24.06.2019 n. 755 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
VIA, VAS E AIA – Artt. 12 e 13 l.r. Valle d’Aosta n. 3/2018
– Illegittimità costituzionale – Provvedimento unico
regionale introdotto nel cod. ambiente da d.lgs. n. 104/2017
– Natura unitaria – Frazionamento del contenuto del
provvedimento di Via – Contrasto con l’assetto unitario e
onnicomprensivo del provvedimento unico.
Va dichiarata l’illegittimità
costituzionale degli artt. 12, 13, della legge della Regione
autonoma Valle d’Aosta 20.03.2018, n. 3: il provvedimento
unico regionale, introdotto nel cod. ambiente dal d.lgs. n.
104 del 2017, è finalizzato a semplificare, razionalizzare e
velocizzare la VIA regionale, nella prospettiva di
migliorare l’efficacia dell’azione delle amministrazioni a
diverso titolo coinvolte nella realizzazione del progetto.
Detto istituto non sostituisce i diversi provvedimenti
emessi all’esito dei procedimenti amministrativi, di
competenza eventualmente anche regionale, che possono
interessare la realizzazione del progetto, ma li ricomprende
nella determinazione che conclude la conferenza di servizi.
Il provvedimento unico ha, dunque, una natura per così dire
unitaria, includendo in un unico atto i singoli titoli
abilitativi emessi a seguito della conferenza di servizi
che, come noto, riunisce in unica sede decisoria le diverse
amministrazioni competenti, e non è quindi un atto
sostitutivo, bensì comprensivo delle altre autorizzazioni
necessarie alla realizzazione del progetto. Esso rappresenta
il «nucleo centrale» di un complessivo intervento di riforma
che vincola anche le regioni a statuto speciale, in quanto
norma fondamentale di riforma economico sociale,
riproduttiva –in aggiunta– di specifici obblighi
internazionali in virtù della sua derivazione comunitaria.
La normativa regionale si pone dunque in contrasto con la
disciplina statale, laddove fraziona il contenuto del
provvedimento di VIA, limitandosi a contenere le
informazioni e le valutazioni necessarie a stimare e a
contenere l’impatto ambientale del progetto autorizzato.
Nella disciplina posta dalla Regione autonoma Valle
d’Aosta/Vallèe d’Aoste, il provvedimento di VIA è, infatti,
autonomo rispetto agli altri atti autorizzatori connessi
alla realizzazione dell’opera, in evidente deroga
all’assetto unitario e onnicomprensivo del provvedimento
unico previsto dall’art. 27-bis del cod. ambiente.
...
VIA, VAS E AIA – Art. 10 l.r. Valle d’Aosta n. 3/2018 –
Illegittimità costituzionale – Ruolo meramente consultivo e
marginale della conferenza di servizi – Contrasto con l’art.
27-bis del d.lgs. n. 152/2006.
Va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 10 della legge della Regione
autonoma Valle d’Aosta 20.03.2018, n. 3: tale disposizione
prevede che i soggetti competenti in materia territoriale e
ambientale possano esprimere il loro parere anche
«nell’ambito della conferenza di servizi indetta dalla
struttura competente».
La conferenza di servizi è dunque relegata, dalla legge
regionale impugnata, a un ruolo meramente consultivo e
marginale, secondo una previsione che contrasta con il
disegno normativo prefigurato dall’art. 27-bis del cod.
ambiente.
...
VIA, VAS E AIA – Art. 16 l.r. Valle d’Aosta n. 3/2018 –
Illegittimità costituzionale – Allocazione dei procedimenti
di VIA tra Stato e Regioni – Livello di protezione uniforme
sul territorio nazionale.
Va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 16, comma 1, della legge reg. Valle
d’Aosta n. 3 del 2018 e dell’Allegato A alla medesima legge
regionale, e degli allegati ivi contenuti, limitatamente ai
numeri 2), 3), 4), 5), 7), 8), 9) 10), 11), 17), 18), 19),
20) dell’Allegato A, e ai numeri 2.a), 2.e) 2.g), 2.h),
7.e), 7.g), 7.j), 7.m), 7.r) dell’Allegato B.
La nuova distribuzione di competenze tra Stato e Regioni,
operata dal d.lgs. n. 104 del 2017, va considerata tra gli
aspetti fondamentali della riforma in tema di VIA e di
assoggettabilità a VIA, istituti chiave per la tutela
dell’ambiente, la quale necessita di un livello di
protezione uniforme sul territorio nazionale. Il d.lgs. n.
104 del 2017 (in particolare, gli artt. 5, 22, 26) ha
sostituto gli Allegati alla Parte II del cod. ambiente, e
così realizzato una nuova allocazione dei procedimenti di
VIA tra Stato e Regioni, ampliando il novero dei
procedimenti di competenza statale.
Da tali premesse discende l’illegittimità costituzionale
delle norme che interferiscono con i procedimenti che il
cod. ambiente riserva allo Stato, indicando tipologie di
progetti non perfettamente corrispondenti alle fattispecie
contenute nel d.lgs. n. 152 del 2006, o prevedendo soglie
dimensionali inferiori a quanto previsto dalla disciplina
statale senza contestualmente stabilire “limiti” massimi
idonei ad evitare sovrapposizioni (Allegato A, numeri 2, 3,
9, 17, 18, 19 e 20; Allegato B, numeri 2a, 2e, 2g, 2h, 7e,
7g, 7j, 7m e 7r).
A conclusioni analoghe deve giungersi per i procedimenti che
la legge regionale sottopone a VIA regionale o a verifica
regionale di assoggettabilità a VIA non indicati dagli
Allegati alla Parte II del cod. ambiente (Allegato A, numeri
4, 5, 7, 8, 10 e 11). Anche tali fattispecie sono
illegittime in quanto si allontanano dalla disciplina
statale, la quale, in virtù della competenza esclusiva di
cui all’art. 117, secondo comma lettera s) Cost., richiede
una uniformità di trattamento normativo nella allocazione
dei procedimenti tra Stato e Regioni (Corte
Costituzionale,
sentenza 19.06.2019 n. 147 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Valutazione
di impatto ambientale (VIA), la Consulta boccia norme della Valle d'Aosta.
Secondo la Corte costituzionale varie disposizioni della legge regionale
valdostana n. 3/2018 sono illegittime. La disciplina della VIA rientra nella
competenza esclusiva dello Stato.
La disciplina della Valutazione di impatto ambientale
(VIA) rientra nella competenza esclusiva statale in materia di «tutela
dell’ambiente e dell’ecosistema» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera
s), della Costituzione.
Lo ha ribadito la Corte costituzionale nella
sentenza
19.06.2019 n. 147.
Con questa sentenza la Consulta ha:
1) dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 10, 12,
13, della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 20.03.2018, n. 3,
recante «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione
autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste derivanti dall’appartenenza
dell’Italia all’Unione europea. Modificazioni alla legge regionale 26.05.2009, n. 12 (Legge europea 2009), in conformità alla direttiva 2014/52/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la
direttiva 2011/92/UE concernente la valutazione dell’impatto ambientale di
determinati progetti pubblici e privati (Legge europea regionale 2018)»;
2) dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1,
della legge reg. Valle d’Aosta n. 3 del 2018 e dell’Allegato A alla medesima
legge regionale, e degli allegati ivi contenuti, limitatamente ai numeri 2),
3), 4), 5), 7), 8), 9) 10), 11), 17), 18), 19), 20) dell’Allegato A, e ai
numeri 2.a), 2.e) 2.g), 2.h), 7.e), 7.g), 7.j), 7.m), 7.r) dell’Allegato B.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale della suddetta legge della Regione autonoma Valle
d’Aosta, per contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera s), della
Costituzione con riferimento ad alcune disposizioni del decreto legislativo
03.04.2006, n. 152 recante «Norme in materia ambientale» (cod.
ambiente), e in particolare, agli artt. 7-bis e 27-bis e agli Allegati II,
II-bis, III, IV, alla Parte II del menzionato cod. ambiente
(20.06.2019 - commento tratto da https://www.casaeclima.com). |
APPALTI: Omessa
dichiarazione da parte del concorrente di
tutte le condanne penali eventualmente
riportate.
Nelle procedure ad
evidenza pubblica preordinate
all’affidamento di un appalto pubblico,
l’omessa dichiarazione da parte del
concorrente di tutte le condanne penali
eventualmente riportate comporta senz’altro
la sua esclusione dalla gara, perché in tal
modo viene impedito alla stazione appaltante
di valutarne la gravità: valutazione che ad
essa sola compete e che non può esserle
potestativamente preclusa
dall’autodeterminazione dell’interessato
(fattispecie relativa all’omessa
dichiarazione di una sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle
parti ex artt. 444, 445 c.p.p)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 18.06.2019 n. 1396 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2.1. Quanto ai motivi con i quali le
ricorrenti censurano la propria esclusione
dalla gara, è sufficiente rilevare che:
- la lex specialis prescriveva che ciascun soggetto munito
del potere di rappresentanza dell’operatore
economico partecipante alla gara indicasse
tutte le sentenze iscritte sul casellario
giudiziale anagrafico storico ed anche
quelle per cui sia stato concesso il
beneficio della non menzione (v. il Modello
2, lettera b, allegato all’istanza di
ammissione alla procedura, sub doc. 14 della
produzione di AM.Sp. S.S.D. a r.l.);
- è incontestato che l’amministratore unico della mandataria
-OMISSIS- ha omesso di dichiarare
l’esistenza a suo carico di una sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle
parti (art. 444, 445 c.p.p) del g.i.p. del
Tribunale di Milano, divenuta irrevocabile
il 29.04.2012, per fatti di bancarotta
fraudolenta in concorso ex artt. 110 c.p. e
223 del r.d. n. 267/1942, commesso il
12.10.2006 in Milano;
- secondo l’orientamento giurisprudenziale condiviso dal Collegio,
nelle procedure ad evidenza pubblica
preordinate all’affidamento di un appalto
pubblico, l’omessa dichiarazione da parte
del concorrente di tutte le condanne penali
eventualmente riportate comporta senz’altro
la sua esclusione dalla gara, perché in tal
modo viene impedito alla stazione appaltante
di valutarne la gravità: valutazione che ad
essa sola compete e che non può esserle
potestativamente preclusa
dall’autodeterminazione dell’interessato;
- la stazione appaltante, quindi, ha correttamente escluso le
ricorrenti dalla gara ai sensi dell’art. 80,
comma 5, lett. c) e lett. f-bis) del d.lgs.
n. 50/2016;
- le censure, pertanto, vanno respinte. |
EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione
di un foro di 12 cm. di diametro per consentire il passaggio di una
tubazione in polipropilene del diametro di 11 cm, utilizzata per convogliare
i reflui fognari alla rete condominiale, non
rientra nel regime del permesso di costruire.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001,
sono ricomprese nella categoria degli interventi di manutenzione
straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e
sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino
i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino
modifiche delle destinazioni di uso”.
---------------
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il Condominio di Via ...
n. 12 ha agito per l’annullamento della determinazione dirigenziale rep. n.
3231 del 06.11.2017, di irrogazione delle sanzioni demolitoria e pecuniaria
per interventi edilizi asseritamente abusivi realizzati nel suddetto
fabbricato condominiale, nonché degli altri atti in epigrafe indicati.
Nello specifico, gli interventi sanzionati si sono sostanziati nella
realizzazione di un foro di 12 cm. di diametro per consentire il passaggio
di una tubazione in polipropilene del diametro di 11 cm, utilizzata per
convogliare i reflui fognari alla rete condominiale, nonché nella
realizzazione di una porta sul prospetto posteriore del fabbricato, con
affaccio sul cortile interno, di accesso secondario al medesimo.
...
2. Il ricorso merita parziale accoglimento per le ragioni di seguito
esposte.
3. Come esposto nella narrativa in fatto, con il provvedimento impugnato
sono state sanzionate due opere, la prima delle quali costituita dalla
realizzazione sul muro del fabbricato di un “foro” di 12 cm. di
diametro per consentire il passaggio di una tubazione in polipropilene del
diametro di 11 cm., utilizzata per convogliare i reflui fognari alla rete
condominiale.
3.1. Giova evidenziare che in esecuzione dell’ordinanza cautelare, con
deliberazione assembleare del 19.03.2019 il Condominio ha deliberato di
provvedere al ripristino della tubazione originaria, essendo stata la
realizzazione del foro determinata dalla necessità di fronteggiare un
danneggiamento, risalente agli anni ’90, dell’ultimo tratto discendente
della condotta fognaria.
A prescindere dalla suddetta deliberazione, di per sé inidonea, in assenza
della esecuzione dell’intervento di ripristino a determinare una
sopravvenuta carenza di interesse, in parte qua, dell’impugnativa, il
Collegio rileva che, sul piano edilizio e fermi ulteriori aspetti di
conformità estranei al presente giudizio, la realizzazione della tubazione
in questione e l’apertura dell’esiguo foro che vengono in rilievo non
rientra nel regime del permesso di costruire.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001,
sono ricomprese nella categoria degli interventi di manutenzione
straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e
sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino
i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino
modifiche delle destinazioni di uso”.
L’opera posta in essere –la quale, contrariamente a quanto sostenuto dalla
difesa della controinteressata non integra un “manufatto”– rientra in
quest’ultima categoria, con conseguente illegittimità, in parte qua,
della determinazione adottata dall’amministrazione
(TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 17.06.2019 n. 7818 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può
ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve escludere che
l’ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con
riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere sull’ineludibile
doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione
della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può
radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo”
in capo ai proprietari dell’abuso.
---------------
6. Neppure meritano accoglimento le deduzioni del Condominio ricorrente
incentrate sul lungo tempo decorso tra la realizzazione delle opere e
l’adozione del provvedimento impugnato.
6.1. In conformità all’orientamento espresso dalla
giurisprudenza (avallato dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8 del
2017), il Collegio ritiene di rimarcare che poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può
ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve escludere che
l’ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con
riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere sull’ineludibile
doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione
della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può
radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo”
in capo ai proprietari dell’abuso.
7. Con deduzione articolata in via di subordine, il Condominio ricorrente ha
censurato l’irrogazione della sanzione pecuniaria, quantificata
dall’amministrazione in ventimila euro, con espressa impugnazione, in
parte qua, della delibera dell’assemblea comunale n. 44 del 2011, non
essendo stata prevista alcuna diversificazione correlata alla gravità degli
abusi contestati nell’ambito dei variegati interventi rientranti nella
categoria della ristrutturazione edilizia.
7.1. La censura merita accoglimento in quanto sia tenuto conto dell’esiguità
dell’abuso sia alla luce del complesso delle circostanze emergenti in atti,
anche riferite al mancato reperimento presso gli uffici dell’amministrazione
del progetto originario del fabbricato, deve concludersi per l’assoluta
sproporzione ed irragionevolezza della sanzione.
Del pari, meritano accoglimento le deduzioni articolate avverso la sopra
indicata deliberazione, nella parte in cui al punto 6), lett. a), dispone
l’applicazione di una sanzione pecuniaria dai 15.000,00 ai 25.000,00 euro
per tutte le opere che secondo la classificazione dell’art. 9, comma 5, delle
Norme Tecniche di Attuazione del Piano Regolatore, siano riconducibili alla
“categoria di intervento RE2 e/o a cambi di destinazione d’uso” e ciò
in quanto –a prescindere dal contrasto, non oggetto di specifica deduzione
da parte del Condominio ricorrente, con le superiori fonti di rango
legislativo primario, relativamente al cumulo di sanzioni, già evidenziato
in numerose pronunce di questa Sezione (cfr., ex multis, n. 5231 del
2019)– la previsione si ponte in palese violazione del generale canone di
proporzionalità, stante l’assimilazione di differenti fattispecie senza
adeguata graduazione in rapporto alla consistenza ed alla gravità dell’abuso
.
8. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso merita parziale
accoglimento, nei limiti e nei termini sopra indicati
(TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 17.06.2019 n. 7818 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Destinazione
di un’area a standard.
---------------
Urbanistica - Servitù di uso pubblico - Destinazione di un’area a
standard – Uti cives.
La destinazione di un’area a standard è finalizzata
mediante una servitù di uso pubblico alla fruizione della stessa da parte
dell’intera collettività indistinta dei cittadini (uti cives) e non all’uso
limitato (uti singuli) da parte dei soli utenti delle unità immobiliari in
relazione alle quali è sorto l’obbligo della dotazione degli standard (1).
---------------
(1) Il comune di Flero autorizza nel 1982 una lottizzazione
(capannoni industriali) ottenendo in cambio aree a standard: verde,
parcheggi pubblici, magazzino comunale.
Di fatto però negli anni le ditte proprietarie dei capannoni utilizzano
quegli spazi pubblici (parcheggi e aree esterne al magazzino comunale) come
spazio di manovra per gli autotreni pesanti che accedono ai capannoni per
consegnare o ritirare merce.
Nel 2014 il comune –verificato che gli standard sono sovrabbondanti– aliena
mediante asta pubblica parte dei parcheggi e il magazzino ad una società
LAI, la quale mediante recinzione delimita la sua nuova proprietà.
A questo punto le Ditte, private degli spazi esterni di manovra, insorgono
avanti al TAR Brescia che accoglie il ricorso.
Il punto decisivo secondo il TAR è che, nonostante gli standard a parcheggio
siano stati ceduti al Comune e svolgano la funzione di parcheggi destinati
alla collettività, in concreto, il loro uso nel tempo li avrebbe trasformati
in “piazzali di manovra” con la tolleranza del Comune e che,
comunque, la convenzione di lottizzazione del 1982 andrebbe interpretata nel
senso che la previsione di realizzazione e cessione di parcheggi pubblici in
ambito produttivo implica la facoltà di utilizzazione degli stessi spazi
come aree di manovra per le ditte lottizzanti.
Su appello del comune e della Lai la sentenza annotata disattende
radicalmente questa statuizione.
Il Collegio non pone in dubbio che dette aree siano state utilizzate per un
consistente arco temporale anche e soprattutto per queste finalità
prettamente private delle imprese del comparto, né pone in dubbio che la
recinzione dell’area possa costituire un potenziale intralcio alle manovre
dei conducenti dei camion per l’accesso alle aziende, ma ribadisce che le
aree standard sono state acquisite dal Comune per finalità pubbliche, e non
come spazi di manovra degli autoarticolati, e la circostanza che poi siano
state utilizzate anche o soprattutto per tali finalità a servizio delle
imprese non fa venire meno la destinazione giuridicamente loro impressa e la
conseguente facoltà per il Comune di alienare gli immobili nel rispetto
delle norme di legge
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.06.2019 n. 4069 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: La
corretta inquadratura giuridica della convenzione di lottizzazione.
La convenzione di lottizzazione è inquadrabile negli
accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge n. 241
del 1990 che, inserendosi nell’alveo dell’esercizio di un potere, ne mutuano
le caratteristiche e la natura, salva l’applicazione dei principi
civilistici in materia di obbligazione e contratti per aspetti non
incompatibili con la generale disciplina pubblicistica.
Di conseguenza, la lottizzazione costituisce esercizio consensuale di un
potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di
disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni ed oneri, rese pubbliche
attraverso la trascrizione, che s’impongono anche agli aventi causa dal
lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva.
Le convenzioni urbanistiche, in ragione della possibile sopravvenienza di
interessi pubblici, vanno sempre considerate rebus sic stantibus, fermo
restando che il potere di variazione dello strumento generale richiede una
adeguata motivazione sulla necessità di sacrificare le eventuali legittime
aspettative maturate in capo ai privati.
---------------
Su un piano generale, il Comune rimane libero di dare una diversa
destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede convenzione di
lottizzazione, tanto più quando, come nel caso di specie, la convenzione sia
abbondantemente scaduta, con l’unico limite, oltre al naturale dovere di
motivazione ai sensi dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, costituito
dalla necessità di rispettare i cc.dd. standard urbanistici che, nella
pianificazione generale, attengono ai rapporti massimi tra spazi edificabili
e spazi riservati all’utilizzazione per scopi pubblici e sociali.
Tali standard, infatti, previsti in un limite minimo inderogabile dall’art.
3 D.M. n. 1444 del 02.04.1968 (che indica i rapporti massimi tra gli spazi
destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati
alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi), assolvono ad una
funzione di equilibrio dell’assetto territoriale e di salvaguardia
dell’ambiente e della qualità di vita.
---------------
In sostanza, risulta persuasiva la doglianza con cui l’appellante ha
censurato la sentenza del primo giudice laddove ha ritenuto che il Comune
non avesse adeguatamente motivato le proprie scelte, muovendo da un
presupposto del tutto errato, vale dire che oggetto dell’alienazione siano
piazzali o spazi di manovra posti all’esclusivo servizio dei lottizzanti.
La convenzione di lottizzazione è inquadrabile negli accordi sostitutivi di
provvedimento di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990 che,
inserendosi nell’alveo dell’esercizio di un potere, ne mutuano le
caratteristiche e la natura, salva l’applicazione dei principi civilistici
in materia di obbligazione e contratti per aspetti non incompatibili con la
generale disciplina pubblicistica.
Di conseguenza, la lottizzazione costituisce esercizio consensuale di un
potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di
disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni ed oneri, rese pubbliche
attraverso la trascrizione, che s’impongono anche agli aventi causa dal
lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva (cfr.
Cons. Stato, IV, 08.07.2013, n. 3597).
Le convenzioni urbanistiche, in ragione della possibile sopravvenienza di
interessi pubblici, vanno sempre considerate rebus sic stantibus,
fermo restando che il potere di variazione dello strumento generale richiede
una adeguata motivazione sulla necessità di sacrificare le eventuali
legittime aspettative maturate in capo ai privati.
Su un piano generale, pertanto, il Comune rimane libero di dare una diversa
destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede convenzione di
lottizzazione, tanto più quando, come nel caso di specie, la convenzione sia
abbondantemente scaduta, con l’unico limite, oltre al naturale dovere di
motivazione ai sensi dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, costituito
dalla necessità di rispettare i cc.dd. standard urbanistici che, nella
pianificazione generale, attengono ai rapporti massimi tra spazi edificabili
e spazi riservati all’utilizzazione per scopi pubblici e sociali.
Tali standard, infatti, previsti in un limite minimo inderogabile dall’art.
3 D.M. n. 1444 del 02.04.1968 (che indica i rapporti massimi tra gli spazi
destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati
alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi), assolvono ad una
funzione di equilibrio dell’assetto territoriale e di salvaguardia
dell’ambiente e della qualità di vita.
Alla generica possibilità di trasformare la destinazione urbanistica delle
aree acquisite, salvo il rispetto dei cc.dd. standard urbanistici, si
aggiunga nello specifico che, nell’atto di cessione della aree in data
02.12.1998, in adempimento della “convenzione per l’attuazione del piano
di lottizzazione Lugo – n. 24 zona industriale”, le parti hanno preso
atto “che il Comune di Flero diviene libero ed assoluto proprietario
degli immobili acquistati, può ritenerli, disporne e dare agli stessi,
secondo l’opportunità ed in ogni tempo, quella destinazione che, nel proprio
e nel pubblico interesse, reputa maggiormente utile, senza che se ne possa
muovere opposizione o pretesa alcuna da parte degli alienanti, i quali
dichiarano altresì di rinunciare per sé ed i propri aventi causa a qualsiasi
diritto di retrocessione”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.06.2019 n. 4068 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di una tettoia, peraltro di non ridotte dimensioni,
comportando trasformazione edilizia del territorio (ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001), si
caratterizza quale intervento di nuova costruzione a tutti gli effetti, con
ogni conseguenza in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di
rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve pertanto essere
individuato nel permesso di costruire: la mancanza del previo permesso
legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31
del d.P.R. n. 380/2001, la quale costituisce atto dovuto per
l’amministrazione comunale.
---------------
... per l'annullamento:
a) dell’ordinanza dirigenziale del Comune di Acerra n. 47 del 07.07.2011,
recante la demolizione di tettoia in legno avente superficie di circa 36 mq.
ed altezza media di circa 2,85 ml., realizzata in aderenza ad unità
abitativa ubicata nel territorio comunale alla Via ... n. 8 (Parco Minturno);
...
Considerato che le prefate doglianze non meritano condivisione per le
ragioni di seguito esplicitate:
aa) come risulta dalle emergenze processuali, è smentito in fatto che la
ricorrente abbia prodotto una DIA al fine di assentire la realizzazione
della tettoia in questione. In data 12.05.2011, la medesima ha
presentato presso gli uffici comunali una mera “segnalazione di inizio
lavori” per il 13 maggio successivo priva di ogni allegato tecnico, la quale
non può assolutamente essere assimilata ad una formale DIA per carenza delle
minime allegazioni documentali e del minimo intervallo temporale previsti
dalla legge. Ne deriva che tale “segnalazione” non è equiparabile al titolo
edilizio abilitativo invocato dalla ricorrente e non è idonea a coprire
l’avvenuta realizzazione della tettoia, che rimane abusiva ed assoggettabile
a trattamento sanzionatorio;
bb) la realizzazione di una tettoia, peraltro di non ridotte dimensioni come
nel caso di specie, comportando trasformazione edilizia del territorio (ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001), si
caratterizza quale intervento di nuova costruzione a tutti gli effetti, con
ogni conseguenza in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di
rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve pertanto essere
individuato nel permesso di costruire: la mancanza del previo permesso
legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31
del d.P.R. n. 380/2001, la quale costituisce atto dovuto per
l’amministrazione comunale (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. IV, 14.09.2016 n. 4310; TAR Campania Napoli, Sez. III,
28.04.2016 n. 2167) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 17.06.2019 n. 3345 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di pertinenza urbanistica accolta dalla giurisprudenza
amministrativa è meno ampia di quella civilistica.
In tale ottica, gli elementi che caratterizzano la
pertinenza urbanistica sono, da un lato, l’esiguità quantitativa del
manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non
alterare in modo rilevante l’assetto del territorio, e, dall’altro,
l’esistenza di un collegamento funzionale tra il manufatto e l’edificio
principale, con la conseguente incapacità per il primo di essere utilizzato
separatamente ed autonomamente rispetto al secondo.
Pertanto, un’opera può definirsi accessoria nei riguardi di un’altra, da
considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della
seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi
l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme.
---------------
... per l'annullamento:
a) dell’ordinanza dirigenziale del Comune di Acerra n. 47 del 07.07.2011,
recante la demolizione di tettoia in legno avente superficie di circa 36 mq.
ed altezza media di circa 2,85 ml., realizzata in aderenza ad unità
abitativa ubicata nel territorio comunale alla Via ... n. 8 (Parco Minturno);
...
Considerato che le prefate doglianze non meritano condivisione per le
ragioni di seguito esplicitate:
aa) come risulta dalle emergenze processuali, è smentito in fatto che la
ricorrente abbia prodotto una DIA al fine di assentire la realizzazione
della tettoia in questione. In data 12.05.2011, la medesima ha
presentato presso gli uffici comunali una mera “segnalazione di inizio
lavori” per il 13 maggio successivo priva di ogni allegato tecnico, la quale
non può assolutamente essere assimilata ad una formale DIA per carenza delle
minime allegazioni documentali e del minimo intervallo temporale previsti
dalla legge. Ne deriva che tale “segnalazione” non è equiparabile al titolo
edilizio abilitativo invocato dalla ricorrente e non è idonea a coprire
l’avvenuta realizzazione della tettoia, che rimane abusiva ed assoggettabile
a trattamento sanzionatorio;
bb) la realizzazione di una tettoia, peraltro di non ridotte dimensioni come
nel caso di specie, comportando trasformazione edilizia del territorio (ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001), si
caratterizza quale intervento di nuova costruzione a tutti gli effetti, con
ogni conseguenza in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di
rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve pertanto essere
individuato nel permesso di costruire: la mancanza del previo permesso
legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31
del d.P.R. n. 380/2001, la quale costituisce atto dovuto per
l’amministrazione comunale (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. IV, 14.09.2016 n. 4310; TAR Campania Napoli, Sez. III, 28.04.2016 n. 2167);
cc) contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, la tettoia in
questione non è assimilabile a mera pertinenza dell’unità abitativa,
configurandosi invece come manufatto autonomo, il quale, comportando
trasformazione del territorio, necessitava del preventivo rilascio del
permesso di costruire e non della DIA. Invero, la nozione di pertinenza
urbanistica accolta dalla giurisprudenza amministrativa è meno ampia di
quella civilistica.
In tale ottica, gli elementi che caratterizzano la
pertinenza urbanistica sono, da un lato, l’esiguità quantitativa del
manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non
alterare in modo rilevante l’assetto del territorio, e, dall’altro,
l’esistenza di un collegamento funzionale tra il manufatto e l’edificio
principale, con la conseguente incapacità per il primo di essere utilizzato
separatamente ed autonomamente rispetto al secondo; pertanto, un’opera può
definirsi accessoria nei riguardi di un’altra, da considerarsi principale,
solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non
potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza
e della funzione dell’insieme (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.01.2016 n. 19; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 14.09.2016 n. 4310).
Ebbene, ad avviso del Collegio, nella specie non è ravvisabile la
sussistenza della prima delle due condizioni integranti l’ipotesi della
pertinenza urbanistica. Infatti, quanto all’aspetto quantitativo-dimensionale,
si evidenzia, in via assorbente, che si tratta nello specifico di
costruzione di dimensioni importanti (all’incirca 36 mq. x 2,85 ml. di
altezza media) che, occupando una vasta zona di superficie, è idonea a
modificare in maniera rilevante l’esistente assetto territoriale (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 17.06.2019 n. 3345 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente
vincolato, non necessita di particolare motivazione, potendosi ritenere
adeguata e autosufficiente la motivazione quando già solo siano rinvenibili
la compiuta descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro
esecuzione in assenza o difformità dal permesso di costruire e
l’individuazione della norma applicata, come ravvisabile nel caso di specie,
ogni altra indicazione –ad esempio in tema di caratteristiche dimensionali o
di collocazione temporale degli illeciti edilizi– esulando dal contenuto
tipico del provvedimento..
Inoltre, si
rileva che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti
dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini
discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale o di una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati; ne discende che essi sono sufficientemente motivati con
riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime dei titoli abilitativi edilizi e del
corrispondente trattamento sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun
ulteriore obbligo motivazionale.
---------------
dd) infine, il Collegio osserva che, secondo la condivisibile giurisprudenza
amministrativa prevalente, l’ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto
e rigorosamente vincolato, non necessita di particolare motivazione,
potendosi ritenere adeguata e autosufficiente la motivazione quando già solo
siano rinvenibili la compiuta descrizione delle opere abusive, la
constatazione della loro esecuzione in assenza o difformità dal permesso di
costruire e l’individuazione della norma applicata, come ravvisabile nel
caso di specie, ogni altra indicazione –ad esempio in tema di
caratteristiche dimensionali o di collocazione temporale degli illeciti
edilizi– esulando dal contenuto tipico del provvedimento (cfr. ex multis
TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 30.05.2017 n. 2870 e 28.01.2016 n.
538; TAR Campania Napoli, Sez. VI, 23.01.2012 n. 315).
Inoltre, si
rileva che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti
dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini
discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale o di una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati; ne discende che essi sono sufficientemente motivati con
riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime dei titoli abilitativi edilizi e del
corrispondente trattamento sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun
ulteriore obbligo motivazionale (cfr. Consiglio di Stato, A.P., 17.10.2017 n. 9; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n. 3750) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 17.06.2019 n. 3345 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
modello legale dell’ordinanza di demolizione non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo
mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto.
Non è richiesta, pertanto, una specifica motivazione in quanto il
presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione è costituito
esclusivamente dalla constatata esecuzione dell’opera in difformità dal
titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il
provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente
motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro
accertata abusività.
---------------
L’onere della prova in ordine all’epoca di realizzazione di un abuso
edilizio grava sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del
proprio operato o l’estraneità rispetto all’abuso commesso dai precedenti
proprietari e non sul Comune che, in presenza di un’opera edilizia non
assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla.
Sicché, la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è sufficiente a tal
fine, essendo necessari inconfutabili atti o documenti che, da soli o
unitamente ad altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione del manufatto.
---------------
I primi due motivi -che possono essere congiuntamente esaminati in
quanto intimamente connessi- sono infondati alla luce del consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo cui nel modello legale dell’ordinanza
di demolizione non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura
ripristinatoria costituisce atto dovuto; non è richiesta, pertanto, una
specifica motivazione in quanto il presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell’opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la
conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il
richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. II,
08.01.2018, n. 27; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 03/07/2018, n. 4400; TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. II, 25/09/2017, n. 1469).
Ne consegue che, a fronte di quanto accertato dall’amministrazione comunale
intimata in ordine all’esecuzione dell’opera in assenza di titolo
abilitativo, risultano inconferenti le argomentazioni di parte ricorrente in
ordine a pregressi procedimenti di sanatoria o richieste di autotutela
tuttavia mai conclusi con determinazioni esplicite e/o implicite da parte
della predetta amministrazione in senso favorevole per la ricorrente.
Allo stesso modo il mancato riscontro alle istanze presentate nel mese di
dicembre 2018 dalla ricorrente (nota prot. 26029 del 01/12/2018 di accesso
agli atti e nota prot. 25590 del 06/12/2018) se può denotare un
atteggiamento poco rispettoso del principio di buon andamento della p.a.,
giammai può incidere sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione che,
come detto, costituisce atto dovuto.
Quanto al terzo motivo, va richiamato il consolidato orientamento
giurisprudenziale in base al quale l’onere della prova in ordine all’epoca
di realizzazione di un abuso edilizio grava sull’interessato che intende
dimostrare la legittimità del proprio operato o l’estraneità rispetto
all’abuso commesso dai precedenti proprietari e non sul Comune che, in
presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi,
ha solo il potere-dovere di sanzionarla (cfr. TAR Sicilia Catania Sez. II,
Sent., 18.03.2019, n. 578; TAR Campania Napoli, Sez. II, 14.01.2019, n. 190
e sez. VIII, 26.01.2012, n. 405; TAR Piemonte, 01.06.2009 n. 1564; TAR
Sicilia-Palermo, sez. III, 26.10.2005, n. 4099).
Sotto tale profilo, la ricorrente non fornisce alcuna seria prova atta a
dimostrare che tutte o parte delle opere contestate sarebbero state
realizzate prima del 1976.
Vero è che il perito di parte nella perizia allegata al ricorso afferma che
“… dalla comparazione delle foto e dal rilievo aerofotogrammetrico si
evince con chiarezza che al 1976 le discenderie erano state realizzate, che
il fabbricato denominato “vano piccolo” era stato costruito. (…) Per quanto
riguarda la costruzione denominata “vano grande” nella aerofoto e nella
restituzione grafica della S.A.S. TD si rileva un muro. La signora Pi.
(supportata anche da altri testimoni) negli atti notori degli anni ’80 ha
dichiarato l’esistenza di un fabbricato (…)".
Tuttavia, in mancanza di altri elementi, tale rilievo, per come formulato,
sembra più una congettura di parte ricorrente che una effettiva
contestazione di quanto verificato dal Comune intimato.
A ciò si aggiunga che, secondo condivisibile giurisprudenza, neanche la
dichiarazione sostitutiva di atto notorio è sufficiente a tal fine, essendo
necessari inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad altri
elementi probatori, offrano la ragionevole certezza dell’epoca di
realizzazione del manufatto (ex plurimis TAR Sicilia Catania Sez. I,
28.02.2019 n. 374; TAR Sicilia Catania Sez. I, 25.01.2018, n. 204; Consiglio
di Stato, V, 20.08.2013, n. 4182; VI, 05.08.2013, n. 4075; IV, 23.01.2013,
n. 414; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 03.08.2012, n. 1761).
Infine il Collegio rileva che, per giurisprudenza costante, l’art. 15 della
L.r. n. 78/1976 “va interpretato restrittivamente, con la conseguenza che
debbono ritenersi impianti destinati alla diretta fruizione del mare
soltanto quelli che debbono, oggettivamente e per loro stessa natura, essere
collocati in prossimità del mare o della costa, quali ad esempio gli
stabilimenti balneari, i pontili, i porti, le darsene, i ricoveri dei
natanti ecc., tenuto conto, peraltro, che tale norma derogatoria si
riferisce alla “diretta fruizione” del mare e quindi esclude espressamente
tutto ciò che con l’uso del mare abbia una relazione semplicemente indiretta
(…)” (C.G.A. sez. giur., 14.03.2014 n. 133; TAR Sicilia, Palermo, sez.
II, 23.02.2019 n. 530)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 17.06.2019 n. 1623 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
LAVORI PUBBLICI: Natura
tipicamente discrezionale che connota la
procedura del c.d. project financing.
Il TAR Milano evidenzia
la natura tipicamente discrezionale che
connota la procedura del c.d. project
financing in quanto, una volta dichiarata di
pubblico interesse una proposta di
realizzazione di lavori pubblici e
individuato il promotore privato,
l'Amministrazione non è tenuta a dare corso
all’ulteriore fase della procedura di gara
costituita dal confronto concorrenziale tra
i vari operatori economici per l'affidamento
della relativa concessione; tale scelta,
infatti, costituisce una tipica
manifestazione di discrezionalità
amministrativa nella quale sono implicate
ampie valutazioni in ordine all'effettiva
esistenza di un interesse pubblico alla
realizzazione dell'opera, tali da non potere
essere rese coercibili nell'ambito del
giudizio di legittimità se non in presenza
di vizi logici, di manifesta
irragionevolezza, carenza di motivazione o
travisamento dei fatti.
Ne deriva, secondo il TAR, che il promotore,
anche a seguito della dichiarazione di
pubblico interesse della proposta, non
acquisisce alcun diritto all'indizione della
procedura rimanendo, all'opposto, titolare
di una mera aspettativa non tutelabile
rispetto alle insindacabili scelte
dell'Amministrazione; nella presentazione
del progetto, del resto, vi è un'assunzione
consapevole di rischio da parte del
promotore a che lo stesso non venga poi in
concreto realizzato, con la conseguenza che
l'abbandono del progetto da parte
dell’Amministrazione non integra in capo al
proponente alcuna pretesa risarcitoria e
nemmeno indennitaria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 17.06.2019 n. 1388 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
10.29. Va rigettata anche la domanda
risarcitoria proposta con lo stesso gravame,
sia perché sfornita di prova (anche tenuto
conto che nel periodo in questione la
società è stata affidataria in proroga della
gestione dei parcheggi, non avendo dunque
subito alcun danno) sia perché, per quanto
sopra rilevato, non è ravvisabile alcuna
violazione del canone di buona fede, tale da
configurare, neppure astrattamente, una
responsabilità precontrattuale in capo al
Comune con specifico riferimento
all’abbandono della procedura di finanza di
progetto.
Va infatti rilevato che la giurisprudenza
amministrativa ha costantemente evidenziato
la natura tipicamente discrezionale che
connota la procedura del c.d project
financing in quanto, una volta
dichiarata di pubblico interesse una
proposta di realizzazione di lavori pubblici
ed individuato il promotore privato,
l'Amministrazione non è tenuta a dare corso
all’ulteriore fase della procedura di gara
costituita dal confronto concorrenziale tra
i vari operatori economici per l'affidamento
della relativa concessione (TAR Molise sez.
I 20.07.2018, n. 476; TAR Veneto, sez. I,
16.02.2018, n. 184).
Tale scelta, infatti, costituisce una tipica
manifestazione di discrezionalità
amministrativa nella quale sono implicate
ampie valutazioni in ordine all'effettiva
esistenza di un interesse pubblico alla
realizzazione dell'opera, tali da non potere
essere rese coercibili nell'ambito del
giudizio di legittimità se non in presenza
di vizi logici, di manifesta
irragionevolezza, carenza di motivazione o
travisamento dei fatti (Cons Stato, sez. VI,
21.06.2016, n. 4177), che, come detto,
tenuto conto della motivazione esposta nella
delibera n. 203/2012, nel caso di specie il
Collegio non ha ravvisato.
Ne deriva che il promotore, anche a seguito
della dichiarazione di pubblico interesse
della proposta, non acquisisce alcun diritto
all'indizione della procedura rimanendo,
all'opposto, titolare di una mera
aspettativa non tutelabile rispetto alle
insindacabili scelte dell'Amministrazione.
Nella presentazione del progetto, del resto,
vi è un'assunzione consapevole di rischio da
parte del promotore a che lo stesso non
venga poi in concreto realizzato (TAR Friuli
Venezia Giulia 18.02.2019, n. 74; Cons.
Stato, sez. III, 20.03.2014, n. 1365), con
la conseguenza che l'abbandono del progetto
da parte dell’Amministrazione non integra in
capo al proponente alcuna pretesa
risarcitoria e nemmeno indennitaria.
Nel caso di specie inoltre il provvedimento
gravato è intervenuto in una fase non solo
prodromica della procedura, ma anche in un
momento in cui la procedura stessa era stata
sospesa da due anni.
10.30. Quanto alla domanda volta ad ottenere
l’indennizzo ai sensi dell’art. 21-quinquies
L. 241/1990, tenuto conto di quanto appena
rilevato in ordine alle caratteristiche
della procedura in questione e alla
posizione del privato, ad avviso del
Collegio non è neppure astrattamente
ipotizzabile la pretesa di un indennizzo,
considerato che non è individuabile un “provvedimento
amministrativo ad efficacia durevole”,
come richiesto dalla disposizione invocata
(TAR Friuli Venezia Giulia 18.02.2019, n. 74
cit.), su cui abbia inciso la successiva
decisione dell’Amministrazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi abusivi realizzati su immobile esistente -
Aumento della volumetria dell'immobile - Concessione in
sanatoria parziale - Effetti - Esclusione - Integrale
conformità alla disciplina urbanistica - Necessità - Non è
consentito scindere e considerare separatamente i singoli
componenti - Artt. 10, 36, 44, e 45 d.P.R. 380/2001.
In tema di sanatoria, l'opera edilizia
abusiva deve essere considerata unitariamente nel suo
complesso, senza che sia consentito scindere e considerare
separatamente i suoi singoli componenti, l'inammissibilità
di una «sanatoria parziale», dovendo l'atto abilitativo
postumo contemplare gli interventi eseguiti nella loro
integrità.
Sicché, gli interventi, eseguiti su un unico fabbricato in
un contesto unitario andavano considerati nella loro
globalità e non potevano essere sanati o assentiti in via
meramente parziale, non valendo perciò il titolo conseguito
come autorizzazione in sanatoria ai sensi dell'art. 36
d.P.R. 380/2001.
...
Reati edilizi - Abbassamento del piano di calpestio -
Aumento dell'altezza e della volumetria del fabbricato -
Assenza di permesso di costruire - Mutazione della
destinazione da rurale ad abitativa - Reato di cui all'art.
44 d.P.R. 380/2001 - Configurabilità.
In materia urbanistica, configura il
reato di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001, la realizzazione
in assenza di permesso di costruire, all'interno
dell'immobile l'abbassamento del piano di calpestio dei
locali posti al pian terreno con conseguente aumento
dell'altezza dei medesimi e dunque della volumetria del
fabbricato mutandone, inoltre, la destinazione da rurale ad
abitativa (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.06.2019 n. 26285 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: L'obbligazione
di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione assunta da
colui che stipula una convenzione edilizia ha natura "propter rem", nel
senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha
stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la
concessione edilizia; la natura reale dell'obbligazione in esame riguarda,
dunque, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la
concessione, e quelli che realizzano l'edificazione avvalendosi della
concessione rilasciata al loro dante causa.
---------------
In tema di limiti soggettivi del giudicato, gli artt. 1306 e 1310 c.c. -che con riferimento alle obbligazioni solidali, e
quindi a un rapporto con pluralità di parti ma scindibile, prevedono che i
condebitori i quali non abbiano partecipato al giudizio tra il creditore e
altro condebitore possano opporre al primo la sentenza favorevole al secondo
(ove non basata su ragioni personali)- costituiscono espressione di un più
generale principio, operante a fortiori con riguardo a rapporti
caratterizzati da inscindibilità, secondo cui alla parte non impugnante si
estendono gli effetti derivanti dall'accoglimento dell'impugnazione proposta
da altre parti contro una sentenza sfavorevole emessa nei confronti di
entrambi.
---------------
In tal senso la giurisprudenza è ferma nel ritenere che
l'obbligazione di provvedere alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione assunta da colui che stipula una convenzione edilizia ha
natura "propter rem", nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che
tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che
richiede la concessione edilizia; la natura reale dell'obbligazione in esame
riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che
richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione
avvalendosi della concessione rilasciata al loro dante causa (Cass. civ.,
sez. III, 20/08/2015, n. 16999; id., sez. II, 27/08/2002, n. 12571; TAR
Campania, Napoli, sez. II, 09/01/2017, n. 187).
Si è altresì precisato che, in tema di limiti soggettivi del giudicato, gli
artt. 1306 e 1310 c.c. -che con riferimento alle obbligazioni solidali, e
quindi a un rapporto con pluralità di parti ma scindibile, prevedono che i
condebitori i quali non abbiano partecipato al giudizio tra il creditore e
altro condebitore possano opporre al primo la sentenza favorevole al secondo
(ove non basata su ragioni personali)- costituiscono espressione di un più
generale principio, operante a fortiori con riguardo a rapporti
caratterizzati da inscindibilità, secondo cui alla parte non impugnante si
estendono gli effetti derivanti dall'accoglimento dell'impugnazione proposta
da altre parti contro una sentenza sfavorevole emessa nei confronti di
entrambi (Cass. civ., sez. II, 24/10/2018, n. 26992)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.06.2019 n. 847 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Commissione
di concorso. Sanzionabile la nomina del commissario di concorso che abbia
commesso anche in passato taluno dei reati contro la pubblica
amministrazione.
Alla giurisprudenza contabile ora si affianca anche la
giurisprudenza amministrativa nel colpire con l'annullamento il
provvedimento di nomina del commissario di concorso che sia stato, anche in
passato, colpito da uno dei reati previsti contro la P.A.
In questo caso, pertanto, l'Amministrazione avrebbe violato una norma
primaria quale quella dell'art. 35-bis, D.Lgs. n. 165 del 2001 che considera
preclusiva, alla nomina a membro di commissione coloro che abbiano commesso
taluno dei reati contro la pubblica amministrazione, di cui al Capo I,
Titolo II, Libro II, del codice penale.
In merito alla giurisprudenza contabile, rilevano i giudici amministrativi
come in diverse occasioni sono stati condannati per danno erariale il
comportamento scorretto della Commissione cui sia ascrivibile l'annullamento
delle operazioni contrattuali, aprendo la porta a responsabilità
amministrative da parte del dirigente che ha, in questa occasione, nominato
un componente colpito da un reato contro la pubblica amministrazione.
---------------
1. La ricorrente ha partecipato al concorso per esame a 500 posti di notaio,
bandito con Decreto Dirigenziale del 21.04.2016, pubblicato nella G.U. n. 33
del 26.04.2016.
2. Ha superato le prove scritte ed è stata ammessa a sostenere l’esame
orale, che si è svolto il giorno 07.05.2018.
3. Al termine del colloquio la Commissione ha valutato la candidata “inidonea”,
assegnandole il punteggio complessivo di 70 (30 - Diritto Civile,
Commerciale e Volontaria Giurisdizione; 20 - Ordinamento del Notariato e
degli Archivi Notarili; 20 - Disposizioni concernenti i Tributi sugli
Affari).
4. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio la dott.ssa -OMISSIS-
ha impugnato il verbale della Commissione del 07.05.2018 ed ogni atto
connesso, presupposto o conseguenziale.
5. Il Ministero della Giustizia si è costituito in giudizio per resistere al
ricorso.
6. Alla camera di consiglio del 18.07.2018 il Collegio ha respinto la
domanda cautelare formulata dalla ricorrente.
7. Con motivi aggiunti depositati il 27.02.2019 essa ha anche articolato un
ulteriore motivo a sostegno della impugnazione, deducendo in particolare
l’illegittimità degli atti impugnati per violazione dell’art. 35-bis del D.
L.vo 165/2001, violazione dei principi generali di trasparenza e di
imparzialità dell’azione amministrativa, difetto assoluto di motivazione, in
relazione alla circostanza che uno dei commissari che aveva
interrogato la ricorrente risultava essere stata condannata, con sentenza n.
1247 della Cassazione Penale, Sez. V, del 24.10.1994, depositata in
cancelleria il giorno 11.01.1995 (allegata in atti), per il reato di
corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, ex art. 319, c.p., ragione
per cui la ricorrente deduceva che essa non avrebbe mai dovuto far parte
della Commissione esaminatrice che l’aveva dichiarata inidonea.
...
8. In applicazione del principio “della ragione più liquida” il
Collegio procede ad esaminare, prioritariamente, il ricorso per motivi
aggiunti, a mezzo del quale gli atti in epigrafe indicati sono stati
censurati anche per vizio di formazione della Commissione, in relazione al
fatto che tale Commissione, che per prima ha condotto l’esame orale della
dottoressa -OMISSIS-, era stata integrata con un componente, la Notaio
-OMISSIS-, che risultava avere un precedente penale per corruzione, per atti
contrari ai doveri d’ufficio, punito ai sensi dell’art. 319 del codice
penale. Tale censura, ove accolta, avrebbe carattere assorbente e
determinerebbe l’immediata soddisfazione dell’interesse della ricorrente,
con sopravvenuto difetto di interesse al ricorso introduttivo del giudizio.
8.1. Precisa il Collegio che la ricorrente non ha indicato, in maniera
espressa, quale oggetto della domanda di annullamento, il decreto di nomina
di tale componente; tuttavia si può ritenere implicita, nella censura
articolata con i motivi aggiunti, la impugnazione di tale atto, impugnazione
da intendersi, peraltro, circoscritta ai soli limiti dell’interesse della
ricorrente. Quanto alla presunta tardività del ricorso, il Collegio osserva
che non è nota la data in cui la ricorrente è venuta a piena conoscenza
delle circostanze che fondano i motivi aggiunti (della condanna penale che
aveva attinto la -OMISSIS-), le quali non sono di pubblico dominio e che
pertanto non consentono di formulare alcuna presunzione di conoscenza.
8.2. La ricorrente ha dedotto la illegittimità della nomina della Notaio
-OMISSIS-, quindi, quale componente della Commissione esaminatrice, per
violazione dell’art. 35-bis del D.L.vo 165/2001, violazione dei principi
generali di trasparenza e di imparzialità dell’azione amministrativa,
difetto assoluto di motivazione
8.3. Secondo la difesa erariale il disposto dell’art. 35-bis del D.L.vo
165/2001, secondo cui “1. Coloro che sono stati condannati, anche con
sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I del
titolo II del libro secondo del codice penale: a) non possono fare parte,
anche con compiti di segreteria, di commissioni per l'accesso o la selezione
a pubblici impieghi;…….”, non troverebbe applicazione al concorso
notarile, non trattandosi di selezione diretta alla instaurazione di un
pubblico impiego.
8.4. Il Collegio considera, in primo luogo, che qualsiasi
commissione esaminatrice che venga nominata ed incardinata, in ottemperanza
a norme di legge, con atto proveniente da una amministrazione pubblica,
svolge un ruolo evidentemente ritenuto, dall’ordinamento giuridico,
rilevante, tanto da potersi affermare che una tale commissione è investita
di un munus publicum, ancorché l’attività che essa è chiamata a
svolgere non sia, in concreto, destinata alla instaurazione di rapporti di
pubblico impiego: anche in tal caso, infatti, la commissione, e per essa i
relativi componenti, sono temporaneamente incardinati nella pubblica
amministrazione, di volta in volta individuata dalle norme di legge di
riferimento.
8.4.1. Tale considerazione trova conferma nella
giurisprudenza contabile, la quale ha già dibattuto e riconosciuta la
responsabilità per danno erariale dei membri di commissione di concorso al
cui scorretto operato sia ascrivibile l’annullamento delle operazioni
concorsuali (ex: Corte dei Conti,
sez. giur. Lazio, sentenza n. 18 del 10.01.2018); la
medesima responsabilità pare comunque potersi estendere anche ai membri di
commissione incaricati di sovrintendere agli esami di idoneità
professionale, il cui operato é ascrivibile, e danneggia, l’Amministrazione
che li nomina.
8.5. Così inquadrata l’attività delle commissioni esaminatrici nominate ai
sensi di norme di legge, è evidente che sussiste l’esigenza
che i relativi membri rispondano a determinati requisiti di onorabilità e
moralità -che si declinano, tra l’altro, anche nella assenza di precedenti
penali- al fine di garantire la correttezza dell’operato della attività
della commissione stessa: e questo a prescindere dalla tipologia di funzioni
o attività che i soggetti esaminati e/o selezionati saranno chiamati a
svolgere (libera professione, impiego pubblico, esecuzione di un contratto
pubblico, collaudo tecnico, etc. etc.).
8.6. Considerando che l’art. 35-bis del D.L.vo 165/2001
considera preclusiva, alla nomina a membro di commissione, la commissione di
taluno dei reati contro la pubblica amministrazione, di cui al Capo I,
Titolo II, Libro II, del codice penale, l’applicazione di tale norma a
qualsiasi commissione esaminatrice, che abbia le caratteristiche sopra
delineate, appare assolutamente coerente: e ciò proprio per la ragione che
simili commissioni esaminatrici possono considerarsi espressione di una
pubblica amministrazione.
8.7. Per le ragioni dianzi indicate la citata norma può considerarsi
espressione di un principio generale applicabile anche al concorso notarile,
che si celebra per iniziativa e sotto il controllo del Ministero della
Giustizia, il quale bandisce il concorso e nomina i membri della
Commissione.
8.8. Il Decreto del Ministro della Giustizia, a mezzo del quale la notaio
-OMISSIS- è stata chiamata a comporre la Commissione del concorso notarile
bandito con Decreto Dirigenziale del 21.04.2016, pubblicato nella G.U. n. 33
del 26.04.2016, è pertanto illegittimo perché, in applicazione del sopra
ricordato principio e tenuto conto della condanna penale definitiva
riportata dalla citata Notaio (condanna che neppure consta essere stata
superata da una successiva sentenza di riabilitazione), quest’ultima giammai
avrebbe potuto essere nominata a ricoprire tale ruolo.
9. Il decreto di nomina della Notaio -OMISSIS- deve pertanto essere
annullato nei soli limiti dell’interesse della ricorrente.
10. Atteso, poi, che la stessa Notaio -OMISSIS- ha partecipato al consesso
che condusse l’esame orale oggetto di impugnazione, va anche annullato il
verbale della prova orale n. 662 del 07.05.2018, riguardante appunto la
ricorrente.
11. Per le ragioni dianzi esposte vanno accolti i motivi aggiunti in
epigrafe indicati, mentre va dichiarato improcedibile per sopravvenuto
difetto di interesse il ricorso introduttivo del giudizio.
12. In accoglimento della presente decisione il Ministero provvederà a
riconvocare la Commissione di concorso, previa sostituzione della -OMISSIS-,
affinché la ricorrente possa essere riammessa a sostenere nuovamente il
colloquio orale (TAR Lazio-Roma,
Sez. I,
sentenza 11.06.2019 n. 7598 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: -
“La realizzazione di una tettoia aperta su tutti i lati configura un
intervento di ristrutturazione edilizia che non crea volumetria né incide
sui prospetti, e rientra pertanto nella disciplina della segnalazione
certificata di inizio attività, con conseguente applicazione, in caso di
violazione dell'art. 22 del d.p.r. n. 380/2001, della sanzione pecuniaria
prevista dall'art. 37, pari al doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi. In tal
caso deve pertanto considerarsi illegittima la più grave sanzione demolitoria, prevista dall'art. 33 e riservata agli interventi di più
rilevante impatto urbanistico non assentiti o realizzati in totale
difformità”;
-
“Una tettoia, per caratteristiche morfologiche di realizzazione e
destinazione funzionale –in quanto struttura in ferro aperta sui lati,
ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni
adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico
urbanistico– è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica,
ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio”;
-
“In materia urbanistica, il presupposto per l'esistenza di un volume
edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e di due
superfici verticali contigue presupposto carente quando la costruzione
consista in una tettoia in legno aperta su tre lati, rientrante, piuttosto,
nel concetto di bene pertinenziale ossia di struttura a servizio di
un'altra, sottratta, come tale, al computo del carico urbanistico”;
-
“Per la realizzazione di una tettoia aperta su tre lati non è, in linea
di principio, richiesto il permesso di costruire, essendo sufficiente la
presentazione di una denunzia di inizio attività atteso che le tettoie
aperte su tre lati ed addossate ad un edificio principale, se di dimensioni
e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti, costituiscono
pertinenze dell'edificio cui accedono”.
---------------
La conferma si ricava dall’esame della giurisprudenza, nella quale
si rinvengono le seguenti affermazioni di principio:
-
“La realizzazione di una tettoia aperta su tutti i lati configura un
intervento di ristrutturazione edilizia che non crea volumetria né incide
sui prospetti, e rientra pertanto nella disciplina della segnalazione
certificata di inizio attività, con conseguente applicazione, in caso di
violazione dell'art. 22 del d.p.r. n. 380/2001, della sanzione pecuniaria
prevista dall'art. 37, pari al doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi. In tal
caso deve pertanto considerarsi illegittima la più grave sanzione demolitoria, prevista dall'art. 33 e riservata agli interventi di più
rilevante impatto urbanistico non assentiti o realizzati in totale
difformità” (TAR Calabria–Catanzaro, Sez. I, 23/03/2018, n. 729);
-
“Una tettoia, per caratteristiche morfologiche di realizzazione e
destinazione funzionale –in quanto struttura in ferro aperta sui lati,
ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni
adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico
urbanistico– è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica,
ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 13/12/2017, n. 5867);
-
“In materia urbanistica, il presupposto per l'esistenza di un volume
edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e di due
superfici verticali contigue presupposto carente quando la costruzione
consista in una tettoia in legno aperta su tre lati, rientrante, piuttosto,
nel concetto di bene pertinenziale ossia di struttura a servizio di
un'altra, sottratta, come tale, al computo del carico urbanistico” (TAR
Sardegna, Sez. II, 16/01/2015, n. 183);
-
“Per la realizzazione di una tettoia aperta su tre lati non è, in linea
di principio, richiesto il permesso di costruire, essendo sufficiente la
presentazione di una denunzia di inizio attività atteso che le tettoie
aperte su tre lati ed addossate ad un edificio principale, se di dimensioni
e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti, costituiscono
pertinenze dell'edificio cui accedono” (TAR Umbria, Sez. I, 29/01/2014,
n. 82)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.06.2019 n. 976 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
posa in opera di:
- n. 3 container in lamiera grecata utilizzati come deposito;
- n. 2 baracche in lamiera, rispettivamente utilizzate come locale
tecnico per le caldaie delle docce ed ex sede del bar (la prima poi rimossa
e la seconda inutilizzata);
- n. 1 box metallico con serramenti in vetro, appoggiato al terreno
e utilizzato come biglietteria,
a latere ed a servizio (non temporaneo) del campo di calcio necessita del
preventivo permesso di costruire.
E’ principio generalmente condiviso e accolto dall’intestato TAR quello
secondo il quale <<la precarietà o meno dell'opera non va desunta unicamente
sulla base del criterio se queste siano stabilmente infisse o meno al suolo,
ma anche sulla base di un criterio ulteriore, di natura finalistica,
attinente alla destinazione dell'opera. Se questa è destinata a durare nel
tempo, non ha più il carattere della temporaneità. Per quanto riguarda la
facile amovibilità, si reputa che tale non sia più l'opera che necessita di
un vero e proprio lavoro di smontaggio>>.
Peraltro, <<in relazione alla connotazione sostanziale dei manufatti, la
precarietà delle strutture può essere accertata con la contemporanea
presenza di due requisiti, uno strutturale e l'altro funzionale; da un lato,
infatti, l'opera non deve costituire trasformazione urbanistica del
territorio e non deve essere costituita da intelaiature infisse al pavimento
o alla parete dell'immobile, cui deve essere semplicemente addossata, né
deve essere chiusa in alcun lato, dall'altro, occorre guardare alla
destinazione d'uso dell'opera, sicché una struttura destinata a dare una
utilità prolungata nel tempo non può considerarsi precaria; in conclusione,
detta temporaneità deve essere apprezzata con criterio oggettivo avuto
riguardo all'oggetto della costruzione nei suoi obiettivi dati tecnici e
deve, dunque ricollegarsi alla sua destinazione materiale, che ne evidenzi
un uso realmente precario o temporaneo per fini specifici e cronologicamente
specificati>>.
In tal senso, <<la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico ma
temporalmente limitato del bene: infatti, ai fini della ricorrenza del
requisito della precarietà di una costruzione, che esclude la necessità del
rilascio di un titolo edilizio, si deve prescindere dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data dal manufatto dal costruttore e si deve,
invece, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca
destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione
giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia,
tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o
pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale>>.
Pertanto, <<le strutture precarie e astrattamente rimovibili, nel caso in
cui siano funzionali a soddisfare esigenze stabili e durature nel tempo e
siano, dunque, idonee ad alternare lo stato dei luoghi, devono essere
considerate nuove costruzioni ai fini edilizi e quindi necessitanti di un
titolo autorizzatorio>>.
Va confermato, quindi, che <<al fine di verificare se una determinata opera
abbia carattere precario occorre verificare la destinazione funzionale e
l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata. Pertanto, solo
le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza
oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve tempo entro cui
si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in
quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire. Invero, “il carattere
di precarietà di una costruzione non va desunto dalla possibile facile e
rapida amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo
ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione appaia destinata a
soddisfare una necessità contingente ed essere poi prontamente rimossa, a
nulla rilevando la circostanza che l'impiego del bene sia circoscritto ad
una sola parte dell'anno, ben potendo la stessa essere destinata a
soddisfare un bisogno non provvisorio ma regolarmente ripetibile”>>.
---------------
La Società S.C.D. Li. 1922 (d’ora in poi “Li.”), titolare, in forza di
concessione sottoscritta con la FIGC in data 14.09.1960, del diritto di
utilizzare il campo da calcio con annesse gradinate e locali spogliatoi,
sito in Via Solimano a Genova, nel quartiere di Struppa, lungo le sponde del
Torrente Bisagno, su sedime, in parte demaniale ed in parte comunale, al
fine di implementare le infrastrutture a corredo del campo di calcio in
concessione (in particolare i locali siti all'interno delle gradinate,
ritenuti non sufficienti a garantire le esigenze della Società), provvedeva
a collocare dei moduli prefabbricati, asseritamente non ancorati al terreno
e amovibili.
Nell'anno 2007, in particolare, la Società procedeva al posizionamento,
nella parte demaniale e privata dell'area in uso, dei seguenti manufatti:
- n. 3 container in lamiera grecata utilizzati come deposito;
- n. 2 baracche in lamiera, rispettivamente utilizzate come locale
tecnico per le caldaie delle docce ed ex sede del bar (la prima poi rimossa
e la seconda inutilizzata);
- 1 box metallico con serramenti in vetro, appoggiato al terreno e
utilizzato come biglietteria.
Le suddette opere venivano fatte oggetto di verbale ispettivo prot. n.
923184/AE del 07.12.2007 (fascicolo SAP 209/2007), al quale seguiva, in data
02.12.2008, il provvedimento prot. n. 445929 con il quale veniva ingiunto a
Li. di demolire le predette opere edilizie in quanto mantenute senza titolo.
Con istanza datata 14.04.2009, n. 2018/2009, Li. presentava domanda per
l'accertamento di conformità dei suddetti box. Il procedimento di sanatoria
veniva archiviato in senso negativo con prot. n. 65201 del 23.02.2010 per
motivi procedimentali, stante la mancata presentazione di documentazione
richiesta dal Comune per il completamento dell'iter istruttorio.
In data 30.04.2012, con prot. n. 136731, il SAP comunicava il riavvio del
procedimento relativo alla demolizione dei manufatti sopra indicati, dando
atto dell'intervenuta demolizione della baracca in lamiera a due falde
utilizzata come locale tecnico.
Nel campionato 2014/2015 di Eccellenza della Liguria, Li. raggiungeva la
promozione in Serie D, massima serie dilettantistica, determinando così un
passaggio da un campionato a base regionale ad uno a base interregionale.
La Società presentava, quindi, un progetto di messa in sicurezza e riordino
del campo sportivo al fine di ottenere l'omologazione dello stesso da padre
della Lega.
La procedura di omologazione veniva instaurata avanti la Commissione di
Vigilanza del Comune di Genova per l'ottenimento dell'autorizzazione ai
sensi degli artt. 68-80 del TULPS, richiesta dal predetto Regolamento.
La Società medio tempore manteneva i manufatti predetti posizionati
all'interno del sedime.
In data 21.01.2016 il personale ispettivo dello SUE effettuava un ulteriore
accertamento sull'area verbalizzando la persistenza dei manufatti nei
luoghi.
In data 06.05.2016, trascorsi oltre 4 anni dalla comunicazione di riavvio
del procedimento n. 209-07, veniva notificato a Li. il provvedimento prot.
126608 del 12.04.2016, notificato il 06.05.2016, il quale, rilevando la
mancata regolarizzazione dei box presenti nell'area dal 2007, ordinava il
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 150 giorni, ai sensi
dell'art. 51, comma 1, l.r. n. 16 del 2008.
...
1. In ordine al primo motivo di impugnazione.
E’ principio generalmente condiviso e accolto dall’intestato TAR quello
secondo il quale <<la precarietà o meno dell'opera non va desunta
unicamente sulla base del criterio se queste siano stabilmente infisse o
meno al suolo, ma anche sulla base di un criterio ulteriore, di natura
finalistica, attinente alla destinazione dell'opera. Se questa è destinata a
durare nel tempo, non ha più il carattere della temporaneità. Per quanto
riguarda la facile amovibilità, si reputa che tale non sia più l'opera che
necessita di un vero e proprio lavoro di smontaggio>> (TAR Bolzano, sez.
I, 16/10/2015, n. 315).
Peraltro, <<in relazione alla connotazione sostanziale dei manufatti, la
precarietà delle strutture può essere accertata con la contemporanea
presenza di due requisiti, uno strutturale e l'altro funzionale; da un lato,
infatti, l'opera non deve costituire trasformazione urbanistica del
territorio e non deve essere costituita da intelaiature infisse al pavimento
o alla parete dell'immobile, cui deve essere semplicemente addossata, né
deve essere chiusa in alcun lato, dall'altro, occorre guardare alla
destinazione d'uso dell'opera, sicché una struttura destinata a dare una
utilità prolungata nel tempo non può considerarsi precaria; in conclusione,
detta temporaneità deve essere apprezzata con criterio oggettivo avuto
riguardo all'oggetto della costruzione nei suoi obiettivi dati tecnici e
deve, dunque ricollegarsi alla sua destinazione materiale, che ne evidenzi
un uso realmente precario o temporaneo per fini specifici e cronologicamente
specificati>> (TAR Emilia Romagna, sez. II, 29/11/2017, n. 783).
In tal senso, <<la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico ma
temporalmente limitato del bene: infatti, ai fini della ricorrenza del
requisito della precarietà di una costruzione, che esclude la necessità del
rilascio di un titolo edilizio, si deve prescindere dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data dal manufatto dal costruttore e si deve,
invece, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca
destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione
giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia,
tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o
pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale>> (TAR Puglia, sez.
dist. Lecce, sez. I, 17/07/2018, n. 1174).
Pertanto, <<le strutture precarie e astrattamente rimovibili, nel caso in
cui siano funzionali a soddisfare esigenze stabili e durature nel tempo e
siano, dunque, idonee ad alternare lo stato dei luoghi, devono essere
considerate nuove costruzioni ai fini edilizi e quindi necessitanti di un
titolo autorizzatorio>> (TAR Lombardia, sez. II, 07/02/2018, n. 354).
Va confermato, quindi, che <<al fine di verificare se una determinata
opera abbia carattere precario occorre verificare la destinazione funzionale
e l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata. Pertanto, solo
le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza
oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve tempo entro cui
si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in
quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire. In termini, ex multis,
cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842; TAR Campania, sez. dist.
Salerno, Sez. I, 13.11.2013 n. 2240; TAR Campania, Sez. VII, 25.03.2013 n.
1626; TAR Puglia, Sez. II, 31.08.2009, n. 2031, in cui si legge che “il
carattere di precarietà di una costruzione non va desunto dalla possibile
facile e rapida amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del
suo ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione appaia destinata a
soddisfare una necessità contingente ed essere poi prontamente rimossa, a
nulla rilevando la circostanza che l'impiego del bene sia circoscritto ad
una sola parte dell'anno, ben potendo la stessa essere destinata a
soddisfare un bisogno non provvisorio ma regolarmente ripetibile (TAR Emilia
Romagna, 14.01.2009, n. 19)”>> (C. Stato, sez. IV, 07/12/2017, n. 5762).
Nel caso di specie i manufatti prefabbricati in contestazione si trovano in
loco quanto meno già dal 2007, atteso che il Comune ha accertato per la
prima volta la loro realizzazione a seguito del sopralluogo del 10.09.2007
di cui al verbale di accertamento prot. n. 923184/AE del 07.12.2007.
Tenuto conto che è la stessa ricorrente ad aver sottolineato come dalla
stagione successiva alla 2014/15 la presenza dei predetti prefabbricati è
risultata e risulta tuttora necessaria per l’utilizzo delle strutture da
gioco, risulta evidente la natura non meramente temporanea e precaria dei
manufatti in questione, la cui idoneità ad alterare lo stato dei luoghi
risulta evidente, trattandosi di un vero e proprio volume, ancorché non
ancorato al terreno.
Precisata la natura non meramente precaria dei manufatti, va rammentato che
ai sensi dell’art. 51, l.r. n. 16 del 2008, (recante interventi abusivi
realizzati da privati su suoli di proprietà dello Stato o di Enti pubblici)
<<1. qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti
privati, di interventi in assenza di permesso di costruire o di DIA
obbligatoria o alternativa al permesso di costruire ovvero in totale o
parziale difformità dai medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio
dello Stato o di Enti pubblici, il responsabile dello SUE ordina al
responsabile dell’abuso la demolizione o il ripristino dello stato dei
luoghi ai sensi dell’articolo 56, dandone comunicazione all’ente
proprietario del suolo. 2. Resta fermo il potere di autotutela dello Stato e
degli Enti territoriali, nonché quello di altri enti pubblici, previsto
dalla normativa vigente>>.
Secondo il Comune, attesa la natura non temporanea dei manufatti, non si
tratta di interventi sottoposti a mera Scia.
Parte ricorrente, invece, come più sopra rammentato, richiama a sostegno del
ricorso gli artt. 21-bis, lett. a) e 21, lett. h, l. r. n. 16 del 2008.
Al riguardo, ai sensi dell’art. 21-bis, l.r. n. 16 del 2008 (recante “interventi
urbanistico-edilizi soggetti a comunicazione di inizio dei lavori e a SCIA”)
<<1. sono soggetti a SCIA di cui all’articolo 19 della legge 07.08.1990,
n. 241 e successive modificazioni ed integrazioni, con contestuale
possibilità di inizio dei lavori dalla data di presentazione, i seguenti
interventi, purché conformi alla disciplina della strumentazione
urbanistico-territoriale e del regolamento edilizio vigenti e/o operanti in
salvaguardia e delle normative di settore, fra cui quelle igienico-sanitarie,
ambientali, di sicurezza e di prevenzione incendi, fermo restando l’obbligo
di corredare la SCIA delle prescritte autorizzazioni, pareri od altri atti
di assenso comunque denominati, ove gli interventi interessino aree od
immobili sottoposti a vincoli paesaggistici, culturali o ambientali, nonché
del versamento del contributo di costruzione nei casi previsti dall’articolo
38: a) l’installazione di manufatti leggeri, diversi da quelli di cantiere,
di qualunque genere e destinazione d’uso purché non infissi stabilmente al
suolo e finalizzati a soddisfare dimostrate esigenze temporalmente
circoscritte di durata non superiore a un anno>>.
Ai sensi dell’art. 21, l.r. n. 16 del 2008 (recante attività
urbanistico-edilizia libera), invece, <<1. costituiscono attività
edilizia non soggetta a permesso di costruire, né a DIA obbligatoria né a
SCIA, purché effettuati nel rispetto delle normative di settore e, in
particolare, delle disposizioni contenute nel d.lgs. 42/2004 e successive
modificazioni ed integrazioni e delle norme dei piani e dei regolamenti
attuativi dei parchi: h) l’installazione di manufatti o l’occupazione di
aree per esposizione o deposito di merci o materiali soggetti a concessione
amministrativa per esigenze temporanee di utilizzo del suolo pubblico di
durata non superiore ad un anno>>.
Nessuna delle due su estese ipotesi è applicabile nel caso di specie perché,
come già detto, si tratta di manufatti finalizzati a soddisfare esigenze
potenzialmente non di durata meramente annuale o infrannuale.
Trattandosi, quindi, di una costruzione non rientrante né nelle ipotesi di
attività edilizia libera, né in quelle per le quali è prevista la “mera”
Scia, avrebbe dovuto essere ottenuto il permesso a costruire ovvero la Scia
in alternativa al permesso di costruire.
Il motivo di ricorso, quindi, deve esser respinto
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 11.06.2019 n. 530 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo,
per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui
l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di
ripristino.
---------------
Il principio secondo il quale <<è illegittima l'ordinanza comunale recante
l'ingiunzione di demolizione di opere edilizie "sine titulo" realizzate e
adottata in pendenza di un procedimento volto, nella sostanza, a creare i
presupposti per la sanatoria dell'intero complesso edilizio produttivo nel
quale le opere suddette sono allocate>> non è applicabile se è vero, come è
vero, che l’efficacia “sospensiva” dell’istanza di sanatoria può trovare
applicazione esclusivamente quando si tratti di un procedimento di
“effettiva sanatoria” ai sensi dell’art. 36, d.lgs. n. 380 del 2001,
procedimento finalizzato, cioè, ad accertare la c.d. doppia conformità
dell’opera e, quindi, la rispondenza della stessa alle norme edilizie ed
urbanistiche vigenti al momento della realizzazione e delle domanda di
sanatoria.
---------------
Sul terzo motivo di impugnazione.
Al riguardo, deve richiamarsi il principio, condiviso dalla prevalente
giurisprudenza, al quale accede anche l’intestato TAR, secondo cui <<il
provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo,
per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui
l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di
ripristino>> (C. Stato, sez. VI, 05/11/2018, n. 6233).
Nel caso di specie, occorre, poi, sottolineare che dal 2007 in poi il Comune
ha provveduto ad eseguire tre sopralluoghi, notificare due comunicazioni di
avvio del procedimento, un diniego di sanatoria e due ordinanze di
demolizione, sicché non è nemmeno possibile affermare, in fatto, che sia
maturato in capo a parte ricorrente un effettivo affidamento in ordine alla
legittimità o, comunque, al mantenimento delle opere in contestazione.
Il motivo di ricorso, quindi, deve essere respinto.
In ordine al quarto motivo di impugnazione.
Al riguardo, secondo il Comune di Genova, in primo luogo, non vi è certezza
che i manufatti abusivi siano oggetto del progetto presentato ai fini
dell’omologazione del campo di gioco; in secondo luogo, il progetto non
risulta essere stato omologato e non è stata presentata alcuna istanza di
sanatoria in relazione ai manufatti in questione.
Sul punto, va sottolineato come non sia applicabile alla fattispecie in
esame il principio secondo il quale <<è illegittima l'ordinanza comunale
recante l'ingiunzione di demolizione di opere edilizie "sine titulo"
realizzate e adottata in pendenza di un procedimento volto, nella sostanza,
a creare i presupposti per la sanatoria dell'intero complesso edilizio
produttivo nel quale le opere suddette sono allocate>> (TAR Marche, Sez.
I, 08/04/2014, n. 424).
Infatti, l’efficacia “sospensiva” dell’istanza di sanatoria può
trovare applicazione esclusivamente quando si tratti di un procedimento di “effettiva
sanatoria” ai sensi dell’art. 36, d.lgs. n. 380 del 2001, procedimento
finalizzato, cioè, ad accertare la c.d. doppia conformità dell’opera e,
quindi, la rispondenza della stessa alle norme edilizie ed urbanistiche
vigenti al momento della realizzazione e delle domanda di sanatoria.
Nel caso di specie, la pendenza di un procedimento amministrativo in certo
modo connesso con l’eventuale procedimento di sanatoria ex art. 36 t.u.
sopra citato, non reiterato, non è sufficiente a giustificare la “sospensione”
degli effetti dell’ordinanza di demolizione, fermo restando, peraltro, che,
si rammenta ulteriormente, si tratta di manufatti esistenti da molti anni
privi di titolo alcun titolo e per il quale non ne è certa (non avendo il
Comune già proceduto al relativo esame) la legittimità.
Pertanto anche tale motivo deve essere respinto.
1.4. Conclusivamente, il ricorso deve essere respinto
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 11.06.2019 n. 530 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Cassazione,
l'incarico di posizione organizzativa non è un diritto.
In tema di rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica
amministrazione, non è configurabile un diritto all'incarico di posizione
organizzativa per i responsabili di struttura apicale ex VIII qualifica
funzionale, in coerenza con il principio della rotazione degli incarichi e
in virtù del carattere discrezionale del conferimento.
Questo è quanto si afferma nell'ordinanza
10.06.2019 n. 15555
della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
La vicenda
Protagonista della controversia è un dipendente di un comune siciliano,
responsabile quale ingegnere capo dell'area "opere pubbliche" e "urbanistica
e territorio" del comune, al quale dopo la privatizzazione del pubblico
impiego veniva sottratta la responsabilità di una delle due aree.
Il
dipendente riteneva però che, per il solo fatto di essere stato assunto
prima della privatizzazione del pubblico impiego, «quale vincitore di un
concorso implicante la titolarità di una posizione apicale», con
inquadramento nella ex VIII qualifica funzionale, lo stesso avrebbe avuto
diritto all'assegnazione e mantenimento dell'incarico di posizione
organizzativa.
Pertanto, l'ingegnere impugnava la mancata attribuzione
dell'incarico ritenendo di essere stato vittima di un demansionamento da
parte dell'ente datore di lavoro.
La decisione
I giudici di merito non accoglievano tale richiesta e lo stesso fa la
Cassazione nel giudizio di ultima istanza. Per i giudici di legittimità,
infatti, la tesi del dipendente non convince, «non potendo leggersi la
disciplina relativa al conferimento dell'incarico di posizione
organizzativa, per l'insanabile contrasto con il principio della rotazione
degli incarichi dirigenziali e della temporaneità degli stessi, nel senso
della configurabilità di un diritto all'incarico in capo a ciascun
responsabile di struttura apicale con inquadramento nella ex VIII qualifica
funzionale».
Il conferimento dell'incarico, piuttosto, puntualizza la Corte,
è «espressione del potere discrezionale dell'amministrazione datrice» e,
conseguentemente, è insussistente, in relazione a tale mancato conferimento,
qualunque ipotesi di demansionamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.06.2019).
---------------
CONSIDERATO
- che, con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la
violazione e falsa applicazione degli artt. 52 d.lgs. n. 165/2001, 2103 c.c.,
3 e 4, all. A al CCNL 31.03.1999 per il comparto Regioni ed Enti locali e
dei principi generali in materia di inquadramento e classificazione del
personale nella P.A. in una con il vizio di omessa insufficiente e
contraddittoria motivazione riguardo alle mansioni proprie della categoria D
assegnate al ricorrente, imputa alla Corte territoriale la mancata
considerazione dell'incidenza limitativa del potere discrezionale
dell'amministrazione datrice ai fini del conferimento dell'incarico di
posizione organizzativa del percorso professionale del ricorrente, che, in
coerenza con l'evoluzione del sistema di inquadramento, attualmente lo
colloca, quale ex VIII qualifica funzionale, nel livello D3 superiore al
livello D1 cui poteva accedere, in quanto ex VII qualifica funzionale, il
dipendente investito dell'incarico di posizione organizzativa, atteso che il
discrezionale esercizio del potere di conferimento del predetto incarico
qualificato come apicale con preferenza verso il soggetto con inquadramento
inferiore implica l'assegnazione al ricorrente di una posizione non coerente
con l'inquadramento superiore cui ha diritto, implicante l'attribuzione in
suo favore della posizione apicale;
- che, con il secondo motivo, denunciando la violazione e
falsa
applicazione degli artt. 19, 52 d.lgs. n. 165/2001, 2103 c.c., 11
CCNL 31.03.1999, 51, comma 3-bis, l. n. 142/1990 come recepito
dalla legge regionale n. 48/1991 e 15 CCNL 22.1.2004, il
ricorrente censura la decisione della Corte territoriale sotto il
medesimo profilo dell'inconfigurabilità di un potere discrezionale
di assegnazione degli incarichi dirigenziali con specifico
riferimento ai "piccoli comuni" privi delle qualifiche dirigenziali
contestando la ritenuta applicabilità alla fattispecie dell'art. 109,
comma 2,d.lgs. n. 267/2000;
- che nel terzo motivo la violazione e falsa applicazione
degli artt. 1175, 1375 c.c., 2, 3 e 97 Cost., 52 d.lgs. n. 165/2001, 1418
c.c. e 21 septies I. n. 241/1990 è prospettata ancora una volta in relazione
alla negazione del carattere discrezionale del potere dell'amministrazione
di conferimento dell'incarico di posizione organizzativa ed alla
qualificazione del comportamento concretatosi nella mancata attribuzione
dell'incarico al ricorrente come in contrasto con gli obblighi di
correttezza e buona fede e dunque quale comportamento inadempiente fonte di
un obbligo risarcitorio;
- che, con il quarto motivo, rubricato con riferimento alla
violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., il ricorrente
imputa alla Corte territoriale il malgoverno delle regole sull'onere
della prova, per aver dichiarato il ricorrente tenuto all'assolvimento di
quell'onere in relazione alla dedotta
condizione di inattività in cui sarebbe stato costretto
dall'amministrazione,
- che con il quinto motivo, sotto la rubrica "Violazione
degli artt. 2043 c.c., 2103 c.c., 115, comma 2, c.p.c., 2727 c.c. 2729 c.c.
e del principio della corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (art. 112
c.p.c.)" il ricorrente lamenta l'incongruità, a suo dire tale da sfiorare la
violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato,
della motivazione addotta dalla Corte territoriale a fondamento della
decisione di rigetto della pretesa risarcitoria e data dal difetto della
stessa allegazione del fatto/demansionamento da provare, sostenendo di aver
fornito tale prova e di aver pertanto diritto al risarcimento richiesto
quantificabile, quanto alle componenti non patrimoniali, anche in via
presuntiva;
- che tutti gli esposti motivi in cui si articola l'impugnazione
qui
formulata, discendono dalla riproposizione di una ricostruzione
della vicenda per la quale il ricorrente sarebbe stato vittima di un
demansionamento all'atto dell'attribuzione dell'incarico di
posizione organizzativa con riferimento ad entrambe le relative
aree ("Opere pubbliche" ed "Urbanistica e Territorio") individuate
all'interno del settore tecnico del Comune, al dipendente che in
precedenza condivideva detta posizione con il ricorrente, per
essere questi incaricato di posizione organizzativa con riguardo
all'area "Opere pubbliche" ed il primo con riguardo all'area
"Urbanistica e Territorio" e ciò, in primo luogo, in quanto
l'attribuzione a questi di una posizione gerarchicamente
sovraordinata quando, viceversa, l'evoluzione della disciplina in
materia di inquadramento era tale da attestare il possesso da
parte del ricorrente, nell'ambito del medesimo livello D, di un
grado superiore, D3 rispetto al D1, da riconoscersi al collega, era
tale da collocarlo in una posizione deteriore rispetto a quella apicale da
sempre rivestita e che non poteva essergli sottratta
ed, in secondo luogo, in quanto a tale ridimensionamento era
comunque conseguita una emarginazione rispetto all'attività
dell'ufficio spinta fino al punto di non consentirgli l'esercizio delle
mansioni e ridurlo in una condizione di totale inattività, situazioni
entrambe tali da legittimare l'azionato diritto al risarcimento del
danno patrimoniale ed extrapatrimoniale subito;
- che, in ragione di ciò, tutti i predetti motivi, suscettibili,
giacché, per quanto detto, frutto di una specifica ricostruzione della
vicenda, di essere qui trattati congiuntamente, si rivelano infondati non
valendo a confutare (se non, addirittura, sottraendosi al confronto con) la
diversa impostazione data alla fattispecie dalla Corte territoriale sul
corretto presupposto della non interferenza del conferimento dell'incarico
di posizione organizzativa con la problematica dell'inquadramento, del resto
resa comunque irrilevante in ragione dell'omogeneità della posizione
professionale all'interno delle varie categorie, che caratterizza il vigente
sistema di classificazione del personale, valendo la distinzione all'interno
di ciascuna di dette categorie sul piano della mera posizione economica,
impostazione per la quale, in coerenza con il principio della rotazione
degli incarichi dirigenziali e, dunque, della loro intrinseca temporaneità
invalso a seguito della privatizzazione del lavoro pubblico, la Corte
territoriale valorizza correttamente l'inconfigurabilità di un diritto
all'incarico ed il carattere discrezionale del conferimento, escludendo che
esso possa incidere in senso limitativo sulla posizione gerarchica e
funzionale di coloro che non ne sono investiti e tanto meno sull'esercizio
delle loro comuni mansioni, secondo quanto dedotto in aggiunta dal
ricorrente, ma dalla Corte territoriale ritenuto non solo non provato,
rilievo ampiamente motivato con riferimento all'esito dell'istruttoria, cui
il ricorrente ha opposto la sola infondata censura dell'arbitraria
inversione dell'onere della prova, assumendo che a fronte della deduzione
relativa alla condizione dell'inattività fosse l'amministrazione datrice
onerata della prova del fatto contrario, ma altresì neppure allegato nel suo
concreto atteggiarsi quale danno/conseguenza, rilievo al quale il ricorrente
si limita ad opporre l'apodittica affermazione dell'assolvimento da parte
sua dell'onere di allegazione e prova e del suo diritto al risarcimento da
determinarsi anche sulla base di presunzioni; |
EDILIZIA PRIVATA: La determinazione e la liquidazione del contributo di costruzione
costituisce, invero, esercizio di una facoltà connessa alla pretesa
creditoria riconosciuta all’Amministrazione comunale per il rilascio del
titolo autorizzatorio, nell’ambito di un rapporto obbligatorio tra quest’ultima
e il privato.
Ciò implica che, ferma restando l’efficacia del provvedimento concessorio, il Comune ha sempre, in ipotesi, la possibilità di provvedere
alla rideterminazione del contributo dovuto (se erroneamente liquidato) e
alla conseguente richiesta di pagamento, con il solo limite dell’intervenuta
prescrizione.
---------------
Quanto al terzo motivo, con cui si censura la violazione dell’art.
9 della legge n. 10 del 1977, si osserva che, seppure il Comune avesse
errato nel valutare la gratuità della concessione edilizia, tale aspetto non
inficerebbe comunque la valenza autorizzatoria dell’atto.
La determinazione e la liquidazione del contributo di costruzione
costituisce, invero, esercizio di una facoltà connessa alla pretesa
creditoria riconosciuta all’Amministrazione comunale per il rilascio del
titolo autorizzatorio, nell’ambito di un rapporto obbligatorio tra quest’ultima
e il privato; ciò implica che, ferma restando l’efficacia del provvedimento
concessorio, il Comune ha sempre, in ipotesi, la possibilità di provvedere
alla rideterminazione del contributo dovuto (se erroneamente liquidato) e
alla conseguente richiesta di pagamento, con il solo limite dell’intervenuta
prescrizione (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 30.08.2018, n. 12).
Pertanto, le ricorrenti non hanno interesse alla doglianza sollevata con il
motivo in esame
(TAR Marche,
sentenza 10.06.2019 n. 382 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività edilizia - Rifiuti di demolizione -
Ricondurre i materiali alla categoria dei sottoprodotti -
Terre e rocce da scavo - Esclusione - Artt. 184-bis, 256
d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, si deve escludere
che i materiali di demolizione possano essere ricondotti
alla categoria dei sottoprodotti, perché essi non
scaturiscono da un processo di produzione, bensì dalla
demolizione dell'edificio, ovvero da un'attività antitetica
alla produzione (Cass.,
Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015; Sez. 3, n. 3202 del
02/10/2014, dep. 23/01/2015; Sez. 3, n. 42342 del
09/07/2013; Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012).
Nel caso di specie, manca uno specifico
riferimento al complesso del ciclo produttivo e alla
destinazione iniziale dei materiali scaricati, non potendosi
attribuire alcuna rilevanza fatto che vi fossero tra questi
anche terre e rocce da scavo, la cui commistione con i
rifiuti di demolizione rende inapplicabile la disciplina di
maggiore favore prevista per tale categoria di materiali
(ex multis, Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.06.2019 n. 25316 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - DIRITTO DEL
LAVORO - Assunzione di un dirigente a tempo determinato -
Procedura pubblica - Disciplina degli incarichi dirigenziali
- Potestà esclusiva dello Stato - Possesso dei requisiti di
accesso alla dirigenza - Formazione universitaria e
postuniversitaria, pubblicazioni scientifiche e concrete
esperienze di lavoro - Attività svolta in organismi ed enti
pubblici o privati - Almeno un quinquennio in funzioni
dirigenziali - Art. 19, c. 6, d.l.gs. n. 165/20011.
In materia di assunzione di un dirigente
a tempo determinato, trova applicazione l'art. 19 del d.lgs.
n. 165 del 2001, nella specie comma 6, in quanto la
disciplina degli incarichi dirigenziali per quanto attiene
ai profili normativi del rapporto è materia attratta
all'ordinamento civile, e in quanto tale rimessa alla
potestà esclusiva dello Stato dall'art. 117, secondo comma,
lett I, Cost. (cfr.,
sentenze Corte cost. n. 324 del 2010, n. 62 del 2019).
Pertanto, la competenza statale esclusiva
in materia di «ordinamento civile» vincola gli enti ad
autonomia differenziata anche con riferimento alla
disciplina del rapporto di lavoro con i propri dipendenti,
così come affermato dalla Corte costituzionale
(sentenze n. 231 del 2017, n. 77 del 2013).
Nella specie è stato interpretato l'art.
19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, correttamente l'alternatività
tra:
- l'attività svolta in organismi ed enti pubblici o privati ovvero
aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per
almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali;
- il conseguimento di una particolare "specializzazione
professionale, culturale e scientifica desumibile dalla
formazione universitaria e postuniversitaria, da
pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di
lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso
amministrazioni statali, ivi comprese quelle che
conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste
per l'accesso alla dirigenza".
Sicché, nell'interpretare il secondo requisito alternativo
il giudice di appello afferma, altresì correttamente, in
ragione della lettera della disposizione e della ratio legis,
anche in ragione del confronto tra i testi normativi
succedutisi nel tempo, che la concreta esperienza di lavoro
deve coesistere con quella scientifica e deve essere
dirigenziale o ad essa equiparabile (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 07.06.2019 n. 15514 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo
il licenziamento del dipendente che viola le norme di comportamento.
Legittimo il licenziamento per chi abusa del proprio ruolo con atti
apertamente contrari ai propri doveri di ufficio - come nel caso della
dipendente di un Comune che aveva favorito la pratica del rilascio della
carta di identità in favore di cittadino extracomunitario, in cambio di
danaro. Basta la violazione delle norme di comportamento, indipendentemente
dalla rilevanza penale dei fatti.
Lo ha stabilito, con la
sentenza n. 909/2019,
il TRIBUNALE di Milano (tratta da www.segretaricomunalivighenzi.it).
La ex dipendente di un Comune alle porte di Milano, dopo essere stata
sottoposta a procedimento penale per atti contrari ai doveri d'ufficio,
veniva licenziata con preavviso dall'ente. La stessa aveva impugnato il
licenziamento, deducendone l'illegittimità e chiedendo per l'effetto la
reintegrazione in servizio; in quanto -a sua detta- il procedimento penale
fonte del licenziamento avrebbe condotto il Gip a non confermare l'arresto
per assenza di prova certa e concreta della condotta criminosa ascrittale.
Il Comune aveva chiarito che l'ex dipendente era stata licenziata in
relazione all'accertata violazione delle norme del Codice di comportamento
del pubblico dipendente, indipendentemente dalla rilevanza penale dei fatti.
Il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso. Il giudice ha affermato: «i
fatti, indipendentemente dalla loro rilevanza e qualificazione penale,
appaiono non soltanto accertati ma di rilevanza disciplinare tale da
giustificare e sorreggere appieno il provvedimento del licenziamento,
comminato. (…). Indipendentemente dai profili di rilievo penale della
condotta, risulta difficilmente contestabile la commissione di atti
apertamente contrari ai propri doveri di ufficio, con abuso del proprio
ruolo, (…), la deviazione rispetto alle regole sui tempi e luoghi di inoltro
e lavorazione della richiesta, la consapevolezza dell’abnormità del
provvedimento amministrativo per la cui adozione la stessa si adoperava».
Il giudice ha ritenuto, quindi, che i comportamenti dell'ex dipendente
fossero da considerare: «in palese contrasto con i più elementari doveri
alla base del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici e delle norme
regolamentari di cui al d.p.r. 62/2013 (Codice di Comportamento dipendenti
pubblici), poiché connotate da evidente abuso della propria posizione (…).
Tali condotte appaiono indiscutibilmente integrare quelle violazioni dei
doveri di comportamento ai sensi dell’art. 3, comma 7, lett. i), CCNL
11/04/2018, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto,
anche in relazione a quanto previsto dall’art. 55-quater Legge n. 165/2001,
che riconduce a gravi e reiterate violazioni dei codici di comportamento, ex
art. 54, c. 3, la sanzione del licenziamento».
Su queste basi il Tribunale di Milano ha considerato legittima e congrua la
sanzione, rigettando il ricorso e condannando la ricorrente anche al
pagamento di tutte le spese del giudizio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Autotutela
senza limiti di tempo nell’annullamento delle progressioni di carriera.
Il TAR Abruzzo-Pescara, con la
sentenza
06.06.2019 n. 152, ha fornito una rilevante interpretazione che
delinea il perimetro applicativo del potere di autotutela da parte degli
enti locali. Più in particolare, viene precisato il presupposto temporale
dell'esercizio di questa potestà amministrativa.
La fattispecie
Un Comune aveva stabilito di coprire un posto vacante in pianta organica
mediante concorso interno, in quanto la posizione lavorativa richiedeva una
professionalità acquisibile esclusivamente all'interno dell'ente.
A distanza di diversi anni, veniva disposto l'annullamento in autotutela del
concorso, motivando la scelta con la priorità attribuita all'interesse
pubblico alla copertura del posto tramite concorso aperto all'esterno, ossia
attraverso una procedura selettiva volta a garantire l'accertamento della
professionalità richiesta e l'accesso a soggetti estranei all'ente. La
posizione giuridica del destinatario dell'atto veniva così derubricata a
interesse recessivo rispetto al prevalente interesse pubblico.
Inesistenza del limite temporale
Il ricorso formulato dal vincitore del concorso interno, leso dal
provvedimento amministrativo per quanto riguarda l'avanzamento di carriera,
appuntata sull'inosservanza del termine per l'esercizio dell'autotutela
contemplato dall'articolo 21-nonies, comma 1, della legge 241/1990 e sulla
connessa carenza motivazionale, in ragione del suo legittimo affidamento e
consolidamento della posizione acquisita, è stato disatteso dai giudici
abruzzesi.
Questi si sono basati sulla disposizione grazie alla quale il provvedimento
amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico, «entro un termine ragionevole, comunque
non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
E, invero, alla luce del chiaro tenore letterale della norma, i magistrati
affermano il principio di diritto secondo cui la specifica limitazione
temporale massima consentita dei 18 mesi non si applica ai provvedimenti
–come nel caso di specie– di progressione in carriera.
Essi, difatti, non rientrano nelle categorie di «atti autorizzativi»,
non essendo provvedimenti con cui la Pa rimuove un limite per l'esercizio di
un'attività privata, o di «atti attributivi di vantaggi economici»,
giacché il miglior trattamento retributivo conseguente alla progressione non
è la conseguenza diretta del provvedimento di nomina o comunque un beneficio
riconosciuto dalla Pa, bensì un corrispettivo della prestazione lavorativa
maggiormente qualificata.
Interesse pubblico prevalente
Per il Tar, nella fattispecie, sussisterebbero i presupposti per i quali la
legge subordina il potere di autotutela della Pa in ragione della rilevanza
degli interessi di tutela in concreto perseguiti. In particolare,
l'interesse pubblico all'annullamento d'ufficio di un'illegittima
progressione (o assunzione) di un dipendente pubblico, prevalente sulle
altre posizioni per quanto consolidate, deve considerarsi in re ipsa
e il suo accertamento non richiede una particolare motivazione, posto che
l'atto oggetto di autotutela produce un danno permanente per la Pa in
termini di esborso di denaro pubblico senza titolo, con ingiustificato
vantaggio per il dipendente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.06.2019).
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SENTENZA
Il motivo è infondato.
Invero, con la delibera gravata l’amministrazione ha ben esplicitato le
ragioni di illegittimità della procedura di reclutamento per violazione
delle norme imperative ivi richiamate, sicché emerge la prevalenza accordata
all’interesse pubblico, sotteso alla predetta disciplina normativa, a che il
reclutamento del personale nelle pubbliche amministrazioni avvenga secondo
la regola del pubblico concorso aperto agli esterni, salva la riserva di
posti prevista dalla legge in favore degli interni, in ossequio ai principi
di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa garantiti
dall'art. 97 della Costituzione.
Nel caso in esame, peraltro, l’onere motivazionale gravante
sull’amministrazione, in ragione della rilevanza e autoevidenza degli
interessi pubblici tutelati può dirsi certamente attenuato e adeguatamente
soddisfatto attraverso il rinvio alle disposizioni imperative in concreto
violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di
interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio dello ius
poenitendi.
A tanto va anche soggiunto che nessun affidamento sulla stabilità del posto
di lavoro acquisito o sull’avanzamento in carriera può vantare colui che
risulti vincitore di una selezione pubblica in deroga al principio
costituzionale del pubblico concorso (cfr. Cons. di Stato, Sez. V,
04.03.2015, n. 1078).
In ogni caso nella comparazione del contrapposto interesse e nella
salvaguardia dell’affidamento ingenerato l’amministrazione si è fatta carico
di far salva la posizione economica del ricorrente precisando che dalla
espletata autotutela non venivano messi in discussione la conservazione del
trattamento economico percepito in relazione alle attività e funzioni fino
ad allora espletate.
Né la dedotta violazione dell’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 merita
condivisione in relazione alle ulteriori censure prospettate.
Non rileva difatti la circostanza che il provvedimento sia stato adottato
oltre il termine di diciotto mesi come introdotto a partire dall’entrata in
vigore della legge n. 124/2015 di modifica dell’art. 21-nonies poiché la
disposizione in parola si riferisce a provvedimenti di natura diversa, ossia
a quelli autorizzativi o attributivi di vantaggi economici.
La progressione in carriera tramite concorso non può certo ascriversi alla
categoria dei provvedimenti con cui l’amministrazione rimuove un limite per
l’esercizio di un’attività privata, quali sono quelli autorizzativi. Del
pari non si verte in ambito di provvedimenti attributivi di vantaggi
economici poiché il miglior trattamento retributivo che consegue alla
progressione in carriera non è la conseguenza diretta del provvedimento di
nomina e non è comunque un beneficio riconosciuto dall’amministrazione ma un
corrispettivo rispetto ad una prestazione maggiormente qualificata resa dal
dipendente.
Sussistono, nel caso di specie, i presupposti alla cui presenza la legge
subordina il potere di autotutela dell’amministrazione “sub specie”
di annullamento degli atti amministrativi, in ragione della rilevanza degli
interessi di tutela in concreto perseguiti e richiamati nel provvedimento
impugnato.
Per giurisprudenza pacifica è “in re ipsa” l’interesse pubblico,
connotato da specificità, concretezza ed attualità, all’annullamento
d’ufficio di un’illegittima assunzione o progressione di un dipendente
pubblico e non è richiesta una particolare motivazione, dal momento che
l’atto oggetto di autotutela produce un danno permanente per
l’amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo
con ingiustificato vantaggio per il dipendente; né in tal caso rileva il
tempo trascorso dall’emanazione del provvedimento illegittimo, considerato
che l’interesse pubblico predetto prevale sulle posizioni –per quanto
consolidate– del dipendente (cfr. Cons. St., sez. VI, 24.11.2010 n. 8215 e
16.03.2009 n. 1550; sez. V, 17.09.2010 n. 6980, 22.03.2010 n. 1672 e
31.12.2008 n. 6735).
Del resto a più riprese la Corte Costituzionale ha sancito il “principio
in base al quale la progressione nei pubblici uffici deve avvenire sempre
per concorso (sent 109/2011, che richiama le sentt. 7/2011 e 478/1995)
che
costituisce la modalità “ordinaria” di provvista del personale delle
amministrazioni pubbliche, nel rispetto degli artt. 3,51 e 97 Cost., con la
precisazione che esso vale sia per le prime assunzioni sia in relazione
all’attribuzione di un inquadramento di livello superiore di personale già
in servizio presso la pubblica amministrazione. Il principio del pubblico
concorso può andare incontro a eccezioni, ma solo per peculiari e
straordinarie esigenze di interesse pubblico che consentono al legislatore
di derogare al principio costituzionale del concorso pubblico” (sent.
195/2010).
Risulta quindi meritevole di positiva valutazione l’interesse fatto proprio
dalla delibera impugnata di ristabilire l’ordine violato onde pervenire alla
copertura del posto attraverso procedure selettive volte a garantire
l’accertamento della professionalità richiesta per il corrispondente profilo
e l’accesso anche da personale esterno.
Sulla base delle sovraesposte considerazioni, il ricorso va respinto. |
PUBBLICO IMPIEGO: Anzianità
di servizio, il trasferimento penalizza la progressione economica.
È legittima la scelta dell'amministrazione comunale di
riconoscere la progressione economica unicamente ai dipendenti che abbiano
maturato una anzianità minima a una certa data. Il discrimine, previsto dal
contratto integrativo, è infatti «coerente con una scelta di valorizzazione
del personale che sviluppa la propria carriere all'interno di quel
comparto».
La Corte di Cassazione - Sez. lavoro,
ordinanza 05.06.2019 n. 15281,
ha così respinto il ricorso di due dipendenti pubbliche trasferite presso
l'amministrazione capitolina e provenienti, l'una, da un Comune della
Provincia, l'altra, da un Centro regionale per ciechi, a cui era stata
revocata l'attribuzione della classe economica perché al 31.12.2016
(data indicata nel contratto integrativo) non godevano della prescritta
anzianità. E cioè: almeno un anno di servizio nella «posizione economica
inferiore» all'interno della stessa l'amministrazione. Anzi, precisa la
Corte, all'epoca non erano neppure state trasferite, dal momento che il
passaggio effettivo era avvenuto soltanto nella primavera dell'anno
successivo.
Nel passaggio dei lavoratori da un ente all'altro, spiega la decisione, la
garanzia del mantenimento del trattamento economico e normativo «non implica
la parificazione con i dipendenti già in servizio presso il datore di lavoro
di destinazione». Mentre «l'anzianità di servizio, che di per sé non
costituisce un diritto che il lavoratore possa fare valere nei confronti del
nuovo datore, deve essere salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in
cui alla stessa si correlino benefici economici ed il mancato riconoscimento
della pregressa anzianità comporterebbe peggioramento del trattamento
retributivo in precedenza goduto dal lavoratore trasferito».
«L'anzianità
pregressa, invece -prosegue la Corte-, non può essere fatta valere per
rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa disciplina
applicabile al cessionario, né può essere opposta al nuovo datore per
ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché
l'ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti (non delle
aspettative) già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della
cessione del contratto».
Una lettura, continua la Cassazione, confermata dalla Corte di Lussemburgo
che ha ribadito come lo scopo della direttiva (2001/23/CE) sia «solo quello
di assicurare il mantenimento dei diritti già acquisiti dai lavoratori
trasferiti» e che «l'anzianità maturata presso il cedente non costituisce di
per sé un diritto di cui i lavoratori possano avvalersi nei confronti del
cessionario».
In conclusione, per la Sezione Lavoro «non si tratta dell'attribuzione di un
peggioramento retributivo al momento del passaggio da un'amministrazione
all'altra per effetto del mancato riconoscimento dell'anzianità maturata
presso il cedente (stigmatizzato ed escluso nelle pronunce a Sezioni unite
oltre che nella decisione della Corte di Giustizia UE n. 108/10) ma di una
scelta delle parti collettive dell'amministrazione di destinazione di
attribuire rilievo all'esperienza professionale maturata presso quel
comparto e così di riconoscere la progressione economica solo in favore di
quei dipendenti che entro un'indicata data avessero maturato un'anzianità di
almeno un anno nella posizione economica inferiore»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni
orizzontali. E' legittima l'esclusione del dipendente dalla progressione
orizzontale che per mobilità volontaria non abbia raggiunto i requisiti
stabiliti nel bando.
La Cassazione, con due recenti sentenze, è intervenuta sulla legittimità
dell'esclusione del dipendente che per mobilità volontaria sia transitato
presso altra amministrazione.
Il primo caso riguarda la decorrenza della progressione orizzontale
avvenuta quando il dipendente era in servizio presso l'amministrazione di
partenza ma è stato escluso perché non più in servizio alla data di
attivazione della progressione orizzontale.
Il secondo caso riguarda il dipendente che transitato per mobilità
volontaria era stato escluso in quanto non aveva maturato l'anzianità di
servizio presso il Comune procedente alla data della progressione
orizzontale, a nulla rilevando il pregresso svolgimento delle identiche
funzioni presso la precedente amministrazione.
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Considerato che:
1.1. con il primo motivo le ricorrenti denunciano la violazione e
falsa applicazione dell'art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 (art. 360, n. 3, cod.
proc. civ.);
lamentano che la Corte territoriale nell'escludere la continuità giuridica
in caso di mobilità volontaria prevista dall'art. 30 del d.lgs. n. 165/2001
avrebbe disatteso il principio affermato da Cass., Sez. Un., 10.11.2010, n.
22800 ed ancora da Cass., Sez. Un., 12.01.2011, n. 503 e da Cass.
27.08.2014, n. 18416, principio riconosciuto anche dalla Corte di Giustizia
UE 06.09.2011 n. 108/2010;
1.2. con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione
degli artt. 1362 e ss. cod. civ. in relazione all'interpretazione dell'art.
40 del c.c.d.i. del Comune di Roma ed all'art. 2.1. del c.c.d.;
rilevano che l'interpretazione corretta non potesse essere che nel senso di
dare rilievo anche alla precedente anzianità e ciò anche perché la norma
pattizia non faceva alcun espresso riferimento all'anzianità maturata presso
il Comune di Roma;
2.1. i motivi da trattarsi congiuntamente in ragione dell'intrinseca
connessione sono infondati;
2.2. questa Corte ha già ritenuto, condivisibilmente, che in tema di
passaggio di lavoratori ad una diversa amministrazione, le disposizioni
normative che garantiscono il mantenimento del trattamento economico e
normativo, non implicano la parificazione con i dipendenti già in servizio
presso il datore di lavoro di destinazione (v. Cass. 03.08.2007 n. 17081;
Cass. 17.07.2014, n. 16422);
la prosecuzione giuridica del rapporto, infatti, se da un lato rende
operante il divieto di reformatio in peius, dall'altro non fa venir
meno la diversità fra le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo,
diversità che può essere valorizzata dal nuovo datore di lavoro, sempre che
il trattamento differenziato non implichi la mortificazione di un diritto
già acquisito dal lavoratore;
2.3. muovendo da detta premessa questa Corte (v. Cass. 17.09.2015, n. 18220;
Cass. 25.11.2014, n. 25021; Cass. 03.11.2011, n. 22745; Cass. 18.05.2011, n.
10933; Cass., Sez. Un., 10.11.2010, n. 22800) ha evidenziato che l'anzianità
di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il lavoratore
possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere salvaguardata
in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino benefici
economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità
comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza
goduto dal lavoratore trasferito;
2.4. l'anzianità pregressa, invece, non può essere fatta valere da quest'ultimo
per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa
disciplina applicabile al cessionario (Cass., Sez. Un., n. 2280/2010 cit. e
Cass. n. 25021/2014 cit.), né può essere opposta al nuovo datore per
ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché
l'ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti (non delle
aspettative) già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della
cessione del contratto;
il nuovo datore, pertanto, ben può ai fini della progressione di carriera
valorizzare l'esperienza professionale specifica maturata alle proprie
dipendenze, differenziandola da quella riferibile alla pregressa fase del
rapporto (v. Cass. n. 17081/2007; Cass., Sez. Un., n. 22800/2010; Cass.
22745/2011 citate e, in relazione all'impiego privato, Cass. 25.03.2009, n.
7202);
2.5. le. conclusioni alle quali questa Corte è pervenuta trovano conforto.
nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo che, a prescindere dalla
applicabilità o meno al trasferimento di attività che qui viene in rilievo
della direttiva 2001/23/CE, deve orientare nell'interpretazione della norma
interna con la quale il legislatore ha adeguato il diritto nazionale a
quello dell'Unione (l'art. 2112 cod. civ. è stato modificato dal d.lgs. n.
18 del 2001, in attuazione della direttiva 98/50/CE, poi sostituita dalla
direttiva 2001/23/CE);
la Corte di Giustizia con la recente pronuncia del 06.04.2017 in causa
C-336/15, ha ribadito che lo scopo della direttiva è solo quello di
assicurare il mantenimento dei diritti già acquisiti dai lavoratori
trasferiti e che l'anzianità maturata presso il cedente non costituisce di
per sé "un diritto di cui i lavoratori possano avvalersi nei confronti
del cessionario, ciò nondimeno essa serve, se del caso, a determinare taluni
diritti pecuniari dei lavoratori, che pertanto devono essere salvaguardati,
in linea di principio dal cessionario allo stesso modo del cedente"
(punti 21 e 22 nei quali la Corte richiama le sentenza 06.09.2012 Scattolon,
C108/10 e 14.09.2000, Collino e Chiappero, C-343/98);
2.6. sicché può risultare irrilevante, ai fini della progressione di
carriera, l'anzianità maturata presso l'ente di provenienza, ove, come nella
specie, in sede di contrattazione decentrata integrativa presso il nuovo
datore di lavoro, si sia inteso valorizzare, ai fini di una progressione
economica, l'esperienza professionale specifica maturata alle dipendenze di
tale datore e cristallizzata ad una determinata data, distinguendola da
quella riferibile alla pregressa fase del rapporto (v. anche Cass.
03.05.2018, n. 10528);
2.7. è così immune da vizi l'interpretazione della Corte territoriale
dell'art. 40, comma 3, del c.c.d.i. del Comune di Roma, sottoscritto il
18.10.2005 (prevedente testualmente che: "Sono ammessi a partecipare alle
selezioni i dipendenti che alla data di svolgimento della selezione: - hanno
maturato un'anzianità di servizio effettivo con rapporto di lavoro a tempo
indeterminato di almeno due anni; - non abbiano riportato sanzioni
disciplinari definitive superiori alla censura nel biennio precedente")
in lettura combinata con il punto 2.1. del c.c.d.i. sottoscritto in data
26/09/2007 per la quantificazione e ripartizione del Fondo per le politiche
di sviluppo delle risorse umane e per la produttività per l'anno 2007
(prevedente che l'Amministrazione attiverà il procedimento per la
progressione economica orizzontale "per tutti i dipendenti che alla data
del 31.12.2006 abbiano maturato un'anzianità di almeno un anno nella
posizione economica inferiore"), nel senso di elevare la qualità di
dipendente del Comune di Roma alla data del 31.12.2016 a discrimine ai fini
del riconoscimento economico, in quanto coerente con una scelta di
valorizzazione del personale che sviluppa la propria carriera all'interno di
quel comparto;
2.8. non si tratta, dunque, dell'attribuzione di un peggioramento
retributivo al momento del passaggio da un'amministrazione all'altra per
effetto del mancato riconoscimento dell'anzianità maturata presso il cedente
(stigmatizzato ed escluso nelle pronunce di questa Corte a Sezioni unite
invocate dalle ricorrenti oltre che nella decisione della Corte di Giustizia
UE n. 108/10) ma di una scelta delle parti collettive dell'amministrazione
di destinazione di attribuire rilievo all'esperienza professionale maturata
presso quel comparto e così di riconoscere la progressione economica solo in
favore di quei dipendenti che entro un'indicata data avessero maturato
un'anzianità di almeno un anno nella posizione economica inferiore;
2.9. peraltro la correttezza dell'interpretazione della Corte territoriale,
ossia che l'anzianità richiesta fosse quella maturata alle dipendenze. del
Comune .di Roma, emerge proprio dal richiamato punto 2.1. del c.c.d. che,
avuto riguardo alle esperienze dei dipendenti cristallizzate al 31/12/2006,
non poteva certo rivolgersi a coloro che, come le ricorrenti, a quella data
non erano dipendenti dell'ente (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 05.06.2019 n. 15281).
---------------
CONSIDERATO:
- che, con il primo motivo, così rubricato "Erronea
motivazione per errata interpretazione del disposto dell'art. 8, comma 9 del
CCDI del 19.02.2001 del Comune di Milano", la ricorrente lamenta a
carico della Corte territoriale il travisamento del testo dell'art. 8 del
contratto integrativo del Comune di Milano in base al quale l'attivazione
delle progressioni orizzontali avrebbe seguito la decorrenza delle prime
posizioni economiche appartenenti alle categorie A, B, C e D, risalenti
all'01.04.1999, allorché la Es. risultava essere ancora in servizio presso
il Comune di Milano;
- che, con il secondo motivo, così rubricato "Vizio di
ultrapetizione per erronea valutazione delle risultanze processuali ed
eccezioni" la ricorrente imputa alla Corte territoriale la violazione
del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato per aver
fondato la decisione di rigetto della domanda sul convincimento del mancato
possesso da parte della ricorrente medesima dei requisiti richiesti per la
progressione orizzontale, dato questo mai fatto oggetto di, contestazione da
parte del Comune di Milano, limitatosi a sostenere l'esclusione della
ricorrente dalla relativa selezione per non essere in servizio alla data
indicata del 19.02.2001;
- che il primo motivo deve ritenersi inammissibile alla
stregua dell'orientamento accolto da questa Corte (cfr., da ultimo Cass.
31.05.2017, n. 13802) secondo cui ai sensi dell'art. 63 d.lgs. n. 165/2001 e
dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 40/2006,
la denuncia della violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi
di lavoro è ammessa solo con riferimento a quelli di carattere nazionale,
per i quali è previsto il peculiare regime di pubblicità di cui all'art. 47,
comma 8, d.lgs. n. 165/2001, mentre i contratti integrativi , attivati dalle
dalle amministrazioni su singole materie e nei limiti stabiliti dal
contratto nazionale, tra i soggetti e con le procedure negoziali;
- che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio
nazionale in ragione dell'amministrazione interessata, hanno una dimensione
di carattere decentrato rispetto al comparto, con la conseguenza che la loro
interpretazione è riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede
di legittimità solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica
contrattuale ovvero per vizio di motivazione, nei limiti fissati dall'art.
360, n. 5, c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis;
- che parimenti inammissibile si rivela il secondo motivo
alla luce dell'orientamento accolto da questa Corte per il quale, anche
qualora venga dedotto un error in procedendo, rispetto al quale la Corte è
giudice del "fatto processuale", l'esercizio del potere/dovere di
esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di
ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla
derogate dall'estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del
giudice di legittimità, sicché la parte non è dispensata dall'onere imposto
dall'art. 366, n. 6, c.p.c. di indicare in modo specifico i fatti
processuali alla base dell'errore denunciato e di trascrivere nel ricorso
gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem
agli atti del giudizio di merito, permanendo anche in tale ipotesi
l'esigenza che la Corte venga posta in condizione di valutare ex actis
la fondatezza della censura, senza dover procedere, anziché alla loro
verifica, alla loro ricerca (cfr. Cass. nn. 15367/2014 e 21226/2010) (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 29.05.2019 n.
14687). |
APPALTI:
Accesso civico – Esclusione dell’accesso civico nella
materia degli appalti pubblici – Inconfigurabilità – lettura
costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti in
materia di accesso.
L’art. 53 del “Codice dei contratti”
nella parte in cui esso rinvia alla disciplina degli artt.
22 e seguenti della l. 241/1990, non può condurre alla
generale esclusione dell’accesso civico della materia degli
appalti pubblici.
Il d.lgs. n. 97/2016, successivo sia al “Codice dei
contratti” che –ovviamente– alla legge n. 241/1990, sconta
un mancato coordinamento con quest’ultima normativa, sul
procedimento amministrativo, a causa del non raro difetto,
sulla tecnica di redazione ed il coordinamento tra testi
normativi, in cui il legislatore incorre.
Non può, dunque, ipotizzarsi una interpretazione “statica” e
non costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti
in materia di accesso allorché, intervenuta la disciplina
del d.lgs 97/2016, essa non risulti correttamente coordinata
con l’art. 53 codice dei contratti e con la ancor più
risalente normativa generale sul procedimento: sarebbe
questa la strada per la preclusione dell’accesso civico
ogniqualvolta una norma di legge si riferisca alla procedura
ex artt. 22 e seguenti L. 241/1990.
Una interpretazione conforme ai canoni dell’art. 97 Cost.
deve invece valorizzare l’impatto “orizzontale” dell’accesso
civico, non limitabile da norme preesistenti (e non
coordinate con il nuovo istituto), ma soltanto dalle
prescrizioni “speciali” e interpretabili restrittivamente,
che la stessa nuova normativa ha introdotto al suo interno.
...
Accesso civico – Perseguimento di procedure di appalto
trasparenti - Prevenzione e contrasto della corruzione.
Con riferimento alle procedure di
appalto, la possibilità di accesso civico, una volta che la
gara sia conclusa e viene perciò meno la tutela della “par
condicio” dei concorrenti, non risponde soltanto ai canoni
generali di “controllo diffuso sul perseguimento dei compiti
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art.
5, co. 2 cit. d.lgs. 33).
Vi è infatti, a rafforzare in materia l’ammissibilità
dell’accesso civico, una esigenza specifica e più volte
riaffermata nell’ordinamento statale ed europeo, e cioè il
perseguimento di procedure di appalto trasparenti anche come
strumento di prevenzione e contrasto della corruzione (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 05.06.2019 n. 3780 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Impianto di depurazione
comunale - Trattamento delle acque reflue urbane -
Superamento dei limiti tabellari - Disciplina applicabile -
Legge n. 36/2010 - Artt. 323, 328, e 54 e 1161 cod. nav. -
Artt. 133, 136, 137, c. 6, d.lgs. n. 152/2006.
Con riferimento allo scarico di acque
reflue industriali, il superamento dei limiti fissati dalla
tabella 3 integra reato, a norma dell'art. 137 d.lgs. n. 152
del 2006 nel testo oggi vigente, solo ove esso riguardi le
sostanze indicate nella tabella 5 dell'allegato 5 alla parte
terza del d.lgs. n. 152 del 2006.
In particolare, l'art. 137, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006,
come modificato dalla legge n. 36 del 2010, prevede la
sanzione penale esclusivamente nel caso in cui lo scarico
avente ad oggetto acque reflue industriali riguarda una o
più sostanze indicate nella tabella 5 dell'Allegato 5 alla
parte terza del T.U.A., con superamento dei valori limite
indicati nella tabella 3, identiche condotte relative ad
altre sostanze non costituiscono più reato e rientrano
nell'ipotesi di cui all'art. 133, comma 1, del d.lgs. n. 152
del 2006, il quale, salvo che il fatto costituisca reato,
punisce con la sanzione amministrativa lo scarico di materie
estranee alla tabella 5 con superamento dei limiti indicati
nelle tabelle dell'Allegato 5
(Cass. Sez. 3, n. 11884/2014).
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Scarico da depuratore
convogliante le acque reflue urbane e scarico di acque
reflue industriali - Assenza di elementi di prova - Mero
illecito amministrativo - Giurisprudenza.
Lo scarico da depuratore convogliante le
acque reflue urbane, in assenza di elementi di prova forniti
dal P.M. circa la prevalenza di reflui di natura
industriale, deve essere ritenuto a natura mista ed i
relativi reflui vanno qualificati come scarichi di acque
urbane, con la conseguenza che la condotta di scarico senza
autorizzazione, non integra il reato di cui all'art. 137,
comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006, ma un mero illecito
amministrativo (Sez.
3, n. 1870 del 26/11/2015, dep. 2016, Copeti).
Mentre, con riferimento all'incidenza dei
valori limite per lo scarico di acque reflue industriali
deve essere applicato anche in caso di scarico di acque
reflue urbane da parte dei gestori di impianti di
trattamento delle stesse, sia per ragioni di ordine
testuale, sia per ragioni sistematiche.
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Tutela delle acque
dall'inquinamento - Scarico di acque reflue industriali e/o
urbane - Inapplicabilità delle sanzioni di cui all'art. 137,
c. 5 e 6, d.lgs. n. 152/2006 - VIA VAS AIA - Autorizzazione
integrata ambientale.
In materia di tutela delle acque
dall'inquinamento, ritenere che il gestore di impianti di
trattamento delle acque reflue urbane il quale,
nell'effettuazione dello scarico, supera i valori-limite
previsti dalla tabella 3 dell'Allegato 5 alla parte terza
del medesimo decreto in relazione a sostanze diverse da
quelle indicate nella tabella 5 del medesimo Allegato 5, sia
soggetto alle sanzioni di cui all'art. 137, commi 5 e 6,
d.lgs. n. 152 del 2006, significa riservare allo stesso un
trattamento significativamente deteriore rispetto a quello
previsto a carico del titolare di autorizzazione integrata
ambientale, e così accogliere una soluzione non agevole da
giustificare in termini di ragionevolezza e di proporzione.
Inoltre, l'inapplicabilità delle sanzioni di cui all'art.
137, commi 5 e 6, d.lgs. n. 152 del 2006 non implica lacune
nel sistema sanzionatorio, perché, in ogni caso, è prevista
dal sistema una consistente sanzione amministrativa.
Fattispecie: residui da metabolismo umano (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.06.2019 n. 24797 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
norma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra
fabbricati va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è
richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia
finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio
o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione
di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a
distanza minore da quella prescritta. Di conseguenza, il rispetto della
distanza minima imposto dalle richiamate prescrizione è obbligatorio anche
per i tratti di parete che siano in parte prive di finestre.
---------------
1.1. = Il motivo è fondato per la ragione di cui si dirà.
Secondo la Corte distrettuale le nuove distanze ex DM n. 1444 del 1968 non
varrebbero per le nuove pareti finestrate nella parte in cui non siano
antistanti (quindi non si sovrappongono) (pag. 6 della sentenza) alla parete
del vicino.
Epperò così ragionando la sentenza impugnata si è posta in contrasto con
l'orientamento di questa Corte secondo cui la norma dell'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati va interpretata
nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso
che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è
indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella
dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di tale
distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a
distanza minore da quella prescritta. Di conseguenza, il rispetto della
distanza minima imposto dalle richiamate prescrizione è obbligatorio anche
per i tratti di parete che siano in parte prive di finestre (Cass.
20.06.2011, n. 13547; Cass. 28.08.1991, n. 9207).
La sentenza, avendo disatteso tali principi, è, perciò, incorsa nella
censurata violazione di legge e va cassata. La Corte distrettuale dovrà, cui
la causa verrà rinviata dovrà procedere ad un nuovo esame dei fatti di causa
ed individuare la norma applicabile, attenendosi agli indicati criteri
interpretativi
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza
04.06.2019 n. 15178). |
SEGRETARI COMUNALI: Ai
segretari la qualifica dirigenziale dopo due anni di servizio.
Prima del 2001, il segretario comunale conseguiva la qualifica dirigenziale
solo dopo diversi passaggi di carriera, anche in considerazione della classe
del Comune presso cui prestava servizio. Con il contratto nazionale del
16.05.2001 la disciplina è stata modificata in modo che il segretario
comunale può conseguire la qualifica dirigenziale appena compiuto il primo
biennio di servizio.
Sono queste le conclusioni cui è giunto il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la
sentenza
04.06.2019 n. 7178.
Il caso
Un segretario comunale ha partecipato alla selezione per la copertura dei
posti vacanti di giudice presso le commissioni tributarie regionali e
provinciali e si è visto attribuire un punteggio inferiore a causa del
mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale richiesta nel bando.
La
commissione, infatti, nel procedere alla valutazione dei titoli, ha
riconosciuto la qualifica dirigenziale al segretario partecipante solo a
partire dalla data del contratto 16.05.2016, mentre per il periodo di
servizio pregresso non gli è stato assegnato alcun punteggio. In seguito, su
istanza di autotutela, la commissione ha modificato la graduatoria
riconoscendo esclusivamente l'ulteriore periodo dal 20.03.1999 e non dal
20.03.1997 come da richiesta del segretario comunale. In
considerazione del presunto inadempimento da parte della commissione, il
segretario ha proposto ricorso al Tar .
La conferma dei giudici amministrativi
Il collegio amministrativo ha rigettato il ricorso del segretario e accolto
le motivazione della commissione. Il segretario ha dichiarato, nella domanda
di partecipazione al concorso, di aver ottenuto la fascia B (equiparata a
dirigente) solo a partire dal 20.03.1999. Non può, quindi, essere accolta
la motivazione del segretario secondo cui avrebbe dovuto essere computato
anche il periodo pregresso del servizio prestato dal 20.03.1997 e quindi
attribuito il punteggio previsto per la «qualifica di primo dirigente e
dirigente superiore».
Infatti, precisano i giudici, fino al 2001 la
qualifica di dirigente per il segretario comunale si conseguiva solo dopo
diversi passaggi di carriera, e in considerazione della classe del Comune
presso cui si prestava servizio. Solo con il contratto di categoria del 16
maggio 2001 la disciplina è stata modificata cosicché il segretario comunale
consegue ormai la qualifica dirigenziale appena compiuto il primo biennio di
servizio.
Il collegio rileva, tuttavia, come le eccezionali ragioni di difficoltà
interpretative rilevabili nella materia suggeriscono la compensazione delle
spese di giudizio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Responsabilità e limiti del
direttore lavori - Diligenza in concreto - Tutela la
posizione del committente nei confronti dell'appaltatore -
Vigilanza sulla conformità a quanto stabilito nel capitolato
di appalto ed al progetto - Obbligo continuo di vigilanza -
Esclusione - APPALTI - Responsabilità dell’appaltatore -
Difformità o vizi dell’opera - Cattiva esecuzione dei lavori
riferibile all'appaltatore - Esclusiva responsabilità
dell'appaltatore sulla esecuzione delle opere -
Giurisprudenza.
Il direttore dei lavori è titolare di
una obbligazione di mezzi e non di risultati fermo restando
che, essendo chiamato a svolgere la propria attività in
situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze
tecniche, il suo comportamento dev'essere valutato non con
riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla
stregua della diligenza in concreto, posta la necessità
d'impiegare le proprie risorse intellettive e operative per
assicurare, relativamente all'opera in corso di
realizzazione e nel perimetro delle sue competenze, il
risultato che il committente si aspetta di conseguire
(Cass., 30/09/2014, n. 20557).
Pertanto, il direttore dei lavori, assume
la specifica funzione di tutelare la posizione del
committente nei confronti dell'appaltatore, vigilando che
l'esecuzione dei lavori abbia luogo in conformità a quanto
stabilito nel capitolato di appalto e quindi al progetto,
fermo l'obbligo di intervento quando quest'ultimo presenti
riconoscibili fattori di rischio
(Cass., 15/06/2018, n. 15732); da questo, e
proprio per questo, non deriva a suo carico né una
responsabilità per cattiva esecuzione dei lavori riferibile
all'appaltatore, né un obbligo continuo di vigilanza anche
in relazione a condotte marginali, sicché, in assenza di un
qualche indice che faccia supporre che l'appaltatore sia
stato sottoposto dal committente a direttive così stringenti
da sottrargli qualsiasi possibilità di autodeterminazione,
l'appaltatore rimane esclusivo responsabile dell'esecuzione
delle opere previste ovvero dei danni conseguenti a
negligenza nell'attuazione medesima (Corte
di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 29.05.2019 n. 14751 - link a www.ambientediritto.it). |
SEGRETARI COMUNALI: Nessun
taglio all'assegno che «compensa» le perdite del segretario trasferito in
mobilità ad altre funzioni.
Dato il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito
in caso di mobilità o trasferimento del segretario comunale presso altro
ente pubblico, l'eventuale differenza economica deve essere conservata
mediante corresponsione di un assegno ad personam da riassorbire mediante i
successivi rinnovi contrattuali, ovvero attraverso emolumenti disposti dalla
contrattazione collettiva per la generalità dei dipendenti.
Al di fuori di queste ipotesi, l'amministrazione di destinazione o
cessionario, non ha alcun titolo per riassorbire l'assegno ad personam in
caso di svolgimento delle funzioni vicarie di dirigente la cui disciplina ed
indennità sono rimesse alla contrattazione integrativa e, quindi, al di
fuori delle ipotesi di riassorbimento.
Queste sono le indicazioni confermate dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nell'ordinanza
29.05.2019 n. 14688.
La vicenda
Un segretario comunale era transitato per mobilità presso un ente pubblico
non economico (Inail) con diritto a conservare, all'atto del passaggio, le
indennità percepite al momento del trasferimento, di reggenza e di reggenza
a scavalco, di direttore generale, mediante integrazione con un assegno ad personam corrispondete alla differenza tra il più favorevole trattamento
economico maturato nel precedente ruolo e quello spettante presso
l'amministrazione di destinazione.
Dopo il conferimento dell'incarico di
dirigente vicario presso una sede provinciale, l'ente pubblico aveva negato
la maggiorazione stipendiale in quanto, a suo dire, assorbita dall'assegno
ad personam già percepito dall'ex segretario. Non essendo state accolte le
ragioni dell'ente pubblico, né dal Tribunale di primo grado né dalla Corte
di appello, il ricorso è giunto in Cassazione.
In particolare l'ente
pubblico si è lamentato del fatto che i giudici di appello non abbiano
correttamente considerato come la legge 88/1989 autorizzi la contrattazione
collettiva a individuare posizioni funzionali di particolari rilievo,
comprendenti anche l'esercizio di funzioni vicarie, da attribuire ai
funzionari della categoria direttiva, tanto da poter far rientrare gli
emolumenti attribuiti in via generale a tutti i dipendenti con le stesse
qualifiche.
Quindi non avrebbe fondamento l'affermazione della Corte
territoriale per cui quell'indennità non sarebbe annoverabile tra gli
emolumenti attribuiti in via generale dall'amministrazione ricevente a tutti
i dipendenti aventi la qualifica interessata e con la conseguenza della non
computabilità della stessa ai fini dell'assorbimento dell'assegno ad personam.
La conferma della Cassazione
Al contrario di quanto sostenuto dall'ente, la Corte di appello ha fatto
corretto riferimento a quanto stabilito dal giudice di legittimità, in
quanto non sarebbero computabili ai fini dell'assorbimento dell'assegno ad
personam spettante, in funzione del mantenimento del trattamento economico
maturato al dipendente transitato per mobilità ad altra amministrazione, gli
emolumenti che non siano attribuibili in via generale dall'amministrazione
ricevente a tutti i dipendenti aventi la medesima qualifica del dipendente.
L'ente è, invece, pervenuto a conclusioni opposte considerando che
l'indennità di funzioni vicarie sarebbe attribuibile in via generale a tutti
i dipendenti della ottava e della nona qualifica, mentre le disposizioni
legislative, richiamate dall'ente, fanno espresso rinvio alle disposizioni
della contrattazione decentrata per la concreta disciplina delle posizioni
funzionali e non alla contrattazione collettiva che non ha assolutamente
esteso a tutti i dipendenti queste indennità
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Illegittimo
il licenziamento del dipendente in caso di compartecipazione della Giunta
comunale con funzioni dispositive e non additive.
Ad un dipendente comunale nell'anno 2010, condannato in via definitiva per
disastro colposo e omicidio colposo plurimo e aggravato in relazione al
crollo di una scuola comunale ed alla conseguente morte di ventotto persone,
veniva irrogato il licenziamento senza preavviso per i medesimi fatti che ne
avevano portato alla condanna penale.
Il Tribunale di primo grado e la Corte di Appello ritenevano, tuttavia, il
licenziamento illegittimo in quanto adottato comunque dalla Giunta
Municipale, la quale non aveva alcun titolo ad intervenire nel procedimento
disciplinare previsto dall'art. 55-bis, D.Lgs. n. 165 del 2001, né tanto
meno, ad imporre decisioni all'organo competente, in via esclusiva, ad
adottare i provvedimenti disciplinari.
A seguito di ricorso in Cassazione avverso la sentenza dei giudici di
appello, i giudici di Piazza Cavour (sentenza n. 11632 del 2016) rinviavano
la sentenza alla Corte di appello per una nuova valutazione, in quanto non
ogni interferenza di organi esterni all'U.P.D. fosse da considerare
giuridicamente rilevante, tale essendo solo quella integrante una decisiva
-nel senso di sostitutiva e non meramente additiva- compartecipazione del
soggetto estraneo all'adozione del provvedimento, con conseguente
inammissibile sostanziale trasferimento della competenza deliberativa
dall'organo competente ad un diverso organo, sicuramente non competente.
---------------
4. I motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente
connessi, sono infondati.
La Corte territoriale ha correttamente applicato il principio di
diritto enunciato da questa Corte e, esaminata tutta la sequenza degli atti
del procedimento disciplinare oltre che la portata dei singoli atti (il
provvedimento di licenziamento aveva richiamato espressamente la delibera di
Giunta Municipale del 30.09.2010 e la determinazione dirigenziale n. 594
dello stesso giorno e le motivazioni in tali atti indicate anche con
riferimento alla gravità dei delitti commessi), ha ritenuto che la
delibera di Giunta, lungi dal risultare del tutto neutra rispetto alla
gestione del procedimento e al suo interno o dall'avere valenza meramente
additiva, avesse integrato una decisiva compartecipazione del soggetto
estraneo al processo decisionale e così quella interferenza stigmatizzata da
questa Corte di legittimità, tale da spostare illegittimamente la competenza
deliberativa dall'organo competente ad un diverso organo, sicuramente non
competente.
A tale ricostruzione della Corte territoriale, compiutamente svolta
attraverso l'esame degli atti e delle espressioni in essi utilizzate ('ove
riterrà' ed 'eventuale sanzione' contenute nel verbale dei lavori
dell'UPD, 'dover disporre l'applicazione della sanzione disciplinare del
licenziamento senza preavviso' contenuta nella delibera di Giunta n. 105
del 30.09.2016 ed ancora 'esecuzione della delibera giuntale'
contenuta nella determinazione dirigenziale n. 594/2010), ritenute
significative di una valutazione discrezionale rimessa all'organo
incompetente, il ricorrente si limita a contrapporre una propria diversa
lettura dei fatti di causa.
Ma ciò è inammissibile in sede di legittimità.
Non può, infatti, il ricorrente per cassazione sollecitare un nuovo giudizio
di merito su risultanze documentali già considerate dalla Corte territoriale
né denunciare come omesso esame di un fatto la mancata valutazione di
elementi istruttori laddove il fatto storico (e cioè, nella specie, la
deviazione dallo schema legale del procedimento realizzata attraverso
l'interferenza decisionale dell'organo incompetente) è stato valutato in
tutti i suoi aspetti (v. Cass., Sez. U., 07.04.2014, n. 8053).
Ed allora la censura suggerisce esclusivamente una rivisitazione delle
emergenze processuali affinché se ne fornisca una valutazione diversa da
quella accolta dalla sentenza impugnata. Ma non può il ricorso per
cassazione enucleare un vizio rilevante a termini del nuovo art. 360, n. 5,
cod. proc. civ. dal mero confronto tra le risultanze istruttorie, vale a
dire attraverso un'operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una
loro delibazione non consentiti in sede di legittimità (v. Cass., Sez. U.,
n. 8053/2014 cit.).
Sotto altro profilo va rilevato che non risulta neppure prospettata la
violazione dei criteri ermeneutici dettati dall'art. 1362 e ss. cod. proc.
civ. che presidiano l'esegesi degli atti di natura negoziale posti in essere
nell'ambito del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, il che
consente di tenere ferma la lettura degli atti come effettuata dalla Corte
territoriale.
5. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato
(Corte di Cassazione, Sez. Lavoro,
sentenza 29.05.2019
n. 14679). |
APPALTI: L'offerta
migliorativa in violazione della legge di gara non esclude dall'appalto.
La violazione della legge speciale di gara che consiste in un'offerta
finanziariamente migliorativa non produce l'esclusione (automatica)
dall'appalto.
È questo il principio di diritto affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, nella
sentenza
29.05.2019 n. 3606,
intervenuta in materia di procedura di gara.
La fattispecie
Nel caso particolare, la gara era stata indetta da una società in house di
un Comune, mediante avviso pubblico per manifestazioni di interesse
all'affidamento del servizio di gestione di parcheggio a pagamento. Per
aggiudicarsi la gestione, l'operatore economico aveva offerto –oltre a un
aumento sul prezzo base– modalità di pagamento in favore della stazione
appaltante diverse da quelle previste dalla legge di gara.
In particolare, s'impegnava a versare in via anticipata già al primo mese di
ciascun quadrimestre i corrispettivi dei 4 mesi, quando invece l'esborso era
dovuto mensilmente, con lo scopo di prestare un miglior servizio alla Pa,
beneficiaria così di consistenti anticipazioni di denaro a fronte della
privazione anzitempo da parte dell'offerente di somme versate a titolo di
corrispettivo per controprestazioni non ancora eseguite.
Esclusione illegittima
Facendo buon governo del principio civilistico (articolo 1184 del codice
civile) secondo cui l'apposizione di un termine (e quindi anche la
rateizzazione) si presume effettuata nell'interesse del debitore, i giudici
amministrativi hanno statuito l'illegittimità dell'esclusione dalla gara
atteso che la violazione pur perpetrata ha comportato un'offerta
migliorativa a vantaggio esclusivo della stazione appaltante.
La censura di eccesso di potere per irragionevolezza dell'eliminazione trova
inoltre avallo nell'assenza di una convincente motivazione sulla possibile
rilevanza di un interesse pubblico al rispetto dei termini indicati nella
legge di gara, ossia alla percezione dei canoni con cadenza mensile anziché
in maniera anticipata. Risulta, invero, priva di pregio la giustificazione
fondata sulla mera vincolatività delle prescrizioni della lettera d'invito
in relazione a una astratta salvaguardia del superiore interesse a garantire
il mantenimento degli equilibri economico-finanziari dell'ente, ove si
ometta l'accertamento circa la (in)congruenza delle più vantaggiose modalità
solutorie offerte rispetto a questa finalità.
D'altronde, a parere della Collegio, se, per assurdo, la lex specialis
avesse obbligatoriamente escluso pagamenti anticipati, la previsione sarebbe
stata radicalmente irrazionale e contraria proprio all'interesse pubblico.
Pronuncia equitativa
Circa la misurazione del danno subìto dalla mancata aggiudicazione della
gara, se ne ritiene legittima la quantificazione in via equitativa, tenuto
conto della tipologia del contratto (essendo, in specie, impossibile
prevedere l'utile effettivo conseguibile dall'eventuale affidamento del
servizio di parcheggio, e dunque il danno risarcibile) nonché del periodo di
gestione del servizio già trascorso (oltre la metà) al momento della
pubblicazione della sentenza.
Assenza di litisconsorzio pubblico
Quanto alla legittimazione processuale passiva, viene negata l'instaurazione
di un litisconsorzio necessario tra l'ente locale e la partecipata in house.
Con estensione analogica dell'interpretazione resa sulla diversa fattispecie
delle procedure svolte in forma aggregata da un soggetto per
conto/nell'interesse di altri enti, i magistrati di Palazzo Spada
disconoscono in capo al Comune socio la qualità di contraddittore
necessario, dovendosi il giudizio d'impugnazione promuovere (sul fronte
pubblico) solo contro l'amministrazione adottante gli atti di gara
illegittimi, cioè la società in house, che costituisce autonomo
centro di imputazione dei rapporti giuridici
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Costituisce
regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il
rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata
zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute
nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto
costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua
attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il
rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando
è concluso il relativo procedimento;
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona
l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione
della zona stessa;
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo
edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e
materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello
strumento esecutivo;
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o
giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia
tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo,
la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone
parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di
compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di
dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto.
La giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente
necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del
territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo la detta impostazione, allorquando
l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti
la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a
quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività
procedimentale per l'ente pubblico, essendo stato raggiunto lo scopo e i
risultati perseguiti dai piani esecutivi/attuativi.
---------------
Nemmeno “i lotti interclusi”, in carenza delle opere di
urbanizzazione primaria, quale la rete fognante, possono essere realizzati
“con la mera previsione di un ulteriore ennesimo impianto individuale di
discarica a dispersione”.
---------------
La
giurisprudenza si è spinta a puntualizzare il bisogno di un piano di
lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia,
anche "allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e,
quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse
e urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia,
onde essa potrebbe essere rinvenuta finanche in caso di lotto intercluso o
di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata”.
Comunque, più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la
relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale della
regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza
di strumento attuativo, deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento
discrezionale del comune che, semmai, ove intenda rilasciare il titolo
edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la
pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione, anche in
relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di
efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado
di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel
p.r.g..
---------------
Il contenzioso si incardina, quindi, sulla possibilità di procedere, nello
specifico e particolare caso in questione, all’edificazione attraverso un
intervento diretto.
Parte ricorrente ritiene che, di fatto, l’area in questione sia assimilabile
alla zona B, possibilità in concreto esclusa dall’amministrazione
resistente, che afferma, invece, nel provvedimento impugnato che l’area
ricada in zona territoriale omogenea C e che il lotto d’interesse non possa
ritenersi “intercluso urbanisticamente”; su tale presupposto, il
Comune ha proceduto all’impugnato diniego.
A tal riguardo, giova ricordare che costituisce regola generale ed
imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle
previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la
pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle
n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo
(cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale, come ricordato da
recente giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.11.2014, n. 5488; TAR
Calabria, Catanzaro, sez. II, 02.03.2017, n. 352), sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua
attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il
rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando
è concluso il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n.
300);
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona
l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione
della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo
edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e
materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello
strumento esecutivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen.,
sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o
giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia
tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo,
la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone
parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di
compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di
dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto (cfr. Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880).
La giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente
necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del
territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo la detta impostazione, allorquando
l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti
la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a
quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività
procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n.
268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699),
essendo stato raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai piani
esecutivi/attuativi.
...
Sul punto, pur prendendo atto della
effettivamente “incomprensibile” situazione rilevata dal consulente
(ossia dell’assenza dell’impianto fognario su area PEEP), va tuttavia
specificato, per quel che qui interessa, che la giurisprudenza ha affermato
che nemmeno “i lotti interclusi”, in carenza delle opere di
urbanizzazione primaria, quale la rete fognante, possono essere realizzati “con
la mera previsione di un ulteriore ennesimo impianto individuale di
discarica a dispersione” (TAR Sardegna, Cagliari, n. 664/2013; Cons. St.,
sez. V, n. 3880/2013; cfr. anche TAR Catania, sez. I, 19.02.2018, n. 391 che
ha affermato che “non appare superfluo rilevare, inoltre, che non può
dirsi con certezza che, come sostenuto dalla ricorrente, l’intera zona sia
già interamente urbanizzata vista l’assenza di rete idrica e fognaria di
competenza del Comune …”).
...
Il Collegio osserva che, pure a fronte delle opere descritte dal consulente
che danno contezza dello stato attuale di urbanizzazione dell’area, non è
dimostrato che risulti esclusa l’esigenza, avvertita nel provvedimento
impugnato, di “un armonico raccordo con il preesistente aggregato
abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione incomplete …”.
D’altra parte la giurisprudenza si è spinta a puntualizzare il bisogno di un
piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione
edilizia, anche al fine ricordato dal Comune ossia “allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse e urbanizzate, che
richiedano una necessaria pianificazione della maglia, onde essa potrebbe
essere rinvenuta finanche in caso di lotto intercluso o di altri casi
analoghi di zona già edificata e urbanizzata” (C.S., sez. V, n. 5450 del
2011 e giurisprudenza ivi richiamata; C.S. sez. IV, n. 1906/2018).
Comunque, più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la
relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale
della regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza di
strumento attuativo, deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento
discrezionale del comune (cfr. Cons. St., sez. IV, 01.08.2007, n. 4276;
Cons. St. sez. IV, 10.06.2010, n. 3699), che, semmai, ove intenda rilasciare
il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare
che la pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione,
anche in relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di
efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado
di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel
p.r.g. (cfr. Cons. St. sez. V, 27.10.2000, n. 5756; sez. V, 08.07.1997, n.
772, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699).
Per quanto sopra esposto, il Collegio ritiene che non sussistono i
requisiti, come dalla giurisprudenza descritti, necessari per poter
configurare il lotto intercluso, con la conseguenza che il provvedimento di
diniego impugnato è esente dai vizi denunciati in merito a tale profilo
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 29.05.2019 n. 1313 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
dichiarazioni di atto di notorietà da parte di soggetti terzi, costituendo
un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, sono insuscettibili
di assurgere al rango di prove e possono, al più, rappresentare meri indizi,
che, però, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non
sono idonei a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione comunale
circa la repressione dell'abuso edilizio.
---------------
2.2. Il quadro probatorio allestito dall’amministrazione comunale
resistente a suffragio della propria determinazione declinatoria non risulta
menomato dalle contrarie allegazioni attoree (cfr. retro, in narrativa, sub
n. 3.h).
Ed invero, la Di Do. si è limitata ad esibire una risalente
riproduzione fotografica che, solo marginalmente, e del tutto
indecifrabilmente, ritrae l’area attinta dall’intervento de quo, nonché
dichiarazioni di atto di notorietà da parte di soggetti terzi, le quali,
costituendo un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, sono insuscettibili di assurgere al rango di prove e possono, al più,
rappresentare meri indizi, che, però, in mancanza –come, appunto, nella
specie– di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non sono idonei a
scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 25.05.2018, n. 3143; 22.08.2018, n. 5030)
(TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.05.2019 n. 860 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riguardo all’art. 9,
comma 1, della l. n. 122/1989, la giurisprudenza ha chiarito che la sfera
applicativa delle agevolazioni da essa contemplate, in considerazione delle
finalità della legge e in relazione al suo carattere eccezionale e
derogatorio, non può estendersi al di fuori delle ipotesi normativamente
predeterminate.
Ha, conseguentemente, statuito che la prevista deroga agli strumenti
urbanistici è da reputarsi operante, solo quando i parcheggi siano
realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali ubicati al piano terra dei
fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi –e, quindi, i parcheggi
devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche–, se
non vengano a ciò adibiti i locali (preesistenti) ubicati al piano terra di
un fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei
fabbricati.
Ora, la nozione di “sottosuolo” postulata dal citato art. 9, comma 1, della
l. n. 122/1989 non può che considerarsi di stretta interpretazione, non
potendo attingere le ipotesi –contemplate dall’art. 4 delle NTA del PRG di
Cava de’ Tirreni– di parcheggi parzialmente fuori terra (sia pure per non
oltre cm 80 rispetto al piano di campagna), ossia, in sostanza,
seminterrati.
Una opposta interpretazione ‘estensiva’ colliderebbe, infatti, con i
generali principi interpretativi, in virtù dei quali una disciplina
normativa deve essere riguardata nel complesso delle sue disposizioni, nel
contesto sistematico di riferimento e secondo canoni di logica.
Essa non determinerebbe (solo) l’ampliamento (certamente possibile) della
disciplina di favore dettata dalla normativa statale (in precipua funzione
di decongestionamento della viabilità urbana senza consumo del suolo
mediante creazione di ulteriori volumetrie fuori terra), per agevolare
(comunque entro limiti precisi) la realizzazione di parcheggi pertinenziali,
ma determinerebbe lo svuotamento dei principi fondamentali contenuti nella
l. n. 122/1989 –oltre che nel d.p.r. n. 380/2001–, ponendosi, così, in
contrasto con tutte le disposizioni di legge volte a garantire un armonioso
ed ordinato sviluppo del territorio.
Oltre a confliggere con le disposizioni contenute nella legislazione statale
di riferimento, essa risulterebbe, peraltro, anche illogica: non è
ipotizzabile che il pianificatore locale possa indiscriminatamente derogare
alla disciplina primaria per consentire la realizzazione in deroga di
cubature esterne da destinare a parcheggio, posponendo una pluralità di
interessi pubblici e privati rilevanti e tutelati dall’ordinamento ad un
interesse che, seppur rilevante, non può, di certo, essere considerato
sempre prioritario.
Ciò posto, l’art. 4 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni (avente,
all’evidenza, natura regolamentare, suscettiva di generale e reiterata
applicazione in rapporto al manifestarsi delle attività edificatorie), laddove interpretato
nel senso di consentire (anche) la realizzazione di parcheggi pertinenziali
parzialmente fuori terra non computabili nella volumetria edificabile, va,
dunque, disapplicato dall’adito giudice amministrativo, alla stregua di un
consolidato orientamento giurisprudenziale, nonché in omaggio al principio
di gerarchia delle fonti (cfr. Cons. Stato secondo cui si tratterebbe non già di una disapplicazione
in senso proprio, bensì “del risultato conseguente alla ricerca della
normativa applicabile al caso concreto, in naturale applicazione dei
principi che regolano i rapporti tra le fonti del diritto”), in quanto confliggente con la richiamata disciplina statale di rango primario;
cosicché è con esclusivo riguardo al parametro di giudizio da quest’ultima
fornito che i provvedimenti impugnati vanno sindacati e, quindi, reputati in
concreto legittimi, in quanto recanti determinazioni inibitorie e
declinatorie coerenti con l’anzidetta disciplina statale di rango primario.
---------------
5.
A quanto sopra è appena il caso di soggiungere, ad ulteriore ripudio delle
tesi attoree, che, anche a voler ammettere, per assurdo, che il garage
abusivo de quo fuoriuscisse rispetto al piano di campagna nella sua
originaria conformazione per non più dei cm 80 consentiti dall’art. 4 delle
NTA del PRG di Cava de’ Tirreni, esso non avrebbe potuto considerarsi perciò
solo legittimo.
Tanto, alla stregua di un duplice ordine di considerazioni.
a) Innanzitutto, perché la disposizione pianificatoria dianzi richiamata
assimila ai manufatti interrati i manufatti fuoriuscenti dal piani di
campagna entro il limite di quota pari a cm 80 ai soli fini del computo
della superficie utile, e non anche della volumetria.
b) Poi, perché, ad opinare diversamente, la disposizione in parola
confliggerebbe col dettato e con la ratio dell’art. 9, comma 1, della
l. n. 122/1989.
In particolare, a tenore della richiamata disposizione legislativa: «I
proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi
ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi
possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in
contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della
superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici.
Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia
paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima
legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni
culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90
giorni. I parcheggi stessi, ove i piani urbani del traffico non siano stati
redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni
di cui al periodo precedente».
Con riguardo a tale norma, la giurisprudenza ha chiarito che la sfera
applicativa delle agevolazioni da essa contemplate, in considerazione delle
finalità della legge e in relazione al suo carattere eccezionale e
derogatorio, non può estendersi al di fuori delle ipotesi normativamente
predeterminate (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2006, n. 1608).
Ha, conseguentemente, statuito che la prevista deroga agli strumenti
urbanistici è da reputarsi operante, solo quando i parcheggi siano
realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali ubicati al piano terra dei
fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi –e, quindi, i parcheggi
devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche–, se
non vengano a ciò adibiti i locali (preesistenti) ubicati al piano terra di
un fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei
fabbricati (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2004, n. 1662; 29.03.2006 n.
1608; sez. IV, 11.11.2006, n. 6065; 26.09.2008 n. 4645; TAR
Lazio, Roma, sez. I, 16.04.2008, n. 3259).
Ora, la nozione di “sottosuolo” postulata dal citato art. 9, comma 1, della
l. n. 122/1989 non può che considerarsi di stretta interpretazione, non
potendo attingere le ipotesi –contemplate dall’art. 4 delle NTA del PRG di
Cava de’ Tirreni– di parcheggi parzialmente fuori terra (sia pure per non
oltre cm 80 rispetto al piano di campagna), ossia, in sostanza,
seminterrati.
Una opposta interpretazione ‘estensiva’ colliderebbe, infatti, con i
generali principi interpretativi, in virtù dei quali una disciplina
normativa deve essere riguardata nel complesso delle sue disposizioni, nel
contesto sistematico di riferimento e secondo canoni di logica.
Essa non determinerebbe (solo) l’ampliamento (certamente possibile) della
disciplina di favore dettata dalla normativa statale (in precipua funzione
di decongestionamento della viabilità urbana senza consumo del suolo
mediante creazione di ulteriori volumetrie fuori terra), per agevolare
(comunque entro limiti precisi) la realizzazione di parcheggi pertinenziali,
ma determinerebbe lo svuotamento dei principi fondamentali contenuti nella
l. n. 122/1989 –oltre che nel d.p.r. n. 380/2001–, ponendosi, così, in
contrasto con tutte le disposizioni di legge volte a garantire un armonioso
ed ordinato sviluppo del territorio.
Oltre a confliggere con le disposizioni contenute nella legislazione statale
di riferimento, essa risulterebbe, peraltro, anche illogica: non è
ipotizzabile che il pianificatore locale possa indiscriminatamente derogare
alla disciplina primaria per consentire la realizzazione in deroga di
cubature esterne da destinare a parcheggio, posponendo una pluralità di
interessi pubblici e privati rilevanti e tutelati dall’ordinamento ad un
interesse che, seppur rilevante, non può, di certo, essere considerato
sempre prioritario.
Ciò posto, l’art. 4 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni (avente,
all’evidenza, natura regolamentare, suscettiva di generale e reiterata
applicazione in rapporto al manifestarsi delle attività edificatorie: sul
punto, cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2013, n. 4607;
sez. III, 16.04.2014, n. 1955; sez. IV, 17.11.2015, n. 5235; 19.01.2018, n. 332; TAR Lazio, Roma, sez. II,
04.01.2016, n. 25; TAR
Campania, Salerno, sez. II, 07.02.2017, n. 215), laddove interpretato
nel senso di consentire (anche) la realizzazione di parcheggi pertinenziali
parzialmente fuori terra non computabili nella volumetria edificabile, va,
dunque, disapplicato dall’adito giudice amministrativo, alla stregua di un
consolidato orientamento giurisprudenziale, nonché in omaggio al principio
di gerarchia delle fonti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.01.1992, n.
154; sez. VI, 29.04.2005, n. 2034; 02.03.2009, n. 1169; sez. IV, 16.02.2012, n. 812, secondo si tratterebbe non già di una disapplicazione
in senso proprio, bensì “del risultato conseguente alla ricerca della
normativa applicabile al caso concreto, in naturale applicazione dei
principi che regolano i rapporti tra le fonti del diritto”), in quanto confliggente con la richiamata disciplina statale di rango primario;
cosicché è con esclusivo riguardo al parametro di giudizio da quest’ultima
fornito che i provvedimenti impugnati vanno sindacati e, quindi, reputati in
concreto legittimi, in quanto recanti determinazioni inibitorie e
declinatorie coerenti con l’anzidetta disciplina statale di rango primario.
6. A questo punto, osserva il Collegio che gli scrutinati rilievi di non
conformità urbanistica dell’intervento rispetto alle previsioni degli artt.
74 e 77 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni ed al paradigma normativo
vigente in materia di parcheggi pertinenziali, nonché di inammissibilità
della ‘sanatoria con prescrizioni’ (cfr. retro, in narrativa, sub n.
2.6.a-c) costituiscono, in rapporto a quelli ulteriori –di mancata
individuazione dell’appartamento in rapporto di pertinenzialità col garage,
di incongruenza tra la documentazione grafica e fotografica esibita dalla Di
Do., di inosservanza delle distanze minime tra fabbricati e di omesso
pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 167, comma 5, del d.lgs. n.
42/2004 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.6.d-g)– nuclei motivazionali
del tutto autosufficienti e si rivelano, quindi, suscettibili di sorreggere,
di per sé, il provvedimento declinatorio del 01.03.2018, prot. n. 15217.
Fondandosi, quest’ultimo, su una motivazione plurima, solo l’accertata
illegittimità di tutti i singoli profili su cui esso risulta basato avrebbe
potuto comportare l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio del
medesimo (cfr., in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2882;
08.06.2007, n. 3020; sez. V, 28.12.2007, n. 6732;
sez. IV, 10.12.2007, n. 6325; sez. V, 17.05.2018, n. 2960; TAR
Lazio, Roma, sez. I, 08.01.2008, n. 73; sez. II, 28.01.2008, n.
608; 10.03.2008, n. 2165; 23.04.2008, n. 3505; 14.05.2008, n.
4127; 01.07.2008, n. 6346; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.03.2008,
n. 1102; Salerno, sez. II, 18.03.2008, n. 313; Napoli, sez. I, 17.06.2008, n. 5943; sez. III,
09.09.2008, n. 10065; sez. V, 05.08.2008,
n. 9774; sez. VII, 06.08.2008, n. 9861; sez. I, 07.10.2008, n. 13437;
sez. VIII, 05.05.2011, n. 2485; 01.09.2011, n. 4272; 26.04.2013, n. 2162; 09.10.2013, n. 4520;
06.03.2014, n. 1370; Salerno, sez. II, 23.03.2015, n. 660; Napoli, sez. VIII,
02.07.2015, n. 3483; TAR
Liguria, Genova, sez. II, 11.04.2008, n. 543; 26.11.2008, n. 2041;
sez. IV, 12.11.2013, n. 2511; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 27.10.2008, n. 1847; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 17.06.2008, n.
314; Bologna, sez. I, 01.02.2017, n. 54; TAR Puglia, Bari, sez. I, 11.10.2012, n. 1756; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 30.05.2013, n.
1193).
Una simile implicazione demolitoria risulta neutralizzata dalla circostanza
che l’operato dell’amministrazione si è rivelato immune da vizi, laddove
correttamente è stata rilevata l’insussistenza delle condizioni di
conformità urbanistico-edilizia in rapporto alle previsioni degli artt. 74 e
77 delle NTA del PRG di Cava de’ Tirreni ed al paradigma normativo vigente
in materia di parcheggi pertinenziali, nonché l’inaccoglibilità della
‘sanatoria con prescrizioni’ (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.05.2019 n. 860 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
civico generalizzato, la richiesta massiva non va rigettata perché
«intralcia» l'azione della PA.
L'accesso civico generalizzato non è soggetto ai limiti previsti dalla legge
241/1990, e non richiede pertanto la titolarità di un interesse strumentale
alla tutela della posizione giuridica del richiedente. Si tratta di una
forma di accesso ben più ampia di quella prevista dalla legge sul
procedimento amministrativo e risulta azionabile da chiunque, senza la
previa dimostrazione della sussistenza di un interesse attuale e concreto
per la tutela di situazioni rilevanti, senza dover motivare la richiesta e
con la sola finalità di consentire una pubblicità diffusa e integrale dei
dati, dei documenti e delle informazioni che sono considerati, in base alle
norme, come pubblici e quindi conoscibili.
Questo il principio che ha affermato il TAR Campania-Napoli, Sez. VI, con la
sentenza
26.05.2019 n. 2486, nell'esaminare il
ricorso di un cittadino contro il diniego di un'istanza di accesso
particolarmente ampia e diffusa, avente a oggetto un lungo elenco di
documenti in materia edilizia (si veda anche Il Quotidiano degli enti locali
e della Pa del 28 maggio).
Il fatto
Per tutelare la propria posizione giuridica rispetto a un altro giudizio in
corso, il ricorrente ha chiesto al Comune copia:
• di tutte le licenze commerciali di qualunque natura rilasciate
dall'ente locale;
• di tutti i certificati di agibilità di dette attività commerciali
(alberghi, ristoranti, negozi, eccetera);
• delle domande di condono non ancora evase ovvero a cui non è
stata ancora concessa la sanatoria in relazione a immobili in cui vengono
esercitate attività commerciali per le quali è stata rilasciata licenza di
commercio;
• di tutte le continuità d'uso rilasciate per immobili sottoposti a
pratica di condono non ancora esaminata e concessa.
La richiesta è estremamente vasta e indefinita, tanto da indurre il Comune a
opporre un diniego motivato dal fatto che l'accoglimento dell'istanza
sarebbe stata una causa d'intralcio al corretto disimpegno dell'azione
amministrativa.
Inoltre, secondo l'ente una simile istanza massiva non può essere
rispondente al soddisfacimento di un interesse con valenza pubblica, ma
appare confinata a un mero bisogno conoscitivo di carattere egoistico e
individuale.
L'analisi della Tar
Per quanto riguarda l'intralcio all'azione amministrativa che potrebbe
effettivamente comportare, un'istanza di accesso riguardante una mole
smisurata di documenti, il Tar eccepisce che il Comune ha motivato in modo
insufficiente l'atto di diniego, senza cioè indicare l'eventuale pregiudizio
arrecato a interessi pubblici o privati, e facendo un generico riferimento a
«un carico di lavoro per l'amministrazione in grado di interferire con il
buon funzionamento della stessa».
Tenuto conto di ciò, l'ente pubblico non
avrebbe dovuto procedere al rigetto definitivo dell'istanza, bensì attivare
un dialogo formale con il soggetto interessato, rappresentando a quest'ultimo
l'esigenza di delimitare il proprio ambito di conoscenza entro limiti più
contenuti. Di conseguenza, il Tar ha annullato il provvedimento impugnato,
ordinando una nuova interlocuzione procedimentale tra il Comune e il
richiedente con le finalità sopra enunciate
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.05.2019). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il
Comune deve l’onorario all'avvocato anche se l'impegno di spesa è scoperto.
Non è nullo l'impegno di spesa assunto dal Comune nei confronti di un
avvocato senza copertura finanziaria, se l'incarico per la partecipazione
dell'ente locale a una controversia giudiziaria è stato deliberato.
La Corte di Cassazione - Sez. I civile, con la
ordinanza 22.05.2019 n. 13913, ha rigettato il ricorso di un Comune che si opponeva
al pagamento di un maggior importo per il compenso professionale derivante
da patrocinio. Le spese di giudizio non sono, infatti, determinabili a
priori e vanno coperte attraverso l'imputazione al capitolo di bilancio
«spese processuali».
La copertura
Non ha avuto quindi rilievo in termini di illegittimità che l'avvocato sia
stato incaricato con determina del responsabile dell'ufficio amministrativo
comunale il quale rinviava la copertura e la determinazione del compenso
all'approvazione del bilancio di previsione e al progetto di parcella da
trasmettere a cura del legale unitamente al parere di congruità dell'ordine
degli avvocati.
Invocato l'articolo 191 del Tuel, a sostegno della tesi
dell'invalidità della determina in assenza di corrispondente impegno di
spesa, il Comune -dice la Cassazione- avrebbe dovuto dimostrare i punti
dolenti dell'iter amministrativo seguito per l'attribuzione dell'incarico
senza previa determinazione del compenso e del successivo conseguente
stanziamento di risorse per pagare la prestazione professionale.
La forma scritta
Il Comune sosteneva, inoltre, l'invalidità dell'atto di conferimento
dell'incarico anche per l'assenza della forma scritta -richiesta ad substantiam per gli atti della Pa- sulla determinazione del compenso da
riconoscere al professionista. I giudici di legittimità oltre ad aver
rilevato l'indeterminabilità preventiva di quanto dovuto per il patrocinio
sul punto della forma scritta sembrano accogliere l'argomento del controricorso secondo il quale la stipula per iscritto della procura alle
liti integra la forma prescritta del contratto di patrocinio.
Il compenso
La successiva determinazione da parte dell'ente del compenso, all'atto di
approvazione dei capitoli di spesa, non è esplicitamente illustrata dal
Comune per giustificare la congruità del compenso e soprattutto la
vincolatività di tale determinazione. Non è stata fornita la dovuta prova
documentale di un accordo vincolante sul punto del compenso tra ente locale
e avvocato. Non poteva quindi lamentarsi il Comune per la mancata preventiva
determinazione del compenso professionale in caso di procura alle liti in
quanto non scatta la nullità delle delibere degli enti locali per omissione
dell'indicazione della spesa.
Sono, infatti, affette da nullità quelle che implicano spese certe e
definitive. E non quelle che comportano spese non determinabili. Neanche
rileva sulla legittimità della notula presentata dal professionista con
visto di congruità dell'ordine che vi sia stata una copertura per un
compenso inferiore in base al bilancio successivamente approvato
all'incarico.
Niente impedisce -anche a fronte dell'utilità derivata dai compiti
professionali svolti a vantaggio del Comune- che si tratti di pagamento
parziale del compenso non definito con liquidazione successiva nella sua
interezza e in rispondenza alle tariffe professionali
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2019).
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MASSIMA
10. Con l'unico motivo di ricorso il Comune di Lariano
contesta la decisione del tribunale perché fondata su una
lettura esclusivamente privatistica dell'incarico
professionale e non ha considerato, disattendendo così
oltre al dettato legislativo menzionato nella rubrica del
ricorso, anche l'insegnamento della giurisprudenza di
legittimità (Cass. civ. S.U. n. 13831 del 25.06.2005 e
seguenti) secondo cui gli enti pubblici possono assumere
validamente e vincolativamente obbligazioni nei confronti
di un professionista solo se la delibera di affidamento
dell'incarico professionale contenga la determinazione
dell'ammontare del compenso dovuto e dei mezzi per farvi
fronte.
La inosservanza di tali prescrizioni determina la
nullità, rilevabile di ufficio, della delibera che si estende al
contratto di opera ed esclude la sua idoneità a costituire
titolo per il pagamento del compenso. Nel caso di specie
secondo il Comune ricorrente è pacifico che non sia
intervenuto alcun accordo per la determinazione del
compenso e pertanto la domanda di pagamento di una somma ulteriore rispetto
a quella corrisposta doveva
essere respinta.
11. Con il controricorso l'avv. Fi. eccepisce
l'inammissibilità del motivo di ricorso rilevando che la
nullità derivata del contratto di opera professionale non è
mai stata eccepita o rilevata nel corso del giudizio. Nel
merito l'avv. Fi. rileva che anche se il giudice del
merito avesse verificato di ufficio la validità
dell'obbligazione assunta dal Comune ai sensi dell'art. 191
T.U.E.L., unica norma fra quelle richiamate dal ricorrente
ancora in vigore, avrebbe riscontrato che:
a) la determina
comunale di conferimento di incarico n. 242 del 01.06.2006 attesta la volontà dell'ente locale di richiedere al
professionista la sua prestazione d'opera;
b) sussiste una
stipulazione in forma scritta costituita dalla procura alle
liti che, secondo la giurisprudenza (Cass. civ. sez. II, n.
10707 del 15.05.2014), integra i requisiti della forma
scritta ad substantiam del contratto di patrocinio;
c) non
è mancata la determina di impegno di spesa da parte
dell'ente locale dato che il Comune con la determina n.
192 del 27.07.2006 ha provveduto in tal senso se pure
in misura insufficiente rispetto alla richiesta di compenso
del professionista e ha, ai sensi del combinato disposto
dell'art. 191, c. 4, e dell'art. 194 del T.U.E.L., assunto una
valida obbligazione per l'intero compenso parzialmente fuori bilancio ma
ugualmente vincolante per la utilità e
l'arricchimento che ne sono derivati all'amministrazione
comunale.
12. Come rilevato dal Procuratore Generale, la validità della
delibera secondo i parametri normativi di cui al T.U.E.L.
(art. 191), come costantemente interpretati dalla
giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. 13831/2005,
10640/2007, 18144/2008, 26657/2014) non è venuta in
discussione nel giudizio di merito in quanto non si è
trattato di un profilo sollevato d'ufficio dai giudici del
merito né prospettato dalla difesa del Comune.
Ciò non
impedisce il rilievo in questo giudizio di tale questione -
che appartiene ab origine, e sia pure indirettamente, al thema decidendum della controversia, consistente nella
determinazione del compenso spettante al professionista
e nella verifica e della validità dell'impegno assunto dalle
parti.
Tuttavia in conformità a quanto argomentato dal
P.G. nella sua requisitoria deve rilevarsi che spettava al
Comune -nel momento in cui ha voluto prospettare tale
questione, proponendo su di essa il ricorso per
cassazione,- consentire la verifica del procedimento di
formazione della volontà dell'ente sia per ciò che riguarda
la decisione del Comune di conferire l'incarico
professionale all'avv. Fi. (accertamento che è ormai
incontroverso sulla base della più volte citata determinazione n. 242/2006 e
del successivo rilascio della
procura alle liti). Sia per ciò che riguarda l'impegno di
spesa conseguente all'incarico.
Ma sotto questo ulteriore
profilo la proposizione dell'eccezione di nullità avrebbe
richiesto, da parte del Comune, una acquisizione
documentale che non vi è stata nel giudizio di merito
laddove l'amministrazione comunale per giustificare la
corresponsione di un compenso inferiore a quello
corrispondente al giudizio di congruità dell'ordine
professionale avrebbe dovuto dimostrare il contenuto e la
vincolatività dell'accordo relativo al compenso e del suo
corrispondente recepimento nella determinazione relativa
all'impegno di spesa. Quanto alla mancanza di un accordo
preventivo sul compenso, ritenuta esplicitamente dal
giudice dell'appello, il Comune non ha proposto
impugnazione. Quanto all'impegno di spesa, anche in
questa fase del giudizio, è rimasto non chiarito quale sia
stato l'importo assunto definitivamente dal Comune con
la determinazione n. 192 del 27.07.2006.
Né è
dirimente considerare, come lo stesso avv. Fi.
riconosce nel controricorso, che l'impegno di spesa
assunto con la determinazione in questione del luglio 2006
fu inferiore alla successiva richiesta contenuta nella
parcella vistata dal Consiglio dell'ordine del 26.09.2006. Infatti ben potrebbe essere stato l'impegno di spesa determinato nella
determinazione del precedente mese di
luglio corrispondente a un primo e non esaustivo esborso
previsto dal Comune in funzione della attività del
professionista.
A tale proposito va richiamata la
giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. S.U. n. 11098
del 26.07.2002) secondo cui la nullità di diritto per gli
impegni di spesa assunti senza attestazione della
copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio
finanziario, non afferisce alle deliberazioni aventi ad
oggetto la partecipazione degli enti territoriali a
controversie giudiziarie, tenuto conto che le spese
giudiziarie non sono concettualmente determinabili
all'atto della relativa assunzione e che le stesse sono da
imputare al capitolo di bilancio "spese processuali",
concernente in genere gli oneri per le liti attive e passive,
trovando in tale voce sufficiente copertura.
In generale,
secondo la giurisprudenza di legittimità, la nullità, sancita
dalla legge, per le delibere degli enti locali come
conseguenza dell'omessa indicazione della spesa ivi
prevista e dei mezzi per farvi fronte, riguarda solo le
delibere implicanti un esborso di somme certe e definitive,
e non è applicabile nel caso di spesa non determinabile al
momento della relativa assunzione (Cass. civ., sez. III, n.
17056 dell'11.07.2017) e sotto questo profilo è pacifico
che con la determina del giugno 2006 si diede atto della volontà
dell'amministrazione di riconoscere la notula
definitiva con il visto di congruità del C.O.A. e di disporre
la copertura finanziaria a seguito dell'approvazione del
bilancio di previsione per l'anno 2006. |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva - Mediante modifica di destinazione
d'uso di immobili - Frazionamento di un complesso
immobiliare - Fattispecie: albergo o struttura assimilata
per finalità turistico-ricettiva adibita a residenziale -
Art. 11, L.R. Emilia Romagna n. 16/2004 - Artt. 30, 44,
D.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Configura il reato di lottizzazione
abusiva la modifica di destinazione d'uso di immobili
oggetto di un piano di lottizzazione attraverso il
frazionamento di un complesso immobiliare, di modo che le
singole unità perdano la originaria destinazione d'uso
alberghiera per assumere quella residenziale, atteso che
tale modificazione si pone in contrasto con lo strumento
urbanistico costituito dal piano di lottizzazione.
Quel che rileva, dunque, non è il regime proprietario della
struttura, ma la configurazione della stessa (anche se
appartenente a più proprietari) come albergo o struttura
assimilata per finalità turistico-ricettiva (come nel caso
di specie), ed una configurazione siffatta deve essere
caratterizzata dalla "concessione in locazione delle unità
immobiliari ad una generalità indistinta ed indifferenziata
di soggetti e per periodi di tempo predeterminati".
Difettando la quale, non si ha più
destinazione/utilizzazione (per l'appunto)
turistico-ricettiva, bensì residenziale
(per un diffuso richiamo giurisprudenziale, tra le altre,
Sez. 3, n. 4248 del 15/01/2019, Diana+altri).
...
Reati urbanistici - Case e appartamenti per vacanze ed
intento lottizzatorio abusivo - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE -
Pianificazione del territorio - Violazione di legge e della
volontà della P.A..
In materia urbanistica, configura il
reato di lottizzazione abusiva aggirare la norma di cui
all'art. 11, L.R. Emilia Romagna n. 16/2004, vendendo
singoli appartamenti con finalità turistico-ricettiva a
soggetti privati, che a questo punto nessuno potrebbe
vietare di stabilirsi in via permanente, in spregio allo
spirito della legge e della volontà della P.A. al momento
della pianificazione del territorio, appare evidente sintomo
dell'intento lottizzatorio abusivo, alla luce della
definizione dell'art. 30, d.P.R. n. 380 del 2001
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.05.2019 n. 22038 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: Lottizzazione
cartolare.
Non si può escludere che
il contratto di locazione, in quanto
costitutivo di un diritto personale di
godimento in capo al conduttore, assicuri a
quest’ultimo la disponibilità materiale e il
godimento dell’immobile e pertanto possa
integrare, al pari degli atti di
compravendita, uno degli elementi
costitutivi della fattispecie della
lottizzazione cartolare
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 3215 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
8.1. Occorre premettere alla disamina dei
rilievi sollevati dalla parte appellante che
il provvedimento impugnato in prime cure,
siccome risalente ad epoca antecedente
all’intervento del testo unico edilizia,
d.P.R. n. 380 del 06.06.2001, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del
20.10.2001, soggiace alla disciplina,
ratione temporis vigente, di cui alla
legge n. 47 del 1985, il cui art. 18
(rubricato “Lottizzazione”) non
presenta però significative differenze
rispetto alla normativa intervenuta dopo
pochi mesi con la promulgazione del Testo
unico sull’edilizia (D.P.R. n. 380/2001 e
successive modifiche ed integrazioni).
Ne consegue che la disamina dei rilievi
sollevati, sebbene calibrati con riferimento
al citato articolo 18, ben può giovarsi
delle riflessioni giurisprudenziali maturate
con riguardo alla disciplina posteriore di
cui al menzionato Testo unico.
Orbene, la lottizzazione
abusiva è oggi disciplinata dall’art. 30 del
d.P.R. n. 380 del 06.06.2001, dal quale si
evince che tale illecito si consuma nel caso
di qualsiasi tipo di opera in concreto
idonea a stravolgere l’assetto del
territorio preesistente ed a realizzare un
nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a
determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione del
territorio (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto
carico urbanistico.
In particolare, a norma del succitato art.
30, comma 1 “si ha
lottizzazione abusiva di terreni a scopo
edificatorio quando vengono iniziate opere
che comportino trasformazione urbanistica od
edilizia dei terreni stessi in violazione
delle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o
senza la prescritta autorizzazione”.
E’ ben noto tuttavia che la
fattispecie lottizzatoria può consolidarsi
innanzitutto nella veste di c.d.
lottizzazione “materiale” o “sostanziale”,
che si realizza attraverso l’avvio non
autorizzato di opere finalizzate alla
trasformazione urbanistica di terreni in
zona non adeguatamente urbanizzata in
violazione della disciplina a quest’ultima
impartita dalla legislazione e dagli
strumenti pianificatori.
In particolare, come evidenziato da questo
Consiglio, siffatti
interventi devono risultare globalmente
apprezzabili in termini di trasformazione
urbanistico-edilizia del territorio, di
aggravio del relativo carico insediativo e,
soprattutto, di pregiudizio per la potestà
programmatoria attribuita
all’amministrazione; devono, cioè, valutarsi
alla luce della ratio del citato art. 30 del
d.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene
giuridico tutelato risiede nella necessità
di salvaguardare detta potestà
programmatoria, nonché la connessa funzione
di controllo, posta a garanzia dell’ordinata
pianificazione urbanistica, del corretto uso
del territorio e della sostenibilità
dell’espansione abitativa in rapporto agli
standard apprestabili
(Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416).
Per altro verso, dalla formulazione della
medesima norma è possibile evincere che
tale illecito può assumere anche le
sembianze della cd. lottizzazione
cartolare, “quando tale
trasformazione venga predisposta attraverso
il frazionamento e la vendita, o atti
equivalenti, del terreno in lotti che, per
le loro caratteristiche quali la dimensione
in relazione alla natura del terreno e alla
sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l’ubicazione o la
eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi
riferiti agli acquirenti, denuncino in modo
non equivoco la destinazione a scopo
edificatorio”.
8.2. Premesso il doveroso inquadramento
giudico della vicenda di causa, non resta
che transitare alla disamina dei rilievi di
parte appellante, evidenziando che, dal
tenore del provvedimento impugnato, è dato
inferire che l’Amministrazione ha
configurato la fattispecie lottizzatoria
nella sua duplice veste sia materiale,
alla luce delle consistenze edilizie
riscontrate in loco, sia cartolare,
integrata dall’adozione degli “atti
equivalenti” di cui discorre la norma
con conseguente frazionamento del terreno in
lotti soggetti a distinto ed autonomo
godimento.
8.3. Non coglie nel segno il primo motivo
di appello, con il quale si lamenta che il
Tribunale avrebbe dovuto attribuire rilievo
patologico alla mancata notifica nei
riguardi del proprietario/ricorrente di
primo grado dell’ordinanza impugnata, in
quanto la notificazione, in ossequio ad un
consolidato insegnamento giurisprudenziale,
consiste in un’attività partecipativa, di
integrazione dell’efficacia, estrinseca alla
formazione della volontà
dell’Amministrazione.
Proprio in ordine alla
denunciata omessa notificazione ad uno dei
comproprietari di un’ordinanza comunale che
contestava la realizzazione della
fattispecie della lottizzazione abusiva,
questo Consiglio, di recente, ha confermato
“la diffusa giurisprudenza di primo grado
secondo cui tale omissione non incide sulla
legittimità del provvedimento repressivo, ma
unicamente sulla sua efficacia,
determinandone l’inopponibilità al
comproprietario pretermesso, ed
eventualmente incidendo sull’opponibilità
della successiva acquisizione dell’immobile
al patrimonio comunale (questione, quest’ultima,
che in ogni caso deve essere lo stesso
soggetto pretermesso a far valere)”
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2016, n.
26).
8.4. Infondato risulta anche il secondo
motivo di appello, con cui si insiste
nel ravvisare il vizio di eccesso di potere
assumendo l’evidente falsità ed errore nei
presupposti del provvedimento.
L’appellante, infatti, ritiene che i tre
contratti di locazione stipulati a partire
dal 1994, che hanno determinato la divisione
del terreno oggetto della controversia in
quattro lotti, non possono essere equiparati
alla vendita, né fatti rientrare nella
categoria dei c.d. “atti equivalenti”
che il comma 7 dell’art. 30 d.P.R. n. 380
del 2001 equipara alla vendita.
In realtà l’attività negoziale è presa in
considerazione dalla norma quale strumento
per il perseguimento dell’intento
lottizzatorio e, quindi, quale indice della
sussistenza di tale intento, il quale deve
peraltro trovare conferma anche in altre
circostanze, che rendano evidente la non
equivocità della destinazione a scopo
edificatorio; ne consegue che
non è decisiva la qualificazione
giuridica dell’attività negoziale secondo
gli schemi contemplati dalla disciplina
civilistica quanto piuttosto la sua
possibile preordinazione allo scopo
edificatorio.
Non si può escludere che il
contratto di locazione, in quanto
costitutivo di un diritto personale di
godimento in capo al conduttore, assicura a
quest’ultimo la disponibilità materiale ed
il godimento dell’immobile e pertanto può
integrare, al pari degli atti di
compravendita, uno degli elementi
costitutivi della fattispecie della
lottizzazione cartolare.
Per quanto poi attiene alla
posizione giuridica del proprietario della
res data in locazione non deve essere
trascurato il fatto che questi assume, dopo
la stipula del contratto, doveri di
controllo, cura e vigilanza in modo da non
solo mantenere un effettivo potere fisico
sull’entità immobiliare locata, ma anche di
avvedersi della realizzazione dell’abuso
così da impedirne la realizzazione o
agevolarne la rimozione non appena venutone
a conoscenza. La condizione giuridica che
compete al locatore ed il coacervo di poteri
che ne derivano fanno sì che questi ben
poteva avvedersi dell’abusiva trasformazione
dei terreni in senso edilizio e ciò consente
di escludere, in termini di adeguata
verosimiglianza, che possa ravvisarsi
l’asserita buona fede dell’appellante.
Né la fattispecie di cui all’art. 30
richiede che l’Amministrazione effettui una
indagine sulla ricorrenza dell’elemento
psicologico della mala fede.
Si afferma, infatti, da parte di
condivisibile giurisprudenza che è sì
necessaria l’acquisizione di un sufficiente
quadro indiziario, dal quale possa desumersi
la destinazione a scopo edificatorio degli
atti posti in essere
(Consiglio di Stato, sez. VI, 18.03.2019, n.
1759), ma occorre
prescindere dallo stato soggettivo di buona
o mala fede dei lottizzanti giacché
l’illecito si fonda sul dato oggettivo
dell’intervenuta illegittima trasformazione
urbanistica del territorio, fatta salva la
tutela in sede civile
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 26/2016 cit.).
Ne consegue che nemmeno possono essere
valorizzate in questa sede le pronunce del
giudice civile, assunte a seguito delle
procedure di sfratto attivate dai
proprietari del fondo nei riguardi dei
conduttori, così come documentato nel corso
del presente giudizio, trattandosi di
vicende che attengono ai rapporti
interprivati e che alcun rilievo hanno ai
fini della verifica della fattispecie
lottizzatoria.
8.5. Infondate sono anche le ulteriori
critiche sollevate dall’appellante,
suscettibili di trattazione congiunta per il
loro stesso tenore. Sul punto, l’appellante
contesta che sussistano i presupposti per
configurare la fattispecie lottizzatoria
nella sua veste materiale per la ridotta
consistenza delle opere rinvenute sul
terreno oltre che per le modeste dimensioni
dei lotti derivanti dalla stipula dei
contratti di locazione.
Anche tali rilievi non risultano
convincenti, dovendosi quindi confermare le
osservazioni rese dal Tribunale conducenti
alla legittimità dell’ordinanza impugnata in
prime cure.
Basti pensare al fatto che le opere edilizie
insistenti sulle aree sono numerose e
significative sul piano edilizio (ad es.
tettoie, box con fornelli e acqua corrente
adibiti ad ufficio, manufatto in legno di
mt. 15 x 4, etc.), tanto che appaiono
oggettivamente incompatibili con la
destinazione agricola dell’area così da
integrare la contestata fattispecie
lottizzatoria. Gli
interventi che danno luogo a lottizzazione
possono, peraltro, sostanziarsi tanto in
opere edilizie quanto in opere di
urbanizzazione, ossia, ad esempio, nella
realizzazione di manufatti, soprattutto se
suscettibili di stravolgere, per le relative
caratteristiche, la destinazione del suolo,
siccome avulsi da ogni connessione
funzionale con quest’ultima
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2010, n.
3475).
La fattispecie richiede
quindi una visione globale di approccio alla
fattispecie
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.03.2013, n.
1809) che prescinda da una
valorizzazione rapsodica ed atomistica dei
singoli manufatti, siccome destinati ad
assumere rilievo nella loro complessiva
consistenza.
Nel caso di specie viene in evidenza che il
fondo è stato interessato, oltre che dalla
stipula di atti interprivati in grado di
provocarne il frazionamento in termini
funzionali, dalla realizzazione di opere
edilizie che, come correttamente osservato
dal Tribunale, appaiono complessivamente
preordinati alla destinazione dei singoli
lotti per finalità non coerenti con la
originaria vocazione agricola dell’area.
Tali concorrenti profili fattuali della
vicenda sono stati congiuntamente
valorizzati nel quadro motivazionale
dell’atto impugnato in prime cure, ove si
discorre di “atti equivalenti”
alludendo così proprio ai contratti di
locazione a suo tempo stipulati dal signor
Fa..
Ne consegue che non può essere condiviso
quanto lamentato in appello a proposito
dell’asserita discordanza tra la motivazione
dell’ordinanza e le considerazioni del
Tribunale a sostegno della decisione
reiettiva, in entrambi i casi infatti
focalizzate sui contratti di locazione
intercorsi tra la proprietà e i lottisti.
9. In conclusione, l’appello in esame è
infondato e deve essere respinto. |
URBANISTICA: Il
piano di lottizzazione (o altro strumento di pianificazione attuativa) e lo
schema di convenzione ad esso allegato costituiscono atti distinti ma
giuridicamente connessi, la cui approvazione non può che avvenire
contestualmente da parte dell'unico organo al quale, nell'ambito dell'ente
locale, è attribuito l'indirizzo politico-amministrativo in relazione alla
pianificazione del territorio, e cioè da parte del Consiglio comunale.
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Il Collegio osserva che secondo quanto ormai pacificamente affermato dalla
giurisprudenza, «Il piano di lottizzazione (o altro strumento di
pianificazione attuativa) e lo schema di convenzione ad esso allegato
costituiscono atti distinti ma giuridicamente connessi, la cui approvazione
non può che avvenire contestualmente da parte dell'unico organo al quale,
nell'ambito dell'ente locale, è attribuito l'indirizzo
politico-amministrativo in relazione alla pianificazione del territorio, e
cioè da parte del Consiglio comunale» (TAR Sicilia, Catania, sez. I,
09/10/2017, n. 2366; Consiglio di Stato sez. IV, 03/01/2017, n. 4; Consiglio
di Stato sez. IV, 15/05/2017, n. 2256; TAR Toscana, Firenze, sez. I,
18/04/2017, n. 591).
Considerato, dunque, che nella fattispecie la determinazione finale sulla
chiesta approvazione del proposto Piano di lottizzazione è stata adottata
dal Responsabile ad interim dello Staff Edilizia ed Urbanistica e non
dal Consiglio Comunale di Pace del Mela, il dedotto vizio di incompetenza è
fondato e, per l’effetto, il ricorso va accolto e l’impugnato provvedimento
va annullato
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 20.05.2019 n. 1201 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'affidamento di mansioni dirigenziali temporanee non incide
sull'indennità di buonuscita.
La Suprema Corte di Cassazione -
Sez. lavoro, con l'ordinanza
17.05.2019 n.
13431, ha ribadito il principio di diritto espresso dalle
Sezioni Unite in materia di liquidazione della buonuscita al dipendente
pubblico cessato dal servizio con mansioni superiori, senza aver conseguito
la qualifica di dirigente.
Più precisamente, le Sezioni Unite hanno risolto la controversia della
giurisprudenza di legittimità statuendo che, nel regime di indennità di
buonuscita spettante, ai sensi degli artt. 3 e 38 del Dpr 1031/1973, al
dipendente pubblico cessato dal servizio con incarico dirigenziale
temporaneo di reggenza, ai sensi dell’art. 52, Dlgs 165/2001, nella base di
calcolo dell’indennità va considerato lo stipendio relativo alla qualifica
di appartenenza e non quello corrisposto per il temporaneo esercizio delle
mansioni di dirigente (Cass., Sez. Un., 14.05.2014, n. 10413; Cass.
24.11.2016, n. 24099).
Il caso in esame riguarda un dipendente pubblico che aveva intimato all’Inpdap
il pagamento delle differenze retributive per le mansioni superiori svolte,
diritto che gli era stato riconosciuto con sentenza passata in giudicato.
Il Tribunale di Benevento e, successivamente, la Corte d’Appello di Napoli
avevano rigettato l’opposizione, avverso il decreto ingiuntivo, proposta
dall’Inps. Secondo la Corte territoriale, in ossequio al principio espresso
dalla stessa Cassazione con sentenza n. 9646/2012, l’indennità di buonuscita
dei dipendenti statali, pur realizzando una funzione previdenziale, aveva
natura retributiva e, alla luce del principio di proporzionalità di cui
all’articolo 36 della Costituzione, doveva essere commisurata all’ultima
retribuzione percepita, anche se relativa a mansioni superiori, purché
svolte con pienezza di poteri e responsabilità.
L’Inps ha proposto ricorso per Cassazione contestando che l’espressione “stipendio”
va riferita a quello maturato dal lavoratore alla data di cessazione del
rapporto per la qualifica di appartenenza, non certo a quello percepito per
incarichi di qualifica superiore a carattere temporaneo.
La Cassazione ha ritenuto il motivo fondato, ricordando che le Sezioni Unite
sono intervenute a comporre il contrasto giurisprudenziale, formatosi
all’interno della Sezione Lavoro, enunciando il principio di diritto in base
al quale “nella base di calcolo dell’indennità va considerato lo stipendio
relativo alla qualifica di appartenenza e non quello corrispondente per il
temporaneo esercizio delle superiori mansioni di dirigente” (Sez. Un.,
14.05.2014, n. 10413).
La successiva giurisprudenza, infatti, si è unanimemente conformata alla
posizione delle Sezioni Unite, considerando come retribuzione, utile ai fini
del calcolo delle prestazioni previdenziali erogate dall’Inps, unicamente lo
stipendio lordo, eventuali assegni personali ed altre competenze a carattere
fisso e continuativo, escludendo dal computo tutte le indennità ed i
compensi corrisposti a titolo di trattamento accessorio, quali le differenze
retributive per mansioni superiori, la cui peculiare disciplina, nel
pubblico impiego contrattualizzato, è stata introdotta dall’articolo 25,
Dlgs 80/1998 e, poi, trasfusa nell’articolo 52, Dlgs 165/2001.
Il legislatore ha inteso escludere che l’attribuzione di mansioni superiori
possa avere alcun effetto sulla carriera del dipendente e ha limitato il
diritto a percepire il trattamento economico corrispondente alla qualifica
superiore, temporaneamente ricoperta, al periodo di svolgimento effettivo
della prestazione.
Le relative attribuzioni stipendiali, pertanto, non dipendono dalla
qualifica di appartenenza e dall’anzianità di servizio, ma costituiscono
voci retributive collegate all’effettività ed alla durata della prestazione
superiore e sono prive di effetti ai fini dell’inquadramento del lavoratore
nella qualifica superiore.
D’altronde, riconoscere l’incidenza dell’incarico di reggenza sul calcolo
dell’indennità di buonuscita, equivarrebbe ad attribuire un valore
ultrattivo alle mansioni superiori, sia per il passato che per il futuro,
dal momento che il diritto alla buonuscita si consegue quando la prestazione
è cessata. Inoltre, si finirebbe per riconoscere implicitamente che, nella
rotazione degli incarichi dirigenziali, possa essere favorito il dipendente
che va in quiescenza durante lo svolgimento della reggenza, rispetto a chi
ha svolto l’incarico in un momento diverso
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Niente
risarcimento da ritardo se l'Ente può ancora provvedere.
Non può essere proposta l'azione di risarcimento per danno da ritardo
sull'istanza di adeguamento delle tariffe, rivolta all'autorità d'ambito del
servizio idrico, se quest'ultima può ancora provvedere.
Il TAR Sardegna, Sez. I, con la
sentenza
10.05.2019 n. 399,
fa il punto sulla fattispecie del danno da mero ritardo che causa danni non
risarcibili ma solo indennizzabili.
Il fatto
La società affidataria della gestione del servizio idrico integrato in
Sardegna, sulla base della convenzione stipulata con l'autorità d'ambito
(oggi ente di governo dell'ambito della Sardegna, Egas), ha chiesto
l'accertamento dell'illegittimità del silenzio dell'Egas in ordine alla
mancata adozione dei provvedimenti, compresi quelli di adeguamento delle
tariffe, occorrenti per formalizzare l'affidamento alla ricorrente della
gestione della rete idrica. Ha domandato altresì la condanna dell'Egas al
risarcimento del danno subito per il ritardo nell'adozione dei
provvedimenti.
La giurisprudenza
L'articolo 2-bis della legge 241/1990, introdotto dall'articolo 7 della
legge 69/2009, ha dato configurazione normativa al danno da ritardo, prima
delineato dalla giurisprudenza amministrativa.
In base al comma 1 del predetto articolo «Le pubbliche amministrazioni e i
soggetti di cui all'articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del
danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa
del termine di conclusione del procedimento». Al «danno da ritardo» sono
riconducibili l'ipotesi in cui sia stato tardivamente adottato il
provvedimento richiesto, quella in cui il procedimento si sia concluso
(tardivamente) con un provvedimento legittimo, ma negativo; e la mera
inerzia dell'amministrazione, protratta oltre la durata del termine fissato
per la conclusione del procedimento.
Le ultime due fattispecie integrano il danno da «mero ritardo», che
prescinde dall'accertamento della spettanza del bene della vita finale.
La giurisprudenza ha riconosciuto rilevante l'inadempimento del generico
dovere, sorto in relazione al «contatto procedimentale», e ha evidenziato
come il danno possa consistere nelle perdite economiche, subite in
conseguenza della scorrettezza del comportamento tenuto dalla
amministrazione, indipendentemente dalla spettanza del bene della vita.
Dopo l'entrata in vigore dell'articolo 2-bis della legge 241/1990 essa ha
apprezzato l'orientamento restrittivo: occorre accertare la spettanza del
bene vita per poter riconoscere una tutela risarcitoria al danno da ritardo
dell'azione amministrativa.
L'analisi del Tar
Secondo i giudici gli atti riservati all'autorità d'ambito, previsti dagli
articoli 15, comma 7 e 39, della convenzione vigente tra Abbanoa Spa ed Egas,
postulano dei contenuti che implicano valutazioni tecniche riservate, da
effettuare dopo ulteriori e complessi accertamenti istruttori.
I provvedimenti da adottare costituiscono espressione di valutazioni
tecnico-discrezionali per le quali si applicano svariate regole tecniche,
caratterizzate anche dalla opinabilità nella scelta dei procedimenti tecnici
da seguire.
Pertanto il giudice non può pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa e
sulla spettanza del provvedimento favorevole e non può formulare una
valutazione sostitutiva, sia pure soltanto a fini risarcitori.
I giudici sardi hanno sottolinea che, nel caso di attività amministrativa
discrezionale e del danno da ritardo, serve un giudizio del giudice, che
deve apprezzare in termini probabilistici l'attribuzione dell'utilità
oggetto del provvedimento.
Ma quando, come nella fattispecie, l'amministrazione ha ancora la
possibilità di provvedere il giudice non può sostituirsi alle valutazioni
riservate alla Pa esprimendo un giudizio prognostico sulla spettanza del
provvedimento e, quindi, sull'esito del procedimento in termini favorevoli
per il privato. In questi casi l'azione risarcitoria è inammissibile, ma può
essere riproposta solo dopo l'emanazione del provvedimento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.06.2019).
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SENTENZA
13. - Il ricorso è infondato.
14. - La ricorrente invoca l’applicabilità alla fattispecie in esame
dell’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990, secondo cui «Le
pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter,
sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento».
Come è noto, la norma disciplina il c.d. “danno da ritardo”,
espressione con la quale ci si riferisce sia all’ipotesi in cui
l’amministrazione abbia tardivamente adottato il provvedimento richiesto,
sia all’ipotesi in cui il procedimento si sia concluso (tardivamente) con
l’emanazione di un provvedimento negativo, pur se legittimo; sia, infine,
all’ipotesi di mera inerzia dell’amministrazione, ossia il caso in cui
l’inerzia dell’amministrazione si sia protratta oltre la durata del termine normativamente previsto per la conclusione del procedimento (le due ultime
ipotesi integrano le figure del c.d. danno da “mero ritardo”).
Nell’esame della norma richiamata, il riferimento all’ingiustizia del danno
induce a ritenere che anche la fattispecie di responsabilità
dell’amministrazione descritta dall’art. 2-bis sia inquadrabile nel modello aquiliano di cui all’art. 2043 c.c., che secondo l’indirizzo dominante
(quantomeno nella giurisprudenza amministrativa, conforme alla sentenza
della Cassazione n. 500 del 1999) rappresenta il punto di riferimento
fondamentale per la responsabilità civile dell’amministrazione in tema di
danni cagionati dall’illegittima attività amministrativa (per tutte, si veda
Consiglio di Stato, Sez. V, 18.06.2018, n. 3730).
15. - Sicché, ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria, incombe
in capo alla ricorrente l’onere di dimostrare la sussistenza di tutti gli
elementi tipici della fattispecie di responsabilità, ossia:
a) il fatto illecito costituito da una condotta antigiuridica della
P.A., rappresentata dall’attività amministrativa illegittima;
b) l’evento dannoso, e cioè il danno ingiusto rappresentato dalla
lesione della situazione sostanziale protetta di cui il privato è titolare;
c) il nesso di causalità tra illegittimità e danno;
d) l’elemento soggettivo, nel senso che l’attività illegittima deve
essere imputabile all’amministrazione (all’apparato amministrativo, come
viene spesso precisato) a titolo di dolo o colpa.
Accanto agli elementi descritti, la giurisprudenza richiede altresì (sulla
scia della citata pronuncia della Cassazione del 1999) la verifica della
spettanza del bene della vita che il privato intende acquisire alla propria
sfera giuridica attraverso l’esercizio del potere e l’emanazione del
provvedimento amministrativo richiesto (nonché, secondo certe ricostruzioni,
oggetto sostanziale dell’interesse pretensivo fatto valere dal privato).
Verifica che, secondo gli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati, deve
essere condotta (nel caso di attività amministrativa discrezionale)
attraverso la formulazione di un giudizio prognostico del giudice, che deve
apprezzare in termini probabilistici l’attribuzione dell’utilità oggetto del
provvedimento.
16. - Anche nell’ipotesi di inerzia dell’amministrazione, la risarcibilità
del danno derivante dalla violazione del termine per provvedere postula
un’indagine circa la spettanza del provvedimento richiesto e, quindi, un
esito del procedimento in termini favorevoli per il privato.
17. - E, anzi, si deve sottolineare come il quadro normativo rilevante per
l’esame della questione dei limiti entro i quali è ammesso il risarcimento
del danno da ritardo impone di escludere la risarcibilità del danno da “mero
ritardo”, riconducibile alla mera violazione del termine per la conclusione
del procedimento [e ciò per entrambe le ipotesi: del danno lamentato per la
violazione del termine procedimentale, in assenza dell’emanazione del
provvedimento richiesto dal privato; del danno lamentato pur dopo un
provvedimento negativo divenuto definitivo e incontestabile].
18. - In primo luogo, occorre tenere conto che la fattispecie del danno da
mero ritardo è trattata dalla legge come fattispecie autonoma produttiva di
danni, alla quale, nondimeno, la legge sul procedimento non ricollega
un’obbligazione risarcitoria secondo la schema dell’art. 2043, ma solo un
indennizzo (art. 2-bis, comma 1-bis: «Fatto salvo quanto previsto dal comma
1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi
pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del
procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di
pronunziarsi, l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero
ritardo […]»). Previsione, come noto, mai attuata, ma indicativa della
separata considerazione riservata dall’ordinamento all’ipotesi del danno da
mero ritardo (che, pertanto, potrà essere riconosciuto solo quando la
disposizione legislativa troverà attuazione).
19. - Se, invece, si esamina la riconducibilità del danno da mero ritardo
all’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 2-bis, cit., la valutazione
negativa che investe la risarcibilità nel caso in cui la richiesta di
provvedimento afferisca all’esercizio di poteri amministrativi
discrezionali, trova fondamento, in specie, nel divieto per il giudice di
pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati
dall’amministrazione (art. 34, comma 2, del cod. proc. amm.); cui si
ricollega la norma di cui all’art. 31, comma 3, in tema di azione avverso il
silenzio, che consente al giudice di valutare la fondatezza della pretesa
«solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non
residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono
necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti
dall’amministrazione».
Per cui, sempre che si tratti di poteri discrezionali, quando
l’amministrazione (anche a seguito di accertamento dell’obbligo di
provvedere in sede di accoglimento del ricorso contro il silenzio, come nel
caso di specie) ha ancora la possibilità di provvedere, il giudice non può
sostituirsi alle valutazioni riservate alla p.a. esprimendo un giudizio
prognostico circa la spettanza del provvedimento. In questi casi, dunque,
l’azione risarcitoria per il danno da ritardo è inammissibile e potrà essere
riproposta solo dopo l’emanazione del provvedimento.
20. - L’orientamento prevalente è conforme alla soluzione cui si è
pervenuti, sottolineandosi come il risarcimento del danno da ritardo non può
essere avulso da una valutazione concernente l’effettiva spettanza del bene
della vita anelato dal privato, con la conseguenza che il presupposto
dell’ingiustizia del danno, richiesto ai fini del risarcimento, si ritiene
integrato soltanto ove risulti soddisfatto l’interesse pretensivo fatto
valere dal privato (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.07.2018,
n. 4260; Cons. Stato, Sez. IV, 08.02.2018, n. 825; Cons. Stato, Sez. IV,
17.01.2018, n. 240; Cons. Stato, Sez. IV, 23.06.2017, n. 3068;
oltre a Cons. Stato, Ad. Plen., 15.09.2005, n. 7).
Il che comporta il
riconoscimento che l’interesse alla tempestività dell’azione amministrativa
non è configurabile come interesse autonomamente protetto ma assume una
rilevanza meramente procedimentale, ed è, in quanto tale, insuscettibile di
fondare una pretesa risarcitoria in assenza del riferimento all’interesse di
natura pretensiva e al bene della vita sotteso.
Pertanto, non è condivisibile la giurisprudenza secondo cui la disposizione
dell’art. 2-bis, l. 241/1990 avrebbe riguardo anche alla tutela del bene
della vita costituito dal tempo dell’azione amministrativa, avente natura
sostanziale, autonoma e distinta dalla correlata situazione di interesse
legittimo (Cons. Stato, Sez. V, 21.06.2013, n. 3407; Cons. Stato, Sez.
V, 28.02.2011, n. 1271; Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, 04.11.2010, n. 1368), con conseguente risarcibilità del danno da mero ritardo. |
EDILIZIA PRIVATA: Opera
precaria finalizzata a consentire l’utilizzo
non transitorio del bene.
In ambito edilizio anche
la realizzazione di interventi
strutturalmente precari, ma funzionalmente
necessari per consentire l’utilizzo non
transitorio del bene, vanno preceduti dal
rilascio di un titolo idoneo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.05.2019 n. 1035 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4. Con la prima doglianza si assume
l’illegittimità degli atti comunali
impugnati, giacché a loro fondamento sarebbe
stata posta la circostanza che i lavori
realizzati mediante c.i.l.a., anche a
sanatoria, non sarebbero ascrivibili ad
attività di manutenzione straordinaria, ma
rientrerebbero nell’attività di
ristrutturazione edilizia, trattandosi della
realizzazione di un insieme sistematico di
opere che sarebbe assentibile soltanto
mediante un permesso ex art. 36 del D.P.R.
n. 380 del 2001 (c.d. accertamento di
conformità).
4.1. La doglianza è infondata.
Il provvedimento comunale del 27.09.2017
evidenzia l’avvenuta realizzazione
nell’immobile di proprietà della ricorrente,
tra gli altri interventi, della tamponatura
delle aperture a piano seminterrato lato
cortile interno, con conseguente modifica
delle facciate, e di aperture di
collegamento fra i depositi.
La parte ricorrente ha sostenuto che la
tamponatura, consistente nella
sovrapposizione esterna alla porta e a quasi
tutte le finestre di un pannello rimovibile
allo scopo di mettere in sicurezza l’area,
non avrebbe determinato alcuna chiusura o
rimozione definitiva di porte o finestre
(all. 12 al ricorso).
Tuttavia, va ribadito che
in ambito edilizio anche la realizzazione di
interventi strutturalmente precari, ma
funzionalmente necessari per consentire
l’utilizzo non transitorio del bene, vanno
preceduti dal rilascio di un titolo idoneo
(cfr., sul punto, TAR Lombardia, Milano, II,
07.02.2018, n. 354).
Da ciò discende che nella fattispecie de
qua, avuto riguardo all’insieme delle opere
realizzate, si è al cospetto di una
ristrutturazione edilizia necessitante di un
titolo abilitativo non surrogabile con una
mera comunicazione di inizio lavori
asseverata (c.i.l.a.).
L’esigenza di un titolo edilizio scaturisce
anche dalla perdurante vigenza della
dichiarazione di inagibilità del 27.07.2012,
che espressamente impone di procedere alla
previa ristrutturazione dell’immobile prima
di poterne nuovamente ottenere l’agibilità
(all. 4 al ricorso). Il mancato rispetto di
un tale passaggio determina l’illegittimità
delle attività edilizie poste in essere
dalla ricorrente in base a delle c.i.l.a.,
peraltro tardive, in quanto relative ad
opere già eseguite.
In senso opposto non rileva l’avvenuto
rilascio del permesso di costruire in
sanatoria n. 139/2017 del 29.06.2017 (all. 6
al ricorso), tenuto conto che nella
relazione di sopralluogo (all. 3 del Comune)
si chiarisce che i lavori effettuati
risultano difformi anche dalle previsioni
del predetto permesso in sanatoria, che
comunque non contiene alcun riferimento né
ai subalterni oggetto di intervento (ciò
generando una obiettiva incertezza, visto
che, come evidenziato al precedente punto 1,
non tutte le unità immobiliari sono state
dichiarate inagibili), né alla dichiarazione
di inagibilità, che quindi non si può
ritenere implicitamente superata. |
APPALTI SERVIZI: Servizio
idrico integrato, vietata la partecipazione di privati nella società in
house
Non si può affidare in via diretta la gestione del servizio idrico integrato
a una società in house con la partecipazione di capitali privati, sia pure
non in grado di esercitare un'influenza determinante sulla governance
societaria.
Questo il principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez. I, con il
parere
07.05.2019 n. 1389, formulato a riscontro del
quesito posto dal presidente della Regione Piemonte per sapere se gli enti
di governo operanti sul territorio regionale possono affidare il servizio
idrico a società in house con una partecipazione privata senza controllo o
potere di veto.
La cornice giuridica
Le fonti normative inerenti il quesito sono di diversi livelli, e vanno
dall'ambito locale a quello comunitario.
Sul piano regionale, l'articolo 7 della Lr 13/1997 ha previsto che le
autorità d'ambito affidano la gestione del servizio idrico integrato nelle
forme previste dall'articolo 22, comma 3, lettere b) ed e), della legge
142/1990, come integrato dall'articolo 12 della legge 498/1992, e
dall'articolo 25, comma 1, della legge 142/1990.
Come si può notare, la disposizione appare superata perché richiama norme di
legge da tempo abrogate, per cui nel parere la Sezione osserva che il
riferimento va oggi inteso alle disposizioni comunitarie e nazionali vigenti
in materia, ossia alle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE,
recepite in Italia sia con il Dlgs 50/2016 (codice dei contratti), sia con
il Dlgs 175/2016 (testo unico in materia di società a partecipazione
pubblica).
Questi ultimi interventi hanno modificato la nozione dell'in house providing
tramandata dalla giurisprudenza comunitaria, che presupponeva sempre e
comunque la proprietà interamente pubblica del soggetto in house, aprendo la
strada a una possibile partecipazione minoritaria di capitali privati.
Nello specifico, l'articolo 12, comma 1, lett. c) della direttiva 2014/24/UE
–recepita dal legislatore nazionale con i decreti legislativi sopra
richiamati– ha ravvisato la possibilità dell'affidamento in house se «nella
persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di
capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali
privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle
disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non
esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata».
Per quanto riguarda in particolare il servizio idrico integrato, la
normativa in questione non sembra coordinarsi con il codice dell'ambiente
Dlgs 152/2006, ove l'articolo 149-bis, comma 1, stabilisce che
«l'affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente
pubbliche (…) comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell'ambito
territoriale ottimale».
Di qui il quesito posto ai giudici di Palazzo Spada in ordine alla
composizione del capitale della società in house del settore del servizio
idrico, un ambito che, oltretutto, risulta escluso dalla disciplina
comunitaria in ragione dell'importanza fondamentale che riveste il bene
dell'acqua per la vita dell'uomo.
Come si legge nel considerando n. 40 della direttiva 2014/23/Ue, «le
concessioni nel settore idrico sono spesso soggette a regimi specifici e
complessi che richiedono una particolare considerazione data l'importanza
dell'acqua quale bene pubblico di valore fondamentale per tutti i cittadini
dell'Unione. Le caratteristiche particolari di questi regimi giustificano le
esclusioni nel settore idrico dall'ambito di applicazione della presente
direttiva».
L'analisi dei giudici
A fronte di ciò, il Consiglio di Stato ribadisce che per l'in house providing la norma europea non ha inteso autorizzare in generale la
partecipazione dei privati, ma ha disposto un rinvio alle specifiche
disposizioni di legge che «prescrivono» (e dunque impongono) una siffatta
partecipazione.
La partecipazione privata, ancorché senza controllo o potere di veto, deve
pertanto ritenersi compatibile con l'in house providing solamente quando è
obbligatoria, e non facoltativa, in ragione di valutazioni effettuate dal
legislatore interno.
Una simile interpretazione restrittiva punta a scongiurare uno scenario che
veda la partecipazione diretta di un operatore economico privato al capitale
della persona giuridica controllata in esito all'aggiudicazione di un
appalto pubblico senza gara, situazione questa che finirebbe per offrire al
privato un indebito vantaggio rispetto ai concorrenti.
In altre parole, anche se per la normativa sopravvenuta è astrattamente
consentita la partecipazione diretta di capitali privati nella società in
house, a livello interno nessuna disposizione (in materia di servizio
idrico, ma non solo) la prescrive in forma obbligatoria, con l'effetto che,
almeno per ora, il nuovo modello per l'autoproduzione di servizi appare
destinato a restare sulla carta
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.06.2019). |
URBANISTICA: Discrezionalità
nell’approvazione di un piano attuativo.
In sede di approvazione
di un piano attuativo all’Amministrazione
comunale spetta un’ampia discrezionalità
valutativa che non verte solo sugli aspetti
tecnici della conformità o meno del piano
attuativo agli strumenti urbanistici di
livello superiore, ma coinvolge anche
l’opportunità di dare attuazione, in un
certo momento e a determinate condizioni,
alle previsioni dello strumento urbanistico
generale, sussistendo fra quest’ultimo e gli
strumenti attuativi un rapporto di
necessaria compatibilità, ma non di formale
coincidenza.
Ciò perché la pianificazione attuativa
costituisce pur sempre espressione della
potestà pianificatoria, seppur declinata in
ottica più specifica e operativa, con la
conseguente sussistenza dei margini di
discrezionalità che ad essa si correlano;
l’ampia discrezionalità di cui dispone
l’Amministrazione –che, peraltro, incide
anche in ordine alla minor pregnanza del
generale obbligo di motivazione– implica che
la scelta operata sia sottratta al sindacato
di legittimità, non potendo il giudice
amministrativo interferire con le decisioni
riservate all’Amministrazione se non nei
limiti della verifica della loro manifesta
irragionevolezza, illogicità ovvero
arbitrarietà e senza poter procedere ad un
esame del merito della scelta pianificatoria.
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13. Con il
primo motivo del ricorso si assume
l’illegittimità del diniego di approvazione
della proposta di Piano attuativo presentato
da Fo. S.r.l., poiché motivata
esclusivamente con la pendenza di un ricorso
avverso il vigente strumento urbanistico e
in ragione della accertata incompatibilità
della predetta proposta con l’attuale
destinazione urbanistica, nonostante sia
stata formulata “in variante” al
P.G.T.
13.1. La doglianza è infondata.
Il diniego della Giunta comunale è stato
motivato con il contrasto della proposta di
Piano attuativo con l’attuale destinazione
del P.G.T., con il richiamo alla
controdeduzione formulata in sede di
approvazione del P.G.T. con cui non sono
state condivise le osservazioni della
ricorrente e con la pendenza del ricorso
avverso il Piano approvato.
Tali motivazioni, contrariamente a quanto
ritenuto in sede di ricorso, appaiono
sufficienti per negare l’approvazione di un
Piano attuativo, tanto più che gli stessi
interventi sono stati proposti in variante
allo strumento urbanistico generale (nella
cui fase di approvazione erano già stati
prospettati, ma l’Amministrazione non aveva
ritenuto di accoglierli).
In tal senso, la
giurisprudenza ha chiarito che in sede di
approvazione di un Piano attuativo
all’Amministrazione comunale spetta un’ampia
discrezionalità valutativa che non verte
solo sugli aspetti tecnici della conformità
o meno del piano attuativo agli strumenti
urbanistici di livello superiore, ma
coinvolge anche l’opportunità di dare
attuazione, in un certo momento e a
determinate condizioni, alle previsioni
dello strumento urbanistico generale,
sussistendo fra quest’ultimo e gli strumenti
attuativi un rapporto di necessaria
compatibilità, ma non di formale
coincidenza; ciò perché la pianificazione
attuativa costituisce pur sempre espressione
della potestà pianificatoria, seppur
declinata in ottica più specifica e
operativa, con la conseguente sussistenza
dei margini di discrezionalità che ad essa
si correlano; l’ampia discrezionalità di cui
dispone l’Amministrazione –che, peraltro,
incide anche in ordine alla minor pregnanza
del generale obbligo di motivazione– implica
che la scelta operata sia sottratta al
sindacato di legittimità, non potendo il
giudice amministrativo interferire con le
decisioni riservate all’Amministrazione se
non nei limiti della verifica della loro
manifesta irragionevolezza, illogicità
ovvero arbitrarietà e senza poter procedere
ad un esame del merito della scelta
pianificatoria
(da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II,
01.02.2019, n. 222; TAR Lombardia, Brescia,
II, 03.01.2019, n. 5).
13.2. Pertanto, ciò determina il rigetto
della predetta censura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.05.2019 n. 1022 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
natura delle osservazioni –quali meri atti
di collaborazione dei privati rispetto
all’attività pianificatoria di cui è
titolare l’Amministrazione– rende
irrilevante la posizione dei soggetti che le
hanno formulate, essendo compito
dell’Autorità procedente verificarne la
condivisibilità e accoglierle o meno, sulla
base di una valutazione ampiamente
discrezionale, da cui discende la diretta
imputabilità della scelta all’Ente pubblico.
Ugualmente non può essere richiesto
all’Amministrazione un rafforzato obbligo
motivazionale –al di fuori di ipotesi ben
precise, non ricorrenti nella fattispecie
de qua– bastando il riscontro della
coerenza di quanto recepito con gli
indirizzi generali stabiliti nelle linee
guida dello strumento urbanistico.
Del resto, «le osservazioni presentate in
occasione dell’adozione di un nuovo
strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati
nel procedimento di formazione dello
strumento medesimo, con conseguente assenza
in capo all’Amministrazione a ciò competente
di un obbligo puntuale di motivazione oltre
a quella evincibile dai criteri desunti
dalla relazione illustrativa del piano
stesso in ordine alle proprie scelte
discrezionali assunte per la destinazione
delle singole aree; pertanto, seppure
l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le
osservazioni pervenute, non può però essere
obbligata ad una analitica confutazione di
ciascuna di esse …».
---------------
A tal fine va precisato che la natura delle
osservazioni –quali meri atti di
collaborazione dei privati rispetto
all’attività pianificatoria di cui è
titolare l’Amministrazione– rende
irrilevante la posizione dei soggetti che le
hanno formulate, essendo compito
dell’Autorità procedente verificarne la
condivisibilità e accoglierle o meno, sulla
base di una valutazione ampiamente
discrezionale, da cui discende la diretta
imputabilità della scelta all’Ente pubblico.
Ugualmente non può essere richiesto
all’Amministrazione un rafforzato obbligo
motivazionale –al di fuori di ipotesi ben
precise, non ricorrenti nella fattispecie
de qua– bastando il riscontro della
coerenza di quanto recepito con gli
indirizzi generali stabiliti nelle linee
guida dello strumento urbanistico.
Del resto, «le osservazioni presentate in
occasione dell’adozione di un nuovo
strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati
nel procedimento di formazione dello
strumento medesimo, con conseguente assenza
in capo all’Amministrazione a ciò competente
di un obbligo puntuale di motivazione oltre
a quella evincibile dai criteri desunti
dalla relazione illustrativa del piano
stesso in ordine alle proprie scelte
discrezionali assunte per la destinazione
delle singole aree; pertanto, seppure
l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le
osservazioni pervenute, non può però essere
obbligata ad una analitica confutazione di
ciascuna di esse …» (TAR Lombardia,
Milano, II, 08.01.2019, n. 38; 06.08.2018,
n. 1945; altresì, TAR Toscana, I,
06.09.2016, n. 1317)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.05.2019 n. 1022 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le previsioni contenute nel Documento di
Piano non producono effetto diretto perché,
trattandosi di disposizioni di massima, da
sole non sono sufficienti a definire in modo
compiuto le regole di carattere
urbanistico-edilizio che disciplinano gli
ambiti di trasformazione; a tal fine è
necessario l’intervento del piano attuativo
che, attraverso le regole di dettaglio,
dovrà definire in maniera puntuale il quadro
giuridico ad essi applicabile, con norme
aventi carattere prescrittivo.
Per gli ambiti del tessuto urbano
consolidato, invece, l’art. 10, commi 2 e 3,
della legge regionale n. 12 del 2005
attribuisce al Piano delle Regole la
definizione delle modalità di intervento e
dei parametri da rispettare negli interventi
di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre,
che le indicazioni contenute nel Piano delle
Regole hanno carattere vincolante e
producono effetti diretti sul regime
giuridico dei suoli e non hanno termini di
validità (art. 10, commi 5 e 6, della legge
regionale n. 12 del 2005).
Del resto la disciplina contenuta nella
legge regionale n. 12 del 2005 riserva al
Documento di Piano ed ai singoli Piani
attuativi la definizione degli indici
urbanistico-edilizi dei soli ambiti di
trasformazione e non anche degli ambiti
territoriali compresi nel tessuto urbano
consolidato, da assoggettare al Piano delle
Regole.
---------------
Le previsioni contenute nel Documento di
Piano non producono effetto diretto perché,
trattandosi di disposizioni di massima, da
sole non sono sufficienti a definire in modo
compiuto le regole di carattere
urbanistico-edilizio che disciplinano gli
ambiti di trasformazione, con la conseguenza
che le aree (di che trattasi) non possono
trovare la propria disciplina nelle tavole
del Piano delle Regole.
---------------
3. Con la
terza doglianza si assume l’illegittima
inclusione delle aree di cui ai mappali 4 e
75 nel Piano delle Regole, con effetti
diretti e vincolanti sul regime dei suoli e
senza termine di validità, piuttosto che nel
Documento di Piano che contiene previsioni
di natura programmatica, concretizzabili
soltanto all’esito dell’approvazione di uno
specifico piano attuativo.
3.1. La doglianza è infondata.
Pur essendo non del tutto lineare quanto
stabilito dall’Amministrazione con riguardo
ai mappali n. 4 e n. 75, va evidenziato che
la disciplina giuridica dell’Ambito di
trasformazione strategica non può che essere
contenuta nel Documento di Piano, dove si
rinvengono le relative prescrizioni, mentre
l’inclusione dello stesso nelle tavole del
Piano delle Regole non ha alcun effetto
giuridicamente significativo, come
dimostrato anche dalla circostanza che nel
predetto Piano non è contenuta alcuna
prescrizione applicabile agli Ambiti di
trasformazione, a differenza di quanto
previsto dal Documento di Piano (cfr. art.
13 N.T.A. Unificate, all. al ricorso).
Difatti i contenuti del Documento di Piano
attinenti alla disciplina degli ambiti di
trasformazione sono stabiliti dall’articolo
8, comma 2, lettera e, della legge regionale
n. 12 del 2005. La disposizione prevede, in
particolare, che il Documento di Piano
«individua, anche con rappresentazioni
grafiche in scala adeguata, gli ambiti di
trasformazione, definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le
vocazioni funzionali e i criteri di
negoziazione, nonché i criteri di
intervento, preordinati alla tutela
ambientale, paesaggistica e
storico-monumentale, ecologica, geologica,
idrogeologica e sismica, laddove in tali
ambiti siano comprese aree qualificate a
tali fini nella documentazione conoscitiva».
Le previsioni contenute nel Documento di
Piano non producono effetto diretto perché,
trattandosi di disposizioni di massima, da
sole non sono sufficienti a definire in modo
compiuto le regole di carattere
urbanistico-edilizio che disciplinano gli
ambiti di trasformazione; a tal fine è
necessario l’intervento del piano attuativo
che, attraverso le regole di dettaglio,
dovrà definire in maniera puntuale il quadro
giuridico ad essi applicabile, con norme
aventi carattere prescrittivo (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 06.02.2018, n.
347; 05.12.2014, n. 2971).
Per gli ambiti del tessuto urbano
consolidato, invece, l’art. 10, commi 2 e 3,
della legge regionale n. 12 del 2005
attribuisce al Piano delle Regole la
definizione delle modalità di intervento e
dei parametri da rispettare negli interventi
di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre,
che le indicazioni contenute nel Piano delle
Regole hanno carattere vincolante e
producono effetti diretti sul regime
giuridico dei suoli e non hanno termini di
validità (art. 10, commi 5 e 6, della legge
regionale n. 12 del 2005; in giurisprudenza,
TAR Lombardia, Milano, II, 06.02.2018,
n. 347).
Del resto la disciplina contenuta nella
legge regionale n. 12 del 2005 riserva al
Documento di Piano ed ai singoli Piani
attuativi la definizione degli indici
urbanistico-edilizi dei soli ambiti di
trasformazione e non anche degli ambiti
territoriali compresi nel tessuto urbano
consolidato, da assoggettare al Piano delle
Regole (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 06.02.2018, n. 347;
01.02.2011, n.
330).
3.2. Ne discende il rigetto anche della
predetta doglianza.
4. Con l’ultima
doglianza si assume la totale
vanificazione del diritto di proprietà del
ricorrente in ragione della retinatura degli
Ambiti della trasformazione strategica, che
imporrebbero soltanto la soluzione legata
alla delocalizzazione dell’attività svolta
sul terreno di Fo. S.r.l.
4.1. La doglianza è infondata.
Va premesso e ribadito che le previsioni
contenute nel Documento di Piano non
producono effetto diretto perché,
trattandosi di disposizioni di massima, da
sole non sono sufficienti a definire in modo
compiuto le regole di carattere
urbanistico-edilizio che disciplinano gli
ambiti di trasformazione, con la conseguenza
che le aree di cui ai mappali n. 4 e n. 75
non possono trovare la propria disciplina
nelle tavole del Piano delle Regole (cfr.
precedente punto 3.1).
In ogni caso l’acquisto del terreno da parte
di Fo. ha determinato il venir meno
della questione, atteso che la valutazione
dell’interesse a porre in essere delle
operazioni di valorizzazione sul predetto
compendio va affrontata in un contesto
affatto differente e molto più ampio (come
dimostrato dall’avvenuta presentazione della
proposta di Piano attuativo).
4.2. La censura pertanto va respinta.
5. In conclusione, all’infondatezza delle
censure segue il rigetto del ricorso
introduttivo.
6. La domanda risarcitoria deve essere
respinta in ragione dell’accertata
legittimità degli atti impugnati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.05.2019 n. 1022 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI -
URBANISTICA:
La
deliberazione che ha aumentato il valore del
terreno ai fini I.C.I. «lstante la generalità delle sue
previsioni, la sua applicabilità ad una
serie indeterminata di casi e difettando di
una valenza immediatamente ed autonomamente
imperativa (da riconoscersi invece
esclusivamente all’atto impositivo del
tributo applicativo di quelle previsioni),
al di là di ogni ragionevole dubbio, ha
pertanto natura di atto generale e, (…) per
effetto di quanto disposto dall’articolo 13
della legge n. 241 del 1990, si sottrae al
generale obbligo di motivazione degli atti
amministrativi».
---------------
L’edificabilità
di un’area, ai fini della determinazione
della base imponibile, da effettuare in base
al valore venale e non a quello catastale,
deve essere desunta dalla qualificazione
attribuitale nel Piano regolatore generale
adottato dal Comune, indipendentemente
dall’approvazione dello stesso da parte
della Regione e dall’adozione di strumenti
urbanistici attuativi.
---------------
7. Passando all’esame del ricorso per motivi
aggiunti –proposto avverso la deliberazione
che ha aumentato il valore del terreno ai
fini I.C.I.–, lo stesso è infondato.
8. Con la
prima censura si assume che il Comune,
nel determinare i valori attuali delle aree
fabbricabili, avrebbe fatto riferimento,
senza alcuna valida giustificazione, alle
quotazioni massime desunte dalla banca dati
dell’Osservatorio del mercato immobiliare
dell’Agenzia del Territorio.
8.1. La doglianza è infondata.
Nella relazione allegata alla delibera
impugnata si chiarisce che «dei due valori
minimo e massimo presenti nelle quotazioni
suddette, nel nostro caso assumeremo le
quotazioni “Max” in quanto la presente
valutazione è orientata alla determinazione
del valore venale di terreni su cui verranno
realizzati dei fabbricati di nuova
costruzione nella tipologia più richiesta
dal mercato immobiliare» (all. 5 del Comune,
pag. 5).
Ciò appare satisfattivo dell’obbligo di
motivazione imposto all’Amministrazione,
considerata l’ampia discrezionalità di
scelta tra i valori che si collocano
all’interno della cornice individuata
dall’Osservatorio. Oltretutto la parte
ricorrente non ha contestato puntualmente i
criteri individuati, limitandosi ad un
generico rilievo, non ammissibile in questa
sede.
Da ultimo, va pure sottolineato come «la
delibera, stante la generalità delle sue
previsioni, la sua applicabilità ad una
serie indeterminata di casi e difettando di
una valenza immediatamente ed autonomamente
imperativa (da riconoscersi invece
esclusivamente all’atto impositivo del
tributo applicativo di quelle previsioni),
al di là di ogni ragionevole dubbio, ha
pertanto natura di atto generale e, (…) per
effetto di quanto disposto dall’articolo 13
della legge n. 241 del 1990, si sottrae al
generale obbligo di motivazione degli atti
amministrativi» (Consiglio di Stato, V,
10.09.2014, n. 4587).
8.2. Ciò determina il rigetto della censura.
...
10. Con la
terza censura del primo ricorso per
motivi aggiunti si assume che il lasso
temporale cui applicare il valore per le
aree fabbricabili è stato illegittimamente
individuato nella misura massima di cinque
anni, mentre di fatto il compendio non
sarebbe per nulla appetibile per
l’insediamento produttivo, visto che la
parte interessata –ossia Arti Grafiche– non
avrebbe manifestato alcun interesse a
trasferirvi la propria attività, anche in
ragione degli ingenti costi da affrontare in
siffatta eventualità, rendendo per questo
non coerente la qualificazione dell’area
edificabile con quanto previsto dalla
normativa di settore (art. 2, comma 1, lett.
b, del D.Lgs. n. 504 del 1992).
10.1. La doglianza è infondata.
La scelta dell’Amministrazione di
individuare in cinque anni il termine
temporale per la stima del valore del bene
ai fini I.C.I. si giustifica con la
necessità di dover indicare un dato
specifico e obiettivo, non potendosi
omettere un tale elemento assolutamente
necessario per poter procedere al calcolo
dell’importo dovuto. Del resto la parte
ricorrente si è semplicemente limitata a
criticare in modo generico la prescrizione,
senza puntualizzare e chiarire l’alternativa
che si sarebbe dovuta legittimamente
adottare.
Quanto poi alla edificabilità dell’area ai
fini dell’applicazione del criterio della
base imponibile fondato sul valore venale,
va considerato edificabile il suolo che
rientra nello strumento urbanistico generale
anche solo adottato dal Comune, sebbene non
ancora approvato, non essendo determinante
l’effettiva e concreta possibilità di
sfruttamento edificatorio, ma essendo
sufficiente la semplice astratta
potenzialità edificatoria (art. 36, comma 2,
del decreto-legge n. 223 del 2006,
convertito con legge n. 248 del 2006).
Difatti secondo la giurisprudenza della
Cassazione, l’edificabilità
di un’area, ai fini della determinazione
della base imponibile, da effettuare in base
al valore venale e non a quello catastale,
deve essere desunta dalla qualificazione
attribuitale nel Piano regolatore generale
adottato dal Comune, indipendentemente
dall’approvazione dello stesso da parte
della Regione e dall’adozione di strumenti
urbanistici attuativi
(Cass. civ., VI, 07.09.2018, n. 21761;
13.01.2017, n. 715).
Oltretutto, le vicende che hanno riguardato
il compendio in oggetto –ossia l’acquisto
dello stesso da parte della società
Fontanile– dimostrano, sebbene ex post,
l’infondatezza della tesi attorea in
relazione alla non appetibilità dello stesso
per l’insediamento di un’attività.
10.2. Ciò determina il rigetto anche della
predetta censura.
11. In conclusione, anche il primo ricorso
per motivi aggiunti deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.05.2019 n. 1022 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Prescrizioni
del PGT e attinenza con l'interesse
urbanistico.
Se è vero che l’oggetto
delle regole dettate dal piano urbanistico
non può essere limitato alla disciplina
della trasformazione fisica del territorio,
è anche vero, da altro lato, che non si può
prescindere del tutto dall’interesse
urbanistico, dovendosi ritenere
indispensabile, affinché il piano possa
dettare la sua regolazione, la sussistenza
di un qualche collegamento con tale
interesse (come ad esempio la necessità di
far sì che l’attività esercitata sul
territorio –sebbene non determinante la sua
trasformazione fisica– non causi una
alterazione dei carichi tale renderla
urbanisticamente insostenibile in ragione
dello squilibrio che essa crea rispetto alle
dotazioni esistenti quali parcheggi, strade
ecc.).
E', pertanto, da escludere che il PGT possa
dettare prescrizioni che riguardano
l’attività di spandimento di fertilizzanti
su suolo agricolo giacché non si vede quale
attinenza abbia tale attività con
l’interesse urbanistico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 02.05.2019 n. 986 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
16. Ritiene il Collegio che queste censure
siano fondate per le ragioni di seguito
esposte.
17. La disciplina riguardante l’utilizzo in
agricoltura dei fanghi derivati dal processo
di depurazione delle acque reflue è
contenuto nel d.lgs. 27.01.1992, n. 99
che ha dato attuazione alla direttiva
86/278/CE. Lo scopo dichiarato dall’art. 1
di tale decreto è, innanzitutto, quello di
assicurare che l’attività di spandimento dei
fanghi non provochi effetti nocivi sul
suolo, sulla vegetazione, sugli animali e
sull'uomo.
Altro scopo dischiarato è quello
di incoraggiare l’attività di spandimento,
in quanto volta al recupero di un materiale
che, in base all’art. 127, primo comma, del
d.lgs. n. 152 del 2006, è classificato come
rifiuto e che, quindi, dovrebbe essere
altrimenti smaltito.
18. Proprio al fine di preservare questi
interessi, il d.lgs. n. 99 del 1992
stabilisce i requisiti che i fanghi ed i
terreni agricoli debbono possedere affinché
si possa procedere allo spandimento e
sottopone lo svolgimento di tale attività ad
autorizzane regionale e a controllo
provinciale, nonché a previa comunicazione
al comune.
19. L’art. 6, n. 3), del d.lgs. n. 99 del
1992 prevede poi espressamente che spetta
alle regioni il compito di stabilire <<…le
distanze di rispetto per l'applicazione dei
fanghi dai centri abitati, dagli
insediamenti sparsi, dalle strade, dai pozzi
di captazione delle acque potabili, dai
corsi d'acqua superficiali…>>.
20. Come si vede questa norma a chiara
nell’attribuire alle regioni e non ai comuni
la competenza ad individuare le distanze
minime da rispettare con riferimento ad
alcuni punti sensibili quali abitazioni,
corsi d’acqua ecc.
L’attribuzione alle
regioni, e non ai comuni, della competenza
ad individuare i limiti distanziali
applicabili all’attività di spandimento dei
fanghi è dovuta al fatto che il legislatore
statale vuole far sì che la materia trovi
una disciplina uniforme, perlomeno, a
livello regionale onde evitare che la
suddetta attività (come detto da
incoraggiare in quanto volta al recupero di
un rifiuto) venga ingiustificatamente
ostacolata per interessi particolaristici.
21. Valorizzando le disposizioni appena
illustrate, una parte della giurisprudenza
afferma che la disciplina dello spandimento
dei fanghi è da ricondurre alla disciplina
dei rifiuti e che quest’ultima è, a sua
volta, da collocare –secondo l’insegnamento
costante della Corte costituzionale (cfr.
Corte cost. 24.07.2009, n. 249)–
nell'ambito della materia tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema, di
competenza esclusiva statale ai sensi
dell'art. 117, secondo comma, lettera s),
Cost.
Si è quindi ritenuto che, siccome
nessuna norma statale conferisce ai comuni
potestà regolamentare in materia ambientale
e, più in particolare, in materia di spandimento fanghi per uso agricolo, gli
stessi comuni non possano emanare atti di
normazione secondaria che abbiano ad oggetto
tale materia.
Ancora più in dettaglio, si è
escluso poi che i comuni possano regolare
l’attività di spandimento dei fanghi
attraverso l’esercizio del potere di
pianificazione urbanistica, per sua natura
finalizzato alla disciplina degli interventi
di trasformazione fisica del territorio (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 15.10.2010,
n. 7528; TAR Lombardia Milano, sez. II, 04.04.2012, n. 1006; id. 25.05.2009, n.
3848).
22. A questo orientamento se ne contrappone
però un altro il quale –proprio in
considerazione del fatto che la portata
della normativa contenuta nel d.lgs. n. 99
del 1992 è connotata dalla finalità di
tutela ambientale e che, quindi, la sua
finalità è quella di assicurare la
compatibilità dell’utilizzazione dei fanghi
di depurazione in agricoltura con tale
valore– non esclude che l’attività in
questione, ove attenga anche ad ulteriori
profili di interesse pubblico, possa essere
oggetto di regolamentazione e disciplina da
parte di altri soggetti cui è normativamente
attribuita competenza.
23. Sulla base di queste considerazioni, si
è quindi affermato che, per stabilire se i
comuni possano o meno intervenire in materia
con i loro strumenti di pianificazione,
occorre far riferimento alla normativa
regionale riguardante il governo del
territorio e verificare quale sia l’ambito
delle competenze da essa delineato.
24. In Regione Lombardia, il riferimento è,
quindi, alla legge regionale n. 12 del 2005
la quale, all’art. 10, indica i contenuti
del piano delle regole (che costituisce una
componente del piano di governo del
territorio).
E siccome tale norma
attribuisce al piano delle regole il compito
di individuare le aree destinate
all’agricoltura e di dettare per esse la
disciplina d’uso, di valorizzazione e di
salvaguardia, nonché il compito di
individuare le aree di valore paesaggistico-ambientale e di dettare per
esse ulteriori regole di salvaguardia e di
valorizzazione, si deve ritenere, secondo
questo orientamento giurisprudenziale, che
il potere di disciplina attribuito al comune
in sede di pianificazione urbanistica del
territorio non sia più limitato al solo,
isolato aspetto della trasformazione fisica
dello stesso, ma possa più in generale
riferirsi anche alla regolamentazione delle
attività su di esso esercitabili, tenendo
conto della loro sostenibilità anche sotto
il profilo ambientale, paesaggistico ed
ecologico.
In sostanza, in base a questa
tesi, l’individuazione di una fascia di
rispetto entro la quale è vietato lo spandimento dei fanghi si risolve in una
attività di “zonizzazione” che costituisce
tipico esercizio del potere di
pianificazione urbanistica il quale, come
detto, può considerare interessi che non
attengono esclusivamente al territorio quale
fatto fisico ma altresì ad ulteriori
interessi pubblici, concorrenti ed
interferenti, quali quelli della tutela e
della sostenibilità paesaggistica ed
ambientale (cfr. Consiglio di Stato sent. n.
2986 del 2015 cit.).
25. Ritiene il Collegio che, pur essendo
condivisibile l’affermazione secondo cui non
può escludersi la possibilità per altri
soggetti pubblici diversi dalla regione di
intervenire nella materia che occupa qualora
vengano in rilievo interessi affidati alla
loro cura, sia preferibile aderire alla tesi
più restrittiva seguita dal primo
orientamento.
26. In proposito, si deve osservare che,
come illustrato, la tesi che ammette la
possibilità per i comuni di regolare
l’attività di spandimento dei fanghi parte
dalla premessa che la normativa statale che
disciplina la materia (la quale, come visto,
attribuisce alle regioni la competenza di
individuazione delle distanze dai centri
abitati) ha di mira la tutela del valore
ambiente e che, quindi, altri soggetti
pubblici diversi dalle regioni (fra cui i
comuni) possono intervenire per tutelare gli
interessi loro affidati diversi da quello
ambientale.
27. Quando però passa ad analizzare il
quadro delle competenze delineate dalla
legge regionale n. 12 del 2005, la tesi in
questione non ricava da tale legge
l’esistenza di un interesse diverso da
quello ambientale che consentirebbe ai
comuni di intervenire nella materia di cui
si discute. Essa valorizza al contrario
proprio il fatto che questa legge affida
allo strumento urbanistico comunale il
compito di perseguire (anche) l’interesse
ambientale ed afferma, di conseguenza, che
l’attività di zonizzazione può avere come
scopo non solo quello di assicurare
l’ordinata trasformazione fisica del suolo
agricolo, ma anche quello di assicurare la
sostenibilità ambientale delle attività
umane che si esercitano su di esso.
28. La prima obiezione alla tesi in
argomento è quindi che, in questo modo, la
legge regionale avrebbe affidato ai comuni
la tutela dell’interesse ambientale
sovvertendo il quadro delle competenze
delineato dalla legge statale che, in base
all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.,
ha competenza esclusiva in materia e che,
come visto, per ragioni di tutela
ambientale, affida alle regioni e non ai
comuni il compito di individuazione delle
fasce di rispetto entro le quali è vietata
l’attività di spandimento fanghi.
29. A questo proposito si ricorda che la
Corte Costituzionale, con la sentenza n. 63
del 24.03.2016, ha chiarito che la legge
regionale n. 12 del 2005, in quanto
disciplina la pianificazione urbanistica,
attiene senz’altro alla materia “governo del
territorio” e che, quindi, tale legge
regionale non può perseguire finalità che
esorbitano da tale ambito.
Si deve pertanto
ritenere che la Regione non possa dettare
norme legislative dirette esclusivamente
alla tutela dell’ambiente (materia che
rientra nell’ambito della competenza
esclusiva statale), e ciò ovviamente neppure
per attribuirne la competenza amministrativa
ai comuni affinché la esercitino in sede di
pianificazione urbanistica.
30. Sembra pertanto preferibile ritenere
che, in realtà,
la legge regionale n. 12 del
2005 non abbia attribuito agli strumenti di
pianificazione comunale il compito di
dettare autonome norme finalizzate alla
tutela ambientale, ma abbia attribuito loro
il diverso compito di recepire e specificare
(laddove vi siano margini) le disposizioni
contenute nelle fonti statali e regionali.
In questo senso deve essere letto, secondo
il Collegio, l’art. 10, comma 4, lett. b),
della legge regionale n. 12 del 2005 il
quale è vero che affida allo strumento
urbanistico il compito di dettare le regole
di salvaguardia e valorizzazione delle aree paesaggistico-ambientale ed ecologiche, ma
specifica anche che queste regole debbono
essere “ulteriori” e <<…di attuazione dei
criteri di adeguamento e degli obiettivi
stabiliti dal piano territoriale regionale,
dal piano territoriale paesistico regionale
e dal piano territoriale di coordinamento
provinciale>>.
31. Da un punto di vista più generale, si
deve poi escludere, a parere del Collegio,
che la norma contenuta nel n. 1), lett. a),
del citato art. 10 della legge regionale n.
12 del 2005 (la quale prevede che il piano
delle regole detta le norme di
valorizzazione e salvaguardia delle aree
agricole) possa consentire allo strumento
urbanistico di disciplinare ogni attività
umana che si svolge sul suolo agricolo
indipendentemente da ogni sua attinenza con
l’interesse urbanistico, giacché in tal modo
si dilaterebbe a dismisura l’ambito di
competenza dei piani i quali potrebbero così
intervenire in qualsiasi materia (tutte le
attività umane si svolgono sul territorio),
interferendo con le competenze attribuite
dalla Costituzione e dalla legge agli altri
soggetti.
32. E’ pertanto opinione del Collegio che,
se è vero che l’oggetto delle regole dettate
dal piano urbanistico non può essere
limitato alla disciplina della
trasformazione fisica del territorio, è
anche vero, da altro lato, che non si può
prescindere del tutto dall’interesse
urbanistico, dovendosi ritenere
indispensabile, affinché il piano possa
dettare la sua regolazione, la sussistenza
di un qualche collegamento con tale
interesse (come ad esempio la necessità di
far sì che l’attività esercitata sul
territorio –sebbene non determinante la sua
trasformazione fisica– non causi una
alterazione dei carichi tale renderla urbanisticamente insostenibile in ragione
dello squilibrio che essa crea rispetto alle
dotazioni esistenti quali parcheggi, strade
ecc.).
33. Sembra pertanto da escludere che lo
strumento urbanistico possa dettare
prescrizioni che riguardano l’attività di spandimento di fertilizzanti su suolo
agricolo giacché non si vede quale attinenza
abbia tale attività con l’interesse
urbanistico. Analoghe considerazioni valgono
riguardo alle prescrizioni contenute nella
Carta di Fattibilità Geologica che, ai sensi
dell’art. 57 della legge regionale n. 12 del
2005, costituisce una componente del PGT e
che, quindi, non può travalicare i limiti
che sono propri di tale strumento.
34. In ogni caso, va poi osservato che,
anche qualora si dovesse ritenere che la
legge regionale n. 12 del 2005 abbia
attribuito agli strumenti urbanistici
comunali il compito di dettare norme
autonome per la tutela dell’interesse
ambientale, non si può ammettere che tale
interesse trovi nel piano una regolazione
contrastante con quella dettata dalla fonte
regionale, cui la legge statale attribuisce
specifica competenza in materia.
Non ci si
può quindi esimere dal rilevare il contrasto
della norma contenuta nell’art. 35, comma 6,
lett. b), delle NTA del Piano delle Regole
(che individua la fascia di 500 metri entro
la quale è vietata l’attività di spandimento
fanghi) rispetto a quella contenuta nella
DGR n. 5269 del 2016 emanata in attuazione
dell’art. 6, n. 3), del d.lgs. n. 99 del
1992, la quale, a differenza della
precedente DGR n. 7/15944 del 2003, non
indica più un limite minimo ma individua una
limite fisso pari a 100 metri dal perimetro
del centro abitato.
Si richiama in proposito
quanto illustrato in precedenza circa la
precisa volontà del legislatore nazionale di
attribuire alle regioni, e non ai comuni, la
competenza ad individuare i limiti
distanziali applicabili all’attività di spandimento dei fanghi in modo da assicurare
alla materia una disciplina uniforme,
perlomeno, a livello regionale ed evitare
che la suddetta attività (come detto da
incoraggiare in quanto volta al recupero di
un rifiuto) venga ingiustificatamente
ostacolata per interessi particolaristici.
35. Si deve pertanto ritenere che, come
anticipato, le censure in esame siano
fondate.
36. La disposizione contenuta nell’art. 35,
comma 6, lett. b), delle NTA del Piano delle
Regole va dunque annullata nella parte in
cui individua la fascia di 500 metri entro
la quale è vietata l’attività di spandimento
fanghi; va altresì annullata la Carta di
Fattibilità Geologica allegata al PGT, nella
parte in cui sottopone determinate classi di
terreni da essa individuati alla previa
valutazione, sotto il profilo idrogeologico,
degli effetti derivanti dagli spandimenti di
fanghi di depurazione sulla falda
superficiale.
Vanno infine annullati gli
atti del 26.09.2016 e del 18.10.2016
che, in applicazione delle su indicate
disposizioni, hanno inibito alla ricorrente
lo svolgimento dell’attività di spandimento
fanghi.
37. In conclusione, per tutte le ragioni
illustrate, va dichiarata la parziale
irricevibilità del ricorso introduttivo nei
limiti innanzi indicati. Per il resto il
ricorso introduttivo ed i motivi aggiunti
vanno accolti, nei sensi e per gli effetti
sopra indicati. |
EDILIZIA PRIVATA: L’onere
della prova in ordine a risalenza e alle consistenze edilizie contestate
dall’amministrazione, per evitare sanzioni demolitorie ovvero per essere
ammessi a procedure di sanatoria, incombe sul soggetto destinatario della
sanzione ovvero su quello che ha richiesto la sanatoria e che lo stesso
(onere) può essere invertito e spostato in capo all’amministrazione solo in
presenza di produzione da parte del privato di “concreti elementi” idonei a
far luogo all’inversione.
Ciò significa che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile
abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da
parte di quest’ultimo, di concreti elementi -i quali non possono limitarsi a
sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni-
trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed
elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove,
resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria
dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
---------------
2. Il ricorso è infondato.
Va innanzitutto ricordato che per costante giurisprudenza, anche di questo
Tribunale (cfr. TAR, Sicilia, Palermo, 23/02/2018, n. 461) rispetto alla
quale non si ravvisano nel caso di specie ragioni per discostarsi, l’onere
della prova in ordine a risalenza e alle consistenze edilizie contestate
dall’amministrazione, per evitare sanzioni demolitorie ovvero per essere
ammessi a procedure di sanatoria, incombe sul soggetto destinatario della
sanzione ovvero su quello che ha richiesto la sanatoria (cfr. Cons. Stato,
IV, 08.01.2013, n. 39, 17.09.2012, n. 4924; Tar Campania, Napoli, VI,
20.02.2014, n. 1122) e che lo stesso (onere) può essere invertito e spostato
in capo all’amministrazione solo in presenza di produzione da parte del
privato di “concreti elementi” idonei a far luogo all’inversione
(sempre ex plurimus, Cons. Stato, IV, 13.01.2010, n. 45; V,
09.11.2009, n. 6984; Tar Campania, Napoli, VI, 20.02.2014, n. 1122;
06.11.2013, n. 4904; II, 30.04.2013, n. 2242; 04.12.2013, n. 5487, VII,
08.02.2013, n. 828; Tar Liguria, Genova, I, 04.12.2012, n. 1565).
Ciò significa che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile
abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da
parte di quest’ultimo, di concreti elementi -i quali non possono limitarsi a
sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni-
trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione. Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili
atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in
difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione
demolitoria (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 11.06.2018, n.
3527)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 683 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Funzione
degli oneri di urbanizzazione.
Mentre il costo di
costruzione rappresenta una
compartecipazione comunale all’incremento di
valore della proprietà immobiliare, gli
oneri di urbanizzazione svolgono la funzione
di compensare la collettività per il nuovo
ulteriore carico urbanistico che si riversa
sulla zona a causa della consentita attività
edificatoria;
Essi sono pertanto dovuti nel caso di
trasformazioni edilizie che,
indipendentemente dall’esecuzione di opere,
si rivelino produttive di vantaggi economici
per il proprietario, determinando un aumento
del carico urbanistico; tale incremento può
derivare anche da una mera modifica della
destinazione d’uso di un immobile, mentre
può non configurarsi nell’ipotesi di
intervento edilizio con opere
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.01.2019 n. 574 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è fondato e merita
accoglimento.
2. Il comune resistente deduce che l’esonero
previsto dall’articolo 17 del d.P.R.
380/2001 per l’ampliamento di edifici
unifamiliari non troverebbe applicazione al
caso di specie, perché l’intervento edilizio
di cui è questione è stato effettuato su un
edificio originariamente bifamiliare;
l’amministrazione sottolinea la natura
eccezionale delle esenzioni dal contributo e
richiama un precedente conforme
pronunciamento di questo Tribunale.
3. L’argomento non coglie nel segno.
4. La controversia non verte sulla verifica
della ricorrenza delle condizioni poste dal
richiamato articolo 17 del Testo unico ai
fini dell’esonero dal contributo di
costruzione, ma investe una questione
logicamente antecedente, ovvero la
ricorrenza dei presupposti per
l’applicazione degli oneri di urbanizzazione
previsti dall’articolo 16 del medesimo testo
normativo.
5. Prevede tale disposizione che: “il
rilascio del permesso di costruire comporta
la corresponsione di un contributo
commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di
costruzione”.
6. Mentre il costo di
costruzione rappresenta una
compartecipazione comunale all’incremento di
valore della proprietà immobiliare, gli
oneri di urbanizzazione svolgono la
funzione di compensare la collettività per
il nuovo ulteriore carico urbanistico che si
riversa sulla zona a causa della consentita
attività edificatoria
(TAR Piemonte, sez. I, 21.05.2018, n. 630).
Essi sono pertanto dovuti
nel caso di trasformazioni edilizie che,
indipendentemente dall’esecuzione di opere,
si rivelino produttive di vantaggi economici
per il proprietario, determinando un aumento
del carico urbanistico. Tale incremento può
derivare anche da una mera modifica della
destinazione d’uso di un immobile, mentre
può non configurarsi nell’ipotesi di
intervento edilizio con opere.
7. Secondo consolidata e risalente
giurisprudenza il
fondamento del contributo di urbanizzazione
pertanto “non consiste nel titolo
edilizio in sé, ma nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di
urbanizzazione, facendoli gravare su quanti
beneficiano delle utilità derivanti dalla
presenza delle medesime secondo modalità
eque per la comunità con la conseguenza che,
anche nel caso di modificazione della
destinazione d'uso, cui si correli un
maggiore carico urbanistico, è integrato il
presupposto che giustifica l'imposizione del
pagamento della differenza tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per la destinazione
originaria e quelli, se più elevati, dovuti
per la nuova destinazione impressa”
(Cons. Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326;
id. ex multis TAR Lombardia, Milano,
Sez. IV, 04.05.2009, n. 3604; Cons. Stato,
Sez. V, 21.12.1994, n. 1563).
Pertanto “la
partecipazione del privato al costo delle
opere di urbanizzazione è dovuta allorquando
l'intervento determini un incremento del
peso insediativo con un'oggettiva
rivalutazione dell'immobile, sicché
l'onerosità del permesso di costruire è
funzionale a sopportare il carico socio
economico che la realizzazione comporta
sotto il profilo urbanistico”
(TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.04.2018,
n. 449).
8. Nel caso di specie non può dirsi
realizzato un aumento del carico
urbanistico, atteso che gli esponenti hanno
trasformato l’edificio bifamiliare in
unifamiliare, riducendone anche la S.L.P.
Non ricorre pertanto il presupposto che
giustifica l'imposizione del pagamento degli
oneri di urbanizzazione.
9. Ne consegue la fondatezza del ricorso,
che deve essere accolto, con la condanna
dell’amministrazione comunale resistente
alla restituzione degli oneri di
urbanizzazione indebitamente percepiti, pari
ad euro 11.446,81, oltre agli interessi
maturati dalla data di notificazione
dell'atto introduttivo del presente
giudizio.
Dispone infatti l’articolo 2033 cod.civ. che
“chi ha eseguito un
pagamento non dovuto ha diritto di ripetere
ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai
frutti e agli interessi dal giorno del
pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala
fede, oppure, se questi era in buona fede,
dal giorno della domanda”.
In assenza di prova
contraria deve infatti presumersi la buona
fede dell’amministrazione comunale. Non è,
invece, dovuta la rivalutazione monetaria
(conformi: TAR Lombardia, Brescia, Sez. I,
20.05.2019, n. 499 e le pronunce ivi
richiamate; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II,
02.05.2019, n. 426). |
EDILIZIA PRIVATA: In tema
di reati
edilizi, si considerano in ogni caso eseguiti in totale difformità dal
permesso di
costruire gli interventi che ricadono in zona paesaggisticamente vincolata
e, in presenza di opere edilizie abusive in siffatte zone, risulta
indifferente, ai fini della loro qualificazione giuridica e
dell'individuazione della sanzione penale applicabile, la distinzione tra
interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale.
Quel che consegue alla lettera dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001, a
mente della quale tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a
vincolo
paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti
in parziale
difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità
totali.
---------------
3. I ricorsi risultano manifestamente infondati.
Muovendo dalla questione concernente la condotta come contestata in
rubrica e poi riconosciuta in sentenza, osserva il Collegio che la stessa
risulta già
proposta in sede di appello, e lì affrontata con motivazione congrua, non
certo
illogica e, come tale, insuscettibile di censura; in particolare, la
sentenza ha
evidenziato che la violazione urbanistica contestata doveva per certo esser
identificata nell'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, atteso
che
l'immobile oggetto degli abusi ricadeva pacificamente in area sottoposta a
vincolo paesaggistico, come confermato dalla contestuale imputazione di cui
all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. E senza che rilevi -come
invece
contestato dal Le.- la mancata indicazione del provvedimento
impositivo del vincolo stesso, in sé non necessaria come da costante
giurisprudenza sul punto (per tutte Sez. 3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca,
Rv. 261163).
Ancora, la sentenza ha rilevato -circostanza pacifica- che la
rubrica per la quale è processo aveva ad oggetto opere non soltanto difformi
rispetto al permesso di costruire rilasciato al Carenza (ad esempio,
l'ampliamento della veranda per 12,90 mq. in più di quanto assentito), ma
anche
ulteriori, diverse ed in questo non previste; sì da integrare ulteriormente
-attesa la presenza del vincolo- la contestata violazione dell'art. 44,
comma 1,
lett. c) in esame.
Non solo. La Corte di merito ha anche richiamato il costante e condiviso
indirizzo giurisprudenziale -qui da ribadire- in forza del quale, in tema
di reati
edilizi, si considerano in ogni caso eseguiti in totale difformità dal
permesso di
costruire gli interventi che ricadono in zona paesaggisticamente vincolata (Sez.
3, n. 37169 del 6/5/2014, Longo, Rv. 260181; Sez. 3, n. 1486 del 03/12/2013,
P.M. in proc. Aragosa ed altri, Rv. 258297) e, in presenza di opere edilizie
abusive in siffatte zone, risulta indifferente, ai fini della loro
qualificazione
giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, la
distinzione tra
interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale;
quel che consegue alla lettera dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001, a
mente della quale tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a
vincolo
paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti
in parziale
difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità
totali (Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010, Santonicola ed altro, Rv.
246960)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.01.2018 n. 921). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non
determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto
compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di
diritto
legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale.
Il reato di pericolo
previsto
dall'art. 181 in esame non richiede, ai fini della sua configurabilità, un
effettivo
pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di
preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad
arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze
sull'assetto del
territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la
compatibilità paesaggistica delle opere eseguite.
---------------
5. In ordine, poi, alla contestazione da ultimo citata, osserva il Collegio
che
la motivazione stesa dalla Corte di merito risulta ancora congrua, priva di
illogicità manifeste e, pertanto, non meritevole di censura.
In particolare, quanto all'accertamento di compatibilità paesaggistica di
cui
all'art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42 del 2004 (ripetutamente richiamato
nei
ricorsi), la sentenza ha evidenziato che lo stesso non poteva per certo
comprendere tutti gli abusi riscontrati, atteso che -quanto all'ampliamento
della
veranda per 12,90 mq. in più rispetto all'assentito- questo aveva
comportato la
creazione di superfici utili e di volumi, come tali espressamente ostativi
all'effetto
estintivo di cui alla norma.
Sì da doversi confermare il costante indirizzo
in forza
del quale il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non
determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto
compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di
diritto
legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale (tra le
molte, Sez.
3, n. 889 del 29/11/2011, Falconi, Rv. 251640; Sez. 3, n. 13730 del
12/01/2016,
Principato, Rv. 266955, relativa proprio alla realizzazione di un intervento
edilizio
che comportava l'aumento di superfici utili e volumi, con conseguente
ritenuta inapplicabilità del condono ambientale nonostante l'intervenuto
rilascio del
parere di compatibilità paesaggistica; nell'occasione, peraltro, questa
Corte ha
evidenziato che «L'emissione del provvedimento di compatibilità ambientale
da
parte della Pubblica Amministrazione non elide il potere-dovere del giudice
di
verificare la sussistenza dei presupposti del condono ambientale in termini
di
fatto e di diritto, e, nel caso di specie, la ricorrente, realizzando un
nuovo vano,
destinato ad un utilizzo abitativo, ha posto in essere un intervento che ha
comportato aumento di superfici utili e volumi, con la conseguente
inapplicabilità
del condono ambientale, cui consegue anche l'inammissibilità del relativo
motivo
di ricorso, che con tali considerazioni ha omesso di confrontarsi». Negli
stessi
termini, si veda Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263978, in
forza
della quale in tema di reati ambientali, il positivo accertamento di
compatibilità
paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la
punibilità del reato di pericolo di cui all'art. 181 in esame, che non
richiede per la
sua integrazione un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in quanto il
rilascio di
tale provvedimento non implica "automaticamente" che l'opera realizzata
possa
ritenersi "ex ante" inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico
tutelato).
E con l'ulteriore precisazione per cui il reato di pericolo
previsto
dall'art. 181 in esame non richiede, ai fini della sua configurabilità, un
effettivo
pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di
preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad
arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze
sull'assetto del
territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la
compatibilità paesaggistica delle opere eseguite (per tutte, Sez. 3, n. 11048
del
18/02/2015, Murgia, Rv. 263289); astratta idoneità che la Corte ha
riconosciuto
negli interventi in oggetto, anche in ragione delle loro dimensioni, e che
non è
possibile mettere in discussione in questa sede -come richiedono i
ricorrenti
citandone la «microconsistenza», trattandosi di valutazione di merito
non ripetibile innanzi al Giudice di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.01.2018 n. 921). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea
ad
estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non
ammettendo
termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo
complesso e
può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni
espressamente
indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità
delle opere
alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del
manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria,
dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere
originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della
cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute
conformi
alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
Sì da non poter trovare applicazione l'art. 45, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001, ripetutamente invocato, a mente del quale il rilascio in sanatoria del
permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti.
---------------
6. La sentenza ha di seguito evidenziato che «l'intervenuta e asseverata
ottemperanza alle demolizioni indicate nel permesso di costruire in
sanatoria (...)
non equivale alla riduzione in pristino richiesta dall'art. 181, comma
1-quinquies,
D.L.vo n. 42/2004 per l'estinzione del reato paesaggistico».
Orbene,
trattasi,
all'evidenza, di una valutazione in fatto, fondata sull'esame della
documentazione prodotta in giudizio e non suscettibile di ulteriore
considerazione
in questa sede, come invece richiesto dalla difesa (invero, di tutti i
ricorrenti); e
con l'ulteriore precisazione, peraltro, che la stessa lettura del permesso
di
costruire in sanatoria -se consentita- permetterebbe di verificare non
solo la relazione asseverata del geom. Pa. (più volta richiamata nei
gravami a
conferma della demolizione «di parte del vano soggiorno e cucina indicata in
progetto come da abbattere»), ma anche la perizia a firma dell'ing. Pi.,
dalla quale «si evince l'impossibilità di ripristinare l'originaria
situazione dei
luoghi senza compromettere la staticità dell'intero manufatto». Ripristino,
per
contro, imposto dall'art. 181, comma 1-quinquies in oggetto come condizione
per l'estinzione del reato.
7. Nei medesimi termini, poi, debbono esser dichiarate inammissibili le
doglianze dei ricorsi Pa. e Le. con riguardo al permesso di
costruire
in sanatoria (da leggere -nell'ottica proposta- in uno con l'originario
titolo
abilitativo e con il nulla osta paesaggistico).
Osserva la Corte, infatti,
che la
sentenza impugnata -ancora con motivazione congrua e non censurabile- ha
evidenziato l'assenza del requisito della doppia conformità di cui all'art.
36,
comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 (desunto dalla pacifica condizione
dell'abbattimento degli abusi realizzati), come tale ostativo al rilascio
del titolo in
oggetto.
Sì da doversi ribadire il costante indirizzo di questa Corte in
forza del
quale, in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea
ad
estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non
ammettendo
termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo
complesso e
può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni
espressamente
indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità
delle opere
alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del
manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria,
dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere
originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della
cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute
conformi
alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica
(tra le
altre, Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422; Sez. 3, n. 47402
del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260973).
Sì da non poter trovare applicazione l'art. 45, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001, ripetutamente invocato, a mente del quale il rilascio in sanatoria del
permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.01.2018 n. 921). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La
prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa
dell'abuso d'ufficio, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali,
tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle
violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il
soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive
violazioni di legge.
---------------
3.
Venendo, quindi, al secondo motivo di doglianza, con il quale è stato
dedotto il vizio di violazione di legge e di motivazione in ordine alla
configurabilità dell'elemento soggettivo del delitto di abuso d'ufficio,
deve preliminarmente richiamarsi il consolidato indirizzo interpretativo
secondo cui la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie
criminosa in esame, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali,
tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle
violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il
soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive
violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, dep. 29/08/2016,
Cella, Rv. 267633; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014,
Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, dep. 04/12/2013, P.M.
e P.C. in proc. Scaramazza e altri, Rv. 258290; Sez. 6, n. 21192 del
25/01/2013, dep. 17/05/2013, Barla e altri, Rv. 255368)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.08.2017 n. 38853). |
EDILIZIA PRIVATA: Le modifiche
volumetriche, quando determinano l'ampliamento all'esterno della sagoma
preesistente, qualificano l'intervento come "nuova costruzione" ai
sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1, d.P.R. n. 380 del 2001.
L'intervento di ristrutturazione, in buona sostanza, comporta pur sempre che
la volumetria resti la stessa, fatte salve le sole innovazioni necessarie
per l'adeguamento alla normativa antisismica (e, si deve ritenere, anche per
l'eliminazione delle barriere architettoniche).
---------------
La volumetria del fabbricato principale
è stata aumentata mediante ampliamento della sagoma al piano attico. Qesta premessa fattuale
è necessaria a qualificare l'intervento di "ristrutturazione"
del fabbricato principale come "nuova costruzione".
---------------
L'intervento di demolizione e ricostruzione del
manufatto di servizio può essere qualificato come "ristrutturazione"
solo se viene rispettata la volumetria preesistente, altrimenti si versa
nell'ipotesi della "nuova costruzione" (sotto il profilo
dell'ampliamento dell'opera).
---------------
5.3. Orbene, deve essere subito
chiarito che le modifiche
volumetriche, quando determinano l'ampliamento all'esterno della sagoma
preesistente, qualificano l'intervento come "nuova costruzione" ai
sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1, d.P.R. n. 380 del 2001
(in senso analogo, Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Soldano, Rv. 238462,
secondo cui, qualora si ammettesse la possibilità di un sostanziale
ampliamento dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra la
ristrutturazione edilizia e la nuova costruzione).
L'intervento di ristrutturazione, in buona sostanza, comporta pur sempre che
la volumetria resti la stessa, fatte salve le sole innovazioni necessarie
per l'adeguamento alla normativa antisismica (e, si deve ritenere, anche per
l'eliminazione delle barriere architettoniche).
5.4. Nel caso di specie, come detto, la volumetria del fabbricato principale
è stata aumentata mediante ampliamento della sagoma al piano attico.
Su questa premessa fattuale (necessaria a qualificare l'intervento di "ristrutturazione"
del fabbricato principale come "nuova costruzione"), il ricorrente
non prende posizione (né mai lo ha fatto), ma si limita a dedurre che per il
cambio di destinazione d'uso con opere è sufficiente la dichiarazione di
inizio attività; questione, come detto, del tutto irrilevante ai fini della
qualificazione dell'intervento, estranea alla "ratio decidendi" e
alla stessa rubrica, anche se la natura abusiva dell'intervento stesso
rileva, come si vedrà, al fine di escludere la natura pertinenziale del cd.
"pro-servizio".
5.5. Allo stesso modo, l'intervento di demolizione e ricostruzione del
manufatto di servizio può essere qualificato come "ristrutturazione"
solo se viene rispettata la volumetria preesistente, altrimenti si versa
nell'ipotesi della "nuova costruzione" (sotto il profilo
dell'ampliamento dell'opera)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.08.2017 n. 38632). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza ha caratteristiche sue
proprie diverse da quella contemplata dal codice civile e si sostanzia in
un'opera che pur essendo preordinata ad una oggettiva esigenza dell'edificio
principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello
stesso, abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria
conformazione strutturale e quindi non sia parte integrante o costitutiva di
altro fabbricato.
Sicché non costituisce pertinenza l'opera priva di propria individualità ed
autonomia con la quale, per esempio, venga completamente racchiuso uno
spazio aperto (balcone o terrazzo), creando così un tutto materialmente e
giuridicamente unitario, che comporti soltanto una relazione interna di
reciproco servizio nello ambito dell'edificio che lo comprende (invero, l'ampliamento di un fabbricato preesistente, nella
specie consistito nella realizzazione sul lastrico solare di una struttura
di alluminio anodizzato di mq. 15, non può considerarsi pertinenza, ma
diventa parte dell'edificio perché, una volta realizzato, ne completa la
struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di
autonomia rispetto all'edificio medesimo; nel senso che le tettoie
realizzate a copertura di lastrici non possono essere considerate
pertinenze).
Non costituisce, inoltre, pertinenza la costruzione di una parte di edificio
in ampliamento e adiacente a quello principale in quanto è evidente che tale
vano può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente
in altro modo (in verità, in
materia edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere della
pertinenza si richiede che abbia una propria individualità, che sia
oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio
principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di
mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di
destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti
urbanistici vigenti).
---------------
5.9. Costituisce insegnamento costante di questa
Suprema Corte che, in
materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza ha caratteristiche sue
proprie diverse da quella contemplata dal codice civile e si sostanzia in
un'opera che pur essendo preordinata ad una oggettiva esigenza dell'edificio
principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello
stesso, abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria
conformazione strutturale e quindi non sia parte integrante o costitutiva di
altro fabbricato (Sez. 3, n. 18299 del 17/01/2003, Chiappalone, Rv. 224288).
Sicché non costituisce pertinenza l'opera priva di propria individualità ed
autonomia con la quale, per esempio, venga completamente racchiuso uno
spazio aperto (balcone o terrazzo), creando così un tutto materialmente e
giuridicamente unitario, che comporti soltanto una relazione interna di
reciproco servizio nello ambito dell'edificio che lo comprende (così, la
risalente Sez. 3, n. 3831 del 14/02/1983, Toppi, Rv. 158762; nonché, più
recentemente, ex plurimis, Sez. 3, n. 28504 del 29/05/2007, Rossi, Rv.
237138, secondo cui l'ampliamento di un fabbricato preesistente, nella
specie consistito nella realizzazione sul lastrico solare di una struttura
di alluminio anodizzato di mq. 15, non può considerarsi pertinenza, ma
diventa parte dell'edificio perché, una volta realizzato, ne completa la
struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di
autonomia rispetto all'edificio medesimo; nel senso che le tettoie
realizzate a copertura di lastrici non possono essere considerate
pertinenze, cfr. anche Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro, Rv.
257290; Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino, Rv. 247628; Sez. 3, n.
17083 del 07/04/2006, Miranda, Rv. 234193; Sez. 3, n. 40843 del 11/10/2005,
Daniele, Rv. 232363); oppure venga realizzata una tettoia di copertura (Sez.
3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro, Rv. 257290).
Non costituisce, inoltre, pertinenza la costruzione di una parte di edificio
in ampliamento e adiacente a quello principale in quanto è evidente che tale
vano può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente
in altro modo (Sez. 3, n. 5465 del 09/12/2004, Bufano, Rv. 230846; cfr.,
altresì, Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253064, secondo cui in
materia edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere della
pertinenza si richiede che abbia una propria individualità, che
sia
oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio
principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di
mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di
destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti
urbanistici vigenti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.08.2017 n. 38632). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di un progetto, formalmente
denominato di variante, si presenta, ai fini della
modificazione del computo degli oneri concessori, come
indefettibile. Invero:
- “La presentazione <di un progetto di
variante> e di completamento delle opere già previste nella
concessione edilizia in precedenza accordata è sufficiente a
legittimare un ripensamento dell’Amministrazione <in ordine
alla determinazione degli oneri di costruzione, per una
nuova considerazione del carico urbanistico>; tuttavia il
carico urbanistico non può essere legittimamente valutato in
relazione all’intera opera –ivi compresa quella già quasi
interamente realizzata sulla base del progetto originario–
dovendosi, al contrario, accertare l’entità dell’aggravio in
rapporto all’opera “nuova” costituita <dalla variante> e dal
completamento successivo alla scadenza della concessione
originaria”;
- “È corretto l’operato
dell’Amministrazione Comunale che, in presenza di mutamento
di destinazione d’uso da industriale a commerciale di un
complesso immobiliare, intervenuto nel decennio dal rilascio
delle concessioni originarie, ha applicato il disposto di
cui all’art. 10, comma 3, l. n. 10 del 1977 rideterminando
gli oneri di urbanizzazione secondo i coefficienti vigenti
<alla data di rilascio della variante> in relazione alla
destinazione commerciale attribuita e non con riferimento
alle tabelle parametriche in origine applicabili per gli
impianti industriali”;
- “Nell’ipotesi di sostanziale
difformità tra il progetto edilizio posto a base della
concessione edilizia ed <il progetto, formalmente denominato
variante, che consiste in realtà in una nuova proposta
progettuale, e sulla base del quale siano state
effettivamente realizzate le opere>, è illegittima la
pretesa del comune di riscuotere il contributo per il costo
di costruzione relativo alla concessione suddetta”;
- “Nel caso in cui un
progetto autorizzato viene variato una o più volte in corso
d’opera, cosicché alla fine risulta realizzata non
quell’opera che originariamente era stata prevista, ma
un’opera diversa, i contributi di cui all’art. 3 legge n. 10
del 1977 devono essere determinati in esclusivo riferimento
a quest’ultima e non anche a quella originariamente
autorizzata; pertanto essi verranno corrisposti ogni volta
che viene autorizzato <un progetto (di) variante>, ma il
comune nel determinarli dovrà tener conto dell’ammontare
delle spese di urbanizzazione e dei costi di costruzione che
l’opera <secondo il progetto variato> viene a comportare,
computando naturalmente ciò che originariamente era già
stato corrisposto per il medesimo titolo”.
---------------
Conviene, in ogni caso, esaminare distintamente le censure, sollevate
nell’atto introduttivo del giudizio.
Iniziando quindi da quelle, rivolte alla contestazione della
pretesa dell’Amministrazione a riscuotere gli oneri
concessori, come determinati in occasione del rilascio
dell’originaria concessione edilizia, e in particolare dalla
prima doglianza, volta ad evidenziare l’avvenuta riduzione,
nel fabbricato realizzato, degli spazi per attività
commerciali, con corrispondente incremento di quelli,
destinati ad attività artigianali, sicché il Comune avrebbe
dovuto, in tesi, procedere alla relativa rideterminazione,
in diminuzione, degli oneri de quibus, si rileva come in
ricorso sia stato affermata, ma non provata, la
presentazione di “apposita istanza al fine di ottenere
concessione edilizia in variante all’originario titolo
edilizio”.
Detta affermazione è rimasta priva di riscontro probatorio,
non essendo stato allegato all’atto introduttivo del
giudizio, né depositato successivamente, alcun documento,
atto a dimostrare l’avvenuta presentazione di tale titolo
edilizio in variante; la circostanza, per di più, è stata
espressamente negata dalla difesa dell’Amministrazione
Comunale.
Orbene, in ossequio a principi pacifici, in tema di
ripartizione dell’onere della prova (“Onus probandi incumbit
ei qui dicit, non ei qui negat”), nell’assenza di
dimostrazione circa la positiva produzione di un’apposita
domanda di concessione edilizia in variante, la circostanza
deve ritenersi, ai fini del presente giudizio, esclusa.
Ciò posto, condivisibile si presenta la tesi difensiva del
Comune, secondo la quale la pretesa del ricorrente alla
riduzione degli oneri concessori, e segnatamente del costo
di costruzione, in relazione alla diversa destinazione d’uso
finale di taluni spazi dell’immobile edificato, non può
essere accolta, in difetto della presentazione d’idoneo
progetto in variante, che desse conto dell’avvenuta diversa
distribuzione degli spazi, rispetto a quello originario (su
cui la richiesta dei medesimi oneri s’è fondata).
L’analisi della giurisprudenza in materia, infatti, consente
di ricavare un indirizzo costante, per quanto, talora,
implicito, secondo il quale la presentazione di un progetto,
formalmente denominato di variante, si presenta, ai fini
della modificazione del computo degli oneri concessori, come
indefettibile:
- “La presentazione <di un progetto di
variante> e di completamento delle opere già previste nella
concessione edilizia in precedenza accordata è sufficiente a
legittimare un ripensamento dell’Amministrazione <in ordine
alla determinazione degli oneri di costruzione, per una
nuova considerazione del carico urbanistico>; tuttavia il
carico urbanistico non può essere legittimamente valutato in
relazione all’intera opera –ivi compresa quella già quasi
interamente realizzata sulla base del progetto originario–
dovendosi, al contrario, accertare l’entità dell’aggravio in
rapporto all’opera “nuova” costituita <dalla variante> e dal
completamento successivo alla scadenza della concessione
originaria” (Cons. giust. amm. Sicilia – Sez. giurisd.,
14/01/2009, n. 7);
- “È corretto l’operato
dell’Amministrazione Comunale che, in presenza di mutamento
di destinazione d’uso da industriale a commerciale di un
complesso immobiliare, intervenuto nel decennio dal rilascio
delle concessioni originarie, ha applicato il disposto di
cui all’art. 10, comma 3, l. n. 10 del 1977 rideterminando
gli oneri di urbanizzazione secondo i coefficienti vigenti
<alla data di rilascio della variante> in relazione alla
destinazione commerciale attribuita e non con riferimento
alle tabelle parametriche in origine applicabili per gli
impianti industriali” (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII,
03/09/2008, n. 10035);
- “Nell’ipotesi di sostanziale
difformità tra il progetto edilizio posto a base della
concessione edilizia ed <il progetto, formalmente denominato
variante, che consiste in realtà in una nuova proposta
progettuale, e sulla base del quale siano state
effettivamente realizzate le opere>, è illegittima la
pretesa del comune di riscuotere il contributo per il costo
di costruzione relativo alla concessione suddetta” (TAR
Liguria, Sez. I, 26/01/1993, n. 17);
- “Nel caso in cui un
progetto autorizzato viene variato una o più volte in corso
d’opera, cosicché alla fine risulta realizzata non
quell’opera che originariamente era stata prevista, ma
un’opera diversa, i contributi di cui all’art. 3 legge n. 10
del 1977 devono essere determinati in esclusivo riferimento
a quest’ultima e non anche a quella originariamente
autorizzata; pertanto essi verranno corrisposti ogni volta
che viene autorizzato <un progetto (di) variante>, ma il
comune nel determinarli dovrà tener conto dell’ammontare
delle spese di urbanizzazione e dei costi di costruzione che
l’opera <secondo il progetto variato> viene a comportare,
computando naturalmente ciò che originariamente era già
stato corrisposto per il medesimo titolo” (TAR Emilia
Romagna-Bologna, 11/06/1982, n. 302).
Il primo motivo di ricorso, pertanto, non merita
accoglimento, non apparendo, al Collegio, sufficiente la
produzione –in data 01.12.2014– da parte del ricorrente, di
una relazione tecnica, dalla quale “s’evincono le
destinazioni d’uso dei singoli spazi dell’immobile”; tanto
in assenza, si ribadisce, di alcuna prova, circa la
formalizzazione di tali modifiche di destinazione d’uso, in
un progetto di variante, formalmente denominato tale,
ritualmente presentato al Comune (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esame della giurisprudenza consente di
enucleare un orientamento prevalente, nel senso dell’indefettibilità
di un accordo, secondo talune massime anche informale, tra
Amministrazione e privato, al fine d’ottenere lo scomputo
parziale degli oneri in questione. Invero:
- “L’art. 16, comma 2, d. P. R. n. 380 del 2001 (che
ha riprodotto l’art. 11, comma 1, l. n. 10 del 1977) consente
al privato di eseguire direttamente le opere di
urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi
oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo
da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria), <ma tale facoltà ha effetto soltanto
se la proposta del privato sia accettata dal Comune> secondo
le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e previste
<in una convenzione o in un atto unilaterale d’obbligo>";
- “La
normativa in materia (art. 7, 11 e 13 l. n. 10 del 1977 ed
ora art. 16 e 17 d.P.R. n. 380 del 2001) prevede solo in
determinate ipotesi e <previa convenzione> la possibilità
dell’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione
mediante lo scomputo, totale o parziale, del contributo, per
cui le somme versate per oneri di urbanizzazione non sono
rimborsabili perché ciò non è previsto dalla legge”;
- “L’art.
11, l. n. 10 del 1977, nel prevedere la possibilità per il
titolare della concessione edilizia dello scomputo dal
contributo delle somme relative a spese per opere di
urbanizzazione direttamente realizzate, limita tale
possibilità a quelle opere che il concessionario si sia
obbligato ad eseguire e dispone espressamente che la
possibilità medesima va esercitata <con le modalità e le
garanzie stabilite dal comune>, sicché l’esenzione totale o
parziale dal pagamento degli oneri di urbanizzazione è
espressione di un’attività valutativa, di natura
discrezionale, dell’amministrazione che si conclude <con un
atto, anche di natura convenzionale, che fissi il tipo e
l’entità delle opere ammesse dal comune alla realizzazione
diretta da parte del titolare della concessione edilizia>
nonché <l’importo economico da scomputare>, mentre
l’esenzione in discorso non può mai derivare <dall’autonoma
scelta unilaterale del concessionario>; peraltro, pur in
assenza di un atto d’obbligo, l’amministrazione può tenere
conto della domanda di scomputo delle opere già realizzate
senza il previo dettato comunale ove sussista la relativa
previsione, anche se solo in forma generica, nella
concessione edilizia ovvero la discrezionale determinazione
di accettazione “ex post” delle opere da parte del comune
stesso”;
- “Il diritto di scomputo non può configurarsi <in
assenza quantomeno di una anche informale “accettazione”, da
parte del Comune, dell’opera di urbanizzazione realizzata
dal costruttore>, con la ineluttabile conseguenza che, in
assenza di qualsivoglia partecipazione consensuale dell’Ente
pubblico, anche solo “ex post”, gli oneri contributivi, così
come determinati, vanno integralmente corrisposti”.
---------------
Analogo discorso va operato, anche riguardo alla seconda
censura dell’atto introduttivo del giudizio.
Anche in tal caso, difetta la prova di qualsivoglia atto
convenzionale, intercorso tra Comune e ricorrente, circa la
ripartizione della realizzazione degli oneri di
urbanizzazione; più in radice, difetta anche la prova della
stessa parziale realizzazione di detti oneri, da parte del
medesimo ricorrente.
In ogni caso, anche a prescindere da tale ultimo aspetto,
l’esame della giurisprudenza in argomento consente, anche in
questo caso, di enucleare un orientamento prevalente, nel
senso dell’indefettibilità di un accordo, secondo talune
massime anche informale, tra Amministrazione e privato, al
fine d’ottenere lo scomputo parziale degli oneri in
questione:
- “L’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (che
ha riprodotto l’art. 11, comma 1, l. n. 10 del 1977) consente
al privato di eseguire direttamente le opere di
urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi
oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo
da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria), <ma tale facoltà ha effetto soltanto
se la proposta del privato sia accettata dal Comune> secondo
le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e previste
<in una convenzione o in un atto unilaterale d’obbligo" (TAR Sicilia–Catania, Sez. I,
02/02/2012, n. 279);
- “La
normativa in materia (art. 7, 11 e 13 l. n. 10 del 1977 ed
ora art. 16 e 17 d.P.R. n. 380 del 2001) prevede solo in
determinate ipotesi e <previa convenzione> la possibilità
dell’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione
mediante lo scomputo, totale o parziale, del contributo, per
cui le somme versate per oneri di urbanizzazione non sono
rimborsabili perché ciò non è previsto dalla legge” (TAR Campania–Salerno, Sez. II,
03/08/2006, n. 1118);
- “L’art.
11, l. n. 10 del 1977, nel prevedere la possibilità per il
titolare della concessione edilizia dello scomputo dal
contributo delle somme relative a spese per opere di
urbanizzazione direttamente realizzate, limita tale
possibilità a quelle opere che il concessionario si sia
obbligato ad eseguire e dispone espressamente che la
possibilità medesima va esercitata <con le modalità e le
garanzie stabilite dal comune>, sicché l’esenzione totale o
parziale dal pagamento degli oneri di urbanizzazione è
espressione di un’attività valutativa, di natura
discrezionale, dell’amministrazione che si conclude <con un
atto, anche di natura convenzionale, che fissi il tipo e
l’entità delle opere ammesse dal comune alla realizzazione
diretta da parte del titolare della concessione edilizia>
nonché <l’importo economico da scomputare>, mentre
l’esenzione in discorso non può mai derivare <dall’autonoma
scelta unilaterale del concessionario>; peraltro, pur in
assenza di un atto d’obbligo, l’amministrazione può tenere
conto della domanda di scomputo delle opere già realizzate
senza il previo dettato comunale ove sussista la relativa
previsione, anche se solo in forma generica, nella
concessione edilizia ovvero la discrezionale determinazione
di accettazione “ex post” delle opere da parte del comune
stesso” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 04/07/2005, n.
1082);
- “Il diritto di scomputo non può configurarsi <in
assenza quantomeno di una anche informale “accettazione”, da
parte del Comune, dell’opera di urbanizzazione realizzata
dal costruttore>, con la ineluttabile conseguenza che, in
assenza di qualsivoglia partecipazione consensuale dell’Ente
pubblico, anche solo “ex post”, gli oneri contributivi, così
come determinati, vanno integralmente corrisposti” (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV, 11/12/2003, n. 15215).
Con riferimento a quanto emerge dall’ultima delle massime
citate, nella specie il Comune, lungi dall’accettare, “ex
post”, le opere d’urbanizzazione, asseritamente
realizzate dal ricorrente, ha concluso per il respingimento
del gravame, anche sotto tale aspetto: ne consegue, di
necessità, il rigetto della censura (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: - “Secondo l’interpretazione giurisprudenziale
prevalente, l’art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, nel
consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo
degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in
deroga alla vigente disciplina urbanistica, <concerne i soli
fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie
rilasciate per realizzare edifici nuovi>, per i quali invece
provvede l’art. 2, comma 2, della legge stessa che, nel
novellare l’art. 41-sexies, l. fondamentale 17.08.1942
n. 1150, stabilisce l’obbligo di riservare appositi spazi
per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc
di costruzione”;
- “Le disposizioni ex art. 2 e 9, l. 24.03.1989 n. 122, in materia di realizzazione di parcheggi
nel sottosuolo di edifici preesistenti o nei locali siti al
piano terreno di questi ultimi, anche in deroga allo
strumento urbanistico, possono concernere esclusivamente
<fabbricati già esistenti> -all'evidente scopo di adeguarne
la struttura alle finalità della l. n. 122 del 1989, qualora
essa sia carente sotto questo profilo-, <ma non anche gli
edifici in costruzione>, i quali già “ab initio” devono
esser progettati, in coerenza con tali finalità”;
- “La realizzazione
di autorimesse e parcheggi destinati al servizio <di
fabbricati esistenti> è soggetta ad autorizzazione gratuita
esclusivamente se effettuata totalmente al di sotto del
piano di campagna naturale, conseguentemente non rientrano
in tale disciplina di favore i manufatti realizzati con
interramenti ottenuti per effetto del riporto di terra”;
- “Per
poter configurare una pertinenza ex art. 7 d. l. n. 9 del
1982, soggetta ad autorizzazione gratuita (e, in caso di
realizzazione abusiva, alla sanzione amministrativa ex art.
10 l. n. 47 del 1985), è necessario <un obiettivo rapporto
di strumentalità o di servizio rispetto ad un “edificio”
esistente> e non già rispetto ad una “mera” attività
economica”;
- “L’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, che consente di
realizzare gratuitamente “nel sottosuolo” parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è
una norma che ponendosi in deroga “ (...) agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (...)” è di
stretta interpretazione, per cui deve trovare rigorosa
applicazione nelle sole fattispecie espressamente previste”.
---------------
Passando, ora, ad analizzare la terza, devono del pari
condividersi le deduzioni difensive del Comune, fondate,
ancora una volta, sulla disamina della prevalente
giurisprudenza, in tema di gratuità dell’edificazione di
parcheggi pertinenziali, limitata solo in favore dei
proprietari di unità immobiliari, già esistenti.
Possono richiamarsi, a tale proposito, le decisioni
seguenti:
- “Secondo l’interpretazione giurisprudenziale
prevalente, l’art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, nel
consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo
degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in
deroga alla vigente disciplina urbanistica, <concerne i soli
fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie
rilasciate per realizzare edifici nuovi>, per i quali invece
provvede l’art. 2, comma 2, della legge stessa che, nel
novellare l’art. 41-sexies, l. fondamentale 17.08.1942
n. 1150, stabilisce l’obbligo di riservare appositi spazi
per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc
di costruzione” (TAR Lombardia–Milano, Sez. IV,
20/09/2013, n. 2192; conforme: Consiglio di Stato, Sez. IV,
16/04/2012, n. 2185);
- “Le disposizioni ex art. 2 e 9, l. 24.03.1989 n. 122, in materia di realizzazione di parcheggi
nel sottosuolo di edifici preesistenti o nei locali siti al
piano terreno di questi ultimi, anche in deroga allo
strumento urbanistico, possono concernere esclusivamente
<fabbricati già esistenti> -all'evidente scopo di adeguarne
la struttura alle finalità della l. n. 122 del 1989, qualora
essa sia carente sotto questo profilo-, <ma non anche gli
edifici in costruzione>, i quali già “ab initio” devono
esser progettati, in coerenza con tali finalità” (Consiglio
di Stato – Sez. V, 27/09/1999, n. 1185);
- “La realizzazione
di autorimesse e parcheggi destinati al servizio <di
fabbricati esistenti> è soggetta ad autorizzazione gratuita
esclusivamente se effettuata totalmente al di sotto del
piano di campagna naturale, conseguentemente non rientrano
in tale disciplina di favore i manufatti realizzati con
interramenti ottenuti per effetto del riporto di terra”
(Cassazione penale, Sez. III, 09/05/2003, n. 26825);
- “Per
poter configurare una pertinenza ex art. 7 d. l. n. 9 del
1982, soggetta ad autorizzazione gratuita (e, in caso di
realizzazione abusiva, alla sanzione amministrativa ex art.
10 l. n. 47 del 1985), è necessario <un obiettivo rapporto
di strumentalità o di servizio rispetto ad un “edificio”
esistente> e non già rispetto ad una “mera” attività
economica” (TAR Liguria, Sez. I, 26/11/2012, n. 1503);
- “L’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, che consente di
realizzare gratuitamente “nel sottosuolo” parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è
una norma che ponendosi in deroga “ (...) agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (...)” è di
stretta interpretazione, per cui deve trovare rigorosa
applicazione nelle sole fattispecie espressamente previste”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 13/07/2011, n. 4234).
Anche la predetta doglianza deve essere, pertanto, disattesa (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il computo degli oneri di
urbanizzazione costituisce provvedimento di per sé
vincolato, che va emesso sulla base di parametri
prestabiliti e che, pertanto, non richiede una specifica
motivazione sulla determinazione delle relative somme.
Il
calcolo dei contributi concessori dovuti costituisce
attività vincolata, non autoritativa, che si fonda
sull’applicazione automatica di regole di calcolo previste
da fonte normativa, senza alcun contenuto di
discrezionalità. Pertanto, non sussiste al riguardo
l’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art.
3, l. n. 241 del 1990 per i provvedimenti amministrativi, ed
eventuali vizi di carattere formale recedono di fronte alla
verifica, anche in sede giurisdizionale, dei presupposti che
rendono ragione della pretesa pecuniaria.
---------------
Né miglior sorte può essere riservata alla quarta, in cui si
lamenta il difetto d’adeguata motivazione dell’atto, con cui
il Comune ha quantificato oneri (e sanzioni) dovute dal
ricorrente.
Valga, a tale riguardo, il richiamo della giurisprudenza
dominante, secondo la quale:
- “Il computo degli oneri di
urbanizzazione costituisce provvedimento di per sé
vincolato, che va emesso sulla base di parametri
prestabiliti e che pertanto non richiede una specifica
motivazione sulla determinazione delle relative somme”
(Consiglio di Stato, Sez. V, 21/05/2014, n. 2606);
- “Il
calcolo dei contributi concessori dovuti costituisce
attività vincolata, non autoritativa, che si fonda
sull’applicazione automatica di regole di calcolo previste
da fonte normativa, senza alcun contenuto di
discrezionalità. Pertanto, non sussiste al riguardo
l’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art.
3, l. n. 241 del 1990 per i provvedimenti amministrativi, ed
eventuali vizi di carattere formale recedono di fronte alla
verifica, anche in sede giurisdizionale, dei presupposti che
rendono ragione della pretesa pecuniaria” (TAR Toscana,
Sez. III, 06/04/2010, n. 928).
In conclusione, la determinazione degli oneri concessori,
come effettuata dal Comune di Pontecagnano Faiano, con la
nota specificata in epigrafe, si sottrae alle censure di
parte ricorrente (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Qualora
il titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a
garanzia del versamento dei contributi, una polizza
fideiussoria priva del beneficio di preventiva escussione
dell’obbligato principale, ai sensi dell’art. 1227, secondo
comma, c.c., che pone a carico del creditore i danni che
questi avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza,
non possono essere applicate le sanzioni previste dall’art.
3 della l. 28.02.1985, n. 47, per il caso di omesso o
ritardato versamento dei contributi, ove l’amministrazione
creditrice, violando i doveri di correttezza e buona fede,
non si sia attivata per tempo nel chiedere al garante il
pagamento delle somme dovute.
Il ritardato pagamento dei
contributi afferenti al rilascio del permesso di costruire,
ove il titolare del permesso stesso abbia presentato
fideiussione a prima richiesta a garanzia della
corresponsione delle rate delle somme dovute, non comporta
l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 3, l. n. 47
del 1985 per ritardato pagamento, in quanto il Comune,
decorsa la scadenza fissata per il pagamento di ciascuna
rata, è tenuto a chiedere il pagamento al fideiussore, in
quanto l’amministrazione deve rendere meno gravosa la
posizione del debitore nell’adempiere all’obbligazione.
Ove il
titolare della concessione edilizia (ora, permesso per
costruire) abbia stipulato fideiussione a garanzia del
pagamento dei relativi contributi ed il garante abbia
comunicato al comune l’impegno a versare “a prima richiesta”
gli importi non corrisposti dal concessionario, deve
ritenersi illegittima, in base all’art. 1227, comma 2, c.c.,
l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 3, l. 28.02.1985 n. 47, per il ritardo nel versamento del
contributo edilizio, nel caso di mancata cooperazione del
comune creditore all’adempimento dell’obbligazione.
---------------
Sulle somme indebitamente riscosse a titolo di contributi
urbanistici ex art. 3, l. 28.01.1977 n. 10 spettano gli
interessi legali dalla data della domanda di restituzione,
ma non anche la rivalutazione monetaria, trattandosi di
un’obbligazione di restituzione d’indebito oggettivo.
---------------
Diversamente deve ritenersi, quanto alla pretesa, dello
stesso Comune, di ottenere dal ricorrente il pagamento delle
sanzioni, ex art. 3 l. 47/1985.
A tal proposito, carattere decisivo, con assorbimento d’ogni
altro profilo di doglianza, riveste la considerazione della
censura, in cui s’è posto in risalto come il ricorrente
avesse prestato garanzia fideiussoria a prima richiesta, non
prevedente la necessità d’escutere preventivamente il
debitore principale, onde, in casi del genere, le sanzioni
applicate risultano prive di valida giustificazione, come
ritenuto dalla giurisprudenza, cui la Sezione ritiene di
aderire.
Si premette che la presentazione di tale garanzia
fideiussoria costituisce un dato acquisito al processo,
essendo stata la circostanza affermata dal ricorrente e non
negata dalla difesa dell’Amministrazione Comunale, che ha,
anzi, esibito copia della relativa polizza (si legga l’art.
7 della stessa, sull’esclusione del “beneficium excussionis”).
Si tengano, allora, presenti le seguenti massime:
- “Qualora
il titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a
garanzia del versamento dei contributi, una polizza
fideiussoria priva del beneficio di preventiva escussione
dell’obbligato principale, ai sensi dell’art. 1227, secondo
comma, c.c., che pone a carico del creditore i danni che
questi avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza,
non possono essere applicate le sanzioni previste dall’art.
3 della l. 28.02.1985, n. 47, per il caso di omesso o
ritardato versamento dei contributi, ove l’amministrazione
creditrice, violando i doveri di correttezza e buona fede,
non si sia attivata per tempo nel chiedere al garante il
pagamento delle somme dovute” (Consiglio di Stato, Sez. I,
17/05/2013, n. 11663);
- “Il ritardato pagamento dei
contributi afferenti al rilascio del permesso di costruire,
ove il titolare del permesso stesso abbia presentato
fideiussione a prima richiesta a garanzia della
corresponsione delle rate delle somme dovute, non comporta
l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 3, l. n. 47
del 1985 per ritardato pagamento, in quanto il Comune,
decorsa la scadenza fissata per il pagamento di ciascuna
rata, è tenuto a chiedere il pagamento al fideiussore, in
quanto l’amministrazione deve rendere meno gravosa la
posizione del debitore nell’adempiere all’obbligazione” (TAR Toscana, Sez. III, 27/09/2012, n. 1564);
- “Ove il
titolare della concessione edilizia (ora, permesso per
costruire) abbia stipulato fideiussione a garanzia del
pagamento dei relativi contributi ed il garante abbia
comunicato al comune l’impegno a versare “a prima richiesta”
gli importi non corrisposti dal concessionario, deve
ritenersi illegittima, in base all’art. 1227, comma 2, c.c.,
l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 3, l. 28.02.1985 n. 47, per il ritardo nel versamento del
contributo edilizio, nel caso di mancata cooperazione del
comune creditore all’adempimento dell’obbligazione” (TAR Lazio–Latina, 13/11/2006, n. 1660; conforme: TAR
Campania–Napoli, Sez. II, 21/05/2008, n. 4856).
L’accoglimento del ricorso, sotto il profilo dianzi
evidenziato, comporta che il Comune resistente dovrà
scomputare, dall’importo richiesto al ricorrente, quello per
le prefate sanzioni.
Quanto alla richiesta, genericamente formulata nell’epigrafe
del ricorso, di dichiarare l’obbligo del Comune di procedere
alla restituzione delle somme, indebitamente percepite,
oltre interessi e rivalutazione monetaria, è evidente che la
stessa potrà riguardare, giusta le considerazioni che
precedono, soltanto gli importi, già eventualmente versati,
dal ricorrente, a titolo di sanzioni ex art. 3 l. 47/1985,
importi che, in tale eventualità, gli dovranno,
evidentemente, essere restituiti, ovvero dovranno essere
scomputati dalle somme, richieste a titolo di oneri
concessori (ove non ancora pagate).
Su tali somme (dovute a
titolo di sanzioni), ove eventualmente (e nella parte) da
rimborsare, andranno calcolati gli interessi legali, dalla
data della domanda giudiziale, sino al soddisfo, mentre
andrà esclusa, invece, la rivalutazione monetaria (“Sulle
somme indebitamente riscosse a titolo di contributi
urbanistici ex art. 3, l. 28.01.1977 n. 10 spettano gli
interessi legali dalla data della domanda di restituzione,
ma non anche la rivalutazione monetaria, trattandosi di
un’obbligazione di restituzione d’indebito oggettivo” –
Consiglio di Stato, Sez. V, 05/06/1997, n. 591) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.01.2015 n. 28 - link a
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URBANISTICA:
La convenzione di lottizzazione rappresenta un
istituto di complessa ricostruzione, a causa dei profili di
stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale. Tuttavia la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che esso sia frutto dell’incontro di
volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia
negoziale retta dal codice civile.
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle
ipotesi in cui alcuni contenuti
dell’accordo vengono proposti dall’Amministrazione in
termini non modificabili dal privato, essendo evidente che
una tale evenienza non esclude che la parte che abbia
sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto,
abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata, salvo il ricorso
agli strumenti di tutela in caso di invalidità del
contratto.
Ora, la puntuale e dettagliata
descrizione degli obblighi inerenti gli oneri di
urbanizzazione contenuta nella convenzione, escludono che
essi non siano il risultato di una libera negoziazione tra
le parti, e debbano, invece, ascriversi alla determinazione
unilaterale del comune che, peraltro, avrebbe fatto
illegittima applicazione delle tariffe comunali, non ancora
adeguate alle nuove tabelle regionali.
Depongono in senso contrario alla tesi della società
appellante una serie di circostanze, quali, in primo luogo,
quella della data di sottoscrizione della convenzione,
avvenuta il 13.06.2002 e, quindi, quando le nuove tabelle
regionali erano state adottate da oltre due anni.
Depongono, ancora, in tale senso le precise e minuziose
prescrizioni in tema di tipologia e quantificazione di opere
di urbanizzazione e, soprattutto, la disposizione, contenuta
all'ultimo comma dell’art. 9, il quale –a proposito degli
oneri di urbanizzazione primaria– prevede che “ove
il costo delle opere di urbanizzazione primaria eseguite
direttamente dai proponenti ecceda l'onere forfetariamente
determinato, ai proponenti stessi non è dovuto alcun
rimborso, compenso o scomputo da altri oneri a qualsiasi
titolo determinati”.
A fronte di tale inequivoca volontà espressa dalle parti
contraenti, è facile rilevare che il privato ha inteso
liberamente assumere impegni patrimoniali più onerosi
rispetto a quel li astrattamente previsti dalla legge:
impegno questo che rientra nella piena disponibilità delle
parti, posto che la normativa vigente non esclude affatto
che le parti possano, per valutazioni di convenienza,
regolare il rapporto in termini diversi.
---------------
2.2. Le conclusioni del primo giudice devono essere
confermate.
La tesi dell’appellante, secondo cui l’importo richiesto a
titolo di oneri di urbanizzazione, non può farsi risalire
alla volontà contrattuale liberamente espressa dalle parti,
ma si concretizza in una determinazione unilaterale del
comune, peraltro, in contrasto con le nuove tabelle
regionali, non può essere condivisa.
Com’è noto, la convenzione di lottizzazione rappresenta un
istituto di complessa ricostruzione, a causa dei profili di
stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale. Tuttavia la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che esso sia frutto dell’incontro di
volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia
negoziale retta dal codice civile.
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle
ipotesi, come quella in esame, in cui alcuni contenuti
dell’accordo vengono proposti dall’Amministrazione in
termini non modificabili dal privato, essendo evidente che
una tale evenienza non esclude che la parte che abbia
sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto,
abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata, salvo il ricorso
agli strumenti di tutela in caso di invalidità del
contratto.
Ora, nella fattispecie, la puntuale e dettagliata
descrizione degli obblighi inerenti gli oneri di
urbanizzazione contenuta nella convenzione, escludono che
essi non siano il risultato di una libera negoziazione tra
le parti, e debbano, invece, ascriversi alla determinazione
unilaterale del comune che, peraltro, avrebbe fatto
illegittima applicazione delle tariffe comunali, non ancora
adeguate alle nuove tabelle regionali.
Depongono in senso contrario alla tesi della società
appellante una serie di circostanze, quali, in primo luogo,
quella della data di sottoscrizione della convenzione,
avvenuta il 13.06.2002 e, quindi, quando le nuove tabelle
regionali erano state adottate da oltre due anni.
Depongono, ancora, in tale senso le precise e minuziose
prescrizioni in tema di tipologia e quantificazione di opere
di urbanizzazione e, soprattutto, la disposizione, contenuta
all'ultimo comma dell’art. 9, il quale –a proposito degli
oneri di urbanizzazione primaria– prevede che “ove
il costo delle opere di urbanizzazione primaria eseguite
direttamente dai proponenti ecceda l'onere forfetariamente
determinato, ai proponenti stessi non è dovuto alcun
rimborso, compenso o scomputo da altri oneri a qualsiasi
titolo determinati”.
A fronte di tale inequivoca volontà espressa dalle parti
contraenti, è facile rilevare che il privato ha inteso
liberamente assumere impegni patrimoniali più onerosi
rispetto a quel li astrattamente previsti dalla legge:
impegno questo che rientra nella piena disponibilità delle
parti, posto che la normativa vigente non esclude affatto
che le parti possano, per valutazioni di convenienza,
regolare il rapporto in termini diversi (cfr., CdS, Sez. V,
29.09.1999, n. 1209).
In tale quadro ricostruttivo della volontà delle parti, non
assume rilievo il richiamo, operato dall’appellante, alla
specifica previsione della convenzione, nella parte in cui
dispone che all’atto del rilascio delle singole concessioni
l’importo degli oneri forfettariamente determinati deve
essere adeguato in base agli aggiornamenti avvenuti agli
oneri unitari stabiliti dalle tariffe comunali.
Contrariamente a quanto mostra di ritenere la società Ni.,
tale clausola, contenuta nell’art. 9 in tema di oneri di
urbanizzazione secondaria, è riferita al caso in cui gli
oneri unitari stabiliti dalle tariffe comunali in vigore
all’atto del rilascio delle singole concessioni abbiano
subito un aggiornamento in aumento.
Dalle considerazioni che precedono si ricava che
diversamente da quanto ritenuto dalla società Ni., non vi
sono elementi per ritenere che il contenuto della
convenzione non sia stato frutto di una libera negoziazione
tra le parti contraenti, in esse compresa la Ca.Du.,
dante causa dell'odierna appellante e firmataria della
convenzione.
La pretesa della società Ni. –che, è bene ribadire, non ha
sottoscritto la convenzione ma ha acquistato il tutto dalla
Ca.Du.– di voler rimettere in discussione obblighi
liberamente assunti dalla sua dante causa è, quindi,
infondata e va respinta (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.07.2005 n. 4015 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.06.2019 |
ã |
Diritto di accesso, o meno,
agli atti amministrativi: la storia infinita... |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Istanza di accesso – Differenza tra richieste esplorative e
richieste generiche o ad ampio spettro – Ammissibilità delle
richieste generiche – Fondamento.
Va evidenziato:
- che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo
ad un’informazione qualificata, a fronte del quale
l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare
gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
- che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento
della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione
del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97
Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione” ex
art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea”;
- che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso;
- che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel
testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o
diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”;
- che va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel senso
della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un
interesse diretto, concreto, attuale connesso alla
disponibilità dell'atto o del documento del quale si
richiede l’accesso), non imponendosi che l'accesso al
documento sia unicamente e necessariamente funzionale
all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada intesa in
senso ampio in termini di utilità per la difesa di un
interesse giuridicamente rilevante;
- che la “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata dalla
L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto di
accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione, e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo;
- che, in definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità
dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i
documenti sono suscettibili di interferire con la sfera
giuridica del soggetto istante.
---------------
Va considerato:
- che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi;
- che deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale;
- che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze
di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si
assumano lese;
- che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma.
---------------
Va tenuto conto:
- che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede
di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a
valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse
palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento
al fine del soddisfacimento della pretesa correlata;
- che, nella fattispecie, appare chiara la correlazione tra
l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva
sottostante, ovvero l’esistenza di un collegamento
funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del
documento richiesto;
- che, infatti, la divulgazione degli atti attestanti l’utilizzo
del contributo di escavazione soddisfa una concreta
aspirazione dell’istante, la quale è chiaramente titolare
dell’interesse a prenderne cognizione al fine di vagliare la
situazione di fatto e orientare le proprie scelte
successive, anche in sede giurisdizionale;
- che questo TAR ha sostenuto che il diritto di accesso non può
essere subordinato all’avvio di una controversia sulla
pretesa di merito, al fine di provocare l’ordine del giudice
rivolto a un terzo o a una pubblica amministrazione per
l’esibizione di documenti ex art. 210-213 cpc;
- che non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio
di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di
ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto
di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via
giurisdizionale e attivando la controversia di merito;
- che la sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del
documento da parte dell’amministrazione detentrice, una
volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo
del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116
cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con
richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte
del giudice.
---------------
Per quanto riguarda l’ampiezza dell’istanza di accesso,
occorre distinguere le richieste esplorative da
quelle semplicemente generiche o ad ampio spettro.
Solo le prime possono essere respinte come un indebito
tentativo di sottoporre a controllo l’intera attività
amministrativa. Le seconde risultano invece perfettamente
ammissibili, in quanto sono una conseguenza dell’asimmetria
informativa, che vede i privati in posizione disvantaggio
rispetto all’amministrazione.
In effetti, i privati, conoscendo in modo imperfetto e
atecnico le pratiche amministrative, e dovendosi talvolta
basare solo su quanto è osservabile nella realtà quotidiana
(ad esempio, il mutamento dello stato dei luoghi), sono
costretti a proporre l’istanza di accesso in termini
descrittivi e generici, e a coinvolgere nella richiesta ogni
provvedimento che abbia un collegamento anche solo apparente
con la vicenda che li riguarda (ad esempio, gli atti citati
nelle premesse o nella motivazione per relationem); a fronte
di istanze così formulate, gli uffici comunali sono gravati
da un obbligo di leale collaborazione avente un duplice
contenuto, positivo e negativo.
Da un lato, devono aiutare i richiedenti a focalizzare
esattamente la documentazione che presenta elementi di
interesse, fornendo le informazioni necessarie a chiarire il
contesto entro cui si è svolta l’attività amministrativa.
Dall’altro, devono evitare di sostituirsi ai richiedenti
nel giudizio sulla rilevanza dei provvedimenti inseriti
nelle pratiche amministrative o richiamati negli atti già
offerti in visione. Una volta che i richiedenti abbiano
precisato o integrato l’istanza di accesso, gli unici limiti
sono ravvisabili nella presenza di dati sensibili, la cui
divulgazione richiede un supplemento di valutazione.
Peraltro, nel caso in esame non sono stati evidenziati
elementi di questa natura.
---------------
... per l’esercizio del diritto di accesso ALLA
DOCUMENTAZIONE DETENUTA DAL COMUNE INTIMATO, INDICATA NELLA
DOMANDA DI ACCESSO TRASMESSA IL 05/12/2018 E RELATIVA ALLE
MODALITA’ DI UTILIZZO DEL CONTRIBUTO DI ESCAVAZIONE.
...
Evidenziato:
- che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo
ad un’informazione qualificata, a fronte del quale
l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare
gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
- che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento
della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione
del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97
Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione”
ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea”;
- che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso;
- che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel
testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso”;
- che va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel
senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura
di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla
disponibilità dell'atto o del documento del quale si
richiede l’accesso), non imponendosi che l'accesso al
documento sia unicamente e necessariamente funzionale
all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada
intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di
un interesse giuridicamente rilevante (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V – 01/08/2017 n. 3831);
- che la “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata
dalla L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto
di accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione, e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo
(Consiglio di Stato, sez. VI – 30/03/2017 n. 1453);
- che, in definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità
dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i
documenti sono suscettibili di interferire con la sfera
giuridica del soggetto istante;
Atteso:
- che la Società ricorrente svolge attività di coltivazione di
sabbia e ghiaia, e deve corrispondere al Comune di Ghedi i
diritti di escavazione previsti dall’art. 6 della
convenzione stipulata tra le parti (doc. 4), in ossequio
all’art. 15, comma 1, della L.r. 14/1998;
- che la convenzione prevede che “La Ditta si impegna a versare
al Comune, a titolo di contributo alla spesa necessaria per
la realizzazione delle infrastrutture e degli interventi
pubblici a servizio dell’attività estrattiva nonché per gli
interventi pubblici di recupero ambientale dell’area
interessata direttamente o indirettamente dall’attività
estrattiva, una somma pari a € 0,50 … per mc….”;
- che l’esponente lamenta il mancato parziale riconoscimento di una
rateizzazione per i versamenti relativi alle annualità
2016-2017;
- che, nel riscontrare la richiesta di rendicontazione
dell’utilizzo effettivo del contributo inoltrata con nota
21/08/2018 (doc. 8), il Comune (cfr. nota 06/11/2018 doc. 9)
ha ribadito il diniego all’istanza di rateizzazione, e ha
affermato “che le somme fino ad ora versate, escluse le
annualità 2017 (escavazione 2016) e 2018 (escavazione 2017)
sono state utilizzate dall’Ente per il pagamento degli
espropri e dei relativi atti notarili per la realizzazione
della deviante Ovest al centro abitato comunale … Parte
delle somme ai sensi ed effetti del comma 2 dell’art. 25
della L.R. 14/1998 per la quota ammontante al 15% sono già
state corrisposte alla Provincia di Brescia … alla Provincia
di Brescia è stata altresì riversata la corrispondente quota
dell’annualità 2017 (escavazione 2016) ed entro il mese di
dicembre c.a. verrà anche versata la quota afferente
l’annualità 2018 (escavazione 2017”;
- che, con PEC del 05/12/2018 (doc. 10) la ricorrente ha rinnovato
la richiesta <<con riguardo alla documentazione
comprovante l'effettivo utilizzo delle risorse percepite dal
Comune conformemente alle destinazioni indicate dall’art.
15, co. 1, lett. a), della LR n. 14 del 1998. In
particolare, atteso che tale utilizzo risulterebbe legato al
pagamento degli espropri delle aree relative alla
“realizzazione deviante esterna al centro abitato della
SP24” eseguite e collaudate con protocollo 0013649 del
26/07/211 del Vs Comune.", si chiede cortese copia dei
rogiti per i quali dette risorse sono state utilizzate,
nonché della documentazione contabile attestante l'effettiva
corrispondenza dell'importo liquidato con quanto liquidato
dalla scrivente. Parimenti, si chiede dove siano allocate,
sui bilanci di previsione 2017 e 2018, in conto uscita le
previste entrate oggetto della diffida di pagamento del
12.06.2018. La presente richiesta di accesso ad atti ed
informazioni avviene ex artt 22 e ss.gg. della Legge n. 241
del 1990, è motivata dall'interessa a conoscere l'effettiva
giustificazione del versamento con l'utilizzo dei diritti di
escavazione per le finalità determinate dal Legislatore ...>>;
- che, ad avviso della ricorrente, l’interesse sotteso all’istanza
di esibizione è legato al fatto che il versamento dei
diritti di coltivazione risponde ad uno scopo normativamente
e convenzionalmente individuato, del cui assolvimento il
Comune deve dare conto al cavatore autorizzato;
- che l’utilizzo del contributo per la realizzazione delle
infrastrutture e degli interventi pubblici a servizio
dell’attività estrattiva dovrebbe giovare, anzitutto, al
cavatore il quale avrebbe titolo –in un eventuale
contenzioso civile– per opporre l’eccezione di inadempimento
ex art. 1460 c.c., ove il Comune non fosse in grado di
dimostrare l’effettiva destinazione degli importi riscossi
per dette finalità;
- che, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. a), della L.r. 14/1998
la misura del dovuto “comunque non può essere superiore a
quella occorrente per la realizzazione degli interventi
predetti”;
- che, per le ragioni esposte, la ricorrente avrebbe titolo per
conoscere il quantum e la destinazione delle spese
effettuate dal Comune giovandosi dei contributi ricevuti;
- che, in Camera di consiglio, il legale di parte ricorrente ha
chiarito –con dichiarazione resa a verbale– il perimetro
dell’istanza di accesso, circoscrivendola (1) alla copia dei
rogiti con i quali sono state eseguite opere (o acquisite
aree) attraverso il finanziamento derivante dai canoni
versati al Comune quale corrispettivo dell’attività
estrattiva nonché (2) agli atti amministrativi e contabili
che, in relazione ai predetti rogiti, attestano l'effettiva
corrispondenza tra l'importo liquidato dal Comune e quanto
versato dalla ricorrente;
Considerato:
- che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi (cfr. Consiglio di Stato, ad.
plenaria – 04/02/1997 n. 5);
- che deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale;
- che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze
di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si
assumano lese;
- che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma
(Consiglio di Stato, sez. VI – 09/04/2018 n. 2158);
Dato atto:
- che la difesa comunale ha sottolineato l’obbligo della Società di
corrispondere il quantum dovuto in proporzione ai
quantitativi scavati, e che il mancato versamento rende
inammissibile la pretesa ostensiva (poiché l’utilizzo
presuppone l’incasso del canone dovuto);
- che sostiene che le somme riscosse non hanno una destinazione
assolutamente vincolata, visto che l’art. 15, comma 5, della
L.r. 14/1998 statuisce che “Le somme versate ai sensi del
comma 1 debbono essere prioritariamente utilizzate dai
Comuni per la realizzazione delle infrastrutture e degli
interventi di cui al medesimo comma” (e dunque la
Società non vanterebbe un interesse tutelato ad acquisire la
documentazione relativa all’impiego delle somme predette);
- che, in ogni caso, il Comune avrebbe illustrato l’utilizzo dei
canoni, specificandone imputazione e utilizzo;
- che la ricorrente intenderebbe, in questo modo, esercitare un
controllo generalizzato sull’attività del Comune;
Tenuto conto:
- che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede
di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a
valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse
palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento
al fine del soddisfacimento della pretesa correlata (cfr.
sentenza Sezione 14/05/2018 n. 479);
- che, nella fattispecie, appare chiara la correlazione tra
l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva
sottostante, ovvero l’esistenza di un collegamento
funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del
documento richiesto (cfr. in proposito TAR Campania Napoli,
sez. VI – 29/06/2016 n. 3287);
- che, infatti, la divulgazione degli atti attestanti l’utilizzo
del contributo di escavazione soddisfa una concreta
aspirazione dell’istante, la quale è chiaramente titolare
dell’interesse a prenderne cognizione al fine di vagliare la
situazione di fatto e orientare le proprie scelte
successive, anche in sede giurisdizionale;
- che questo TAR (cfr. sentenza sez. I – 20/05/2014 n. 535) ha
sostenuto che il diritto di accesso non può essere
subordinato all’avvio di una controversia sulla pretesa di
merito, al fine di provocare l’ordine del giudice rivolto a
un terzo o a una pubblica amministrazione per l’esibizione
di documenti ex art. 210-213 cpc;
- che non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio
di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di
ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto
di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via
giurisdizionale e attivando la controversia di merito;
- che la sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del
documento da parte dell’amministrazione detentrice, una
volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo
del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116
cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con
richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte
del giudice;
Rilevato:
- che la ricorrente non intende esercitare un “controllo
generalizzato” sull’attività del Comune, visto che
l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto,
costituito da componenti economiche relative al reimpiego
delle somme versate ai sensi dall’art. 6 della convenzione
sottoscritta ai sensi dell’art. 15 della L.r. 14/1998;
- che questa Sezione (cfr. sentenza 05/12/2017 n. 1410) ha statuito
che <<per quanto riguarda l’ampiezza dell’istanza di
accesso, occorre distinguere le richieste esplorative
da quelle semplicemente generiche o ad ampio spettro.
Solo le prime possono essere respinte come un indebito
tentativo di sottoporre a controllo l’intera attività
amministrativa. Le seconde risultano invece perfettamente
ammissibili, in quanto sono una conseguenza dell’asimmetria
informativa, che vede i privati in posizione disvantaggio
rispetto all’amministrazione. In effetti, i privati,
conoscendo in modo imperfetto e atecnico le pratiche
amministrative, e dovendosi talvolta basare solo su quanto è
osservabile nella realtà quotidiana (ad esempio, il
mutamento dello stato dei luoghi), sono costretti a proporre
l’istanza di accesso in termini descrittivi e generici, e a
coinvolgere nella richiesta ogni provvedimento che abbia un
collegamento anche solo apparente con la vicenda che li
riguarda (ad esempio, gli atti citati nelle premesse o nella
motivazione per relationem); (f) a fronte di istanze così
formulate, gli uffici comunali sono gravati da un obbligo di
leale collaborazione avente un duplice contenuto, positivo e
negativo. Da un lato, devono aiutare i richiedenti a
focalizzare esattamente la documentazione che presenta
elementi di interesse, fornendo le informazioni necessarie a
chiarire il contesto entro cui si è svolta l’attività
amministrativa. Dall’altro, devono evitare di
sostituirsi ai richiedenti nel giudizio sulla rilevanza dei
provvedimenti inseriti nelle pratiche amministrative o
richiamati negli atti già offerti in visione. Una volta che
i richiedenti abbiano precisato o integrato l’istanza di
accesso, gli unici limiti sono ravvisabili nella presenza di
dati sensibili, la cui divulgazione richiede un supplemento
di valutazione. Peraltro, nel caso in esame non sono stati
evidenziati elementi di questa natura>>;
- che, alla luce di quanto evidenziato, il carattere “non
vincolato” della destinazione dei fondi ex art. 15,
comma 5, della L.r. 14/1998 non esclude l’interesse sotteso
alla pretesa ostensiva, e comunque si tratta di questione
che esula dalla giurisdizione di questo TAR;
- che la nota comunale del 6/11/2018 sulle modalità di utilizzo del
canone (pagamento degli espropri e dei relativi atti
notarili per la realizzazione della deviante Ovest al centro
abitato comunale; quota del 15% di competenza della
Provincia, anche per le annualità 2017 e 2018) non può
ritenersi sufficiente, dovendo essere corredata dalla
documentazione pertinente;
Ritenuto, conclusivamente:
- che sono suscettibili di divulgazione gli atti attestanti il
pagamento degli oneri espropriativi di cui il Comune ha dato
conto, ossia:
• i rogiti con i quali sono state eseguite opere (o
acquisite aree) attraverso il finanziamento derivante dai
canoni versati al Comune quale corrispettivo dell’attività
estrattiva;
• gli atti amministrativi e contabili che, in relazione ai
predetti rogiti, attestano l'effettiva corrispondenza tra
l'importo liquidato dal Comune e quanto versato dalla
ricorrente;
- che tuttavia, in ossequio al principio di proporzionalità,
l’amministrazione deve esibire gli atti detenuti nei propri
archivi anche informatici senza il compimento di un’attività
di rielaborazione, non contemplata dalla normativa di
settore (cfr. sentenza sez. II – 19/12/2018 n. 1212 e la
giurisprudenza ivi evocata);
- che, in definitiva, il ricorso in esame è fondato e merita
accoglimento nei limiti esposti (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza 12.04.2019 n. 347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Per comune e consolidato intendimento, il diritto
di accesso c.d. documentale, riconosciuto dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990,
garantisce ai (soli) soggetti legittimati (in quanto
portatori di un “interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata”)
l’ostensione (sotto la concorrente forma della presa di
visione e della estrazione di copia) ai documenti (formati
o, comunque, detenuti) dall’amministrazione, in ordine ai
quali sussista, come che sia, un “collegamento” con la
posizione legittimante, al quale è segnatamente ancorato
(nella scolpita preclusione ad un “controllo generalizzato”,
proprio di altre forme di accesso uti civis, della
complessiva azione amministrativa) il necessario e
pregiudiziale vaglio di meritevolezza della valorizzata
pretesa ostensiva.
Occorre, in altri termini, che l’istante:
a) sia
intestatario di una posizione “soggettiva” apprezzabile e,
come tale, sufficientemente differenziata nella vita di
relazione, indipendentemente dalla sua consistenza formale
(diritto soggettivo, interesse legittimo, interesse diffuso,
interesse di mero fatto);
b) dimostri un “collegamento” tra
siffatta posizione e i dati e le informazioni a qualsiasi
titolo incorporate in supporti documentali detenuti da una
pubblica amministrazione (o da soggetti equiparati);
c)
valorizzi, in siffatta prospettiva “strumentale”, la
concreta e specifica “utilità” della pretesa ostensiva
(ancorché non necessariamente preordinata all’esperimento di
tutele giurisdizionali).
---------------
Occorre interrogarsi –per completezza di
disamina– in ordine alla possibilità di “riqualificare”
l’istanza di accesso documentale formulata dall’odierno appellante, veicolandola
nei più comprensivi ambiti dell’accesso civico
generalizzato.
Come è noto, invero, l'accesso alle informazioni in
possesso delle pubbliche amministrazioni (e dei soggetti ad
esse equiparati) si articola e declina oggi in tre diversi
istituti (quattro, ove si voglia considerare anche l’accesso
c.d. procedimentale di cui all’art. 10 della l. n. 241/1990,
che garantisce l’ostensione degli atti e dei documenti
acquisiti al procedimento amministrativo, garantendo una
partecipazione informata e, come tale, effettiva), ognuno
dei quali caratterizzato da propri presupposti, limiti,
eccezioni e rimedi:
a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n.
241/1990), che consente ai (soli) soggetti “interessati” (in
quanto, come diffusamente chiarito supra, portatori di un
“interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata”) di “prendere
visione” e di “estrarre copia” di dati incorporati in
supporti documentali formati o, comunque, detenuti da
soggetti pubblici;
b) l'accesso civico, concesso a “chiunque”, a “documenti,
informazioni o dati” di cui sia stata omessa la
pubblicazione normativamente imposta (art. 5, comma 1, d.lgs.
n. 33/2013);
c) l’accesso (civico) generalizzato, parimenti concesso uti
civis (“senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione
soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita
“motivazione” giustificativa), in relazione a “dati,
informazioni o documenti”, ancorché non assoggettati
all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2 d.lgs. cit.,
introdotto dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 97/2016: c.d. Freedom of Information Act).
Si tratta di istituti che –lungi dal configurare un
unico diritto- concretano un insieme di sistemi di
garanzia, tra loro diversificati, corrispondenti ad
altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza
da parte dei soggetti pubblici (arg. ex art. 5, comma 11, d.lgs. n. 33/2013, che prefigura, scolpendo la salvezza
della disciplina codificata dalla l. n. 241/1990) un regime
di convivenza di plurime “forme di accesso”).
Onde il “sistema” dell’accesso alle informazioni pubbliche
si presenta articolato e frastagliato, esibendo una multiformità tipologica, resa ancora più articolata dalla
presenza di discipline speciali e settoriali, connotate di
proprie peculiarità e specificità (cfr. l’art. 3 d.lgs. n.
195/2005, in materia di accesso ambientale; l’art. 43, comma
2, del t.u. n. 267/2000, che abilita i consiglieri comunali e
provinciali all’acquisizione di tutte le informazioni
strumentali all’esercizio del proprio mandato, vincolandosi
al segreto d’ufficio; l’art. 53 del d.lgs. n. 50/2016, in
materia di contratti pubblici): di qui la tensione che
emerge, anche nella più recente giurisprudenza, non solo tra
i tre istituti di accesso che operano sul piano generale, ma
anche tra la normativa generale e quella speciale (per la
quale si pone, essenzialmente, il problema di prefigurarne,
volta a volta e sotto singoli profili di rilievo,
l’attitudine derogatoria o la dimensione integrativa).
La complessità del quadro (già operante al descritto
livello morfologico), trae alimento –sul parallelo piano assiologico– dalla progressivo arricchimento della natura
degli interessi riversati sul principio di trasparenza: non
più semplicemente ancorato al diritto alla informazione ed
alla partecipazione democratica, ma informato al
perseguimento di ulteriori (e non sempre convergenti)
obiettivi, come la tutela della concorrenza, il contrasto
alla corruzione, la riduzione della spesa pubblica, la
promozione della qualità dei servizi, il controllo sulle
performance dei dipendenti.
Ed chiaro, in questa seconda prospettiva, che l'asse
valoriale di volta in volta preso a riferimento condiziona
variamente:
a) sul piano operativo, i termini e le modalità
del (necessario) bilanciamento tra la trasparenza e gli
altri interessi (pubblici e privati) con essa confliggenti;
b) sul piano organizzativo, l’assetto delle relative
competenze (di gestione, regolazione e governance);
c) sul
piano remediale, la strutturazione degli strumenti a
disposizione del privato in caso di rifiuto o compressione
delle valorizzate aspettative ostensive.
4.4.- È, in effetti, sotto questi tre concorrenti profili
che è dato intendere le differenze (e le sovrapposizioni)
tra le varie forme di accesso. Le quali si misurano, ad un
tempo, in relazione:
a) ai presupposti soggettivi (inerenti
la legittimazione alla pretesa ostensiva);
b) all’ambito
oggettivo (relativo alla “estensione” dell’accesso);
c) ai
limiti funzionali (correlati –nella prospettiva del
bilanciamento di valori in conflitto– alla “intensità”
della protezione dell’aspettativa alla trasparenza.
E così, in sintesi:
a) nell’accesso (endo)procedimentale, legittimati alla
acquisizione del “fascicolo procedimentale” (che incorpora
tutti i momenti dell’istruttoria, documentati dagli atti del
procedimento) sono tutte le parti interessate (cioè il
destinatario della determinazione conclusiva e gli eventuali
controinteressati intervenuti, in prospettiva
contraddittoria); per definizione, non esistono limitazioni
in estensione, posto che tutti (e solo) gli atti del
procedimento (e gli esiti delle verifiche istruttorie, in
quanto documentati) possono essere acquisiti, nella
prospettiva della garanzia della (informata ed effettiva)
partecipazione procedimentale; non sussistono, in generale,
problemi di “bilanciamento” (cfr., peraltro, il meccanismo
di accesso “graduato” operante per i contratti pubblici: cfr.
art. 53 d.lgs. n. 50/2016);
b) nell’accesso documentale “classico” (o autonomo):
b1) la
legittimazione è ancorata alla (argomentata) allegazione di
un interesse personale, concreto e differenziato alla
acquisizione informativa, che struttura e prefigura una
situazione di “meritevolezza” in capo al richiedente
(essendo con ciò, per definizione, precluso un accesso
preordinato ad un “controllo generalizzato” dell’azione
amministrativa o ispirato da mera curiosità);
b2) sotto il
profilo oggettivo, solo le informazioni incorporate in
supporti documentali già materialmente “detenuti” (in quanto
redatti o utilizzati) dall’Amministrazione possono essere
oggetto di ostensione (nella forma della visione e della
estrazione di copie);
b3) dal punto di vista “intensivo”,
l’esistenza di vari controlimiti, in funzione di segretezza
(di informazioni pubbliche) o di riservatezza (di dati
privati, semplici, sensibili o supersensibili) (cfr. art. 24
l. n. 241/1990), è, in termini generali, ispirata alla
logica del minimo mezzo (che impone tendenzialmente la
soddisfazione –semmai parziale, o graduata, ovvero
differita o schermata– dell’aspettativa ostensiva, salvo la
prevalenza, in concreto, di un superiore interesse
contrario: con la prefigurata cedevolezza anche dell’accesso
a dati personali sensibili o supersensibili, laddove il mero
“interesse” acquisti il rilievo della strumentale
“necessità” o, in progressione, “indispensabilità”
difensiva: cfr. art. 24, comma 7, l. n. 241/1990);
c) l’accesso civico (generico o generalizzato):
c1) non
soffre di limitazioni soggettive (trattandosi di istanza ostensiva formulata, appunto, uti civis e non in
correlazione ad una posizione sostanziale legittimante, che
imponga un preventivo vaglio selettivo di meritevolezza):
potendosi, al più e semmai, porre un problema di eventuale
“abuso” della pretesa ostensiva, che la giurisprudenza tende
a gestire in termini di emulatività dell’interesse,
argomentando anche dalla clausola generale di buona fede ex
art. 1175 c.c. e dal dovere costituzionale di solidarietà ex
art. 2 Cost.;
c2) sotto il profilo oggettivo, realizza il
massimo della “estensione” (in quanto riferito non solo a
documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni
informative), graduata tra l’accesso generico (che legittima
l’ostensione di informazioni che già avrebbero dovuto
essere, in quanto tali, pubblicate) e l’accesso universale
(e “totale”, che non soffre di limitazioni contenutistiche;
c3) sul piano dell’”intensità”, si tratta –nondimeno– di
pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso
documentale (posto che –in presenza di controinteressi
rilevanti– lo scrutinio di necessità e proporzionalità
appare orientato dalla massimizzazione della tutela della
riservatezza e della segretezza, in danno della
trasparenza).
---------------
Volendo utilizzare una formula sintetica (del resto
utilmente ed espressivamente valorizzata dall’ANAC nelle
proprie Linee guida) si dirà che –nel confronto tra accesso
documentale classico e accessi civici, generico ed
universale– si guadagna in estensione ciò che si perde in
intensità.
Il che vale anche a dare conto delle ragioni di
una convivenza tra istituti che, altrimenti, avrebbero
finito per sovrapporsi l’uno all’altro, in modo
irragionevole.
Non è un caso che la giurisprudenza abbia
cura di rimarcare la necessità di tenere distinte le
fattispecie, proprio al fine di “calibrare i diversi
interessi in gioco, allorché si renda necessario un
bilanciamento, caso per caso, tra tali interessi”: tale
bilanciamento e, infatti, ben diverso, come chiarito, “nel
caso dell'accesso ex l. n. 241 del 1990, dove la tutela può
consentire un accesso più in profondità a documenti
pertinenti e nel caso dell'accesso generalizzato, dove le
esigenze di controllo diffuso del cittadino devono
consentire un accesso meno in profondità, se del caso, in
relazione all'operatività dei limiti, ma più este-so, avendo
presente che l'accesso in questo caso comporta, di fatto,
una larga conoscibilità e diffusione di dati, documenti e
informazioni”.
È proprio su tali ordini di premesse, dunque, che è
lecito chiedersi se l’istanza dell’odierno appellante –inammissibile, per le esposte considerazioni, in quanto
strutturata in termini di accesso documentale– non possa
essere “riqualificata” nei più comprensivi termini di
accesso generalizzato.
Sul punto, osserva il Collegio che –pur non mancando
approcci di matrice sostanzialista, orientati alla
massimizzazione dell’interesse conoscitivo mercé
l’applicazione, anche ex officio, della disciplina
concretamente “più favorevole” alla soddisfazione
dell’anelito ostensivo– deve ritenersi preclusa la
possibilità di immutare, anche in corso di causa, il titolo
della formalizzata actio ad exhibendum, pena la violazione
del divieto di mutatio libelli e di introduzione di jus
novorum.
Per l’effetto, electa una via, alla parte è preclusa la
conversione dell’istanza da un modello all’altro, che non
può essere né imposta alla P.A., né ammessa -ancorché su
input del privato- in sede di riesame o di ricorso
giurisdizionale (ferma restando, semmai, la possibilità di
strutturare in termini alternativi, cumulativi o
condizionati la pretesa ostensiva, in sede procedimentale).
Con ciò, la pretesa azionata non può essere apprezzata, nei
suoi presupposti e nei suoi limiti, in termini di accesso
civico, piuttosto che strettamente documentale.
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1.- L’appello non è fondato e merita di essere
respinto.
2.- Vale rammentare che, per comune e consolidato
intendimento, il diritto di accesso c.d. documentale,
riconosciuto dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990,
garantisce ai (soli) soggetti legittimati (in quanto
portatori di un “interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata”)
l’ostensione (sotto la concorrente forma della presa di
visione e della estrazione di copia) ai documenti (formati
o, comunque, detenuti) dall’amministrazione, in ordine ai
quali sussista, come che sia, un “collegamento” con la
posizione legittimante, al quale è segnatamente ancorato
(nella scolpita preclusione ad un “controllo generalizzato”,
proprio di altre forme di accesso uti civis, della
complessiva azione amministrativa) il necessario e
pregiudiziale vaglio di meritevolezza della valorizzata
pretesa ostensiva.
Occorre, in altri termini, che l’istante:
a) sia
intestatario di una posizione “soggettiva” apprezzabile e,
come tale, sufficientemente differenziata nella vita di
relazione, indipendentemente dalla sua consistenza formale
(diritto soggettivo, interesse legittimo, interesse diffuso,
interesse di mero fatto);
b) dimostri un “collegamento” tra
siffatta posizione e i dati e le informazioni a qualsiasi
titolo incorporate in supporti documentali detenuti da una
pubblica amministrazione (o da soggetti equiparati);
c)
valorizzi, in siffatta prospettiva “strumentale”, la
concreta e specifica “utilità” della pretesa ostensiva
(ancorché non necessariamente preordinata all’esperimento di
tutele giurisdizionali).
3.- Nel caso di specie, gli atti (negoziali) richiesti dal
ricorrente –che si assumono preordinati ad una migliore
tutela della propria posizione creditoria– paiono
collocarsi, come correttamente e condivisibilmente rilevato
dai primi giudici, sul piano della regolare gestione, in
fase esecutiva, del rapporto concessorio intercorso inter
alios, tra la I.P. e l’Amministrazione, operando quale mero
presupposto per l’attivazione delle relative garanzie
legalmente imposte.
Non trattandosi, con ciò, di documenti in grado di veicolare
informazioni di un qualche rilievo in ordine alla concreta
ed effettiva, ancorché dinamica e/o potenziale, consistenza
delle situazioni debitorie gravanti sull’impresa, la loro
acquisizione esorbita da una facoltà di accesso dai chiariti
connotati necessariamente strumentali, trasmodando, di
fatto, in una modalità di controllo dell’operato dei
soggetti, pubblici e privati, interessati dalla relazione
amministrativa.
4.- Occorre, peraltro, interrogarsi –per completezza di
disamina– in ordine alla possibilità di “riqualificare”
l’istanza formulata dall’odierno appellante, veicolandola
nei più comprensivi ambiti dell’accesso civico
generalizzato.
4.1.- Come è noto, invero, l'accesso alle informazioni in
possesso delle pubbliche amministrazioni (e dei soggetti ad
esse equiparati) si articola e declina oggi in tre diversi
istituti (quattro, ove si voglia considerare anche l’accesso
c.d. procedimentale di cui all’art. 10 della l. n. 241/1990,
che garantisce l’ostensione degli atti e dei documenti
acquisiti al procedimento amministrativo, garantendo una
partecipazione informata e, come tale, effettiva), ognuno
dei quali caratterizzato da propri presupposti, limiti,
eccezioni e rimedi:
a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n.
241/1990), che consente ai (soli) soggetti “interessati” (in
quanto, come diffusamente chiarito supra, portatori di un
“interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata”) di “prendere
visione” e di “estrarre copia” di dati incorporati in
supporti documentali formati o, comunque, detenuti da
soggetti pubblici;
b) l'accesso civico, concesso a “chiunque”, a “documenti,
informazioni o dati” di cui sia stata omessa la
pubblicazione normativamente imposta (art. 5, comma 1, d.lgs.
n. 33/2013);
c) l’accesso (civico) generalizzato, parimenti concesso uti
civis (“senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione
soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita
“motivazione” giustificativa), in relazione a “dati,
informazioni o documenti”, ancorché non assoggettati
all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2 d.lgs. cit.,
introdotto dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 97/2016: c.d.
Freedom of Information Act).
4.2.- Si tratta di istituti che –lungi dal configurare un
unico diritto- concretano un insieme di sistemi di
garanzia, tra loro diversificati, corrispondenti ad
altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza
da parte dei soggetti pubblici (arg. ex art. 5, comma 11, d.lgs. n. 33/2013, che prefigura, scolpendo la salvezza
della disciplina codificata dalla l. n. 241/1990) un regime
di convivenza di plurime “forme di accesso”).
Onde il “sistema” dell’accesso alle informazioni pubbliche
si presenta articolato e frastagliato, esibendo una multiformità tipologica, resa ancora più articolata dalla
presenza di discipline speciali e settoriali, connotate di
proprie peculiarità e specificità (cfr. l’art. 3 d.lgs. n.
195/2005, in materia di accesso ambientale; l’art. 43, comma
2, del t.u. n. 267/2000, che abilita i consiglieri comunali e
provinciali all’acquisizione di tutte le informazioni
strumentali all’esercizio del proprio mandato, vincolandosi
al segreto d’ufficio; l’art. 53 del d.lgs. n. 50/2016, in
materia di contratti pubblici): di qui la tensione che
emerge, anche nella più recente giurisprudenza, non solo tra
i tre istituti di accesso che operano sul piano generale, ma
anche tra la normativa generale e quella speciale (per la
quale si pone, essenzialmente, il problema di prefigurarne,
volta a volta e sotto singoli profili di rilievo,
l’attitudine derogatoria o la dimensione integrativa).
4.3.- La complessità del quadro (già operante al descritto
livello morfologico), trae alimento –sul parallelo piano assiologico– dalla progressivo arricchimento della natura
degli interessi riversati sul principio di trasparenza: non
più semplicemente ancorato al diritto alla informazione ed
alla partecipazione democratica, ma informato al
perseguimento di ulteriori (e non sempre convergenti)
obiettivi, come la tutela della concorrenza, il contrasto
alla corruzione, la riduzione della spesa pubblica, la
promozione della qualità dei servizi, il controllo sulle
performance dei dipendenti.
Ed chiaro, in questa seconda prospettiva, che l'asse
valoriale di volta in volta preso a riferimento condiziona
variamente:
a) sul piano operativo, i termini e le modalità
del (necessario) bilanciamento tra la trasparenza e gli
altri interessi (pubblici e privati) con essa confliggenti;
b) sul piano organizzativo, l’assetto delle relative
competenze (di gestione, regolazione e governance);
c) sul
piano remediale, la strutturazione degli strumenti a
disposizione del privato in caso di rifiuto o compressione
delle valorizzate aspettative ostensive.
4.4.- È, in effetti, sotto questi tre concorrenti profili
che è dato intendere le differenze (e le sovrapposizioni)
tra le varie forme di accesso. Le quali si misurano, ad un
tempo, in relazione:
a) ai presupposti soggettivi (inerenti
la legittimazione alla pretesa ostensiva);
b) all’ambito
oggettivo (relativo alla “estensione” dell’accesso);
c) ai
limiti funzionali (correlati –nella prospettiva del
bilanciamento di valori in conflitto– alla “intensità”
della protezione dell’aspettativa alla trasparenza.
4.5.- E così, in sintesi:
a) nell’accesso (endo)procedimentale, legittimati alla
acquisizione del “fascicolo procedimentale” (che incorpora
tutti i momenti dell’istruttoria, documentati dagli atti del
procedimento) sono tutte le parti interessate (cioè il
destinatario della determinazione conclusiva e gli eventuali
controinteressati intervenuti, in prospettiva
contraddittoria); per definizione, non esistono limitazioni
in estensione, posto che tutti (e solo) gli atti del
procedimento (e gli esiti delle verifiche istruttorie, in
quanto documentati) possono essere acquisiti, nella
prospettiva della garanzia della (informata ed effettiva)
partecipazione procedimentale; non sussistono, in generale,
problemi di “bilanciamento” (cfr., peraltro, il meccanismo
di accesso “graduato” operante per i contratti pubblici: cfr.
art. 53 d.lgs. n. 50/2016);
b) nell’accesso documentale “classico” (o autonomo):
b1) la
legittimazione è ancorata alla (argomentata) allegazione di
un interesse personale, concreto e differenziato alla
acquisizione informativa, che struttura e prefigura una
situazione di “meritevolezza” in capo al richiedente
(essendo con ciò, per definizione, precluso un accesso
preordinato ad un “controllo generalizzato” dell’azione
amministrativa o ispirato da mera curiosità);
b2) sotto il
profilo oggettivo, solo le informazioni incorporate in
supporti documentali già materialmente “detenuti” (in quanto
redatti o utilizzati) dall’Amministrazione possono essere
oggetto di ostensione (nella forma della visione e della
estrazione di copie);
b3) dal punto di vista “intensivo”,
l’esistenza di vari controlimiti, in funzione di segretezza
(di informazioni pubbliche) o di riservatezza (di dati
privati, semplici, sensibili o supersensibili) (cfr. art. 24
l. n. 241/1990), è, in termini generali, ispirata alla
logica del minimo mezzo (che impone tendenzialmente la
soddisfazione –semmai parziale, o graduata, ovvero
differita o schermata– dell’aspettativa ostensiva, salvo la
prevalenza, in concreto, di un superiore interesse
contrario: con la prefigurata cedevolezza anche dell’accesso
a dati personali sensibili o supersensibili, laddove il mero
“interesse” acquisti il rilievo della strumentale
“necessità” o, in progressione, “indispensabilità”
difensiva: cfr. art. 24, comma 7, l. n. 241/1990);
c) l’accesso civico (generico o generalizzato):
c1) non
soffre di limitazioni soggettive (trattandosi di istanza ostensiva formulata, appunto,
uti civis e non in
correlazione ad una posizione sostanziale legittimante, che
imponga un preventivo vaglio selettivo di meritevolezza):
potendosi, al più e semmai, porre un problema di eventuale
“abuso” della pretesa ostensiva, che la giurisprudenza tende
a gestire in termini di emulatività dell’interesse,
argomentando anche dalla clausola generale di buona fede ex
art. 1175 c.c. e dal dovere costituzionale di solidarietà ex
art. 2 Cost.;
c2) sotto il profilo oggettivo, realizza il
massimo della “estensione” (in quanto riferito non solo a
documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni
informative), graduata tra l’accesso generico (che legittima
l’ostensione di informazioni che già avrebbero dovuto
essere, in quanto tali, pubblicate) e l’accesso universale
(e “totale”, che non soffre di limitazioni contenutistiche;
c3) sul piano dell’”intensità”, si tratta –nondimeno– di
pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso
documentale (posto che –in presenza di controinteressi
rilevanti– lo scrutinio di necessità e proporzionalità
appare orientato dalla massimizzazione della tutela della
riservatezza e della segretezza, in danno della
trasparenza).
4.6.- Volendo utilizzare una formula sintetica (del resto
utilmente ed espressivamente valorizzata dall’ANAC nelle
proprie Linee guida) si dirà che –nel confronto tra accesso
documentale classico e accessi civici, generico ed
universale– si guadagna in estensione ciò che si perde in
intensità.
Il che vale anche a dare conto delle ragioni di
una convivenza tra istituti che, altrimenti, avrebbero
finito per sovrapporsi l’uno all’altro, in modo
irragionevole.
Non è un caso che la giurisprudenza abbia
cura di rimarcare la necessità di tenere distinte le
fattispecie, proprio al fine di “calibrare i diversi
interessi in gioco, allorché si renda necessario un
bilanciamento, caso per caso, tra tali interessi”: tale
bilanciamento e, infatti, ben diverso, come chiarito, “nel
caso dell'accesso ex l. n. 241 del 1990, dove la tutela può
consentire un accesso più in profondità a documenti
pertinenti e nel caso dell'accesso generalizzato, dove le
esigenze di controllo diffuso del cittadino devono
consentire un accesso meno in profondità, se del caso, in
relazione all'operatività dei limiti, ma più este-so, avendo
presente che l'accesso in questo caso comporta, di fatto,
una larga conoscibilità e diffusione di dati, documenti e
informazioni”.
4.7.- È proprio su tali ordini di premesse, dunque, che è
lecito chiedersi se l’istanza dell’odierno appellante –inammissibile, per le esposte considerazioni, in quanto
strutturata in termini di accesso documentale– non possa
essere “riqualificata” nei più comprensivi termini di
accesso generalizzato.
Sul punto, osserva il Collegio che –pur non mancando
approcci di matrice sostanzialista, orientati alla
massimizzazione dell’interesse conoscitivo mercé
l’applicazione, anche ex officio, della disciplina
concretamente “più favorevole” alla soddisfazione
dell’anelito ostensivo– deve ritenersi preclusa la
possibilità di immutare, anche in corso di causa, il titolo
della formalizzata actio ad exhibendum, pena la violazione
del divieto di mutatio libelli e di introduzione di
jus
novorum (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2017, n. 1406).
Per l’effetto, electa una via, alla parte è preclusa la
conversione dell’istanza da un modello all’altro, che non
può essere né imposta alla P.A., né ammessa -ancorché su
input del privato- in sede di riesame o di ricorso
giurisdizionale (ferma restando, semmai, la possibilità di
strutturare in termini alternativi, cumulativi o
condizionati la pretesa ostensiva, in sede procedimentale).
Con ciò, la pretesa azionata non può essere apprezzata, nei
suoi presupposti e nei suoi limiti, in termini di accesso
civico, piuttosto che strettamente documentale.
5.- Le esposte considerazioni militano per la reiezione del
gravame (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.03.2019 n. 1817 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il proprietario confinante è sicuramente titolare
di un interesse qualificato alla ostensione degli atti con
cui il comune ha autorizzato la realizzazione dei lavori in
questione su strada pubblica, onde apprestare adeguata
tutela ai propri interessi dominicali: “il proprietario
confinante con l'immobile interessato da attività edilizia
assentita dall'Amministrazione è legittimato ad accedere
alla relativa documentazione anche nell'ipotesi in cui siano
scaduti i termini per impugnare il titolo abilitativo e gli
interventi in questione siano oggetto di indagine penale".
Il vicino ha un interesse concreto, personale ed attuale, ad
accedere ai permessi edilizi rilasciati al proprietario del
terreno confinante per tutelare le proprie posizioni
giuridico-economiche (escludere rischi di danni alla sua
proprietà) e/o per far rispettare le norme urbanistiche. I
titoli edilizi sono atti pubblici, perciò chi esegue le
opere non può opporre un diritto di riservatezza.
---------------
1. La sig.ra Al.Fi. ha agito dinanzi a questo TAR “per
l’annullamento del diniego di accesso ai documenti richiesti
ovvero del silenzio - rigetto formatosi in data 13.12.2018
sulla domanda di accesso presentata in data 13.11.2018”,
nonché per la declaratoria del diritto alla ostensione degli
stessi documenti.
...
5. Il ricorso è fondato.
La ricorrente, in qualità di proprietaria confinante, è
sicuramente titolare di un interesse qualificato alla
ostensione degli atti con cui il comune ha autorizzato la
realizzazione dei lavori in questione su strada pubblica,
onde apprestare adeguata tutela ai propri interessi
dominicali: “il proprietario confinante con l'immobile
interessato da attività edilizia assentita
dall'Amministrazione è legittimato ad accedere alla relativa
documentazione anche nell'ipotesi in cui siano scaduti i
termini per impugnare il titolo abilitativo e gli interventi
in questione siano oggetto di indagine penale” (TAR
Catanzaro, Sez. II, 26/03/2018 n. 757); “Il vicino ha un
interesse concreto, personale ed attuale, ad accedere ai
permessi edilizi rilasciati al proprietario del terreno
confinante per tutelare le proprie posizioni
giuridico-economiche (escludere rischi di danni alla sua
proprietà) e/o per far rispettare le norme urbanistiche. I
titoli edilizi sono atti pubblici, perciò chi esegue le
opere non può opporre un diritto di riservatezza” (TAR
Catania, Sez. II, 04/02/2016 n. 374).
Per le suddette ragioni il ricorso merita di essere accolto (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 20.03.2019 n. 614 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Istanza
di accesso sottoscritta solo dall’avvocato e
non dalla parte.
L’art. 5, secondo comma,
del d.P.R. n. 184 del 2006 stabilisce che
colui che formula richiesta di accesso agli
atti deve specificare l'interesse connesso
all'oggetto della richiesta, dimostrare la
propria identità e, ove occorra, i propri
poteri di rappresentanza del soggetto
interessato.
Da questa norma si ricava che se l’istanza
non è sottoscritta dal diretto interessato,
il soggetto che agisce per suo conto deve
esibire all’amministrazione copia della
procura che gli conferisce il potere di
esercitare il diritto di accesso agli atti
in nome altrui.
Ne consegue che le domande di accesso agli
atti sottoscritte dal solo legale non
possono essere accolte, a meno che quest’ultimo
abbia dimostrato di essere in possesso di
procura o tutt’al più di essere già stato
incaricato ad instaurare un giudizio il cui
oggetto sia correlato al documento chiesto
in esibizione.
Nella fattispecie, la richiesta di accesso
agli atti era stata sottoscritta soltanto
dal legale e non anche dalla parte
interessata, senza che il primo avesse
dimostrato il possesso del potere
rappresentativo; questa circostanza,
eccepita dalla difesa dell’Amministrazione
intimata in assenza di contestazioni
specifiche della parte ricorrente, è stata
ritenuta dal TAR provata ai sensi dell’art.
64, secondo comma, c.p.a., e ha quindi
condotto al rigetto del ricorso avverso il
provvedimento tacito di rigetto formatosi
sulla suddetta istanza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 14.03.2019 n. 564 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Ritiene il Collegio che il ricorso sia
infondato per le ragioni di seguito esposte.
L’art. 5, secondo comma, del d.P.R. n. 184
del 2006 stabilisce che colui che formula
richiesta di accesso agli atti deve
specificare l'interesse connesso all'oggetto
della richiesta, dimostrare la propria
identità e, ove occorra, i propri poteri di
rappresentanza del soggetto interessato.
Da questa norma si ricava che se l’istanza
non è sottoscritta dal diretto interessato,
il soggetto che agisce per suo conto deve
esibire all’amministrazione copia della
procura che gli conferisce il potere di
esercitare il diritto di accesso agli atti
in nome altrui.
Applicando questa norma, la
giurisprudenza ritiene che le domande di
accesso agli atti sottoscritte dal solo
legale non possono essere accolte, a meno
che quest’ultimo abbia dimostrato di essere
in possesso di procura o tutt’al più di
essere già stato incaricato ad instaurare un
giudizio il cui oggetto sia correlato al
documento chiesto in esibizione
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
30.09.2013, n. 4839; id., sez. III,
26.09.2014, n. 4844; TAR Sardegna, sez. II,
15.02.2017, n. 109; TAR Lazio, sez. III,
09.08.2018, n. 8961).
Ciò premesso, va osservato che, nel caso
concreto, la richiesta di accesso agli atti
dell’08.10.2018 è stata sottoscritta
soltanto dall’avv. Ca. e non anche dalla
parte interessata, senza che il primo abbia
dimostrato il possesso del potere
rappresentativo (questa circostanza,
eccepita dalla difesa dell’Amministrazione
intimata in assenza di contestazioni
specifiche della parte ricorrente, può
ritenersi provata ai sensi dell’art. 64,
secondo comma, cod. proc. amm).
Per queste ragioni si deve ritenere che il
provvedimento tacito di rigetto formatosi
sulla suddetta istanza non sia illegittimo.
Il ricorso deve essere pertanto respinto. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso ai documenti amministrativi di utente del gestore
Tim a seguito di disservizio.
---------------
Accesso ai documenti – Diritto – Utente gestore Tim -
Documenti inerenti alla modalità di svolgimento del servizio
di assistenza 119 – Istanza conseguente a disservizio – Ha
diritto.
Sussiste in capo ad un utente del
gestore Tim che ha subito disservizio un interesse diretto,
concreto e attuale all’ostensione dei documenti inerenti
alla modalità di svolgimento del servizio di assistenza 119
che TIM pratica ai propri clienti, con particolare
riferimento alla possibilità di poter segnalare un guasto e
poter interloquire con un operatore, essendo tale istanza
correlata alla coltivazioni di reclami/azioni a tutela dei
diritti soggettivi derivanti dal rapporto contrattuale.
---------------
(1) Al fine della selezione dei soggetti tenuti all’accesso le
norme rilevanti siano l’art. 22, comma 1 lett. e), l.
07.08.1990, n. 241, che definisce pubblica amministrazione
tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto
privato limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario e
l’art. 23 secondo cui “Il diritto di accesso di cui
all'articolo 22 si esercita nei confronti delle pubbliche
amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli
enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi”.
Come noto, tuttavia, tale delimitazione soggettiva non è
autosufficiente correlandosi per più ipotesi a delimitazioni
di tipo oggettivo e così per i soggetti pubblici si è posta
la questione dell’accessibilità ai documenti concernenti
l’attività di diritto privato (v. Ad. Plen. n. 5 del 1999 ed
attuale formulazione dell’art. 22, comma 1, lett. d), ultima
parte), mentre per i soggetti privati, grazie alla
specificazione chiarificatrice della novella del 2005,
l’obbligo dell’accesso sussiste limitatamente alla attività
di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario ed ancora per i gestori di pubblico servizio
molte sono le controversie sull’accessibilità ad atti
concernenti aspetti organizzativi ed imprenditoriali (Cons.
St., Ad. Plen., n. 5 del 1999).
Venendo al caso di specie, deve partirsi dal rilievo che la
telefonia nel vigente ordinamento è attività in concorrenza
regolamentata –fortemente anche per le problematiche
correlate alla rete- nel cui alveo è individuato un segmento
di servizio universale (v. artt. 53 ss., d.lgs. n. 259 del
2003, codice comunicazione elettroniche) costituito da
servizio di telefonia vocale fissa, il servizio fax, accesso
ad internet sulla rete fissa, gestione delle cabine
telefoniche, chiamate gratuite ai numeri di emergenza,
soluzioni specifiche per i disabili (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 14.03.2019 n. 532 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Quanto all’accesso all’informazione ambientale,
si osserva che le informazioni cui fa riferimento il d.lgs. n. 195 del 2005, Attuazione
della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico
all’informazione ambientale, concernono lo stato degli
elementi dell’ambiente (aria, atmosfera, acqua, suolo,
territorio, siti naturali, zone costiere e marine, diversità
biologica e suoi elementi costitutivi, compresi gli
organismi geneticamente modificati, e interazioni tra
questi), i fattori aventi impatto sull’ambiente (sostanze,
energia, rumore, radiazioni e rifiuti, anche radioattivi,
emissioni, scarichi e altri rilasci che possono incidere
sugli elementi dell’ambiente di cui sopra), nonché le misure
(politiche, disposizioni legislative, piani, programmi,
accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura
amministrativa) e le attività che incidono o possono
incidere sugli elementi e sui fattori di cui sopra e le
misure o le attività finalizzate a proteggere gli stessi
elementi [art. 2, comma 1, lett. a), nn. 1), 2) e 3), d.lgs.
n. 195 del 2005].
Per assicurare la maggiore trasparenza possibile a tali
dati, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 195 del 2005
stabilisce che “l’autorità pubblica rende disponibile,
secondo le disposizioni del presente decreto, l’informazione
ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza
che questi debba dichiarare il proprio interesse”.
L’art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2005 elenca poi le ipotesi di
esclusione dell’accesso all’informazione ambientale e tra
esse annovera i casi in cui l’istanza sia manifestamente
irragionevole, avuto riguardo alle finalità di garantire il
diritto d’accesso all’informazione ambientale, o sia stata
formulata in termini eccessivamente generici [comma 1,
rispettivamente, lett. b) e c)].
L’indicata normativa prevede, quindi, un regime di
pubblicità tendenzialmente integrale delle informazioni di
carattere ambientale -sia per ciò che concerne la
legittimazione attiva, con un ampliamento dei soggetti
legittimati all’accesso, sia per il profilo oggettivo,
prevedendosi un’area di accessibilità alle informazioni
ambientali svincolata dai più restrittivi presupposti
dettati in via generale dagli artt. 22 e segg. della l. n.
241 del 1990- in quanto finalizzato ad assicurare, nella
“rilevanza della materia, la maggiore trasparenza possibile
dei relativi dati”.
Ciò posto, si osserva che la circostanza, evidenziata dagli
appellanti, che l’art. 3 del d.lgs. n. 195 del 2005 non
ponga al diritto di accesso all’informazione ambientale i
condizionamenti tipici del diritto di accesso disciplinato
dalla legge sul procedimento amministrativo non ridonda in
quella illimitatezza del primo prospettato dai medesimi
appellanti, attesi i limiti di cui all’art. 5 dello stesso
d.lgs. n. 195 del 2005, che sono connaturali alla stessa
disciplina di settore considerata.
L’accesso in parola deve infatti qualificarsi per la sua
connessione con le matrici ambientali potenzialmente
compromesse, da indicarsi nella richiesta in uno a una
ragionevole prospettazione degli effetti negativi.
Diversamente, la richiesta si risolvere in “un mero
sindacato ispettivo” sull’attività dell’Amministrazione.
---------------
L’istanza di accesso di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 195 del
2000, pur se astrattamente riguardante un’informazione
ambientale, non esime il richiedente dal dimostrare che
l’interesse che intende far valere è, appunto, un interesse
ambientale, come qualificato dal predetto decreto
legislativo, volto alla tutela dell’integrità della matrice
ambientale, non potendo l’ordinamento ammettere che “di un
diritto nato con specifiche determinate finalità si faccia
uso per scopi diversi”.
---------------
L’art. 22, comma 1, lett. b), della l. 241 del 1990, anche
per i soggetti portatori di interessi pubblici o diffusi,
richiede che il diritto di accesso sia sostenuto da un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una
situazione giuridicamente tutelata collegata al documento
per il quale è chiesto l’accesso.
Tale situazione di tutela giuridica non può mai rinvenirsi
in una istanza di accesso preordinata a uno scopo ispettivo,
ai sensi del successivo art. 24, comma 3, che ne sancisce in
linea generale l’inammissibilità.
Conformemente al dettato di legge, la giurisprudenza
amministrativa chiarisce che tale finalità è estranea allo
strumento dell’accesso agli atti amministrativi anche
laddove esso sia esercitato dalle associazioni di categoria,
e ciò per la preminente ragione che a tanto provvedono gli
“organi giudiziari o amministrativi a ciò preposti”.
---------------
Deve ribadirsi che l’ostensione degli atti non può
costituire, neanche per le associazioni portatrici di
interessi collettivi, uno strumento di controllo
dell’operato della pubblica amministrazione nei cui
confronti l’accesso viene esercitato.
---------------
1. Il primo motivo di appello è infondato sotto entrambi i profili
di cui si compone.
1.1. Quanto all’accesso all’informazione ambientale, si
osserva, per quanto qui di interesse, che le informazioni
cui fa riferimento il d.lgs. n. 195 del 2005, Attuazione
della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico
all’informazione ambientale, concernono lo stato degli
elementi dell’ambiente (aria, atmosfera, acqua, suolo,
territorio, siti naturali, zone costiere e marine, diversità
biologica e suoi elementi costitutivi, compresi gli
organismi geneticamente modificati, e interazioni tra
questi), i fattori aventi impatto sull’ambiente (sostanze,
energia, rumore, radiazioni e rifiuti, anche radioattivi,
emissioni, scarichi e altri rilasci che possono incidere
sugli elementi dell’ambiente di cui sopra), nonché le misure
(politiche, disposizioni legislative, piani, programmi,
accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura
amministrativa) e le attività che incidono o possono
incidere sugli elementi e sui fattori di cui sopra e le
misure o le attività finalizzate a proteggere gli stessi
elementi [art. 2, comma 1, lett. a), nn. 1), 2) e 3), d.lgs.
n. 195 del 2005].
Per assicurare la maggiore trasparenza possibile a tali
dati, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 195 del 2005
stabilisce che “l’autorità pubblica rende disponibile,
secondo le disposizioni del presente decreto, l’informazione
ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza
che questi debba dichiarare il proprio interesse”.
L’art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2005 elenca poi le ipotesi di
esclusione dell’accesso all’informazione ambientale e tra
esse annovera i casi in cui l’istanza sia manifestamente
irragionevole, avuto riguardo alle finalità di garantire il
diritto d’accesso all’informazione ambientale, o sia stata
formulata in termini eccessivamente generici [comma 1,
rispettivamente, lett. b) e c)].
L’indicata normativa prevede, quindi, un regime di
pubblicità tendenzialmente integrale delle informazioni di
carattere ambientale -sia per ciò che concerne la
legittimazione attiva, con un ampliamento dei soggetti
legittimati all’accesso, sia per il profilo oggettivo,
prevedendosi un’area di accessibilità alle informazioni
ambientali svincolata dai più restrittivi presupposti
dettati in via generale dagli artt. 22 e segg. della l. n.
241 del 1990- in quanto finalizzato ad assicurare, nella
“rilevanza della materia, la maggiore trasparenza possibile
dei relativi dati” (Cons. Stato, III, 05.10.2015, nn.
4636 e 4637).
Ciò posto, si osserva che la circostanza, evidenziata dagli
appellanti, che l’art. 3 del d.lgs. n. 195 del 2005 non
ponga al diritto di accesso all’informazione ambientale i
condizionamenti tipici del diritto di accesso disciplinato
dalla legge sul procedimento amministrativo non ridonda in
quella illimitatezza del primo prospettato dai medesimi
appellanti, attesi i limiti di cui all’art. 5 dello stesso
d.lgs. n. 195 del 2005, che sono connaturali alla stessa
disciplina di settore considerata.
L’accesso in parola deve infatti qualificarsi per la sua
connessione con le matrici ambientali potenzialmente
compromesse, da indicarsi nella richiesta in uno a una
ragionevole prospettazione degli effetti negativi (in questi
termini è la giurisprudenza consolidata, espressa tra
l’altro da: Cons. Stato, V, 17.07.2018, n. 4339; III, 05.10.2015, nn. 4636 e 4637, cit.; IV, 20.05.2014, n.
2557; V, 15.10.2009, n. 6339).
Diversamente, la richiesta si risolvere in “un mero
sindacato ispettivo” sull’attività dell’Amministrazione
(così, Cons. Stato, 16.02.2007, nn. 668, 669, 670).
Tale ultima evenienza è riscontrabile nella fattispecie in
esame.
Il riferimento all’accesso ambientale da parte degli
appellanti risulta infatti palesemente estraneo alla sottesa
vicenda amministrativa, nell’ambito della quale lo specifico
oggetto della richiesta di accesso, avvalorato dalle
circostanze congiunturali nel quale essa è stata formulata,
fa emergere che ciò che viene in rilievo è esclusivamente
l’interesse alla conoscenza delle sanzioni elevate nei
confronti di alcuni candidati partecipanti alla campagna
elettorale di cui in fatto, allo scopo di controllare se e
come siano stati esercitati i poteri sanzionatori di cui
dispone l’Amministrazione e poter in tal modo effettuare un
raffronto con l’operato svolto dalla stessa Amministrazione
nei confronti dei richiedenti.
Nel descritto contesto, il riferimento al degrado ambientale
urbano e alla natura e alle finalità del Codacons non
appaiono elementi sufficienti a qualificare la richiesta di
accesso nei termini voluti dagli appellanti.
Infatti, come visto, l’istanza di accesso di cui all’art. 5
del d.lgs. n. 195 del 2000, pur se astrattamente riguardante
un’informazione ambientale, non esime il richiedente dal
dimostrare che l’interesse che intende far valere è,
appunto, un interesse ambientale, come qualificato dal
predetto decreto legislativo, volto alla tutela
dell’integrità della matrice ambientale, non potendo
l’ordinamento ammettere che “di un diritto nato con
specifiche determinate finalità si faccia uso per scopi
diversi” (Consiglio di Stato, V, n. 6339 del 2009, cit.).
E una tale dimostrazione non risulta qui resa dagli
appellanti, i quali, lungi dall’esternare una motivazione
correlata a una reale ed effettiva preoccupazione inerente
lo stato di matrici ambientali, che viene evocata a scopo
puramente strumentale, si prefigurano l’obiettivo di
ottenere informazioni che sono destinate ad acquisire
rilevanza in contesti di carattere strettamente e latamente
politico, e che risultano pertanto totalmente estranee
all’ambito di applicazione della normativa in parola.
Ben ha fatto, pertanto, il giudice di primo grado a rilevare
la genericità della richiesta e la carenza del nesso con le
matrici ambientali di cui al d.lgs. n. 195 del 2005.
1.2. Le istanze di accesso per cui è causa non possono
essere favorevolmente valutate neanche alla luce degli artt.
22 e ss. della l. n. 241 del 1990.
Rileva l’art. 22, comma 1, lett. b), della l. 241 del 1990 che,
anche per i soggetti portatori di interessi pubblici o
diffusi, richiede che il diritto di accesso sia sostenuto da
un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a
una situazione giuridicamente tutelata collegata al
documento per il quale è chiesto l’accesso.
Tale situazione di tutela giuridica non può mai rinvenirsi
in una istanza di accesso preordinata a uno scopo ispettivo,
ai sensi del successivo art. 24, comma 3, che ne sancisce in
linea generale l’inammissibilità.
Conformemente al dettato di legge, la giurisprudenza
amministrativa chiarisce che tale finalità è estranea allo
strumento dell’accesso agli atti amministrativi anche
laddove esso sia esercitato dalle associazioni di categoria,
e ciò per la preminente ragione che a tanto provvedono gli
“organi giudiziari o amministrativi a ciò preposti” (Cons.
Stato, VI, 17.03.2000, n. 1414).
Alla stregua di tali paramenti, non può convenirsi con gli
appellanti quando affermano la sussistenza di tutti i
presupposti legittimanti l’accesso del Codacons alla
documentazione richiesta ai sensi della legge n. 241 del
1990.
Infatti le ragioni spese dagli appellanti per rivendicare
nella presente sede il loro titolo a verificare le modalità
di fruizione degli spazi pubblici destinati alle affissioni
elettorali e a salvaguardare la correttezza della
competizione elettorale nei confronti dei possibili abusi
della pubblica amministrazione rendono evidente che le
istanze di accesso per cui è causa sono motivate dal
precipuo scopo, puramente ed esclusivamente ispettivo, di
sottoporre a verifica generalizzata l’operato delle
Amministrazioni destinatarie delle istanze di accesso.
Deve quindi qui ribadirsi, in uno alla sentenza appellata,
che l’ostensione degli atti non può costituire, neanche per
le associazioni portatrici di interessi collettivi, uno
strumento di controllo dell’operato della pubblica
amministrazione nei cui confronti l’accesso viene esercitato
(ex multis, Cons. Stato, IV, 19.10.2017, n. 4838; V,
08.04.2014, n. 1663) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.03.2019 n. 1670 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
civico.
Il Consiglio di Stato
effettua una attenta ricostruzione storica e
sistematica del nuovo istituto dell’accesso
civico nell’ambito del nostro sistema
Costituzionale e in quello internazionale e
osserva che sia l’accesso documentale ex
art. 22 della legge n. 241/1990, sia
l’accesso civico ex art. 5 del d.lgs. n.
33/2013, hanno lo scopo di assicurare
l’imparzialità e la trasparenza
dell’attività amministrativa e di favorire
la partecipazione dei privati, ed entrambi
gli istituti scontano talune limitazioni
risultanti dalla ponderazione con altri
interessi costituzionalmente rilevanti.
Tuttavia, nel primo caso il diritto di
accesso è riconosciuto solamente al soggetto
titolare di un interesse qualificato in
relazione ad un procedimento amministrativo.
Nel caso dell’accesso civico, viceversa,
tale diritto è esteso a qualunque soggetto,
singolo o associato, e non vi è la necessità
di dimostrare un particolare interesse
qualificato a richiedere gli atti o le
informazioni, secondo il modello del Freedom
of Information Act (FOIA), che trae
ispirazione dalle esperienze storiche
d’oltralpe e d’oltreoceano.
Aggiunge il Consiglio di Stato che il nuovo
accesso civico, che attiene alla cura dei
beni comuni a fini d’interesse generale, si
affianca senza sovrapposizioni alle forme di
pubblicazione on line del 2013 ed
all’accesso agli atti amministrativi del
1990, consentendo, del tutto coerentemente
con la ratio che lo ha ispira e che lo
differenzia dall’accesso qualificato
previsto dalla citata legge generale sul
procedimento, l’accesso alla generalità
degli atti e delle informazioni, senza onere
di motivazione, a tutti i cittadini singoli
e associati, in guisa da far assurgere la
trasparenza a condizione indispensabile per
favorire il coinvolgimento dei cittadini
nella cura della “Cosa pubblica”, oltre che
mezzo per contrastare ogni ipotesi di
corruzione e per garantire l’imparzialità e
il buon andamento dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 06.03.2019 n. 1546 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
7 – Ai fini della decisione, considera
preliminarmente il Collegio che con
l’appello la Coldiretti deduce in primo
luogo la violazione della nuova disciplina
dell’accesso civico, come oggi normata dagli
articoli 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013
e successive modifiche ed integrazioni.
Si
tratta, osserva ancora il Collegio, di un
innovativo istituto di recente introduzione,
di non facile coordinamento con i
preesistenti istituti sulla trasparenza
amministrativa e di non semplice inserimento
nel nostro ordinamento giuridico. Pertanto,
ai fini della sua corretta interpretazione e
della conseguente decisione sul ricorso si
impone, in primo luogo, una attenta
ricostruzione storica e sistematica del
nuovo istituto dell’accesso civico
nell’ambito del nostro sistema
Costituzionale.
7.1. In particolare, il citato art. 5
prevede che “1. L'obbligo previsto dalla
normativa vigente in capo alle pubbliche
amministrazioni di pubblicare documenti,
informazioni o dati comporta il diritto di
chiunque di richiedere i medesimi, nei casi
in cui sia stata omessa la loro
pubblicazione.
2. Allo scopo di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione
al dibattito pubblico, chiunque ha diritto
di accedere ai dati e ai documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione
ai sensi del presente decreto, nel rispetto
dei limiti relativi alla tutela di interessi
giuridicamente rilevanti secondo quanto
previsto dall'articolo 5-bis.
3. L'esercizio del diritto di cui ai commi 1
e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione
quanto alla legittimazione soggettiva del
richiedente. L'istanza di accesso civico
identifica i dati, le informazioni o i
documenti richiesti e non richiede
motivazione. L'istanza può essere trasmessa
per via telematica secondo le modalità
previste dal decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni, ed
è presentata alternativamente ad uno dei
seguenti uffici:
a) all’ufficio che detiene i dati, le informazioni o i documenti;
b) all’Ufficio relazioni con il pubblico;
c) ad altro ufficio indicato dall'amministrazione nella sezione
"Amministrazione trasparente" del sito
istituzionale;
d) al responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza, ove l'istanza abbia a oggetto
dati, informazioni o documenti oggetto di
pubblicazione obbligatoria ai sensi del
presente decreto.
4. Il rilascio di dati o documenti in
formato elettronico o cartaceo è gratuito,
salvo il rimborso del costo effettivamente
sostenuto e documentato dall'amministrazione
per la riproduzione su supporti materiali.
5. Fatti salvi i casi di pubblicazione
obbligatoria, l'amministrazione cui è
indirizzata la richiesta di accesso, se
individua soggetti controinteressati, ai
sensi dell'articolo 5-bis, comma 2, è tenuta
a dare comunicazione agli stessi, mediante
invio di copia con raccomandata con avviso
di ricevimento, o per via telematica per
coloro che abbiano consentito tale forma di
comunicazione. Entro dieci giorni dalla
ricezione della comunicazione, i
controinteressati possono presentare una
motivata opposizione, anche per via
telematica, alla richiesta di accesso. A
decorrere dalla comunicazione ai
controinteressati, il termine di cui al
comma 6 è sospeso fino all'eventuale
opposizione dei controinteressati. Decorso
tale termine, la pubblica amministrazione
provvede sulla richiesta, accertata la
ricezione della comunicazione.
6. Il procedimento di accesso civico deve
concludersi con provvedimento espresso e
motivato nel termine di trenta giorni dalla
presentazione dell'istanza con la
comunicazione al richiedente e agli
eventuali controinteressati. In caso di
accoglimento, l'amministrazione provvede a
trasmettere tempestivamente al richiedente i
dati o i documenti richiesti, ovvero, nel
caso in cui l'istanza riguardi dati,
informazioni o documenti oggetto di
pubblicazione obbligatoria ai sensi del
presente decreto, a pubblicare sul sito i
dati, le informazioni o i documenti
richiesti e a comunicare al richiedente
l'avvenuta pubblicazione dello stesso,
indicandogli il relativo collegamento
ipertestuale. In caso di accoglimento della
richiesta di accesso civico nonostante
l'opposizione del controinteressato, salvi i
casi di comprovata indifferibilità,
l'amministrazione ne dà comunicazione al
controinteressato e provvede a trasmettere
al richiedente i dati o i documenti
richiesti non prima di quindici giorni dalla
ricezione della stessa comunicazione da
parte del controinteressato. Il rifiuto, il
differimento e la limitazione dell'accesso
devono essere motivati con riferimento ai
casi e ai limiti stabiliti dall'articolo
5-bis. Il responsabile della prevenzione
della corruzione e della trasparenza può
chiedere agli uffici della relativa
amministrazione informazioni sull'esito
delle istanze.
7. Nei casi di diniego totale o parziale
dell'accesso o di mancata risposta entro il
termine indicato al comma 6, il richiedente
può presentare richiesta di riesame al
responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza di cui
all'articolo 43, che decide con
provvedimento motivato, entro il termine di
venti giorni. Se l'accesso è stato negato o
differito a tutela degli interessi di cui
all'articolo 5-bis, comma 2, lettera a), il
suddetto responsabile provvede sentito il
Garante per la protezione dei dati
personali, il quale si pronuncia entro il
termine di dieci giorni dalla richiesta. A
decorrere dalla comunicazione al Garante, il
termine per l'adozione del provvedimento da
parte del responsabile è sospeso, fino alla
ricezione del parere del Garante e comunque
per un periodo non superiore ai predetti
dieci giorni. Avverso la decisione
dell'amministrazione competente o, in caso
di richiesta di riesame, avverso quella del
responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza, il
richiedente può proporre ricorso al
Tribunale amministrativo regionale ai sensi
dell'articolo 116 del Codice del processo
amministrativo di cui al decreto legislativo
02.07.2010, n. 104.
8. Qualora si tratti di atti delle
amministrazioni delle regioni o degli enti
locali, il richiedente può altresì
presentare ricorso al difensore civico
competente per ambito territoriale, ove
costituito. Qualora tale organo non sia
stato istituito, la competenza è attribuita
al difensore civico competente per l'ambito
territoriale immediatamente superiore. Il
ricorso va altresì notificato
all'amministrazione interessata. Il
difensore civico si pronuncia entro trenta
giorni dalla presentazione del ricorso. Se
il difensore civico ritiene illegittimo il
diniego o il differimento, ne informa il
richiedente e lo comunica
all'amministrazione competente. Se questa
non conferma il diniego o il differimento
entro trenta giorni dal ricevimento della
comunicazione del difensore civico,
l'accesso è consentito. Qualora il
richiedente l'accesso si sia rivolto al
difensore civico, il termine di cui
all'articolo 116 del Codice del processo
amministrativo decorre dalla data di
ricevimento, da parte del richiedente,
dell'esito della sua istanza al difensore
civico. Se l'accesso è stato negato o
differito a tutela degli interessi di cui
all'articolo 5-bis, comma 2, lettera a), il
difensore civico provvede sentito il Garante
per la protezione dei dati personali, il
quale si pronuncia entro il termine di dieci
giorni dalla richiesta. A decorrere dalla
comunicazione al Garante, il termine per la
pronuncia del difensore è sospeso, fino alla
ricezione del parere del Garante e comunque
per un periodo non superiore ai predetti
dieci giorni.
9. Nei casi di accoglimento della richiesta
di accesso, il controinteressato può
presentare richiesta di riesame ai sensi del
comma 7 e presentare ricorso al difensore
civico ai sensi del comma 8.
10. Nel caso in cui la richiesta di accesso
civico riguardi dati, informazioni o
documenti oggetto di pubblicazione
obbligatoria ai sensi del presente decreto,
il responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza ha l'obbligo
di effettuare la segnalazione di cui
all'articolo 43, comma 5.
11. Restano fermi gli obblighi di
pubblicazione previsti dal Capo II, nonché
le diverse forme di accesso degli
interessati previste dal Capo V della legge
07.08.1990, n. 241.”
7.2. Dal complessivo testo dell’articolo si
evince il diritto di chiunque di richiedere
dati, informazioni e documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, non solo
quando l’Amministrazione non ottemperi
all’obbligo di legge di pubblicarli (comma
1), bensì anche (comma 2) “allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali”,
nel rispetto della procedura di tutela degli
eventuali controinteressati disciplinata dai
commi seguenti e nei (soli) limiti relativi
alla tutela di interessi giuridicamente
rilevanti secondo quanto previsto
dall'articolo 5-bis del medesimo decreto
legislativo n. 33/2013 (che, nel caso di
specie, la Coldiretti ritiene egualmente
violato), secondo cui: “1. L'accesso
civico di cui all'articolo 5, comma 2, è
rifiutato se il diniego è necessario per
evitare pregiudizio concreto alla tutela di
uno degli interessi pubblici inerenti a: a)
la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico;
b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e le
questioni militari; d) le relazioni
internazionali; e) la politica e la
stabilità finanziaria ed economica dello
Stato; f) la conduzione di indagini sui
reati e il loro perseguimento; g) il
regolare svolgimento di attività ispettive.
2. L'accesso di cui all'articolo 5, comma 2,
è altresì rifiutato se il diniego è
necessario per evitare un pregiudizio
concreto alla tutela di uno dei seguenti
interessi privati: a) la protezione dei dati
personali, in conformità con la disciplina
legislativa in materia; b) la libertà e la
segretezza della corrispondenza; c) gli
interessi economici e commerciali di una
persona fisica o giuridica, ivi compresi la
proprietà intellettuale, il diritto d'autore
e i segreti commerciali.
3. Il diritto di cui all'articolo 5, comma
2, è escluso nei casi di segreto di Stato e
negli altri casi di divieti di accesso o
divulgazione previsti dalla legge, ivi
compresi i casi in cui l'accesso è
subordinato dalla disciplina vigente al
rispetto di specifiche condizioni, modalità
o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo
24, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
4. Restano fermi gli obblighi di
pubblicazione previsti dalla normativa
vigente. Se i limiti di cui ai commi 1 e 2
riguardano soltanto alcuni dati o alcune
parti del documento richiesto, deve essere
consentito l'accesso agli altri dati o alle
altre parti”.
5. I limiti di cui ai commi 1 e 2 si
applicano unicamente per il periodo nel
quale la protezione è giustificata in
relazione alla natura del dato. L'accesso
civico non può essere negato ove, per la
tutela degli interessi di cui ai commi 1 e
2, sia sufficiente fare ricorso al potere di
differimento.
6. Ai fini della definizione delle
esclusioni e dei limiti all'accesso civico
di cui al presente articolo, l'Autorità
nazionale anticorruzione, d'intesa con il
Garante per la protezione dei dati personali
e sentita la Conferenza unificata di cui
all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, adotta linee guida
recanti indicazioni operative.”
7.3. L’art. 5-bis citato consente, quindi,
di individuare casi eccezionali in cui il
soggetto non può ottenere l’accesso civico,
mediante l’individuazione tassativa delle
fattispecie in cui, nel bilanciamento di
interessi contrapposti, l’accesso è
suscettibile di pregiudicare un interesse
generale di natura pubblica ovvero un
affidamento tutelato di natura privata.
8 – Non è controverso che il diritto di
accesso di cittadini ed imprese ai documenti
ed alle informazioni detenuti
dall’Amministrazione costituisca il
necessario corollario dei principi di
trasparenza e di partecipazione che devono
caratterizzare l’attività amministrativa
alla stregua dei principi fondamentali di
legalità, di tutela dei diritti della
persona e di uguaglianza e non
discriminazione sanciti dai primi tre
articoli della Costituzione che, al
contempo, esso attui l’art. 97 e i principi
di imparzialità e di buon andamento
dell’Amministrazione.
9 - Già con la legge n. 241 del 1990, il
legislatore nazionale ha previsto il
“diritto degli interessati di prendere
visione e di estrarre copia di documenti
amministrativi” (art. 22, comma 1, lett. a),
legge n. 241/1990) configurando tale
previsione come “principio generale
dell’attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurare
l’imparzialità e la trasparenza” e
includendo, giuste le previsioni di cui
all’art 29, comma 2-bis, della medesima
legge, i contenuti di tale “diritto” tra i
livelli essenziali delle prestazioni ai
sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost..
In tale primigenia configurazione della
posizione giuridica soggettiva, l’accesso
viene garantito “agli interessati”: non
basta, come precisato dalla giurisprudenza,
la semplice curiosità, essendo necessario
invece un interesse di base differenziato e
meritevole di tutela, secondo la titolarità
e nei limiti dell’utilità di una posizione
giuridicamente rilevante.
9.1. La legge n. 241/1990 ha costruito il
“diritto di accesso” in termini di
protezione diretta di un bene della vita,
secondo lo schema del diritto soggettivo.
Sotto il profilo processuale la tutela di
tale diritto è stata ricompresa nell’ambito
delle materie devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Ciò nonostante è comunque prevalsa la tesi
che non si tratti di un diritto soggettivo
in senso proprio e che l’accesso vada
inquadrato, al di là del nomen utilizzato
dalla legge, nella categoria dell’interesse
legittimo, conseguendone la necessità che il
diniego di accesso, quale provvedimento in
senso proprio, sia impugnato nel termine di
decadenza di 60 giorni, piuttosto che nel
termine più lungo di prescrizione
applicabile in via ordinaria ai diritti
soggettivi (Consiglio di stato, Adunanza
Plenaria 18.04.2006 n. 6 e 20.04.2006 n. 7).
10 - Accanto a questa prima forma di accesso
sono state introdotte, di recente,
nell’ordinamento, altre fattispecie di
accesso qualificabili in termini di diritto
soggettivo in senso proprio, tra le quali la
recente disposizione sul cosiddetto accesso
civico -noto anche come Freedom of
Information Act (FOIA) sulla scorta
dell’esempio statunitense- introdotta
nell’ambito della normativa anticorruzione
con il sopra riportato art. 5 del decreto
legislativo del 14.03.2013 n. 33, come
modificato dal decreto legislativo n. 97 del
2016, che prevede due fattispecie:
a) In primo luogo, chiunque può richiedere
l’accesso alle informazioni e ai dati che le
amministrazioni avrebbero comunque l’obbligo
di pubblicare sui propri siti o con altre
modalità tutte le volte in cui esse hanno
omesso questo adempimento.
b) In secondo luogo, con previsione ancor
più generale volta a “favorire forme diffuse
di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle
risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico,” si
dispone che chiunque abbia diritto di
accedere ai dati e documenti detenuti dalle
pubbliche amministrazioni, anche a quelli
per i quali non sussiste un obbligo di
pubblicazione, anche se l’art. 5-bis prevede
una serie di esclusioni in relazione alla
necessità di tutelare interessi pubblici e
privati come ad esempio la sicurezza
nazionale, la difesa, le relazioni
internazionali, la protezione dei dati
personali, la libertà e la segretezza della
corrispondenza e più in generale tutti i
casi di esclusione di cui all’art. 24, comma
1, della legge n. 241/1990.
11 - Dunque, osserva il Collegio,
sia
l’accesso documentale ex art. 22 della legge
n. 241/1990, sia l’accesso civico ex art. 5
del d.lgs. n. 33/2013, hanno lo scopo di
assicurare l’imparzialità e la trasparenza
dell’attività amministrativa e di favorire
la partecipazione dei privati, ed entrambi
gli istituti scontano talune limitazioni
risultanti dalla ponderazione con altri
interessi costituzionalmente rilevanti.
Tuttavia nel primo caso il diritto di
accesso è riconosciuto solamente al soggetto
titolare di un interesse qualificato in
relazione ad un procedimento amministrativo.
Nel caso dell’accesso civico, viceversa,
tale diritto è esteso a qualunque soggetto,
singolo o associato, e non vi è la necessità
di dimostrare un particolare interesse
qualificato a richiedere gli atti o le
informazioni, secondo il modello del Freedom
of Information Act (FOIA), che trae
ispirazione dalle esperienze storiche
d’oltralpe e d’oltreoceano.
12 – Al fine di interpretare ed applicare
correttamente il nuovo istituto, occorre
considerare che il modello FOIA è da tempo
presente nella storia delle moderne
democrazie: già nel 1766 si parlava in
Svezia di libertà d’informazione, ed oggi è
divenuto uno standard informativo il modello
entrato in vigore negli Stati Uniti nel
1966, mediante il quale le agenzie
dell’Executive Branch del Governo Federale
hanno l’obbligo di rendere noti e di
pubblicare, in modo celere, nel “Federal Register”, un’ampia varietà di documenti a
vantaggio dei cittadini.
Il FOIA statunitense inoltre stabilisce che
ogni ente governativo deve rendere
disponibili a chiunque i documenti non
inerenti agli obblighi di pubblicazione. Si
tratta dunque di un’accessibilità pressoché
totale (i cui limiti sono specificamente
delineati in nove eccezioni) che ne fa,
secondo i commentatori più attenti, uno
degli indicatori più significativi del tasso
di democraticità del sistema di governo
americano.
In particolare, nel Freedom of Information
Act il “right to know”, diritto di essere
informati, persegue tre diversi obiettivi,
il primo, “accountabilty”, vuole consentire
un controllo diffuso sull’operato degli enti
pubblici allo scopo di evitare fenomeni di
corruzione. La seconda finalità, “partecipation”,
vuole garantire ai cittadini una
partecipazione consapevole alle decisioni
pubbliche. Infine, con la "legitimacy” si
vogliono rafforzare le stesse pubbliche
amministrazioni, che devono agire in
completa trasparenza nei confronti dei
cittadini.
Ad oggi esiste una versione del Freedom of
Information Act in oltre cento Paesi del
mondo, e l’accesso alle informazioni
raccolte dallo Stato costituisce un punto di
riferimento per gli Stati democratici, tanto
da essere riconosciuto a livello
internazionale come diritto umano collegato
alla libertà di espressione dell’individuo
in generale; a sostegno del FOIA si schiera
la Convenzione Onu contro la Corruzione, che
include l’obbligo per gli Stati di fornire
accesso alle informazioni per promuovere la
partecipazione della società civile nella
prevenzione e nella lotta alla corruzione,
mentre l’Unesco riconosce “il 28 settembre
come la Giornata mondiale del diritto di
accesso.”
13 - Il percorso per la trasparenza nel
nostro Paese è iniziato solo in tempi più
recenti: la prima norma contenente il
diritto di accesso è entrata in vigore solo
nel 1990 con la già citata legge n. 241 sul
procedimento amministrativo.
Successivamente, il sopra citato decreto
legislativo n. 33/2013 ha disciplinato la
pubblicazione on-line di informazioni
rilevanti sui siti web istituzionali delle
pubbliche amministrazioni.
Peraltro
l’obbligo di pubblicazione, riguardante
grandi quantità di dati talvolta di scarso
interesse per le imprese e per i cittadini,
è stato nuovamente disciplinato dal decreto
legislativo n. 97/2016, che ha modificato il
decreto n. 33/2013 precisando le
informazioni da pubblicare nelle pagine web
istituzionali. La medesima fonte ha infine
introdotto, come già ricordato, un nuovo
sistema di accesso civico, tendenzialmente
generalizzato, che si ispira al sopracitato
FOIA statunitense secondo la regola primaria
della general disclosure di qualsiasi atto,
salvo tassative eccezioni, anche se non
sottoposto a pubblicazione.
14 – L’introduzione del nuovo istituto di
matrice anglosassone è stata accompagnata da
talune perplessità ed incertezze
applicative, riferite sia ai problemi di
coordinamento derivanti dal mantenimento dei
precedenti istituti di trasparenza
amministrativa, sia alla radicale
ridefinizione del rapporto fra cittadino e
pubblica amministrazione ed alle possibili
difficoltà organizzative derivanti per
quest’ultima dalla possibilità generalizzata
e diffusa di presentare richieste di accesso
alle informazioni o agli atti pubblici senza
dover fornire alcuna motivazione.
Osserva tuttavia il Collegio che il nuovo
accesso civico risponde pienamente ai
sopraindicati principi del nostro
ordinamento nazionale di trasparenza e
imparzialità dell’azione amministrativa e di
partecipazione diffusa dei cittadini alla
gestione della ”Cosa pubblica” ai sensi
degli articoli 1 e 2 della Costituzione,
nonché, ovviamente, dell’art. 97 cost.,
secondo il principio di sussidiarietà di cui
all’art. 118 della Costituzione.
15 - In particolare l’art. 118 Cost., nella
sua vigente formulazione, al primo comma
prevede che “Le funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni salvo che, per
assicurarne l'esercizio unitario, siano
conferite a Province, Città metropolitane,
Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di
sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza”, sancendo il principio di sussidiarietà c.d. “verticale”, volto ad
avvicinare le competenze dei pubblici uffici
ai cittadini e alle imprese e alle loro
associazioni e, quindi, ai bisogni del
territorio, secondo il modello di “Stato
delle Autonomie” già delineato dall’art. 5 Cost..
Esso, al quarto ed ultimo comma,
introduce, ed è la vera novità, anche il
principio di sussidiarietà in senso c.d.
“orizzontale”, sancendo che “Stato, Regioni,
Province, Città Metropolitane e Comuni
favoriscono l'autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio della sussidiarità".
Il “nuovo” principio di sussidiarietà è,
quindi, volto a favorire “l’autonoma
iniziativa dei cittadini, singoli e
associati”, ovvero a favorire la
partecipazione dei cittadini e delle
formazioni sociali (imprenditoriali ed
associative) nelle quali si svolge la loro
personalità, ai sensi dell’art. 2 Cost.,
alla cura e al buon andamento della “Cosa
pubblica” mediante “lo svolgimento di
attività d’interesse generale”.
In tal modo,
viene riconosciuto in primis il valore del
volontariato, che insieme alla cooperazione
costituisce un patrimonio storico della
nostra nazione (attualmente il “Terzo
settore” annovera in Italia circa sette
milioni di volontari impegnati a vario
titolo, insieme a più di tremila
associazioni e organizzazioni “no profit”,
nell’assistenza ai più bisognosi e nella
tutela della persona, dell’ambiente e della
cultura, dando uno spontaneo adempimento ai
“doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale” previsti
dall’art. 2 Cost.).
Al tradizionale modello solidaristico va progressivamente
affiancandosi un nuovo modello di
“cittadinanza attiva”, già patrimonio della
lunga storia della democrazia in Europa e
nei Paesi anglosassoni ma non estraneo alla
storia Italiana, dai Comuni alle Repubbliche
marinare, dalle Società di mutuo soccorso
alle Cooperative di lavoro, dalle Signorie
alle attuali “Misericordie” che affiancano i
servizi sociali comunali.
Tale nuovo modello
è caratterizzato, alla stregua delle
previsioni degli artt. 1, 2 e 118 della
Costituzione, dalla spontanea cooperazione
dei cittadini con le Istituzioni pubbliche
mediante la partecipazione alle decisioni e
alle azioni che riguardano la cura dei beni
comuni, anziché dei pur rispettabili
interessi privati, e che quindi cospirano
alla realizzazione dell’interesse generale
della società assumendo a propria volta una
valenza pubblicistica, nella consapevolezza
che la partecipazione attiva dei cittadini
alla vita collettiva può concorrere a
migliorare la capacità delle istituzioni di
dare risposte più efficaci ai bisogni delle
persone e alla soddisfazione dei diritti
sociali che la Costituzione riconosce e
garantisce.
16 – La sopradescritta disciplina nazionale
del nuovo accesso civico, inquadrandosi in
questo secondo modello, si pone in diretta
attuazione delle previsioni costituzionali
risultanti dalla riforma del Titolo V della
Costituzione del 2001, quale istituto
strumentale volto ad assicurare le
condizioni –ovvero la conoscibilità
generalizzata degli atti e delle
informazioni in possesso
dell’Amministrazione- necessarie “al fine di
favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico” (art. 5, citato, sull’acceso
civico) e quindi volte a favorire la
“autonoma iniziativa dei cittadini, singoli
e associati, per lo svolgimento di attività
di interesse generale” (art. 118 Cost.,
citato, che introduce il principio di
sussidiarietà).
17. La ricostruzione del predetto quadro
normativo consente al Collegio di
evidenziare che il nuovo accesso civico, che
attiene alla cura dei beni comuni a fini
d’interesse generale, si affianca senza
sovrapposizioni alle forme di pubblicazione
on-line del 2013 ed all’accesso agli atti
amministrativi del 1990, consentendo, del
tutto coerentemente con la ratio che lo ha
ispira e che lo differenzia dall’accesso
qualificato previsto dalla citata legge
generale sul procedimento, l’accesso alla
generalità degli atti e delle informazioni,
senza onere di motivazione, a tutti i
cittadini singoli ed associati, in guisa da
far assurgere la trasparenza a condizione
indispensabile per favorire il
coinvolgimento dei cittadini nella cura
della “Cosa pubblica”, oltre che mezzo per
contrastare ogni ipotesi di corruzione e per
garantire l’imparzialità e il buon andamento
dell’Amministrazione.
18. Ciò accade, a giudizio del Collegio,
anche nella specifica fattispecie in esame.
La Coldiretti infatti, dopo una prima
domanda di accesso generalizzato che
comprendeva la richiesta di un collegamento
alle banche dati dell’Amministrazione -ritenuta eccessivamente generica
dall’Amministrazione e pertanto respinta con
l’atto gravato con il ricorso principale di
primo grado- ha liberamente proposto una
nuova domanda, analoga ma molto più
circostanziata e quindi sostitutiva della
precedente, sostanzialmente volta a
verificare la corrispondenza e la non
contraddittorietà fra le importazioni di
latte e di prodotti a base di latte da parte
dei singoli operatori nazionali, da un lato,
e le indicazioni fornite al consumatore in
etichetta a termini di legge circa l’origine
delle materie prime utilizzate dall’altro.
Tali finalità corrispondono proprio a quelle
forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e di
partecipazione degli amministrati al
dibattito pubblico, previste dalla nuova
normativa del 2016 sull’accesso civico.
18 – Dalle pregresse considerazioni emerge,
innanzitutto sul piano processuale:
a) la
sopravvenuta carenza d’interesse alla
definizione dell’originario ricorso di primo
grado contro il diniego opposto alla prima
domanda, spontaneamente sostituita
dall’Associazione appellante;
b) la
necessità di esaminare nel merito i motivi
aggiunti, di ordine sostanziale, proposti
contro il secondo diniego, che sono
ugualmente incentrati sulla violazione della
nuova disciplina dell’accesso civico .
19. Ai fini della decisione della specifica
questione di cui al punto b) del par. 18, il
Collegio deve preliminarmente dare risposta
ai seguenti quesiti:
- se la Coldiretti abbia la legittimazione a proporre la domanda di
accesso, e se vi possa essere un conflitto
d’interessi con i suoi iscritti che
potrebbero essere pregiudicati dalla
richiesta informativa;
- se la possibilità di Coldiretti di acquisire i dati dai propri
iscritti, oppure l’offerto report periodico
con dati aggregati, oppure il vigente
obbligo di riportare in etichetta le
indicazioni di legge, siano idonei a far
venire meno l’interesse di Coldiretti
all’accesso;
- se la domanda di accesso sia inammissibile poiché emulativa o
comunque sproporzionata rispetto alle
finalità dichiarate di tutela dei
consumatori e del mercato, o se ciò comporti
comunque oneri insostenibili per
l’Amministrazione;
- se l’accesso ai dati richiesti possa compromettere i diritti dei
contro interessati, ed in particolare degli
operatori economici che importano latte o
suoi derivati.
19.1. Procedendo con ordine, considerato che
il diritto di accesso civico spetta a
“chiunque” non appare dubbia la
legittimazione della Coldiretti a proporre
una domanda di accesso a documenti e ad
informazioni, a maggior ragione se
riguardanti un mercato in cui essa
rappresenta la maggioranza degli operatori
economici perseguendone, per finalità
statutaria, la tutela e lo sviluppo, posto
che la completa informazione dei consumatori
(oltre a costituire un diritto di questi
ultimi, sancito dal Codice del consumo) può
favorire un corretto e regolato confronto
concorrenziale, nonché un aumento dei
consumi interni ed un ulteriore sviluppo di
quel mercato.
Ciò è vero e dirimente anche
laddove dovesse tradursi in un danno per
alcuni dei singoli operatori associati,
posto che l’eventuale pregiudizio dei
singoli non può andare a detrimento delle
finalità associative statutariamente
condivise.
In altre parole, e indipendentemente da ogni
considerazione circa le dinamiche economiche
sottese alla produzione nazionale ovvero
alla importazione del latte e dei suoi
derivati in una economia ormai globalizzata,
non è ictu oculi priva di fondamento la tesi
che la trasparenza e la credibilità di
fronte ai consumatori circa la provenienza
delle materie prime possa favorire lo
sviluppo del mercato interno di riferimento,
e che, conseguentemente, l’interesse di
alcuni associati alla Coldiretti,
potenzialmente pregiudicati dalle
informazioni pubblicate, debba essere
considerato recessivo in quanto non in linea
con lo scopo comune della Coldiretti.
19.2. D’altro canto i dati e le informazioni
richieste per conseguire la predetta
finalità, ossia per ricostruire la filiera
delle importazioni di ogni singolo
produttore nazionale al fine di suscitare un
controllo diffuso ed un dibattito circa la
rispondenza fra etichette dei singoli
prodotti offerti sul mercato e reali
importazioni dei singoli produttori, non
potrebbero essere raccolti dall’Associazione
solo presso i propri iscritti (che
costituiscono solo una parte degli
operatori) né potrebbero essere sostituite
dal proposto report periodico con dati
aggregati.
19.3. Neppure gli obblighi d’informazione in
etichetta già presenti per legge, sono, del
resto, idonei a far venire meno l’interesse
di Coldiretti all’accesso, atteso che, a
superamento di quanto argomentato dal TAR,
l’Associazione persegue proprio la verifica
della credibilità di quelle dichiarazioni
riportate in etichetta.
In particolare, erra
il Tar quando considera che la Coldiretti
non avrebbe interesse a proporre l’istanza
di accesso generalizzato poiché allo stesso
fine è prevista statutariamente la
disciplina sulle etichette (decreto
ministeriale del 09.12.2016 sulla
etichettatura dei prodotti alimentari).
Anche a voler seguire questa prospettazione,
in ogni caso rimane l’interesse della
Coldiretti ad “accedere ai dati e ai
documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli
oggetto di pubblicazione” (art. 5, comma 2, cit.).
Infatti, il richiesto accesso ai dati
a disposizione dell’Amministrazione in
relazione ai procedimenti amministrativi
concernenti l’importazione di materie prime
e semilavorati da parte dei singoli
operatori, oltre a consentire una verifica
circa la complessiva affidabilità del
controllo pubblico in ordine al rispetto
dell’obbligo degli stessi operatori di
indicare in etichetta l’origine degli
ingredienti di alcuni alimenti,
consentirebbe di integrare la predetta forma
di pubblicità quanto alla complessiva
provenienza delle materie prime utilizzate
per produrre in Italia gli ingredienti ed i
semilavorati a propria volta utilizzati nei
prodotti commercializzati dal medesimo
operatore, ma non indicati, a termini di
legge, in etichetta.
Pertanto, a giudizio del Collegio le
informazioni richieste dalla Coldiretti al
Ministero della Salute, da un lato,
integrano quelle oggetto di pubblicità
obbligatoria ma non coincidono con esse e,
dall’altro, non consentono di individuare
alcun “abuso del diritto” d’informazione, in
quanto rispondono alle dichiarate esigenze
legate alla tutela dei consumatori e alla
stessa ratio della rintracciabilità della
filiera che motiva gli obblighi di
etichettatura, operando quel “controllo
diffuso sull’attività amministrativa”
perseguito dalla nuova norma.
19.4. Venendo agli ulteriori quesiti, è pur
vero che sebbene il summenzionato art. 5 del
d.lgs. n. 33/2013 non richieda all’istante
di fornire una specifica qualificazione o
motivazione, la giurisprudenza ha talvolta
attribuito rilievo al carattere emulativo o
non proporzionato della domanda rispetto
alle finalità perseguite.
Tuttavia le pregresse considerazioni
consentono di escludere che ricorra una tale
circostanza nella fattispecie in esame,
considerata la corrispondenza fra la domanda
e la dichiarata finalità di tutela della
trasparenza del mercato e, quindi, del
diritto dei consumatori di essere informati.
In particolare, la richiesta di Coldiretti
risulta conforme alle finalità di tutela dei
consumatori del Codice del consumo che,
all’art. 2, garantisce una serie di diritti
del consumatore, alcuni dei quali appaiono
connessi alla domanda di accesso civico in
esame.
L’art. 2 del Codice del Consumo afferma,
infatti, che “1. Sono riconosciuti e
garantiti i diritti e gli interessi
individuali e collettivi dei consumatori e
degli utenti, ne è promossa la tutela in
sede nazionale e locale, anche in forma
collettiva e associativa, sono favorite le
iniziative rivolte a perseguire tali
finalità, anche attraverso la disciplina dei
rapporti tra le associazioni dei consumatori
e degli utenti e le pubbliche
amministrazioni.
2. Ai consumatori ed agli utenti sono
riconosciuti come fondamentali i diritti:
a) alla tutela della salute;
b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi;
c) ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità;
c-bis) all'esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di
buona fede, correttezza e lealtà;
d) all'educazione al consumo;
e) alla correttezza, alla trasparenza ed all'equità nei rapporti
contrattuali;
f) alla promozione e allo sviluppo dell'associazionismo libero,
volontario e democratico tra i consumatori e
gli utenti;
g) all'erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e
di efficienza.”.
Tale articolo si mostra, quindi, in linea
con le richieste della Coldiretti, che vuole
indagare sul latte e sui prodotti caseari al
fine di informare e rendere consapevoli i
consumatori, coerentemente con la ratio
dell’accesso civico generalizzato, così come
disciplinato dal decreto del 2013 e
modificato da quello del 2016.
19.5. Assume inoltre rilievo la circostanza
che la seconda istanza proposta da
Coldiretti è stata depurata di tutti quegli
elementi che conferivano un carattere di
genericità alla prima istanza, in conformità
alle Linee Guida emanate dall’ANAC in
materia.
19.6. Neppure può ritenersi che la domanda
comporti oneri eccessivi o sproporzionati per
l’Amministrazione. La stessa mira infatti ad
ottenere dati disaggregati senza alcuna
previa rielaborazione, la cui messa a
disposizione (al contrario del report
offerto dall’Amministrazione) non implica
particolari oneri organizzativi o gestionali
dell’Amministrazione (l’Associazione, nella
prima domanda aveva anche proposto un
diretto collegamento telematico alla banca
dati, ma la questione, in disparte il
rischio di interferenza della fattispecie
con la diversa disciplina della
pubblicazione on line erga omnes, non
costituisce più, come sopra indicato,
oggetto del presente giudizio).
19.7. Infine, quanto all’obiezione che
l’accesso potrebbe compromettere i diritti
degli operatori economici importatori,
evidenzia il Collegio che l’art. 5
soprariportato disciplina dettagliatamente
il procedimento in contraddittorio che
l’Amministrazione deve obbligatoriamente
avviare al ricevimento della domanda al fine
di tutelare i possibili controinteressati,
non potendo certamente l’Amministrazione
limitarsi a prefigurare il rischio di un
pregiudizio in via generica e astratta, e
dovendo invece motivare, in modo puntuale,
la effettiva sussistenza di un reale e
concreto pregiudizio agli interessi
considerati dai commi 1 e 2 del
soprariportato art. 5-bis.
Sulla questione l’ANAC ha emanato nel 2016
le Linee Guida recanti “indicazioni
operative ai fini della definizione delle
esclusione e dei limiti all’accesso civico
di cui all’art. 5, co. 2, del D.Lgs 33/2013”,
ed in tale documento viene affermato che
“Affinché l’accesso possa essere rifiutato,
il pregiudizio agli interessi considerati ai
commi 1 e 2 deve essere concreto, quindi
deve sussistere un preciso nesso di
causalità tra l’accesso e il pregiudizio.
L’Amministrazione, in altre parole, non può
limitarsi a prefigurare il rischio di un
pregiudizio in via generica e astratta, ma
dovrà:
a) indicare chiaramente quale –tra gli interessi elencati all’art.
5-bis, co. 1 e 2– viene pregiudicato;
b) valutare se il pregiudizio (concreto) prefigurato dipende
direttamente dalla disclosure
dell’informazione richiesta;
c) valutare se il pregiudizio conseguente alla disclosure è un
evento altamente probabile, e non soltanto
possibile”.
Risulta, quindi, confermata l’erroneità del
diniego di accesso alla informazioni
richieste dalla Coldiretti, in quanto il
pregiudizio paventato ai controinteressati
era solo ipotetico e comunque agevolmente
rimovibile mediante la richiesta inziale di
segnalare specifiche ed ipotetiche
circostanze ostative, purché riferite a
profili diversi rispetto alle informazioni
già obbligatoriamente riportate in
etichetta, alla stregua del comma 5 del
citato art. 5, che disciplina la
comunicazione ai soggetti controinteressati
“fatti salvi i casi di pubblicazione
obbligatoria”.
Alla luce della predetta precisazione
normativa, in particolare, neppure può
assumere rilievo la considerazione, svolta
dalla Difesa dell’Amministrazione, circa il
diverso impatto derivante dai diversi modi
di divulgazione dei dati ai consumatori, i
quali non possono essere pregiudizialmente
ritenuti disattenti nella lettura delle
informazioni già obbligatoriamente riportate
in etichetta e nel conseguente giudizio sui
prodotti.
20. Conclusivamente, la risposta ai quesiti,
nei termini di cui al par. 19), conduce al
riconoscimento del diritto d’accesso civico
in capo all’associazione ricorrente. Alla
stregua delle pregresse considerazioni
l’appello deve essere accolto, e per
l’effetto deve essere annullato, in riforma
dell’appellata sentenza, il diniego
impugnato in primo grado con i motivi
aggiunti, dovendo invece essere dichiarata
la sopravvenuta carenza d’interesse in
ordine al ricorso principale di primo grado.
21. Ne consegue l’obbligo
dell’Amministrazione intimata di dare corso,
senza alcun indugio, alla seconda domanda di
“accesso civico” dell’Associazione
appellante, previa attivazione e
conclusione, nei termini di legge, della
procedura di confronto con i potenziali controinteressati, i quali, in relazione
alla specificità del caso, potranno essere
interpellati preliminarmente in via generale
secondo modalità telematiche.
L’Amministrazione potrà, se del caso, tenere
conto (mediante il parziale oscuramento dei
dati) solo di eventuali specifiche ragioni
di riservatezza dei controinteressati,
puntualmente motivate e circostanziate,
eventualmente ritenute meritevoli di
protezione, ma con riferimento a profili
diversi ed ulteriori rispetto a quelli già
implicitamente superate dai vigenti obblighi
di informazione dei consumatori. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’istanza di accesso agli atti presentata dal
ricorrente deve qualificarsi come istanza ex art. 22 e ss.
della L. 241/1990 e ss.mm.ii.
Sicché, come è noto, tale fattispecie rientra nel campo di
applicazione di uno dei principi generali dell’attività
amministrativa contemporanea -quello appunto dell’accesso-
teso al fine precipuo di favorire la partecipazione al
procedimento amministrativo da parte dei cittadini, oltre a
garantire l’imparzialità e la trasparenza dell’agire delle
Pubbliche Amministrazioni.
Va da subito evidenziato che l’interesse all’accesso deve
essere finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti, così come disposto dal c. 1, lett. b) del citato
art. 22, a mente del quale possono richiedere l’accesso agli
atti tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di
interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l’accesso.
Va rimarcato, pertanto, che per accedere ai documenti
amministrativi è necessario avere un interesse che deve
necessariamente essere “diretto, concreto e attuale”; sotto
tale aspetto si può rilevare che l’interesse è “diretto”
quando è personale, vale a dire appartiene alla sfera
dell’interessato, è “concreto” quando è collegato con il
“bene vita” coinvolto dal documento, ed infine è “attuale”
se non è meramente potenziale.
In linea del tutto generale, oramai per giurisprudenza
consolidata è necessario prendere in considerazione una
“…nozione ampia di “strumentalità” del diritto di accesso,
nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla
cura di un interesse diretto, concreto, attuale e non
meramente emulativo o potenziale, connesso alla
disponibilità dell’atto o del documento del quale si
richiede l’accesso, non imponendosi che l’accesso al
documento sia unicamente e necessariamente strumentale
all’esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata strumentalità va intesa in
senso ampio in termini di utilità per la difesa di un
interesse giuridicamente rilevante”.
L’accesso agli atti si colloca, dunque, all’interno di un
sistema contraddistinto dalla ricerca di un contemperamento
delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione
amministrativa con i principi di partecipazione e di
concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte
dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio
di pubblicità dei documenti amministrativi.
Pertanto in tale ottica, il collegamento tra l’interesse
giuridicamente rilevante del privato e la documentazione
stessa, deve essere un mezzo utile per la difesa
dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di
prova diretta della lesione di tale interesse.
Invero, il diritto all’accesso agli atti, nell’ambito della
L. n. 241/1990, non può mai sconfinare in una azione volta a
genericamente assoggettare a controllo l’operato delle
Pubbliche Amministrazioni, difatti: “il diritto all’accesso
documentale -pur essendo finalizzato ad assicurare la
trasparenza dell’azione amministrativa ed a favorirne lo
svolgimento imparziale- non si configura come un’azione
popolare, esercitabile da chiunque, indipendentemente da una
posizione giuridicamente differenziata; ne consegue che
l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti
si riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque
solo laddove essi se ne possano avvalere per tutelare una
posizione giuridicamente rilevante”.
Sulla stessa linea interpretativa si afferma che “Il diritto
di accesso a documenti amministrativi è riconosciuto a
chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale, che
corrisponde ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, non
essendo pertanto necessaria l’instaurazione di un giudizio,
essendo sufficiente la dimostrazione del grado di protezione
al bene della vita dal quale deriva l’interesse ostensivo,
pertanto la legittimazione all’accesso agli atti della P.A.
va riconosciuta a chi è in grado di dimostrare che gli atti
oggetto dell’accesso hanno prodotto o possano produrre
effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, a
prescindere dalla lesione di una posizione giuridica”.
Dunque, lo si ribadisce, ai fini dell’accesso agli atti, il
soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che,
oltre ad essere serio e non emulativo, riveste carattere
“personale e concreto”.
Appare quindi determinante la circostanza per la quale il
richiedente riesca a dimostrare che, in virtù del proficuo
esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti
amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi
“titolare” di “poteri di natura procedimentale, volti in
senso strumentale alla tutela di altri interessi
giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque
ad intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che
travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi
o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde
dal preventivo esercizio del diritto di accesso”.
---------------
Deve anzitutto osservarsi, nel quadro di una certa genericità
delle argomentazioni impugnatorie formulate nel libello
introduttivo, l’istanza di accesso agli atti presentata dal
ricorrente deve qualificarsi come istanza ex art. 22 e ss.
della L. 241/1990 e ss.mm.ii.
Come è noto, tale fattispecie rientra nel campo di
applicazione di uno dei principi generali dell’attività
amministrativa contemporanea -quello appunto dell’accesso-
teso al fine precipuo di favorire la partecipazione al
procedimento amministrativo da parte dei cittadini, oltre a
garantire l’imparzialità e la trasparenza dell’agire delle
Pubbliche Amministrazioni.
Va da subito evidenziato che l’interesse all’accesso deve
essere finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti, così come disposto dal c. 1, lett. b), del citato
art. 22, a mente del quale possono richiedere l’accesso agli
atti tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di
interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l’accesso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent.
n. 4043/2017).
Va rimarcato, pertanto, che per accedere ai documenti
amministrativi è necessario avere un interesse che deve
necessariamente essere “diretto, concreto e attuale”; sotto
tale aspetto si può rilevare che l’interesse è “diretto”
quando è personale, vale a dire appartiene alla sfera
dell’interessato, è “concreto” quando è collegato con il
“bene vita” coinvolto dal documento, ed infine è “attuale”
se non è meramente potenziale (cfr. TAR Toscana, Firenze, Sez. II, sent. n. 4967/2006).
In linea del tutto generale, oramai per giurisprudenza
consolidata è necessario prendere in considerazione una
“…nozione ampia di “strumentalità” del diritto di accesso,
nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla
cura di un interesse diretto, concreto, attuale e non
meramente emulativo o potenziale, connesso alla
disponibilità dell’atto o del documento del quale si
richiede l’accesso, non imponendosi che l’accesso al
documento sia unicamente e necessariamente strumentale
all’esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata strumentalità va intesa in
senso ampio in termini di utilità per la difesa di un
interesse giuridicamente rilevante” (cfr. Cons. Stato, Sez.
III, Sent. n. 1978/2016).
L’accesso agli atti si colloca, dunque, all’interno di un
sistema contraddistinto dalla ricerca di un contemperamento
delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione
amministrativa con i principi di partecipazione e di
concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte
dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio
di pubblicità dei documenti amministrativi.
Pertanto in tale ottica, il collegamento tra l’interesse
giuridicamente rilevante del privato e la documentazione
stessa, deve essere un mezzo utile per la difesa
dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di
prova diretta della lesione di tale interesse (cfr. Cons.
Stato, sez. III, Sent. n. 116/2012).
Invero, il diritto all’accesso agli atti, nell’ambito della
L. n. 241/1990, non può mai sconfinare in una azione volta a
genericamente assoggettare a controllo l’operato delle
Pubbliche Amministrazioni, difatti: “il diritto all’accesso
documentale -pur essendo finalizzato ad assicurare la
trasparenza dell’azione amministrativa ed a favorirne lo
svolgimento imparziale- non si configura come un’azione
popolare, esercitabile da chiunque, indipendentemente da una
posizione giuridicamente differenziata; ne consegue che
l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti
si riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque
solo laddove essi se ne possano avvalere per tutelare una
posizione giuridicamente rilevante” (cfr. Cons. Stato, sez.
V, sent. n. 4346/2017).
Sulla stessa linea interpretativa si afferma che “Il diritto
di accesso a documenti amministrativi è riconosciuto a
chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale, che
corrisponde ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, non
essendo pertanto necessaria l’instaurazione di un giudizio,
essendo sufficiente la dimostrazione del grado di protezione
al bene della vita dal quale deriva l’interesse ostensivo,
pertanto la legittimazione all’accesso agli atti della P.A.
va riconosciuta a chi è in grado di dimostrare che gli atti
oggetto dell’accesso hanno prodotto o possano produrre
effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, a
prescindere dalla lesione di una posizione giuridica” (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI , sent. n. 3938/2018).
Dunque, lo si ribadisce, ai fini dell’accesso agli atti, il
soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che,
oltre ad essere serio e non emulativo, riveste carattere
“personale e concreto”.
Appare quindi determinante la circostanza per la quale il
richiedente riesca a dimostrare che, in virtù del proficuo
esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti
amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi
“titolare” di “poteri di natura procedimentale, volti in
senso strumentale alla tutela di altri interessi
giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque
ad intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che
travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi
o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde
dal preventivo esercizio del diritto di accesso” (cfr.
TAR Lazio, Sez. II, sent. n. 3941/2016).
Nel caso oggetto del presente procedimento deve evidenziarsi
come vi sia la mancanza assoluta di un interesse “attuale”
all’accesso, in quanto la procedura selettiva in esame
risulta essere stata ormai revocata, oltre ad essere
relativa ad una articolazione amministrativa, quello della
Struttura Semplice a Valenza dipartimentale di Fragilità e
Complessità Assistenziale, che è stato fatto oggetto,
insieme ad altre attività territoriali, di una
ristrutturazione aziendale di tipo macro-organizzativo.
Da questo angolo visuale, la revoca di un bando di concorso
pubblico rientra nei normali ed ampi poteri discrezionali
della Pubblica Amministrazione che può provvedere in tal
senso quando, per sopravvenute esigenze organizzative o per
il mutamento della situazione di fatto o di diritto, e
quindi per sopravvenute ragioni di interesse pubblico, non
si rende più necessaria la copertura del posto messo a
concorso.
L’istanza de qua pertanto risulta avere un carattere
generico, indeterminato ed esplorativo, confermato anche
dalla mancata indicazione, a sostegno dell’esperita tutela,
di specifici motivi di ricorso; sul punto il ricorrente, nel
libello introduttivo del giudizio, si limita ad asserire che
l’accesso agli atti gli è dovuto in ragione del semplice
inoltro della domanda alla procedura selettiva ed alla
presenza dell’interesse ad ottenere un “ruolo di
responsabilità”.
In altri termini, il ricorrente non chiarisce quale sia la
sua posizione relativamente agli atti verso i quali formula
l’istanza ostensiva, non arrivando a dimostrare quale siano
gli effetti diretti degli stessi atti nei suoi confronti, di
modo che il ricorso sembra promuovere quel controllo
generalizzato dell’operato dell’amministrazione precluso ai
sensi dell’art. 24, c. 3, della L. n. 241/1990 stigmatizzato
nella sopra ricordata giurisprudenza.
Il principio, tra l’altro, è ribadito in maniera perentoria
dal Consiglio di Stato anche in recentissime pronunce,
secondo cui: “in tema di accesso agli atti amministrativi,
non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un
controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche
amministrazioni” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sent. n.
3558/2018).
Sotto tale aspetto, parte ricorrente non potrebbe nemmeno
invocare il c.d. accesso difensivo, previsto dal comma 7 del
citato articolo 24, in quanto occorre considerare che il
ricorrente ha partecipato ad una procedura selettiva
(revocata), con valutazione comparativa con un’altra
candidata, i cui esiti non sono sub judice, in ragione del
fatto che lo stesso dott. Ga. non ha inteso impugnare la
delibera n. 999/CS del 25/05/2018.
Sotto tale aspetto, pertanto, l’ostensione degli atti e
documenti richiesti non recherebbe alcun vantaggio o
beneficio al dott. Ga. e lascerebbe comunque inalterato
il precedente assetto di interessi sottesi alla vicenda.
Ove, alternativamente, la richiesta di accesso agli atti in
esame la si qualifichi come spiccata in applicazione del
D.Lgs. n. 33/2013, così come modificato dal D.Lgs. n.
97/2016, essa parimenti sarebbe infondata nel merito.
Se invero l’art. 1 della citata normativa parla di
“accessibilità totale” dei dati e dei documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, in materia di bandi di
concorso, ex art. 19 del citato Decreto, le pubbliche
amministrazioni sono tenute a pubblicare il “bando” (che,
nel caso di specie e nella forma dell’avviso, risulta essere
stato pienamente reso pubblico), i criteri di valutazione
della Commissione (che, nel caso di specie, neppure è stata
nominata), nonché le tracce delle prove scritte (che, nel
caso di specie, non sono state formulate).
Non risulta, pertanto, spazio di ostensione documentale
ulteriore che possa o debba essere colmato.
Ne consegue, anche sotto tale ipotetico profilo, la non
accoglibilità dell’introdotto ricorso (TAR Puglia-Bari, Sez.
I,
sentenza 15.02.2019 n. 238 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
giurisprudenza ha ormai chiarito che l'azione prevista dall'art. 25 della
legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi)
introduce un giudizio di accertamento dello stesso diritto di accesso e deve
inerire ad atti formati o, comunque, detenuti dall'Amministrazione,
nell'esercizio dei suoi compiti istituzionali; in particolare, tale giudizio
si pone come sostanzialmente inteso ad accertare la sussistenza o meno del
titolo all'accesso nella specifica situazione, alla luce dei parametri
normativi di riferimento.
La giurisprudenza ha ulteriormente precisato che il giudizio in materia di
accesso ai documenti, anche se si atteggia come impugnatorio, in quanto
riferito all'atto di diniego o al silenzio-diniego formatosi sulla relativa
istanza o ancora all’atto di differimento, è sostanzialmente rivolto ad
accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica
situazione alla luce dei parametri normativi, e indipendentemente dalla
maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall'Amministrazione per
giustificare il diniego stesso.
---------------
L’art. 22 della l. 241/1990 riconosce “a chiunque vi abbia interesse per la
tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai
documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite dalla presente
legge” (1° comma); ai sensi del successivo art. 25, “il diritto di accesso
si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti
amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge” (1°
comma), e “la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa
deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o che lo
detiene stabilmente” (2° comma).
Alla stregua della richiamata disciplina sul procedimento amministrativo, i
portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso ai documenti
amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti,
intendendo per tali le situazioni giuridiche soggettive che presentino un
collegamento diretto e attuale con il procedimento amministrativo cui la
richiesta di accesso si riferisce.
In particolare, deve ritenersi che la nozione di “interesse giuridicamente
rilevante sia più ampia rispetto a quella dell’interesse all’impugnazione,
caratterizzato dall’attualità e concretezza dell’interesse medesimo, e
consenta la legittimazione all’accesso a chiunque possa dimostrare che il
provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano
idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica”.
D’altra parte, il concetto di interesse giuridicamente rilevante, sebbene
sia più ampio di quello di interesse all’impugnazione, non è tale da
consentire a chiunque l’accesso agli atti amministrativi: il diritto di
accesso ai documenti amministrativi non si atteggia, infatti, come una sorta
di azione popolare diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato
sull’Amministrazione, giacché, da un lato l’interesse che legittima ciascun
soggetto all’istanza, da accertare caso per caso, deve essere personale e
concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso,
dall’altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile
a tale interesse oltre che individuata o ben individuabile.
---------------
2.1 Il Collegio preliminarmente ritiene di precisare che la giurisprudenza
ha ormai chiarito che l'azione prevista dall'art. 25 della legge 07.08.1990,
n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto
di accesso ai documenti amministrativi) introduce un giudizio di
accertamento dello stesso diritto di accesso e deve inerire ad atti formati
o, comunque, detenuti dall'Amministrazione, nell'esercizio dei suoi compiti
istituzionali; in particolare, tale giudizio si pone come sostanzialmente
inteso ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella
specifica situazione, alla luce dei parametri normativi di riferimento (Cons.
Stato, Sez. IV, 28.02.2012, n. 1162; Sez. V, 23.01.2004, n. 207; Sez. VI,
31.07.2003, n. 4436 e 20.02.2002, n. 1036; TAR Calabria, Cz, Sez. I,
18.11.2009, n. 1274).
La giurisprudenza ha ulteriormente precisato che il giudizio in materia di
accesso ai documenti, anche se si atteggia come impugnatorio, in quanto
riferito all'atto di diniego o al silenzio-diniego formatosi sulla relativa
istanza o ancora all’atto di differimento, è sostanzialmente rivolto ad
accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica
situazione alla luce dei parametri normativi, e indipendentemente dalla
maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall'Amministrazione per
giustificare il diniego stesso (Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2011, n. 3190).
2.2 Nello specifico, l’art. 22 della legge riconosce “a chiunque vi abbia
interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di
accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite dalla
presente legge” (1° comma); ai sensi del successivo art. 25, “il
diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei
documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente
legge” (1° comma), e “la richiesta di accesso ai documenti deve essere
motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il
documento o che lo detiene stabilmente” (2° comma).
2.3 Alla stregua della richiamata disciplina sul procedimento
amministrativo, i portatori di un interesse specifico hanno diritto di
accesso ai documenti amministrativi per la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti, intendendo per tali le situazioni giuridiche
soggettive che presentino un collegamento diretto e attuale con il
procedimento amministrativo cui la richiesta di accesso si riferisce.
In particolare, deve ritenersi che la nozione di “interesse
giuridicamente rilevante sia più ampia rispetto a quella dell’interesse
all’impugnazione, caratterizzato dall’attualità e concretezza dell’interesse
medesimo, e consenta la legittimazione all’accesso a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano
dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica” (Cons.
Stato, IV Sez., 03.02.1996 n. 98; 14.01.1999 n. 32).
D’altra parte, il concetto di interesse giuridicamente rilevante, sebbene
sia più ampio di quello di interesse all’impugnazione, non è tale da
consentire a chiunque l’accesso agli atti amministrativi: il diritto di
accesso ai documenti amministrativi non si atteggia, infatti, come una sorta
di azione popolare diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato
sull’Amministrazione, giacché, da un lato l’interesse che legittima ciascun
soggetto all’istanza, da accertare caso per caso, deve essere personale e
concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso,
dall’altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile
a tale interesse oltre che individuata o ben individuabile (Cons. Stato, VI
Sez., 17.03.2000 n. 1414; 03.11.2000 n. 5930)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 26.11.2015 n. 13352 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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La cd. "sanatoria
giurisprudenziale" è morta, defunta, sepolta!
E'
chiaro? |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto, che l’istituto noto come “sanatoria
giurisprudenziale” deve considerarsi normativamente
superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto
normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento
dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il
permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei
presupposti espressamente delineati dall'art. 36 d.P.R. n.
380/2001, ossia a condizione che l'intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al
momento sia della realizzazione del manufatto, sia della
presentazione della domanda, mentre con la invocata
‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto
atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali
si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno
nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai
principi di legalità dell'azione amministrativa e di
tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica
amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in
assenza di espressa previsione legislativa, non possono
essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione
del principio di separazione dei poteri e l'invasione di
sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica
amministrazione.
---------------
L’irrilevanza della sopravvenuta normativa urbanistica vale
a confutare anche il secondo motivo di doglianza
prospettato dalla difesa di parte ricorrente nel ricorso per
motivi aggiunti, laddove ha lamentato l’irragionevolezza di
un diniego di sanatoria, relativo ad manufatto attualmente,
però, realizzabile in maniera del tutto legittima, alla luce
della sopravvenuta e attualmente vigente disciplina
urbanistica dell’area. In tal modo, la difesa attorea ha
inteso richiamarsi ad un istituto giuridico frutto di un
risalente orientamento giurisprudenziale, noto come “sanatoria
giurisprudenziale”.
E’ noto, infatti, che l’istituto in parola deve considerarsi
normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro
disposto normativo vigente e ai principi connessi al
perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio,
nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto
in presenza dei presupposti espressamente delineati
dall'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che
l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento sia della realizzazione del
manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con
la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in
rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali
praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori
d'ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno
nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai
principi di legalità dell'azione amministrativa e di
tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica
amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in
assenza di espressa previsione legislativa, non possono
essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione
del principio di separazione dei poteri e l'invasione di
sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica
amministrazione (cfr., ex multis, da ultimo Consiglio
di Stato sez. VI, 11/09/2018, n. 5319) (TAR Campania-Napoli,
Sez. IV,
sentenza 06.06.2019 n. 3076 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istituto della cd "sanatoria giurisprudenziale" deve
considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro
disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento
dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in
sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente
delineati dall'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, ossia a condizione che
l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della
presentazione della domanda, mentre con la invocata 'sanatoria
giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti
provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni
previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento
positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione
amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla
pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di
espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via
giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione.
---------------
Non può neppure condividersi la tesi tendente ad attribuire rilievo alla
c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, dato che, secondo recente
orientamento giurisprudenziale, tale istituto “deve considerarsi
normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto
normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva
trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è
ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati
dall'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, ossia a condizione che l'intervento
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento
sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della
domanda, mentre con la invocata 'sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in
rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali
si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa. Tale istituto
non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo,
contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e
di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica
amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa
previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale,
pena la violazione del principio di separazione" (Cons. Stato Sez. IV,
21/03/2019, n. 1874)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 05.06.2019 n. 940 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istituto della c.d. "sanatoria
giurisprudenziale" deve considerarsi normativamente superato
nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo
vigente ed ai principi connessi al perseguimento
dell'abusiva trasformazione del territorio.
Come ha messo in evidenza il Consiglio di Stato, <<il
permesso in sanatoria è quindi ottenibile soltanto ex art.
36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a condizione che l'intervento
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento sia della realizzazione del manufatto,
sia della presentazione della domanda; viceversa, con la
invocata "sanatoria giurisprudenziale" viene in rilievo un
atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem che
si colloca fuori d'ogni previsione normativa e, pertanto, la
stessa non è ammessa nell'ordinamento positivo,
contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione
amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività,
poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo
giudice, pena la violazione del principio di separazione dei
poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni
riservate alla P.A. stessa. A questo riguardo pare poi il
caso di rammentare che a favore della incompatibilità della
c.d. "sanatoria giurisprudenziale" con il dettato normativo
di cui all'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 militano anche
argomenti interpretativi letterali e logico-sistematici,
oltre che attinenti ai lavori preparatori. La Corte
Costituzionale, poi, ha più volte ribadito al riguardo la
natura di principio, tra l'altro vincolante per la
legislazione regionale, della previsione della "doppia
conformità" seppur con precipuo riferimento inizialmente ai
soli profili penalistici>>.
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la
ragionevolezza della regola posta dall'articolo 36 del
D.P.R. n. 380 del 2001 discende dall'esigenza, presa in
considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta
illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere
dall'intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce
sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione,
anche in presenza di una sopraggiunta modificazione
favorevole dello strumento urbanistico.
---------------
4. Non sono condivisibili le ulteriori riflessioni
sviluppate dalla parte ricorrente, in quanto:
- la previsione dettata dall'art. 3, comma 1, lett. e.6), del DPR
380/2001 considera “interventi di nuova costruzione ...
gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli
strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al
pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino
come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino
la realizzazione di un volume superiore al 20% (percento)
del volume dell'edificio principale”; ciò non significa
che automaticamente– un’opera che occupa un volume e
una superficie di misura inferiore sia ascrivibile al
genus delle pertinenze, dovendo essere riscontrati i
plurimi indici dei quali si è già dato conto;
- l’invocato art. 41 delle NTA legittima conclusioni opposte a
quelle cui addiviene la parte ricorrente, poiché “l’esclusione
dal computo della superficie coperta di pensiline e aggetti
aperti” è limitata ai manufatti dotati di “sporto non
superiore a metri 4” e dunque con dimensioni ben più
ridotte di quelle accertate nella fattispecie;
- la nuova regolamentazione degli edifici aventi destinazione
industriale e artigianale D1 intervenuta nelle more del
giudizio (cfr. memoria finale di parte ricorrente) –che
ammetterebbe l’ampliamento degli edifici esistenti– non
esclude comunque la necessità di munirsi del titolo
abilitativo;
- l’invocato istituto della c.d. "sanatoria giurisprudenziale"
deve considerarsi normativamente superato nonché recessivo
rispetto al chiaro disposto normativo vigente ed ai principi
connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del
territorio: come ha messo in evidenza il Consiglio di Stato,
sez. VI – 24/04/2018 n. 2496, <<il permesso in sanatoria
è quindi ottenibile soltanto ex art. 36, D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, a condizione che l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia
della realizzazione del manufatto, sia della presentazione
della domanda; viceversa, con la invocata "sanatoria
giurisprudenziale" viene in rilievo un atto atipico con
effetti provvedimentali praeter legem che si colloca fuori
d'ogni previsione normativa e, pertanto, la stessa non è
ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal
principio di legalità dell'azione amministrativa e dal
carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla
stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi,
che non sono surrogabili da questo giudice, pena la
violazione del principio di separazione dei poteri e
l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla
P.A. stessa. A questo riguardo pare poi il caso di
rammentare che a favore della incompatibilità della c.d.
"sanatoria giurisprudenziale" con il dettato normativo di
cui all'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 militano anche
argomenti interpretativi letterali e logico-sistematici,
oltre che attinenti ai lavori preparatori. La Corte
Costituzionale, poi, ha più volte ribadito al riguardo la
natura di principio, tra l'altro vincolante per la
legislazione regionale, della previsione della "doppia
conformità" (sent. nn. 31.03.1998 n. 370; 13.05.1993 n. 231;
27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo riferimento
inizialmente ai soli profili penalistici (sent. nn. 370/1998
e 231/93) … >> (si vedano anche Consiglio di Stato, sez.
VI – 07/09/2018 n. 5274 e TAR Lombardia Milano, sez. II –
17/05/2018 n. 1297, secondo il quale “Del resto, secondo
quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza
della regola posta dall'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del
2001 discende dall'esigenza, presa in considerazione dal
legislatore, di evitare che il potere di pianificazione
possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex
post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)
e, inoltre, di dissuadere dall'intenzione di commettere
abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di
essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una
sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento
urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id.,
n. 2755 del 2014, cit.)” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La teoria della sanatoria giurisprudenziale
risulta da tempo superata, con la conseguenza che un
manufatto contrastante con la disciplina urbanistica vigente
al momento della sua costruzione è e resta un’opera abusiva.
---------------
7.4. Infine, è irrilevante che l’intervento realizzato dal
ricorrente sia oggi assentibile.
Invero, la teoria della sanatoria giurisprudenziale risulta
da tempo superata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez.
VI, sentenza n. 5319/2018), con la conseguenza che un
manufatto contrastante con la disciplina urbanistica vigente
al momento della sua costruzione è e resta un’opera abusiva (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.05.2019 n. 1117 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istituto della c.d. ‘sanatoria
giurisprudenziale’ deve considerarsi normativamente
superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto
normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento
dell’abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il
permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei
presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n.
380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al
momento sia della realizzazione del manufatto, sia della
presentazione della domanda, mentre con la invocata
‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto
atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali
si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno
nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai
principi di legalità dell’azione amministrativa e di
tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica
amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in
assenza di espressa previsione legislativa, non possono
essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione
del principio di separazione.
---------------
La sanatoria di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
si fonda sul rilascio di un provvedimento abilitativo
sanante da parte della competente Amministrazione, sempre
possibile previo accertamento di conformità o di non
contrasto delle opere abusive non assentite agli strumenti
urbanistici vigenti nel momento della realizzazione e in
quello della richiesta, previo accertamento di compatibilità
paesaggistica nelle ipotesi in cui l’area sia assoggettata a
vincolo paesaggistico e che è tassativamente limitato alle
sole fattispecie contemplate dall’art. 167 comma 4, d.lgs.
22.01.2004, n. 42, come da ultimo sostituito per effetto
dell’art. 27, d.lgs. 24.03.2006, n. 157.
Orbene, è la stessa qualificazione in termini di sanatoria
del provvedimento scolpito dall’art. 36 che importa
l’esclusione dal suo ambito di quelle opere progettate al
fine di ricondurre l’opus nel perimento di ciò che risulti
conforme alla disciplina urbanistica e quindi assentibile.
Questo Consiglio ha quindi rilevato che il rilascio di un
permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si
subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione
di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme
alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda
o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul
piano logico, la rigida statuizione normativa poiché si
farebbe a meno della doppia conformità dell’opera richiesta
dalla norma se si ammettesse l’esecuzione di modifiche
postume rispetto alla presentazione della domanda di
sanatoria.
---------------
8.4. Non resta quindi che esaminare la critica, avente
rilievo centrale nell’economia dell’appello de quo,
afferente alla individuazione dei confini applicativi
dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che, secondo la
linea interpretativa auspicata dall’appellante, sarebbe in
grado di abbracciare anche le opere in progetto e pertanto
non ancora eseguite.
La tesi sostenuta dall’appellante non può essere condivisa,
avendo questo Consiglio più volte optato per una
interpretazione restrittiva della norma che, nel consentire
la sanatoria degli abusi formali, ha natura senz’altro
eccezionale rispetto al principio del necessario previo
ottenimento dell’assentimento edilizio ovverosia da
conseguire prima e non dopo l’esecuzione delle opere.
Si è, quindi, di recente osservato che “l’istituto della
c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ deve considerarsi
normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro
disposto normativo vigente e ai principi connessi al
perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio,
nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto
in presenza dei presupposti espressamente delineati
dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che
l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento sia della realizzazione del
manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con
la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in
rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter
legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni
previsione normativa. Tale istituto non trova, pertanto,
fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato
invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e
di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla
pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti
poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non
possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la
violazione del principio di separazione” (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 11.09.2018, n. 5319).
Invero, la sanatoria di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, si fonda sul rilascio di un provvedimento
abilitativo sanante da parte della competente
Amministrazione, sempre possibile previo accertamento di
conformità o di non contrasto delle opere abusive non
assentite agli strumenti urbanistici vigenti nel momento
della realizzazione e in quello della richiesta, previo
accertamento di compatibilità paesaggistica nelle ipotesi in
cui l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico e che è
tassativamente limitato alle sole fattispecie contemplate
dall’art. 167 comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, come da
ultimo sostituito per effetto dell’art. 27, d.lgs.
24.03.2006, n. 157. Orbene, è la stessa qualificazione in
termini di sanatoria del provvedimento scolpito dall’art. 36
che importa l’esclusione dal suo ambito di quelle opere
progettate al fine di ricondurre l’opus nel perimento
di ciò che risulti conforme alla disciplina urbanistica e
quindi assentibile.
Questo Consiglio (Cons. Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410)
ha quindi rilevato che il rilascio di un permesso in
sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina
l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori
che consentano di rendere il manufatto conforme alla
disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al
momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano
logico, la rigida statuizione normativa poiché si farebbe a
meno della doppia conformità dell’opera richiesta dalla
norma se si ammettesse l’esecuzione di modifiche postume
rispetto alla presentazione della domanda di sanatoria (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.03.2019 n. 1874 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di <sanatoria giurisprudenziale>
il Consiglio di Stato è ormai pervenuto con recenti sentenze
a negare la possibilità di ammetterla, affermando il
seguente principio:
- “L'ISTITUTO DELLA C.D. ‘SANATORIA GIURISPRUDENZIALE' DEVE
CONSIDERARSI NORMATIVAMENTE SUPERATO, nonché recessivo
rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi
connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del
territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è
ottenibile SOLTANTO in presenza dei presupposti
espressamente delineati dall' art. 36 d.P.R. n. 380/2001 ,
ossia a condizione che l'intervento RISULTI CONFORME ALLA
DISCIPLINA URBANISTICA ED EDILIZIA VIGENTE AL MOMENTO SIA
DELLA REALIZZAZIONE DEL MANUFATTO, SIA DELLA PRESENTAZIONE
DELLA DOMANDA, mentre con la invocata ‘sanatoria
giurisprudenziale' verrebbe in rilievo UN ATTO ATIPICO CON
EFFETTI PROVVEDIMENTALI PRAETER LEGEM, I QUALI SI
COLLOCHEREBBERO AL DI FUORI D'OGNI PREVISIONE NORMATIVA.
TALE ISTITUTO NON TROVA, PERTANTO, FONDAMENTO ALCUNO
NELL'ORDINAMENTO POSITIVO, CONTRASSEGNATO INVECE DAI
PRINCIPI DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DI
TIPICITÀ E NOMINATIVITÀ DEI POTERI ESERCITATI DALLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE, con la conseguenza che detti poteri, in
assenza di espressa previsione legislativa, NON POSSONO
ESSERE CREATI IN VIA GIURISPRUDENZIALE, pena la violazione
del principio di separazione dei poteri e l'invasione di
sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica
amministrazione”.
Anche il TAR Lombardia ha recentemente affermato la
persistenza del principio anche in caso di sopravvenuta
modifica favorevole dello strumento urbanistico:
- “E' legittimo il doveroso diniego della concessione in
sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora
le stesse non risultino conformi tanto alla normativa
urbanistica vigente al momento della loro realizzazione
quanto a quella vigente al momento della domanda di
sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il
legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può
essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente
anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e
<RISULTA DEL TUTTO RAGIONEVOLE IL DIVIETO LEGALE DI
RILASCIARE UNA CONCESSIONE (O IL PERMESSO) IN SANATORIA,
ANCHE QUANDO DOPO LA COMMISSIONE DELL'ABUSO VI SIA UNA
MODIFICA FAVOREVOLE DELLO STRUMENTO URBANISTICO>.
La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito
dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della
sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. sanatoria
giurisprudenziale -consistente nel rilascio del titolo
edilizio sulla base della solo conformità dell'opera abusiva
rispetto alla pianificazione urbanistica vigente- finirebbe
per dare luogo a un <ATTO ATIPICO CON EFFETTI
PROVVEDIMENTALI CHE SI COLLOCA AL DI FUORI DI QUALSIASI
PREVISIONE NORMATIVA E CHE, PERTANTO, NON PUÒ RITENERSI
AMMESSO NEL NOSTRO ORDINAMENTO, CONTRASSEGNATO DAL PRINCIPIO
DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DAL CARATTERE
TIPICO DEI POTERI ESERCITATI DALL'AMMINISTRAZIONE, ALLA
STREGUA DEL PRINCIPIO DI NOMINATIVITÀ>; poteri che non
possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere
di attribuzione riservate all'Amministrazione".
---------------
Si consideri che, in materia di <sanatoria
giurisprudenziale> (ipotesi che potrebbe risultare
rilevante anche per il caso di specie), il Consiglio di
Stato è ormai pervenuto con recenti sentenze (cfr. da ultimo
Consiglio di Stato , sez. VI , 11/09/2018 n. 5319) a negare
la possibilità di ammetterla, affermando il seguente
principio:
- “L'ISTITUTO DELLA C.D. ‘SANATORIA GIURISPRUDENZIALE' DEVE
CONSIDERARSI NORMATIVAMENTE SUPERATO, nonché recessivo
rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi
connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del
territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è
ottenibile SOLTANTO in presenza dei presupposti
espressamente delineati dall' art. 36 d.P.R. n. 380/2001 ,
ossia a condizione che l'intervento RISULTI CONFORME ALLA
DISCIPLINA URBANISTICA ED EDILIZIA VIGENTE AL MOMENTO SIA
DELLA REALIZZAZIONE DEL MANUFATTO, SIA DELLA PRESENTAZIONE
DELLA DOMANDA, mentre con la invocata ‘sanatoria
giurisprudenziale' verrebbe in rilievo UN ATTO ATIPICO CON
EFFETTI PROVVEDIMENTALI PRAETER LEGEM, I QUALI SI
COLLOCHEREBBERO AL DI FUORI D'OGNI PREVISIONE NORMATIVA.
TALE ISTITUTO NON TROVA, PERTANTO, FONDAMENTO ALCUNO
NELL'ORDINAMENTO POSITIVO, CONTRASSEGNATO INVECE DAI
PRINCIPI DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DI
TIPICITÀ E NOMINATIVITÀ DEI POTERI ESERCITATI DALLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE, con la conseguenza che detti poteri, in
assenza di espressa previsione legislativa, NON POSSONO
ESSERE CREATI IN VIA GIURISPRUDENZIALE, pena la violazione
del principio di separazione dei poteri e l'invasione di
sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica
amministrazione”.
Anche il TAR Lombardia, sez. II, con sentenza 17/05/2018 n.
1298, ha recentemente affermato la persistenza del principio
anche in caso di sopravvenuta modifica favorevole dello
strumento urbanistico:
- “E' legittimo il doveroso diniego della concessione in
sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora
le stesse non risultino conformi tanto alla normativa
urbanistica vigente al momento della loro realizzazione
quanto a quella vigente al momento della domanda di
sanatoria. Infatti, solo il legislatore statale (con
preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche
per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui
può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria
(avente anche una rilevanza estintiva del reato già
commesso) e <RISULTA DEL TUTTO RAGIONEVOLE IL DIVIETO LEGALE
DI RILASCIARE UNA CONCESSIONE (O IL PERMESSO) IN SANATORIA,
ANCHE QUANDO DOPO LA COMMISSIONE DELL'ABUSO VI SIA UNA
MODIFICA FAVOREVOLE DELLO STRUMENTO URBANISTICO>. La c.d.
doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal
quale non può prescindersi ai fini del rilascio della
sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. sanatoria
giurisprudenziale -consistente nel rilascio del titolo
edilizio sulla base della solo conformità dell'opera abusiva
rispetto alla pianificazione urbanistica vigente- finirebbe
per dare luogo a un <ATTO ATIPICO CON EFFETTI
PROVVEDIMENTALI CHE SI COLLOCA AL DI FUORI DI QUALSIASI
PREVISIONE NORMATIVA E CHE, PERTANTO, NON PUÒ RITENERSI
AMMESSO NEL NOSTRO ORDINAMENTO, CONTRASSEGNATO DAL PRINCIPIO
DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DAL CARATTERE
TIPICO DEI POTERI ESERCITATI DALL'AMMINISTRAZIONE, ALLA
STREGUA DEL PRINCIPIO DI NOMINATIVITÀ>; poteri che non
possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere
di attribuzione riservate all'Amministrazione" (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 09.02.2019 n. 105 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanatoria giurisprudenziale è “istituto di origine pretoria, la cui
praticabilità è stata, da tempo, esclusa dalla Giurisprudenza, in quanto,
essendo il nostro ordinamento giuridico caratterizzato dai principi di
legalità dell’azione amministrativa e di tipicità dei poteri esercitati
dalla P.A., nessuna forma di “sanatoria atipica” è ammessa dall’ordinamento
positivo”.
---------------
2.8 Con ultimo motivo formulato, la società No. S.r.l. Ge.Im.
contesta la legittimità dei provvedimenti impugnati e la conseguente
sanabilità degli interventi realizzati in base all’istituto
giurisprudenziale della “sanatoria giurisprudenziale”, istituto
secondo cui le opere sarebbero comunque assentibili in assenza della doppia
conformità bastando la sola conformità agli strumenti urbanistici al momento
del rilascio del titolo sanante.
2.8.1 Il motivo è infondato.
A tal proposito, il Collegio rileva come tale istituto sia da tempo escluso
dal sistema giuridico e, sul punto, ritiene dunque condivisibili le
deduzioni di parte resistente secondo cui la sanatoria giurisprudenziale è “istituto
di origine pretoria, la cui praticabilità è stata, da tempo, esclusa dalla
Giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 21/06/2017, n. 3018; Cons. St., sez. VI,
18.07.2016, n. 3194; Cons. St., sez VI, 05.06.2015 n. 2784; Cons. St., sez
IV, 26.04.2006, n. 2306; Corte Cost., 29.05.2013, n. 101), in quanto,
essendo il nostro ordinamento giuridico caratterizzato dai principi di
legalità dell’azione amministrativa e di tipicità dei poteri esercitati
dalla P.A., nessuna forma di “sanatoria atipica” è ammessa dall’ordinamento
positivo”
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 28.01.2019 n. 153 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La configurabilità della c.d. “sanatoria
giurisprudenziale” è costantemente esclusa dalla prevalente
giurisprudenza amministrativa, trattandosi di istituto di
origine giurisprudenziale, che si pone in contrasto con i
principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa.
Invero, “Non è invocabile la c.d. "sanatoria
giurisprudenziale", giacché il permesso in sanatoria ex art.
36 del D.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo alla
condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della
realizzazione del manufatto, sia della presentazione della
domanda, venendo viceversa in questione, con la "sanatoria
giurisprudenziale", un atto atipico con effetti
provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d'ogni
previsione normativa e che, pertanto, non è ammessa
nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal
principio di legalità dell'azione amministrativa e dal
carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla
stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi,
che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la
violazione del principio di separazione dei poteri e
l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”.
---------------
5. La configurabilità della c.d. “sanatoria
giurisprudenziale” è costantemente esclusa dalla
prevalente giurisprudenza amministrativa, trattandosi di
istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in
contrasto con i principi di tipicità e legalità dell’azione
amministrativa (Cons. Stato Sez. VI, 07/09/2018, n. 5274: “Non
è invocabile la c.d. "sanatoria giurisprudenziale", giacché
il permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del
2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento sia della realizzazione del manufatto,
sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in
questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un atto
atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si
colloca fuori d'ogni previsione normativa e che, pertanto,
non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato
invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa
e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A.,
alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti
questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la
violazione del principio di separazione dei poteri e
l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 21.01.2019 n. 65 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Il
sisma bonus. Requisiti e modalità per accedere ai benefici fiscali.
Negli ultimi anni hanno preso corpo
importanti novità nel comparto dei «bonus fiscali» che,
complessivamente, da un lato, ne hanno aumentato l'efficacia come strumento
di incentivazione del recupero in chiave antisismica ed energetica degli
edifici esistenti, e, dall'altro, hanno anche assunto una funzione di «leva»
economica nell'area immobiliare.
Nello specifico, con effetto dal 2017, con la legge di Bilancio 11.12.2016,
n. 232, è stata prevista: (...continua) (articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2019). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 18.06.2019, "Approvazione del
bando per l’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di
coperture e di altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati" (decreto
D.U.O. 14.06.2019 n. 8615). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 17.06.2019 n. 140 "Testo
del decreto-legge 18.04.2019, n. 32, coordinato con la legge di conversione
14.06.2019, n. 55, recante: «Disposizioni urgenti per il
rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli
interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a
seguito di eventi sismici»".
---------------
Al riguardo, si leggano anche:
●
Interventi strutturali in zone sismiche: le semplificazioni introdotte dalla
Legge Sblocca-cantieri - Modificato in più punti il Testo Unico Edilizia
(DPR n. 380/2001) (17.06.2019 - link a
www.casaeclima.com).
●
Legge Sblocca-cantieri: scelta autonoma dei criteri di aggiudicazione -
Niente obbligo di affidare i lavori di importo fino a 5,5 milioni di euro
secondo il criterio del massimo ribasso: la Stazione Appaltante potrà
scegliere in autonomia (14.06.2019 - link a
www.casaeclima.com).
●
Lo Sblocca-cantieri è legge: tutte le modifiche al Codice dei contratti -
Per l'operatività delle misure occorrono però 27 provvedimenti (14.06.2019
- link a www.casaeclima.com).
●
Sblocca-cantieri: fino al 31/12/2020 disciplina semplificata per i lavori di
manutenzione - La disciplina semplificata è finalizzata a
consentire l'affidamento dei lavori di manutenzione ordinaria e
straordinaria sulla base del progetto definitivo e l’esecuzione a
prescindere dall'avvenuta redazione e approvazione del progetto esecutivo (11.06.2019
- link a www.casaeclima.com). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto
Partecipazione del Comando ai lavori della Commissione Comunale di Vigilanza
sui Locali di Pubblico Spettacolo (Ministero dell'Interno, Comando
Vigili del Fuoco di Bergamo,
nota 11.06.2019 n. 12997
di prot.). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Negli
appalti di servizi incentivi tecnici al direttore dell'esecuzione solo per
contratti sopra i 500mila euro.
Gli incentivi per le funzioni tecniche spettano al
direttore dell'esecuzione del contratto, quale soggetto distinto dal Rup,
solo nel caso di appalti di servizi e forniture di importo superiore a
500mila euro o di particolare complessità.
A chiarirlo è la Corte dei conti Veneto con il
parere 21.05.2019 n. 107 nel quale ha ribadito come occorra
sempre una procedura comparativa.
L'articolo 111, comma 2, del Dlgs 50/2016 prevede che, di norma, il
direttore dell'esecuzione del contratto di servizi o di forniture coincida
con il responsabile unico del procedimento. La nomina del direttore
dell'esecuzione del contratto, invece, è obbligatoria per gli affidamenti di
forniture e servizi di importo superiore a 500mila euro ovvero di
particolare complessità così come specificato nelle linee guida Anac n.
3/2016, le quali stabiliscono l'importo massimo e la tipologia di servizi e
forniture per i quali il Rup può coincidere con il progettista o con il
direttore dell'esecuzione del contratto e, nel contempo, dettagliano i casi
in cui quest'ultimo deve essere soggetto diverso dal responsabile del
procedimento.
Secondo le linee guida Anac n. 3/2016 la particolare complessità ricorre, a
prescindere dal valore delle prestazioni, nel caso di interventi
particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico, di prestazioni che
richiedono l'apporto di una pluralità di competenze, di interventi
caratterizzati dall'utilizzo di componenti o di processi produttivi
innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la
loro funzionalità. Rilevano ragioni concernenti l'organizzazione interna
alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità
organizzative diverse da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato
l'affidamento.
I giudici contabili evidenziano che, al di sotto della soglia di 500mila
euro non è stata prevista la nomina disgiunta delle due figure del Rup e del
direttore dell'esecuzione del contratto.
Chi ha diritto all'incentivo
Gli aventi diritto all'incentivo sono coloro che svolgono particolari
funzioni tecniche e i loro collaboratori, individuati dall'articolo 113 del
Dlgs 50/2016, sono quelli che svolgono attività previste in modo tassativo
dalla predetta norma.
Il regolamento per la ripartizione degli incentivi non può derogare alle
condizioni fissate dal comma 2, articolo 113, del Dlgs 50/2016 per
riconoscere e liquidare gli incentivi anche per appalti non riconducibili a
quelli previsti dal paragrafo 10.2 delle linee guida anac n. 3/2016, per i
quali il direttore dell'esecuzione del contratto deve essere diverso dal Rup.
Secondo i giudici, sono tassative le fattispecie che legittimano la nomina
del direttore dell'esecuzione del contratto. La giurisprudenza contabile è
concorde nell'escludere l'incentivabilità di funzioni o attività diverse da
quelle considerate dall'articolo 113, comma 2, del Dlgs 50/2016.
Quest'ultima disposizione è stata modificata dal decreto legge 32/2019
(decreto sblocca-cantieri) e dal 19.04.2019 sono oggetto di incentivi le
attività di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di
progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione al
posto della attività di programmazione e di predisposizione e controllo
delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici.
Punti fermi
Conviene al riguardo fare il punto sulle più significative deliberazioni
della Corte dei conti.
È stato riconosciuto l'incentivo, a certe condizioni, anche per le varianti
contrattuali di lavori, forniture e servizi di appalti, affidati mediante
gara o procedure competitive (Corte dei conti Puglia,
parere 12.12.2018 n. 162), e per gli appalti di manutenzione
straordinaria e ordinaria di particolare complessità (Corte dei conti,
sezione delle autonomie,
deliberazione 09.01.2019 n. 2).
La Corte dei conti Puglia (parere
12.12.2018 n. 162) ha rimarcato come il presupposto indefettibile
per l'erogazione dell'incentivo consista nell'effettivo espletamento, in
tutto o in parte, di una o più attività afferenti alla gestione degli
appalti pubblici. È stato ritenuto legittimo il riconoscimento
dell'emolumento anche in caso di affidamento all'esterno di una delle
attività previste dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016, purché sia remunerata
solo l'attività di supporto a quest'ultima, svolta dai dipendenti dell'ente.
Non è obbligatorio prevedere un valore minimo di importo a base di gara ai
fini dell'applicazione degli incentivi.
La Corte dei conti Piemonte, con il
parere 19.03.2019 n. 25, ha poi chiarito come, in assenza di un
quadro economico, che definisca ogni singola voce del corrispettivo relativo
al servizio o alla fornitura, sia compromessa la stessa possibilità di
determinare il valore del fondo per remunerare gli incentivi. L'assenza di
un progetto, di una relazione tecnico-illustrativa, o di altri strumenti
assimilabili, rende di fatto impraticabile la funzione di controllo e
verifica svolta dal direttore dell'esecuzione, alla cui nomina è subordinata
la remunerazione delle funzioni tecniche.
Collaboratori
Con la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 la Corte dei conti sezione
autonomie ha rilevato che, nella nozione «atecnica» di collaboratori,
possano essere ricompresi i soggetti «in possesso anche di profili
professionali non tecnici, purché necessari ai compiti da svolgere e sempre
che il regolamento interno all'ente ripartisca gli incentivi in modo
razionale equilibrato e proporzionato alle responsabilità attribuite».
Inoltre l'accezione di collaboratore non può essere aprioristicamente
delimitata in relazione al bagaglio professionale posseduto, ma deve essere
in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da
compiere. Secondo il
parere 04.05.2018 n. 21
della Corte dei conti Basilicata la nozione di collaboratore deve
essere restrittiva e non comprende personale addetto ai procedimenti di
esproprio, accatastamento e frazionamenti.
Per la Corte dei conti Veneto (parere
07.01.2019 n. 1) il regolamento di ripartizione dell'incentivo
deve circoscrivere il concetto di collaboratore in stretto collegamento
funzionale alle attività da svolgere nell'ambito dei singoli procedimenti.
Nello schema di regolamento predisposto da Itaca, risalente a luglio 2018,
si definiscono collaboratori coloro che, tecnici, giuridici o
amministrativi, in rapporto alla singola funzione specifica, anche non
ricoprendo ruoli di responsabilità diretta o personale, forniscono opera di
consulenza e/o svolgono materialmente e/o tecnicamente e/o
amministrativamente, parte o tutto l'insieme di atti e attività che
caratterizzano la funzione stessa.
Tempistiche
La Corte dei conti Piemonte (parere
09.12.2018 n. 135) ha sottolineato che il comma 3, articolo 113,
del Dlgs 50/2016 obbliga l'amministrazione aggiudicatrice a stabilire «i
criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro» nel caso di «eventuali incrementi dei
tempi o dei costi». Per i giudici si tratta di una condizione che
collega necessariamente l'erogazione dell'incentivo al completamento
dell'opera o all'esecuzione della fornitura o del servizio oggetto
dell'appalto in conformità ai costi e ai tempi prestabiliti (Corte dei conti
sezione autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6 e Corte dei conti Veneto
parere 09.04.2019 n. 72).
La Corte dei conti Umbria, con il
parere 28.03.2019 n. 56, ha rimarcato che l'obbligazione
dell'ente si perfeziona nel momento in cui, con il relativo regolamento
dell'amministrazione, vengono individuati i soggetti incaricati di svolgere
le attività incentivabili.
In presenza di accantonamenti già effettuati, nelle more dell'approvazione
del regolamento, l'impegno di spesa dovrà essere assunto, dalla data di
entrata in vigore del regolamento, anche per attività svolte in precedenza,
con l'unico limite di quelle relative ad appalti che si siano già conclusi
prima dell'adozione del regolamento stesso
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Spese
legali rimborsabili solo se il regolamento stabilisce i criteri.
Dopo le modifiche legislative sulla rimborsabilità delle spese legali agli
amministratori assolti in ambito di procedimenti penali, la questione di
maggior interesse si è spostata sull'invarianza della spesa. L'orientamento
maggioritario dei giudici contabili ha confermato che l'invarianza
finanziaria deve essere circoscritta alle sole spese della missione 1 con i
«Servizi istituzionali, generali e di gestione».
Questa indicazione è stata ribadita anche dalla Corte della Campania (parere
06.05.2019 n. 102) precisando, inoltre, la necessaria previa
regolamentazione per poter aderire ai canoni di legalità, imparzialità e
buon andamento dell'azione amministrativa ed evitare anche ogni possibile
conflitto di interesse.
La disposizione legislativa
A causa di una giurisprudenza di legittimità particolarmente restrittiva sul
rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori degli enti locali
per la propria difesa nei procedimenti penali, il Dl 78/2015 ha modificato
l'articolo 86 del Testo unico degli enti locali prevedendo che, qualora ne
ricorrano le condizioni, gli enti locali possono rimborsare le spese legali
agli amministratori assolti, solo qualora vi sia invarianza di spesa.
In altri termini, la normativa prevede che, senza nuovi o maggiori oneri per
la finanza pubblica, in caso di conclusione del procedimento con sentenza di
assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in assenza
di conflitto di interessi con l'ente, in presenza di nesso causale tra
funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti e, infine, in assenza
di dolo o colpa grave, gli enti possono rimborsare le spese legali sostenute
dagli amministratori per la propria difesa in giudizio.
Le diverse posizioni della giurisprudenza contabile
Sulla questione della rimborsabilità delle spese legali e, in modo
particolare, sul concetto di invarianza di spesa, si sono formate due
diverse posizioni della magistratura contabile. Da una parte una
giurisprudenza minoritaria (Corte dei conti Basilicata) ha individuato l'invarianza
all'interno delle risorse ordinarie finanziarie, umane e materiali che a
legislazione vigente garantiscono l'equilibrio di bilancio, condizionando il
rimborso alla predeterminazione di criteri e modalità cui gli enti locali
devono attenersi per l'assegnazione o il riparto dello stanziamento.
Una corrente maggioritaria (Lombardia; Molise; Puglia; Piemonte, Umbria ed
Emilia Romagna) ha, invece, circoscritto l'invarianza alle sole spese della
Missione 1 per «Servizi istituzionali, generali e di gestione», come una
sorta di autofinanziamento all'interno delle spese a disposizione degli
stessi organi politici.
A questa corrente maggioritaria si affianca anche la Sezione della Campania
in considerazione del fatto che la locuzione «senza nuovi o maggiori oneri
per la finanza pubblica» rischierebbe di rimanere svuotata di qualsivoglia
significato restando assorbita, diversamente opinando, dal principio del
pareggio e degli equilibri di bilancio.
Le indicazioni del Collegio contabile campano
Un volta precisata la posta contabile cui fare riferimento per l'invarianza
della spesa, il Collegio contabile partenopeo impone ulteriori condizioni.
In particolare la materia del ristoro delle spese legali agli amministratori
comporta scelte discrezionali con «vantaggi economici per gli stessi
amministratori» che ne beneficiano, con la conseguenza che i criteri e le
modalità cui gli enti devono attenersi dovrebbero essere sanciti all'interno
di un regolamento che definisca ex ante l'assegnazione o il riparto
dello stanziamento.
Infatti, in mancanza della previa regolamentazione gli enti saranno
costretti a seguire le regole generali di legalità, imparzialità e buon
andamento dell'azione amministrativa, così da evitare anche ogni possibile
conflitto di interesse
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.05.2019). |
SEGRETARI COMUNALI: Spese
di viaggio, rimborso ai segretari anche in convenzione.
Pur rientrando il segretario comunale tra i dipendenti pubblici, non trovano
applicazione nei suoi confronti le restrizioni legislative sul rimborso
delle spese di viaggio (articolo 6, comma 12, del Dl 78/2010) e prevale la
normativa contrattuale dei segretari in convenzione (articolo 45, comma 2
del contratto del 16.05.2001) che prevede il ristoro delle spese
sostenute, in caso di utilizzo del mezzo proprio, per gli spostamenti fra le
varie sedi istituzionali. In modo non diverso la medesima disciplina potrà
trovare applicazione anche per il segretario reggente.
Queste sono le indicazioni contenute nella
parere 19.04.2019 n. 27 della Corte dei conti della Basilicata,
Sez. controllo.
La restrizione sulle spese di viaggio
L'attuale legislazione prevede che il dipendente pubblico può essere
autorizzato all'utilizzo del proprio mezzo al solo fine di ottenere la
copertura assicurativa. Infatti, l'articolo 6, comma 12, del Dl 78/2010 ha
stabilito anche per i dipendenti degli enti locali che non si applicano più
l'articolo 15 della legge 836/1973 e l'articolo 8 della legge 165/2001,
norme che rispettivamente consentono il rimborso e stabiliscono l'entità di
una indennità chilometrica per i dipendenti che usano, previa
autorizzazione, il proprio mezzo di trasporto.
Tuttavia, agli enti locali è
consentito il ricorso a regolamentazioni interne volte a disciplinare -per
i soli casi in cui l'utilizzo del mezzo proprio risulti economicamente più
conveniente per l'amministrazione– forme di ristoro dei costi sostenuti
che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle finalità di
contenimento della spesa e degli oneri che in concreto avrebbe sostenuto
l'ente per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo di mezzi
pubblici.
Queste sono state le indicazioni elaborate dalla Corte dei conti a Sezioni
Riunite (deliberazione n. 21/2011) valide per tutti i dipendenti pubblici
con la sola eccezione dei segretari comunali titolari di sedi convenzionate.
Infatti, per i magistrati contabili resterebbe ancora valida l'indicazione
contenuta nei contratti dei segretari (articolo 45, comma 2, del contratto 16.05.2001), la cui finalità è stata quella di sollevarli dalle spese
sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali.
D'altra
parte, precisa la Corte dei conti, il contratto (articolo 45, comma 3),
ripartendo la spesa per i trasferimenti tra «i diversi enti interessati
secondo le modalità stabilite nella convenzione» dimostra come l'onere
assuma carattere negoziale e non possa ricondursi all'interno del
trattamento di missione valido per la generalità dei dipendenti pubblici.
La necessità di una regolamentazione
Il collegio contabile lucano conferma l'orientamento, condiviso anche dal
ministero dell'Economia (nota n. 54055/2011) secondo il quale «l'esigenza di
assicurare la necessaria flessibilità al Segretario comunale per suddividere
la sua prestazione professionale tra più enti appare legata alla possibilità
di continuare a utilizzare il mezzo proprio», ma evidenzia la necessità di
fissare sin dall'inizio un provvedimento che assuma le connotazioni di un
atto regolamentare per indicare i possibili riflessi complessivi sul
bilancio dell'ente, ovvero il tipo di autorizzazione da richiedere di volta
in volta o, anche, una tantum (mensile, trimestrale, semestrale), all'uso
del mezzo proprio.
L'estensione del principio anche al segretario reggente
Secondo la Corte lucana le stesse ragioni che hanno sollevato il segretario
in convenzione dalle spese sostenute, vanno estese anche in caso di
reggenza, restando ferma l'autorizzazione in caso di uso del mezzo proprio
da motivare da parte del sindaco.
In altri termini, la corresponsione del
rimborso delle spese affrontate dal segretario comunale risiede nel
principio indicato dallo stesso legislatore secondo cui il lavoratore
pubblico, nello svolgimento delle sue funzioni, deve essere posto nelle
condizioni ottimali dal proprio datore di lavoro, per svolgere al meglio le
sue prestazioni professionali (articolo 14, commi 1 e 2, della legge 07.08.2015
n. 124)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.05.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco che dà la posizione organizzativa prima del
pensionamento.
Responsabilità contabile al sindaco che abbia nominato una posizione
organizzativa prima del suo pensionamento. In questo caso il danno erariale
è equivalente al totale delle somme maggiorate, pagate sulla pensione del
dipendente in quiescenza, fino alla data del rinvio a giudizio. Spetterà,
invece, all'Inps attivare le eventuali procedure per la riduzione della
pensione futura, data l'attribuzione della maggiorazione stipendiale
avvenuta in modo illegittimo e illecito.
Queste sono le conclusioni della Corte dei conti, sezione giurisdizionale,
dell'Umbria (sentenza 03.04.2019 n. 21).
La vicenda
In un ente privo di posizioni dirigenziali, il sindaco aveva conferito a una
dipendente la posizione organizzativa e, solo dopo quattro giorni dal
conferimento dell'incarico, aveva ricevuto dalla medesima la domanda di
collocamento a riposo. Il pensionamento veniva successivamente disposto,
grazie ai requisiti posseduti dalla richiedente, anche se a soli undici
giorni dalla sua nomina a responsabile del servizio.
La Procura contabile ha rinviato a giudizio il sindaco per il danno erariale
procurato alla pubblica amministrazione per aver attuato una scelta
arbitraria, mediante assegnazione della posizione organizzativa alla
dipendente, permettendo alla medesima di fruire di un maggior importo del
suo trattamento pensionistico.
L'importo della pensione della dipendente, infatti, è stato calcolato
comprendendo una indennità di posizione parametrata non al periodo di
esercizio effettivo della responsabilità del servizio ma su base annua. In
altri termini il Primo cittadino, con dolo o almeno colpa grave, non avrebbe
fatto gli interessi dell'ente ma esclusivamente procurato un vantaggio alla
dipendente per la maggiore pensione ricevuta.
Il vantaggio pensionistico della dipendente, pari a circa 3mila euro annui,
corrisponde al danno erariale che andrà pertanto moltiplicato per gli anni
di indebita fruizione. Inoltre, in considerazione della certezza dei
pagamenti per gli anni successivi, dalla data del rinvio a giudizio, la
Procura ha anche proceduto alla quantificazione del maggior danno stimato
sulla vita media della pensionata.
Il sindaco si è difeso da una lato in quanto a suo dire la nomina sarebbe
avvenuta a seguito della richiesta di esonero della precedente titolare di
posizione organizzativa per motivi personali, mentre dall'altro lato ha
stigmatizzato la posizione della Procura che non avrebbe tenuto conto delle
responsabilità specifiche del segretario comunale e del responsabile del
personale. Il primo per aver inoltrato al sindaco la richiesta di dimissioni
immediate della precedente titolare di posizione organizzativa, con obbligo
di procedere all'assegnazione della titolarità dell'ufficio ad altra
dipendente con i requisiti previsti dal contratto, essendo all'oscuro della
successiva sua decisione di essere collocata a riposo. Il secondo per aver
predisposto la determinazione di collocamento a riposo della dipendente
senza alcuna informazione preventiva sui requisiti pensionistici posseduti
dalla medesima.
La decisione del collegio contabile
Le eccezioni del sindaco non sono state considerate meritevoli di tutela da
parte del collegio contabile in quanto, negli enti privi di dirigenti, la
nomina dei responsabili dei servizi spetta in via esclusiva al sindaco, cui
è automaticamente associata, per disposizione contrattuale, la posizione
organizzativa con relativa retribuzione di posizione.
In merito alla richiesta di dimissioni presentate dalla precedente titolare
di posizione organizzativa, il sindaco non ha tenuto conto della sua
naturale scadenza che, non per caso, coincideva con la data della successiva
richiesta della dipendente nominata di essere collocata a riposo. In questo
caso, stante il breve periodo di vacanza del posto di responsabile del
servizio, il sindaco avrebbe ben potuto attribuire ad interim le funzioni ad
altra posizione organizzativa.
Sulla quantificazione del danno erariale, oltre al potere riduttivo
spettante alla Corte per la compartecipazione di altri soggetti che hanno
assunto un ruolo passivo nella vicenda, l'ulteriore danno richiesto dalla
Procura, sul calcolo del valore attuale degli esborsi futuri basati sulla
vita media della dipendente, non può trovare accoglimento, non essendosi il
danno ancora prodotto.
Tuttavia, al fine di evitare ulteriori danni alle finanze pubbliche,
l'illegittimità e l'illiceità dell'attribuzione della posizione
organizzativa sarà comunicata all'Inpc che opererà le dovute valutazioni
sulla pensione reale dovuta alla dipendente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019).
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SENTENZA
3. Nel merito, la responsabilità del convenuto va affermata in relazione
all’adozione, realizzata a propria firma e nella sua qualità di vertice
dell’Amministrazione comunale, dei provvedimenti di sostituzione della
dott.ssa Ru. con la dott.ssa Vo., di cui ai decreti n. 5 e n. 6 del
20.12.2011 (rispettivamente aventi ad oggetto “revoca dell’incarico di
responsabile del servizio UMD 7 e conferimento incarico responsabile del
servizio UMD 7 anno 2011” e “pesatura posizione organizzativa UMD 7”), per
conferire a quest’ultima, per appena otto giorni, la posizione organizzativa
comprensiva della relativa indennità pensionabile da durare per l’intero
periodo di corresponsione del trattamento pensionistico.
La competenza all’adozione di questi atti, concernenti la nomina dei
responsabili dei servizi e degli uffici e all’attribuzione degli incarichi
dirigenziali, è chiaramente attribuita al Sindaco (art. 50, comma 10, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267-TUEL) e tale disposizione di
legge risulta, peraltro, espressamente richiamata nei due decreti sindacali
(numero 5 e numero 6) citati.
Né possono valere, in contrario avviso, le giustificazioni addotte in ordine
ad una asserita “autorevolezza” e “solennità” della richiesta avanzata per
il tramite del segretario comunale che avrebbe preceduto la decisione finale
di competenza del sindaco Buschi, ovvero le analoghe giustificazioni in
ordine ai successivi passaggi amministrativi conseguenti alle decisioni da
costui assunte.
La questione della legittimità del conferimento avvenuto assume, dunque, un
rilievo del tutto particolare rispetto alla condotta gravemente colposa del
convenuto. Infatti, l’incarico originariamente conferito sarebbe scaduto
naturalmente il 31.12.2011 e non vi era pertanto alcuna reale urgenza
di provvedere alla sostituzione fino a tale data.
Inoltre, come sottolineato dalla Procura, nell’ipotesi dell’asserita urgenza
egli ben avrebbe potuto affidare l’incarico ad interim, per i pochi giorni
restanti fino al 31.12.2011, a uno degli altri soggetti che
ricoprivano posizioni organizzative, senza che si addivenisse all’esborso
dell’ulteriore indennità da parte del Comune di San Giustino.
Viceversa, la condotta del sindaco Bu. si è rivelata essere preordinata
alla costituzione di un trattamento stipendiale più favorevole nei confronti
della dott.ssa Vo., con conseguenze permanenti sul connesso trattamento
pensionistico e con la realizzazione di un danno reale e concreto a carico
dell’INPS, come quantificato nella parte dispositiva della presente
sentenza.
4. Il periodo per il quale calcolare il danno va dall’inizio dell’anno 2013
fino a tutto il novembre 2018, per un importo pari ad € 17.728,53 (2.996,54
moltiplicato per sei anni, meno un mese), che il Collegio ritiene congruo
abbattere del cinquanta per cento, considerando che l’azione del sindaco,
determinante l’attuale e concreto pregiudizio danno patrimoniale ai danni
dell’istituto di previdenza -tuttora protratto nel tempo- sia stata
agevolata nel percorso amministrativo anche dalla mancata attivazione di
altri soggetti facenti parte dell’apparato amministrativo comunale, in fase
di controllo, ovvero esterni ad esso, in fase di esecuzione dei
provvedimenti in questione.
In questi limiti può provvedere il Collegio, non potendo invero disporre
l’estensione del contraddittorio nel presente giudizio, come richiesto dal
convenuto (art. 83 CGC).
5. Con riguardo alla quantificazione del danno va altresì precisato che non
può trovare accoglimento la richiesta –avanzata da parte attrice– della
condanna per il danno relativo alle prestazioni economiche del trattamento
pensionistico che troveranno realizzazione successiva.
Tale richiesta, riguardando la previsione di un danno futuro, esula dalla
competenza di questa Sezione a conoscere della domanda relativa ad un danno
concreto ed attuale. Come risulta dalla giurisprudenza contabile e come
ricordato anche dalla Corte di Cassazione, questa Corte, in sede
giurisdizionale, non ha la titolarità di poteri di prevenzione del danno
erariale: “né d’altra parte alla Corte dei conti in sede giurisdizionale è
affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti” (Cass.,
Sez. Un., 22.12.2009, n. 27092).
Nel respingere tale richiesta, tuttavia questo Collegio ritiene di rimettere
gli atti alla Amministrazione previdenziale interessata, che opererà le
dovute valutazioni.
6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come
in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria,
disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente
pronunciando, condanna Bu.Fa. al pagamento della somma di € 8.864,76
(euro ottomilaottocentosessantaquattro,76) in favore dell’INPS, più
rivalutazione monetaria con decorrenza dalle date di pagamento dei singoli
ratei di pensione e, sul totale risultante, interessi dalla data di
pubblicazione della sentenza.
Condanna altresì il convenuto al pagamento delle spese di giudizio, che si
liquidano in € 122,33 (centoventidue/33).
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente sentenza alla
competente sede INPS e per tutti gli ulteriori adempimenti. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Danno
erariale per dirigente e funzionario che abbelliscono il conto dei residui
attivi.
Il dirigente finanziario e il funzionario contabile che hanno alterato la
situazione contabile reale attraverso una sovrastima dei residui attivi
mediante opportune «correzioni», per quanto spinti dall'organo di indirizzo
politico, contribuiscono al danno erariale procurato all'ente pubblico.
L'alterazione delle poste di bilancio «corrette» avendo lo scopo di
dissimulare il disavanzo, oltre a indurre in errore l'organo di indirizzo
politico che approva il bilancio, incide sulle scelte gestionali e impedisce
l'adozione di misure di risanamento, ingannando allo stesso tempo i terzi,
creditori, dipendenti, organi di controllo sulla reale situazione
finanziaria dell'ente.
Sono le indicazioni contenute nella
sentenza 02.04.2019 n. 140 della Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale Toscana.
La vicenda
A seguito dell'indagine penale che ha condotto il dirigente dell'area
contabile e il funzionario responsabile dell'ufficio del bilancio al
patteggiamento della pena per falso ideologico, la Procura contabile ha
convenuto in giudizio entrambi per dichiarare il danno erariale prodotto
alle casse comunali avendo dissimulato la reale situazione finanziaria
dell'ente. Il Pm contabile ha, infatti, contestato ai convenuti di aver
dolosamente coperto lo stato di deficit finanziario dell'ente attraverso la
correzione contabile dei residui attivi, rispetto alla loro reale
consistenza.
Questo ha permesso di creare un consistente deficit finanziario mediante
l'omesso versamento di contributi previdenziali Inpdap, irregolari
stabilizzazioni di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di
somme integrative. Entrambi i convenuti si sono difesi in via principale
denunciando la prescrizione del danno erariale, essendo trascorsi i cinque
anni previsti dalla normativa rispetto all'invito a dedurre.
Si sono ritenuti, inoltre, estranei al danno erariale, in quanto
l'alterazione dei dati contabili era avvenuta a causa delle pressioni
esercitate dall'organo di indirizzo politico nonché del direttore
amministrativo, cui avrebbero dovuto essere addebitate in via esclusiva le
responsabilità contabili, per aver omesso di attivare procedure idonee per
risanare i conti pur conoscendo l'entità del disavanzo finanziario
dissimulato.
Il funzionario, in via subordinata ha chiesto che fosse considerata una
diversa ripartizione del danno erariale, in funzione del diverso ruolo
decisionale.
La conferma del danno erariale
In merito alla prescrizione, il Collegio contabile ha disatteso l'eccezione
in quanto, per giurisprudenza consolidata, in presenza di dolo accertato in
sede penale, la prescrizione decorre solo a partire dalla data di richiesta
di rinvio a giudizio in sede penale e , a quella data, la prescrizione non
era maturata.
La condanna dei convenuti al danno erariale deve essere confermata in quanto
esecutori materiali di un piano ideato e promosso dal rettore e dal
direttore amministrativo, per presentare, a fronte del grave disavanzo, un
bilancio che risultasse in pareggio o in attivo. Le falsificazioni commesse
dai convenuti consistevano nel "correggere" le poste di bilancio,
proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e indurre in errore il
consiglio di amministrazione dell'Università che approvava i bilanci,
confidando nell'esattezza dei dati.
Il collegio contabile ha ricordato che il bilancio è lo strumento per
determinare il reddito dell'esercizio e la situazione patrimoniale e
finanziaria dell'ente, con la conseguenza che la sua non veridicità, oltre a
ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo eccetera,
incide sulle scelte gestionali e impedisce l'adozione di misure di
risanamento.
Il danno, calcolato in via equitativa, deve tuttavia essere posto in misura
prevalente a carico del dirigente e in minore misura a carico del
funzionario in considerazione del diverso ruolo rivestito
nell'amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2019).
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SENTENZA
1. In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione
sollevata dai convenuti.
L’art. 1, comma 2, L. 20/1994 prevede che la prescrizione decorre dalla data
in cui si è verificato il fatto dannoso “ovvero in caso di occultamento
doloso del danno, dalla data della sua scoperta”. Secondo la giurisprudenza
l’attività intenzionale di occultamento è rinvenibile laddove il
responsabile si sia adoperato per impedire la conoscibilità del fatto
dannoso (sez. II app., 11.10.2018 n. 588; sez. II app., 03.10.2017 n. 655).
Quanto alla nozione di “scoperta”, si è affermato che “non è sufficiente la
conoscenza o conoscibilità ipotetica di un illecito, ma occorre la
conclusione del processo di valutazione istruttoria degli elementi fattuali,
con la qualificazione giuridica degli stessi e l’individuazione dei soggetti
cui le medesime condotte sono causalmente riconducibili” (sez. II app.,
19.10.2018 n. 5979).
La conoscenza del fatto, quindi, si identifica con la conoscibilità
giuridica, non con la mera conoscenza, da parte del soggetto danneggiato,
dell’illecito (sez. I app., 14.04.2016 n. 149).
In conseguenza di tale principio, secondo la giurisprudenza prevalente, i
fatti dannosi aventi rilevanza penale assumono una concreta qualificazione
giuridica, tale da potersi dire “scoperti”, solo al momento della richiesta
di rinvio a giudizio in sede penale (da ultimo: sez. II app., 04.09.2018 n.
523; sez. III app., 06.10.2016 n. 514; sez. III app., 13.06.2016 n. 228; sez.
app. Sicilia, 01.07.2016 n. 85; sez. app. Sicilia, 04.07.2016 n. 94), in quanto
“solo dal momento del rinvio a giudizio è maturata l’esatta conoscenza della
condotta illecita in tutta la sua gravità e articolazione” (sez. III app.,
30.12.2016 n. 1462).
Nella fattispecie, i convenuti sono stati condannati per reati di falso per
avere falsamente attestato delle poste contabili al fine di far apparire in
pareggio o in attivo il bilancio dell’Ateneo. Tale condotta integra senza
ombra di dubbio un occultamento doloso del danno. La data della scoperta dei
fatti, nella loro completezza e nell’accezione fatta propria dalla
giurisprudenza succitata, deve collocarsi nella data della richiesta di
rinvio a giudizio del 29.06.2012.
A questo proposito deve aversi riguardo al fatto che dalle indagini penali è
scaturito un processo, per i reati commessi nell’ambito della gestione
amministrativa dell’Università nel periodo 2003-2008, con 19 capi di
imputazione, nell’ambito del quale sono stati rinviati a giudizio i vertici
amministrativi dell’ente in quel periodo e, in particolare i Rettori, i
Direttori amministrativi, i componenti del Collegio dei Revisori dei conti,
il responsabile dell’Ufficio Economato, oltre ad alcuni soggetti privati,
per un totale di 16 imputati, tra i quali gli odierni convenuti.
La condotta di In. e Sa. si inquadra, così, in un più ampio
fenomeno di mala gestio, con la conseguenza che solo dal momento del
rinvio a giudizio, al termine di complesse indagini penali, si è raggiunto
il corretto inquadramento della fattispecie dannosa e la quantificazione del
danno.
Come si legge nella sentenza del Tribunale di Siena n. 746/2016 che
ha definito in primo grado il processo penale: “Le indagini (prima) ed il
processo (poi) sono stati caratterizzati da una forte eterogeneità del loro
oggetto, potendosi individuare tre diversi “filoni”, assolutamente distinti
tra loro: si tratta sostanzialmente di tre processi autonomi, celebrati in
un simultaneus processus, aspetto questo che, se da un lato ha consentito al
Tribunale di avere un quadro completo della opaca e dissennata gestione
amministrativa di UNISI, dall’altro ha comportato la celebrazione di un
complesso ed articolato dibattimento e di una istruttoria caratterizzata da
una inevitabile frammentarietà e disomogeneità”.
Il completo disvelamento dei fatti, quindi, non può farsi risalire né al
26.09.2008, data di presentazione alla Procura della Repubblica dell’esposto
del Rettore e del Direttore Amministrativo dell’Università in cui si
denunciavano, come si legge nella sentenza penale, i problemi finanziari
dell’Università e falsità di alcune soltanto delle voci di bilancio, né al
07.04.2009, data in cui l’Ateneo ha inviato alla Procura della Repubblica e
alla Procura Regionale della Corte dei conti la relazione finale della
Commissione Ma. “sulla indagine amministrativo-disciplinare circa
l’accertamento della crisi finanziaria dell’Università degli studi di
Siena”.
E’ vero, infatti, che tale relazione contiene la confessione dei convenuti,
come rilevato dalle difese, ma è vero anche che il giudice penale ha
ritenuto non attendibili le dichiarazioni di In. e Sa. per una
serie di ragioni tra le quali il fatto che: “i dichiaranti non hanno
riferito con immediatezza tutti i fatti e le circostanze di cui erano a
conoscenza (tacendo quelli più importanti)”.
Solo al termine di “lunghe e complesse indagini da parte della Procura della
Repubblica”, sono stati accertati il reale passivo dell’Università, le cause
del dissesto finanziario, la falsità dei bilanci, il ruolo assunto dai
diversi imputati, la qualificazione giuridica dei fatti e le
corresponsabilità.
L’eccezione di prescrizione è, quindi, infondata in quanto l’invito a
dedurre è stato notificato nell’agosto del 2017, entro la data di scadenza
del termine quinquennale di prescrizione a decorrere dalla data della
richiesta di rinvio a giudizio.
2. Venendo al merito del giudizio, pacifico il rapporto di servizio in
quanto i convenuti, all’epoca dei fatti, erano, dipendenti in qualità,
rispettivamente, di direttore dell’area contabile e di responsabile
dell’ufficio contabile dell’Amministrazione danneggiata, ritiene il Collegio
che sussista piena prova della condotta illecita di In. e Sa..
Il Tribunale di Siena, Ufficio del G.I.P., con sentenza del n. 103 del
17.05.2013, ha applicato, ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., a Interi
Salvatore la pena di diciotto mesi e a Sa.Mo. la pena di
quattordici mesi di reclusione per reati di falso ideologico in atto
pubblico commessi in concorso con il Rettore e il Direttore Amministrativo
dell’Università di Siena.
Più in particolare, i convenuti, quali esecutori materiali di un piano
ideato e promosso dal Rettore e dal Direttore Amministrativo, per
presentare, a fronte del grave disavanzo, un bilancio che risultasse in
pareggio o in attivo, o in leggero disavanzo, attestavano falsamente nei
bilanci consuntivi 2003, 2004, 2005, 2006, 2007 dati contabili non
corrispondenti al vero, facendo risultare residui attivi in parte
inesistenti, attraverso la correzione di poste in bilancio, inducendo così
in errore il Consiglio di Amministrazione che, sul presupposto
dell’esattezza dei dati, approvava il bilancio.
La giurisprudenza ritiene che, ferma restando la potestà del giudice di
procedere all’accertamento dei fatti in modo difforme da quello contenuto
nella pronuncia ex art. 444 c.p.p., la sentenza di patteggiamento assuma un
valore probatorio qualificato, superabile solo attraverso specifiche prove
contrarie (sez. II app., 30.07.2018 n. 471; sez. I app., 05.02.2018 n. 35;
sez. II app. 26.05.2016 n. 574; sez. Veneto, 11.09.2018 n. 140; sez.
Toscana, 25.06.2018 n. 167) che, nella specie, non sono state offerte. In
sede penale, peraltro, i convenuti hanno confessato di avere posto in essere
la condotta illecita e, in questa sede, non hanno mosso contestazioni in
merito.
3. Sussiste anche il nesso causale tra la condotta illecita e il danno.
Secondo i convenuti il danno sarebbe stato causato unicamente dalle scelte
dei vertici dell’Università, che avrebbero omesso di assumere iniziative per
ridurre l’indebitamento e adottato politiche di sperpero delle risorse
pubbliche, e non da In. e Sa. i quali lo avrebbero soltanto
parzialmente coperto. L’eccezione è destituita di fondamento.
Le falsificazioni commesse dai convenuti consistevano nel “correggere” le
poste di bilancio, proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e ad
indurre in errore il Consiglio di Amministrazione dell’Università che
approvava i bilanci, confidando nell’esattezza dei dati. Poiché il bilancio
è lo strumento per determinare il reddito dell’esercizio e la situazione
patrimoniale e finanziaria dell’ente, è evidente che la sua non veridicità,
oltre ad ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo ecc.,
incide sulle scelte gestionali e impedisce l’adozione di misure di
risanamento. I convenuti, quindi, con la loro condotta hanno contribuito in
maniera diretta a causare l’ingente danno subito dall’Università.
4. La Procura ha chiesto la condanna dei convenuti a risarcire il danno
patrimoniale e il danno di immagine causato all’Università.
La domanda di condanna al risarcimento del danno di immagine è
inammissibile.
L’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009, conv. in l. 102/2009 stabilisce che
l’azione per il risarcimento del danno di immagine può essere esercitata
solo nei casi e nei modi previsti dall’art. 7 l. 97/2001, ossia per i
delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione previsti
dal Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale, accertati con
sentenza penale irrevocabile di condanna.
Le Sezioni Riunite hanno risolto i
contrasti interpretativi sorti nell’ambito della giurisprudenza contabile
affermando che l’art. 17, comma 30-ter, va inteso nel senso che le Procure
della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del
danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del
Libro secondo del codice penale (SS.RR., 19.03.2015 n. 8/QM). L’art. 1, comma
1-sexies, l. 20/1994, inserito dall’art. 1, comma 62, l. 190/2012, in tema
di quantificazione del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, fa
anch’esso riferimento al danno derivante dalla commissione di un reato
contro la stessa Pubblica Amministrazione accertato con sentenza passata in
giudicato.
In questo quadro normativo è sopraggiunto il D.Lgs. 26.08.2016 n.
174 il quale all’art. 4, comma 1, lett. g) dell’Allegato 3 al Codice di
Giustizia Contabile ha abrogato l’art. 7 l. 97/2001 e all’art. 4, comma 1,
lett. h), il primo periodo dell’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009. All’art.
51, comma 7, infine, il Codice di Giustizia Contabile stabilisce che la
sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti
delle Pubbliche Amministrazioni per i delitti commessi ai danni delle
stesse, è comunicata al Procuratore Regionale della Corte dei conti affinché
promuova l’eventuale azione di responsabilità.
Parte della giurisprudenza contabile ha affermato che, a seguito delle
predette abrogazioni e dell’introduzione dell’art. 51, comma 7, C.G.C. i
presupposti dell’azione per danno all’immagine sarebbero stati ridefiniti
con la conseguenza che le condizioni per promuovere l’azione sarebbero che
si tratti di un reato contro la Pubblica Amministrazione, e non più soltanto
dei delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice
penale, oltre che tale reato sia stato accertato con sentenza passata in
giudicato (sez. app. Sicilia, 28.11.2016 n. 183; sez. Emilia Romagna,
05.01.2018 n. 7; sez. Veneto, 12.9.2017 n. 101).
Questa sezione ha ritenuto,
invece, con orientamento dal quale non vi è motivo di discostarsi che, pur a
seguito dell’ingresso in vigore del D.Lgs. 174/2016, siano tuttora vigenti
le limitazioni al perseguimento del risarcimento del danno di immagine già
previste dall’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009 e art. 7 l. 97/2001 (sez.
Toscana, 10.07.2018 n. 174, con ampia motivazione cui si rinvia). Nella
specie sono assenti entrambe le condizioni di proponibilità della domanda di
risarcimento del danno di immagine. I convenuti, infatti, sono stati
condannati con sentenza del Tribunale di Siena-ufficio del G.I.P., n. 103
del 17.05.2013 per i delitti di cui all’art. 479 in relazione all’art. 476
comma 2, c.p. i quali non sono ricompresi nel Capo I del Titolo II del Libro
secondo del codice penale. La sentenza prodotta, inoltre, è priva del timbro
di irrevocabilità, cosicché non vi è nemmeno la prova che la stessa sia
irrevocabile.
5. Il danno patrimoniale complessivo subito dall’Università di Siena è stato
quantificato dalla Guardia di Finanza in € 63.857.125,41 (per debiti fiscali
e previdenziali e relativi interessi e sanzioni, irregolari stabilizzazioni
di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di somme
integrative ai Collaboratori ed Esperti Linguistici).
La condotta illecita
dei convenuti, come sopra esposto, ha contribuito a causare tale danno e,
visto il ruolo della condotta dei convenuti nel programma delittuoso, il
Collegio reputa equo, ex art. 1226 c.c., quantificare il danno loro
addebitabile in complessivi € 400.000,00, in solido, con ripartizione
interna di € 300.000,00 a carico di In.Sa. e di € 100.000,00 a
carico di Sa.Mo. in considerazione del diverso ruolo rivestito
nell’Amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica di Sa..
Sull’importo per cui è condanna, già comprensivo di
rivalutazione, dovranno essere corrisposti gli interessi legali dal deposito
della sentenza al soddisfo.
6.Le spese di giudizio, da suddividersi in quote uguali tra i convenuti,
seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana, in
composizione collegiale, definitivamente pronunciando:
RESPINGE l’eccezione di prescrizione sollevata da entrambi i convenuti;
DICHIARA inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno all’
immagine dell’Università;
CONDANNA In.Sa. e Sa.Mo. al risarcimento del danno
patrimoniale in favore dell’Università degli studi di Siena della somma di €
400.000,00 in solido, con ripartizione interna di € 300.00,00 a In.Sa. e di € 100.000,00 a Sa.Mo., inclusa rivalutazione
monetaria, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo;
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in € 324,66
(Euro trecentoventiquattro/66). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
risarcito in via transattiva, il superiore è responsabile per danno
indiretto.
Vessazioni, denigrazioni e demansionamenti che se protratti costituiscono
mobbing o se occasionali costituiscono straining sono fonte di
responsabilità amministrativo-contabile. Ciò anche quando si addivenga ad
accordo transattivo sul risarcimento da corrispondere alla vittima degli
abusi.
La Corte dei Conti del Piemonte con la
sentenza
05.03.2019 n.
25 si è espressa sul danno indiretto derivante dall'accordo
transattivo tra un Comune e un suo dipendente. In quanto il comportamento
dei superiori gerarchici nei confronti del dipendente hanno comportato un
danno biologico, morale, esistenziale e professionale, risarciti dall'ente
in via transattiva a seguito di sentenza del giudice del lavoro.
Le condotte mobbizzanti
Al dipendente era stata assegnata quale nuova sede di lavoro un angusto
locale sito nel cimitero, che esternamente somigliava a una tomba di
famiglia, ricavato nella parte superiore dell'ossario, ancora in uso, del
cimitero. Il locale aveva le dimensioni di circa tre metri per tre e non era
dotato di collegamento telefonico esterno, né di collegamento alla rete
informatica del Comune, oltre a essere isolato da tutti i restanti uffici
amministrativi dell'ente.
Dagli atti non era emersa alcuna concreta esigenza
organizzativa collegata alla nuova e improvvisa ricollocazione del
dipendente. Presso la sede cimiteriale, il comportamento vessatorio da parte
dei superiori gerarchici era proseguito. Il dipendente era rimasto del tutto
privo di mansioni proprie della categoria di appartenenza, per qualità,
quantità, forma e sostanza.
Le prove del giudizio civile
Mentre il giudice civile giunge a condannare l'amministrazione a risarcire
il privato utilizzando i parametri del danno e della colpa, nella
consecutiva azione di rivalsa per danno indiretto, il giudice contabile deve
indagare la colpa grave del dipendente pubblico che ha agito in nome e per
conto della medesima, valutandone il comportamento dannoso tenuto
nell'esercizio delle funzioni a esso affidate.
La ricostruzione operata dal
Giudice in sede civile, stante aderenza e congruità rispetto alle risultanze
istruttorie acquisite, è stata ritenuta dalla Corte dei conti, persuasiva e
lineare, dunque condivisibile. Da ciò la valutazione della Corte dei conti,
di adeguatezza e ragionevolezza della scelta dell'ente di addivenire a
transazione con il dipendente.
La responsabilità dei superiori
Numerosi elementi hanno fatto ritenere la vicenda direttamente imputabile
alla responsabilità dei superiori gerarchici. In questi casi la
responsabilità sussiste quando una pluralità di atteggiamenti anche se non
singolarmente illeciti, convergono in un intento univoco: perseguitare il
dipendente coinvolto con forme di emarginazione, prevaricazione,
mortificazione, cui consegue il crescente pregiudizio dell'equilibrio
psicofisico del dipendente. Le condizioni di svolgimento del servizio
impongono al datore di lavoro di tutelare oltre che l'integrità fisica,
anche la personalità morale del lavoratore.
La condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente integra in
questi casi mobbing: condotta protratta nel tempo, consistente nel
compimento di una pluralità di atti giuridici o meramente materiali, anche
leciti, tuttavia finalizzati alla segregazione e oppressione del dipendente.
Nondimeno, anche in caso di mancata allegazione di prova di un preciso
intento persecutorio, e posto che lo straining è una forma attenuata di
mobbing perché mancante del carattere di continuità delle condotte
vessatorie, non è preclusa la possibilità di ottenere il risarcimento del
danno con conseguente imputazione di responsabilità
amministrativo-contabile.
Il datore di lavoro deve sempre, in ogni caso, scongiurare condotte che per
gravità e caratteristiche della frustrazione arrecata possono ricondurre a
un danno ingiusto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019). |
A.N.AC. |
APPALTI:
Raggruppamenti, meno vincoli. Alla mandataria non imposti più
requisiti delle mandanti. L’aggiornamento delle
linee guida Anac sui servizi di ingegneria e architettura.
Meno concorrenza sul prezzo nei servizi di ingegneria e
architettura; valutazione dei tre progetti indicati in sede di offerta senza
limite dei dieci anni; in caso di raggruppamento temporaneo la mandataria
non deve avere in assoluto più requisiti delle mandanti.
Sono questi punti di maggiore rilievo contenuti nell'aggiornamento delle
linee guida n. 1 recanti «Indirizzi generali sull'affidamento dei servizi
attinenti all'architettura e all'ingegneria» di cui alla
delibera 15.05.2019 n. 416 dell'Anac,
desumibili non solo dal testo delle linee guida ma anche dalla relazione
illustrativa che dà conto delle diverse scelte fatte a valle della
consultazione pubblica con gli operatori del settore.
Sul fronte dei compensi, materia molto delicata in questo ambito vista
l'entità media dei ribassi che si colloca intorno al 40%, l'Anac doveva
decidere se, come richiesto dagli stakeholder, fosse possibile fissare una
soglia di sbarramento del prezzo, come all'epoca della vigenza del dpr n.
207/2010.
Già successivamente al varo del dpr l'autorità si era espressa negativamente
e anche adesso conferma la sua linea perché così facendo si arriverebbe alla
«pre-determinazione del prezzo di aggiudicazione in quanto tutti i
concorrenti, pur di aggiudicarsi l'appalto, offrirebbero il ribasso massimo,
snaturando così uno degli elementi base del principio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa».
Meglio allora incidere sulle modalità di assegnazione dei punteggio,
scartando la formula «classica dell'interpolazione lineare» che attribuisce
i punteggi senza correttivi enfatizzando il peso dei ribassi eccessivi e
ritenendo «preferibile il ricorso alla formula bilineare in luogo del
ricorso alla formula classica dell'interpolazione lineare. E opportuno
attribuire un punteggio elevato al punto di flesso al fine di disincentivare
offerte contenenti ribassi elevati non in linea con la previsione sull'equo
compenso di cui dell'articolo 13-bis della legge 31.12.2012, n. 247».
In sostanza così facendo «scoraggiare offerte con ribassi eccessivi poiché
ricevono un punteggio incrementale ridotto». Altro importante chiarimento
riguarda le referenze dei progetti pregressi da indicare in sede di offerta
che possono essere documentati su tutto l'arco temporale della vita
dell'operatore economico e non soltanto su dieci anni. Si tratta di un punto
molto delicato dal momento che, come si legge nella relazione illustrativa,
«gli operatori del settore hanno contestato la previsione inserita
ritenendola limitativa della partecipazione alle procedure di gara alla luce
della crisi che ha investito il settore negli ultimi anni, con una sensibile
riduzione degli affidamentI».
In realtà in questo caso si tratta più di un aggiustamento delle linee guida
per renderle omogenee al contenuto del bando-tipo n.3 Anac, peraltro
vincolante per le stazioni appaltanti, che già non contiene più limiti
temporali.
Un altro punto affrontato nelle linee guida riguarda i requisiti
dell'operatore economico mandatario di un raggruppamento temporaneo: «La
mandataria, indipendentemente dal fatturato complessivo/speciale posseduto,
dai servizi precedentemente svolti e dal personale tecnico di tutti i
partecipanti al raggruppamento, dimostra il possesso dei requisiti necessari
per la partecipazione alla gara in misura percentuale superiore rispetto a
ciascuna mandante». In questo modo si evita che il ruolo di mandataria sia
assunto solo dall'operatore economico in possesso, in valore assoluto e non
in relazione alla specifica gara
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2019). |
LAVORI PUBBLICI: Certificato
di esecuzione lavori ok solo se riporta tutte le imprese - L’Anac aggiorna
le istruzioni.
Prima di emettere il certificato di esecuzione dei lavori (Cel), le stazioni
appaltanti devono verificare che siano riportate tutte le imprese
esecutrici, con i relativi codici fiscali.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha aggiornato le
Faq relative alle modalità di redazione e di gestione delle certificazioni
inerenti i lavori svolti.
Le novità
La prima novità riguarda l'emissione dei Cel in relazione agli accordi
quadro, per cui all'impresa esecutrice di più contratti in attuazione di un
accordo quadro dev'essere rilasciato un certificato per ogni singolo
contratto eseguito.
Poiché l'accordo quadro si concretizza mediante l'esecuzione di distinti
interventi, (non di rado totalmente autonomi uno dall'altro), gli importi
complessivamente computati non possono essere valorizzati nel Cel come se si
trattasse di un lavoro unitario, ma devono essere ricondotti ai singoli
ordini e ripartiti con riferimento agli stessi, soprattutto per la
sussistenza dei lavori di punta nelle varie categorie di qualificazione.
Le stazioni appaltanti, prima dell'emissione di un cel, per evitarne
l'annullamento e la riemissione, devono verificare che il certificato
riguardi più imprese (esecutrici o eventualmente subappaltatrici) e sia
esatto l'inserimento nello stesso documento del codice fiscale delle imprese
(esecutrici e subappaltatrici).
Consigliato indicare sempre il Cig
L'Anac, inoltre, precisa nella faq B26 che per la creazione di un
certificato di esecuzione dei lavori non è obbligatorio indicare il codice
identificativo gara (Cig), in considerazione del fatto che il Cel potrebbe
riguardare lavori affidati in epoca precedente all'introduzione del Cig
stesso. L'Autorità, tuttavia, evidenzia come l'indicazione del codice
identificativo gara consenta di ereditare tutte le informazioni relative
all'appalto semplificando le operazioni di inserimento e minimizzando la
possibilità di commettere errori.
I certificati di esecuzione lavori, infine, vanno emessi secondo il modello
previsto dall'allegato B al Dpr n. 207/2010 (articolo Quotidiano Enti
Locali & Pa dell'01.05.2019). |
APPALTI: Avvalimento,
ko obbligo di sostituzione ausiliaria.
Dichiarazioni non veritiere in sede di
partecipazione a gare.
L'obbligo di sostituzione dell'impresa ausiliaria -in
caso di riscorso all'avvalimento dei requisiti- non si applica in caso di
dichiarazioni non veritiere rese in sede di partecipazione alla gara, le
quali determinano l'esclusione del concorrente.
Lo precisa l'Autorità nazionale anticorruzione con il
Parere di Precontenzioso 10.04.2019 n. 337 - rif. PREC 24/19/S nel quale si
fa discendere, dalla non veritiera dichiarazione dell'impresa ausiliaria,
l'esclusione dell'impresa «avvalente».
La questione era sorta rispetto al fatto che l'impresa ausiliaria aveva
avanzato una richiesta di rateizzazione del debito contributivo in data
antecedente al termine di scadenza delle offerte (fissato al 12.11.2018), richiesta accolta dall'Agente della riscossione il 29.11.2018.
Per la stazione appaltante l'impresa non era in regola con i versamenti dei
contributi Inps (come attestato dal Durc).
La materia è disciplinata dall'articolo 80, comma 4, del codice appalti che
prevede che un operatore economico sia escluso dalla partecipazione ad una
gara d'appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate,
rispetto agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse o dei
contributi previdenziali e che costituiscono violazioni «gravi» in materia
contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del Durc.
L'Anac
ricorda anche che è ormai principio consolidato che i requisiti di
partecipazione alle procedure devono essere posseduti «dalla data di
presentazione della domanda di partecipazione alla gara e anche
successivamente, fino all'aggiudicazione, nonché per tutto il periodo
dell'esecuzione del contratto, senza soluzione di continuità».
Nel caso
specifico, il requisito della regolarità fiscale e contributiva può essere
sussistente, pure in presenza di una violazione accertata, solo se l'istanza
di rateizzazione sia stata presentata dal concorrente e sia stata accolta
prima della scadenza del termine di presentazione della domanda di
partecipazione alla gara, o della presentazione dell'offerta. Non basta
quindi che il contribuente abbia semplicemente inoltrato istanza di
rateizzazione, occorrendo anche che il procedimento si sia concluso con un
provvedimento favorevole dell'amministrazione finanziaria.
Dal momento che
l'autodichiarazione sulla regolarità contributiva non è stata ritenuta
veritiera, l'Anac ha fatto presente che in base all'articolo 89, comma 1
economico avvalentesi delle capacità di altri soggetti è tenuto ad allegare
una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria attestante il
possesso da parte di quest'ultima dei requisiti generali.
Non essendo
veritiera, per l'Anac, «dal combinato disposto di queste norme contenute nel
codice dei contratti pubblici emerge dunque inequivocabilmente che la
dichiarazione mendace presentata dall'operatore economico, anche con
riguardo alla posizione dell'impresa ausiliaria, comporta l'esclusione dalla
gara.
Infatti ad avviso di Anac non si può sostituire l'impresa ausiliaria
ai sensi del comma 3 dell'articolo 89 del codice, “stante il rapporto di
specialità con il primo comma dello stesso art. 89, che prevede
espressamente l'esclusione del concorrente in caso di dichiarazioni mendaci
provenienti dall'impresa ausiliaria”. Non è quindi possibile sostituire in
corsa l'impresa ausiliaria» (articolo ItaliaOggi del 07.06.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Whistleblowing,
l'Anac riorganizza le segnalazioni.
Archiviazione delle segnalazioni ricevute e l'informazione al whistleblower
all'attenzione dell'Anac che ne ha riperimetrato le casistiche andando a
modificare la disciplina dell'informazione al whistleblower dell'avvenuta
archiviazione.
La
delibera
10.04.2019 n. 312, pubblicata in Gazzetta
il 26 aprile, ha apportato modifiche all'articolo 13 del regolamento
sull'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela degli autori di
segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza
nell'ambito di un rapporto di lavoro (si veda il testo coordinato del
regolamento).
L'articolo 13, che è stato interamente sostituito rispetto alla versione
contenuta nel regolamento contenuto nella delibera Anac n. 1033/2018,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 269/2018, disciplina anche la
trasmissione delle segnalazioni agli uffici di vigilanza in ragione delle
materie di competenza e il trattamento della riservatezza del segnalante
durante la successiva istruttoria di vigilanza.
La ridefinizione dell'organizzazione
Nella delibera n. 312, Anac ripercorre i presupposti che hanno condotto
l'Autorità a intervenire sul regolamento ed essenzialmente riconducibili
alla necessità di ridefinire l'organizzazione della vigilanza sulle
segnalazioni dei whistleblowers, considerata la ratio della legge 179/2017
che è quella di tutelare il segnalante garantendo in ogni momento la
riservatezza della sua identità, e alla funzione di vigilanza esercitata da Anac sul rispetto della normativa affinché il segnalante non venga
discriminato per effetto della segnalazione, usufruendo all'interno della
propria amministrazione di un sistema per l'inoltro e la gestione delle
segnalazioni, potendo al contempo contare su di un'attività di analisi
della propria segnalazione da parte del Responsabile prevenzione corruzione
e trasparenza.
I nuovi casi di archiviazione
In base al comma 1 del nuovo articolo 13 del regolamento, l'Ufficio per la
vigilanza sulle segnalazioni pervenute all'Anac provvede direttamente
all'archiviazione delle segnalazioni nei casi di seguito indicati: mancanza
di interesse all'integrità della pubblica amministrazione, incompetenza di
Anac sulle questioni segnalate, infondatezza per l'assenza di elementi di
fatto idonei a giustificare accertamenti, insussistenza dei presupposti di
legge per l'applicazione della sanzione, intervento di Anac non più attuale,
finalità palesemente emulativa, genericità del contenuto della segnalazione,
segnalazione corredata da documentazione inconferente, produzione di sola
documentazione in assenza della segnalazione di condotte irregolari ed
infine per mancanza dei dati che costituiscono elementi essenziali della
segnalazione.
I successivi commi 2 e 3 dell'articolo 13 sono dedicati a disciplinare la
trasmissione delle segnalazioni ricevute, in particolare il secondo comma
prevede che per i casi diversi da quelli precedenti, quindi quelli non
oggetto di archiviazione diretta, l'ufficio trasmette agli uffici di
vigilanza competenti per materia la segnalazione di illeciti al fine di
compiere le attività istruttorie nel rispetto della tutela della
riservatezza dell'identità del segnalante.
Il comma 3 stabilisce che
l'ufficio trasmette al Consiglio con cadenza bimestrale l'elenco delle
segnalazioni oggetto di istruttoria e di quelle valutate inammissibili, notiziando in tal caso il segnalante dell'avvenuta archiviazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.05.2019). |
APPALTI SERVIZI: Appalti soprasoglia, limiti
alle procedure negoziate. Niente affidamenti
d’urgenza se ci sono più operatori sul mercato.
Un
affidamento di servizi di importo superiore alla soglia Ue non può essere
disposto utilizzando la procedura negoziata per ragioni di urgenza se il
mercato è caratterizzato dalla presenza di diversi operatori che agiscono in
concorrenza.
È quanto si legge nella
delibera
10.04.2019 n. 305 dell'Autorità nazionale
anticorruzione riguardante l'affidamento, da parte
del comune di Bologna, dei servizi relativi alla gestione della postalizzazione degli atti giudiziari relativi a violazioni al codice della
strada.
L'Anac, nello svolgimento delle proprie funzioni di vigilanza, aveva
individuato un appalto di servizi con un importo di oltre 6,8 milioni da
affidare con procedura in economia, affidamento diretto. Per questi servizi
il comune aveva aderito ad una convenzione stipulata da una agenzia
regionale per lo sviluppo dei mercati telematici con un raggruppamento di
operatori economici; erano poi seguiti alcuni rinnovi sempre allo stesso
operatore.
Nel frattempo, l'agenzia regionale aveva bandito una gara per gli
stessi servizi, aggiudicata ad un altro operatore economico. A quel punto il
comune, ritenendo necessario garantire la continuità del servizio di postalizzazione degli atti giudiziari relativi a violazioni al codice della
strada, richiedeva al nuovo operatore economico (scelto dall'Agenzia
regionale fra tre operatori invitati) un'offerta (risultata più bassa di
quella del precedente fornitore) e affidava il servizio direttamente per 6,8
milioni circa a questo nuovo operatore.
In via preliminare, l'Anac ha messo in discussione la motivazione per cui si
sarebbe scelto l'affidamento diretto, cioè che alla procedura esperita
dall'agenzia regionale avevano partecipato solo tre operatori e che
presumibilmente vi sarebbe stata un'analoga partecipazione se avessero
anch'essi esperito una gara. Al riguardo l'Anac ha evidenziato innanzitutto
che il mercato dei servizi postali è caratterizzato da una pluralità di
operatori che vi operano in concorrenza e che quindi «non si può escludere
che a una eventuale procedura indetta dal comune avrebbero potuto
partecipare più operatori economici, non solo i tre operatori che hanno
partecipato alla gara» dell'agenzia regionale.
Inoltre, ha detto l'Anac, in base al comma 6 dell'art. 63 del dlgs 50/2016,
che prevede in tutti i casi di affidamento con procedura negoziata senza
bando, l'effettuazione di un'indagine di mercato ed il successivo invito ad
almeno cinque operatori economici, «la trattativa diretta posta in essere
dal comune di Bologna con un unico soggetto non risulta conforme al dettato
normativo».
Viceversa, con un'indagine conoscitiva del mercato, con i tempi e le
modalità ritenute più convenienti, secondo i principi di adeguatezza e
proporzionalità, il comune «avrebbe potuto verificare se nel vasto mercato
dei fornitori di servizi postali vi fossero altri operatori economici
potenzialmente interessati a contrarre con l'amministrazione comunale e
individuare il fornitore in grado di offrire condizioni più vantaggiose,
tenuto conto del valore rilevante dell'affidamento, ampiamente sopra soglia
comunitaria»
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dall’Anac
le nuove regole sulla rotazione straordinaria degli incarichi.
Quando va disposta la rotazione straordinaria di un incarico se il titolare
è sottoposto a procedimento penale o disciplinare? E per quali ipotesi di
reato o comportamento scorretto va attivata? In quali amministrazioni
pubbliche si può disporre e quali sono, ancora, le misure alternative
qualora non fosse possibile avvicendare il personale?
Sono domande alle quali -essendo sul punto lacunoso e un po' disorganico
l'ordinamento giuridico- tenta di rispondere l'Autorità nazionale
anticorruzione attraverso le linee guida pubblicate lunedì scorso (delibera
26.03.2019 n. 215).
Le amministrazioni interessate
La rotazione straordinaria trova fondamento giuridico nell'articolo 16,
comma 1, lettera l-quater, del Dlgs 165/2001, che la prevede nei casi di
avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura
corruttiva dei quali possono venire a conoscenza i dirigenti delle
amministrazioni dello Stato nel corso di quello che potremmo definire
«monitoraggio preventivo anticorruzione», compito prescritto loro dalla
legge. Il provvedimento dev'essere immediato e adeguatamente motivato.
Sebbene la norma sia «dedicata» espressamente alle Pa centrali, l'Anac
ritiene che indichi un principio generale applicabile alla quasi totalità
delle amministrazioni pubbliche, ammettendo qualche dubbio solo
relativamente agli enti pubblici economici e a quelli di diritto privato in
controllo pubblico, per i quali l'articolo 3 della legge 97/2001 ha previsto
il trasferimento ad altro ufficio. Dirimente, per l'Autorità, è che il
provvedimento di revoca in queste due categorie di enti può non essere
precisamente motivato come deve obbligatoriamente essere, invece, il
provvedimento che colpisce le Pa propriamente dette (quelle elencate
dall'articolo 1, comma 2, del Dlgs n. 165/2001).
L'ambito soggettivo di applicazione
Premesso che la rotazione straordinaria può riguardare tanto i dipendenti
degli uffici di cui i dirigenti generali sono a capo, quanto tutti i
dirigenti, i temi rilevanti sono due: per quali reati e in caso di quali
comportamenti che si discostano dalla deontologia professionale va
«ordinata» la rotazione straordinaria? E qual è il momento più giusto per
farlo?
Qui l'Anac non sembra avere molti dubbi e sostanzialmente si riporta a tre
leggi con differenti finalità (la legge 97/2001 - Norme sul rapporto tra
procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato
penale nei confronti dei dipendenti delle Pa, il Dlgs 39/2013 - Disposizioni
in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le Pa e
il Dlgs 235/2012 - Testo unico delle disposizioni in materia di
incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo
conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi)
dall'intreccio delle quali desume un elenco di reati che giustificano
l'assegnazione straordinaria ad altro in carico.
Nell'elenco ci sono il peculato (articolo 314, primo comma, cp), la
malversazione (316-bis) e l'indebita percezione di erogazioni a danno dello
Stato 316-ter. Seguono la concussione (articolo 317) e il suo bis (pene
accessorie). Poi i due articoli, il 318 «Corruzione per l'esercizio della
funzione e il 319 Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (con
319-bis sulle circostanze aggravanti, il ter specificamente relativo agli
atti giudiziari e il quater sull'induzione indebita a dare o promettere
utilità). Infine, l'articolo 320 sulla corruzione di persona incaricata di
un pubblico servizio, il 321 sulle pene per il corruttore, io 322
sull'istigazione alla corruzione e il 322 bis sulla corruzione di organismi
internazionali.
Il «dies a quo»
L'altra importante questione è individuare il momento in cui far scattare la
«rotazione straordinaria», quindi stabilirne durata e ampiezza. Il principio
da tenere presente per l'Anac è che la rotazione straordinaria è un
provvedimento adottato in una fase del tutto iniziale del procedimento
penale, da applicare alle sole «condotte di natura corruttiva» che creando
«maggiore danno all'immagine di imparzialità dell'amministrazione richiedono
una valutazione immediata».
Ebbene, qui le conclusioni dell'Autorità coincidono con quelle
dell'aggiornamento 2018 al Pna, indicando l'opportuna decorrenza della
rotazione straordinaria nel momento in cui il soggetto viene iscritto nel
registro delle notizie di reato (articolo 335 codice di procedura penale),
in quanto è con quell'atto che inizia un procedimento penale. Ragionamento
estendibile per analogia all'avvio di un procedimento disciplinare per
condotte di tipo corruttivo.
La durata del provvedimento, infine, va valutata in base a una serie di
variabili molto ampia, che va dall'esito dell'eventuale processo fino alla
durata e al tipo di condanna inflitta o di assoluzione data all'imputato
dipendente pubblico
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019). |
APPALTI:
Responsabile unico nei piccoli appalti: l'Anac chiede al
Parlamento correttivi sulle incompatibilità.
Le disposizioni sulla verifica dei progetti impediscono al responsabile
unico del procedimento di effettuare attività di progettazione e di
direzione lavori per gli appalti di valore inferiore a un milione di euro.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha inviato a Governo e Parlamento l'atto
di segnalazione 26.03.2019 n. 5, richiedendo un intervento normativo che
coordini le previsioni contenute negli articoli 26 e 32 del Dlgs 50/2016.
L'incrocio delle norme del codice
La prima disposizione, che disciplina le attività di verifica dei progetti
per gli appalti di lavori, prevede che sotto il milione di euro non vi siano
alternative al Rup per l'attività di verifica, la quale, per espressa
previsione del codice dei contratti pubblici, è incompatibile con quella di
progettazione e direzione dei lavori.
L'articolo 31, invece, prevede espressamente tra i compiti che possono
essere affidati al responsabile unico del procedimento quelli di
progettazione e di direzione dei lavori per affidamenti di importo limitato,
rimandando all'Anac il compito di fissare l'importo massimo per queste
attività, stabilito nelle linee guida n. 3 nel valore di 1.500.000 euro.
Tuttavia la combinazione tra le due disposizioni del Dlgs 50/2016 per gli
appalti fino a 1.000.000 di euro obbliga il Rup a svolgere la funzione di
verificatore, determinando di conseguenza che fino a quell'importo lo stesso
non possa mai svolgere le funzioni di progettista o di direttore dei lavori,
svuotando di contenuto la previsione dell'articolo 31 del codice dei
contratti pubblici.
Il ruolo di validatore
L'Autorità nazionale anticorruzione rileva anche che l'articolo 26, al comma
8, assegna al Rup il compito di sottoscrivere la validazione del progetto,
atto formale che riporta gli esiti della verifica e fa specifico riferimento
(e, quindi, ne tiene conto) al rapporto conclusivo del verificatore e alle
eventuali controdeduzioni del progettista. In questo caso, non è indicato
alcun limite di importo e, quindi, si tratta di un'attività che deve essere
sempre svolta dal responsabile unico del procedimento.
La disposizione del codice non indica tuttavia cosa accada nel momento in
cui si crei una divergenza di opinioni tra verificatore e progettista, non
ritenendo ammissibile che l'atto di validazione del progetto, essendo la
validazione un elemento essenziale della lex specialis di gara, possa
contenere una tale divergenza non sanata.
L'Anac evidenzia peraltro, che se il validatore deve comporre eventuali
conflitti sorti tra verificatore e progettista ne dovrebbe conseguire che il
soggetto che valida il progetto deve essere distinto da quello che ha
realizzato la progettazione e da quello che ha proceduto alla successiva
verifica.
Le richieste di chiarimento
L'atto di segnalazione richiede un intervento normativo per chiarire anche
in questo caso le eventuali incompatibilità del validatore e i casi in cui
il validatore può eventualmente coincidere con il verificatore o, al limite,
con il progettista.
La proposta dell'Autorità si focalizza su due possibili modifiche al comma 6
dell'articolo 26 del Dlgs 50/2016, al fine di dare alle stazioni appaltanti
possibilità di ricorrere a soggetti distinti dal responsabile unico del
procedimento per l'attività di verifica relativa a lavori di importo fino a
1.000.000 di euro, al fine di permettere allo stesso di svolgere anche
l'attività di progettazione, così come previsto dall'articolo 31 del codice
dei contratti pubblici.
In relazione all'incompatibilità tra verifica e validazione, l'atto di
segnalazione evidenzia come possibile soluzione una norma che, entro il
valore di 1.000.000 di euro e in considerazione dei ridotti importi delle
attività inerenti alla progettazione, sostenga che le attività di verifica e
di validazione possono coincidere, mentre in ordine all'incompatibilità
dell'attività di validazione con quella di progettazione (situazione nella
quale verrebbe meno l'alterità soggettiva necessaria a garantire la
neutralità e l'imparzialità di giudizio nell'attività di controllo), l'Anac
rimette la soluzione a un intervento normativo che chiarisca i profili e i
parametri della necessaria distinzione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.05.2019). |
APPALTI: Il conflitto di interesse
è anche per i commissari. Delibera Anac su professionisti impegnati nell’esecuzione lavori.
Le fattispecie di conflitto di interesse in materia di appalti si verificano
anche in relazione alle figure professionali impegnate nell'esecuzione dei
lavori; è sufficiente che vi sia anche solo potenzialmente un interesse
privato contrastante con quello pubblico per potersi parlare di conflitto di
interesse.
Lo ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il
Parere sulla Normativa 06.03.2019 n. 166.
Era accaduto che, nell'ambito di una
gestione commissariale di un consorzio (in applicazione dell'art. 32, comma
1, dl 90/2014), un professore aveva svolto incarichi (direzione lavori,
direzione dell'esecuzione e progettazione), a titolo gratuito, che avrebbero
potuto determinare una sovrapposizione di ruoli e potenziali situazioni di
conflitto di interesse, in capo all'amministratore straordinario.
L'Anac ha preso atto che nelle proprie linee guida sull'applicazione
dell'art. 32, non è stata affrontata la questione relativa all'applicazione
della disciplina del conflitto di interessi, nell'ambito della gestione del
contratto d'appalto da parte del predetto commissario straordinario.
Occorre, quindi, fare riferimento all'articolo 42 del codice appalti da cui
l'Anac deduce che per configurare un conflitto di interesse nel contesto di
una procedura di gara o nella fase esecutiva dell'appalto, il personale
della stazione appaltante o il prestatore di servizi che agisce per conto
della stazione appaltante, deve avere direttamente o indirettamente un
interesse finanziario, economico o altro interesse personale in relazione
allo svolgimento della procedure di aggiudicazione o in relazione alla fase
di esecuzione, che possa incidere sulla sua imparzialità ed indipendenza.
In altre parole, ha detto l'Anac, l'interferenza tra la sfera istituzionale
e quella personale del funzionario pubblico si ha quando le decisioni che
richiedono imparzialità di giudizio siano adottate da un soggetto che abbia,
anche solo potenzialmente, interessi privati in contrasto con l'interesse
pubblico.
Consegue, da quanto sopra, che affinché possa configurarsi
un'ipotesi di conflitto di interesse in capo ad un amministratore
straordinario nominato nell'ambito della procedura di cui all'art. 32, dl
90/2014, quest'ultimo deve avere, anche solo potenzialmente, un interesse
personale in relazione all'esecuzione del contratto d'appalto per il quale è
disposta la misura, per cui il suo ruolo non può essere svolto con
l'imparzialità richiesta dalla norma.
In concreto, l'Anac ha escluso che vi sia conflitto di interesse per gli
incarichi di direzione dei lavori e di direttore dell'esecuzione perché
l'amministratore prefettizio svolge un munus publicum (anche nell'interesse
della stazione appaltante) e non opera, quindi, nell'interesse dell'impresa
appaltatrice. Anche per l'affidamento della progettazione (in via d'urgenza)
non vi sarebbe stato alcun conferimento di incarico né riconoscimento di
compensi, ma il professionista avrebbe esclusivamente sottoscritto gli
elaborati progettuali in via d'urgenza.
Si tratta di un profilo che all'Anac
non appare coerente con la disciplina di settore e richiederebbe in ipotesi
che oltre alla firma apposta sui progetti dal predetto commissario, venisse
acquisita altresì quella propria dei progettisti che hanno redatto gli
elaborati progettuali
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Trasparenza
con triplice rilevazione: le istruzioni Anac per la scadenza del 30 aprile.
Documento di attestazione, griglia di rilevazione e scheda di sintesi: sono
questi i tre documenti che dovranno essere pubblicati sul sito dell'ente e
forniti in allegato nella deliberazione dell'Anac da parte degli organismi
indipendenti di valutazione o altre strutture con funzioni analoghe (nuclei
di valutazione).
Lo ha spiegato l'Autorità con la
delibera 27.02.2019 n. 141
sugli obblighi di pubblicazione connessi alla trasparenza. Questi documenti
dovranno essere pubblicati entro il 30.04.2019, tendo conto dello stato
di pubblicazione dei dati da parte degli enti alla data del 31.03.2019. È
prevista una stretta collaborazione tra l'organismo che effettua
l'attestazione e il responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza, spettando a quest'ultimo la rilevazione in mancanza di Oiv o
altro soggetto con funzioni analoghe.
L'ambito soggettivo
Oltre a tutte le amministrazioni pubbliche elencate nell'articolo 1, comma
2, del Dlgs 165/2001, sono tenuti all'attestazione sull'assolvimento degli
obblighi di pubblicazione anche gli enti pubblici economici, le società a
controllo pubblico (a esclusione di quelle quotate) e, infine, le
associazioni, fondazioni e enti di diritto privato comunque denominati,
anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a 500mila euro,
la cui attività sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi
finanziari consecutivi nell'ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e
in cui la totalità dei titolari o dei componenti dell'organo
d'amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni.
I dati oggetto di attestazione per gli enti locali
Va rilevato come, nella griglia pubblicata, sono stati inseriti due ambiti
di rilevazione dei dati non indicati nella deliberazione dell'Autorità. In
particolare, nella delibera dell'Autorità l'attestazione è limitata alla
rilevazione di sei categorie di dati, all'interno di quelli previsti dal
Dlgs 33/2013, che riguardano i provvedimenti (articolo 23), i bilanci
(articolo 29), i pagamenti dell'ente (articoli 4-bis, 33, 36 e 41), le opere
pubbliche (articolo 38), la pianificazione e governo del territorio
(articolo 39) e le informazioni ambientali (articolo 40). La griglia
pubblicata contiene, anche, i dati riferiti alla performance (articoli 10 e
20) e ai servizi erogati (articolo 32).
Oltre alla verifica della corretta pubblicazione dei dati sul sito
dell'ente, gli organismi di attestazione ne dovranno verificare anche la
qualità in termini di completezza, aggiornamento e formato secondo le
indicazioni fornite in uno specifico allegato denominato «Documento tecnico
sui criteri di qualità della pubblicazione dei dati».
Dovrà essere, altresì,
compilata una specifica scheda di sintesi della rilevazione, anche questa
disponibile quale allegato, nella quale gli organismi di attestazione
indicano le procedure e le modalità seguite per la rilevazione nonché gli
aspetti critici riscontrati nel corso della rilevazione ed eventuale
documentazione da allegare. Le schede non potranno contenere dati vuoti e,
nel solo caso in cui i dati non siano previsti nella competenza dell'ente,
potrà dovrà essere indicato il solo valore «n/a» (non applicabile).
L'attività di vigilanza dell'Autorità
La delibera chiude precisando che, successivamente alla scadenza del 30.04.2019, l'Autorità procederà a una verifica a campione, segnalando agli
organi di indirizzo delle amministrazioni i casi di mancata o ritardata
attestazione, ovvero in presenza di discordanza tra quanto contenuto nelle
attestazioni degli Oiv e quanto effettivamente pubblicato nella sezione
«Amministrazione trasparente». Infine, oltre alla citata segnalazione, potrà
seguire anche un controllo documentale da parte della Guardia di Finanza
diretto a riscontrare l'esattezza e l'accuratezza dei dati attestati dagli
Organismi che effettueranno l'attestazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.03.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Le
carenze di organico e risorse non salvano il Comune dagli obblighi di
trasparenza.
A seguito dell'attività ispettiva nei confronti di un piccolo Comune
l'Autorità anticorruzione, con la
delibera
13.02.2019 n. 124, riscontra
l'inadempienza dell'ente locale agli obblighi di pubblicazione, ossia
l'inadeguatezza e la carenza di contenuti nella sezione «Amministrazione
trasparente» da pubblicarsi nella home page del sito web istituzionale, ai
sensi dell'articolo 9 del Dlgs 33/2013.
L'obbligo di pubblicazione
Si tratta di una violazione che, oltre a costituire un illecito
disciplinare, può dare luogo a ulteriori forme di responsabilità, secondo
quanto sancito dall'articolo 45, comma 4, del Dlgs 33/2013.
L'articolo 8, comma 3, del Dlgs 33/2013 prevede per i documenti che sono
oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente che
siano visibili sul sito web dell'Amministrazione per 5 anni. Si tratta di un
ampio novero di informazioni che coprono l'intera attività dell'ente
pubblico, spaziando dalla dotazione di personale e l'organizzazione degli
uffici, alla vasta tipologia di provvedimenti della Pa muniti di rilevanza
esterna.
Tenuto conto di ciò, l'Anac interviene con provvedimenti per l'attuazione
degli obblighi in questione e ingiunge al Comune di pubblicare entro 30
giorni nella sezione «Amministrazione trasparente» del sito web «tutti i
documenti, le informazioni e i dati mancanti, oggetto di pubblicazione
obbligatoria, nel rispetto della normativa vigente nonché secondo la
struttura e i contenuti indicati nella delibera Anac n. 1310/2016,
motivando, all'interno delle sotto-sezioni interessate, gli eventuali casi
di non ricorrenza».
Per inciso bisogna ricordare che, a presidio degli obblighi di trasparenza,
l'articolo 47 del Dlgs 33/2013 ha attribuito all'Anac il compito di irrogare
le sanzioni ove prescritte dal decreto, e a questo fine l'Autorità, con il
regolamento del 16.11.2016, ha disciplinato l'esercizio del proprio
potere sanzionatorio.
Nello scenario descritto l'intervento dell'Authority è ineccepibile,
considerato che, in linea di principio, la trasparenza della Pa è funzionale
agli obiettivi di prevenzione e lotta alla corruzione (legge 190/2012), come
più volte ribadito dal decreto legislativo di attuazione.
Le difficoltà dei piccoli enti
Il punto è che non sempre è agevole per gli enti locali, specie se di
piccole dimensioni, coniugare l'osservanza degli obblighi di legge con le
criticità strutturali che, non di rado, rendono estremamente difficoltoso
soddisfare perfino le esigenze primarie di ordinaria amministrazione.
La delibera è eloquente in questo senso, perché da un lato denota l'intento
dell'Autorità di assicurare la piena accessibilità della cittadinanza alle
informazioni concernenti l'attività della Pa, per favorire un controllo
diffuso sul perseguimento delle funzioni istituzionali e l'utilizzo delle
risorse pubbliche, mentre dall'altro lato mostra un Comune quasi
impossibilitato a ottemperare agli obblighi di legge.
Nel corso della corrispondenza intercorsa con l'Anac, il Sindaco ha scritto
che il Comune è un piccolo ente di 700 abitanti, con 5 dipendenti, di cui 2
part-time, 2 operai e 3 impiegati negli uffici. Inoltre, «l'Ente è stato
privo di segretario comunale titolare, e che la situazione economica vicina
al disavanzo, ha costretto a scelte di bilancio dolorose, dunque a rimandare
l'attivazione del sito fino al reperimento di risorse di bilancio».
Le argomentazioni addotte dal Comune non risparmiano però all'ente un
richiamo formale dell'Autorità anticorruzione, con l'ordine di inserire
tempestivamente nel sito web tutte le informazioni indicate dal decreto
trasparenza.
Non resta che concludere che, a fronte degli obblighi imposti dall'impianto
normativo, l'effetto obbligatorio e vincolante per l'azione della Pa
sussiste a prescindere dalle difficoltà organizzative, dalle ristrettezze di
personale e dalla carenza di risorse in cui può ritrovarsi a operare l'ente
locale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.03.2019). |
APPALTI: Niente
clausola sociale negli appalti per i servizi professionali.
Tutte le istruzioni Anac sull’obbligo.
Le stazioni appaltanti devono inserire la clausola sociale negli atti di
gara per gli appalti con impiego di manodopera, verificando che ricorrano
alcuni particolari presupposti.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha definito, con le
linee guida n. 13
(delibera 13.02.2019 n. 114), i
profili applicativi dell'articolo 50 del Dlgs 50/2016, chiarendo la portata
dell'obbligo, le attività escluse, le caratteristiche della clausola e le
conseguenze per la mancata accettazione in gara o per il mancato rispetto
una volta stipulato il contratto.
Attività materiali
L'Anac precisa anzitutto che la disciplina contenuta nella disposizione del
Codice dei contratti pubblici si applica agli affidamenti di appalti e
concessioni di lavori e di servizi diversi da quelli di natura
intellettuale, con particolare riguardo a quelli ad alta intensità di
manodopera. Dall'ambito applicativo sono, quindi, esclusi i servizi di
natura intellettuale, ossia quelle attività che richiedono lo svolgimento di
prestazioni professionali, svolte in via eminentemente personale, come ad
esempio il brokeraggio assicurativo e la consulenza.
Il servizio non ha invece natura intellettuale quando, anche a fronte di
obblighi di iscrizione ad albi per i soggetti che rendono le prestazioni, le
stesse si traducano prevalentemente in attività materiali.
Condizioni
L'Anac evidenzia come l'applicazione dell'articolo 50 del codice dei
contratti pubblici richieda la sussistenza di alcune particolari condizioni
oggettive e soggettive.
In primo luogo, il contratto rispetto al quale si intende applicare la
clausola sociale deve essere oggettivamente assimilabile a quello in corso:
pertanto non è legittimo l'inserimento di clausole volte alla tutela dei
livelli occupazionali qualora per la stazione appaltante non sussista alcun
contratto in essere nel settore di riferimento, oppure il contratto in
essere presenti un'oggettiva e rilevante incompatibilità rispetto a quello
da attivare.
La seconda condizione necessaria si determina quando l'applicazione della
clausola sociale non comporti un indiscriminato e generalizzato dovere di
assorbimento del personale utilizzato dall'impresa uscente, dovendo
l'obbligo essere armonizzato con l'organizzazione aziendale prescelta dal
nuovo affidatario.
Secondo le linee guida n. 13, il riassorbimento del personale è quindi
imponibile nella misura e nei limiti in cui sia compatibile con il
fabbisogno richiesto dall'esecuzione del nuovo contratto e con la
pianificazione e l'organizzazione definita dal nuovo assuntore.
Calcoli e trasparenza
Ai fini dell'applicazione della clausola sociale, l'Anac precisa che le
stazioni appaltanti devono considerare di regola il personale dell'impresa
uscente calcolato come media del personale impiegato nei sei mesi precedenti
la data di indizione della nuova procedura di affidamento.
Allo scopo di consentire ai concorrenti di conoscere i dati del personale da
assorbire, la stazione appaltante indica gli elementi rilevanti per la
formulazione dell'offerta nel rispetto della clausola sociale, in
particolare i dati relativi al personale utilizzato nel contratto in corso
di esecuzione, come il numero di unità, il monte ore, il contratto
collettivo applicato dall'appaltatore uscente, nonché le qualifiche, i
livelli retributivi e gli scatti di anzianità.
La stazione appaltante, quando ricorrano le condizioni connesse all'articolo
50 del codice, prevede quindi nella documentazione di gara la clausola
sociale e stabilisce che il concorrente alleghi all'offerta un progetto di
assorbimento, finalizzato a illustrare le concrete modalità di applicazione
della clausola sociale, con particolare riferimento al numero dei lavoratori
che beneficeranno della stessa e alla relativa proposta contrattuale
(inquadramento e trattamento economico).
La mancata presentazione del progetto, anche a seguito dell'attivazione del
soccorso istruttorio, equivale a mancata accettazione della clausola sociale
con la conseguenza dell'esclusione dalla gara.
L'amministrazione aggiudicatrice esplicita l'obbligo della clausola sociale
anche nel contratto, specificando anche che il rispetto delle previsioni del
progetto di assorbimento è oggetto di monitoraggio e l'inadempimento degli
obblighi derivanti dalla particolare clausola comporta l'applicazione dei
rimedi previsti dalla legge o dal contratto.
L'Anac consiglia infatti alle stazioni appaltanti di inserire nello schema
di contratto specifiche clausole risolutive espresse ovvero penali
commisurate alla gravità della violazione: ove ne ricorrano i presupposti,
esse possono quindi arrivare ad applicare anche l'articolo 108, comma 3, del
codice dei contratti pubblici, dando corso alla procedura per la risoluzione
del contratto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.02.2019). |
APPALTI: Confronto
tra offerte, criteri di valutazione predefiniti anche per gli importi minimi.
Se la stazione appaltante –nell'ambito dell'affidamento di commesse entro
40mila euro- invece di utilizzare la procedura dell'affidamento diretto
procede con la consultazione di proposte tecnico/economiche di più operatori
economici, deve obbligatoriamente prefissare i criteri di valutazione che la
commissione di gara andrà a utilizzare per l'assegnazione dell'appalto.
È
questa la precisazione fornita dal
Parere di Precontenzioso 07.02.2019 n. 75 - rif. PREC 231/18/S.
Il procedimento
La stazione appaltante ha bandito una procedura per acquisire delle
prestazioni di supporto al responsabile unico del procedimento per un
importo ampiamente al di sotto di 40mila euro. Pur potendo procedere con
l'affidamento diretto, il Rup ha avviato una procedura semplificata con
invito e richiesta di più proposte tecnico/economiche sollecitate attraverso
uno specifico avviso pubblico.
L'avviso conteneva riferimenti ai requisiti
soggettivi generali e specifici di partecipazione ma risultava carente per
quanto concerneva i criteri di aggiudicazione. L'appalto di servizi veniva
assegnato sulla base di valutazioni di "adeguatezza" espressi dalla
commissione di gara.
Contro la procedura seguita uno dei competitori che, rivolgendosi all'Anac,
ha chiesto un parere sulla legittimità dell'operato considerato che non
risultava fissato alcun criterio di valutazione delle proposte.
Il riscontro
L'Authority ha analizzato la procedura esperita dalla stazione appaltante
premettendo alcune considerazioni sui procedimenti semplificati disciplinati
nell'articolo 36 del codice dei contratti. Articolo, come noto, che esprime
una precisa scelta del legislatore di consentire l'utilizzo di procedimenti
semplificati adeguati –quanto a formalità– ad acquisizioni nell'ambito
ultra e sotto soglia comunitaria.
A questo proposito, nella deliberazione si
rammenta che «la semplificazione della procedura degli affidamenti di
importo inferiore a 40.000,00 euro, introdotta dal d.lgs. n. 56/2017» con la
finalità di «consentire alla stazione appaltante di agire in modo più snello
e flessibile con aumentati margini di autonomia gestionale» non ha fatto
venire meno l'obbligo del Rup di rispettare i classici principi della
trasparenza e della par condicio tra competitori (articolo 30, comma 1, del
codice dei contratti). Più nel dettaglio, come anche evidenziato dalla
giurisprudenza, la previsione di procedure semplificate non ha «intaccato»
l'obbligo (Tar Piemonte Torino 22.03.2018 n. 353), «dato il chiaro tenore
letterale del comma 1 dell'art. 36».
Da ciò consegue che, nel caso di consultazione di più operatori economici, i
principi di libera concorrenza, non discriminazione e trasparenza impongono
al Rup – quale dominus istruttore della procedura «di predefinire e rendere
noti a tutti i soggetti interessati tramite l'atto iniziale della procedura,
oltre alle caratteristiche delle opere, dei beni, dei servizi che si
intendono acquistare, l'importo massimo stimato dell'affidamento e i
requisiti di partecipazione, anche i criteri per la selezione degli
operatori economici e delle offerte».
Nel caso di specie, avendo deciso –la stazione appaltante- di non far
concorrere gli operatori sul prezzo e quindi, sul solo dato economico,
nell'avviso pubblico finalizzato a recepire la manifestazione di interesse
ed ottenere, successivamente, la presentazione delle offerte
tecnico/economiche da parte degli appaltatori invitati, «avrebbe dovuto
individuare con chiarezza i criteri qualitativi sulla base dei quali gli
operatori economici sarebbero stati chiamati a competere».
L'avviso pubblico invece, sul punto, è risultato carente e la commissione di
gara non poteva valutare le esperienze professionali richieste (tra l'altro,
solo a posteriori) senza precisi criteri di valutazione Da ciò deriva,
conclude il parere, «che la valutazione delle esperienze professionali, in
assenza di criteri motivazionali predefiniti nell'avviso che stabilissero
sotto quali profili l'esperienza sarebbe stata vagliata, non può che essere
stata condotta dalla commissione in modo arbitrario»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.03.2019). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Cause di inconferibilità per incarico ex art 110, comma 1, del tuel 267/2000.
Domanda
Dopo le elezioni amministrative del 26.05.2019, il nostro sindaco
(confermato) intende avviare una procedura pubblica finalizzata alla
copertura di un posto di responsabile apicale di area –con posizione
organizzativa, in ente senza dirigenza– ai sensi dell’articolo 110, comma 1,
del TUEL. Tra i “papabili” figura un ex assessore che ha terminato il
proprio mandato il 26/05/2019. Il comune ha meno di 15.000 abitanti.
Come ci dobbiamo comportare se l’ex assessore partecipa alla procedura? Lo
dobbiamo ammettere?
Risposta
Il riferimento normativo in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni (compresi i
comuni), va rinvenuto nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
In particolare, va evidenziato che l’articolo 2, comma 2, del citato decreto
prevede che le norme si applicano, negli enti locali, anche al conferimento
di incarichi dirigenziali a personale non dirigenziale, come in effetti
accade nei comuni, nei comuni privi di figure dirigenziali, con i titolari
di posizione organizzativa, a cui il sindaco conferisce le funzioni
dirigenziali, ai sensi degli articoli 50, comma 10 e 109, comma 2, del Testo
Unico Enti Locali.
Venendo allo specifico quesito, si ritiene che le cause di inconferibilità,
non siano rinvenibili, nel caso segnalato, dal momento che il vostro comune
ha meno di 15.000 abitanti.
L’articolo 7, comma 2, lettera b) –che richiama la precedente lettera a)–
prevede, infatti, una causa di inconferibilità per i componenti dei consigli
o delle giunte (fissata in uno o due anni), ma solamente per gli incarichi
dirigenziali nei comuni sopra 15.000 abitanti.
In tali enti (ma solo in quelli) si deve rispettare quello che alcuni
commentatori hanno definito il “periodo di raffreddamento”,
intendendo per esso un lasso temporale che non comporta un’esclusione
permanente dal conferimento dell’incarico dirigenziale, ma solo di natura
temporanea.
La normativa, in pratica, vuol impedire che un soggetto che si trovi in una
posizione tale da compromettere l’imparzialità, acceda all’incarico senza
soluzione di continuità. È necessario un periodo di raffreddamento, utile a
garantire la condizione di imparzialità all’incarico (18.06.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Gruppi, niente espulsioni. Non sono
configurabili come organi di partito. E per questo
non hanno potestà vincolante verso i componenti.
È ammessa l'espulsione di un consigliere da parte del gruppo consiliare di
appartenenza per insanabili divergenze politiche?
In linea generale si osserva che il rapporto tra il candidato eletto e il
partito di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente
rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la assoluta
autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi
collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati»
(Tar Puglia, sez. di Bari sentenza n. 506 del 2005). Ne consegue che
all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili quali organi dei
partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una
potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento,
sia per gli organi assembleari dell'ente.
La sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato che i
gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un
verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro
verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto
articolazioni interne di un organo istituzionale.
Nella citata pronuncia, si legge che «è dunque possibile distinguere due
piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne
il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento,
l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i
gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni
proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione
di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e
programmatiche (cfr. Cass. civ, Sez. un., 19.02.2004, n. 3335; C.S., IV,
02.10.1992, n. 932; Corte cost. 12.04.1990, n. 187)».
Per quanto riguarda la questione rappresentata si evidenzia che il nostro
ordinamento «si preoccupa di assicurare un metodo di organizzazione
democratica dei gruppi (in linea con quanto previsto dall'art. 49 Cost.
relativamente ai partiti politici), ma non intende in alcun modo
condizionarne la vita e le dinamiche interne. In altre parole, il concreto
funzionamento e la gestione dei gruppi (parlamentari, regionali,
consiliari), diventano rilevanti per l'ordinamento solo quando questi ultimi
interferiscano con lo svolgimento delle funzioni proprie delle assemblee»
(Tar per il Lazio ul. cit). L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n.
267/00 demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo
statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le
problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi
consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Dalla lettura del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale si
rileva una disciplina dettagliata per quanto riguarda il passaggio da un
gruppo ad un altro, con il presupposto indefettibile dell'accettazione da
parte del gruppo cui il consigliere chiede di aderire. Nell'ambito della
suddetta fonte regolamentare, invece, non sembra potersi rinvenire una
specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere
dal proprio gruppo di appartenenza originario.
Nello stesso regolamento è previsto, altresì, che il gruppo monopersonale
sia ammesso unicamente nella ipotesi in cui sia risultato eletto un solo
consigliere nell'ambito della corrispondente lista elettorale. Attesa la
surriferita disposizione, è stato chiesto se sia consentito agli altri
consiglieri di formare un nuovo gruppo consiliare lasciando il consigliere
indesiderato quale unico componente del gruppo originariamente costituito.
Tale opzione sembrerebbe percorribile in quanto l'enunciato della
disposizione preclusiva della costituzione del gruppo monopersonale non
sembra impedire ad un consigliere la possibilità di permanere nel gruppo
che, pur originariamente costituito da più membri, si sia ridotto ad un
unico componente, nel corso della consiliatura.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei «gruppi consiliari» è
interamente demandata allo statuto ed al regolamento sul funzionamento del
consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le
relative problematiche applicative.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare
soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con
apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di
assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato svolgimento
delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Aumento
orario part-time.
Domanda
Un dipendente del Comune è stato assunto ad aprile 2018 con contratto di
lavoro a tempo indeterminato e part-time (18 ore settimanali).
Le ore di lavoro possono essere aumentate da 18 ore fino a 30 settimanali?
Quali sono le condizioni? C’è bisogno di una modifica del programma del
fabbisogno del personale?
Risposta
L’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2008 sancisce che la trasformazione
del rapporto di lavoro da part-time a full time può avvenire nel rispetto e
nelle modalità previste dalle disposizione vigenti in tema di assunzioni.
Le varie sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti hanno da tempo
chiarito che l’aumento del part-time che non determini la trasformazione a
tempo pieno non entra nei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato.
L’inclusione dell’ampliamento dell’orario di lavoro di un dipendente assunto
a part-time nel tetto delle capacità assunzionali è limitata alla vera e
propria trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo
pieno, mentre ne rimane esclusa l’ipotesi dell’incremento delle ore
lavorative.
Un mero aumento orario non integra, infatti, una nuova assunzione, sicché
non fa scattare la soggezione ai limiti e divieti alle stesse, sempre che
ciò non si traduca in una manovra elusiva.
A tal proposito, si ritiene di affermare, sulla base della giurisprudenza
contabile formatasi in materia, che l’aumento orario a n. 35 ore
settimanali, una in meno del full-time, costituirebbe già manovra elusiva (Sez.
Sardegna n. 67/2012).
E’ necessario per effettuare l’ampliamento de quo rispettare il limite
generale della spesa di personale (Sez. Basilicata n. 51/2016 e Sez. Puglia
n. 159/2017) e procedere alla modifica del PTFP (13.06.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
uffici di questa Unione di Comuni ricevono richiesta di annullamento di
verbali (L. 24.11.1981, n. 689) in vari ambiti con particolare riferimento
ad illeciti edilizi o occupazioni abusive di suolo pubblico avvenute molti
anni fa (oltre 5 o 10 anni).
Sono prescritti questi illeciti?
L'art. 28, L. 24.11.1981, n. 689 (legge generale sul procedimento
sanzionatorio pecuniario) dispone "Il diritto a riscuotere le somme
dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel
termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione".
Tale disposizione è stata oggetto di approfondimento giurisprudenziale con
particolare riferimento al tema dei cosiddetti "illeciti permanenti".
Secondo la dottrina "Si ha quindi illecito permanente qualora la condotta
dannosa non si esaurisca in un solo momento, ma si rinnovi costantemente nel
tempo. Pertanto, la condotta del responsabile produce un evento dannoso che
si rinnova per tutto il tempo in cui permane l'azione lesiva, avendosi
coesistenza della condotta lesiva e del danno permanente. Per la sussistenza
della permanenza sono necessarie tre condizioni: (i) il carattere
continuativo dello stato dannoso o pericoloso derivante dalla condotta del
soggetto; (ii) il rapporto di causalità tra il protrarsi dello stato dannoso
o pericoloso e la condotta del soggetto la quale prosegue senza interruzione
dopo la realizzazione del fatto, da cui il danno o il pericolo ha origine e
(iii) la possibilità per il responsabile di porre fine alla situazione
dannosa".
In presenza di dette condizioni, quindi di un illecito permanente, ne
deriva:
- l'applicazione del regime sanzionatorio vigente al momento in cui
l'amministrazione provvede ad irrogare la sanzione stessa, senza che sia
ravvisabile la violazione del principio di irretroattività;
- il potere repressivo dell'amministrazione può essere esercitato
anche a lunga distanza di tempo, non derivando dal decorso di questo né una
sorta di sanatoria dell'opera abusiva né tanto meno una situazione di
affidamento in capo all'autore dell'abuso;
- in materia di lesione dell'interesse pubblico si protrae nel
tempo sino al ripristino della legittimità violata;
- la prescrizione delle sanzioni pecuniarie non inizia a decorrere
dalla data di realizzazione dell'abuso o della violazione ma da quella in
cui il soggetto che ha commesso l'abuso ha ripristinato la situazione di
legalità.
Tale giurisprudenza, formatasi prevalentemente con riferimento agli abusi
edilizi, vale anche in altri analoghi contesti, per cui si è ritenuto che in
materia di scadenza dell'autorizzazione ad occupare suolo pubblico, il lungo
lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e, dunque, il
perseverare nell'occupazione abusiva nonché l'inerzia serbata
dall'amministrazione non sono idonee ad ingenerare nel privato alcuna
convinzione della legittimità della propria situazione.
In definitiva dunque, per gli illeciti permanenti, il termine di
prescrizione quinquennale non decorre dalla data di commissione
dell'illecito ma dalla data della sua scoperta da parte dell'autorità
competente.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 24.11.1981, n. 689, art. 28
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. 22.04.2013, 9711 - Cass. 06.02.1982, n. 685 - Cons. Stato Sez. V,
16.04.2019, n. 2499 - Cons. Stato Sez. VI, 16.04.2019, n. 2484 - Cons. Stato
Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 -
Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 04.03.2019,
n. 1477 - Cons. Stato Sez. VI, 14.02.2019, n. 1056 - Cons. Stato Sez. VI,
03.01.2019, n. 85 - Cons. Stato Sez. VI, 07.06.2018, n. 3460 - Cons. Stato
Sez. VI, 27.02.2018, n. 1166 - Cons. Stato Sez. VI Sent., 03.10.2017, n.
4580
Riferimenti di dottrina
- Danni da violazione delle norme sulle distanze tra costruzioni.
illecito permanente e illecito istantaneo a effetti permanenti - Il commento
- [Danno e Resp., 2016, 1, 82 (nota a sentenza)] - di Sebastiano Cassani
- Illecito paesistico e condono edilizio - [Corriere Giur., 2000,
8, 1003 (nota a sentenza)] - a cura di Luigi Carbon (12.06.2019 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI:
Il PassOE in sede di gara a pena di esclusione.
Domanda
Il PassOE in sede di gara deve essere richiesto a pena di esclusione?
Risposta
Il PassOE è quel codice numerico che l’Operatore Economico acquisisce e
trasmette alla stazione appaltante affinché quest’ultima possa verificare in
capo all’aggiudicatario il possesso dei requisiti di carattere generale,
tecnico-organizzativo ed economico-finanziario dichiarati in sede di gara,
mediante il sistema AVCpass, quale strumento che consente sia l’acquisizione
della documentazione a comprova dei requisiti a seguito della cooperazione
applicativa con i vari Enti, che la mera trasmissione di richieste ad altri
soggetti certificatori.
Tale foglio, che deve essere sottoscritto dall’operatore economico ai fini
della liberatoria per il trattamento dei dati, non rientra tra gli atti
obbligatori per la validità della documentazione amministrativa, pertanto,
la richiesta a pena di esclusione, potrebbe porsi in violazione dell’art. 83
del d.lgs. 50/2016, ed in particolare del comma 8, che stabilisce: “I
bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a
pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre
disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Il PassOE diventa obbligatorio nel momento in cui la stazione appaltante
deve effettuare i controlli sull’aggiudicatario (salvo l’ipotesi di
verifiche a campione in sede di gara), che procederà quindi all’acquisizione
dello stesso mediante accesso al sistema AVCPass, non prevedendo l’ANAC
alcun blocco in ordine al rilascio del documento dopo la scadenza del
termine per la presentazione delle offerte.
In questo modo non solo si semplificano gli oneri per gli operatori
partecipanti alla procedura che evitano il passaggio di acquisizione di un
documento che prevede comunque diversi step per la generazione, ma si riduce
anche l’attività del seggio di gara che non deve accertare la presenza e la
regolarità dei vari PassOE trasmessi, o addirittura attivare il soccorso
istruttorio qualora se ne accerti la mancata allegazione, con allungamento
dei termini della procedura.
A livello operativo si evidenzia come la presentazione in sede di gara del
PassOE potrebbe determinare alcuni problemi di gestione della stessa, dovuti
ad esempio alla difficoltà dell’operatore di trasmettere il documento per
responsabilità diretta della stazione appaltante che abbia dimenticato, dopo
la creazione del codice CIG, di perfezionarlo. In tale ipotesi, infatti,
l’operatore non potrà in alcun modo generare il PassOE, ed eventualmente
eccepirà la mancata partecipazione alla procedura per negligenza dell’ente
appaltante.
In considerazione della funzione del PassOE e dei rischi operativi si
ritiene che tale documento, se richiesto in sede di gara, debba avere un
carattere meramente facoltativo, diventando documento obbligatorio a carico
del solo aggiudicatario.
Sulle modalità di acquisizione e presentazione del PassOE
PASSOE di cui all’art. 2, comma 3, lett. b), della delibera ANAC n.
157/2016, sottoscritto digitalmente dall’Operatore Economico aggiudicatario.
Nel caso di ricorso all’avvalimento ai sensi dell’art. 49 del Codice, anche
il PASSOE relativo all’ausiliaria.
Nell’ipotesi di partecipazione di RTI, anche già costituiti, andranno
trasmessi i PassOE di tutte le imprese che compongono il raggruppamento
ovvero un PassOE multiplo.
Nell’ipotesi di partecipazione di consorzi di cui all’art. 45, comma 2,
lett. b) e c), del d.lgs. 50/2016, andranno trasmessi –oltre al PassOE del
Consorzio– anche quelli delle consorziate per le quali il consorzio
partecipa/esecutrici ovvero un PassOE multiplo.
Nel caso di partecipazione di consorzi di cui all’art. 45, comma 2, lett.
e), del d.lgs. 50/2016, andranno trasmessi –oltre al PassOE del Consorzio–
anche quelli di tutte le consorziate ovvero un PassOE multiplo.
Qualora il PassOE non sia stato già allegato in sede di gara, si procederà a
richiederne la produzione –pena l’esclusione– entro e non oltre il termine
di giorni 5 (cinque) dalla trasmissione della relativa richiesta (12.06.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Applicativo ANAC per il whistleblowing.
Domanda
Abbiamo scaricato dal sito dell’ANAC l’applicativo per la ricezione delle
segnalazioni di condotte illecite da parte dei pubblici dipendenti (Whistleblowing).
Dobbiamo mantenere pubblicata anche la scheda di segnalazione e la casella
email del RPCT, predisposta nell’anno 2015?
Risposta
Con Comunicato del Presidente, Raffaele Cantone, in data 15.01.2019,
l’Autorità Anticorruzione italiana ha comunicato che era disponibile, in
open source, il nuovo software per la gestione delle segnalazioni di
illeciti.
L’applicativo può essere utilizzato per l’acquisizione e la gestione –nel
rispetto delle garanzie di riservatezza previste dalla normativa vigente–
delle segnalazioni di illeciti da parte dei pubblici dipendenti, così come
stabilito dall’articolo 54-bis, comma 5, del decreto legislativo 165/2001
[1] e previsto dalle Linee
Guida ANAC, di cui alla determinazione n. 06 del 28.04.2015.
La nuova piattaforma consente la compilazione, l’invio e la ricezione delle
segnalazioni di presunti fatti illeciti, nonché la possibilità per l’ufficio
del Responsabile della Prevenzione Corruzione e della Trasparenza (RPCT),
che riceve tali segnalazioni, di comunicare in forma riservata con il
segnalante senza conoscerne l’identità.
Quest’ultima, infatti, viene segregata dal sistema informatico ed il
segnalante, grazie all’utilizzo di un codice identificativo univoco generato
dal predetto sistema, potrà “dialogare” con il RPCT, in maniera
spersonalizzata tramite la piattaforma informatica. Ove ne ricorra la
necessità il RPCT può chiedere l’accesso all’identità del segnalante, previa
autorizzazione di una terza persona (il cosiddetto “custode dell’identità”).
L’applicativo e la sua distribuzione in forma gratuita è regolata da una
Licenza Pubblica della Unione Europea e, pertanto, ne è consentito il libero
uso a qualunque soggetto interessato, senza nessun’altra autorizzazione da
parte dell’ANAC.
Premesso quanto sopra, si ritiene di rispondere al quesito suggerendo di
eliminare dal vostro sito web, sia la scheda di segnalazione che la casella
e-mail (riservata) a cui poteva accedere solamente il RPCT.
Tale suggerimento nasce dalla constatazione che l’applicativo dell’ANAC è
certamente più sicuro, rispetto ai tradizionali mezzi utilizzati finora, in
quanto fa ricorso a strumenti di crittografia idonei a garantire la
riservatezza dell’identità del segnalante.
Come già in precedenza, l’applicativo da voi scaricato dal sito dell’ANAC,
va pubblicato nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti >
Prevenzione della corruzione.
In ultimo, si ricorda che l’articolo 1, comma 6, della legge n. 179/2017,
prevede che qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e
la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a
quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione
amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
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[1] Nel testo sostituito dall’articolo 1, comma 1, della legge
30.11.2017, n. 179 (11.06.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il presidente è revocabile. Ma solo se
smette di agire in modo neutrale. Nel contrasto tra statuto e regolamento
prevale sempre il primo.
Si può prevedere nel regolamento sul funzionamento
del consiglio comunale la revoca del presidente del consiglio? Il presidente
del consiglio può essere revocato con una maggioranza diversa da quella
necessaria per la sua elezione? Quale disposizione deve essere applicata in
caso di contrasto tra una norma statutaria e una regolamentare con
riferimento alla disciplina delle commissioni consiliari?
Il presidente del consiglio, è previsto dall'art. 39 del decreto legislativo
n. 267/2000 che rende obbligatoria la figura in parola nei comuni con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti, mentre per i comuni con
popolazione inferiore alla predetta soglia ne è demandata la facoltà alla
previsione statutaria.
Lo statuto di un comune in prima votazione richiede la maggioranza dei 2/3
dei consiglieri assegnati, computando anche il sindaco, al fine
dell'elezione del presidente del consiglio. In seconda votazione, da
effettuarsi nella stesa seduta, prevede la maggioranza assoluta dei voti dei
consiglieri assegnati, computando anche il sindaco.
Il regolamento modificato, prevede la revoca a seguito di mozione di
sfiducia che può essere presentata solo dopo l'accertamento di gravi
mancanze nella corretta conduzione del proprio ruolo istituzionale.
Ciò posto, come ritenuto, tra gli altri, dal Tar Puglia–Lecce, con sentenza
n. 528/2014, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del presidente
del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo
e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca
non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto
ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata perciò con esclusivo
riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia (conforme,
Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)».
In merito alla specifica tematica sollevata, concordando sulla necessità
dell'osservanza del rispetto della gerarchia delle fonti, conformemente
anche all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina
l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n.
2625 del 28.12.2009) non sembra tuttavia evidente alcun contrasto della
citata disposizione regolamentare con il vigente statuto in ordine alle
maggioranze richieste.
In ogni caso, così come affermato dal Consiglio di stato con la sentenza n.
2678 del 05.06.2017 «è sufficiente osservare che è la stessa natura e
delicatezza delle funzioni di presidente del consiglio comunale, ad
escludere logicamente la configurabilità della irrevocabilità della
funzione, ciò anche a prescindere dalla considerazione che, secondo i
principi generali, il potere di adottare un atto implica di per sé il potere
di emettere anche il contrarius actus, salvo che ciò sia espressamente
escluso da una specifica disposizione normativa che nel caso di specie non
si riscontra».
Riguardo le commissioni consiliari si rileva che l'articolo 38, comma 6, del
decreto legislativo n. 267/2000 demanda allo statuto la loro istituzione
facoltativa con il solo vincolo del rispetto del criterio proporzionale
nella loro composizione. I poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità
dei lavori sono demandati al regolamento. Il citato art. 38, al comma 2, nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto, prevede, altresì, altri
contenuti obbligatori del citato regolamento (modalità per la convocazione e
per la presentazione e la discussione delle proposte, l'indicazione del
numero dei consiglieri necessari per la validità della seduta – con il
vincolo della presenza di almeno un terzo dei componenti assegnati).
Con norma regolamentare, ai sensi del comma 3 del citato art. 38, sono
fissate le modalità per fornire ai consigli, servizi, attrezzature e risorse
finanziare ed è disciplinata la gestione delle risorse attribuite per il
loro funzionamento e per quello dei gruppi consiliari, mentre per i comuni
con popolazione superiore ai 15.000 abitanti è data facoltà di previsione di
apposite strutture per il funzionamento del consiglio.
Ciò premesso, si ritiene che, qualora sussista un contrasto tra le norme
statutarie e le norme regolamentari è alle prime che occorre fare
riferimento, mentre l'eventuale assenza di una disciplina regolamentare
degli istituti sopra citati, potendo comportare delle disfunzioni nel
corretto funzionamento degli organi, dovrebbe comunque essere colmata
dall'ente (articolo ItaliaOggi del 07.06.2019). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria produce l'effetto di rendere
inefficace il provvedimento ripristinatorio e, quindi, improcedibile
l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a
seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere
sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio.
A seguito dell’attivazione del procedimento di sanatoria, dunque, ogni
interesse del destinatario della misura ripristinatoria si trasferisce nei
confronti del provvedimento conclusivo di tal procedimento.
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7. - Secondo giurisprudenza se non consolidata del tutto prevalente anche
dell’adito Tribunale, la presentazione dell'istanza di sanatoria produce
l'effetto di rendere inefficace il provvedimento ripristinatorio e, quindi,
improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse,
atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione
deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo
provvedimento sanzionatorio (ex multis TAR Liguria, sez. I,
26.05.2017, n. 463; TAR Piemonte, sez. II, 21.05.2018, n. 628; TAR Campania
Napoli, sez. VIII, 2 gennaio 2018, n. 1; TAR Umbria, sez. I, 04.09.2015, n.
362; id. 24.04.2019, n. 219; Consiglio di Stato, sez. IV, 16.09.2011, n.
5228).
A seguito dell’attivazione del procedimento di sanatoria, dunque, ogni
interesse del destinatario della misura ripristinatoria si trasferisce nei
confronti del provvedimento conclusivo di tal procedimento
(TAR Umbria,
sentenza 14.06.2019 n. 330 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Verifica
del possesso dei requisiti di ordine generale per i consorzi di cooperative
di produzione e lavoro.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione -
Consorzio di Cooperative di Produzione e Lavoro – Verifica – Criterio –
Individuazione.
In sede di gara pubblica, la verifica sul possesso
dei requisiti di ordine generale nel caso di consorzi di cooperative di
produzione e lavoro ex l. n. 422 del 1909 (così come dei consorzi stabili)
va perimetrata a quelle concretamente designate per l’esecuzione
dell’appalto, restando viceversa indifferente l’eventuale carenza dei
requisiti di ordine generale delle altre consorziate estranee alla
esecuzione dell’appalto in quanto non designate dal sodalizio (1).
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(1) Ha ricordato il Tar che Secondo la giurisprudenza
amministrativa (Cons.
St., sez. V, 23.11.2018, n. 6632), i consorzi di cooperative di
produzione e lavoro, in base all'art. 4, l. n. 422 del 1909, sono soggetti
giuridici a sé stanti distinti, dal punto di vista organizzativo e
giuridico, dalle cooperative consorziate che ne fanno parte.
Ai sensi dell’art. 48, comma 7, del codice degli appalti pubblici, essi sono
tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati concorrano; la
norma intende assegnare rilievo funzionale al rapporto organico che lega il
consorzio concorrente alle imprese in esso consorziate e che ne
costituiscono una sorta di interna corporis. In tal modo, il
consorzio si avvale dell’attività svolta da un suo soggetto imprenditore
consorziato da esso direttamente designato, esecutore della prestazione
contrattuale.
Il rapporto organico che lega le consorziate al consorzio risulta ancora più
evidente alla luce dell’art. 47, primo comma, del codice dei contratti
secondo cui i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione
alle procedure di affidamento devono essere posseduti e comprovati con le
medesime modalità previste per tutti gli altri operatori economici, salvo
che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi
d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente
in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate.
Il Tar ha aggiunto che il consorzio si qualifica in base al cumulo dei
requisiti delle consorziate e tale disciplina si giustifica in ragione del
patto consortile che si instaura nell'ambito di un organizzazione
caratterizzata da un rapporto duraturo ed improntato a stretta
collaborazione tra le consorziate e dalla comune causa mutualistica,
nell'ambito del quale la consorziata che si limiti a conferire il proprio
requisito all'ente cui appartiene senza partecipare all'esecuzione
dell'appalto vi rimane estranea, tant'è che non sussiste alcuna
responsabilità di sorta verso la stazione appaltante.
Uno statuto ben diverso è invece quello delle consorziate che, al contrario,
siano state indicate per l'esecuzione dell'appalto, per le quali è prevista
l'assunzione della responsabilità in solido con il consorzio. Esse devono
essere in possesso dei requisiti di ordine generale al fine di impedire che
possano giovarsi della copertura dell'ente collettivo, eludendo i controlli
demandati alle stazioni appaltanti (Cons.
St., A.P., 04.05.2012, n. 8; sez. V, 17.05.2012, n. 2582;
sez. VI, 13.10.2015, n. 4703;
Tar Lazio 30.04.2018, n. 4723); solo rispetto a tali consorziate
-e non a quelle che restano estranee- la giurisprudenza ha quindi ritenuto
applicabili gli obblighi dichiarativi di cui all’art. 38, d.lgs. n. 163 del
2006 ed attualmente disciplinati dall’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 (Tar
Napoli, sez. I, 16.07.2018, n. 4707).
La distinzione tra imprese consorziate designate per l’esecuzione e altre
imprese consorziate che restano estranee all’appalto risulta confermata
anche dal nuovo codice degli appalti pubblici.
L’art. 48, comma 7, del predetto codice ammette espressamente che alla
medesima procedura di gara possano partecipare, oltre al consorzio di
cooperative di produzione e lavoro, anche imprese consorziate che non
risultino designate dal medesimo sodalizio per l’esecuzione dell’appalto (“I
consorzi di cui all'articolo 45, comma 2, lettere b) e c), sono tenuti ad
indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre; a
questi ultimi è fatto divieto di partecipare, in qualsiasi altra forma, alla
medesima gara; in caso di violazione sono esclusi dalla gara sia il
consorzio sia il consorziato; in caso di inosservanza di tale divieto si
applica l'art. 353 c.p.”).
Poiché è ammessa la contestuale partecipazione alla medesima gara sia del
sodalizio consortile sia dell’impresa consorziata per conto della quale il
consorzio stesso non abbia dichiarato di partecipare alla gara, è evidente
che in tale eventualità la verifica sul possesso dei requisiti di
partecipazione va condotta partitamente e separatamente per entrambi gli
operatori, con conseguente intrasmissibilità (dalla seconda al primo) degli
effetti derivanti da eventuali illeciti professionali preclusivi ai sensi
dell’art. 80, comma 5, lett. c).
Ancora, l’art. 48, comma 7-bis, nel disciplinare le ipotesi in cui, nella
fase esecutiva dell’appalto, i consorzi di cooperative di produzione e
lavoro possono designare altra impresa consorziata in presenza di
particolari vicende che colpiscono quella originariamente indicata (es.
fallimento, liquidazione coatta amministrativa, etc.), pone la condizione
che “la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere in tale sede
la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all'impresa
consorziata”.
Dall’attenzione dedicata dal legislatore alla sola impresa consorziata
designata per l’esecuzione (della cui sostituzione si occupa la norma) si ha
conferma che la verifica sul possesso dei requisiti di ordine generale nel
caso di consorzi di cooperative di produzione e lavoro (così come dei
consorzi stabili) va perimetrata a quelle concretamente designate per
l’esecuzione dell’appalto perché è unicamente con riguardo a tali imprese
che va scongiurata la finalità antielusiva dell’eventuale meccanismo
sostitutivo, restando viceversa indifferente l’eventuale carenza dei
requisiti di ordine generale delle altre consorziate estranee alla
esecuzione dell’appalto in quanto non designate dal sodalizio
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 13.06.2019 n. 3231 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
E’ noto che, per consentire alla stazione appaltante
un’adeguata e ponderata valutazione sull’affidabilità e sull’integrità
dell’operatore economico, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del
D.Lgs. n. 50/2016, sono posti a carico di quest’ultimo i c.d. obblighi
informativi: il concorrente è tenuto a fornire una rappresentazione quanto
più dettagliata possibile delle proprie pregresse vicende professionali in
cui, per varie ragioni, gli sia stata contestata una condotta illecita o,
comunque, si sia incrinato il rapporto di fiducia con altre stazioni
appaltanti.
Al riguardo, nella formulazione vigente ratione temporis (prima della
novella di cui al D.L. n. 135/2018 convertito della L. n. 12/2019),
l’articolo disponeva quanto segue “Le stazioni
appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un
operatore economico in una delle seguenti situazioni, qualora… c) la
stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si
è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la
sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze
nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che
ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio,
ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una
condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di
influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante
o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il
fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili
di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione
ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento
della procedura di selezione”.
L'omessa dichiarazione di dette informazioni è stata
ritenuta idonea ad integrare un grave illecito professionale in quanto
pregiudica la valutazione di affidabilità del concorrente; difatti, la
condotta reticente non fornisce un quadro completo della situazione
dell’impresa partecipante in relazione agli accertamenti di cui all'art. 80
del D.Lgs. n. 50/2016 ed impedisce che il processo decisionale della
stazione appaltante si svolga in maniera esauriente non consentendo alla
medesima di esprimere ogni necessaria considerazione sulla sussistenza di
eventuali gravi illeciti professionali tali da rendere dubbia la integrità
ed affidabilità dell’impresa
(Consiglio di Stato, Sez. V, 03.09.2018, n. 5142, 25.07.2018, n. 4532;
11.06.2018, n. 3592).
Nel caso specifico, il Co.In. ha partecipato alla gara nella qualità di
consorzio fra società cooperative di produzione e lavoro costituito a norma
della L. 25.06.1909 n. 422, soggetto ammesso ai pubblici appalti ai sensi
dell’art. 45, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 50/2016.
Secondo la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V,
23.11.2018 n. 6632), detti consorzi, in base all'art. 4 della citata legge,
sono soggetti giuridici a sé stanti distinti, dal punto di vista
organizzativo e giuridico, dalle cooperative consorziate che ne fanno parte.
Ai sensi dell’art. 48, comma 7, del codice degli appalti pubblici, essi sono
tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati concorrano; la
norma intende assegnare rilievo funzionale al rapporto organico che lega il
consorzio concorrente alle imprese in esso consorziate e che ne
costituiscono una sorta di interna corporis. In tal modo, il
consorzio si avvale dell’attività svolta da un suo soggetto imprenditore
consorziato da esso direttamente designato, esecutore della prestazione
contrattuale.
Il rapporto organico che lega le consorziate al consorzio risulta ancora più
evidente alla luce dell’art. 47, primo comma, secondo cui i requisiti di
idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di
affidamento devono essere posseduti e comprovati con le medesime modalità
previste per tutti gli altri operatori economici, salvo che per quelli
relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché
all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al
consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate.
Al riguardo, va richiamato l’orientamento giurisprudenziale
sviluppatosi nella vigenza del precedente codice dei contratti pubblici in
materia di consorzi stabili, i cui principi possono estendersi anche ai
consorzi di cooperative di produzione e lavoro
(TAR Campania, Napoli, Sez. II, n. 5300/2017; TAR Sardegna, n. 693/2015;
parere Anac n. 105/2014 secondo cui “l’analogia di
disciplina tra i consorzi stabili e i consorzi di cooperative appare
costituzionalmente conforme, in quanto realizza –per la partecipazione agli
appalti pubblici– una di quelle forme di incentivazione alla mutualità che
la Costituzione assegna alla legge per promuovere e favorire l’incremento
della funzione sociale che la cooperazione rappresenta”) il quale
distingue tra imprese consorziate designate per l’esecuzione dell’appalto e
le altre consorziate (Consiglio di
Stato, Sez. V, 26.04.2018 n. 2537; 23.02.2017 n. 849).
Secondo tale approdo il consorzio si qualifica in base al cumulo dei
requisiti delle consorziate e tale disciplina si giustifica in ragione del
patto consortile che si instaura nell'ambito di un organizzazione
caratterizzata da un rapporto duraturo ed improntato a stretta
collaborazione tra le consorziate e dalla comune causa mutualistica,
nell'ambito del quale la consorziata che si limiti a conferire il proprio
requisito all'ente cui appartiene senza partecipare all'esecuzione
dell'appalto vi rimane estranea, tant'è che non sussiste alcuna
responsabilità di sorta verso la stazione appaltante.
Uno statuto ben diverso è invece quello delle consorziate che, al contrario,
siano state indicate per l'esecuzione dell'appalto, per le quali è prevista
l'assunzione della responsabilità in solido con il consorzio. Esse devono
essere in possesso dei requisiti di ordine generale al fine di impedire che
possano giovarsi della copertura dell'ente collettivo, eludendo i controlli
demandati alle stazioni appaltanti (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
04.05.2012, n. 8; Sez. V, 17.05.2012, n. 2582; Sez. VI, 13.10.2015, n. 4703;
TAR Lazio, 30.04.2018 n. 4723); solo rispetto a tali consorziate -e non a
quelle che restano estranee- la giurisprudenza ha quindi ritenuto
applicabili gli obblighi dichiarativi di cui all’art. 38 del D.Lgs. n.
163/2006 ed attualmente disciplinati dall’art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016 (TAR
Campania, Napoli, Sez. I, 16.07.2018 n. 4707).
La distinzione tra imprese consorziate designate per
l’esecuzione e altre imprese consorziate che restano estranee all’appalto
risulta confermata anche dal nuovo codice degli appalti pubblici (D.Lgs. n.
50/2016).
L’art. 48, comma 7, del predetto codice ammette espressamente che alla
medesima procedura di gara possano partecipare, oltre al consorzio di
cooperative di produzione e lavoro, anche imprese consorziate che non
risultino designate dal medesimo sodalizio per l’esecuzione dell’appalto (“I
consorzi di cui all'articolo 45, comma 2, lettere b) e c), sono tenuti ad
indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre; a
questi ultimi è fatto divieto di partecipare, in qualsiasi altra forma, alla
medesima gara; in caso di violazione sono esclusi dalla gara sia il
consorzio sia il consorziato; in caso di inosservanza di tale divieto si
applica l'articolo 353 del codice penale”).
Poiché è ammessa la contestuale partecipazione alla medesima gara sia del
sodalizio consortile sia dell’impresa consorziata per conto della quale il
consorzio stesso non abbia dichiarato di partecipare alla gara, è evidente
che in tale eventualità la verifica sul possesso dei requisiti di
partecipazione va condotta partitamente e separatamente per entrambi gli
operatori, con conseguente intrasmissibilità (dalla seconda al primo) degli
effetti derivanti da eventuali illeciti professionali preclusivi ai sensi
dell’art. 80, comma 5, lett. c).
Ancora, l’art. 48, comma 7-bis, nel disciplinare le ipotesi in cui, nella
fase esecutiva dell’appalto, i consorzi di cooperative di produzione e
lavoro possono designare altra impresa consorziata in presenza di
particolari vicende che colpiscono quella originariamente indicata (es.
fallimento, liquidazione coatta amministrativa, etc.), pone la condizione
che “la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere in tale sede
la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all'impresa
consorziata”.
Dall’attenzione dedicata dal legislatore alla sola impresa consorziata
designata per l’esecuzione (della cui sostituzione si occupa la norma) si ha
conferma che la verifica sul possesso dei requisiti di ordine generale nel
caso di consorzi di cooperative di produzione e lavoro (così come dei
consorzi stabili) va perimetrata a quelle concretamente designate per
l’esecuzione dell’appalto perché è unicamente con riguardo a tali imprese
che va scongiurata la finalità antielusiva dell’eventuale meccanismo
sostitutivo, restando viceversa indifferente l’eventuale carenza dei
requisiti di ordine generale delle altre consorziate estranee alla
esecuzione dell’appalto in quanto non designate dal sodalizio.
La tesi di parte ricorrente collide poi con la ratio dell’istituto.
Invero, risulterebbe eccessivamente dilatato l’obbligo informativo posto a
carico degli operatori economici consortili ove fosse richiesto loro di
riferire alla stazione appaltante non solo delle proprie pregresse vicende
professionali, suscettibili di integrare il “grave errore professionale”,
ma anche delle altre consorziate estranee alla gara -che rivestono qualità
di autonomi soggetti di diritto- salvo che ne siano scaturite ricadute
personali sugli amministratori (e gli altri organi di vertice) di entrambe
le società, se comuni, ipotesi che non risulta essersi verificata nel caso
in esame (cfr. in fattispecie analoga, Consiglio di Stato, Sez. V, n.
2511/2019).
La partecipazione ad un consorzio anziché rappresentare un mezzo per
incrementare la partecipazione delle imprese medio-piccole e aumentare la
concorrenza nel mercato rischierebbe di causare un vulnus alle
medesime imprese, in quanto finirebbe per rappresentare una sorta di
moltiplicatore, non dei requisiti come voluto dal legislatore, ma delle
carenze delle imprese partecipanti con un effetto disincentivante alimentato
dall’impossibilità per le singole consorziate che decidono di aderire ad un
consorzio di verificare prima dell’adesione la sussistenza in capo a tutte
le consorziate dei requisiti di partecipazione.
Deve quindi ritenersi che i requisiti c.d. di ordine
generale debbano essere posseduti dal consorzio di cooperative di produzione
e lavoro in sé considerato e dalle imprese consorziate indicate come
esecutrici del contratto. |
EDILIZIA PRIVATA: Nell’eventualità
in cui emerga la sussistenza del c.d. factum principis o di cause di forza
maggiore, l’interessato che voglia impedire la decadenza del titolo edilizio
è sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga
dell’efficacia del titolo stesso.
---------------
Un atto pubblico è fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art.
2700 c.c..
---------------
Per principio consolidato, l’effettivo inizio dei lavori deve essere
valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale
riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come
programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il
termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a
lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un
effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere
alla costruzione.
---------------
L’ampliamento della sfera giuridico-patrimoniale del
concessionario, come effetto proprio del provvedimento di concessione,
risponde primariamente a finalità di interesse pubblico che, in caso di
mancata attuazione del programma finalistico sotteso al provvedimento
ampliativo, rimangono disattese; il che costituisce elemento di per sé
idoneo a giustificare l’adozione di una misura autoritativa di decadenza
della concessione, considerato che la mancata realizzazione delle finalità
di pubblico interesse rende non più giustificata, economica e razionale la
perdurante efficacia della concessione rilasciata.
In una prospettiva
funzionale, dunque, la mancata attuazione del programma finalistico
implicato dal rilascio della concessione, inevitabilmente determinata
dall’inadempimento degli obblighi, anche di utilizzazione del bene, assunto
con la concessione contratto, giustifica –anzi, rende obbligata– la scelta
dell’Amministrazione concedente di ritiro dell’atto ampliativo e estinzione
di un rapporto concessorio non funzionale alla realizzazione delle finalità
pubblicistiche perseguite.
Ciò a prescindere dalla valutazione delle
situazioni contingenti e delle ragioni specifiche che possano avere
determinato gli inadempimenti del concessionario.
In tale ottica la
giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto occasione di ribadire che è
da ritenersi legittima e non abbisogna di diffusa motivazione sull'interesse
pubblico la decadenza di una concessione amministrativa, disposta dalla p.a.
per il sol fatto dell'inadempimento, provocato dall'inerzia del
concessionario, degli obblighi derivanti dalle clausole della convenzione a
suo tempo concordate con la p.a. medesima e non attuate entro il termine
pattuito, in quanto tale vicenda è di per sé sufficiente a determinare la
risoluzione immediata del rapporto concessorio, senz'uopo di accertamenti
specifici della quantità e della qualità dell'inadempimento).
---------------
1. Il ricorso non merita accoglimento.
2. Come emerge dalla documentazione in atti e, segnatamente, dall’atto di
cessione del diritto di superficie dell’08.06.2004, la concessionaria,
odierna ricorrente, si è obbligata a realizzare e mantenere un manufatto per
l’insediamento dell’attività industriale, con l’espressa previsione che: “i
lavori dovranno essere iniziati entro un anno dal rilascio della concessione
edilizia ed ultimati entro i tre anni successivi” e che l’inizio
dell’attività avrebbe dovuto essere assicurata entro sei mesi dalla fine dei
lavori.
2.1. Tali previsioni, peraltro, nella parte in cui stabiliscono la data di
inizio ed ultimazione dei lavori risultano pienamente conformi alla
disciplina generale recata dall’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, la quale
pure dispone la decadenza ex lege del titolo edilizio per l’ipotesi
di inosservanza dei suddetti termini, salva la richiesta di proroga, il cui
positivo riscontro, peraltro, è subordinato al ricorrere di specifici
presupposti.
2.3. Dalla disciplina normativa di riferimento discende, dunque, che deve
escludersi qualsiasi sospensione automatica del termine di durata del
permesso edilizio, e quindi a maggior ragione una sua automatica proroga;
più precisamente, anche nell’eventualità –nella fattispecie non sussistente–
in cui emerga la sussistenza del c.d. factum principis o di cause di
forza maggiore, l’interessato che voglia impedire la decadenza del titolo è
sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia
del titolo stesso (in termini, cfr. ex multis, Cons. St., n. 3887 del
2017).
3. Nel caso che ne occupa, come esposto nella narrativa in fatto,
l’autorizzazione unica per la realizzazione del capannone industriale è
stata rilasciata con determina n. 8314 del 13.10.2006 ed è, ovviamente, da
tale data che è iniziato a decorrere il termine annuale per l’inizio dei
lavori.
3.1. Emerge per tabulas dalla documentazione in atti che sebbene
l’inizio dei lavori delle opere sia stato comunicato in data 1.10.2007,
tuttavia, in esito alle verifiche disposte dal competente ufficio nel 2008
e, precipuamente dai sopralluoghi eseguiti dalla Polizia municipale, è stata
accertata l’assenza di edificazioni nel lotto in questione (n. 54), ragione
per cui l’amministrazione ha del tutto legittimamente avviato per la prima
volta il procedimento di revoca dell’assegnazione, non portato a definizione
dall’ente in quanto superato dalle successive determinazioni, nell’ambito
del quale la ricorrente, oltre a riferire circostanze non conferenti con la
contestazione, ha riconosciuto che i lavori stessere proseguendo a rilento,
“per inerzia della società appaltatrice”.
3.2. Le attività istruttorie dell’amministrazione sono proseguite con
successive verifiche ed accertamenti; in particolare, con nota del 23 aprile
2009, l’Unità organizzativa tecnica dell’ente resistente ha attestato, in
esito ad un ulteriore sopralluogo eseguito, che “pur avendo gli assegnatari
comunicato l’inizio dei lavori per la realizzazione di una struttura
edilizia, alla data odierna i lotti continuano ad essere liberi da manufatti
e soprassuoli”.
3.3. Dirimente al fine di escludere la fondatezza delle deduzioni di parte
ricorrente incentrate sulla erroneità dei presupposti alla base della
determinazione di decadenza della concessione con conseguente estinzione del
diritto di superficie inerente si palesano le risultanze emerse in esito al
sopralluogo del 27.05.2009 eseguito dalla Polizia municipale, che
espressamente ed inequivocabilmente attestato, con allegazione anche di
rilievi fotografici che: «… sul lotto n. 54 si è accertato che non è
stato realizzato alcun manufatto ma solo una recinzione in muratura
esistente da circa quattro anni, come da informazioni assunte dai gestori
delle altre attività del comprensorio».
3.4. Le evidenze emergenti dalle suddette produzioni escludono senza margine
di opinabilità alcuno che non solo i lavori non hanno avuto inizio entro il
termine annuale prescritto ma non sono neppure proseguiti nell’arco
temporale che viene in considerazione (01.10.2007–27.05.2009).
3.5. Né al fine di addivenire a differenti conclusioni può attribuirsi
rilievo all’attestazione di inizio lavori depositata dalla difesa della
ricorrente, e ciò in quanto, a prescindere dalla singolarità della redazione
di tale atto a distanza di molto tempo dalla data di asserito e non
comprovato sopralluogo del 13.07.2009, il verbale di sopralluogo redatto
dalla Polizia municipale, successivamente alla instaurazione del presente
giudizio, a seguito del sopralluogo eseguito in data 04.12.2009, con uniti
rilievi fotografici, ha attestato che “allo stato attuale non è stato
edificato alcun manufatto, il lotto recintato con bandoni e lamiera”.
3.6. Venendo in rilievo un atto pubblico, fidefaciente fino a querela di
falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse
accertate, le relative risultanze risultano insuperate dalla parte
ricorrente la quale non consta né ha allegato di aver proposto il relativo
incidente.
4. Il Collegio ritiene anche di evidenziare che pur supponendo, in via di
mera ipotesi (in quanto documentalmente smentito dal predetto verbale di
sopralluogo della Polizia municipale) che al luglio ovvero al mese di
ottobre del 2009 fossero stati eseguiti i lavori di bonifica e sbancamento
del lotto, tale attività edilizia sarebbe comunque insufficiente ai fini
pretesi dalla ricorrente e ciò in quanto suscettibile astrattamente di
essere presa in considerazione ai fini della verifica circa l’avvio
dell’edificazione la quale, però, avrebbe dovuto essere intrapresa entro un
anno dal rilascio del titolo legittimante l’edificazione, risalente, come
sopra esposto, al 13.10.2006.
5. Vi è di più. Per principio consolidato, l’effettivo inizio dei lavori
deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e
puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio
così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare
che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso
a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di
un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere
alla costruzione.
Nella fattispecie, i lavori da eseguire avrebbero dovuto sostanziarsi nella
installazione di un capannone prefabbricato, realizzato, come evidenzia la
stessa parte ricorrente, integralmente presso gli stabilimenti della ditta
costruttrice, sicché le risultanze della situazione di fatto accertata dalla
Polizia municipale, da ultimo con il sopralluogo del 04.12.2009, priva di
significatività tutte le argomentazioni articolate dalla difesa della
ricorrente.
6. Nessuna illegittimità è ravvisabile, inoltre, nella circostanza che
l’amministrazione non abbia previamente definito il procedimento di revoca
dell’assegnazione avviato nel 2008, stante il superamento di tale
procedimento con quello successivo –nell’ambito del quale sono state
condotte esaustive ed adeguate ulteriori attività di verifica istruttoria–
in esito al quale è stata adottata la determinazione impugnata.
7. Neppure emerge un legittimo affidamento meritevole di tutela in capo
all’interessata, la quale non ha inteso adempiere agli obblighi su essa
gravanti nel termine predeterminato e ad essa noto, con l’ulteriore
specificazione che non consta alcuna richiesta di proroga formulata
all’amministrazione, la quale sola avrebbe potuto determinare, al ricorrere
dei relativi presupposti stabiliti dall’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001,
il superamento del termine di inizio e conclusione dei lavori per come
originariamente stabilito.
8. Con riferimento alle deduzioni dirette a contestare la sussistenza del
vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento, il Collegio reputa
sufficiente rilevare che detto vizio è configurabile soltanto in caso di
assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta
irragionevole diversità del trattamento riservato alle stesse, in relazione
alle quali parte ricorrente non ha allegato alcun concreto elemento; come
chiarito dalla univoca giurisprudenza, inoltre, tale censura non può essere
dedotta “quando viene rivendicata l'applicazione in proprio favore di
posizioni giuridiche riconosciute ad altri soggetti in modo illegittimo, in
quanto, in applicazione del principio di legalità, la legittimità
dell'operato della p.a. non può comunque essere inficiata dall'eventuale
illegittimità compiuta in altra situazione” (cfr., ex multis, TAR
Campania, Napoli, sez. II, 26.10.2012. n. 4283).
9. Da quanto sopra esposto consegue la legittimità della determinazione
adottata, esente dalle censure contestate, essendo la violazione dei termini
di avvio dei lavori già di per sé sufficiente a costituirne un valido
fondamento della decadenza della concessione.
9.1. Come correttamente rilevato dalla difesa dell’amministrazione comunale,
peraltro, già in fattispecie analoga questo Tribunale ha avuto modo di
evidenziare che: «L’ampliamento della sfera giuridico-patrimoniale del
concessionario, come effetto proprio del provvedimento di concessione,
risponde primariamente a finalità di interesse pubblico che, in caso di
mancata attuazione del programma finalistico sotteso al provvedimento
ampliativo, rimangono disattese; il che costituisce elemento di per sé
idoneo a giustificare l’adozione di una misura autoritativa di decadenza
della concessione, considerato che la mancata realizzazione delle finalità
di pubblico interesse rende non più giustificata, economica e razionale la
perdurante efficacia della concessione rilasciata. In una prospettiva
funzionale, dunque, la mancata attuazione del programma finalistico
implicato dal rilascio della concessione, inevitabilmente determinata
dall’inadempimento degli obblighi, anche di utilizzazione del bene, assunto
con la concessione contratto, giustifica –anzi, rende obbligata– la scelta
dell’Amministrazione concedente di ritiro dell’atto ampliativo e estinzione
di un rapporto concessorio non funzionale alla realizzazione delle finalità
pubblicistiche perseguite. Ciò a prescindere dalla valutazione delle
situazioni contingenti e delle ragioni specifiche che possano avere
determinato gli inadempimenti del concessionario. In tale ottica la
giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto occasione di ribadire che è
da ritenersi legittima e non abbisogna di diffusa motivazione sull'interesse
pubblico la decadenza di una concessione amministrativa, disposta dalla p.a.
per il sol fatto dell'inadempimento, provocato dall'inerzia del
concessionario, degli obblighi derivanti dalle clausole della convenzione a
suo tempo concordate con la p.a. medesima e non attuate entro il termine
pattuito, in quanto tale vicenda è di per sé sufficiente a determinare la
risoluzione immediata del rapporto concessorio, senz'uopo di accertamenti
specifici della quantità e della qualità dell'inadempimento)» (Tar
Lazio, sez. II, n. 5650 del 2009).
10. Esclusivamente per completezza di analisi si evidenzia che
l’infondatezza delle censure concernenti l’applicazione dell’art. 83 della
l.r. Lazio n. 26 del 2007, il quale, con riferimento al comprensorio
Acilia-Dragonara espressamente dispone, al comma 4, che “per le
assegnazioni in diritto di superficie antecedenti alla data del 31.12.2002,
indipendentemente dalla data di stipula della convenzione di concessione, i
cui concessionari non avessero ancora provveduto al completamento del
fabbricato produttivo ed all'avvio dell'attività produttiva stessa, atteso
l'interesse collettivo che ha portato all’assegnazione delle aree, il Comune
di Roma procede alla revoca d'ufficio delle assegnazioni”, salva la
possibilità per gli interessati di regolarizzare la loro posizione nei
termini e con le modalità ivi stabilite. Tale facoltà non consta essere
stata neppure esercitata dall’interessata.
11. Dal rigetto della domanda di annullamento consegue anche quello della
domanda risarcitoria
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 12.06.2019 n. 7608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Alla
Corte costituzionale la norma che disciplina il caso dell’operatore
economico in concordato con continuità aziendale che partecipa ad una gara
pubblica in Rti.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di
imprese - In concordato con continuità aziendale – Art. 186-bis, r.d. n. 267
del 1942 – Violazione artt. 3, 41 e 97 Cost. – Rilevanza e non manifesta
infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in
relazione agli artt. 3, 41 e 97 Cost., la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 186-bis, comma 6, r.d. 16.03.1942, n. 267 (aggiunto
dall’art. 33, comma 1, lett. h, d.l. 22.06.2012, n. 83, convertito con
modificazioni dalla l. 07.08.2012, n. 134), che disciplina il caso
dell’operatore economico che, in stato di concordato con continuità
aziendale, intenda partecipare ad una procedura di gara per l’affidamento di
commesse pubbliche, nella forma del raggruppamento temporaneo di imprese
(1).
---------------
(1) Ha affermato la Sezione che la questione di legittimità
costituzionale come sopra posta appare non manifestamente infondata in
relazione ai seguenti parametri:
a) art. 3 Cost., dubitandosi della ragionevolezza
della scelta del legislatore.
Per talune imprese l’affidamento di commesse pubbliche è fonte primaria di
ricavi da (re)investire nell’attività imprenditoriale per superare lo stato
di crisi; consapevole, il legislatore consente all’impresa in concordato con
continuità la partecipazione alle procedure di gara con adeguate cautele,
incentrate sulla prognosi circa le capacità (all’atto in cui interviene la
richiesta) di dar attuazione all’impegno da assumere (o assunto) nei
confronti della stazione appaltante.
Tale è la ratio della disciplina posta dal quarto e quinto comma dell’art.
186–bis della legge fallimentare e dal terzo comma dell’art. 110 del codice
dei contratti pubblici: l’impresa può partecipare alla procedura di gara con
l’autorizzazione del Tribunale su parere del commissario giudiziale, se
nominato, qualora la richiesta di partecipazione intervenga successivamente
al deposito del ricorso (comma 4°) ovvero, in caso sia già stata disposta
l’ammissione al concordato, con l’autorizzazione del giudice delegato (art.
110, comma 3), o, comunque, con la relazione di un professionista attestante
la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del
contratto e con la dichiarazione di altro operatore che si impegni a mettere
a disposizione le risorse necessaria all’esecuzione dell’appalto per il caso
di fallimento o di incapacità sopravvenuta all’esecuzione (comma 5).
A parere della Sezione non v’è ragione che giustifichi la differente
disciplina per l’impresa che partecipi nella forma aggregata del
raggruppamento temporaneo di impresa assumendo il ruolo di mandataria: anche
per questa impresa i ricavi derivanti dall’esecuzione della parte di
commessa pubblica possono consentire il superamento di una situazione di
crisi.
Non pare giustificare un diverso trattamento la posizione che la mandataria
assume nei confronti della stazione appaltante ove confrontata con quella
dell’impresa che contratti uti singula: il mandatario, munito di
mandato collettivo speciale con rappresentanza conferito dalle altre imprese
costituenti il raggruppamento, “esprime l’offerta in nome e per conto
proprio e dei mandanti” (art. 45, comma 2, lett. d) del codice dei
contratti pubblici), ha “la rappresentanza esclusiva, anche processuale,
dei mandanti nei confronti della stazione appaltante per tutte le operazioni
e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall’appalto, anche dopo il
collaudo o atto equivalente fino alla estinzione di ogni rapporto” (art.
48, comma 15).
In sostanza, il mandatario del raggruppamento temporaneo contratta con la
stazione appaltante come un operatore economico che abbia partecipato
singolarmente, con la sola differenza che gli effetti dei suoi atti si
riverberano nella sfera giuridica dei mandanti.
Allo stesso modo, non pare giustificare un diverso trattamento il regime di
responsabilità dei mandatari nei confronti della stazione appaltante, posto
che ai sensi dell’art. 48, comma 5, prima parte del codice dei contratti
pubblici: “L’offerta degli operatori economici raggruppati o dei
consorziati determina la loro responsabilità solidale nei confronti della
stazione appaltante, nonché nei confronti del subappaltatore o dei fornitore”
e che, pertanto, la stazione appaltante potrà richiedere al mandatario (ma
anche a ciascuno dei mandanti) l’intera prestazione oggetto del contratto
(art. 1292 Cod. civ.), come pure il risarcimento del danno in caso di
inadempimento, e, siccome, normalmente, si tratterà di prestazione
indivisibile (art. 1316 Cod. civ.), ove intenda richiedere l’esatto
adempimento, dovrà rivolgere richiesta per intero ad una delle imprese (art.
1317 Cod. civ). Solo se uno dei mandanti ha assunto l’impegno all’esecuzione
di lavori scorporabili ovvero prestazioni secondarie (in caso di servizi e
forniture), il mandatario è responsabile solidalmente con il mandante la cui
responsabilità è limitata all’esecuzione delle prestazioni di rispettiva
competenza (seconda parte dell’art. 48, comma 5, citato).
Il regime di responsabilità del mandatario (come pure dei mandanti) è,
dunque, identico a quello dell’impresa che abbia stipulato il contratto
singolarmente e consiste nell’obbligo all’esecuzione per intero della
prestazione in contratto o all’integrale risarcimento del danno per
inadempimento.
b) art. 41 Cost., costituendo il divieto
contenuto nell’art. 186–bis, comma 6, legge fallimentare una limitazione
alla autonomina privata dell’imprenditore che non può assumere la
rappresentanza delle imprese mandanti e, in ultima analisi, non può rendersi
parte di un contratto di appalto con un soggetto pubblico. Per questo
l’imprenditore è limitato nel libero spiegarsi della sua capacità
contrattuale.
La ragione è stata individuata nell’intento del legislatore di tutelare i
creditori da scelte non ponderate dell’impresa in grado di aggravare lo
stato di crisi esistente, e, da questo punto di vista, risponde all’utilità
sociale di evitare la completa dispersione del patrimonio dell’imprenditore
con conseguente impossibilità di soddisfazione dei creditori; tuttavia,
l’impresa che è ammessa a concordato preventivo con continuità aziendale è
impresa che, pur in stato di crisi, è in grado di continuare ad operare sul
mercato proponendo beni e servizi, ed anzi, mediante la continuazione
dell’attività, potenzialmente di rientrare dalla situazione di difficoltà
medio tempore vissuta.
Risponde, allora, all’utilità sociale non già limitarne la sua libertà
contrattuale, ma anzi favorirne il massimo dispiegarsi, per l’acquisizione
di clientela di sicura solvibilità, come è il soggetto pubblico, e, così
giovarsi di denaro da reimpiegare nell’attività di impresa. Per queste
considerazioni, la limitazione all’autonomia privata finisce coll’essere
ingiustificata e in contrasto con il dettato costituzionale.
c) art. 97 Cost., trovando il principio di buon
andamento dell’azione amministrativa attuazione nella materia dei contratti
pubblici con gli obblighi di evidenza pubblica, legislativamente considerati
il mezzo per la selezione del contraente migliore. Rispetto al fondamento
normativo così evidenziato, il divieto posto dall’art. 186–bis, comma 6,
legge fallimentare alla partecipazione ad una procedura di gara del
mandatario in concordato preventivo con continuità aziendale determina una
ingiustificata limitazione del potere di scelta spettante in via generale
alle pubbliche amministrazioni, che non potrà, per questa sola ragione,
contrattare con un’impresa che potrebbe rivelarsi la più qualificata e
capace ad eseguire la commessa (o parte della commessa) posta a gara, e nei
cui confronti gli organi della procedura concorsuale esprimano un giudizio
di compatibilità di tale partecipazione rispetto alla sua situazione
economico-patrimoniale e di convenienza per i creditori
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.06.2019 n. 3938 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'onere
di dimostrare l'epoca di realizzazione di una costruzione grava
sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale –in presenza di
un'opera edilizia sine titulo– ha solo il potere-dovere di sanzionarla e di
adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento demolitorio: in tali
ipotesi, spetta, cioè, al ricorrente fornire prova inconfutabile, ai sensi
degli artt. 63 comma 1, e 64 comma 1, cod. proc. amm., in relazione a
circostanze che rientrano nella sua disponibilità.
---------------
L’ingiunta
misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto e rigorosamente
vincolato, rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale del
confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse
pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello
stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente
di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo,
insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore.
A ripudio, poi, della censura di omessa comunicazione ex art. 7 della l. n.
241/1990, rammenta il Collegio che l’ordinanza di demolizione, per la sua
cennata natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non
implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti
tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di
controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di
quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei
procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione
dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto
dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione
d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile
tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della
l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura
vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente enucleato.
---------------
Al riguardo, giova rammentare che, in omaggio al principio di vicinanza
della prova, l'onere di dimostrare l'epoca di realizzazione di una
costruzione grava sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale –in
presenza di un'opera edilizia sine titulo– ha solo il potere-dovere
di sanzionarla e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento
demolitorio: in tali ipotesi, spetta, cioè, al ricorrente fornire prova
inconfutabile, ai sensi degli artt. 63 comma 1, e 64 comma 1, cod. proc.
amm., in relazione a circostanze che rientrano nella sua disponibilità (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2782/2014; n. 511/2016; TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5212/2017; Salerno,
sez. I, n. 951/2018; Napoli sez. VI, n. 4769/2018);
...
9. Neppure accreditabile è la
censura di deficit motivazionale quanto alla ponderazione tra l’interesse
pubblico alla rimozione e l’antagonista interesse privato alla conservazione
del manufatto contestato (cfr. retro, sub n. 3.b),
Ed invero, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto
dovuto e rigorosamente vincolato, rimane affrancata dalla ponderazione
discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della
res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella
riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito
edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno
per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel
soggetto trasgressore (cfr., ex multis, Cons. Stato, ad. plen., n.
9/2017; sez. IV, n. 3955/2010; sez. V, n. 79/2011; sez. IV, n. 2592/2012;
sez. V, n. 2696/2014; sez. VI, n. 3210/2017; TAR Campania, sez. VI, n.
17306/2010; sez. VII, n. 22291/2010; sez. VIII, n. 4/2011; n. 1945/2011;
sez. III, n. 4624/2016; n. 5973/2016; sez. VI, n. 2368/2017; sez. VIII, n.
2870/2017; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1962/2010; n. 2631/2010; TAR
Piemonte, Torino, sez. I, n. 4164/2010; TAR Lazio, Roma, sez. II, n.
35404/2010; TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 432/2011).
10. A ripudio, poi, della censura di omessa comunicazione ex art. 7 della l.
n. 241/1990 (cfr. retro, sub n. 3.c), rammenta il Collegio che l’ordinanza
di demolizione, per la sua cennata natura di atto urgente dovuto e
rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma
risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto
di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non
richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla
disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva
contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa
dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione
di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione
di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad
una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art.
21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto
adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua
natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis,
Cons. Stato, sez. V, n. 6071/2012; sez. VI, n. 2873/2013; n. 4075/2013; sez.
V, n. 3438/2014; sez. III, n. 2411/2015; sez. VI, n. 3620/2016; TAR
Campania, Napoli, sez. III, n. 107/2015; Salerno, sez. II, n. 69/2015;
Napoli, sez. IV, n. 685/2015; sez. II, n. 1534/2015; Salerno, sez. II, n.
664/2015; n. 1036/2015; Napoli, sez. III, n. 4392/2015; n. 4968/2015; sez.
VIII, n. 1767/2016; sez. IV, n. 4495/2016; n. 4574/2016; sez. III, n.
121/2017; n. 677/2017; sez. VI, n. 995/2017; sez. IV, n. 2320/2017; sez.
VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5967/2017; Salerno, sez. II, n. 24/2018;
Napoli, sez. III, n. 898/2018; n. 1093/2018; sez. IV, n. 1434/2018; n.
1719/2018; n. 2241/2018; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 2098/2015; n.
10829/2015; n. 10957/2015; n. 2588/2016; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n.
1708/2016; n. 1552/2017) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 12.06.2019 n. 981 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una
veranda necessita del rilascio di un permesso di costruire, trattandosi di
opera non precaria perché stabilmente infissa al suolo e tale da
determinare, sotto il profilo edilizio, un aumento di volumetria, oltre che
di superficie e sagoma.
Cosicché del tutto legittima si rivela l'ordinanza di demolizione dell'opera
eseguita in assenza del prescritto titolo edilizio, non essendo
configurabile il più mite trattamento della sanzione pecuniaria di cui
all'art. 37 del d.p.r. n. 380/2001, previsto per la sola ipotesi di
interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA.
---------------
11. Ancora, la ricorrente non può
fondatamente dolersi della circostanza che l’amministrazione comunale non
avrebbe valutato la sussistenza degli estremi applicativi della sanzione
pecuniaria in rapporto alla tipologia di abuso riscontrato (cfr. retro, sub
n. 3.d).
Come osservato, in argomento, dalla Sezione, la realizzazione di una veranda
quale, segnatamente, quella controversa (cfr. documentazione fotografica
depositata in giudizio dal Comune di Cetara in assolvimento dell’incombente
istruttorio impartito con ordinanza collegiale n. 2364 del 28.10.2016)
necessita, infatti, del rilascio di un permesso di costruire, trattandosi di
opera non precaria perché stabilmente infissa al suolo e tale da
determinare, sotto il profilo edilizio, un aumento di volumetria, oltre che
di superficie e sagoma; cosicché del tutto legittima si rivela l'ordinanza
di demolizione dell'opera eseguita in assenza del prescritto titolo
edilizio, non essendo configurabile il più mite trattamento della sanzione
pecuniaria di cui all'art. 37 del d.p.r. n. 380/2001, previsto per la sola
ipotesi di interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA (TAR
Campania, Salerno, sez. II, n. 771/2018; cfr., in tan senso, anche Cons.
Stato, sez. VI, n. 306/2017; n. 1893/2018; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n.
1181/2012; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 3069/2014) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 12.06.2019 n. 981 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Accesso
civico generalizzato possibile su qualsiasi atto riguardante gli appalti
pubblici.
L'accesso civico generalizzato si deve applicare a ogni atto afferente
l'appalto pubblico. Tale forma di accesso non può ritenersi limitata da
norme preesistenti (e non coordinate con il nuovo istituto), come quelle
della legge 241/1090, ma soltanto dalle prescrizioni «speciali» e
interpretabili restrittivamente, che la stessa nuova normativa ha introdotto
al suo interno.
In questi termini l'importante
sentenza 05.06.2019 n. 3780
del Consiglio di Stato, Sez. V.
Il contrasto in giurisprudenza
Il giudice di Palazzo Spada interviene in tema di rapporti tra l'accesso
civico generalizzato e gli atti dell'appalto fornendo un riscontro
condivisibile alla problematica e, al contempo, risolvendo i dubbi sorti
nella giurisprudenza di primo grado.
Il collegio dà conto di due differenti letture della problematica. Secondo
un primo indirizzo i documenti afferenti alle procedure di affidamento ed
esecuzione di un appalto sono esclusivamente sottoposti alla disciplina
prevista dall'articolo 53 del Dlgs 50/2016 e pertanto restano esclusi
dall'accesso civico generalizzato regolato invece dall'articolo 5, comma 2,
del Dlgs 33/2013 (Tar Emilia- Romagna, Parma, n. 197/2018; Tar Lombardia,
Milano, n. 630/2019).
Secondo un diverso orientamento, invece, dovrebbe riconoscersi
l'applicabilità della disciplina dell'accesso civico generalizzato anche
alla materia degli appalti pubblici (da ultimo la sentenza del Tar Lombardia
n. 45/2019).
Per decidere in maniera corretta, quindi, il giudice ritiene che si debba
muovere dalla lettura coordinata e dalla interpretazione funzionale degli
articoli 53 del Dlgs 50/2016, che rinvia alla disciplina prevista
dall'articolo 22 e seguenti della legge n. 241/1990, e dell'articolo 5 bis,
comma 3, Dlgs 33/2013. La disamina parte dal dato oggettivo secondo cui «il
legislatore, attraverso l’introduzione dell’accesso civico generalizzato» ha
inteso consentire l'accesso ai documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, «ulteriori a quelli oggetto di pubblicazione, a “chiunque”,
prescindendo da un interesse manifesto».
Il consiglio di Stato
Condividendo il ragionamento dell'appellante, in sentenza si precisa che
l'articolo 5 bis, comma 3 del Dlgs n. 33/2013, nel momento in cui precisa
che l'accesso civico generalizzato è escluso fra l'altro nei casi previsti
dalla legge «ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti»
intende far riferimento a «specifiche condizioni, modalità e limiti» ma non
a intere «materie».
Se così non fosse, l'obiettivo del legislatore risulterebbe completamente
frustrato con la consenguente esclusione dell'intera materia relativa ai
contratti pubblici «da una disciplina, qual è quella dell’accesso civico
generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio
fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla
Costituzione». Impendendo sul nascere, in questo modo, «quelle forme diffuse
di controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche» che si intende promuovere e alimentare a fini
preventivi di comportamenti patologici.
Le esclusioni ammissibili, dall'ambito di applicabilità dell'accesso civico
generalizzato (come anche emerge dal parere 515/2016 del Consiglio di
Stato), sono solamente quelle stabilite dal legislatore , per esempio
«quelle relative alla politica estera o di sicurezza nazionale», ma al di
fuori di queste situazioni – non estensibili analogicamente – possono
insistere solamente dei «casi» specifici. Situazione non ricorrente nel caso
di specie, trattandosi di appalto a prestazioni «standardizzate» con
richiesta di accesso intervenuta una volta conclusa la procedura di gara e
quindi in assenza di esigenze di tutela della par condicio.
Il collegio, prosegue la sentenza, non ritiene che il richiamo, considerato
invece decisivo dalla giurisprudenza di primo grado, all'articolo 53 del
Codice dei contratti nella parte in cui esso rinvia alla disciplina degli
articoli 22 e seguenti della legge 241/1990 «possa condurre alla generale
esclusione dell’accesso civico della materia degli appalti pubblici».
È evidente che il Dlgs n. 97/2016, successivo sia al codice dei contratti,
sia alla legge n. 241/1990, sconta un mancato coordinamento con quest'ultima
normativa, sul procedimento amministrativo, «a causa del non raro difetto,
sulla tecnica di redazione ed il coordinamento tra testi normativi, in cui
il legislatore incorre».
L'ultimo inciso è che nella richiesta di ostensione (il contratto stipulato
con l'aggiudicataria; i preventivi dettagliati, i collaudi, i pagamenti «con
la relativa documentazione fiscale dettagliata«), la stazione appaltante
dovrà prestare particolare attenzione consentendo l'accesso soltanto alla
documentazione –inclusa quella fiscale– strettamente relativa alla procedura
di gara per cui è richiesto l’accesso civico, e alla esecuzione
dell’appalto»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.06.2019). |
APPALTI: Accesso
civico agli atti di gara da parte di soggetto non concorrente.
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Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Accesso civico su atti di
gara – Da parte di soggetto non concorrente – Possibilità.
L’accesso civico può essere esercitato anche con
riferimento agli atti di gara pubblica da parte di un soggetto che non ha
partecipato alla procedura (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 53 del codice dei contratti
pubblici, come già chiarito, richiama al primo comma la disciplina contenuta
nella l. n. 241 del 1990, mentre nel secondo elenca una serie di
prescrizioni riguardanti il differimento dell’accesso in corso di gara.
L’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, stabilisce, invece che
l’accesso civico generalizzato è escluso fra l’altro nei casi previsti dalla
legge “ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”.
Tale ultima prescrizione fa riferimento, nel limitare tale diritto, a “specifiche
condizioni, modalità e limiti” ma non ad intere “materie”.
Diversamente interpretando, significherebbe escludere l’intera materia
relativa ai contratti pubblici da una disciplina, qual è quella dell’accesso
civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio
fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla
Costituzione.
Entrambe le discipline, contenute nel d.lgs. n. 50 del 2016 e nel d.lgs. n.
33 del 2013, mirano all’attuazione dello stesso, identico principio e non si
vedrebbe per quale ragione, la disciplina dell’accesso civico dovrebbe
essere esclusa dalla disciplina dei contratti pubblici. D’altro canto, il
richiamo contenuto nel primo comma, del citato art. 53 Codice dei contratti,
alla disciplina del c.d. accesso “ordinario” di cui agli artt. 22 e
ss., l. n. 241 del 1990 è spiegabile alla luce del fatto che il d.lgs.
18.04.2016, n. 50 è anteriore al d.lgs. 25.05.2016, n. 67 modificativo del
d.lgs. n. 33 del 2013.
Il d.lgs. 25.05.2016 n. 97, che ha introdotto l’accesso civico novellando
l’art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013, si è dichiaratamente ispirato al cd. “Freedom
of information act” che, nel sistema giuridico americano, ha da tempo
superato il principio dei limiti soggettivi all’accesso, riconoscendolo ad
ogni cittadino, con la sola definizione di un numerus clausus di
limiti oggettivi, a tutela di interessi giuridicamente rilevanti, che sono
appunto precisati nello stesso art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013.
L’intento del legislatore delegato è stato quello di “favorire forme
diffuse di controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, promuovendo così “la
partecipazione al dibattito pubblico”
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.06.2019 n. 3780 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
L’appello è fondato.
In linea generale va premesso che il legislatore, attraverso l’introduzione
dell’accesso civico generalizzato, ha voluto consentire l’accesso ai
documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori a quelli
oggetto di pubblicazione, a “chiunque”, prescindendo da un interesse
manifesto. Tale istituto di portata generale, tuttavia non è esente da
alcune limitazioni rinvenibili sia in quanto stabilito nell’art. 5-bis,
commi 1 e 2, del d.lgs. n. 33/2013, sia nella scelta del legislatore di far
rimanere in vita gli artt. 22 e ss. della l. 241/1990 relativi all’accesso
c.d. “ordinario”.
Nella fattispecie in esame la richiesta di accesso civico generalizzato
riguarda gli atti di una procedura di gara ormai definita; in particolare il
Consorzio ha chiesto l’ostensione dei seguenti documenti: la documentazione
dei singoli atti della procedura; il contratto stipulato con
l’aggiudicataria; i preventivi dettagliati, i collaudi, i pagamenti “con la
relativa documentazione fiscale dettagliata”.
In casi del genere si tratta
di stabilire se l’art. 53 del codice dei contratti il quale stabilisce “il
diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione
dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è
disciplinato dagli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241”
possa condurre alla esclusione della disciplina dell’accesso civico ai sensi
del comma 3 dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 33/2013, ai sensi del quale “il
diritto di cui all’art. 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e
negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge,
ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente
al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di
cui all’art. 24, comma 1, della l. 241/1990”.
La giurisprudenza amministrativa formatasi innanzi ai TAR, sul punto non è
univoca registrandosi diversi orientamenti.
Secondo un primo indirizzo i documenti afferenti alle procedure di
affidamento ed esecuzione di un appalto sono esclusivamente sottoposti alla
disciplina di cui all’art. 53 d.lgs. 50/2016 e pertanto restano esclusi
dall’accesso civico c.d. generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs.
33/2013 (TAR Emilia- Romagna, Parma, n. 197/2018; TAR Lombardia, Milano,
I, n. 630/2019).
Secondo un diverso orientamento, di contro, dovrebbe riconoscersi
l’applicabilità della disciplina dell’accesso civico generalizzato anche
alla materia degli appalti pubblici (da ultimo, TAR Lombardia, sez. IV,
n. 45/2019).
Ritiene il Collegio che ai fini di una corretta decisione, si debba muovere
dalla lettura coordinata e dalla interpretazione funzionale degli art. 53
d.lgs. 50/2016, che rinvia alla disciplina di cui all’art. 22 e seguenti
della legge n. 241/1990, e dell’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. 33/2013.
L’art. 53 del codice dei contratti pubblici, come già chiarito, richiama al
primo comma la disciplina contenuta nella l. 241/1990, mentre nel secondo
elenca una serie di prescrizioni riguardanti il differimento dell’accesso in
corso di gara. L’art. 5-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33/2013, stabilisce,
invece che l’accesso civico generalizzato è escluso fra l’altro nei casi
previsti dalla legge “ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato
dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o
limiti”.
Come correttamente ritenuto da parte appellante, tale ultima prescrizione fa
riferimento, nel limitare tale diritto, a “specifiche condizioni, modalità e
limiti” ma non ad intere “materie”. Diversamente interpretando,
significherebbe escludere l’intera materia relativa ai contratti pubblici da
una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a
garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di
trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione. Entrambe le
discipline, contenute nel d.lgs. 50/2016 e nel d.lgs. 33/2013, mirano
all’attuazione dello stesso, identico principio e non si vedrebbe per quale
ragione, la disciplina dell’accesso civico dovrebbe essere esclusa dalla
disciplina dei contratti pubblici. D’altro canto, il richiamo contenuto nel
primo comma, del citato art. 53 Codice dei contratti, alla disciplina del
c.d. accesso “ordinario” di cui agli artt. 22 e ss. della l. 241/1990 è
spiegabile alla luce del fatto che il d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è
anteriore al d.lgs. 25.05.2016, n. 67 modificativo del d.lgs. 33/2013.
Il d.lgs. 25.05.2016 n. 97, che ha introdotto l’accesso civico
novellando l’art. 5 d.lgs. n. 33/2013, si è dichiaratamente ispirato al cd.
“Freedom of information act” che, nel sistema giuridico americano, ha da
tempo superato il principio dei limiti soggettivi all’accesso,
riconoscendolo ad ogni cittadino, con la sola definizione di un “numerus clausus” di limiti oggettivi, a tutela di interessi giuridicamente
rilevanti, che sono appunto precisati nello stesso art. 5, co. 2, d.lgs. n.
33/2013.
L’intento del legislatore delegato è stato quello di “favorire forme diffuse
di controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche”, promuovendo così “la partecipazione al dibattito
pubblico”.
La “ratio” dell’intervento è stata declinata in tutte le sue implicazioni da
questo Consiglio di Stato (cfr. Commiss. Speciale 24.02.2016 n. 515)
il quale, nell’esprimere il proprio parere favorevole sullo schema di
decreto legislativo, ha apprezzato, tra gli altri, due aspetti, che assumono
rilevanza ai fini della presente decisione:
A) Il primo aspetto, cioè la già sottolineata limitazione soltanto oggettiva
dell’accesso civico, comporta che, oltre alle specifiche “materie” sottratte
–ad esempio quelle relative alla politica estera o di sicurezza nazionale–
vi possono essere “casi” in cui, per una materia altrimenti compresa per
intero nella possibilità di accesso, norme speciali (ovvero l’art. 24, co. 1, L. 241/1990) possono prevedere “specifiche condizioni, modalità e limiti”.
Deriva da tale principio anzitutto che l’ambito delle materie sottratte
debba essere definito senza possibilità di estensione o analogia
interpretativa.
In secondo luogo, dal medesimo principio –ricavabile dalla testuale
interpretazione dell’art. 5-bis, co. 3, d.lgs. n. 33/2013 come novellato–
discende la regola, ben chiara ad avviso del Collegio, per cui, ove non si
ricada in una “materia” esplicitamente sottratta, possono esservi solo
“casi” in cui il legislatore pone specifiche limitazioni, modalità o limiti.
Non ritiene il Collegio che il richiamo, ritenuto decisivo dal primo
giudice, all’art. 53 del “Codice dei contratti” nella parte in cui esso
rinvia alla disciplina degli artt. 22 e seguenti della l. 241/1990, possa
condurre alla generale esclusione dell’accesso civico della materia degli
appalti pubblici.
E’ evidente che il citato d.lgs. n. 97/2016, successivo sia al “Codice dei
contratti” che –ovviamente– alla legge n. 241/90, sconta un mancato
coordinamento con quest’ultima normativa, sul procedimento amministrativo, a
causa del non raro difetto, sulla tecnica di redazione ed il coordinamento
tra testi normativi, in cui il legislatore incorre.
Non può, dunque, ipotizzarsi una interpretazione “statica” e non
costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti in materia di
accesso allorché, intervenuta la disciplina del d.lgs 97/2016, essa non
risulti correttamente coordinata con l’art. 53 codice dei contratti e con la
ancor più risalente normativa generale sul procedimento: sarebbe questa,
opinando sulla scia della impugnata sentenza, la strada per la preclusione
dell’accesso civico ogniqualvolta una norma di legge si riferisca alla
procedura ex artt. 22 e seguenti L. 241/1990.
Ritiene, viceversa, il Collegio, che una interpretazione conforme ai canoni
dell’art. 97 Cost. debba valorizzare l’impatto “orizzontale” dell’accesso
civico, non limitabile da norme preesistenti (e non coordinate con il nuovo
istituto), ma soltanto dalle prescrizioni “speciali” e interpretabili restrittivamente, che la stessa nuova normativa ha introdotto al suo
interno.
B) Il secondo aspetto, che il citato parere Comm. Speciale 515/2016 di
questo Consiglio ha sottolineato, e che risulta utile ai fini della presente
decisione, è che la normativa sull’accesso civico non ha certo regolato
positivamente il diritto di chiunque ad accedere agli atti per mera
curiosità o per accaparrarsi dati sensibili a lui utili relativi ad ambiti
di una impresa concorrente e coperti dalla ordinaria “segretezza aziendale”.
Proprio con riferimento alle procedure di appalto, la possibilità di accesso
civico, una volta che la gara sia conclusa e viene perciò meno la tutela
della “par condicio” dei concorrenti, non risponde soltanto ai canoni
generali di “controllo diffuso sul perseguimento dei compiti istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 5, co. 2, cit. d.lgs. 33).
Vi è infatti, a rafforzare in materia l’ammissibilità dell’accesso civico,
una esigenza specifica e più volte riaffermata nell’ordinamento statale ed
europeo, e cioè il perseguimento di procedure di appalto trasparenti anche
come strumento di prevenzione e contrasto della corruzione.
Il richiamato parere n. 515/2016, con argomenti che trovano nella materia
degli appalti un terreno privilegiato, ha correttamente osservato:
“La trasparenza si pone come un valore-chiave, in grado di poter risolvere
uno dei problemi di fondo della pubblica amministrazione italiana: quello di
coniugare garanzie ed efficienza nello svolgimento dell’azione
amministrativa. Tale valore può essere riguardato […] come modo d’essere
tendenziale dell’organizzazione dei pubblici poteri […].
In altri termini, se l’interesse pubblico –inteso tecnicamente come “causa”
dell’atto e del potere amministrativo– non può più essere rigidamente
predeterminato e imposto, ma costituisce in concreto la risultante di un
processo di formazione cui sono chiamati a partecipare sempre più
attivamente i componenti della comunità, occorre anche “rendere visibile” il
modo di formazione dell’interesse medesimo, i soggetti che vi concorrono […]
nonché rendere conoscibili i dati di base, i presupposti da cui si muove, i
modi di esercizio del potere, ivi comprese le risorse utilizzate”.
Tali principi trovano, sempre in materia, significativa conferma nella
posizione chiara della Commissione Europea, che nella relazione concernente
il contrasto alla corruzione in ogni ambito, sottolinea la necessità che
l’ordinamento italiano promuova la trasparenza in ogni ambito, e
particolarmente negli appalti pubblici “prima” ma anche “dopo
l’aggiudicazione”.
A tali linee, poi, si è ispirato il Piano Nazionale Anticorruzione, proprio
a partire dal 2016, anno di entrata in vigore del d.lgs. introduttivo
dell’accesso civico.
Dal richiamo, sub A) e B) a principi generali ormai applicabili
necessariamente a tutti i settori e materie –salve le specifiche esclusioni- dell’azione delle pubbliche amministrazioni, deriva che, contrariamente a
quanto stabilito dalla sentenza appellata, l’appellante abbia diritto ad
accedere agli atti della procedura di appalto a cui non ha partecipato, per
le ragioni che seguono in rapporto agli specifici ostacoli preclusivi posti
dalla resistente A.S.L. di Parma:
1) Del tutto privo di pregio è il riferimento alla asserita “voluminosità”
della documentazione di gara. Anzitutto perché l’appellante ha richiesto di
accedere ad una specifica procedura, e poi perché il riferimento a disagi e
lunghe tempistiche per l’ostensione degli atti configura proprio quel
tentativo di “opaca schermatura”, nascosto dietro non dimostrati disagi
pratici, che l’accesso civico ha inteso eliminare per sempre;
2) La natura degli atti da esibire, consistenti perlopiù nella
documentazione amministrativa e contabile, incluse le fatture pagate
all’aggiudicatario, esclude qualsiasi compromissione di segreti del processo
industriale della società che esegue l’appalto.
Per quanto riguarda gli importi liquidati all’esecutore dell’appalto, si
tratta di dati che devono essere resi pubblici dalle stazioni appaltanti,
sicché altrettanto ostensibili devono ritenersi i documenti contabili da cui
si ricavano gli importi stessi.
Infine, osserva il Collegio, che l’oggetto dell’appalto in questione si
configura come prestazione standardizzata e altamente ripetitiva, giacché
nella realtà contemporanea la manutenzione e riparazione dei veicoli avviene
con tecniche ed interventi che ciascuna ditta produttrice del veicolo indica
con puntualità, a partire dai “libretti di manutenzione” consegnati all’atto
della vendita.
Pertanto, nessun –dimostrato o ipotizzabile– vulnus a segreti commerciali
o industriali può prodursi nella concreta fattispecie all’esame del
Collegio.
Resta, ovviamente, la cautela che l’Amministrazione dovrà esercitare con
specifico riferimento alla “documentazione fiscale” della società
aggiudicataria, avendo riguardo l’ostensione consentita soltanto alla
documentazione -inclusa quella fiscale– strettamente relativa alla
procedura di gara per cui è richiesto l’accesso civico, e alla esecuzione
dell’appalto affidata al Consorzio aggiudicatario.
Conclusivamente, in relazione alle considerazioni svolte, deve essere
accolto l’appello, con la conseguente doverosa ostensione, da parte
dell’Amministrazione, della documentazione di gara e della fase esecutiva
dell’appalto aggiudicato, per la procedura di gara in questione. |
EDILIZIA PRIVATA: L'onere
di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe
sull'interessato, e non sull'amministrazione che, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo idoneo che la legittimi, ha solo il
potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge, e di adottare, ove ricorrano
i presupposti, il provvedimento di demolizione.
Pertanto, spetta a chi agisce in giudizio fornire gli elementi probatori a
favore della propria tesi: è dunque onere del privato fornire la prova dello
status quo ante, atteso che l'amministrazione non può, di solito,
materialmente accertare quale fosse la situazione all'interno del suo
territorio.
Detto in altri termini, chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su
immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare
le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza.
---------------
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
In primo luogo, con riferimento al fabbricato rurale, parte ricorrente
sostiene che lo stesso è stato realizzato negli anni ‘20 sicché il Comune
non avrebbe dovuto rigettare l’istanza proposta, ma al più dichiarare la
inammissibilità per insussistenza del presupposto della abusività del
manufatto.
L’assunto non può essere accolto in assenza di dimostrazione alcuna circa
l’epoca di realizzazione del manufatto, il cui onere incombeva
sull’interessato.
L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio
incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione che, in presenza di
un'opera edilizia non assistita da un titolo idoneo che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge, e di adottare, ove
ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione. Pertanto, spetta a
chi agisce in giudizio fornire gli elementi probatori a favore della propria
tesi: è dunque onere del privato fornire la prova dello status quo ante,
atteso che l'amministrazione non può, di solito, materialmente accertare
quale fosse la situazione all'interno del suo territorio.
Detto in altri termini, chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su
immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare
le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 05.06.2019 n. 940 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per l’identificazione dei volumi tecnici
va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo
sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con
l’utilizzo della costruzione.
Il secondo e il terzo hanno carattere negativo e sono collegati:
all’impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse all'interno
della parte abitativa, per cui tali volumi devono essere ubicati solo
all’esterno; ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze
edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli impianti serventi
della costruzione principale e devono essere completamente privi di una
propria autonomia funzionale, anche solo potenziale.
---------------
Non colgono nel segno neppure le censure con cui parte ricorrente ritiene
che, quanto all’opificio artigianale, le relative opere possono essere
qualificate come volumi tecnici.
Come già rilevato di recente dalla Sezione (sent.1042/2018), la definizione
dei volumi tecnici si rinviene nella circolare dell’allora Ministero dei
Lavori pubblici n. 2474 del 1973, secondo cui si tratta dei volumi «strettamente
necessari a contenere e a consentire l’accesso di quelle parti degli
impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine,
di ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze tecniche di funzionalità
degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio
realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche».
La circolare precisa che la definizione «può trovare applicazione
soltanto nei casi in cui i volumi tecnici non siano diversamente definiti o
disciplinati dalle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune» e che,
in ogni caso, la loro sistemazione «non deve costituire pregiudizio per
la validità estetica dell’insieme architettonico»,
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, da quale non vi è motivo
per discostarsi (TAR Napoli n. 3490/2015 e n. 4132/2013; Consiglio di Stato,
sezione VI, sentenza n. 175/2015 e n. 1512/2014; Consiglio di giustizia
amministrativa, sentenza n. 207/2014), per l’identificazione dei volumi
tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo
sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con
l’utilizzo della costruzione. Il secondo e il terzo hanno
carattere negativo e sono collegati: all’impossibilità di elaborare
soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui
tali volumi devono essere ubicati solo all’esterno; ad un rapporto di
necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono
limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e
devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche
solo potenziale.
Nella specie, i presupposti su indicati non risultano affatto dimostrati dal
ricorrente.
In definitiva, il provvedimento impugnato sfugge alle censure rassegnate nel
ricorso, il quale deve essere rigettato
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 05.06.2019 n. 940 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La qualifica di pertinenza urbanistica è
applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie
rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici "et
similia", ma non anche a opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non
siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti
possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
I giudici d’appello hanno puntualizzato che <<La
giurisprudenza di questo Consiglio è costante nel ritenere
che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza,
ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una
pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva
esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito
al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore
di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la
creazione di un "nuovo volume". Nell'ordinamento statale,
infatti, vige il principio generale per il quale occorre il
rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente
efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto
edilizio": salva una diversa normativa regionale o comunale,
ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia
realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore
rispetto a quella già occupata dal precedente edificio,
ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una
tettoia, che ne alteri la sagoma>>.
Questo TAR ha statuito che, “sulla base di un consolidato
insegnamento giurisprudenziale:
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole,
oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa cui esso inerisce;
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione
civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito
di un autonomo valore di mercato e non comporta un
cosiddetto carico urbanistico”.
Altresì, si è precisato che “il carattere pertinenziale
rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le
seguenti coordinate identificative:
- opere che non comportino un nuovo volume;
- opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così
come definito ai fini urbanistici …)”.
---------------
Le ricorrenti censurano l’ordine di demolizione del
manufatto abusivo realizzato in aderenza al capannone
industriale preesistente.
1. Osserva il Collegio che la qualifica di pertinenza
urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità
e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad
esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti
tecnologici "et similia", ma non anche a opere che,
dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si
connotino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa,
tale cioè che non ne risulti possibile alcuna diversa
utilizzazione economica (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI –
10/11/2017 n. 5180 e l’ampia giurisprudenza citata).
Nella menzionata pronuncia i giudici d’appello hanno
puntualizzato che <<La giurisprudenza di questo Consiglio
è costante nel ritenere che, a differenza della nozione
civilistica di pertinenza, ai fini edilizi il manufatto può
essere considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio
principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è
anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide
sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo
volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.).
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio
generale per il quale occorre il rilascio della concessione
edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando
si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI, 24
luglio 2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale
o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad
es. una tettoia, che ne alteri la sagoma>>.
1.1 Questo TAR (cfr. sez. I – 29/11/2018 n. 1141) ha
statuito che, “sulla base di un consolidato insegnamento
giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
26.08.2014 n. 4290; nonché TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
21.09.2018 nn. 884 e 887; 22.01.2018 n. 22; 11.12.2017 n.
1425):
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole,
oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa cui esso inerisce (Cons. Stato, sez. IV,
02.02.2012 n. 615);
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione
civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito
di un autonomo valore di mercato e non comporta un
cosiddetto carico urbanistico (Cons. Stato, sez. V,
31.12.2008 n. 6756 e 13.06.2006 n. 3490)”.
La stessa pronuncia ha poi precisato che “il carattere
pertinenziale rilevante ai fini urbanistici transita
attraverso le seguenti coordinate identificative:
- opere che non comportino un nuovo volume;
- opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così
come definito ai fini urbanistici …)” (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' necessario il permesso di costruire "per la
realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano,
comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora
le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano,
inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile
alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui
vengono inserite".
Invero:
- "Una tettoia ancorata al suolo e di notevole dimensioni è idonea
ad alterare lo stato dei luoghi in modo non transitorio;
trattasi, quindi, di una nuova costruzione necessitante di
titolo edilizio";
- "La tettoia necessita di un idoneo titolo allorché esula dai
minimi contenuti che può avere un piccolo riparo aperto da
tre lati, sì che essa costituisce spazio edificabile a tutti
gli effetti quando viene realizzato un vero e proprio
ambiente fruibile in via continuativa";
- "Una tettoia avente carattere di stabilità e idonea ad una
utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerata
una mera pertinenza, non può ricadere nell'ambito
dell'attività edilizia libera, costituendo un'opera esterna
per la cui realizzazione occorre un idoneo titolo edilizio.
Alla medesima conclusione si può addivenire anche tenendo
ferma la natura pertinenziale del manufatto, considerata
l'idoneità di questo ad incidere sull'assetto edilizio
preesistente".
Altresì, “la realizzazione di tettoie, peraltro di non
ridotte dimensioni come nel caso della tettoia in legno
annessa al fabbricato, comportando trasformazione edilizia
del territorio (ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), del
D.P.R. n. 380 del 2001), si caratterizza quale intervento di
nuova costruzione a tutti gli effetti, con ogni conseguenza
in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di
rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve
pertanto essere individuato nel permesso di costruire: la
mancanza del previo permesso legittima, quindi,
l'applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31
del D.P.R. n. 380 del 2001, la quale costituisce atto dovuto
per l'amministrazione comunale. Né è invocabile
l'applicabilità, per la tettoia in questione, del sistema
sanzionatorio contemplato dall'art. 34 del D.P.R. n. 380 del
2001, caratterizzato dall'eventuale comminatoria della
sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione, giacché
tale sistema si attaglia propriamente agli interventi
eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire,
mentre nella specie si tratta di opera posta in essere in
totale assenza di permesso di costruire”.
---------------
Il porticato chiuso su due lati reca un incremento della
volumetria dell'immobile, e per questo è ascrivibile alla
categoria della nuova costruzione soggetta a permesso di
costruire ed al relativo regime sanzionatorio.
Invero:
- "Un porticato terrazzato chiuso lateralmente su due lati e
destinato ad ospitare arredi fissi configura un organismo
edilizio avente natura e consistenza tali da ampliare in
superficie o volume l'edificio preesistente e, pertanto, per
la sua realizzazione è necessario ottenere un permesso di
costruire";
- "Un porticato, per il suo carattere trasformativo ed innovativo
rispetto a quello manutentivo e conservativo, comporta un
manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali
utilizzati, idoneo con riguardo al tipo di copertura ed alla
presenza del parapetto a svolgervi varie attività della vita
quotidiana, in quanto tale comportante nuova volumetria,
nuova superficie utile e quindi, per la sua realizzazione,
il previo rilascio del permesso di costruire in mancanza del
quale costituisce abuso edilizio".
---------------
2. Prendendo in specifica considerazione le “tettoie”,
si è di recente precisato che è necessario il permesso di
costruire <<"per la realizzazione di tettoie o di altre
strutture che siano, comunque, apposte a parti di
preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del
carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali
da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle
parti dello stesso su cui vengono inserite" (TAR
Campania-Napoli, Sez. III, 29/05/2018, n. 3545); "Una
tettoia ancorata al suolo e di notevole dimensioni è idonea
ad alterare lo stato dei luoghi in modo non transitorio;
trattasi, quindi, di una nuova costruzione necessitante di
titolo edilizio" (TAR Piemonte, Sez. II, 09/05/2018, n.
550); "La tettoia necessita di un idoneo titolo allorché
esula dai minimi contenuti che può avere un piccolo riparo
aperto da tre lati, sì che essa costituisce spazio
edificabile a tutti gli effetti quando viene realizzato un
vero e proprio ambiente fruibile in via continuativa" (TAR
Liguria, Sez. I, 10/04/2018, n. 310); "Una tettoia avente
carattere di stabilità e idonea ad una utilizzazione
autonoma, oltre a non poter essere considerata una mera
pertinenza, non può ricadere nell'ambito dell'attività
edilizia libera, costituendo un'opera esterna per la cui
realizzazione occorre un idoneo titolo edilizio. Alla
medesima conclusione si può addivenire anche tenendo ferma
la natura pertinenziale del manufatto, considerata
l'idoneità di questo ad incidere sull'assetto edilizio
preesistente" (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 11/01/2018, n.
40)>> (TAR Campania Salerno, sez. II – 02/01/2019 n. 1).
2.1 Secondo TAR Campania-Napoli, sez. II – 19/02/2019 n.
933, “la realizzazione di tettoie, peraltro di non
ridotte dimensioni come nel caso della tettoia in legno
annessa al fabbricato, comportando trasformazione edilizia
del territorio (ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), del
D.P.R. n. 380 del 2001), si caratterizza quale intervento di
nuova costruzione a tutti gli effetti, con ogni conseguenza
in termini di incidenza sui parametri urbanistici e di
rilascio del corrispondente titolo abilitativo, che deve
pertanto essere individuato nel permesso di costruire: la
mancanza del previo permesso legittima, quindi,
l'applicazione della sanzione demolitoria ex art. art. 31
del D.P.R. n. 380 del 2001, la quale costituisce atto dovuto
per l'amministrazione comunale (cfr. TAR Campania Napoli,
Sez. IV, 14.09.2016 n. 4310; TAR Campania Napoli, Sez. III,
28.04.2016 n. 2167). Né è invocabile l'applicabilità, per la
tettoia in questione, del sistema sanzionatorio contemplato
dall'art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, caratterizzato
dall'eventuale comminatoria della sanzione pecuniaria
sostitutiva della demolizione, giacché tale sistema si
attaglia propriamente agli interventi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire, mentre nella specie si
tratta di opera posta in essere in totale assenza di
permesso di costruire”.
3. Contrariamente a quanto opinato dalla parte ricorrente,
l’ampia tettoia avente copertura metallica con pannelli
coibentati in lamiera non è assimilabile a una mera
pertinenza del fabbricato principale abusivo, configurandosi
invece come un manufatto autonomo e impattante il quale,
comportando una trasformazione del territorio, necessitava
del preventivo rilascio del permesso di costruire.
3.1 Ad avviso del Collegio, sotto il profilo
quantitativo/dimensionale si configura una costruzione di
rilevanti dimensioni (244,59 mq. nella prospettazione di
parte ricorrente) che occupa una vasta superficie (lunghezza
tra 8,50 e 9,30 metri, profondità di 9,30 metri, altezza di
7 metri – cfr. relazione tecnica degli esponenti di cui al
doc. 4) ed è per questo idonea a modificare in maniera
sensibile l'esistente assetto territoriale. La relazione
evocata dà conto del suo utilizzo per attività di carico e
scarico della merce prodotta e depositata, per cui è
percepibile un oggettivo collegamento funzionale tra il
manufatto e l'edificio principale; l’opera, tuttavia, non ha
natura precaria essendo stabilmente ancorata al suolo e
addossata al capannone, incrementa il carico urbanistico in
maniera incisiva, ed è dotata di un valore di mercato non
esiguo.
3.2 Il porticato risulta, oltretutto, chiuso su due lati,
recando un incremento della volumetria dell'immobile, e per
questo è ascrivibile alla categoria della nuova costruzione
soggetta a permesso di costruire ed al relativo regime
sanzionatorio: come ha rammentato TAR Calabria Catanzaro,
sez. II – 06/03/2019 n. 500 <<"Un porticato terrazzato
chiuso lateralmente su due lati e destinato ad ospitare
arredi fissi configura un organismo edilizio avente natura e
consistenza tali da ampliare in superficie o volume
l'edificio preesistente e, pertanto, per la sua
realizzazione è necessario ottenere un permesso di
costruire" (TAR Salerno, Sez. II, 13.03.2018 n. 386); in
senso conforme TAR Catanzaro, Sez. I, 10.11.2012 n. 1087);
"Un porticato, per il suo carattere trasformativo ed
innovativo rispetto a quello manutentivo e conservativo,
comporta un manufatto del tutto nuovo per consistenza e
materiali utilizzati, idoneo con riguardo al tipo di
copertura ed alla presenza del parapetto a svolgervi varie
attività della vita quotidiana, in quanto tale comportante
nuova volumetria, nuova superficie utile e quindi, per la
sua realizzazione, il previo rilascio del permesso di
costruire in mancanza del quale costituisce abuso edilizio"
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.10.2010 n. 7481)>> (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, "Per giustificare
l'ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente
l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate,
in modo da consentire al destinatario della sanzione di
rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando
dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in
particolare anche la descrizione precisa della superficie
occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere
confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione;
elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla
successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio
comunale".
Non risulta perciò necessaria una specifica motivazione
sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso
l'acquisizione e l'individuazione dell'area oggetto di
ablazione del diritto di proprietà dell'interessato può
evincersi anche dalla descrizione degli interventi
sanzionati, salvo che la superficie da acquisire sia
maggiore di quella coincidente con il sedime delle opere
abusive, nel qual caso l'individuazione di un'area ulteriore
da acquisire deve essere puntuale e giustificata
dall'indicazione delle opere necessarie ai fini
urbanistici-edilizi.
Secondo il prevalente e condivisibile indirizzo della
giurisprudenza amministrativa, <<l’indicazione dell’area di
sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a
quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non
deve considerarsi requisito dell'ordinanza di demolizione -e
dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché
siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto
provvedimento con cui l'Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto.
Trattasi, quindi, "di precisazione che l'Amministrazione è
tenuta a fare in seguito, ovvero all'atto dell'adozione
(eventuale) del successivo provvedimento di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale">>.
---------------
5. Sulla questione dell’area di sedime, come ha sottolineato
TAR Toscana, sez. III – 11/03/2019 n. 343, <<Per
giurisprudenza costante, "Per giustificare l'ingiunzione di
demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica
descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal
contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in
particolare anche la descrizione precisa della superficie
occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere
confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione;
elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla
successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio
comunale" (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 31.07.2017, n.
4013; in senso analogo T.A.R. Campania Napoli Sez. II,
21.07.2017, n. 3888; TAR Campania Salerno Sez. I,
20.07.2017, n. 1252). Non risulta perciò necessaria una
specifica motivazione sulle ragioni di interesse pubblico
perseguite attraverso l'acquisizione e l'individuazione
dell'area oggetto di ablazione del diritto di proprietà
dell'interessato può evincersi anche dalla descrizione degli
interventi sanzionati (TAR Lazio, sez. II, 08/10/2018, n.
9799), salvo che la superficie da acquisire sia maggiore di
quella coincidente con il sedime delle opere abusive, nel
qual caso l'individuazione di un'area ulteriore da acquisire
deve essere puntuale e giustificata dall'indicazione delle
opere necessarie ai fini urbanistici-edilizi (Cons. St.,
sez. VI, 05.04.2013 n. 1881; TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
29.11.2018, n. 1141; TAR Campania, Napoli, sez. VII,
10.01.2014 n. 159)>>.
5.1 Secondo il prevalente e condivisibile indirizzo della
giurisprudenza amministrativa, <<l’indicazione dell’area
di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe
a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non
deve considerarsi requisito dell'ordinanza di demolizione -e
dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché
siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto
provvedimento con cui l'Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto (Tar
Puglia Lecce, III, 15.12.2011, n. 2172; Tar Puglia Lecce,
III, 28.07.2011, n. 1461)" (TAR Puglia, Sezione Terza,
27.03.2012, n. 558; in termini, Consiglio di Stato, Sezione
Q., 26.09.2008, n. 4659; TAR Campania, Napoli, Sezione
Seconda, 20.04.2009, n. 2035; TAR Campania, Napoli, Sezione
Sesta, 04.12.2013, n. 5509 e giurisprudenza ivi citata -
"TAR Napoli Campania sez. II, 06.09.2013, n. 4199; v.,
anche, TAR Napoli Campania sez. VI, 04.07.2013, n. 3492; Tar
Campania, ... sesta sezione, 16.06.2011, n. 3194,
11.05.2011, n. 2624; Tar Lazio, Roma, sez. I, 07.03.2011, n.
2031; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2809")"
(TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 27.06.2018, n. 1075).
Trattasi, quindi, "di precisazione che l'Amministrazione è
tenuta a fare in seguito, ovvero all'atto dell'adozione
(eventuale) del successivo provvedimento di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale">> (TAR Puglia Lecce,
sez. III – 19/11/2018 n. 1710, che richiama sez. III –
27/06/2018 n. 1075) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
manufatto costituito da una struttura in legno e teli in pvc che interessa
una superficie complessiva di circa 90 mq., per le sue dimensioni,
obiettivamente rilevanti, e per la funzione a servizio stabile e duraturo di
un’attività commerciale (la cui superficie viene di fatto estesa) non può,
stante l’assenza dei requisiti della precarietà e della facile amovibilità,
in ogni caso rientrare nella categoria della cosiddetta “edilizia libera”,
integrando, per contro, un intervento di ristrutturazione edilizia,
necessitante, come tali, del permesso di costruire.
---------------
Considerato che:
- con il ricorso introduttivo del presente giudizio la società
Fa.Gl. S.r.l. –titolare dell’attività di ristorazione e somministrazione di
alimenti svolta alla via dei ... n. 5-5/A, angolo piazza ... n. 27, in
Ostia, a seguito dell’acquisto dalla società Le Du. S.r.l. della relativa
azienda– ha agito per l’annullamento del provvedimento prot. n. 23886 del
14.02.2019, con il quale l’amministrazione comunale di Roma Capitale ha
rigettato la domanda di accertamento di conformità presentata per la
sanatoria della struttura insistente sull’area di pertinenza del suddetto
esercizio, unitamente agli altri atti in epigrafe indicati;
...
Ritenuto che:
- il ricorso non merita accoglimento;
- il manufatto in questione, costituito da una struttura in legno e
teli in pvc che, come emerge dalla stessa relazione tecnica allegata alla
domanda di accertamento di conformità, interessa una superficie complessiva
di circa 90 mq., per le sue dimensioni, obiettivamente rilevanti, e per la
funzione a servizio stabile e duraturo di un’attività commerciale (la cui
superficie viene di fatto estesa) non può, stante l’assenza dei requisiti
della precarietà e della facile amovibilità, in ogni caso rientrare,
contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, nella categoria della
cosiddetta “edilizia libera”, integrando, per contro, un intervento
di ristrutturazione edilizia, necessitante, come tali, del permesso di
costruire (cfr., ex multis, TAR Lazio, II-bis, n. 4030 del 2019);
- i riferimenti di parte ricorrenti agli orientamenti del Giudice
d’Appello specificamente indicati si palesano non pertinenti, non venendo
nel caso che ne occupa in rilievo una struttura caratterizzata dalla
presenza di lamelle in alluminio retrattili bensì dalla sussistenza di
consistenti travi e degli altri elementi che emergono dalle produzioni
versate in atti dalla stessa difesa della ricorrente;
- legittimamente e doverosamente, dunque, l’amministrazione ha
adottato le determinazioni impugnate, non sussistendo lacune né sul piano
istruttorio né motivazionale, avendo l’amministrazione esplicitato le
ragioni poste a fondamento delle stesse, sottolineando, tra l’altro, che
l'intervento edilizio interessa un’area inclusa nell'ambito di
valorizzazione della Città storica - D1 Ostia Lido, di cui all'art. 43,
paragrafo 3 delle N.T.A. del P.R.G. vigente, ai sensi del quale: "Ad
attuazione diretta sono consentiti gli interventi di MO, MS, RC, RE, come
definiti dall'art. 9, senza aumento di SUL e senza cambiamento di
destinazione d'uso, se non all'interno della stessa funzione e senza aumento
del carico urbanistico", dovendosi, dunque, escludere l’ammissibilità
dell’ampliamento in considerazione;
- alla luce di quanto sopra esposto, neppure meritano accoglimento
le deduzioni dirette a contestare la violazione delle garanzie di
partecipazione procedimentale, trovando applicazione le previsioni di cui
all’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, giacché le
determinazioni dell’amministrazione non avrebbero, comunque, potuto essere
differenti da quelle in concreto adottate
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 03.06.2019 n. 7151 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Il
TAR Lazio boccia i compensi minimi per i componenti delle commissioni di
gara.
Annullato il Dm 12.02.2018 con cui il ministero ha
determinato i compensi dei componenti delle commissioni giudicatrici.
Con la
sentenza 31.05.2019 n. 6926, che fa seguito alle ordinanze
cautelari del 02.08.2018 con le quali lo aveva sospeso, il TAR Lazio-Roma,
Sez. I, riconosce le ragioni dei Comuni e cancella il compenso minimo.
Le regole
L'articolo 77, comma 10, del Codice dei contratti rinvia a un decreto del
Mit, di concerto col Mef e sentita l'Anac, l'onere di determinare la tariffa
di iscrizione all'albo e il compenso massimo per i commissari. Onere assolto
con il Dm 12.02.2018 che ha stabilito in 168 euro la tariffa annuale di
iscrizione all'albo e fissato i compensi spettanti ai componenti delle
commissioni con riferimento all'oggetto del contratto e all'importo posto a
base di gara, entro i limiti minimo e massimo stabilito nell'allegato A, con
incremento del 5% per il presidente e con esclusione dei rimborsi di spese.
Contro i compensi minimi è scattata la reazione dei piccoli Comuni,
interessati soprattutto alle gare con importi meno elevati, per le quali il
Dm riconosce ai commissari compensi tutt'altro che simbolici, per questo
difficilmente sostenibili con i propri bilanci. L'allegato al decreto,
infatti, prevede un compenso minimo che va da 3mila a 8mila euro, da
riconoscere nei tre casi previsti: appalti o concessioni di lavori con
importo a base di gara inferiore o pari a 20 milioni di euro; appalti e
concessioni di servizi e appalti di forniture per importo inferiore o pari a
1 milione di euro; appalti di servizi di ingegneria e di architettura per
importo inferiore a 200mila euro.
Le sospensive
Con le ordinanze nn. 4717, 4716, 4715, 4713 e 4710 del 2 agosto scorso (si
veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 agosto) il Tar Lazio
ha accolto le preoccupazioni dei sindaci e riconosciuto che nei Comuni di
minori dimensioni mancano figure professionali in numero sufficiente a
ricoprire i ruoli di commissari, con il connesso obbligo di ricorrere a
figure esterne cui garantire compensi non certo in linea con i propri
bilanci.
Quelle sospensive ora arrivano a giudizio e il Tar Lazio riconosce le
ragioni dei primi cittadini su tutta la linea, annullando il decreto del Mit
12.02.2018 nella parte in cui fissa il compenso lordo minimo per i
componenti della commissione giudicatrice.
Le ragioni
La motivazione addotta dal Tar Lazio è che il Dm travalica i limiti imposti
dall'articolo 77, comma 10, quando fissa anche il compenso minimo per fasce
di valore degli appalti a partire da 3mila euro, per mancanza di copertura
legislativa, posto che l'onere è quello di fissare il solo «compenso
massimo per i commissari». Una disposizione che, secondo i giudici, non
lascia margini interpretativi in ordine alla possibilità di stabilire anche
un compenso "minimo" o un compenso tout court.
D'altro canto, affermano i giudici, la ratio sottesa alla disposizione è
quella del contenimento della spesa e considerato che quelle per il
funzionamento della commissione costituiscono una voce del quadro economico
dell'intervento, si spiega la fissazione di un compenso "massimo", va
in direzione decisamente contraria la fissazione di uno "minimo".
Nemmeno può essere valorizzata la tesi, sostenuta anche dall'Anac, che il
limite minimo del compenso avrebbe consentito di scongiurare il rischio di
determinazione del compenso al ribasso, a detrimento della prestazione,
proprio in quanto tale possibilità non è contemplata dalla norma primaria.
La stoccata finale è al quantum del compenso, che è del tutto fuori logica
nella misura in cui deve essere comunque riconosciuto ai commissari a fronte
di procedure di complessità e di valore significativamente diversi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019). |
APPALTI:
Compenso base 3 mila € ai commissari è troppo. GARE: TAR LAZIO
ANNULLA DECRETO DEL MIT.
È nullo il compenso minimo fissato dal decreto ministeriale per i commissari
di gara di appalti pubblici nominati ai sensi dell'articolo 77 del codice
dei contratti pubblici.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma,
Sez. I, con la
sentenza
31.05.2019 n.
6925
che ha annullato il decreto del ministero delle infrastrutture e dei
trasporti del 12.02.2018.
Oggetto della censura dei giudici laziali il passaggio del decreto che
determina il compenso lordo minimo (3 mila euro lordi) spettante ai
componenti la commissione giudicatrice: in sostanza si afferma che il
decreto è andato oltre la delega assegnata dalla legge, impedendo quindi
alle amministrazioni di stabilire anche compensi più bassi.
Ad avviso dei giudici, «ferma restando l'illegittimità del decreto per le
ragioni evidenziate, deve ulteriormente osservarsi che, se la ratio della
censurata opzione, consistita di fatto in uno sconfinamento dal perimetro
dei poteri normativamente attribuiti al ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, fosse da ravvisare nella volontà di dare decoro e dignità alla
prestazione del commissario di gara, risulterebbe altresì irragionevole la
soglia minima del compenso, così come livellata uniformemente in 3 mila euro
pur a fronte di procedure di complessità e di valore significativamente
diversi».
Nella sentenza si evidenzia inoltre che «molte gare bandite dai comuni
sono rese possibili dall'utilizzo di finanziamenti europei Fesr, per i quali
è espressamente previsto che le spese generali siano contenute nel limite
massimo del 10-12%; limite che, di fatto, viene rispettato anche in gare non
finanziate. Tuttavia, detto limite non potrebbe essere rispettato stanti i
minimi tariffari fissati dall'impugnato decreto. Infatti, con un costo per
il funzionamento della commissione non inferiore a 10.980 euro sarebbe
impossibile bandire tutte le gare di importo inferiore o uguale a 91.500
euro perché già il solo costo della commissione risulterebbe
superiore-uguale al 12% fissato per le spese generali».
Di qui l'annullamento della parte del decreto che definisce il compenso
minimo lordo dei commissari di gara (articolo ItaliaOggi del 14.06.2019). |
APPALTI: Appalti,
gare senza salassi. Niente compensi minimi per i commissari.
Il Tar Lazio annulla il decreto del Mit. Accolto il ricorso
dell’Asmel.
Niente compensi minimi per i commissari di gara negli appalti. Il decreto
con cui il ministero delle infrastrutture, di concerto col Mef, ha fissato
in 3 mila euro a commissario l'importo minimo inderogabile dell'emolumento,
è stato annullato dal TAR del Lazio-Roma, Sez. I, con la
sentenza
31.05.2019 n.
6925.
Il Tar ha accolto il ricorso dell'Asmel, l'Associazione per la sussidiarietà
e la modernizzazione degli enti locali che già (si veda ItaliaOggi del 07.08.2018) aveva ottenuto dai giudici amministrativi la sospensione del
provvedimento impugnato.
Il Tar Lazio ha ravvisato nel dm 12.02.2018 un vizio apparso evidente
sin dalla sua emanazione, ossia aver travalicato i limiti imposti dal codice
appalti (dlgs n. 50/2016) che all'art. 70 stabiliva che con decreto il Mit
fissasse la tariffa di iscrizione all'albo e il compenso massimo per i
commissari. Nessun riferimento, invece, alla possibilità di fissare un
compenso minimo, peraltro, secondo il Tar, «irragionevolmente» quantificato
in 3 mila euro (oltre al rimborso spese).
Un importo insostenibile per molti
piccoli comuni che, in quanto privi di figure professionali interne in grado
di svolgere gratuitamente il ruolo di commissari di gara, sarebbero stati
costretti a sobbarcarsi un esborso minimo di circa 11 mila euro a
commissione di gara. Non solo. Un tetto così elevato avrebbe rischiato di
bloccare molte gare nei piccoli comuni se si considera che il regolamento
sui fondi Fesr (con cui vengono finanziati molti bandi dei mini-enti)
prevede che le spese generali siano contenute nel limite massimo del 10/12%.
Con una spesa fissa per i commissari di 11 mila euro a gara sarebbe
impossibile bandire gare di importo inferiore o uguale a 91.500 euro. Di qui
il ricorso al Tar Lazio che ha accolto in toto le tesi dell'Associazione
guidata da Francesco Pinto. Il Tar ha respinto le argomentazioni difensive
della Ragioneria generale dello stato secondo cui la fissazione di un
compenso minimo sarebbe «un'eventualità non proibita dalla norma». I giudici
amministrativi hanno ricordato che costituisce un principio cardine del
nostro ordinamento quello secondo cui il legislatore «ubi voluit dixit». E
«nella disposizione il legislatore parla espressamente di compenso massimo
senza lasciare margini interpretativi in ordine alla possibilità di
stabilire anche un compenso minimo o un compenso tout court».
Inoltre, ha osservato il Tar, essendo la ratio della norma tesa a contenere
la spesa pubblica, se da un lato si spiega la determinazione di un compenso
massimo, altrettanto non può dirsi per la fissazione di un compenso minimo.
Né può essere condivisa la tesi del Mit secondo cui l'aver livellato per
tutti i commissari il compenso a 3 mila euro avrebbe assicurato «il decoro e
la dignità della prestazione».
«Il nuovo Codice appalti, introducendo l'Albo
nazionale dei commissari di gara, gestito da Anac e aperto ai professionisti
privati, ha spalancato le porte ai privati», ha osservato Pinto. «I
professionisti del settore privato con requisiti idonei all'iscrizione
all'Albo nazionale dei commissari sono almeno 400 mila, mentre i dipendenti
pubblici a malapena 20 mila. Basta fare due conti per accorgersi che le
commissioni sarebbero state formate al 95% da privati e al 5% da dipendenti
pubblici».
«L'azione di Asmel», ha concluso Pinto, «ha scongiurato il rischio
di commissioni di gara appaltate ai privati, oltre ad evitare un danno
erariale quantificabile in oltre 1,5 miliardi di euro»
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Con la videosorveglianza punito l'agente infedele.
L'ispettore di polizia municipale che effettua ripetutamente servizio
straordinario non autorizzato e non giustificato rischia il licenziamento.
Specialmente se le telecamere di sorveglianza comunale attestano la sua
irregolare presenza in servizio.
Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Napoli, Sez. Lavoro, con la sentenza
29.05.2019 n. 3820.
Un operatore di polizia municipale è stato licenziato per aver effettuato
ripetute prestazioni di lavoro straordinario non autorizzato e non
giustificato. In pratica il comune anche con l'impiego delle telecamere di
videosorveglianza ha verificato che il dipendente ha ripetutamente violato
le disposizioni interne in materia di necessaria preventiva autorizzazione
motivata del lavoro straordinario. E per questo ha sanzionato l'operatore di
polizia municipale con la misura estrema del licenziamento.
Il giudice del lavoro ha confermato questa misura punitiva evidenziando tra
l'altro che è corretto l'impiego delle telecamere comunali di sorveglianza
per accertare la falsa o irregolare attestazione della presenza in servizio,
ai sensi dell'art. 55-quater, comma 3-bis, del dlgs 165/2001, come
modificato dal dlgs 116/2016
(articolo ItaliaOggi dell'11.06.2019). |
APPALTI: Natura
perentoria del termine per l’integrazione
della documentazione a seguito di soccorso
istruttorio.
Va ribadita la natura
perentoria del termine per l’integrazione
della documentazione, a seguito
dell’attivazione del soccorso istruttorio,
ai fini di un’istruttoria veloce ma
preordinata ad acquisire la completezza
delle dichiarazioni prima della valutazione
dell’ammissibilità della domanda.
La disciplina del soccorso istruttorio
autorizza la sanzione espulsiva quale
conseguenza della sola inosservanza, da
parte dell’impresa concorrente, all’obbligo
di integrazione documentale
(Consiglio di Stato, Sez V,
sentenza 29.05.2019 n. 3592 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3.3. Non condivisibile è anche la dedotta
erronea interpretazione dell’art. 83, comma
9, d.lgs. n. 50 del 2016 da parte della
sentenza impugnata.
In proposito giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato ha più volte affermato la
natura perentoria del termine per
l’integrazione della documentazione, a
seguito dell’attivazione del soccorso
istruttorio, ai fini di un’istruttoria
veloce ma preordinata ad acquisire la
completezza delle dichiarazioniprima della
valutazione dell’ammissibilità della domanda
(su tutte, cfr. Cons. Stato, V, 22.08.2016,
n. 3667; 22.10.2015, n. 4849; 18.05.2015, n.
2504; III, 21.01.2015, n. 189;
incidentalmente anche Ad. Plen., 30.07.2014,
n. 16).
In tale contesto la medesima giurisprudenza
ha rilevato come la disciplina del soccorso
istruttorio autorizzi la sanzione espulsiva
“quale conseguenza della sola
inosservanza, da parte dell’impresa
concorrente, all’obbligo di integrazione
documentale” (su tutte, Ad. Plen.
16/2014, cit.; Cons. Stato, 4849/2015, cit.).
Il che risulta del resto coerente, oltre che
con la ratio, anche con la lettera
dell’attuale art. 83, comma 9, il quale
espresse prevede: “in caso di inutile
decorso del termine di regolarizzazione, il
concorrente è escluso dalla gara”; né
ciò determina alcuna aporia o
irragionevolezza del sistema, stante la
necessaria certezza e rapidità del
sub-procedimento di soccorso istruttorio,
nonché la specificità del perimetro che ne
costituisce l’oggetto, prescindendosi -in
tale fase- dall’effettiva e sostanziale
integrazione dei requisiti, di cui
semplicemente si richiede di fornire
documentazione probatoria o adeguata
dichiarazione.
Per tali ragioni, appurata la violazione del
termine per la necessaria integrazione
documentale richiesta, va escluso che il
dedotto possesso sostanziale dei requisiti,
così come l’anteriorità rispetto al suddetto
termine dei relativi documenti dimostrativi
possano valere a impedire l’esclusione del
concorrente inadempiente.
Allo stesso modo, nessuna motivazione
qualificata o ulteriore rispetto al richiamo
dell’attivazione del soccorso e della
mancata tempestiva trasmissione della
relativa documentazione si rende necessaria
ai fini della legittimità del provvedimento
espulsivo.
Per tali motivi le censure formulate dalla
Mi.Te. non meritano accoglimento. |
APPALTI:
Legittimo non sanzionare chi salta il sopralluogo.
È legittimo non sanzionare con l'esclusione dalla gara chi non ha
partecipato al sopralluogo; dal codice appalti non si ricava obbligo di
escludere.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 29.05.2019 n. 3581 che ha precisato come la previsione
escludente non possa implicitamente ricavarsi dal codice del 2016.
Il decreto 50/2016 ha abrogato l'art. 106 del decreto del presidente della
repubblica 207 del 2010 relativo all'obbligo di sopralluogo nei luoghi
dell'appalto, senza sostituirlo con ulteriori previsioni a riguardo. Inoltre
–si legge nella sentenza- l'art. 79, comma 2, fa sì riferimento alle ipotesi
in cui «le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita
dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara», ma solo
per farne conseguire la necessità che i termini per la presentazione delle
offerte siano calibrati in modo che gli operatori interessati «possano
prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le
offerte».
Pertanto la stazione appaltante, in virtù del divieto di aggravio del
procedimento e del principio di massima partecipazione alle gare pubbliche,
non può, in assenza di valide ragioni oggettive e immediatamente percepibili
legate all'oggetto della gara, subordinare la partecipazione
all'effettuazione del sopralluogo e ricavarne l'estromissione della
concorrente nel caso di sua inosservanza.
Se quindi la stazione appaltante non esclude il concorrente «non può
ravvisarsi in concreto nel comportamento tenuto dall'amministrazione una
ipotesi di violazione della par condicio competitorum».
Viceversa, dicono i giudici, se fosse stata inserita la previsione
dell'esclusione, sarebbero stati violati i principi di massima
partecipazione alle gare e il divieto di aggravio del procedimento, ponendo
in capo all'operatore economico in maniera irragionevole un onere formale
sproporzionato e ingiustificato, in quanto la sua inosservanza in alcun modo
avrebbe impedito il perseguimento dei risultati verso cui era diretta
l'azione amministrativa, né il suo adempimento poteva dirsi funzionale a
garantire il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla
legge di gara
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Gazebo
attaccato alla parete: necessario il permesso di costruire.
Il gazebo contestato non costituisce affatto una
struttura amovibile, in quanto esso risulta stabilmente ancorato alle parti
murarie, sì da presentarsi come costruzione solida e robusta, idonea ad una
permanenza prolungata nel tempo, richiedendo così il permesso di costruire.
Invero, secondo giurisprudenza costante, per rientrare nella fattispecie di
edilizia libera, il manufatto in parola avrebbe dovuto avere natura
ornamentale ed essere realizzato in struttura leggera di legno o altro
materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di stabile
ancoraggio al suolo.
Di conseguenza, è irrilevante la presentazione di una C.I.L.A. in quanto la
natura delle opere va correttamente ricondotta alla cornice normativa
propria del permesso di costruire e non al regime semplificato.
Lo stesso vale per il manufatto in lamiera di cui al punto 2
dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di un box-container stabilmente
appoggiato al terreno, che, pure, costituisce definitiva alterazione del
terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del
previo titolo edilizio.
Ed altrettanto dicasi per il muro di cinta in elementi laterizi
prefabbricati e malta cementizia, avente una altezza media mt 1,80 circa per
una lunghezza complessiva di mt. 17,00 circa.
---------------
L’ordinanza di demolizione, essendo un atto rigidamente vincolato, non
necessita di una specifica motivazione sull'interesse pubblico attuale e,
peraltro, in caso di mancata adozione dello stesso, non sussiste un
affidamento tutelabile, in ragione dell'illecito commesso in violazione
delle regole sulla tutela del territorio.
---------------
La ricorrente impugna l’ordinanza di demolizione di opere abusive n. 2 del
14.02.2018, adottata dal Comune di Sorbo San Basile in data 14.02.2018, a
seguito di un sopralluogo che ha permesso di riscontrare che, sull’area
pertinenziale dell’unità immobiliare identificata in catasto al foglio 7,
particella 61, sub 10, graffata con la particella 77, sub 6, sono stati
eseguiti lavori edilizi senza la preventiva autorizzazione consistenti nella
realizzazione:
- di un manufatto in muratura di forma irregolare destinato a
soggiorno avente una superficie di mq. 18,00 circa, con altezza alla gronda
di mq. 2,10 circa e altezza al colmo di mt. 2,65 circa;
- di un manufatto in panelli di lamiera coibentata destinato a
magazzino ricovero attrezzi, delle dimensioni di mt. 2,20x2,10, per una
altezza di mt. 1,70 circa (gronda) e mt. 2,10 circa (colmo) ed un volume
complessivo pari a circa 200,00 mq;
- di un muro di cinta in elementi laterizi prefabbricati e malta
cementizia, avente una altezza media mt 1,80 circa per una lunghezza
complessiva di mt. 17,00 circa.
...
Il ricorso è infondato e va respinto.
I lavori realizzati dalla ricorrente, non rientrano infatti nella
fattispecie di edilizia libera, di cui all’art. 6 D.P.R. 380/2001,
caratterizzandosi, viceversa, per i requisiti di stabilità e di rilevante
consistenza, tali da alterare in modo duraturo l'assetto
urbanistico-ambientale.
Ciò vale in particolare per il gazebo contestato al punto 1
dell’ordinanza, ritratto anche nelle foto della relazione tecnica dell’ing.
Mi.Ta., che non costituisce affatto una struttura amovibile, in quanto esso
risulta stabilmente ancorato alle parti murarie, sì da presentarsi come
costruzione solida e robusta, idonea ad una permanenza prolungata nel tempo,
richiedendo così il permesso di costruire.
Invero, secondo giurisprudenza costante, per rientrare nella fattispecie di
edilizia libera, il manufatto in parola avrebbe dovuto avere natura
ornamentale ed essere realizzato in struttura leggera di legno o altro
materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di stabile
ancoraggio al suolo (Cons. Stato Sez. VI, 15/04/2019, n. 2438 e 25.01.2017
n. 306).
Di conseguenza, è irrilevante la presentazione di una C.I.L.A. in data
02.05.2018, in quanto la natura delle opere va correttamente ricondotta alla
cornice normativa propria del permesso di costruire e non al regime
semplificato (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 07/09/2018, n. 5424).
Lo stesso vale per il manufatto in lamiera di cui al punto 2
dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di un box-container stabilmente
appoggiato al terreno, che, pure, costituisce definitiva alterazione del
terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del
previo titolo edilizio (cfr. TAR Campania, Salerno Sez. II, 02/01/2019, n.
1; Cons. Stato, Sez. VI, 06/02/2019, n. 901).
Ed altrettanto dicasi per il muro di cinta.
Infine, riguardo alle ulteriori censure di carattere formale, occorre
precisare che l’ordinanza di demolizione, essendo un atto rigidamente
vincolato, non necessita di una specifica motivazione sull'interesse
pubblico attuale e, peraltro, in caso di mancata adozione dello stesso, non
sussiste un affidamento tutelabile, in ragione dell'illecito commesso in
violazione delle regole sulla tutela del territorio (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV, 25/03/2019, n. 1942)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 28.05.2019 n. 1063 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Preavviso
di rigetto per la Scia.
Il preavviso di rigetto previsto dall'art. 10-bis della legge 241/1990 va
applicato non soltanto ai procedimenti autorizzatori ma anche alle attività
soggette a Scia. Il comune, in sostanza, non può dichiarare l'inefficacia
della segnalazione presentata dal privato ma è tenuto ad avviare la
procedura del contraddittorio prevista dalla legge sul procedimento
amministrativo.
Lo ha stabilito il Consiglio
di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 27.05.2019 n. 3453.
La decisione è stata sollecitata da un'impresa di telefonia mobile la quale
aveva presentato all'amministrazione comunale la Scia per la
riconfigurazione di un impianto già esistente e attivo, utilizzando quindi
il procedimento semplificato previsto dall' art. 87-bis del Codice delle
comunicazioni elettroniche (dlgs 259/2003).
Il collegio, richiamando la funzione dell'art. 10-bis legge 241/1990, ha
affermato che tale disposizione ha introdotto, in via generale, nel nostro
ordinamento l'istituto del preavviso di diniego, che ha la funzione di
portare a conoscenza del soggetto che ha fatto una domanda
all'amministrazione, i motivi che non consentono di poter accogliere la sua
istanza, in modo da consentire all'interessato, in via amministrativa e
precontenziosa, di rappresentare all'amministrazione, nel termine assegnato,
le ragioni che militano invece in favore dell'accoglimento della sua
domanda.
Di conseguenza, ha sottolineato, richiamando un precedente del 2014 si deve
ritenere, in via generale, che la comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento di una domanda interrompe anche i termini per la formazione
di un eventuale silenzio assenso, in quei casi in cui l'ordinamento ha
inteso assegnare al silenzio serbato dall'amministrazione su un'istanza il
valore di assenso alla richiesta.
Con la conseguenza che tale disciplina va applicata anche nei procedimenti,
regolamentati dall'art. 87 del dlgs 259/2003, per l'esame delle domande di
autorizzazione alla installazione di infrastrutture di comunicazione
elettronica, sebbene lo stesso procedimento sia chiaramente disciplinato in
modo da consentirne la definizione in tempi certi e rapidi
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Partecipazione
procedimentale ad ampio spettro per la telefonia.
Il preavviso di rigetto introdotto nell'ordinamento dall'art. 10-bis, L. n.
241 del 1990, al fine di ridurre il potenziale contenzioso tra privati e PA,
va applicato non soltanto ai procedimenti autorizzatori ma anche alle
attività soggette a SCIA.
Il Consiglio di Stato, seppure trattando un caso specifico connesso alla
telefonia mobile, ha affermato la portata generale dell'istituto che va
applicato pertanto a tutti i procedimenti, compresi quelli acceleratori.
Si deve ricordare che l’art. 10-bis della legge n. 241
del 1990, aggiunto dall'art. 6 della legge 11.02.2005 n. 15 (poi modificato
dal comma 3 dell’art. 9 della legge 11.11.2011, n. 180), ha previsto che
«nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o
l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento
negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal
ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare
per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La
comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il
procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione
delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al
secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è
data ragione nella motivazione del provvedimento finale».
Tale disposizione ha, quindi, introdotto, in via
generale, nel nostro ordinamento l’istituto del preavviso di diniego, che ha
la funzione di portare a conoscenza del soggetto che ha fatto una domanda
all’amministrazione, i motivi che non consentono di poter accogliere la sua
domanda in modo da consentire all’interessato, in via amministrativa e
precontenziosa, di rappresentare all’amministrazione, nel termine assegnato,
le ragioni che militano invece in favore dell’accoglimento della sua domanda”.
Si deve ritenere, quindi, in via generale, che la
comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di una domanda interrompe
anche i termini per la formazione di un eventuale silenzio assenso, in quei
casi in cui l’ordinamento ha inteso assegnare al silenzio serbato
dall’amministrazione su un’istanza il valore di assenso alla richiesta”
ed, infine: “Né si può ritenere che tale disciplina non possa essere
applicata nel procedimento, dettato dall’art. 87 del D.L.vo n. 259 del 2003,
per l’esame delle domande di autorizzazione alla installazione di
infrastrutture di comunicazione elettronica, sebbene lo stesso procedimento
sia chiaramente disciplinato in modo da consentirne la definizione in tempi
certi e rapidi.
---------------
E’ fondato il primo motivo
d’appello avente carattere assorbente.
Con il medesimo l’appellante critica la sentenza nella parte in cui ha
rigettato il motivo di ricorso attinente al mancato invio del preavviso di
diniego ex art. 10-bis, L. n. 241/1990.
Il rigetto è avvenuto in ragione della natura giuridica della SCIA
(dichiarazione di volontà privata) ed in ragione dell’affermazione che
l’eventuale applicabilità dell’art. 10-bis, L. n. 241/1990 al procedimento
ex art. 87-bis, D.L.vo n. 259/2003 frusterebbe la finalità semplificatoria
ed acceleratoria della disciplina dettata dal codice delle comunicazioni.
Ritiene il Collegio che la disciplina ex art. 10-bis L. n. 241/1990 sia
senz’altro applicabile al procedimento ex art. 87-bis, D.L.vo n. 259/2003, e
ciò in virtù del precedente della III Sezione di questo Consiglio, a cui
questo Collegio intende conformarsi, costituito dalla sentenza n. 418/2014,
pronunciata in relazione ad un procedimento ex art. 87, D.L.vo n. 259/2003,
ma valevole anche nel caso del procedimento ex art. 87-bis D.L.vo n.
259/2003, stante l’identità strutturale dei due procedimenti, secondo cui: “Si
deve, al riguardo, ricordare che, l’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990,
aggiunto dall'art. 6 della legge 11.02.2005 n. 15 (poi modificato dal comma
3 dell’art. 9 della legge 11.11.2011, n. 180), ha previsto che «nei
procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o
l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento
negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal
ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare
per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La
comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il
procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione
delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al
secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è
data ragione nella motivazione del provvedimento finale»”.
Secondo la III Sezione del Consiglio di Stato: “Tale disposizione ha,
quindi, introdotto, in via generale, nel nostro ordinamento l’istituto del
preavviso di diniego, che ha la funzione di portare a conoscenza del
soggetto che ha fatto una domanda all’amministrazione, i motivi che non
consentono di poter accogliere la sua domanda in modo da consentire
all’interessato, in via amministrativa e precontenziosa, di rappresentare
all’amministrazione, nel termine assegnato, le ragioni che militano invece
in favore dell’accoglimento della sua domanda” ed ancora: “si deve
ritenere, quindi, in via generale, che la comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento di una domanda interrompe anche i termini per la formazione
di un eventuale silenzio assenso, in quei casi in cui l’ordinamento ha
inteso assegnare al silenzio serbato dall’amministrazione su un’istanza il
valore di assenso alla richiesta” ed, infine: “Né si può ritenere che
tale disciplina non possa essere applicata nel procedimento, dettato
dall’art. 87 del D.L.vo n. 259 del 2003, per l’esame delle domande di
autorizzazione alla installazione di infrastrutture di comunicazione
elettronica, sebbene lo stesso procedimento sia chiaramente disciplinato in
modo da consentirne la definizione in tempi certi e rapidi”.
Conseguentemente, va accolto il primo motivo d’appello nei sensi e nei
limiti anzidetti, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati
in primo grado (nota prot. gen. rif. prat. n. 2017 559771 PG del 13.12.2017,
nota prot. gen. rif. prat. n. 559782 PG del 13.12.2017, nota prot. gen. rif.
prat. n. 13637/2018 PG del 18.01.2018, nota prot. gen. rif. prat. n.
22351/2018 PG del 25.01.2018), salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’Amministrazione (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 27.05.2019 n. 3453 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
LAVORI PUBBLICI: Danno
in re ipsa per temporanea perdita della facoltà di godimento inerente
al diritto di proprietà di un bene illegittimamente occupato.
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Risarcimento
danni – Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione illegittima -
Temporanea perdita della facoltà di godimento – Danno in re ipsa.
Nel caso di occupazione
illegittima il danno è in re ipsa, poiché esso coincide con la temporanea
perdita della facoltà di godimento inerente al diritto di proprietà (danno
“conseguente”), id est con l’incisione sul contenuto proprio del diritto di
proprietà (quello afferente alla sfera delle facoltà).
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(1) La Sezione ha affermato, più in generale, che ogni danno è “conseguenza”
di un evento e, in quanto tale, da questo, sia pure in misura diversa,
distinguibile; e tale distinzione dipende dalla natura dell’illecito
(contrattuale o extracontrattuale), ovvero a seconda che il danno di cui si
postula il risarcimento sia subìto dalla posizione giuridica del soggetto
nella cui sfera subiettiva si è prodotto l’evento, ovvero da altro soggetto
a questi legato da relazioni contrattuali o, comunque, rilevanti per
l’ordinamento e da questo protette.
Il problema, dunque, non consiste nella configurazione ontologica del danno
(che -naturalisticamente- costituisce sempre una perdita nell’ambito di una
situazione soggettiva, come affermato da Corte Cost., n. 372/1994), ma
attiene alla natura della situazione soggettiva ed al rapporto che
intercorre tra questa e l’evento lesivo.
Ed è proprio per questo che si pone un problema di prova; problema, però,
che non discende dalla natura del danno (danno-evento o danno-conseguenza),
ma che si propone come strettamente connesso alla sussistenza/conformazione
e titolarità di una posizione soggettiva che si assume lesa.
Nel giudizio risarcitorio esiste sempre un problema di prova (avente plurimi
profili): prova della esistenza e titolarità della situazione soggettiva che
si assume lesa; prova dell’effettività della “perdita” (lesione) di
quella posizione; prova della quantificazione del danno, cioè della misura
del risarcimento richiesto.
La natura dell’illecito ed il tipo di posizione giuridica (ove esistente)
che si assume lesa agiscono differentemente (non già sulla natura del danno
ma) sul problema probatorio.
In questo contesto, assumono ben diversa valenza i diritti patrimoniali
rispetto a quelli non patrimoniali, sussistendo per questi ultimi un
problema di riconoscimento e tutela affatto diverso dai primi (si veda, Cass.,
sez. un., n. 26972/2008). In questo caso, ciò che occorre dimostrare è (non
tanto l’esistenza della lesione ma) la sussistenza ontologica del diritto e,
laddove l’evento si realizzi nella sfera giuridica di altro soggetto,
occorre provare la sussistenza di una lesione (ulteriore) nella propria
sfera giuridica di soggetto titolare di un diritto non patrimoniale, pur
astrattamente riconosciuto.
Così come, pur nella sfera dei diritti patrimoniali, a fronte della natura
dell’illecito, può apparire plausibile (pur senza volere rendere
sull’illecito contrattuale considerazioni definitive) che il danno derivante
da una occupazione di immobile protratta oltre il termine contrattualmente
stabilito si caratterizzi diversamente da quello derivante da una
occupazione effetto di illecito extracontrattuale.
Nel primo caso, la lesione attiene innanzi tutto al diritto alla
restituzione del proprio bene per effetto dell’inadempimento contrattuale
dell’obbligazione restitutoria, mentre la lesione consistente nella perdita
della facoltà di godimento del bene costituisce una ipotesi di danno “ulteriore”.
Nel secondo caso, la lesione (unica) attiene direttamente al contenuto
stesso della posizione soggettiva (facoltà di godimento del bene).
Affermare che vi è necessità di “prova” della lesione subita, in
quest’ultima ipotesi, non discende dalla “natura” del danno (cioè dal
suo rapporto con l’evento), ma dal preciso contenuto della posizione
giuridica sulla quale l’evento lesivo si assume abbia inciso, se, cioè, la “perdita”
attenga alle facoltà di godimento ovvero ai poteri di disposizione: con la
conseguenza che, mentre nel primo caso, per la natura stessa della “facoltà”,
la prova della perdita è offerta dall’evento in sé considerato (ed in questo
senso, sinteticamente, può affermarsi che il danno è “in re ipsa”),
nel secondo caso, per la diversa struttura del “potere” (natura che
ne postula un esercizio in concreto e non solo una mera “disponibilità”),
occorre la prova della lesione “ulteriore” subita da questa “altra”
sfera del diritto di proprietà
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.05.2019 n. 3428 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
semplice copertura di una preesistente scala in ferro posta all'esterno di
un fabbricato non richiede un titolo abilitativo, essendo una pertinenza.
La mera copertura della scala in ferro posta
all’esterno del fabbricato, per caratteristiche costruttive, consistenza e
destinazione di uso, integra gli estremi di un’opera meramente pertinenziale,
come tale non bisognevole del preventivo rilascio di un autonomo titolo
abilitativo.
Trattasi infatti, dal punto di vista squisitamente urbanistico-edilizio, di
un’opera priva di autonoma e distinta utilizzazione, oltre che di valore di
mercato, rispetto all’unità abitativa cui accede e rispetto alla quale
svolge una funzione meramente servente, consentendone un accesso più agevole
a copertura della preesistente scala esterna al fabbricato.
---------------
Per l'individuazione della nozione di volume tecnico ovvero di “pertinenza”,
escluso dal calcolo della volumetria necessitante del preventivo rilascio di
un titolo abilitativo, “bisogna fare riferimento a tre ordini di
parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere un
rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il
secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati, rispettivamente,
all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un rapporto di
necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie e il
volume realizzato. Quest'ultimo deve essere completamente privo di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente
destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale,
che non possono essere ubicati all'interno di essa. L'applicazione di tali
criteri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere
esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche
di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità”.
Tenuto conto dei suddetti criteri, la copertura della preesistente scala
esterna di accesso all’appartamento della ricorrente è qualificabile in
termini di mero vano tecnico, funzionale a soddisfare un'esigenza oggettiva
della costruzione principale, privo di valore autonomo di mercato e tale da
non consentire una destinazione diversa da quella di “servizio” nei
confronti dell'immobile cui accede.
In altri termini, l’opera de qua non comporta un incremento volumetrico
urbanisticamente rilevante e, quindi, ben avrebbe potuto essere realizzata
–per come, in concreto, avvenuto– senza il preventivo rilascio di un
permesso di costruire, la cui mancanza, ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n.
380/2001, è stata a torto addotta dall’ente locale a fondamento
dell’ordinanza di demolizione n. 20187 del 05.07.2012 che, per l’effetto,
merita di essere annullata.
---------------
8. Come correttamente rilevato dalla sig.ra Gi., l’attività edilizia alla
stessa addebitata con l’ordinanza di demolizione n. 20187 del 05.07.2012,
consistente nella mera copertura della preesistente scala in ferro posta
all’esterno del fabbricato ubicato in Via ... n. 19 del comune di Nocera,
per caratteristiche costruttive, consistenza e destinazione di uso, integra
gli estremi di un’opera meramente pertinenziale, come tale non bisognevole
del preventivo rilascio di un autonomo titolo abilitativo.
8.1 Trattasi, infatti, dal punto di vista squisitamente urbanistico-edilizio,
di un’opera priva di autonoma e distinta utilizzazione, oltre che di valore
di mercato, rispetto all’unità abitativa cui accede e rispetto alla quale
svolge una funzione meramente servente, consentendone un accesso più agevole
a copertura della preesistente scala esterna al fabbricato.
8.2 Quanto sopra trova conferma in quel consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui l'individuazione della nozione di volume
tecnico ovvero di “pertinenza”, escluso dal calcolo della volumetria
necessitante del preventivo rilascio di un titolo abilitativo, “bisogna
fare riferimento a tre ordini di parametri: il primo,
positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere un rapporto di
strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo
ed il terzo, negativi, ossia ricollegati, rispettivamente,
all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un rapporto di
necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie e il
volume realizzato. Quest'ultimo deve essere completamente privo di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente
destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale,
che non possono essere ubicati all'interno di essa. L'applicazione di tali
criteri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere
esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche
di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità (TAR Campania,
Napoli, IV, 02.04.2015, n. 1927; III, 09.12.2014, n. 6431; VI, 06.02.2014,
n. 785; TAR Molise, 31.03.2014, n. 225; Cons. Stato, IV, 04.05.2010, n.
2565)” (così TAR Campania, Napoli, sez. II, 23/06/2017, n. 3439).
8.4 Tenuto conto dei suddetti criteri, la copertura della preesistente scala
esterna di accesso all’appartamento della ricorrente è qualificabile in
termini di mero vano tecnico, funzionale a soddisfare un'esigenza oggettiva
della costruzione principale, privo di valore autonomo di mercato e tale da
non consentire una destinazione diversa da quella di “servizio” nei
confronti dell'immobile cui accede (cfr. TAR Campania, Napoli, IV,
14.11.2016, n. 5248; Cons. Stato, III, 26.04.2016, n. 1613; TAR Lazio, Roma,
I, 02.04.2015, n. 4975; Cons. Stato, sez. VI, 31.03.2014, n. 1512).
8.2 In altri termini, l’opera de qua non comporta un incremento
volumetrico urbanisticamente rilevante e, quindi, ben avrebbe potuto essere
realizzata –per come, in concreto, avvenuto– senza il preventivo rilascio di
un permesso di costruire, la cui mancanza, ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n.
380/2001, è stata a torto addotta dall’ente locale a fondamento
dell’ordinanza di demolizione n. 20187 del 05.07.2012 che, per l’effetto,
merita di essere annullata.
8.3 Del resto la stessa Autorità giudiziaria penale, con sentenza n. 1126
del 07.01.2015, versata agli atti del giudizio, in merito alla realizzazione
della suddetta copertura, ha assolto l’odierna ricorrente dal reato di cui
all’art. 44, lett. b), DPR n. 380/2001, proprio sulla scorta del carattere
meramente pertinenziale, dal punto di vista urbanistico-edilizio, dell’opera
in questione.
9. Tenuto conto dell’illegittimità dell’ordinanza di demolizione n. 20187
del 05.07.2012, il Collegio, in parziale accoglimento dei successivi ricorsi
n. 1987 del 2013 e 115 del 2015, non può che accertare l’invalidità:
a) dell’ordinanza prot. n. 38025 del 29.08.2013, impugnata con il
ricorso n. 1987 del 2013 R.G., esclusivamente nella parte in cui il comune
di Nocera Inferiore ha nuovamente ingiunto alla ricorrente la demolizione
del torrino scala in questione;
b) del provvedimento prot. n. 46677 del 05/11/2014, impugnato con
il ricorso n. 151 del 2015 R.G., con cui il comune di Nocera Inferiore ha
accertato l’inottemperanza alle statuizioni demolitorie di cui all’ordinanza
di demolizione n. 20187 del 05.07.2012, disponendo l’acquisizione gratuita
al patrimonio comunale delle opere ivi sanzionate, pari a mq. 18,33,
erroneamente ritenute abusive, per i motivi sopra esposti;
c) del provvedimento prot. n. 48964 del 19.11.2014, parimenti
impugnato con il ricorso n. 151 del 2013, esclusivamente nella parte in cui
è stata negata la sanatoria di siffatta “copertura” sulla scorta
dell’erroneo presupposto che la stessa determini un “incremento di
superficie e di volume”, urbanisticamente rilevante, in contrasto con le
previsioni urbanistiche vigenti nella zona
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.05.2019 n. 862 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La PA paga sempre per i dipendenti. Obbligo di risarcimento anche
per illeciti commessi a scopo personale.
Lo Stato o l’ente pubblico rispondono del danno subìto dal terzo per
l’illecito del dipendente, anche quando agisce solo per scopi personali,
estranei ai fini dell’amministrazione. La corresponsabilità scatta purché
l’azione illecita sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le
funzioni svolte dal dipendente infedele. E dunque se questa non sarebbe
stata possibile senza l’esercizio del ruolo, per quanto svolto in modo
illecito.
Per le Sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza
16.05.2019 n. 13246) la
responsabilità della Pa è a tutto campo e va applicata integralmente la
disciplina della responsabilità extracontrattuale. Fermi restando i principi
sull’accertamento del nesso causale e sulla totale imprevedibilità degli
eventi.
La sezione remittente era impegnata a decidere sul risarcimento, dovuto o
meno, dal ministero della Giustizia a un privato per le somme, relative a un
giudizio di divisione sottratte da un cancelliere, poi condannato per
peculato. Il privato aveva ottenuto un risarcimento, di circa 47 mila euro
in primo grado che le era stato tolto in appello. Perché, ad avviso dei
giudici, il cancelliere aveva agito solo a fini personali, addirittura
contrari agli scopi perseguiti dall’amministrazione. Il Supremo collegio,
nell’allargare anche a tale ipotesi la responsabilità della Pa, sottolinea
come nell’attuale contesto socio economico nessuna ragione giustifica più un
trattamento differenziato tra l’attività dello Stato e quella del privato.
La strada per appianare la disparità di trattamento è dunque quella
percorsa: rivedere l’orientamento, di gran lunga prevalente, che nega la
responsabilità dell’amministrazione in caso di azioni, frutto di abusi
individuali e in contrasto con i fini istituzionali. Per i giudici è in
contrasto con la Costituzione un sistema che di fatto crea una tutela
risarcitoria meno effettiva in caso di illeciti commessi da chi dipende da
un ente pubblico o dallo Stato rispetto all’ipotesi in cui ad infrangere la
legge sia un privato
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2019). |
URBANISTICA: Per
quanto riguarda il sindacato del giudice amministrativo in materia di
osservazioni ai piani regolatori, la giurisprudenza costante afferma che le
osservazioni costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione
degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative;
pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo
sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e
ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte
discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di
pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona
del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove
risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta
illogicità o contraddittorietà.
---------------
La valutazione in merito alla sostenibilità economica delle previsioni
urbanistiche rientra nel merito della scelta amministrativa e, quindi,
fuoriesce dal campo del sindacato giurisdizionale.
Infatti, il c.d. merito amministrativo consistente in un apprezzamento, in
ordine alla convenienza ed alla opportunità del provvedimento da emanare,
compiuto dall'amministrazione e che, salvi i casi di giurisdizione
amministrativa di merito, tassativamente previsti, non può essere sostituito
con la valutazione del giudice.
---------------
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Occorre premettere, per quanto riguarda il sindacato del giudice
amministrativo in materia di osservazioni ai piani regolatori, che la
giurisprudenza costante (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 04.02.2018
n. 418) afferma che le osservazioni costituiscono un mero apporto
collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo
a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una
dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e
ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte
discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di
pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona
del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove
risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta
illogicità o contraddittorietà.
Nel merito il Comune ha respinto l’osservazione n. 79 proposta dalla
ricorrente precisando che:
a) le previsioni del PGT risultano analoghe a quelle del previgente
PRG, pertanto con la nuova pianificazione non è stata introdotta alcuna
previsione peggiorativa/penalizzante, a differenza di quanto farebbero
desumere le argomentazioni avversarie;
b) l’Ente ha, inoltre, ricordato di aver previsto la demolizione
del fabbricato esistente anche al fine di rendere applicabile il beneficio
di cui all’art. 11 punto 9 del piano delle regole, ovvero l’esenzione
dall’applicazione del cd. “credito urbanistico” a carico
dell’operatore.
La ricorrente contesta l’insostenibilità economica delle previsioni di piano
e l’insufficienza dello scomputo del solo credito urbanistico.
In merito occorre specificare che la valutazione in merito alla
sostenibilità economica delle previsioni urbanistiche rientra nel merito
della scelta amministrativa e quindi fuoriesce dal campo del sindacato
giurisdizionale. Infatti il c.d. merito amministrativo consistente in un
apprezzamento, in ordine alla convenienza ed alla opportunità del
provvedimento da emanare, compiuto dall'amministrazione e che, salvi i casi
di giurisdizione amministrativa di merito, tassativamente previsti, non può
essere sostituito con la valutazione del giudice (in tal senso ex
plurimis Cass. Civile Sent. Sez. UU 03/11/2016 Num. 22228).
Per quanto poi attiene all'omessa pronuncia sulla richiesta che il portico
aperto verso la piazzetta fosse scomputato dagli oneri e/ o dalle aree a
standard da corrispondere all'Amministrazione è ragionevole la risposta
dell’amministrazione secondo la quale il portico dell’edificio prospiciente
la piazzetta non può che risultare di uso esclusivo privato, con ciò non
potendosi computare il medesimo nella superficie a standard, che rimane
delimitata come da planimetria del PGT.
Il motivo va quindi respinto
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 1066
- link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Sulla
possibilità di affiancare all’atto
amministrativo urbanistico o edilizio un
atto negoziale.
La possibilità di
affiancare all’atto amministrativo
urbanistico o edilizio un atto negoziale,
sotto forma di atto unilaterale d’obbligo o
di convenzione, è riconducibile nell’alveo
degli strumenti propri della c.d.
urbanistica contrattata, che non violano il
principio di legalità perché trovano la loro
copertura normativa nella previsione di
strumenti consensuali di esercizio delle
potestà amministrative di cui agli artt. 1,
comma 1-bis, e 11 della legge n. 241/1990, e
il loro fondamento nel potere pianificatorio
di governo del territorio e nella
possibilità di stipulare accordi sostitutivi
di provvedimenti; ne consegue che per la
loro applicazione non è necessaria
un’apposita copertura normativa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 1066 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2. Anche il secondo motivo è
infondato.
La possibilità di
affiancare all’atto amministrativo
urbanistico o edilizio un atto negoziale,
sotto forma di atto unilaterale d’obbligo o
di convenzione, è riconducibile nell’alveo
degli strumenti propri della c.d.
urbanistica contrattata, che non violano il
principio di legalità perché trovano la loro
copertura normativa nella previsione di
strumenti consensuali di esercizio delle
potestà amministrative di cui agli artt. 1,
comma 1-bis, e 11 della legge 07.08.1990, n.
241, ed il loro fondamento nel potere
pianificatorio di governo del territorio e
nella possibilità di stipulare accordi
sostitutivi di provvedimenti. Ne consegue
che per la loro applicazione non è
necessaria un’apposita copertura normativa.
Di regola la convenzione offre maggiori
garanzie al privato per la sua bilateralità,
mentre l’atto unilaterale offre al Comune il
vantaggio che il documento è sottoscritto
solo dal privato, cosicché formalmente il
Comune non assume alcun obbligo di
pianificare in un certo modo.
Tuttavia la convenzione, per la sua forma
pubblica, può essere necessaria od anche
solo opportuna se incide su diritti reali e
debba essere trascritta.
Ne consegue che la scelta tra atto
unilaterale d’obbligo e convenzione è
rimessa alla scelta ampiamente discrezionale
dell’amministrazione, che può essere
sindacata solo per macroscopici errori di
diritto, che nel caso di specie non paiono
sussistere.
In definitiva quindi il secondo motivo e
l’intero ricorso vanno respinti. |
APPALTI SERVIZI: Licenza
Ars nell'appalto.
Illegittimo il bando di gara indetto dal comune per la predisposizione della
rassegna stampa nella misura in cui ha inserito, tra i criteri di
valutazione dell'offerta, quello della sottoscrizione della licenza Ars del
repertorio Promopress. Nel senso che, se lo scopo è di tutelarsi da
eventuali rivendicazioni da parte degli editori e poter, così, usufruire di
una rassegna non lesiva dei diritti d'autore, la licenza Ars deve essere un
requisito di partecipazione alla gara e non un titolo preferenziale.
La questione è stata risolta dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 09.05.2019 n. 3015 che, peraltro, ha ribaltato la
decisione del giudice di I grado.
La legge 633/1941 sul diritto di autore vieta in generale la riproduzione
dell'opera di ingegno, ma esclude da tale divieto gli articoli di attualità
di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei
giornali e la Corte di cassazione (sentenza 20410/2005), ha affermato che
elaborare rassegne stampa sistematicamente diffuse il giorno stesso della
pubblicazione degli articoli è condotta commercialmente scorretta ossia
integra una fattispecie di concorrenza sleale.
In tale contesto normativo, puntualizza il Consiglio di stato, va inserita
la scelta della Federazione italiana editori di giornali di costituire la
Promopress s.r.l. e di gestire, suo tramite, i diritti di autore in
relazione alle rassegne stampa, mediante repertorio cui può aderire ogni
società del settore interessata.
Ma se la scelta di fondo del comune, ha rilevato la sezione, è giustificata
dal rispetto della legge sul diritto d'autore in tema di composizione delle
rassegne stampa, essa è condizione legale per lo svolgimento dell'attività
imprenditoriale e va richiesta a tutti gli operatori. Non può, in pratica,
atteggiarsi a criterio premiale di valutazione dell'offerta tecnica, poiché
l'operatore che ne è privo esercita l'attività contra legem e la sua
offerta è inammissibile non solamente meno valida dell'altra
(articolo ItaliaOggi dell'11.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Considerazione
“atomistica” dei singoli interventi edilizi.
Al fine di valutare
l’incidenza sull’assetto del territorio di
un intervento edilizio consistente in una
pluralità di opere, va compiuto un
apprezzamento globale delle opere medesime,
atteso che la considerazione “atomistica”
dei singoli interventi non consente di
comprendere in modo adeguato l’impatto
effettivo degli interventi compiuti.
Pertanto, i molteplici interventi eseguiti
non vanno considerati in maniera
“frazionata” e, al contrario, debbono essere
vagliati in un quadro di insieme e non
segmentato, solo così potendosi comprendere
il nesso funzionale che li lega e, in
definitiva, l'effettiva portata
dell'operazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, Sez. II,
sentenza 08.05.2019 n. 1033 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
3.1 Con il primo motivo si contesta
l’illegittimità dell’ordinanza, per essere
stata adottata quando la tecnostruttura era
installata legittimamente, in quanto
autorizzata stagionalmente, dal 15/10-15/04.
Pertanto risulterebbe errato il richiamo
all’art. 31 del DPR 380/2001, poiché non si
tratta di opere realizzate in assenza di
titoli edilizi, né di opere realizzate in
totale difformità, ma solo in parziale
difformità dai titoli abilitativi,
contestando altresì che le opere
costituiscono un “intervento unitario”,
trattandosi di singoli interventi, con
conseguente applicazione dell’art. 34, comma
2, DPR cit.
Il motivo non può essere accolto.
Come detto, l’Amministrazione, chiamata a
valutare l'impatto paesaggistico e
urbanistico dell’intervento edilizio, ha
correttamente considerato globalmente le
opere, poiché la considerazione atomistica
dei singoli interventi non consente di
comprendere l'effettiva portata della
complessiva alterazione dello stato dei
luoghi.
Detta valutazione globale e unitaria
dell’intervento, ad avviso del Collegio,
è
corretta e fa giusta applicazione del
prevalente orientamento, secondo cui, al
fine di valutare l’incidenza sull’assetto
del territorio di un intervento edilizio
consistente in una pluralità di opere, va
compiuto un apprezzamento globale delle
opere medesime, atteso che la considerazione
“atomistica” dei singoli interventi non
consente di comprendere in modo adeguato
l’impatto effettivo degli interventi
compiuti; pertanto, i molteplici interventi
eseguiti non vanno considerati in maniera
“frazionata” e, al contrario, debbono essere
vagliati in un quadro di insieme e non
segmentato (cfr., da ultimo, Consiglio di
Stato, sez. VI, 06.02.2019, n. 902),
solo così potendosi comprendere il nesso
funzionale che li lega e, in definitiva,
l'effettiva portata dell'operazione (in tal
senso anche questa Sezione con sent. n. 2046
del 05/09/2018).
Per tale ragione è legittimo il
provvedimento, laddove ha applicato l’art. 31
DPR 380/2001, trattandosi di un intervento
totalmente difforme da quello assentito in
precedenza: come emerge dal verbale di
sopralluogo del giorno 01.10.2015, i
manufatti presentano una configurazione ben
diversa da quanto autorizzato, a seguito
dell’esecuzione di opere poste in essere in
assenza totale dei titoli o in difformità
radicale dall’assentito.
Per tale ragione, diviene irrilevante anche
la circostanza che la tensostruttura al
momento dell’adozione dell’ordinanza fosse
dotata di autorizzazione, poiché non si
trattava più della tensostruttura, intesa
come copertura temporanea e amovibile, ma di
una nuova opera, affissa stabilmente al
suolo, realizzata con nuovi materiali e con
dimensioni diverse. |
EDILIZIA PRIVATA: E'
pacifico che l'ordinamento tutela
l'affidamento solo quando sia incolpevole,
mentre la realizzazione di un'opera abusiva
si concretizza in una volontaria attività
del costruttore contra
legem, sì da non potersi ammettere un
affidamento meritevole di tutela alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva. E nella circostanza le
opere sono state realizzate quando nessun
titolo le legittimava.
---------------
È altresì escluso che lo speciale strumento
della c.d. variante semplificata per
attività produttive (introdotta
nell'ordinamento dall'art. 5 del D.P.R. n.
447/1998 ed oggi trasposta nell'art. 8 del
D.P.R. n. 160/2010) possa essere utilizzata
per sanare opere realizzate abusivamente, in quanto si tratta di un
procedimento con la specifica ed esclusiva
finalità di semplificare o rendere più
celere la modifica dello strumento
urbanistico e favorire l'installazione di
strutture produttive, con un meccanismo
procedurale più celere, mentre per la
sanatoria di opere abusive l'unico schema
applicabile è quello riconducibile all'art.
36 del D.P.R. 380/2001.
---------------
3.2 Con il secondo motivo le
ricorrenti censurano il comportamento
contraddittorio dell'Amministrazione
comunale, la quale, dopo aver ingenerato un
incolpevole affidamento nella possibilità
che venisse modificata la disciplina
urbanistica, al fine di consentire il
mantenimento permanente della copertura, non
solo ha interrotto il procedimento di
variante, ma ha avviato l’attività di
controllo, ordinando la demolizione di un
manufatto che, al momento dell’emanazione
dell’ordinanza, era autorizzato. La condotta
dell’Amministrazione sarebbe anche più
grave, considerando che le ricorrenti,
proprio a fronte dell’avvio del procedimento
di variante, hanno interrotto l'iter del
procedimento avviato, ai sensi dell’art. 5
del D.P.R. 447/1998, che avrebbe consentito
il mantenimento permanente della struttura.
Anche questa censura non è fondata.
Il procedimento di variante avviato
dall’Amministrazione non ha creato alcuna
legittima aspettativa in capo alle
ricorrenti, perché si trattava di una
variante finalizzata al mantenimento della
tensostruttura, a uso agricolo, ma pur
sempre con le caratteristiche già assentite.
In ogni caso è pacifico che l'ordinamento
tutela l'affidamento solo quando sia
incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore contra
legem, sì da non potersi ammettere un
affidamento meritevole di tutela alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva (tra le altre, Cons. St. Sez. IV,
28.02.2017, n. 908). E nella circostanza le
opere sono state realizzate quando nessun
titolo le legittimava.
È altresì escluso che lo speciale strumento
della c.d. variante semplificata per
attività produttive (introdotta
nell'ordinamento dall'art. 5 del D.P.R. n.
447/1998 ed oggi trasposta nell'art. 8 del
D.P.R. n. 160/2010) possa essere utilizzata
per sanare opere realizzate abusivamente
(TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 19.12.2014,
n. 2206), in quanto si tratta di un
procedimento con la specifica ed esclusiva
finalità di semplificare o rendere più
celere la modifica dello strumento
urbanistico e favorire l'installazione di
strutture produttive, con un meccanismo
procedurale più celere (TAR Puglia, sez. III Lecce, 14.01.2010, n. 146), mentre
per la sanatoria di opere abusive l'unico
schema applicabile è quello riconducibile
all'art. 36 del D.P.R. 380/2001 (Consiglio
di Stato Ad. Plen. 4/2009)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, Sez. II,
sentenza 08.05.2019 n. 1033 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permessi non fruiti rimborsati. Il comune rifonde il contributo a
chi rinuncia ad edificare. Una ricognizione delle pronunce recenti su oneri
di urbanizzazione e costi di costruzione.
Soddisfatti o rimborsati. I titolari del permesso di
costruire che rinunciano ai lavori, o comunque non utilizzano
l'autorizzazione, possono ottenere dal comune la restituzione delle somme in
precedenza versate a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione: pesa la natura tributaria degli esborsi. In capo
all'amministrazione locale, infatti, si configura un indebito oggettivo e la
rifusione del denaro sborsato dal privato può scattare anche pro quota
quando il titolo edilizio risulta utilizzato solo in parte.
È
quanto emerge dalla
sentenza 02.05.2019 n. 426, pubblicata
dalla II Sez. della sede di Brescia del TAR Lombardia.
I fatti. Il
comune è condannato a versare oltre 24 mila euro all'impresa edile per
effetto dell'accoglimento del ricorso. A suo tempo la ditta ne aveva pagati
55 mila per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione ma poi aveva
rinunciato a realizzare le opere assentite: l'avvio dei lavori, dunque, non
risultava mai comunicato.
In seguito l'impresa voleva costruire quattro
appartamenti in un altro comprensorio e aveva bisogno del permesso in
sanatoria: con la pronuncia in esame ha ottenuto che l'importo
dell'oblazione sia scalato dal versamento precedente e le sia pure
restituita la differenza. Il punto è che il contributo concessorio risulta
legato alla trasformazione del territorio: il mero pagamento non costituisce
acquiescenza all'imposizione e se l'opera non viene realizzata il privato
ottiene la restituzione in base all'articolo 2033 c.c. perché manca
l'obbligazione di dare.
Gli interessi decorrono dalla notifica del ricorso
perché non è provata la malafede dell'amministrazione. Il debito dell'ente è
di valuta: l'impresa manca di dimostrare che sussiste il maggior danno ex
articolo 1224, secondo comma, c.c. e quindi non risulta dovuta la
rivalutazione monetaria.
I precedenti: incremento patrimoniale.
Il contributo concessorio è uno dei nodi più spinosi da sciogliere in caso
di nuove costruzioni. Non è al condominio, per esempio, che il comune può
ingiungere il pagamento gli oneri di costruzione e urbanizzazione. La
prestazione patrimoniale imposta dall'amministrazione, infatti, compensa
l'attività svolta dall'ente che ha assicurato al nuovo insediamento gli
allacci alle condotte dell'acquedotto e delle fognature: deve dunque restare
a carico di chi è titolare del permesso di costruire, cioè dell'impresa che
ha edificato lo stabile.
È quanto emerge dalla sentenza 480/2019, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Sicilia.
Accolto il ricorso del condominio: deve escludersi la legittimazione passiva
dell'ente di gestione rispetto alla diffida e poi all'ingiunzione emesse
dall'amministrazione locale. Risale al lontano 1990 l'allora concessione
edilizia, oggi permesso di costruire: all'originaria titolare subentra
un'altra ditta che completa i lavori nel 1992. Dopo vent'anni si sveglia il
comune che pretende quasi 255 mila euro per contributi di urbanizzazione,
costi di costruzione, penali, interessi e adeguamento.
E oltre
all'amministratore della società l'altro destinatario del provvedimento è
quello del condominio. Che tuttavia non risulta obbligato perché è soltanto
il patrimonio del costruttore a essere incrementato dall'intervento
edilizio: il rilascio della concessione è fatto costitutivo dell'obbligo
giuridico di corrispondere il contributo costituito in capo al cessionario.
E il titolare della concessione volturata resta obbligato in solido al
pagamento degli oneri con l'avente causa, salva la ripartizione dei costi
frutto di accordi interni, a meno che i lavori non siano realizzati del
tutto dal terzo.
Modifica onerosa.
Può costare caro, poi, anche il semplice cambio di destinazione
dell'immobile. Il laboratorio artigianale che diventa locale commerciale
paga al comune gli oneri di urbanizzazione anche se la trasformazione non
prevede la realizzazione di opere. E ciò perché il cambio di modo d'uso, pur
se soltanto funzionale, deve ritenersi oneroso in quanto implica un
passaggio fra categorie urbanistiche differenti.
È quanto emerge dalla sentenza 309/18, pubblicata dalla terza sezione del
tribunale amministrativo regionale della Toscana.
Niente da fare per la srl: pagherà il contributo richiesto dal servizio
edilizia privata dell'ente locale. Inutile dedurre che il mutamento di
destinazione solo funzionale sarebbe attività libera e gratuita salvo
diversa disposizione della legge regionale. Per legittimare il comune a
pretendere il pagamento non serve il piano di localizzazione o distribuzione
delle funzioni né l'adozione di altri atti urbanistici.
E ciò perché è in
base all'articolo 5 del dm 1444/1968 che si ricava come il passaggio da
bottega artigianale a esercizio commerciale determini di per sé l'aumento
del carico urbanistico dei locali perché deve ritenersi una trasformazione
significativa per i valori tutelati dalle norme: va dunque annoverato fra
gli interventi da realizzare a titolo oneroso. Non giova allora alla società
fare riferimento alla circolare della giunta regionale, che non può mutare
l'inquadramento disposto dalla legge.
Obbligo eluso.
Attenzione, però: scatta lo stop agli oneri di urbanizzazione quando il
comune non sa spiegare come è arrivato a determinare la somma richiesta.
Evita dunque il contributo concessorio la spa che intende ristrutturare
l'immobile con cambio di destinazione a industriale a commerciale.
È quanto emerge dalla sentenza 1498/16, pubblicata dalla seconda sezione del
Tar Calabria.
Il ricorso della società che intende riconvertire lo stabilimento è accolto
per la carenza di motivazione del provvedimento adottato
dall'amministrazione locale. Un'omissione che peraltro continua anche in
corso di causa perché anche dopo la richiesta ad hoc del collegio l'ente
locale non riesce a motivare la sua istruttoria e, quindi, a rendere ragione
del motivo per cui ha adottato la sua tabella A per addebitare gli oneri di
urbanizzazione all'impresa che procede alla ristrutturazione.
L'azienda è
quindi costretta a ricorrere al giudice perché non ha contezza del
procedimento seguito dal punto di vista tecnico, istruttorio e contabile. E
invece nel processo amministrativo incombe sull'ente l'onere di leale e
fattiva collaborazione all'attività istruttoria disposta dal giudice.
Parcheggi gratis.
Niente esborsi, infine, per le opere di utilità comune. L'impresa che
realizza l'intervento edilizio non paga il contributo di costruzione sui
parcheggi: il titolo per costruire, infatti, deve ritenersi gratuito per i
posteggi perché costituiscono un'opera di urbanizzazione utile agli
interessi della viabilità anche senza la mediazione di alcun edificio. Il
tutto grazie alla legge regionale lombarda che ha superato il requisito
della pertinenzialità al fabbricato.
È quanto emerge dalla sentenza 192/18, pubblicata dalla II Sez. del TAR Milano.
Accolto il ricorso dell'impresa che sta realizzando l'intervento edilizio
nell'area di sua proprietà: si tratta della demolizione del fabbricato
esistente e della ricostruzione, sempre a scopi residenziali, nel rispetto
della volumetria precedente. Il comune dell'hinterland ambrosiano deve
restituire alla società oltre 110 mila euro, vale a dire l'equivalente del
contributo di costruzione relativo ai parcheggi. Il regime di gratuità dei
posteggi si applica anche agli edifici nuovi e non soltanto a quelli
preesistenti.
E non può dirsi che la legge lombarda stravolga la nozione di
opere di urbanizzazione: i parcheggi costruiti all'interno dei comprensori
abitativi, infatti, realizzati anche in eccedenza alla quota minima prevista
per legge salvano le strade dalla sosta selvaggia delle auto e dunque
contribuiscono a ridurre il traffico dei veicoli. D'altronde già in passato
la normativa regionale qualificava i parcheggi come opere di urbanizzazione
e dunque avrebbe dovuto far scattare lo stop al contributo di costruzione
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2019). |
TRIBUTI: P.a.
in ritardo è evento ordinario. Il pagamento tardivo non è causa di forza
maggiore. La Ctr Lazio sull’omesso versamento delle imposte. Sta al
contribuente adottare precauzioni.
Un ritardato pagamento da parte della pubblica
amministrazione non costituisce causa di forza maggiore che giustifica
l'omesso versamento delle imposte.
Lo
ha stabilito la Commissione tributaria regionale del Lazio, nella sentenza
03.04.2019 n. 2017, secondo cui il ritardo non può configurare un evento
imprevedibile tale da rientrare nella fattispecie di forza maggiore.
Piuttosto, il ritardo lamentato dal contribuente è ricorrente e prevedibile.
Il collegio ha affrontato questo tema in seguito a una eccezione sollevata
da una srl che ha invocato l'applicazione dell'art. 6, comma 5, del dlgs n.
472/1997, dal titolo «Cause di non punibilità», secondo cui: «Non è punibile
chi ha commesso il fatto per forza maggiore». Ciò al fine di non pagare le
sanzioni e gli interessi conseguenti all'omesso versamento di ritenute di
acconto.
La Ctr ha chiarito, confermando la decisione dei giudici di prime cure, che
se un imprenditore non ha versato quanto dovuto per ritardo nei pagamenti da
parte della pubblica amministrazione deve comunque essere soggetto al
pagamento delle imposte in quanto non si tratta di una giustificazione
valida come causa di forza maggiore. Questa decisione si inserisce sulla
scia della giurisprudenza unionale (Corte di giustizia Ce C/314/06) secondo
la quale la nozione di forza maggiore, in materia tributaria e fiscale,
comporta l'esistenza di un elemento oggettivo (circostanze anormali ed
estranee all'operatore) e di un elemento soggettivo (obbligo
dell'interessato di premunirsi contro le conseguenze dell'evento anormale).
Non solo. I giudici di appello hanno rilevato che anche la Cassazione, in
linea con la giurisprudenza costante del nostro paese e della Corte di
giustizia europea appunto, afferma che non può considerarsi causa di forza
maggiore il ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione in quanto
prevedibile e considerato ordinario nella gestione dell'attività di impresa,
tale per cui non spinge il ricorrente a un comportamento straordinario al di
fuori di quanto quotidianamente accade durante la programmazione della
gestione aziendale.
Inoltre la posizione espressa dalla Corte di giustizia europea nasce da
principi formatisi in contesti diversi, come quello della regolamentazione
agricola o delle regole relative ai termini per l'impugnazione di cui
all'art. 45 dello Statuto della Corte di giustizia («Nessuna decadenza
risultante dallo spirare dei termini può essere eccepita quando
l'interessato provi l'esistenza di un caso fortuito o di forza maggiore»),
la nozione di forza maggiore non si limita all'impossibilità assoluta, ma
deve essere intesa nel senso di circostanze anormali e imprevedibili,
indipendenti dall'operatore.
E ancora, elencando le definizioni di causa di forza maggiore, ai sensi
dell'art. 14, n. 1, prima frase, della direttiva 92/12, la nozione è legata
al fatto che la sopravvenienza non abbia potuto essere prevista in alcun
modo da parte del contribuente.
Incombe ai giudici nazionali, tuttavia, verificare se tali condizioni sono
soddisfatte nella fattispecie principale. Infatti, una diligenza sufficiente
presuppone anche un comportamento attivo continuo, orientato verso
l'identificazione e la valutazione dei rischi potenziali, nonché la capacità
di adottare misure adeguate ed efficaci per prevenire la realizzazione di
tali rischi.
Ne risulta che, come già precisato dalla Corte, la nozione di forza maggiore
comporta, come già detto, un elemento oggettivo, relativo alle circostanze
anormali ed estranee all'operatore, e un elemento soggettivo, costituito
dall'obbligo dell'interessato di premunirsi contro le conseguenze
dell'evento anormale, adottando misure appropriate senza incorrere in
sacrifici eccessivi.
Nel caso considerato il soggetto in questione non ha adottato tutte le
precauzioni, dovute non avendo sopportato rischi eccessivi onde evitare il
mancato pagamento delle imposte. Per tale ragione la Commissione tributaria
regionale ha respinto, adeguandosi alle decisioni dei giudici della Corte di
giustizia europea e coerentemente con quanto stabilito dalla Corte di
legittimità, le eccezioni sollevate dal contribuente.
Di diverso tenore la sentenza della Cassazione, la n. 17727 del 29/04/2019,
per la quale, a seguito di ricorso inoltrato per una società in fase di
liquidazione, in caso di omesso versamento dell'Iva, l'imprenditore che si
trova nell'impossibilità per causa di forza maggiore, è assolto perché ha
dovuto rispondere di debiti da soddisfare prioritariamente, come da art.
2777 c.c., rispetto ai tributi, come il versamento dei salari e stipendi e
di contributi ai lavoratori; per cui trovandosi in periodi di difficoltà
economica con scarsa liquidità non ha potuto agire diversamente, trovandosi
in una situazione da lui non voluta per dolo o colpa grave e non essendo in
grado di reperire altra liquidità tramite prestiti da banche o società
finanziarie o accordi con fornitori o clienti.
Peraltro, l'obbligo civilistico del pagamento dei tributi non versati si
riferisce esclusivamente alle imposte sui redditi, per cui secondo il
Collegio il principio è soddisfare i crediti secondo un ordine gerarchico
come da già citato art. 2777 c.c. che in caso di omessi pagamenti dovuti
all'insufficienza di risorse tipico della fase liquidatoria di un'attività o
di un'azienda in crisi comporta che nessuno specifico motivo di rimprovero
può essere mosso all'imprenditore o altri.
Per dimostrare comunque che sono state adottate tutte le misure necessarie,
si accantonano, per esempio, fondi sufficienti per fronteggiare future e
prevedibili difficoltà in cui si può incorrere stante l'attività
dell'impresa e il settore in cui opera.
In effetti, anche nel caso di pagamenti in ritardo da parte della pubblica
amministrazione, l'imprenditore deve considerare i tempi che solitamente
occorrono per pagare i fornitori. Ecco perché il mancato pagamento da parte
di debitori pubblici o privati non integra di per sé la causa di forza
maggiore, non essendo esimente il ritardo considerato se l'imprenditore,
come nel caso precedente, non ha provveduto a fronteggiare questi rischi con
le dovute precauzioni del caso senza che queste mutassero in costi eccessivi
per l'attività
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Immobile
urbanisticamente non conforme e responsabilità professionale del tecnico
incaricato di redigere la relazione preliminare alla vendita.
La diligenza che il professionista deve impiegare nello
svolgimento della sua attività è quella media, cioè la diligenza posta
nell'esercizio della propria attività dal professionista di preparazione
professionale e attenzione medie. Ne consegue che ove il professionista,
nello svolgimento dell’attività, non ponga la diligenza media, la sua
responsabilità verso il cliente è disciplinata dai comuni principi della
responsabilità contrattuale. Perciò il professionista risponde, oltre che
per il dolo, anche per colpa lieve
(TRIBUNALE di Firenze, Sez. III, sentenza 10.01.2019 n. 77). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.06.2019 |
ã |
La Corte di Giustizia UE si è
pronunciata: incarico "fiduciario"
al legale per resistere in giudizio?
Detto altrimenti,
le
linee guida n. 12 dell'ANAC
(ancorché non vincolanti)
nonché i vari pareri espressi dalle varie
Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti li
possiamo tranquillamente cestinare sicché si possa tornare
al vecchio e pratico incarico "intuitu personae"
senza "lacci e lacciuoli" di sorta?
(cfr. Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 11.05.2012 n. 2730). |
INCARICHI PROFESSIONALI: «Rinvio
pregiudiziale – Procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi – Direttiva 2014/24/UE – Articolo 10,
lettera c) e lettera d), i), ii) e v) – Validità – Ambito di applicazione –
Esclusione dei servizi di arbitrato e di conciliazione e di determinati
servizi legali – Principi di parità di trattamento e sussidiarietà –
Articoli 49 e 56 TFUE»
Per quanto riguarda i servizi forniti da avvocati, di
cui all’articolo
10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24, dal considerando
25 di tale direttiva risulta che il legislatore dell’Unione ha tenuto
conto del fatto che tali servizi legali sono di solito prestati da organismi
o persone designati o selezionati secondo modalità che non possono essere
disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti pubblici in
determinati Stati membri, cosicché occorreva escludere tali servizi legali
dall’ambito di applicazione della direttiva in parola.
A tale riguardo, occorre rilevare che l’articolo
10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24 non esclude
dall’ambito di applicazione di detta direttiva tutti i servizi che possono
essere forniti da un avvocato a un’amministrazione aggiudicatrice, ma
unicamente la rappresentanza legale del suo cliente nell’ambito di un
procedimento dinanzi a un organo internazionale di arbitrato o di
conciliazione, dinanzi ai giudici o alle autorità pubbliche di uno
Stato membro o di un paese terzo, nonché dinanzi ai giudici o alle
istituzioni internazionali, ma anche la consulenza legale fornita
nell’ambito della preparazione o dell’eventualità di un siffatto
procedimento. Simili prestazioni di servizi fornite da un avvocato
si configurano solo nell’ambito di un rapporto intuitu personae tra
l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla massima riservatezza.
Orbene, da un lato, un siffatto rapporto
intuitu personae tra l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla
libera scelta del suo difensore e dalla fiducia che unisce il cliente al suo
avvocato, rende difficile la descrizione oggettiva della qualità che si
attende dai servizi da prestare.
Dall’altro, la riservatezza del rapporto tra
avvocato e cliente, il cui oggetto consiste, in particolare nelle
circostanze descritte al punto 35 della presente sentenza, tanto nel
salvaguardare il pieno esercizio dei diritti della difesa dei singoli quanto
nel tutelare il requisito secondo il quale ogni singolo deve avere la
possibilità di rivolgersi con piena libertà al proprio avvocato
(v., in tal senso, sentenza del 18.05.1982, AM & S Europe/Commissione,
155/79, EU:C:1982:157, punto 18), potrebbe essere
minacciata dall’obbligo, incombente sull’amministrazione aggiudicatrice, di
precisare le condizioni di attribuzione di un siffatto appalto nonché la
pubblicità che deve essere data a tali condizioni.
Ne consegue che, alla luce delle loro caratteristiche oggettive,
i servizi di cui all’articolo
10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24, non sono
comparabili agli altri servizi inclusi nell’ambito di applicazione della
direttiva medesima. Tenuto conto di tale differenza oggettiva, è altresì
senza violare il principio della parità di trattamento che il legislatore
dell’Unione ha potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escludere
tali servizi dall’ambito di applicazione di detta direttiva.
Sotto un terzo profilo, per quanto riguarda i
servizi legali rientranti nelle attività che partecipano, anche
occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri, di cui all’articolo
10, lettera d), v), della direttiva 2014/24, tali attività, e
pertanto tali servizi, sono escluse, ai sensi dell’articolo 51 TFUE,
dall’ambito di applicazione delle disposizioni di detto Trattato relative
alla libertà di stabilimento e di quelle relative alla libera prestazione di
servizi ai sensi dell’articolo 62 TFUE.
Siffatti servizi si distinguono da quelli che rientrano nell’ambito di
applicazione di tale direttiva poiché partecipano direttamente o
indirettamente all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno
ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre
collettività pubbliche.
Ne risulta che, per loro stessa natura, i servizi legali
connessi, anche occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri non sono
comparabili, per le loro caratteristiche oggettive, agli altri servizi
inclusi nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/24. Tenuto
conto di tale differenza oggettiva, è, ancora una volta, senza violare il
principio della parità di trattamento che il legislatore dell’Unione ha
potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escluderli dall’ambito di
applicazione della direttiva 2014/24.
Pertanto, dall’esame delle disposizioni dell’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24
non è emerso alcun elemento che possa inficiare la loro validità alla luce
dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché degli
articoli 49 e 56 TFUE.
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Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sulla validità dell’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e
che abroga la direttiva 2004/18/CE (GU 2014, L 94, pag. 65).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un
lato, P.M., N.G.d.M. e P.V.d.S. e, dall’altro, il Ministerraad (Consiglio
dei Ministri, Belgio) in merito all’esclusione, ad opera della normativa
belga di trasposizione delle disposizioni della direttiva 2014/24, di
determinati servizi legali dalle procedure di aggiudicazione di appalti
pubblici.
Contesto normativo
Diritto dell’Unione
3 I considerando 1, 4, 24 e 25 della direttiva 2014/24 stabiliscono
quanto segue:
«(1) L’aggiudicazione degli appalti pubblici da o per conto di
autorità degli Stati membri deve rispettare i principi del trattato [FUE] e
in particolare la libera circolazione delle merci, la libertà di
stabilimento e la libera prestazione di servizi, nonché i principi che ne
derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo
riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza. Tuttavia, per gli
appalti pubblici con valore superiore a una certa soglia è opportuno
elaborare disposizioni per coordinare le procedure nazionali di
aggiudicazione degli appalti in modo da garantire che a tali principi sia
dato effetto pratico e che gli appalti pubblici siano aperti alla
concorrenza.
(...)
(4) La crescente diversità delle forme di intervento pubblico ha
reso necessario definire più chiaramente il concetto stesso di appalto.
Questo chiarimento in quanto tale non dovrebbe tuttavia ampliare l’ambito di
applicazione della presente direttiva rispetto a quello della direttiva
2004/18/CE [del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi (GU 2004, L 134, pag. 114)]. La normativa
dell’Unione in materia di appalti pubblici non intende coprire tutte le
forme di esborsi di fondi pubblici, ma solo quelle rivolte all’acquisizione
di lavori, forniture o prestazioni di servizi a titolo oneroso per mezzo di
un appalto pubblico. (...)
(...)
(24) È opportuno ricordare che i servizi d’arbitrato e di
conciliazione e altre forme analoghe di risoluzione alternativa delle
controversie sono di norma prestati da organismi o persone approvati, o
selezionati, secondo modalità che non possono essere disciplinate da norme
di aggiudicazione degli appalti. Occorre precisare che la presente direttiva
non si applica agli appalti di servizi per la fornitura di tali servizi
indipendentemente dalla loro denominazione nel diritto interno.
(25) Taluni servizi legali sono forniti da prestatori di servizi
designati da un organo giurisdizionale di uno Stato membro, comportano la
rappresentanza dei clienti in procedimenti giudiziari da parte di avvocati,
devono essere prestati da notai o sono connessi all’esercizio di pubblici
poteri. Tali servizi legali sono di solito prestati da organismi o persone
selezionate o designate secondo modalità che non possono essere disciplinate
da norme di aggiudicazione degli appalti, come può succedere ad esempio per
la designazione dei pubblici ministeri in taluni Stati membri. Tali servizi
legali dovrebbero pertanto essere esclusi dall’ambito di applicazione della
presente direttiva».
4 L’articolo 10 di detta direttiva, intitolato «Esclusioni specifiche per
gli appalti di servizi», dispone, alle lettere c) e d), quanto segue:
«La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi:
(...)
c) concernenti i servizi d’arbitrato e di conciliazione;
d) concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi legali:
i) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai
sensi dell’articolo 1 della direttiva 77/249/CEE del Consiglio [, del
22.03.1977, intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera
prestazione di servizi da parte degli avvocati (GU 1977, L 78, pag. 17)]:
– in un arbitrato o in una conciliazione tenuti
in uno Stato membro, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o
conciliativa internazionale; oppure
– in procedimenti giudiziari dinanzi a organi
giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro o un paese terzo o
dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali;
ii) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei
procedimenti di cui alla presente lettera, punto i), o qualora vi sia un
indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la
consulenza divenga oggetto del procedimento in questione, sempre che la
consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della
direttiva [77/249];
(...)
v) altri servizi legali che, nello Stato membro interessato, sono
connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri».
Diritto belga
5 Con la legge sugli agli appalti pubblici, del 17.06.2016 (Moniteur
belge del 14.07.2016, pag. 44219), il legislatore belga ha rivisto le norme
per l’aggiudicazione degli appalti e ha reso conforme la propria
legislazione con la direttiva 2014/24. L’articolo 28 di tale legge prevede
quanto segue:
«§ 1°. Fatto salvo il paragrafo 2, non sono soggetti all’applicazione
della presente legge gli appalti pubblici di servizi:
(...)
3° concernenti i servizi d’arbitrato e di conciliazione;
4° concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi legali:
a) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai
sensi dell’articolo 1 della direttiva [77/249]:
i. in un arbitrato o in una conciliazione tenuti
in uno Stato membro, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o
conciliativa internazionale; oppure
ii. in procedimenti giudiziari dinanzi a organi
giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro o un paese terzo o
dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali;
b) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei
procedimenti di cui al presente punto, lettera a), o qualora vi sia un
indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la
consulenza divenga oggetto del procedimento in questione, sempre che la
consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della
direttiva [77/249];
(...)
e) altri servizi legali che, nel Regno, sono connessi, anche
occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri;
(...)
§ 2. Il Re può stabilire le norme di aggiudicazione cui sono assoggettati
gli appalti di cui al paragrafo 1, 4, lettere a e b, nei casi da esso
stabiliti».
Procedimento principale e questione pregiudiziale
6 Il 16.01.2017, P.M., N.G.d.M. e P.V.d.S., ricorrenti nel procedimento
principale, avvocati e soggetti con una formazione giuridica, hanno adito il
giudice del rinvio, il Grondwettelijk Hof (Corte costituzionale, Belgio),
con un ricorso di annullamento delle disposizioni della legge sugli appalti
pubblici, che escludono determinati servizi legali, nonché determinati
servizi di arbitrato e di conciliazione, dall’ambito di applicazione di
detta legge.
7 I ricorrenti nel procedimento principale fanno valere che tali
disposizioni, poiché hanno l’effetto di sottrarre l’attribuzione dei servizi
ivi previsti dalle norme in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici
previste da suddetta legge, creano una differenza di trattamento che non può
essere giustificata.
8 Il giudice del rinvio ritiene quindi che si ponga la questione se
l’esclusione di tali servizi dalle procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici pregiudichi gli obiettivi, perseguiti dal legislatore dell’Unione
al momento dell’adozione della direttiva 2014/24, relativi alla piena
concorrenza, alla libera prestazione di servizi e alla libertà di
stabilimento, e se i principi di sussidiarietà e di parità di trattamento
non avrebbero dovuto condurre a un’armonizzazione delle norme del diritto
dell’Unione anche nei confronti di tali servizi.
9 Secondo tale giudice, per valutare la costituzionalità delle disposizioni
legislative nazionali di cui è chiesto l’annullamento, è necessario
esaminare se le disposizioni dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i),
ii) e v), di tale direttiva siano compatibili con i principi di parità di
trattamento e di sussidiarietà nonché con gli articoli 49 e 56 TFUE.
10 Ciò considerato, il Grondwettelijk Hof (Corte
costituzionale) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla
Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se l’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva [2014/24] sia
conforme al principio di parità di trattamento, eventualmente in combinato
disposto con il principio di sussidiarietà e con gli articoli 49 e 56 [TFUE],
atteso che i servizi ivi menzionati sono esclusi dall’applicazione delle
norme di aggiudicazione di cui alla citata direttiva, che garantiscono
peraltro la piena concorrenza e la libera circolazione nell’acquisto di
servizi ad opera della pubblica amministrazione».
Sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale
11 I governi ceco e cipriota contestano la ricevibilità della questione
pregiudiziale e, pertanto, della domanda di pronuncia pregiudiziale.
12 Il governo ceco afferma che tale questione non ha alcun rapporto con
l’effettività o con l’oggetto del procedimento principale, che riguarderebbe
la questione se la Costituzione belga osti a che il diritto nazionale
sottragga dall’ambito di applicazione delle norme nazionali in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici determinati servizi legali parimenti
esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva 2014/24. Orbene, il
diritto dell’Unione non imporrebbe a uno Stato membro di includere i servizi
in questione nell’ambito di applicazione delle norme nazionali di
trasposizione. Tale questione dovrebbe quindi essere valutata unicamente
alla luce della Costituzione belga.
13 Il governo cipriota sostiene, dal canto suo, che la questione posta verte
sulla conformità dell’articolo 10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), di
tale direttiva agli articoli 49 e 56 TFUE. Orbene, qualsiasi misura
nazionale che avrebbe costituito oggetto di un’armonizzazione esauriente a
livello dell’Unione dovrebbe essere valutata alla luce delle disposizioni di
questa misura di armonizzazione, e non di quelle del diritto primario.
14 A tale proposito, occorre ricordare che, quando una questione concernente
la validità di un atto adottato dalle istituzioni dell’Unione è sollevata
dinanzi ad un giudice nazionale, spetta a quest’ultimo giudicare se una
decisione su tale punto sia necessaria per pronunciare la sua sentenza e,
pertanto, chiedere alla Corte di statuire su tale questione. Di conseguenza,
qualora le questioni sollevate dal giudice nazionale riguardino la validità
di una disposizione di diritto dell’Unione, in via di principio la Corte è
tenuta a statuire [sentenze dell’11.11.1997, Eurotunnel e a., C‑408/95,
EU:C:1997:532, punto 19, del 10.12.2002, British American Tobacco (Investments)
e Imperial Tobacco, C‑491/01, EU:C:2002:741, punto 34, e del 28.03.2017,
Rosneft, C‑72/15, EU:C:2017:236, punto 49].
15 La Corte può rifiutarsi di statuire su una questione pregiudiziale
sottoposta da un giudice nazionale, ai sensi dell’articolo 267 TFUE,
soltanto qualora, segnatamente, non siano rispettati i requisiti relativi al
contenuto della domanda di pronuncia pregiudiziale riportati all’articolo 94
del regolamento di procedura della Corte o appaia in modo manifesto che
l’interpretazione di una norma dell’Unione o il giudizio sulla sua validità
chiesti da tale giudice non abbiano alcuna relazione con l’effettività o con
l’oggetto del procedimento principale o qualora il problema sia di natura
ipotetica (sentenza del 28.03.2017, Rosneft, C‑72/15, EU:C:2017:236, punto
50).
16 Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio risulta che le disposizioni
nazionali di cui trattasi nel procedimento principale, delle quali si chiede
l’annullamento dinanzi al giudice del rinvio, riguardano la legge di
trasposizione, nel diritto belga, della direttiva 2014/24 e, in particolare,
l’esclusione di determinati servizi legali dall’ambito di applicazione di
quest’ultima.
17 In siffatte circostanze, contrariamente a quanto sostenuto dai governi
ceco e cipriota, la questione della validità dell’articolo 10, lettera c) e
lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24 non è priva di pertinenza
ai fini dell’esito della controversia principale. Infatti, nell’ipotesi in
cui l’esclusione prevista da dette disposizioni sia dichiarata invalida, le
disposizioni di cui si chiede l’annullamento dinanzi al giudice del rinvio
dovrebbero essere considerate contrarie al diritto dell’Unione.
18 Dalle considerazioni che precedono risulta che la questione posta, e
pertanto la domanda di pronuncia pregiudiziale, è ricevibile.
Sulla questione pregiudiziale
19 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede,
in sostanza, alla Corte di pronunciarsi sulla validità
dell’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24,
alla luce dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché
degli articoli 49 e 56 TFUE.
20 Per quanto concerne, in primo luogo, il principio di sussidiarietà
e il rispetto degli articoli 49 e 56 TFUE, si deve ricordare, da un lato,
che il principio di sussidiarietà, enunciato all’articolo 5, paragrafo 3,
TUE, prevede che l’Unione, nei settori che non sono di sua esclusiva
competenza, intervenga solo e nei limiti in cui gli obiettivi dell’azione
prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e
dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione prospettata,
possano essere realizzati meglio a livello dell’Unione (v., in tal senso,
sentenza del 04.05.2016, Philip Morris Brands e a., C‑547/14, EU:C:2016:325,
punto 215 e giurisprudenza citata).
21 Discende necessariamente dal fatto che il legislatore
dell’Unione ha escluso dall’ambito di applicazione della
direttiva 2014/24 i servizi di cui all’articolo 10, lettera c) e lettera d),
i), ii) e v), di quest’ultima che esso ha, in tal modo, ritenuto
che spettava ai legislatori nazionali determinare se tali servizi dovessero
essere soggetti alle norme in materia di aggiudicazione di appalti pubblici.
22 Pertanto, non si può sostenere che tali disposizioni siano state adottate
in violazione del principio di sussidiarietà.
23 Dall’altro lato, quanto al rispetto degli articoli 49 e 56 TFUE,
il considerando 1 della direttiva 2014/24 enuncia che
l’aggiudicazione di appalti pubblici da parte delle autorità degli Stati
membri o in loro nome deve essere conforme ai principi del Trattato FUE, in
particolare alle disposizioni relative alla libertà di stabilimento e alla
libera prestazione di servizi.
24 Secondo una giurisprudenza costante della Corte, infatti, il
coordinamento a livello dell’Unione delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici è diretto a eliminare gli ostacoli alla libera circolazione
dei servizi e delle merci che tali procedure possono instaurare e a
proteggere, quindi, gli interessi degli operatori economici stabiliti in uno
Stato membro i quali intendano offrire beni o servizi alle amministrazioni
aggiudicatrici stabilite in un altro Stato membro (v., in tal senso,
sentenza del 13.11.2007, Commissione/Irlanda, C‑507/03, EU:C:2007:676, punto
27 e giurisprudenza citata).
25 Non ne consegue tuttavia che ‑escludendo i servizi di
cui all’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24
dall’ambito di applicazione di quest’ultima e, pertanto, non costringendo
gli Stati membri a sottoporli alle norme in materia di aggiudicazione di
appalti pubblici‑ questa stessa
direttiva violerebbe le libertà garantite dai Trattati.
26 Per quanto concerne, in secondo luogo, il potere discrezionale del
legislatore dell’Unione e il principio generale di parità di trattamento,
secondo una giurisprudenza costante della Corte, quest’ultima ha
riconosciuto al legislatore dell’Unione, nell’ambito dell’esercizio delle
competenze a esso demandate, un ampio margine di discrezionalità quando la
sua azione implica scelte di natura politica, economica e sociale, e quando
è chiamato a effettuare valutazioni complesse (sentenze del 16.12.2008,
Arcelor Atlantique et Lorraine e a., C‑127/07, EU:C:2008:728, punto 57,
nonché del 30.01.2019, Planta Tabak, C‑220/17, EU:C:2019:76, punto 44). Solo
la manifesta inidoneità di una misura adottata in tale ambito, in relazione
allo scopo che l’istituzione competente intende perseguire, può inficiare la
legittimità di tale misura (sentenza del 14.12.2004, Swedish Match,
C‑210/03, EU:C:2004:802, punto 48).
27 Tuttavia, anche in presenza di un tale potere, il legislatore dell’Unione
è tenuto a basare la sua scelta su criteri oggettivi e adeguati rispetto
allo scopo perseguito dalla normativa di cui trattasi (sentenza del
16.12.2008, Arcelor Atlantique et Lorraine e a., C‑127/07, EU:C:2008:728,
punto 58).
28 Inoltre, conformemente a una giurisprudenza costante della Corte, il
principio generale della parità di trattamento, quale principio generale del
diritto dell’Unione, impone che situazioni analoghe non siano trattate in
maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera
uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato
(sentenza del 16.12.2008, Arcelor Atlantique et Lorraine e a., C‑127/07,
EU:C:2008:728, punto 23 e giurisprudenza citata).
29 La comparabilità di situazioni diverse è valutata tenendo conto di tutti
gli elementi che le caratterizzano. Tali elementi devono, in particolare,
essere determinati e valutati alla luce dell’oggetto e dello scopo dell’atto
dell’Unione che stabilisce la distinzione di cui trattasi. Inoltre, devono
essere presi in considerazione i principi e gli obiettivi del settore cui si
riferisce l’atto in parola (sentenze del 12.05.2011, Lussemburgo/Parlamento
e Consiglio, C‑176/09, EU:C:2011:290, punto 32, nonché del 30.01.2019,
Planta Tabak, C‑220/17, EU:C:2019:76, punto 37).
30 È alla luce di tali principi che occorre esaminare la
validità dell’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii), e v), della direttiva 2014/24
con riferimento al principio della parità di trattamento.
31 Pertanto, per quanto riguarda, sotto un primo profilo, i servizi
di arbitrato e di conciliazione di cui all’articolo
10, lettera c), della direttiva 2014/24, il considerando 24
di quest’ultima enuncia che gli organismi o persone che forniscono servizi
di arbitrato e di conciliazione e altre forme analoghe di risoluzione
alternativa delle controversie sono selezionati secondo modalità che non
possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti.
32 Infatti, gli arbitri e conciliatori devono sempre essere accettati da
tutte le parti della controversia e sono designati di comune accordo da
queste ultime. Un ente pubblico che lanci una procedura di aggiudicazione di
appalti pubblici per un servizio di arbitrato o di conciliazione non
potrebbe, pertanto, imporre all’altra parte l’aggiudicatario di tale appalto
in quanto arbitro o conciliatore comune.
33 Tenuto conto delle loro caratteristiche oggettive, i servizi di arbitrato
e di conciliazione di cui all’articolo
10, lettera c), non sono pertanto comparabili agli altri servizi inclusi
nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/24. Ne consegue che è senza
violare il principio della parità di trattamento che il legislatore
dell’Unione ha potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escludere i
servizi di cui all’articolo
10, lettera c), della direttiva 2014/24 dall’ambito di applicazione di
quest’ultima.
34 Sotto un secondo profilo, per quanto riguarda i
servizi forniti da avvocati, di cui all’articolo
10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24, dal considerando
25 di tale direttiva risulta che il legislatore dell’Unione ha tenuto
conto del fatto che tali servizi legali sono di solito prestati da organismi
o persone designati o selezionati secondo modalità che non possono essere
disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti pubblici in
determinati Stati membri, cosicché occorreva escludere tali servizi legali
dall’ambito di applicazione della direttiva in parola.
35 A tale riguardo, occorre rilevare che l’articolo
10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24 non esclude
dall’ambito di applicazione di detta direttiva tutti i servizi che possono
essere forniti da un avvocato a un’amministrazione aggiudicatrice, ma
unicamente la rappresentanza legale del suo cliente nell’ambito di un
procedimento dinanzi a un organo internazionale di arbitrato o di
conciliazione, dinanzi ai giudici o alle autorità pubbliche di uno
Stato membro o di un paese terzo, nonché dinanzi ai giudici o alle
istituzioni internazionali, ma anche la consulenza legale fornita
nell’ambito della preparazione o dell’eventualità di un siffatto
procedimento. Simili prestazioni di servizi fornite da un avvocato si
configurano solo nell’ambito di un rapporto intuitu personae tra
l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla massima riservatezza.
36 Orbene, da un lato, un siffatto rapporto
intuitu personae tra l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla
libera scelta del suo difensore e dalla fiducia che unisce il cliente al suo
avvocato, rende difficile la descrizione oggettiva della qualità che si
attende dai servizi da prestare.
37 Dall’altro, la riservatezza del rapporto tra
avvocato e cliente, il cui oggetto consiste, in particolare nelle
circostanze descritte al punto 35 della presente sentenza, tanto nel
salvaguardare il pieno esercizio dei diritti della difesa dei singoli quanto
nel tutelare il requisito secondo il quale ogni singolo deve avere la
possibilità di rivolgersi con piena libertà al proprio avvocato
(v., in tal senso, sentenza del 18.05.1982, AM & S Europe/Commissione,
155/79, EU:C:1982:157, punto 18), potrebbe essere
minacciata dall’obbligo, incombente sull’amministrazione aggiudicatrice, di
precisare le condizioni di attribuzione di un siffatto appalto nonché la
pubblicità che deve essere data a tali condizioni.
38 Ne consegue che, alla luce delle loro caratteristiche oggettive,
i servizi di cui all’articolo
10, lettera d), i) e ii), della direttiva 2014/24, non sono
comparabili agli altri servizi inclusi nell’ambito di applicazione della
direttiva medesima. Tenuto conto di tale differenza oggettiva, è altresì
senza violare il principio della parità di trattamento che il legislatore
dell’Unione ha potuto, nell’ambito del suo potere discrezionale, escludere
tali servizi dall’ambito di applicazione di detta direttiva.
39 Sotto un terzo profilo, per quanto riguarda i
servizi legali rientranti nelle attività che partecipano, anche
occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri, di cui all’articolo
10, lettera d), v), della direttiva 2014/24, tali attività, e
pertanto tali servizi, sono escluse, ai sensi dell’articolo 51 TFUE,
dall’ambito di applicazione delle disposizioni di detto Trattato relative
alla libertà di stabilimento e di quelle relative alla libera prestazione di
servizi ai sensi dell’articolo 62 TFUE.
Siffatti servizi si distinguono da quelli che rientrano nell’ambito di
applicazione di tale direttiva poiché partecipano direttamente o
indirettamente all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno
ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre
collettività pubbliche.
40 Ne risulta che, per loro stessa natura, i servizi legali
connessi, anche occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri non sono
comparabili, per le loro caratteristiche oggettive, agli altri servizi
inclusi nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/24. Tenuto conto di
tale differenza oggettiva, è, ancora una volta, senza violare il principio
della parità di trattamento che il legislatore dell’Unione ha potuto,
nell’ambito del suo potere discrezionale, escluderli dall’ambito di
applicazione della direttiva 2014/24.
41 Pertanto, dall’esame delle disposizioni dell’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24
non è emerso alcun elemento che possa inficiare la loro validità alla luce
dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché degli
articoli 49 e 56 TFUE.
42 In relazione a quanto sopra esposto, occorre rispondere alla questione
sollevata dichiarando che dall’esame di quest’ultima non è
emerso alcun elemento che possa inficiare la validità delle disposizioni
dell’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24
alla luce dei principi di parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché
degli articoli 49 e 56 TFUE.
Sulle spese
43 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa
costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta
quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per
presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara:
Dall’esame della questione non è emerso alcun elemento che
possa inficiare la validità delle disposizioni dell’articolo
10, lettera c) e lettera d), i), ii) e v), della direttiva 2014/24/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti
pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, alla luce dei principi di
parità di trattamento e di sussidiarietà, nonché degli articoli 49 e 56 TFUE
(Corte di Giustizia UE, Sez. V,
sentenza 06.06.2019 - C-264/18). |
|
I
pubblici dipendenti "onesti" con gli "attributi"
(tecnicamente si
dovrebbe dire "che agiscono con disciplina e
onore") non sono estinti
(anche se sono sempre
più "mosche bianche"...).
Al Collega
tanta stima e solidarietà: "Tieni duro, non
mollare e avanti tutta". |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: REATI
CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo zelo. Punito il
comportamento ritorsivo contro un dipendente diligente.
Abuso d’ufficio
per il sindaco che non rinnova l’incarico e nega l’indennità al responsabile
di area come ritorsione per il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità
del danno il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal
diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato l’accertamento della
responsabilità contabile, poi esclusa, del primo cittadino e della giunta in
merito ad alcune nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in
maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti della polizia
locale. Un comportamento virtuoso che gli era costato il rinnovo della
nomina a responsabile dell’area vigilanza e le indennità: in pratica un
demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la linea della Corte
d’Appello, il sindaco con le sue azioni ritorsive e discriminatorie, aveva
prima di tutto violato la Costituzione. E, in particolare l’articolo a
tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo ,
secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche devono
adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il quale, la Corte
di merito aveva valorizzato la Carta per il reato di abuso d’ufficio
(articolo del Codice penale) anziché norme specifiche. Ad avviso della
difesa, infatti, la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per
contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la violazione di
una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito che, pur avendo
analizzato le norme sul conferimento degli incarichi e sull’impiego
pubblico, non le hanno messe al centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano stati
assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la conseguente
valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di là del diritto al rinnovo
dell’incarico e all’indennità. La Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa
riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma
deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento
ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più precisione la sfera
dell’illecito «in modo che non consentisse indebite interferenze
nell’azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni di
riferimento». E non si può affermare che il riferimento alla legge non
includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la Costituzione. In questo
quadro pesa l’articolo , da valutare in sinergia con l’articolo , che impone
di esercitare con disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici
ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’
amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere generale, in realtà
le direttive hanno un immediato risvolto applicativo. È chiaro il rilievo
dato all’inosservanza del principio di imparzialità che mette “fuori
legge” ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni intenzionali
e discriminatorie
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2019).
---------------
La condotta evidenzia discriminazioni e ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che discrimina e fa
ritorsioni nei confronti del responsabile di un settore amministrativo
dell'ente locale, non rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue
indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata corresponsione di
indennità associate alla posizione e a un sostanziale demansionamento.
Così la Corte di Cassazione, Sez.
VI penale, con la
sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta dalle modifiche
introdotte dalla legge 234/1997, fa riferimento a una condotta che non è
genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in questo modo delimitare con più precisione la
sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse
indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara
definizione dei canoni esterni di riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che
regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata
alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale
il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso
non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima
l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del
principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate
preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di abuso di
ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme
poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la
violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici. Ne deriva,
affermano i giudici di legittimità, che il riscontro del carattere
discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a
qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo,
connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente
tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di merito, che
hanno ravvisato l'illiceità della condotta del sindaco ricorrente proprio in
ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con
evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante
all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, che implica l'osservanza della
causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale
discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2019).
---------------
MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al capo B), per la
quale è stata pronunciata condanna, nel far riferimento al disposto
dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1, comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far
leva essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta
del ricorrente in danno del Sa., indicando in tale quadro alcuni elementi
descrittivi, aventi lo scopo di corroborare tale assunto, costituiti
dall'utilizzo di una motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto
privo di diploma di laurea, in assenza di una procedura comparativa, dal
contributo che era stato fornito dal Sa. per l'accertamento della
responsabilità contabile del Sindaco e della Giunta per i fatti di cui
all'originario capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle
espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad iniziative per presunti
illeciti commessi da agenti della Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo Giudice, che
proprio sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta in danno
del Sa. ha fondato il proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo
centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e 19 d.lgs. 165
del 2001, pur menzionati nel capo di imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono trovare
accoglimento.
L'art.
323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte
dalla legge 234 del 1997, fa riferimento ad una condotta che non è
genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più precisione la sfera
dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite
interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione
dei canoni esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento non può che
essere intesa come rappresentativa del superamento di quei canoni esterni,
posti da fonti ben individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il riferimento alla legge
non includa altresì quello a fonti sovraordinate, prima di tutto la Carta
fondamentale, cioè la Costituzione, ove parimenti in grado di definire in
modo preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina di tale azione
debba essere collocata nell'ambito costituzionale, in relazione a precise
direttive che dalla Costituzione possano desumersi sia sul versante della
stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di esso sia su quello
dell'effettivo svolgimento dell'azione amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art.
97 Cost., da valutare in sinergia con l'art.
54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che
i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge,
in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità
dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di carattere generale,
in quanto in realtà siffatte direttive contengono un immediato risvolto
applicativo, imponendo da un lato il rispetto della causa di
attribuzione del potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di
fuori dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità dell'azione,
la quale non deve essere contrassegnata da profili di discriminazione e
ingiustizia manifesta, aspetti di per sé contrastanti con l'intero assetto
costituzionale dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati
dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato ravvisato il
delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale
sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma
anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un
interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito,
realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che
integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato
secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione»
(Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi, rv. 251498;
Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo, rv. 263932).
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo
all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che
preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali
vessazioni o discriminazioni
(Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225; Cass. Sez. 2, n.
46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv. 265464).
Ciò significa che l'art.
323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di
norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la
violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici.
Ne deriva che il riscontro del carattere discriminatorio e
ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab
extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il
contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora deve rilevarsi la correttezza del
ragionamento dei Giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della
condotta del ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio
e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con
una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico
ufficiale, implicante l'osservanza della causa del potere assegnato e il
rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal Giudice del lavoro
nel provvedimento del 15/10/2014, è stato osservato:
- che l'apertura del procedimento per il mancato
rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile dell'Area Vigilanza era stato
caratterizzato da motivazioni (riferite alla necessità di rotazione per
ragioni di prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive di
qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie rispetto a quanto
in diversa occasione rilevato;
- che il Sa. si era per contro distinto nel
propiziare l'accertamento della responsabilità erariale del Sindaco e della
Giunta nella vicenda della nomina di Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A)
e nel contravvenire ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso
ad iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili all'agente Ch.;
- che al momento di procedere alla nomina del
nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il Sindaco aveva del tutto omesso di
procedere ad una valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu.
appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma sprovvisto del
diploma di laurea, e ponendo il Sa. in posizione addirittura subordinata a
colui che era stato il suo vice;
- che la richiesta di assegnazione di un'indennità
di coordinamento o di maggiorazione dell'indennità di posizione, era stata
negata senza una sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il
Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare l'accoglimento della
richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe gestito la questione riguardante gli
illeciti addebitati al Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che arbitrariamente
posti a fondamento del carattere ritorsivo e discriminatorio del trattamento
riservato al Sa., non rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno
uno specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento dell'indennità, a
fronte del contenuto assunto dall'azione amministrativa e del concreto
sviamento del potere, esercitato con modalità contrastanti con le ragioni
poste a fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le deduzioni, peraltro
largamente assertive, riguardanti l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109
e 110 d.lgs. 267 del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato
profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata adozione di
un'adeguata valutazione comparativa, tale da costituire specifica
giustificazione della determinazione assunta: va invero
rilevato come tale mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a
rafforzare il giudizio in ordine al contenuto discriminatorio di tale
determinazione, così come la sostanziale assenza di una specifica
motivazione del mancato riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto
precedentemente prospettato in termini di correlazione con i desiderata del
Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del diniego, quand'anche legato a
valutazione discrezionale (per il
rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi Cass. Sez. 6, n. 13341
del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres, rv. 215278, nonché la più recente Cass.
Sez. 6, n. 21976 del 05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte dell'indennità
fosse costituita da una convenzione, non riconducibile né alla legge né al
regolamento: in realtà deve ribadirsi come la valutazione di illiceità
riposi anche in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del
diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1. Con riguardo al tema della c.d. doppia ingiustizia, si
rileva in generale che accanto al profilo della violazione di legge o di
regolamento (o della violazione dell'obbligo di astensione) che deve
connotare la condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del
vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in alternativa,
l'evento consumativo del delitto di abuso di ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia in base a
profili autonomi rispetto a quelli che connotano la condotta sia quale
proiezione di quegli stessi profili, ove idonei a qualificare il risultato
prodotto (sul punto Cass. Sez. 6,
n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv. 265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del
29/01/2015, Strassoldo, rv. 262793).
D'altro canto la nozione di danno ingiusto deve
essere intesa non solo con riguardo a situazioni patrimoniali e a diritti
soggettivi perfetti (Cass. Sez. 6,
n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv. 268222), dovendosi
aver riguardo ad ogni tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive
di pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia
giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di danno ingiusto
evocata dall'art.
2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di interessi legittimi
(sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del 22/07/1999, rv.,
si rinvia per più recenti puntualizzazioni del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n.
16196 del 20/06/2018, rv. 649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv.
572035), ferma restando la concreta valutabilità della «chance»,
particolarmente rilevante nel caso di comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la doglianza incentrata
sulla non configurabilità di un diritto soggettivo del Sa. a vedersi
confermato l'incarico ed a fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di merito secondo i
quali la condotta discriminatoria e ritorsiva del
ricorrente, sostenuta altresì da quello specifico animus, si è
proiettata sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua
posizione, valutabile in termini professionali e patrimoniali, pur a
prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, in
quanto ha compromesso in quello specifico momento la possibilità del Sa. di
continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro determinato il
sostanziale demansionamento, con sottoposizione a soggetto precedentemente a
lui sottoposto, ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che
lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a comportamenti in
linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono stati dunque
correttamente qualificati come di per sé ingiusti, in quanto tali da
pregiudicare la posizione del Sa. e da non trovare alcuna giuridica
giustificazione, avuto riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in senso contrario che
in prosieguo di tempo, dopo l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro,
fosse stato riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui il
Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta una nuova
determinazione in merito alla spettanza dell'indennità con esito negativo
per lo stesso Sa., avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di
addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la lesione già
prodottasi, in conseguenza dell'illecito esercizio delle funzioni
amministrative e del contenuto discriminatorio delle relative
determinazioni, tali da arrecare di per sé, «hic et nunc», un
pregiudizio contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità,
insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso all'agire
amministrativo. |
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Questione interessante: cosa significa
che "il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese", ex
art. 167, comma 1, D.Lgs. n. 42/2004?? |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CISANO BERGAMASCO (Bergamo) - art. 167 decreto legislativo n. 42 del 2004 - demolizione manufatto in zona paesaggisticamente vincolata e rimessione in pristino (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 01.07.2016 n. 19729 di prot.). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere stagionali, ancorché la loro costruzione venga rinnovata nel tempo,
non possano considerarsi precarie.
La natura precaria del manufatto va intesa, ai fini dell’identificazione del
relativo regime abilitativo edilizio, non tanto e non solo con riferimento
alla consistenza strutturale e dell’ancoraggio al suolo dei materiali di cui
si compone, ma in termini funzionali, ovvero occorre accertare se si tratta
di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in
modo da poter essere agevolmente rimossa.
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La giurisprudenza è concorde nel ritenere che il carattere stagionale
dell’uso del manufatto non implica la provvisorietà dell’attività, né di per
sé la precarietà del manufatto ove si svolge, anzi il rinnovarsi
dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità
dell’attività e dell’opera a ciò necessaria.
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Il manufatto in questione (manufatto
in legno adibito a bar delle dimensioni di mt 3.00 x mt 3.00 e di altezza di
circa mt 6.00), quand’anche fosse strutturalmente
amovibile, deve essere considerato, ai sensi dell’art. 3, lettera e), del
d.P.R. n. 380/2001, un intervento di nuova costruzione che ai sensi
dell’art. 10 dello stesso decreto necessita di permesso di costruire e, di
converso, se realizzato in assenza del permesso di costruire, se ne deve
ordinare la demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
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La natura abusiva dall’opera
comporta l’impossibilità di riconoscere in capo all’autore un affidamento
tutelabile sulla presunta conformità di essa alla legge, avendo il
legislatore stabilito, senza spazio per valutazioni discrezionali in sede
amministrativa, che l’interesse alla conservazione dell’abuso edilizio
–interesse di mero fatto poiché ha titolo in una attività illecita- non è
meritevole di alcuna tutela come non può esserlo l’ignoranza del disvalore
giuridico di un’azione contraria alla legge.
Occorre infine ribadire che gli abusi edilizi sono considerati una lesione
permanente dei valori ambientali e della funzione di governo del territorio
con la conseguenza che la vigilanza e i connessi poteri sanzionatori
costituiscono attività vincolata finalizzata a ripristinare le condizioni
ambientali alterate dagli abusi nell’esercizio del potere repressivo di cui
agli articoli 27 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001.
Proprio la natura vincolata dell’attività di repressione degli abusi
edilizi, comporta poi che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento
non ha alcun effetto invalidante del provvedimento conclusivo ai sensi
dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
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... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione e di rimessa in
pristino del 03.05.2018 prot. n. 1338, notificata il successivo 08.05.2018
con la quale il Comune di Campotosto ha ordinato al sig. Le.Gi. nato a
L'Aquila il ... residente a Campotosto in frazione Mascioni, via ... n. 62
c.f. ..., di demolire ovvero rimuovere, entro 90 giorni dalla data di
notifica del presente provvedimento, il manufatto in legno adibito a bar
delle dimensioni di mt 3.00 x mt 3.00 e di altezza di circa mt 6.00 sito il
località “Ponte stecche” sul terreno riportato in catasto al n. 299 e
300 del foglio 40 del Comune di Campotosto.
...
Il ricorrente riferisce di essere comodatario avente causa dalla società
ENEL S.p.a. della particella n. 299 del foglio 40 del catasto terreni del
Comune di Campotosto, sulla quale nel 2013 ha realizzato e recintato un
manufatto amovibile in legno per l’esercizio di attività stagionale di
somministrazione di alimenti e bevande, segnalata al Comune di Campotosto
con successive SCIA.
Con due motivi del ricorso in decisione Gi.Le. impugna l’ordinanza con la
quale il Comune di Campotosto gli ha intimato la demolizione del manufatto
in quanto abusivo.
...
Il ricorso è infondato.
La natura precaria del manufatto va intesa, ai fini dell’identificazione del
relativo regime abilitativo edilizio, non tanto e non solo con riferimento
alla consistenza strutturale e dell’ancoraggio al suolo dei materiali di cui
si compone, ma in termini funzionali, ovvero occorre accertare se si tratta
di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in
modo da poter essere agevolmente rimossa.
L’opera, di superficie pari a nove metri quadrati e altezza di m. 2.50 (così
descritta nel provvedimento impugnato), serve per la vendita stagionale di
generi alimentari e dal 2013 occupa lo stesso sedime del quale il ricorrente
riferisce di poter disporre a titolo di comodato.
Tuttavia il nulla osta dell’Ente parco, che il ricorrente indica a sostegno
della legittimità del manufatto, ha validità permanente, a dimostrazione del
fatto che si tratta di un’opera destinata ad un uso, non già provvisorio, né
connesso ad esigenze contingenti, ma destinato a rinnovarsi annualmente in
primavera, come si evince dalle SCIA commerciali che ininterrottamente, dal
2013 al 2015, il ricorrente ha presentato al Comune di Campotosto.
In proposito va osservato che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che
il carattere stagionale dell’uso del manufatto non implica la provvisorietà
dell’attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove si svolge, anzi
il rinnovarsi dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della
stabilità dell’attività e dell’opera a ciò necessaria (Consiglio di stato,
sez. 6, 21.02.2017, n. 795; Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2014, n.
2842; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 13.03.2017 n. 409; Cass. pen. sez.
III, 30.06.2016 n. 36107).
Non ricorre poi la deroga prevista dall’art. 3, comma 1, lettera e.5), del
d.P.R. n. 380/2001 che esonera dal preventivo rilascio del permesso di
costruire i manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che
siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, che di norma vi sono soggetti, quando essi siano
ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei
turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e,
ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di
settore.
Il ricorrente, che a detta deroga fa espresso riferimento, non prova però
che il manufatto in questione sia ricompreso in una struttura ricettiva
all’aperto, ma si limita ad allegare di essere titolare di un contratto di
gestione decennale dell’area comunale di sosta per camper allestita su aree
identificate da particelle catastali diverse da quelle sulle quali insiste
il manufatto in legno.
Peraltro si evince agevolmente dalla consultazione per via telematica del “Geoportale
cartografico catastale dell’Agenzia delle Entrate”, liberamente
accessibile, che le particelle nn. 226, 227 e 751 di sedime dell’area di
sosta non sono neppure contigue alla particella n. 300 sulla quale -come
asserito dal Comune e non contestato dal ricorrente– insiste quasi per
intero il chiosco da questi realizzato.
Ne consegue che, come correttamente osservato dal Comune, il manufatto in
questione, quand’anche fosse strutturalmente amovibile, deve essere
considerato, ai sensi dell’art. 3, lettera e), del d.P.R. n. 380/2001, un
intervento di nuova costruzione che ai sensi dell’art. 10 dello stesso
decreto necessita di permesso di costruire e, di converso, se realizzato in
assenza del permesso di costruire, se ne deve ordinare la demolizione ai
sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Inoltre l’ordinanza di demolizione fa espresso rinvio all’art. 35 del d.P.R.
n. 380/2001 sul presupposto, parimenti incontestato, che il manufatto
insiste in gran parte su suolo di proprietà del Comune su suolo demaniale,
indisponibile da parte di soggetti diversi dall’Ente proprietario se non per
atto di concessione.
Sul punto, che smentisce la legittimazione asserita del ricorrente a
conseguire un titolo abilitativo sul presupposto che abbia la disponibilità
del suolo ove insiste il manufatto, il ricorrente non muove alcuna censura.
Non ha alcuna rilevanza poi il fatto che l’Ente Parco nazionale “Gran
Sasso e Monti della Laga” abbia rilasciato il nulla osta permanente alla
realizzazione dell’opera in quanto ogni intervento realizzato su area
soggetta a vincolo paesaggistico è soggetta al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica regionale o del Comune, eventualmente a tal fine delegato,
anche se trattasi di opera temporanea, precaria e amovibile.
Lo si evince a contrario dall’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004 che elenca le
opere che non necessitano dell’autorizzazione, fra le quali non figura la
tipologia cui è riconducibile il manufatto in questione.
Quanto detto esclude che le segnalazioni rivolte al Comune dal ricorrente
d’inizio attività edilizia o commerciale possano aver, da un lato,
legittimato la realizzazione del fabbricato e, dall’altro, aver determinato
un affidamento incolpevole sulla conformità dello stesso al regime edilizio
vigente.
Sotto il primo profilo è evidente che l’ordine di demolizione non implica
l’annullamento in autotutela –tanto meno tardivo per decorso del termine di
cui all’art. 21-nonies- di un precedente titolo edilizio d’iniziativa
privata per l’evidente ragione che la presentazione di una DIA o SCIA non
produce alcun effetto se ha ad oggetto un l’intervento che, come in specie,
deve essere assentito con permesso per costruire.
Ne consegue, sotto il secondo profilo, la natura abusiva dall’opera e
l’impossibilità di riconoscere in capo all’autore un affidamento tutelabile
sulla presunta conformità di essa alla legge, avendo il legislatore
stabilito, senza spazio per valutazioni discrezionali in sede
amministrativa, che l’interesse alla conservazione dell’abuso edilizio
–interesse di mero fatto poiché ha titolo in una attività illecita- non è
meritevole di alcuna tutela come non può esserlo l’ignoranza del disvalore
giuridico di un’azione contraria alla legge.
Occorre infine ribadire che gli abusi edilizi sono considerati una lesione
permanente dei valori ambientali e della funzione di governo del territorio
con la conseguenza che la vigilanza e i connessi poteri sanzionatori
costituiscono attività vincolata finalizzata a ripristinare le condizioni
ambientali alterate dagli abusi nell’esercizio del potere repressivo di cui
agli articoli 27 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001 (Cons. St., Ad. Plen.,
17.10.2017, n. 9).
Il primo motivo pertanto è respinto.
Proprio la natura vincolata dell’attività di repressione degli abusi
edilizi, comporta poi che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento
non ha alcun effetto invalidante del provvedimento conclusivo ai sensi
dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
Anche il secondo motivo pertanto è respinto
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 27.05.2019 n. 273 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
procedura di un'istanza col SUAP in variante al P.G.T. vigente.
Ai sensi dell'art. 5
del d.P.R. 20.10.1998 n. 447, “Qualora il progetto presentato sia in
contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua
variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza.
Tuttavia,
allorché il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale,
sanitaria e di sicurezza del lavoro ma lo strumento urbanistico non
individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero
queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il
responsabile del procedimento può, motivatamente convocare una conferenza di
servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241,
come modificato dall'articolo 17 della legge 15.05.1997, n. 127, per le
conseguenti decisioni, dandone contestualmente pubblico avviso.
Alla
conferenza può intervenire qualunque soggetto, portatore di interessi
pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi
diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un
pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto industriale.
Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello
strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante
sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni
formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150,
si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale.
Non è richiesta l'approvazione della regione, le cui attribuzioni sono fatte
salve dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n. 241".
Da ciò discende che la decisione in ordine alla convocazione della
conferenza di servizi impone all’Amministrazione di valutare ex ante, in una
fase originaria, effettuando un’istruttoria appropriata, se sussistano o
meno, secondo lo strumento urbanistico, aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi ovvero se queste, ove presenti, debbano ritenersi
insufficienti in relazione al progetto presentato.
Peraltro, la decisione di seguire il modello della conferenza di servizi,
come avvenuto nella fattispecie all’esame, non preclude, ed anzi rafforza,
in considerazione del coinvolgimento di una pluralità di enti, l’esigenza di
istruire approfonditamente il procedimento, al fine di individuare l’area
maggiormente idonea alla realizzazione del progetto edilizio.
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L’esigenza di appropriata istruttoria e motivazione non viene, peraltro,
esclusa dalla preesistente decisione della variante assunta dalla conferenza
di servizi, attesa la natura non vincolante della stessa.
Invero, per
costante giurisprudenza, la proposta di variazione dello strumento
urbanistico assunta dalla conferenza di servizi, da considerare alla stregua
di un atto di impulso del procedimento volto alla variazione urbanistica,
non è vincolante per il Consiglio comunale, che conserva le proprie
attribuzioni e valuta autonomamente se aderirvi.
Invero, secondo i consolidati principi della giurisprudenza:
a) in linea di massima, l'onere di motivazione delle scelte urbanistiche
gravante sulla Pubblica amministrazione in sede di adozione di uno strumento
urbanistico è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione
dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata";
b) tuttavia, le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno
puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la
pianificazione in generale ovvero un'area determinata, ovvero qualora
incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative;
c) in tal modo, mentre richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del PRG, per le quali quest'ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative
dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un'area
muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale;
in questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una
singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte
dell'ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall'ente con
il nuovo strumento urbanistico.
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8.3. Il Collegio, in considerazione dell’attività concretamente
svolta dall’Amministrazione comunale nel corso dell’illustrato iter procedimentale, ritiene meritevoli di conferma le gravate statuizioni del
primo giudice in ordine alla sussistenza dei vizi di difetto di istruttoria
e di motivazione della determinazione-proposta del 21.05.2004 e della
delibera consiliare n. 19 del 09.08.2004, quest’ultima peraltro affetta
anche da illogicità ed arbitrarietà.
8.4. In primis, va premesso, sul piano normativo, che, ai sensi dell'art. 5
del d.P.R. 20.10.1998 n. 447, “Qualora il progetto presentato sia in
contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua
variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza.
Tuttavia,
allorché il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale,
sanitaria e di sicurezza del lavoro ma lo strumento urbanistico non
individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero
queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il
responsabile del procedimento può, motivatamente convocare una conferenza di
servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241,
come modificato dall'articolo 17 della legge 15.05.1997, n. 127, per le
conseguenti decisioni, dandone contestualmente pubblico avviso.
Alla
conferenza può intervenire qualunque soggetto, portatore di interessi
pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi
diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un
pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto industriale.
Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello
strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante
sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni
formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150,
si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale.
Non è richiesta l'approvazione della regione, le cui attribuzioni sono fatte
salve dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n. 241".
8.4.1. Da ciò discende che la decisione in ordine alla convocazione della
conferenza di servizi impone all’Amministrazione di valutare ex ante, in una
fase originaria, effettuando un’istruttoria appropriata, se sussistano o
meno, secondo lo strumento urbanistico, aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi ovvero se queste, ove presenti, debbano ritenersi
insufficienti in relazione al progetto presentato.
Peraltro, la decisione di seguire il modello della conferenza di servizi,
come avvenuto nella fattispecie all’esame, non preclude, ed anzi rafforza,
in considerazione del coinvolgimento di una pluralità di enti, l’esigenza di
istruire approfonditamente il procedimento, al fine di individuare l’area
maggiormente idonea alla realizzazione del progetto edilizio.
8.5. Con riferimento al caso di specie, in aderenza a quanto già osservato
dal primo giudice, va rilevato che, tanto in occasione delle due sedute
della conferenza di servizi quanto in sede di approvazione della variante al
P.R.G., si procedeva, in assenza di un’idonea attività istruttoria, ad
analizzare la sola proposta fondata sulla relazione del Responsabile del
servizio urbanistica (arch. Go.).
8.5.1. Nessuna differente localizzazione veniva infatti proposta, e
conseguentemente esaminata, dalle altre amministrazioni partecipanti alla
conferenza (in primis, Regione e Provincia, dotate di specifica competenza
nella materia urbanistica). In particolare, non depongono in senso contrario
le prescrizioni con cui la Regione Umbria ha imposto la riduzione della
variante proposta della zona di particolare interesse agricolo alla sola
"area di sedime del nuovo edificio e alla strada di accesso al medesimo",
precisando che le altre porzioni di terreno non direttamente investite dalle
previsioni edificatorie rimanessero alla destinazione già impressa.
8.5.2. Così come, in occasione della seduta del Consiglio comunale, ad esito
della quale si adottava l’impugnata variante, non veniva apprestata la
necessaria attenzione alle osservazioni, di segno contrario, avanzate dal
cons. Gi.Em., ritenendole agevolmente superate con la
valorizzazione dell’eccezione proposta dal cons. Br.Pa. circa
l’esistenza di un deposito di gas nell’area alternativa indicata.
Al riguardo, attesa l’inidoneità delle generiche osservazioni del cons. Br. ad escludere in assoluto che l'intervento potesse essere comunque
localizzato nell'area in questione, tenuto conto che la stessa si estende
per oltre diciotto ettari, si ritiene che l'Amministrazione comunale avrebbe
dovuto verificare in concreto la possibilità di allocare l'intervento
nell'area indicata dal cons. Gi..
L’esigenza di appropriata istruttoria e motivazione non viene, peraltro,
esclusa dalla preesistente decisione della variante assunta dalla conferenza
di servizi, attesa la natura non vincolante della stessa.
Invero, per
costante giurisprudenza, la proposta di variazione dello strumento
urbanistico assunta dalla conferenza di servizi, da considerare alla stregua
di un atto di impulso del procedimento volto alla variazione urbanistica,
non è vincolante per il Consiglio comunale, che conserva le proprie
attribuzioni e valuta autonomamente se aderirvi (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
01.03.2017, n. 940; cfr. ex multis, id., sez. IV, n. 4151 del 2013).
8.6. L’acclarata assenza di sufficiente attività istruttoria (ed il
conseguente difetto di motivazione degli atti impugnati) non può, peraltro,
essere superata in considerazione della portata della discrezionalità
dell’azione amministrativa nella fattispecie, la quale, attese le
peculiarità della variante in esame, deve peraltro essere ritenuta
decisamente circoscritta.
Invero, diversamente da quanto sostenuto da parte appellante, il Collegio
osserva che, secondo i consolidati principi della giurisprudenza (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 11.10.2017, n. 4707; ex multis, id., sez. IV, 24.10.2018, n. 6063; id., sez. IV, 12.05.2016, n. 1917):
a) in linea di massima, l'onere di motivazione delle scelte urbanistiche
gravante sulla Pubblica amministrazione in sede di adozione di uno strumento
urbanistico è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione
dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata";
b) tuttavia, le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno
puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la
pianificazione in generale ovvero un'area determinata, ovvero qualora
incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative;
c) in tal modo, mentre richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del PRG, per le quali quest'ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative
dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un'area
muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale;
in questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una
singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte
dell'ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall'ente con
il nuovo strumento urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2019 n. 2954 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Per
espressa disposizione di legge (art. 19, comma 6-ter, della l. 241
del 1990, che fa seguito alla nota decisione della Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 15/2011) la SCIA non costituisce provvedimento
tacito, ed è dichiarato espressamente “non impugnabile”.
Ne consegue che, in mancanza di espressa e univoca dichiarazione della parte
che ha reso la Segnalazione, la presentazione di una SCIA successiva ad una
già depositata non ha l’effetto automatico di sostituirla, bensì, se del
caso, ad essa si aggiunge integrandola.
---------------
6. Preliminarmente va respinta l’eccezione di improcedibilità del
ricorso.
Il Comune, come detto, ritiene che la presentazione della SCIA 404/2017 (con
l’indicazione dell'avvenuto rilascio, nelle more, dell'autorizzazione
paesaggistica) renda privo di interesse il gravame avverso la declaratoria
di improcedibilità (rectius, annullamento) della SCIA 733/2016 in quanto
quest’ultima sarebbe stata sostituita da una nuova SCIA, a sua volta
dichiarata inefficace con la disposizione PG/2017/374419.
L’assunto del Comune parte dall’errato presupposto di considerare la SCIA
alla stregua di un provvedimento amministrativo (sia pure tacito) la cui
sostituzione con altro provvedimento determina la perdita di interesse
all’annullamento, spostandosi detto interesse sul provvedimento successivo
(fatta eccezione per i casi di atti meramente confermativi).
Invece, per espressa disposizione di legge (art. 19, comma 6-ter, della l. 241
del 1990, che fa seguito alla nota decisione della Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 15 del 2011) la SCIA non costituisce provvedimento
tacito, ed è dichiarato espressamente “non impugnabile”.
Ne consegue che, in mancanza di espressa e univoca dichiarazione della parte
che ha reso la Segnalazione, la presentazione di una SCIA successiva ad una
già depositata non ha l’effetto automatico di sostituirla, bensì, se del
caso, ad essa si aggiunge integrandola.
Quand’anche il contenuto sia identico, sia pure con variazioni (nel caso
concreto, nella SCIA 404/2017, nella sezione B9.9 è aggiunta la specifica
che l’area in questione è assoggettata alla l. 1497/1939 / d.lgs. 42/2004), si
è in presenza di due atti privati, di cui uno dichiarato improcedibile dal
Comune, l’altro anche ma con provvedimento successivo, che la parte ha
conosciuto solo in seguito al deposito in giudizio da parte del Comune di
Napoli (all. 11 prod. Comune del 17.07.2018) e per il quale, alla data
della presente decisione (10.10.2018) sono ancora pendenti i termini
per l’impugnazione considerata la sospensione feriale.
La scelta di impugnare il successivo provvedimento di improcedibilità spetta
alla parte, come pure spetta a quest’ultima la decisione in ordine ai
contenuti del ricorso, presumibilmente diversi stante il diverso tenore dei
provvedimenti emessi dal Comune.
In questa sede, pertanto, la perdita di interesse al gravame non può
conseguire alla esistenza di due o più diverse Segnalazioni certificate sul
medesimo immobile, perché ciò implicherebbe l’indebita sostituzione della
volontà del giudice rispetto alla scelta, manifesta, del privato di non
sostituire una Scia con un’altra (nel caso, la SCIA 733/2016, con la SCIA
404/2017) e questo soprattutto in ragione –come rilevato dai ricorrenti
nella memoria di replica del 19.09.2018– della circostanza che la
seconda SCIA è stata anch’essa dichiarata inefficace, per cui l’eventuale
accoglimento del gravame presentato per l’annullamento della declaratoria di
inefficacia della prima SCIA (733/2016) ha l’evidente effetto di salvare
l’attività svolta sino a quel momento, attività che invece diventerebbe
automaticamente sine titulo per effetto dell’unione combinata di una
decisione di improcedibilità del presente giudizio (sulla SCIA 733/2016) con
la declaratoria di inefficacia della SCIA 404/2017
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 07.03.2019 n. 1334 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
12, nono comma, della legge n. 246 del 2005, che ha modificato l'art.
41-sexies della legge n. 1150 del 1942, ed in base al quale gli spazi per
parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre
unità immobiliari, non ha effetto retroattivo, né natura imperativa.
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L'art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, il
quale prescrive che nelle nuove costruzioni e nelle aree di
pertinenza delle stesse devono essere riservati appositi spazi
per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato
per ogni venti metri cubi di costruzione, pone un vincolo
pubblicistico di destinazione che non può subire deroga negli
atti privati di disposizione degli spazi stessi, le cui clausole
difformi sono perciò sostituite di diritto dalla norma imperativa.
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3. Il primo motivo del ricorso principale è infondato.
Ed, invero la giurisprudenza di questa Corte, nel corso degli
anni ha reiteratamente fatto propria la soluzione che esclude la
portata retroattiva cella norme in esame, affermando che (cfr.
Cass. n. 4301/2016) l'art. 12, nono comma, della legge n.
246 del 2005, che ha modificato l'art. 41-sexies della legge n.
1150 del 1942, ed in base al quale gli spazi
per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo
rispetto alle altre unità immobiliari, non ha effetto retroattivo,
né natura imperativa (conf. Cass. n. 2236/2016; Cass. n.
1753/2013 che ha ribadito che la norma vale solo per il futuro,
e cioè per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le
quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano
ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari,
dovendosi escludere l'efficacia retroattiva della norma in
quanto, da un lato, non ha natura interpretativa, per mancanza
del presupposto a tal fine, costituito dall'incertezza applicativa
della disciplina anteriore e, dall'altro, perché le leggi che
modificano il modo di acquisto dei diritti reali o il contenuto
degli stessi non incidono sulle situazioni maturate prima della
loro entrata in vigore; Cass. n. 21003/2008).
La ricorrente auspica, senza peraltro addurre elementi di novità
tali effettivamente da indurre ad un ripensamento dell'orientamento de quo,
un mutamento della giurisprudenza
che peraltro risulta essersi consolidata nel corso degli anni,
conformandosi alle condivisibili argomentazioni già sviluppate
nei precedenti richiamati, occorrendo a tal fine altresì rilevare
che gli argomenti già espressi da Cass. n. 4264/2006 appaiono
rafforzati dal fatto che ad oltre dieci anni da tale arresto, e nel
perdurare di tale interpretazione che nega la retroattività della
norma, il legislatore non è intervenuto per modificarla,
restando cosi rafforzate le sue rationes decidendi.
...
5.
Il quarto ed il quinto motivo devono essere del pari
congiuntamente esaminati, stante la loro connessione,
rivelandosi del pari privi di fondamento.
Ed, invero, la motivazione del giudice di appello si fonda sulla
riaffermazione del principio ribadito nel ragionamento
argomentativo anche da Cass. S.U. n. 12793/2005, nonché
dagli altri precedenti, sempre ricordati dal giudice di appello,
circa la nullità parziale dei contratti che sottraggano il diritto di
uso sulle aree a tal fine destinate, secondo cui (cfr. Cass. n.
28345/2013)
l'art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, il
quale prescrive che nelle nuove costruzioni e nelle aree di
pertinenza delle stesse devono essere riservati appositi spazi
per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato
per ogni venti metri cubi di costruzione, pone un vincolo
pubblicistico di destinazione che non può subire deroga negli
atti privati di disposizione degli spazi stessi, le cui clausole
difformi sono perciò sostituite di diritto dalla norma imperativa.
Trattasi di motivazione che consente di ritenere che sia stata
implicitamente disattesa anche la doglianza di parte ricorrente
di cui all'atto di appello, con la quale si lamentava del mancato
riconoscimento della validità della rinuncia al diritto in esame
fatta dall'attrice Gabriella Pasca Raymondo al momento del suo
acquisto (per la espressa estensione della nullità derivante
dalla violazione dell'art. 18 della legge n. 765/1967, anche alle
ipotesi di rinuncia al diritto, si veda Cass. n. 5755/2004,
nonché Cass. n. 973/1999), e che quindi permette di escludere
la sussistenza della dedotta violazione dell'art. 112 c.p.c.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
28.01.2019 n. 2265). |
IN EVIDENZA |
VARI: Blog,
i post lesivi vanno rimossi. Il gestore web che non si attiva risponde di
diffamazione. Lo ha sostenuto la Cassazione: c’è
concorso tra amministratore e autore dei contenuti.
L'amministratore di un sito internet che viene a
conoscenza della pubblicazione, sul proprio blog, di contenuti lesivi
dell'altrui reputazione e non si attiva tempestivamente a rimuoverli,
commette il delitto di diffamazione aggravata (art. 595, 3° comma, c.p.) in
concorso con l'autore delle espressioni offensive.
È quanto stabilito dalla Corte di
Cassazione, Sez. V penale, con la
sentenza 20.03.2019 n. 12546, secondo cui la condotta omissiva
dell'amministratore si traduce in «consapevole adesione, da parte di quest'ultimo,
al significato dello scritto offensivo dell'altrui reputazione», con
l'inevitabile effetto di replicare quel contenuto e amplificarne la portata
diffamatoria.
Secondo i giudici di legittimità, dunque, il gestore del sito, in questo
caso, il blogger, non risponde penalmente nel caso in cui «reso edotto dell'offensività
della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post
offensivo».
Il principio espresso dalla Corte di cassazione è coerente con la più
recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Rolf
Anders Daniel Pihl vs. Svezia; Delfi AS vs. Estonia; Magyar vs. Ungheria),
tra l'altro richiamata, dagli stessi giudici di legittimità, nel testo della
sentenza in esame. Infatti, secondo la Cedu «il fatto che il gestore avesse
tempestivamente rimosso sia il post sia il commento offensivo, per di più
scrivendo un nuovo post contenente la spiegazione di quanto accaduto e le
scuse, era da ritenersi un comportamento idoneo a escluderne la
responsabilità per concorso in diffamazione» con la conseguenza che, nel
caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte europea aveva «escluso la
possibilità di ritenere automaticamente responsabile il gestore del sito per
qualsiasi commento scritto da un utente, sempre che, una volta a conoscenza
del contenuto diffamatorio del commento, si sia immediatamente ed
efficacemente adoperato per rimuoverlo».
Il provvedimento della Cassazione consente di fare il punto sulla
qualificazione giuridica e sui relativi profili di responsabilità penale
degli amministratori/gestori dei siti internet attraverso i quali una
moltitudine indefinita di utenti veicola, anche più volte al giorno,
comunicazioni, messaggi, commenti, immagini, riproduzioni audio e video, che
possono avere effetti diffamatori.
Va ricordato che la responsabilità dell'autore materiale della diffamazione
on-line, colui che crea e pubblica in rete un contenuto offensivo
dell'altrui reputazione, è pacifica: a titolo esemplificativo, la Cassazione
penale ha più volte sottolineato che la «diffusione di un messaggio
diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di
diffamazione aggravata», dal momento che «questa modalità di comunicazione
di un contenuto informativo suscettibile di arrecare discredito alla
reputazione altrui, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero
indeterminato di persone» (sez. V, n. 4873, 01/02/2017).
Per quanto riguarda il coinvolgimento del gestore dello spazio web che
ospita messaggi diffamatori pubblicati da terze persone, la giurisprudenza
ha innanzitutto precisato che strumenti informatici quali social network,
forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list sono certamente espressione
del diritto, garantito all'articolo 21 della Costituzione, di manifestare
liberamente il proprio pensiero, ma non sono soggetti alle tutele e agli
obblighi previsti dalla legge n. 47/1948 sulla stampa.
Sul punto, la Cassazione penale ha stabilito che solo la testata
giornalistica telematica rientra nel concetto di «stampa» ai sensi della
citata normativa, in quanto «è di intuitiva evidenza che un quotidiano o un
periodico telematico, strutturato come vero e proprio giornale tradizionale,
con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile (spesso
coincidenti con quelli della pubblicazione cartacea), non può certo
paragonarsi a uno qualunque dei siti web innanzi citati, in cui chiunque può
inserire dei contenuti» (Sezioni unite penali, n. 31022, 17/07/2015; sez. V,
n. 16751 del 19/02/2018).
Proprio alla luce di tale distinzione, la Cassazione ha precisato, sempre in
tema di diffamazione, che solo il direttore della testata giornalistica
telematica risponde ai sensi dell'articolo 57 del codice penale, per aver
omesso di esercitare il controllo sul contenuto del periodico da lui diretto
(sez. V, n. 1275, 23/10/2018).
Vale la pena ricordare che l'articolo 57 c.p. prevede, anche per il
direttore responsabile del giornale telematico, una responsabilità penale a
titolo di colpa e una relativa sanzione «diminuita in misura non eccedente
un terzo» rispetto a quella astrattamente stabilita per l'autore materiale
della diffamazione (reclusione da sei mesi a tre anni o multa non inferiore
a euro 516 nel caso di diffamazione aggravata ex art. 595, 3° comma c.p.).
Per quanto concerne, invece, l'amministratore di un sito internet che ospita
un blog, non potendo far riferimento ai criteri previsti dall'articolo 57
c.p., i giudici di legittimità, in assenza di specifiche indicazioni
normative, hanno individuato un profilo di eventuale responsabilità penale
attraverso le regole comuni. In buona sostanza, l'amministratore può
rispondere in due circostanze: in qualità di autore materiale della
diffamazione, oppure quale concorrente dell'autore materiale nel caso in
cui, come si è già visto, non abbia rimosso tempestivamente, dallo spazio
web che gestisce, contenuti offensivi di cui abbia avuto conoscenza.
In entrambe le ipotesi (autore materiale o concorrente), è opportuno
segnalare che si tratta di una responsabilità dolosa e non colposa (come nel
caso previsto all'articolo 57 c.p.), situazione che dovrebbe suggerire
soprattutto agli amministratori di blog, forum e social network, vere e
proprie piazze virtuali ove chiunque può inserire il proprio commento, una
particolare attenzione, in generale, su quanto viene diffuso e, in
particolare, su eventuali segnalazioni in merito all'offensività di
contenuti già pubblicati (articolo ItaliaOggi Sette del 20.05.2019).
---------------
MASSIMA
2.1. Va premesso che con la diffusione di internet e quindi con l'aumento
esponenziale
delle occasioni di connessione e condivisione in rete, si è posto il
problema della previsione
normativa di fattispecie che prevedano un sistema sanzionatorio finalizzato
ad arginare il
fenomeno della graduale crescita degli illeciti commessi dagli internauti.
La casistica di illeciti è
variegata e, in ragione della iperbolica amplificazione del sistema, crea
forti problematiche di
tipizzazione: domain grabbing, furti di identità, cyberbullismo,
diffamazione a mezzo internet,
accesso abusivo a reti informatiche, pedopornografia, crypto-Locker e
numerosi altri fenomeni
ancora caratterizzano l'uso illecito del web.
In particolare, le condotte di diffamazione sono state facilitate dalla
possibilità di un numero
esponenziale degli utenti della rete internet di esprimere giudizi su tutti
gli argomenti trattati,
per cui alla schiera di "opinionisti social" spesso si associano i
cosiddetti "odiatori sul web", che
non esitano -spesso dietro l'anonimato- ad esprimere giudizi con eloquio
volgare ed offensivo.
Questa Corte è intervenuta quindi frequentemente in materia, precisando, per
esempio, che la
diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook"
integra
un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo,
cod. pen., sotto il profilo
dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla
stampa, poiché la
condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un
numero
indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e
tuttavia non può dirsi
posta in essere "col mezzo della stampa", non essendo i social network
destinati ad un'attività
di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del
14/11/2016, P.M. in proc.
Manduca, Rv. 26909001).
2.2. Incontroversa dunque la configurabilità in capo al soggetto che immette
il commento
diffamatorio in rete ai sensi dell'art. 595 cod. pen., più problematico è il
tema della responsabilità
dei fornitori di servizi informatici ovvero degli Internet Provider Service.
Va ovviamente chiarito che anche i providers rispondono degli illeciti posti
in essere in prima
persona; così, il c.d. content provider, ossia il provider che fornisce
contenuti, risponde
direttamente per eventuali illeciti perpetrati con la diffusione dei
medesimi.
Il vero problema della responsabilità del provider riguarda invece il caso
in cui questo debba
rispondere del fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle
infrastrutture di
comunicazione del network provider, del server dell'access provider, del
sito creato sul server
dell'host provider, dei servizi dei service provider o delle pagine
memorizzate temporaneamente
dai cache-providers.
La normativa di riferimento è contenuta nel decreto legislativo del 09.04.2003 n. 70, emanato
in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE,
relativa a taluni
aspetti giuridici della società dell'informazione nel mercato interno, con
particolare riferimento
al commercio elettronico. L'articolo 7 di tale direttiva definisce gli
"internet service providers"
quali "fornitori di servizi in internet".
Inoltre, l'articolo 2 del citato decreto legislativo chiarisce che per
"servizi della società
dell'informazione" si intendono le attività economiche svolte in linea -on-line- nonché i servizi
indicati dall'articolo 1, comma 1, lettera b, della legge n. 317 del 1986,
cioè qualunque servizio
di regola retribuito, a distanza, in via elettronica e a richiesta
individuale di un destinatario di
servizi. Tra queste prestazioni rientrano, a titolo esemplificativo, la
fornitura dell'accesso ad
Internet e a caselle di posta elettronica.
E' stata quindi sancita l'assenza di un obbligo generale di sorveglianza
ex
ante per i providers.
Infatti, l'art. 15 della citata direttiva 2000/31/CE (recepito dall'art. 17
D.Igs. n. 70/2003),
prevede quanto segue: «1. Nella prestazione dei servizi di cui agli
articoli 12, 13 e 14, gli Stati
membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle
informazioni che
trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente
fatti o circostanze
che indichino la presenza di attività illecite. - 2. Gli stati membri
possono stabilire che i prestatori
di servizi della società dell'informazione siano tenuti ad informare senza
indugio la pubblica
autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei
destinatari dei loro servizi o
comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che
consentano
l'identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di
memorizzazione dei
dati».
In particolare,
i providers non sono responsabili, in linea generale, quando
svolgono servizi di
c.d. mere conduit (art. 12), caching (art. 13) e hosting (art. 14).
Per quanto si dirà più avanti, nel sottolineare la diversa posizione dei
blogger, va evidenziato
che il considerando n. 42 della Direttiva in esame puntualizza che «le
deroghe alla
responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente
il caso in cui l'attività
di prestatore di servizi della società dell'informazione si limiti al
processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione
sulla quale sono trasmesse o temporaneamente
memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di
rendere più efficiente
la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico
e passivo, il che
implica che il prestatore di servizi della società dell'informazione non
conosce né controlla le
informazioni trasmesse o memorizzate».
In particolare, l'attività di mere conduit, cioè di semplice trasporto,
concerne sia la trasmissione
di informazioni fornite da un destinatario del servizio (a titolo d'esempio,
una mail inviata da un
utente), sia il fornire un accesso ad internet. Si tratta, in pratica, del
ruolo svolto dall'access
provider, irresponsabile per il contenuto delle informazioni trasmesse
telematicamente qualora
ricorrano tre condizioni, tutte negative: non dia origine alla trasmissione;
non selezioni il
destinatario della trasmissione; non selezioni né modifichi le informazioni
trasmesse. In altri
termini, fin quando il provider si limita ad un ruolo passivo di mera
trasmissione tecnica, senza
restare coinvolto nel contenuto delle informazioni che transitano tramite il
servizio offerto, non
può essere ritenuto responsabile del contenuto medesimo.
Pur tuttavia, ciò
non esclude la
possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri -come quello
italiano, ex art. (art. 14,
comma 3, d.lgs. 70/2003)- che un organo giurisdizionale o un'autorità
amministrativa
pretendano che il fornitore impedisca o ponga fine alla violazione
perpetrata tramite il servizio
prestato.
Il servizio di caching consiste nella memorizzazione automatica, intermedia
e temporanea dei
dati, sotto forma di file "cache", effettuata al solo scopo di rendere più
efficace la sua successiva
trasmissione ad altri destinatari del servizio. In relazione a tale
successivo inoltro il fornitore è
responsabile esclusivamente ove interferisca con le informazioni memorizzate
ovvero non
proceda alla rimozione dei dati memorizzati non appena venga effettivamente
a conoscenza della
circostanza che queste sono state rimosse dal luogo di origine o che
verranno presto da questo
rimosse.
2.3. La Direttiva europea non impone dunque al provider né l'obbligo
generale di
sorveglianza ex ante, né tanto meno l'obbligo di ricercare attivamente fatti
o circostanze che
indichino la presenza di attività illecite.
La stessa normativa, tuttavia, impone ai providers di informare prontamente
degli illeciti rilevati
le autorità competenti e a condividere con le stesse ogni informazione che
possa aiutare a
identificare l'autore della violazione. Ed è significativa la circostanza
per cui la mancata
collaborazione con le autorità fa sì che gli stessi providers vengano
ritenuti civilmente
responsabili dei danni provocati.
Questa ipotesi di responsabilità ex post dell'ISP si fonda su quanto è
previsto nell'art. 14, comma
1, lett. b), della Direttiva citata, il quale stabilisce una responsabilità in
particolare per i c.d.
hosting provider, dall'inglese "to host", che significa "ospitare", dal
momento che il provider
fornisce all'utente, ospitandolo, uno spazio telematico da gestire.
La
scelta delle informazioni da
fornire sarà però del soggetto che stipula il contratto di hosting con i
provider, i quali sono
responsabili nel caso in cui, effettivamente a conoscenza della presenza di
un contenuto illecito sui propri server, omettano di rimuoverlo. Dal punto
di vista del diritto penale, si parlerebbe in
tali fattispecie, laddove non si ritengano applicabili le esenzioni previste
dalla Direttiva 31/2000,
di una responsabilità dell'ISP per concorso omissivo nel reato commissivo
dell'utente, se detto
contenuto sia penalmente illecito.
La seconda forma di responsabilità sopra descritta è stata oggetto di alcune
recenti pronunce
giurisprudenziali, in materia penale e civile, le quali hanno individuato
nella previsione dell'art.
14 della Direttiva europea (cui corrisponde quella dell'art. 16 D.lgs. n.
70/2003) la fonte di un
obbligo d'impedimento a carico degli ISP, legittimante un'imputazione di
responsabilità degli
stessi a titolo concorsuale (Cass. Pen., Sez. 5, n. 54946 del 12/07/2016,
Maffeis, di cui si parlerà
più avanti).
Lo sviluppo giurisprudenziale sul tema, però, non è stato accompagnato da
modifiche del testo
normativo di riferimento, dimostratosi ormai inadeguato alla materia che si
prefigge di regolare,
è avanzato parallelamente ai cambiamenti tecnologici di Internet.
Invero, la frammentarietà delle fonti e degli interventi in materia non
rendono semplice un'analisi
sistematica delle fattispecie che vedono coinvolte le diverse tipologie di provider e l'atipicità delle
loro attività, che -come sopra si è detto- presentano dinamiche e
problematiche differenti.
La più evidente distinzione può essere riscontrata tra i cc.dd. Serch Engine
Results Page ovvero
i motori di ricerca come -ad esempio- Google, Bing o Qwant e i gestori dei
siti sorgente ovvero
piattaforme on-line, come ad esempio Facebook o YouTube, che ospitano o
trasmettono i
contenuti organizzati e messi a disposizione dal motore di ricerca.
2.4. Proprio quanto appena evidenziato rende palese l'intrinseca diversità
tra gli internet
providers e gli amministratori di blog, dal momento che questi ultimi non
forniscono alcun
servizio nel senso precisato, bensì si limitano a mettere a disposizione
degli utenti una
piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di
contenuti e commenti su
temi nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto
caratterizzati dalla
linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) "editoriale",
impressa proprio dal
gestore della suddetta piattaforma.
Insomma, il blog (termine che deriva dalla contrazione di web-log, ovvero
"diario di rete") gestito
quale sito personale è concepito principalmente come contenitore di testo
(ovvero come diario
o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale
grazie ad apposito
software.
I contenuti del diario vengono visualizzati in forma anti-cronologica (dal
più recente al più lontano
nel tempo) e il sito è in genere gestito da uno o più blogger, che
pubblicano, più o meno
periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di
post, concetto
assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale.
Quindi, il singolo intervento (pensiero, contenuto multimediale, ecc.)
inserito dal blogger viene
in genere definito post e l'applicazione utilizzata permette di creare i
nuovi post identificandoli
con un titolo, la data di pubblicazione e alcune parole chiave (tag).
Qualora l'autore del blog lo permetta, ovvero abbia configurato in questa
maniera il blog, al post
possono seguire i commenti dei lettori del blog.
Sempre più persone si avvicinano al mondo del blogging e indubbiamente il
problema si pone
perché -come si è detto- il blog consente l'interazione anche con soggetti
terzi, che possono
rimanere anonimi.
Orbene, qualora il blogger dovesse esser ritenuto responsabile per tutto
quanto scritto sul
proprio sito anche da altri soggetti, sarebbe ampliato a dismisura il suo
dovere di vigilanza,
ingenerando un eccessivo onere a carico dello stesso.
Certamente, però, quando il blog sia stato implementato di alcuni filtri
nella pubblicazione dei
contenuti, per evitare conseguenze penali il gestore è tenuto a vigilare ed
approvare i commenti
prima che questi siano pubblicati.
2.5. Va quindi esclusa una responsabilità personale del blogger quando
questi, reso
edotto dell'offensività della pubblicazione, decide di intervenire
prontamente a rimuovere il post
offensivo.
In tal senso si è espressa la sentenza del 09.03.2017 (sul caso Pihl vs.
Svezia) della Corte
Europea dei Diritti Umani, così chiarendo i limiti della responsabilità dei
gestori di siti e blog per
i commenti degli utenti che abbiano contenuto diffamatorio.
Nel caso esaminato dalla citata sentenza, risalente al 2011, su un blog
gestito da un'associazione
senza scopo di lucro, mediante un commento in relazione ad un post in cui si
attribuiva ad un
cittadino svedese, Phil, l'appartenenza ad un partito nazista, un soggetto
anonimo accusava il
medesimo di essere un consumatore abituale di sostanze stupefacenti.
Pochi
giorni più tardi, il
soggetto leso chiedeva la rimozione di entrambi i contenuti, poiché
veicolavano informazioni
mendaci. L'associazione provvedeva secondo le richieste del soggetto
danneggiato, aggiungendo
altresì uno scritto di scuse. Nondimeno, la persona offesa citava in
giudizio il gestore del blog,
dal momento che questi non aveva preventivamente controllato il contenuto
del post e del
commento. La domanda di risarcimento veniva respinta dai giudici nazionali,
posto che la
mancata rimozione di un contenuto diffamatorio pubblicato da terzi prima
della segnalazione
dell'interessato integrava una condotta non sanzionabile secondo il diritto
svedese. La persona
offesa, esauriti i rimedi nazionali, adiva la Corte Europea dei Diritti
dell'Uomo, lamentando che
la legislazione domestica, nel non prevedere una responsabilità del gestore
di blog in casi di tale
genere, violava l'art. 8 della Convenzione, ovvero il diritto a vedere
tutelata la propria vita privata
nonché la propria reputazione.
La Corte europea, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha rilevato come
lo scritto in questione,
sebbene presentasse profili offensivi, non conteneva affermazioni che
incitavano all'odio o alla
violenza, evenienza che consente, secondo la tradizionale giurisprudenza
della Cedu, una
maggiore limitazione della libertà di espressione.
Ciò posto, nella sentenza in esame si è fatto riferimento ad alcune
decisioni precedenti (Delfi AS
vs. Estonia, Magyar vs. Ungheria), specificando che il bilanciamento operato
dalle Corti nazionali sull'applicazione degli articoli 8 e 10 della CEDU,
rispettivamente sul diritto alla privacy e sulla
libertà di espressione, può essere superato dalla Corte EDU solo se vi sono
motivi gravi.
In particolare, nel valutare tale possibilità la Corte Europea deve tenere
conto del contesto, delle
misure applicate dal gestore per prevenire o rimuovere i commenti lesivi dei
diritti altrui e della
responsabilità degli autori dei commenti.
Nel caso esaminato, secondo la Corte, il fatto che il gestore avesse
tempestivamente rimosso
sia il post sia il commento offensivo, per di più scrivendo un nuovo post
contenente la spiegazione
di quanto accaduto e le scuse, era da ritenersi un comportamento idoneo a
escluderne la
responsabilità per concorso in diffamazione.
La Corte europea ha quindi escluso la possibilità di ritenere
automaticamente responsabile il
gestore del sito per qualsiasi commento scritto da un utente, sempre che,
una volta a conoscenza
del contenuto diffamatorio del commento, si sia immediatamente ed
efficacemente adoperato
per rimuoverlo.
Per quanto si dirà anche più avanti, quindi, il blogger può rispondere dei
contenuti denigratori
pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività
di tali contenuti, li
mantenga consapevolmente. |
VARI: Commento
sul blog: va rimosso o è reato. Quando si risponde di formulazioni
diffamatorie.
Se il blogger non rimuove diffama. La cassazione
penale riordina i principi in ragione dei quali il blogger risponde del
reato di diffamazione attraverso i commenti diretti che formula sul suo blog
e per lo spazio che rilascia in esso ai commenti lesivi formulati da
soggetti servi.
Nella
sentenza 20.03.2019 n. 12546 la Corte di Cassazione, Sez. V
penale, nel rigettare il ricorso ha stabilito che il blogger che mette a
disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire
attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti è responsabile –in
concorso con l'autore della diffamazione– quando, reso edotto dell'offensività
di una pubblicazione, non rimuova tempestivamente il post offensivo.
«Se il gestore del blog apprende che sono stati pubblicati da terzi
contenuti obiettivamente denigratori e non si attiva tempestivamente a
rimuovere tali contenuti, finisce per farli propri e, quindi, per porre in
essere ulteriori condotte di diffamazione, che si sostanziano nell'aver
consentito, proprio utilizzando il suo blog, l'ulteriore divulgazione delle
notizie diffamatorie».
Il ricorrente, infatti, non si era attivato
celermente, avendo saputo della pubblicazione sul suo spazio internet di
commenti che offendevano gravemente la reputazione del soggetto, addirittura
mantenendo, consapevolmente fino a quando non è intervenuto l'oscuramento
intimato dall'autorità giudiziaria, le espressioni lesive dell'altrui
reputazione.
In linea con i principi della responsabilità personale del blogger,
aggiungono i supremi giudici «È necessaria una verifica della consapevole
adesione da parte di quest'ultimo al significato dello scritto offensivo
dell'altrui reputazione, adesione che può realizzarsi proprio mediante la
volontaria mancata tempestiva rimozione dello scritto medesimo».
La non
tempestiva attivazione da parte del ricorrente, infine, al fine di rimuovere
i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog «equivale non
al mancato impedimento dell'evento diffamatorio –rilevante ex art. 40,
secondo comma, cod. pen.– ma alla consapevole condivisione del contenuto
lesivo dell'altrui reputazione, con ulteriore replica della offensività dei
contenuti pubblicarti su un diario che è gestito dal blogger» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019). |
VARI:
Aggravante rilasciare dichiarazioni al blogger.
Mentre la diffusione di una dichiarazione lesiva della reputazione altrui
attraverso siti web, diversi da quelli delle testate giornalistiche (blog,
social media ed altre piattaforme) integra non una diffamazione semplice di
competenza del giudice di pace ma un'ipotesi di diffamazione aggravata ai
sensi dell'art. 595, comma terzo, codice penale, sotto il profilo
dell'offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla
stampa, poiché la condotta realizzata è potenzialmente capace di raggiungere
un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di
persone, anche se non possa dirsi posta in essere col mezzo della stampa,
non essendo i social network destinati ad un'attività di informazione
professionale diretta al pubblico. In questo contesto, configura il reato di
diffamazione, aggravato dal ricorso a un «mezzo di pubblicità», l'aver
rilasciato dichiarazioni lesive della personalità altrui a un blogger.
È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione -Sez. V penale- con
sentenza
16.04.2019 n. 16564 secondo la quale «è indubbio che rilasciare
dichiarazioni ai blogger implichi non solo la consapevolezza ma anche il
proposito della pubblicazione delle dichiarazioni stesse sul web».
Pur non
potendosi, infatti, considerare i blog alla stregua delle testate
giornalistiche, essi a tutti gli effetti costituiscono un moderno veicolo
pubblicitario che raggiunge, al pari dei social media, un numero
indeterminato di persone. Le dichiarazioni oggetto della causa erano state
rilasciate durante una conferenza stampa, il cui sunto era stato
successivamente postato dal Blogger nel suo spazio internet.
Non rileva,
infine, l'aver il soggetto autore delle dichiarazioni ritenute offensive,
l'essersi espresso in un momento non ufficialmente deputato alla classica
intervista bensì nell'ambito di un incontro con altri giornalisti ove quanto
detto può essere riportato nei resoconti stampa, e quindi anche sulle pagine
di un blog
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019).
---------------
MASSIMA
4.3 Sotto il profilo sostanziale va chiarito che la testata
giornalistica telematica, funzionalmente assimilabile a quella tradizionale
in formato cartaceo, rientra nella nozione di "stampa" di cui
all'art. 1 della legge 08.02.1948, n. 47 (Sez. U, n. 31022 del 29/01/2015,
Fazzo, Rv. 264090 - 01).
Mentre la diffusione di una dichiarazione lesiva della altrui reputazione
attraverso siti web, diversi da quelli delle testate giornalistiche (blog,
social media, altre piattaforme internet) integra non una diffamazione
semplice di competenza del giudice di pace ma un'ipotesi di diffamazione
aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo
dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità"
diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è
potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque
quantitativamente apprezzabile, di persone, anche se non possa dirsi posta
in essere "col mezzo della stampa", non essendo i social network
destinati ad un'attività di informazione professionale diretta al pubblico (Sez.
5, n. 4873 del 14/11/2016, dep. 2017, Manduca, Rv. 269090 - 01). |
VARI:
Sulla chat c’è diffamazione. Fa la differenza il messaggio
diretto a più persone. La Cassazione ha rigettato il ricorso avverso una
sentenza del Giudice di pace.
Sulla chat c'è diffamazione. «L'eventualità che tra i fruitori del messaggio
ritenuto gravemente offensivo vi sia anche la persona nei cui confronti
vengono formulate tali espressioni non configura l'illecito di ingiuria ma
il delitto di diffamazione, posto che, sebbene il mezzo di
trasmissione/comunicazione adoperato (e-mail o internet) consenta, in
astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l'offesa,
il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori fa sì che
l'addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella
interpersonale tra offensore e offeso».
È questo il passaggio centrale della sentenza con la quale la Corte di
Cassazione - Sez. V penale (sentenza
21.02.2019 n. 7904) ha rigettato il ricorso avverso la
sentenza del Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale per i
minorenni di Bari del gennaio 2018, che aveva dichiarato non luogo a
procedere nei confronti dell'indagato per il delitto di cui all'art. 595
cod. pen., trattandosi di persona non imputabile perché minore degli anni 14
al momento del fatto.
A sostegno della decisione assunta, il giudice censurato aveva escluso che
dagli atti d'indagine emergesse l'evidenza della prova richiesta ai fini
dell'invocato proscioglimento nel merito del minore, atteso che il tenore
dei messaggi a questi riferibili, versati nella chat di un gruppo su una
nota piattaforma cui egli partecipava, non potevano dirsi ictu oculi privi
di valenza offensiva per la reputazione di altra minore.
Secondo la Suprema corte, il profilo di doglianza che deduce l'inconfigurabilità
del delitto di diffamazione, attesa la partecipazione della destinataria
delle offese alla chat, ricorrendo, piuttosto, l'illecito civile di
ingiuria, deve essere affrontato assumendo a parametro interpretativo i
principi enunciati in tema di diffamazione commessa mediante «e-mail» o
mediante «internet».
«La eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia
anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni
offensive non può indurre a ritenere che, in realtà, venga integrato
l'illecito di ingiuria quanto piuttosto che il delitto di diffamazione,
posto che, sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato
(“e-mail” o “internet”) consenta, in astratto, anche al soggetto vilipeso di
percepire direttamente l'offesa, il fatto che messaggio sia diretto a una
cerchia di fruitori -i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in
tempi diversi-, fa sì che l'addebito lesivo si collochi in una dimensione
ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso di qui
l'offesa alla reputazione della persona ricompresa nella cerchia dei
destinatari del messaggio».
Nel caso in esame, conclude la Cassazione, dallo stesso tenore dei messaggi
offensivi emergeva come la minore parte lesa del reato fosse estranea allo
specifico contesto comunicativo, nel quale erano coinvolti i soli minori
indagati dialoganti tra loro (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019). |
UTILITA' |
TRIBUTI:
Massimario nazionale della Giustizia Tributaria di merito -
II semestre 2017/I semestre 2018
(I edizione - tratto da www.cndcec.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Contributi regionali per la rimozione dell’amianto:
approvazione dei criteri (ANCE di Bergamo,
circolare 06.06.2019 n. 143). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Terre e rocce da scavo: il Sistema Nazionale per
la Protezione Ambientale pubblica le linee guida (ANCE
di Bergamo,
circolare 06.06.2019 n. 142). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Modifiche al Codice di Prevenzione Incendi
(ANCE di Bergamo,
circolare 31.05.2019 n. 139). |
EDILIZIA PRIVATA: Eliminazione
delle barriere architettoniche per non vedenti e ipovedenti
ai sensi del DPR n. 503/1996, del DM n. 236/1989 e del DPR
n. 380/2001 - Necessità di prevedere accorgimenti e misure
idonee in sede progettuale e di tenere conto delle delle
persone non vedenti e ipovedenti – INFORMATIVA PER GLI
ORDINI TERRITORIALI E ATTIVITÀ DI SENSIBILIZZAZIONE DEGLI
ISCRITTI ALL’ALBO
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare
28.05.2019 n. 387). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Legge 03.05.2019, n. 37 - Legge europea 2018.
Richiesta chiarimenti – Agenti immobiliari (Ministero
dello Sviluppo Economico,
nota 22.05.2019 n. 128364 di prot.).
---------------
Si fa riferimento all’istanza di interpello inoltrata da
codesta Associazione allo scrivente ufficio con nota pec del
17 aprile u.s., concernente la legge in oggetto 03.05.2019,
n. 37 (entrata in vigore il 26 maggio successivo) la quale,
all’art. 2 - Disposizioni in materia di professione di
agente d'affari in mediazione, Procedura di infrazione n.
2018/2175 – dispone la sostituzione dell’ articolo 5, comma
3, della legge 03.02.1989, n. 39 come segue: (...continua). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Linea guida sull'applicazione della disciplina per
l'utilizzo delle terre e rocce da scavo (Sistema
Nazionale per la Protezione dell'Ambiente,
delibera 09.05.2019 n. 54/2019). |
URBANISTICA: Novità
nella consegna dei PGT in formato digitale (U.T.R.
Bergamo,
infocomuni marzo 2019 - n. 8). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Imposta di Bollo su istanze di rimborso di tariffe
erroneamente versate per richiesta di Valutazione Impatto
Ambientale e Autorizzazioni Integrate Ambientali - Articolo
11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia
delle Entrate,
risposta 28.12.2018 n.
144).
---------------
QUESITO
Il Ministero XXX ha chiesto chiarimenti in merito
all’applicazione dell’imposta di bollo prevista
dall’articolo 3, della Tariffa, allegato A, parte I, al
D.P.R. 26.10.1972 n. 642, ovvero dall’art. 5, comma 5, della
Tabella, allegato B annessa allo stesso DPR.
Più in particolare, il quesito riguarda le istanze di
rimborso delle tariffe erroneamente versate sia per le
richieste di valutazione di impatto ambientale sia per le
autorizzazioni integrate ambientali.
Relativamente alla valutazione di impatto ambientale (di
seguito VIA) l’istante riferisce che si tratta di “…una
procedura amministrativa di supporto per l’Autorità
competente (…) finalizzata ad individuare descrivere e
valutare gli impatti ambientali di un’opera, il cui progetto
è sottoposto ad approvazione o autorizzazione” e “Ciascun
soggetto che intenda presentare (…) un’istanza di
valutazione di impatto ambientale (…), è tenuto al
versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma
…”. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Trattamento fiscale applicabile ai fini dell’Iva alla
tariffa relativa alla cessione del segno identificativo e
alla tariffa per le ispezioni previste dalle norme in
materia di esercizio e controllo degli impianti termici
degli edifici – Artt. 3, 4 e 15 del Dpr 26.10.1972 n. 633 -
Istanza di interpello ai sensi dell’articolo 11, comma 1,
lett. a), legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle
Entrate,
risposta 28.12.2018 n. 141).
---------------
QUESITO
L’istante espone la seguente fattispecie concernente
l'individuazione del corretto trattamento fiscale ai fini
IVA applicabile alla cessione del segno identificativo e
alla tariffa per le ispezioni previste dalla Legge Regionale
delle Marche del 20.04.2015, n. 19 (Norme in materia di
esercizio e controllo degli impianti termici degli edifici).
L’istante premette che, ai sensi dell'art. 9, comma 2, del
D.Lgs. 19.08.2005 n. 192, nonché dell'art. 9, comma 1, e
dell'art. 10, comma 3, lett. c), del DPR 16.04.2013 n. 74,
l'attività di controllo sugli impianti termici, e quindi
l'applicazione delle tariffe necessarie a coprire i costi di
tale attività e di tutto ciò che è ad essa correlato (come
la gestione del catasto impianti), spettano alle Autorità
competenti (ovvero ai comuni con più di 40.000 abitanti e,
per il restante territorio, alle province) o ad eventuali
organismi esterni da esse delegati. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Cessione di diritti volumetrici - Agevolazioni ex art. 1,
comma 88, legge n. 205/2017: imposte di registro, ipotecaria
e catastale
(Agenzia delle Entrate,
risoluzione
24.10.2018 n. 80/E).
---------------
L’interpellante… rappresenta la seguente fattispecie.
Il Comune X, con delibera approvata dal Consiglio Comunale,
ha avviato la cessione mediante asta pubblica ai sensi del
RD 23.05.1924, n. 827, dei diritti volumetrici di proprietà
comunali allocati nelle unità di intervento di proprietà
privata in esecuzione di una convenzione attuativa del piano
particolareggiato adottato, che riguarda le aree e gli
edifici situati nel Comune X.
Il piano di cui la convenzione costituisce attuazione,
prevede, tra l’altro, la realizzazione di edifici con
destinazione residenziale, commerciale, artigianale e di
servizi e parcheggi.
Il Comune X, in quanto titolare di un’area ricompresa
nell’ambito territoriale del piano particolareggiato nonché
dei diritti volumetrici relativi a tale area, con propria
determinazione dirigenziale ha approvato il bando relativo
alla vendita con la procedura dell’asta pubblica, dei
menzionati diritti volumetrici, fissando un prezzo di base
d’asta.
A seguito dell’esperimento dell’asta pubblica, con
successiva determinazione dirigenziale, il Comune ha
aggiudicato in via definitiva i diritti volumetrici alla
società Y proprietaria delle aree e degli edifici nei quali
saranno allocati i diritti volumetrici in seguito alla
cessione da parte del Comune X.
Ciò premesso, l’istante chiede di conoscere se all’atto di
cessione dei diritti volumetrici aggiudicati sia applicabile
la disciplina prevista dall’articolo 32 del DPR 29.09.1973,
n. 601 (imposta di registro in misura fissa ed esenzione
dalle imposte ipotecaria e catastale) richiamata
dall’articolo 20 della legge 28.01.1977, n. 10, come
modificato dall’articolo 1, comma 88, della legge
27.12.2017, n. 205, in base al quale “Ai provvedimenti, alle
convenzioni e agli atti d’obbligo previsti dalla presente
legge si applica il trattamento tributario di cui
all’articolo 32, secondo comma, del decreto del Presidente
della Repubblica 29.09.1973, n. 601. Il trattamento
tributario di cui al primo comma si applica anche a tutti
gli atti preordinati alla trasformazione del territorio
posti in essere mediante accordi o convenzioni tra privati
ed enti pubblici, nonché a tutti gli atti attuativi posti in
essere in esecuzione dei primi. La disposizione di cui al
secondo comma si applica a tutte le convenzioni e atti di
cui all’articolo 40-bis della legge provinciale di Bolzano
11.08.1997, n. 13, per i quali non siano ancora scaduti i
termini di accertamento e di riscossione ai sensi della
normativa vigente o rispetto ai quali non sia stata emessa
sentenza passata in giudicato”.
In sede di integrazione documentale, l’interpellante ha
successivamente rappresentato che la cessione in parola è
stata assoggettata ad IVA ai sensi dell’articolo 2, comma 1,
del DPR 26.10.1972, n. 633. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Consulenza Giuridica – Art. 1 della legge n. 449 del 1997 –
Piano Casa – Possibilità di fruire della detrazione del 36
per cento sulle spese di ristrutturazione in presenza di
lavori di ampliamento (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 04.01.2011 n. 4/E). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
detrazione d’imposta del 55% per gli interventi di risparmio
energetico previsti dai commi 344-345-346 e 347 della legge
27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria per il 2007) (Agenzia
delle Entrate,
circolare 31.05.2007 n.
36/E). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: OGGETTO:
Profili interpretativi emersi nel corso di incontri con la
stampa specializzata tenuti nel mese di Gennaio 2007
(Agenzia delle Entrate,
circolare
16.02.2007 n. 11/E).
---------------
Sintesi: La circolare riporta, raggruppate per
argomento, le risposte fornite dalla scrivente in occasione
di incontri con gli esperti della stampa specializzata,
relative a quesiti concernenti l'applicazione delle
disposizioni contenute nel decreto-legge 04.07.2006, n. 223,
del decreto-legge 03.10.2006, n. 262 e della legge
27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
IVA – Applicazione del punto 127-quaterdecies) della Tabella
A, parte III, allegata al decreto del Presidente della
Repubblica 26.10.1972, n. 633 agli interventi di recupero e
risanamento conservativo di cui all’articolo 31, primo
comma, lettera c), della legge 05.08.1978, n. 457. Istanza
di interpello (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 22.01.2003 n. 10/E).
---------------
Quesito.
L’Istituto di Previdenza ed Assistenza per i Dipendenti del
Comune di ….. ha affidato ad una impresa di costruzioni
l’appalto dei lavori di restauro e risanamento conservativo
di parte di un edificio di proprietà del Comune di ……,
destinato ad uffici e precisamente a sede amministrativa,
uffici di presidenza e direzione dello stesso ente.
Posto che i lavori in questione ricadono nella fattispecie
di cui all’articolo 31, primo comma, lettera c), della legge
05.08.1978, n. 457, il medesimo Istituto chiede di conoscere
se alle relative prestazioni di servizi sia applicabile
l’aliquota IVA del 10 per cento ai sensi del punto
127-quaterdecies) della Tabella A, parte III, allegata al
decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972.
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Interpello …./2001-Art. 11, legge 27-7-2000, n. 212. Istanza
prot. n……./2001 del……… 2001 (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 12.10.2001 n. 157/E).
---------------
Quesito.
La società ……….., premesso che deve realizzare in “project
financing” la costruzione di una piscina scoperta e
ristrutturare l'impianto sportivo esistente (composto da
piscina coperta e palestra) di proprietà del Comune di ……. e
che, in base a concessione, avrà la gestione per trent'anni
dell'intero impianto sportivo, chiede di conoscere se tali
opere possano essere qualificate di "urbanizzazione
secondaria" e godere, pertanto, dell'aliquota IVA ridotta
del 10 per cento prevista dal punto 127-quinquies della
Tabella A, parte III, allegata al d.P.R. 26.10.1972, n. 633.
(...continua). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2019, "Approvazione
dello schema di accordo tra Regione Lombardia e Anci
Lombardia per la realizzazione di un progetto in materia di
sviluppo e rigenerazione urbana" (deliberazione
G.R. 03.06.2019 n. 1713). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2019, "Approvazione
degli «Indirizzi regionali in materia di sportelli unici per
le attività produttive (SUAP)» - Linee guida di attuazione
dell’art. 7 della legge regionale 19.02.2014, n. 11 «Impresa
Lombardia: per la libertà di impresa, il lavoro e la
competitività»" (deliberazione
G.R. 03.06.2019 n. 1702). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2019, "Linee
di indirizzo per l’attuazione delle misure di
dematerializzazione previste dalla d.g.r. n. 6077/2016"
(circolare
regionale 03.06.2019 n. 7). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 23 del 07.06.2019, "Legge di
revisione normativa e di semplificazione 2019" (L.R.
06.06.2019 n. 9). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
07.06.2019 n. 132 "Regolamento relativo agli interventi
di bonifica, di ripristino ambientale e di messa in
sicurezza, d’emergenza, operativa e permanente, delle aree
destinate alla produzione agricola e all’allevamento, ai
sensi dell’articolo 241 del decreto legislativo 03.04.2006,
n. 152" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 01.03.2019 n. 46). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardiua, serie ordinaria n. 23 del 06.06.2019, "Interventi
strutturali di prevenzione del rischio sismico sugli edifici
strategici e rilevanti, in attuazione dell’ordinanza del
capo del dipartimento di protezione civile n. 532/2018 (art.
2, comma 1, lettera b) - Criteri per l’individuazione degli
interventi prioritari nelle zone a maggior rischio sismico"
(deliberazione
G.R. 03.06.2019 n. 1714). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
31.05.2019 n. 126 "Rilevazione dei prezzi medi per l’anno
2017 e delle variazioni percentuali annuali, in aumento o in
diminuzione, superiori al dieci per cento, relative all’anno
2018, ai fini della determinazione delle compensazioni dei
singoli prezzi dei materiali da costruzione più
significativi" (Ministero delle Infrastrutture e
Trasporti,
decreto 20.05.2019). |
URBANISTICA: G.U.
31.05.2019 n. 126 "Linee guida per la valutazione di
impatto sanitario (VIS)" (Ministero della Salute,
decreto 27.03.2019).
---------------
Linee guida per la valutazione di impatto sanitario.
La Valutazione di Impatto sulla Salute (VIS) rappresenta uno
strumento a supporto dei procedimenti amministrativi e dei
processi decisionali riguardanti programmi, piani e progetti
sottoposti a valutazione d’impatto ambientale ed è una
procedura che consente d’individuarne e analizzarne gli
impatti sulla salute umana.
Così come previsto dalla normativa, la VIS consiste in un
elaborato predisposto dal proponente sulla base delle linee
guida adottate con decreto del Ministro della Salute, che si
avvale dell’Istituto Superiore di Sanità, al fine di stimare
gli impatti complessivi, diretti e indiretti, che la
realizzazione e l’esercizio del progetto può procurare sulla
salute della popolazione.
Queste linee guida si applicano a programmi, piani e
progetti di competenza statale, tuttavia esse possono
rappresentare un modello di riferimento per la valutazione
degli impatti sulla salute di programmi, piani e progetti di
rilevanza regionale, al fine di poter perseguire una
uniforme metodologia di valutazione a livello nazionale. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 31.05.2019, "Disposizioni
per il rilascio di autorizzazioni per l’esecuzione di
«Attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale
sostenute con risorse finanziarie pubbliche» ai sensi
dell’art. 10, c. 1, della l. 353/2000" (deliberazione
G.R. 27.05.2019 n. 1670). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 30.05.2019, "Terzo
aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 23.05.2019 n. 7275). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 29.05.2019, "Aggiornamento
del d.d.u.o. 21.11.2013 n. 19904 - Approvazione elenco delle
tipologie degli edifici ed opere infrastrutturali di
interesse strategico e di quelli che possono assumere
rilevanza per le conseguenze di un eventuale collasso in
attuazione della d.g.r. n. 19964 del 07.11.2003" (decreto
D.U.O. 22.05.2019 n. 7237). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 28.05.2019, "Aggiornamento
delle specifiche tecniche per l’interoperabilità e lo
scambio dati tra le amministrazioni relative alla
modulistica edilizia unificata e standardizzata regionale"
(decreto
D.S. 21.05.2019 n. 7141). |
APPALTI: B.U.R.
Piemonte, serie ordinaria n. 21, 2° suppl., del 23.05.2019,
"INFORMATIVA IN MATERIA DI PROCEDURE DI GARA SVOLTE DA
STAZIONI APPALTANTI/CENTRALI DI COMMITTENZA/SOGGETTI
AGGREGATORI AI SENSI DEL D.LGS. 50/2016 “CODICE DEI
CONTRATTI PUBBLICI”." (comunicato). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 22.05.2019, "Aggiornamento
albo delle imprese boschive (l.r. 31/2008 – art. 57)" (decreto
D.S. 15.05.2019 n. 6738). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 21 del 21.05.2019, "Modifiche
agli articoli 2, 3, 5, 10, 15 e 16 della legge regionale
17.11.2016, n. 28 (Riorganizzazione del sistema lombardo di
gestione e tutela delle aree regionali protette e delle
altre forme di tutela presenti sul territorio)" (L.R.
17.05.2019 n. 8). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 21.05.2019, "Ordine
del giorno concernente la revisione normativa delle leggi in
materia di gestione e tutela dei parchi e delle aree
protette" (deliberazione
C.R. 07.05.2019 n. 510). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
LAVORI PUBBLICI: A.
Cacciari,
La realizzazione delle opere
pubbliche, il contenzioso sugli appalti e l’economia
(10.06.2019 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE:
G. Laddaga,
GLI INCENTIVI PER FUNZIONI TECNICHE E LO IUS SUPERVENIENS
(PublikaDaily n. 11 - 05.06.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
IL SOCCORSO ISTRUTTORIO INTEGRATIVO NELLA RECENTE
GIURISPRUDENZA: LA QUALIFICAZIONE DEL TERMINE DI
INTEGRAZIONE E LA CONFIGURAZIONE GIURIDICA DELL’ERRORE
MATERIALE IN TEMA DI APPALTI
(PublikaDaily n. 11 - 05.06.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sacchi,
OBBLIGHI DI PUBBLICAZIONE DATI TRATTAMENTI ECONOMICI
PERSONALE DIPENDENTE
(PublikaDaily n. 11 - 05.06.2019). |
ENTI LOCALI - VARI:
L. Meneghini,
TUTELA DELL’INCOLUMITÀ PUBBLICA DALL’AGGRESSIONE DEI CANI
(PublikaDaily n. 11 - 05.06.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Gestione
delle terre e rocce di scavo: le Linee guida del SNPA.
Il Consiglio del Sistema Nazionale per la Protezione dell'Ambiente ha
approvato il manuale "Linea guida sull'applicazione della disciplina per
l'utilizzo delle terre e rocce da scavo".
Giovedì 9 maggio si è tenuta una riunione del Consiglio del SNPA (Sistema
Nazionale per la Protezione dell'Ambiente). Nella prima parte dell’incontro
si è preso atto dell’approvazione telematica di una serie di documenti
tecnici:
- Linee guida per la redazione del ‘Rapporto sulla qualità
dell’ambiente urbano’;
- Linee guida sulla gestione delle “Terre e rocce di scavo’;
- Rapporto tecnico “Elementi metodologici per la valutazione del
rischio associato all’esposizione a contaminanti multipli, con particolare
riferimento alla popolazione residente in aree di particolare rilevanza
ambientale”;
- Rapporto tecnico “Elementi metodologici per una valutazione multisorgente dell’esposizione a inquinanti chimici in ambienti indoor in
aree di particolare rilevanza ambientale”.
E’ stata quindi ratificata, a seguito della deliberazione di una procedura
SNPA sull’approvazione delle convenzioni di cui all’art. 3, comma 3, della
L. n. 132/2016, la prima Convenzione fra SNPA e INGV (Istituto nazionale di
geologia e vulcanologia), con il quale viene instaurato un rapporto di
collaborazione e partnership, nell’ambito delle rispettive finalità
istituzionali.
TERRE E ROCCE DA SCAVO. Con la
delibera 09.05.2019 n. 54/2019, il Consiglio SNPA ha
deliberato di approvare il manuale "Linea guida sull'applicazione della
disciplina per l'utilizzo delle terre e rocce da scavo", e di ritenere tale
atto, ai sensi dell'art. 8 del Regolamento di funzionamento, immediatamente
esecutivo; per il territorio delle Province Autonome di Trento e Bolzano è
applicato nel rispetto delle disposizioni dello statuto di autonomia
speciale, delle relative norme di attuazione e della sentenza 212/2017 della
Corte Costituzionale.
La Linea Guida è stata predisposta dal Gruppo di Lavoro n. 8 “Terre e rocce
da scavo”, costituito nell’ambito delle attività previste dal programma
triennale 2014-2016 del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente
con l’obiettivo di produrre manualistica per migliorare l’azione dei
controlli attraverso interventi ispettivi sempre più qualificati, omogenei e
integrati.
In particolare, la realizzazione di manuali e linee guida è
finalizzata ad assicurare l’armonizzazione, l’efficacia, l’efficienza e
l’omogeneità dei sistemi di controllo e della loro gestione nel territorio
nazionale, nonché il continuo aggiornamento, in coerenza con il quadro
normativo nazionale e sovranazionale, delle modalità operative del Sistema
nazionale e delle attività degli altri soggetti tecnici operanti nella
materia ambientale.
La normativa di riferimento in materia di terre e rocce da scavo al momento
della costituzione del GdL era rappresentata dalle seguenti norme:
- art. 184-bis del d.lgs. n. 152/2006 sui sottoprodotti;
- art. 185, commi 1, lett. b) e c), e 4 del d.lgs. 152/2006 per
l’esclusione dalla qualifica di rifiuto;
- DM 10.08.2012, n. 161, recante la disciplina
dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti;
- DL 25.01.2012, n. 2 convertito con L. 24.03.2012, n. 28
che fornisce l’interpretazione autentica dell’art. 185 del d.lgs. 152/2006;
- DL 21.06.2013, n. 69, Disposizioni urgenti per il rilancio
dell'economia convertito con Legge 98/2013 per la qualifica delle terre e
rocce da scavo, prodotte nei cantieri non sottoposti a VIA ed AIA, come
sottoprodotti;
- DL 12.09.2014, n. 133, Misure urgenti per l'apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche e l'emergenza del dissesto
idrogeologico, convertito con modificazioni dalla L. 11.11.2014, n.
164;
- DM 05.02.1998 per il recupero in procedura semplificata
delle terre e rocce qualificate rifiuti.
A seguito dell’entrata in vigore DL 133/2014 convertito con modificazioni
dalla legge 11.11.2014, n. 164 che all’art. 8 prevedeva il riordino
dell’intera materia, il GdL n. 8 “Terre e rocce da scavo” ha sospeso i
propri lavori in attesa dell’emanazione della nuova normativa.
Il 07.08.2017 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il DPR del 13.06.2017, n. 120 “Regolamento recante la disciplina semplificata della
gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’art. 8 del decreto
legge 12.09.2014 n. 133, convertito con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164.” Il DPR ha abrogato il DM 161/2012, l’articolo 184-bis, comma 2-bis, del decreto legislativo
03.04.2006, n. 152 e gli
articoli 41, comma 2, e 41-bis del decreto-legge 21.06.2013, n. 69,
convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Il DPR 120/2017 non ha abrogato il comma 3-bis dell’art. 41 del citato
decreto legge e relativo ai materiali di scavo proveniente dalle miniere dismesse, o comunque esaurite, collocate all’interno dei SIN. Detti
materiali “possono essere utilizzatori nell’ambito delle medesime aree
minerarie, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni,
rilevati, miglioramenti fondiari, o viari oppure altre forme di ripristino
…”. In relazione alle attività minerarie ancora in essere si ricorda invece
che i materiali litoidi prodotti come obiettivo primario e come
sottoprodotto dell’attività di estrazione effettuata in base a concessioni e
pagamento di canoni, sono assoggettati alla normativa sulle attività
estrattive.
Con l’emanazione del citato DPR è stato definito il quadro normativo di
riferimento, pertanto il GdL n. 8 ha potuto riprendere i lavori che si sono
sviluppati nelle seguenti attività finalizzate alla definizione di una Linea
Guida per l'applicazione della disciplina:
- analisi del DPR e individuazione delle criticità applicative (ad
esempio modalità operative di campionamento, aspetti procedurali, ecc.);
- definizione di un approccio comune finalizzato ad una
applicazione condivisa delle diverse disposizioni con particolare
riferimento ai compiti di monitoraggio e controllo attribuiti al SNPA, fermi
restando i compiti di vigilanza e controllo stabiliti dalle norme vigenti
per le Agenzie;
- definizione di criteri comuni per la programmazione annuale delle
ispezioni, dei controlli dei prelievi e delle verifiche delle Agenzie
regionali e provinciali
(27.05.2019 - commento tratto da e link a
www.casaeclima.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E. Pilotto,
LA PUBBLICAZIONE DEI CONTRIBUTI PARI O SUPERIORI A 10 MILA
EURO DA PARTE DEI BENEFICIARI: LE NOVITÀ DEL D.L. 34/2019
(PublikaDaily n. 10 - 22.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
M. Terzi,
LA VERIFICA STRAORDINARIA DI CASSA A SEGUITO DELL’ELEZIONE
DEL NUOVO SINDACO
(PublikaDaily n. 10 - 22.05.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
LE NUOVE MODALITÀ DI CALCOLO DELLA SOGLIA DI ANOMALIA
(PublikaDaily n. 10 - 22.05.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: F.
Francario,
Il diritto di accesso deve
essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione
retorica
(22.05.2019 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1.- Necessità di un chiarimento; 2.-
Tipologia e regime giuridico degli accessi (cenni sulle
figure generali); 3.1.- Modalità e limiti della protezione
dell’interesse alla conoscenza si differenziano a seconda
che si tratti di una situazione soggettiva qualificata o di
semplice interesse; 3.2.- (segue) Le limitazioni
dell'accesso civico (disciplinate dall’art. 5-bis del dlgs
33/2013 e s.m.i.); 3.3.- (segue) Le limitazioni del diritto
di accesso procedimentale (nella disciplina dell’art 24
della l. 241/1990 e s.mi..). L’accesso “defensionale”
non può essere oggetto di valutazione discrezionale; 4.- Il
caso paradigmatico della diversa composizione del conflitto
tra trasparenza e riservatezza; 5.- Osservazioni conclusive. |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Veronese,
Attività edilizia libera, C.A.L., C.I.L.A., S.C.I.A.: il
punto sui titoli non titoli (13.05.2019 -
link a www.amministrativistiveneti.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa normativa: l’attività
edilizia libera; la comunicazione di avvio lavori, la
comunicazione di inizio lavori asseverata; la segnalazione
certificata di inizio attività; § 2. Attività edilizia
libera; § 3. C.I.L.A.: natura, procedimento, poteri
dell’amministrazione; § 4. S.C.I.A.: natura, procedimento,
poteri dell’amministrazione, nuova agibilità; § 5. Le misure
di salvaguardia; § 6. Onerosità dei titoli; § 7. Profili
sanzionatori e penali (cenni); § 8. S.C.I.A. e il falso; §
9. C.I.L.A., S.C.I.A. e tutela del terzo anche alla luce
della sentenza della Corte Costituzionale n. 45/2019. |
PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sacchi,
CONFLITTO D’INTERESSE E ABUSO D’UFFICIO
(PublikaDaily n. 9 - 08.05.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
L’INVERSIONE DELLA VERIFICA DEI REQUISITI NELLA NOVITÀ
INTRODOTTA CON IL DECRETO-LEGGE “SBLOCCA CANTI ERI”
(PublikaDaily n. 9 - 08.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
D. d'Alfonso,
SPESE LEGALI: QUANDO SONO RIMBORSABILI E LE DIFFERENZE TRA
DIPENDENTI E AMMINISTRATORI
(PublikaDaily n. 9 - 08.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: MANUALE
PER I SINDACI - ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2019 - Schemi di
atti, delibere, indirizzi per i primi adempimenti (ANCI,
maggio 2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
S. Cicala,
CONGEDO STRAORDINARIO PER ASSISTENZA AI DISABILI: NON È
NECESSARIA LA CONVIVENZA EX ANTE - Commento alla sentenza
della Corte costituzionale n. 232 del 07.12.2018
(PublikaDaily n. 8 - 24.04.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
GLI ACQUISTI SOTTO SOGLIA COMUNITARIA DOPO IL DECRETO
SBLOCCA CANTIERI (PublikaDaily n. 8 -
24.04.2019). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
LA TRATTATIVA DIRETTA SU MEPA (TD) PER L’ACQUISTO DI BENI
E/O SERVIZI - INDICAZIONI OPERATIVE E FAC-SIMILE DI LETTERA
DI NEGOZIAZIONE (PublikaDaily n. 8 -
24.04.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G. Nespoli,
Notificazione a mezzo posta elettronica certificata:
registro PP.AA. o IPA per gli indirizzi pec delle P.A.?
(18.04.2019 - link a www.amministrativistiveneti.it). |
APPALTI SERVIZI: C.
P. Guarini,
Una nuova stagione per
l’in house providing? L’art. 192, co. 2, del d.lgs.
18.04.2016, n. 50, tra dubbi di legittimità costituzionale e
sospetti di incompatibilità eurounitaria
(17.04.2019 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. L’ordinanza del Tar Liguria, sez. II,
15.11.2018, n. 886, e l’ordinanza del Consiglio di Stato,
sez. V, 07.01.2019, n. 138: il perimetro delle questioni. –
2. L’in house providing: un lungo percorso tra legislatore,
Corte costituzionale e giurisprudenza amministrativa. Cenni
di contesto. – 2.1. (Segue) Il referendum abrogativo del
12-13.06.2011 e le sentenze della Corte costituzionale n. 24
del 2011 e n. 199 del 2012. Nuove linee interpretative per
il bilanciamento tra tutela della concorrenza e autonomia
organizzativa delle pp.aa. regionali e locali. – 2.2.
(Segue) Gli ultimi “aggiustamenti” nazionali prima
dell’intervento dell’Unione. – 3. Le direttive UE nn. 23, 24
e 25 del 2014, il «principio di libera amministrazione delle
autorità pubbliche» e l’in house come modulo organizzativo
“ordinario”. – 4. Il divieto di gold plating, la l. delega
28.01.2016, n. 11, e i limiti del legislatore delegato. –
4.1. (Segue) La via della legittimità costituzionale
praticata dal Tar Liguria: alcuni rilievi critici. – 4.2.
(Segue) La strada del rinvio pregiudiziale interpretativo
alla CGUE praticata dal Consiglio di Stato: le premesse per
una nuova stagione dell’in house providing? – 5. Qualche
breve spunto in ordine all’interferenza tra giudizi e al
rischio di una eterogenesi dei fini.
---------------
Abstract: Le presenti note ripercorrono i passaggi
salienti dell’evoluzione (interna ed eurounitaria)
dell’istituto dell’in house providing al fine di evidenziare
quanto sfavorevole sia stato l’approccio (legislativo e
giurisprudenziale) nazionale al suo utilizzo,
prevalentemente collocato in un’area antagonista al
principio concorrenziale. La cristallizzazione del
«principio di libera amministrazione delle autorità
pubbliche», contemplato dalle direttive UE nn. 23, 24 e 25,
sembra, invece, aver suggerito di modificare tale approccio.
Ciononostante, il legislatore italiano ha riproposto, nella
“nuova” disciplina dei contratti pubblici, condizioni e
limiti al ricorso all’in house providing (art. 192, co. 2,
d.lgs. n. 50 del 2016), che paiono perpetuare un regime di
sostanziale disfavore nei suoi confronti, alimentando la
prospettiva della sua “natura” derogatoria o eccezionale.
Tali incongruenze sono state avvertite da alcuni giudici
amministrativi che hanno investito della questione sia la
Corte costituzionale (il Tar Liguria) che la CGUE (il
Consiglio di Stato). Il contenuto delle ordinanze di rinvio
e i possibili effetti del sovrapporsi di tali rinvii
costituiscono il fulcro della seconda parte di questo
contributo. |
LAVORI PUBBLICI:
P. Michielan,
Pregiudizio da opera pubblica legittima al bene non
espropriato: presupposti per l’indennità dovuta (artt. 33 e
44 D.P.R. n. 327/2001)
(15.04.2019 - link a www.amministrativistiveneti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
R. Sacchi,
LE SCADENZE DELLA TRASPARENZA 2019 (PublikaDaily
n. 5 - 13.03.2019). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
S. Usai,
PROGRAMMAZIONE DEGLI ACQUISTI DI FORNITURE E SERVIZI E
BILANCIO DELLA STAZIONE APPALTANTE (PublikaDaily
n. 5 - 13.03.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
S. Freguglia,
L’UTILIZZO DELLE GRADUATORIE DOPO LA LEGGE DI BILANCIO
(PublikaDaily n. 4 - 27.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sacchi,
LA PUBBLICAZIONE DEI DATI DEI DIRIGENTI, DOPO LA SENTENZA
DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 20/2019 (PublikaDaily
n. 4 - 27.02.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
PARTECIPAZIONE DEL RUP IN COMMISSIONE DI GARA E L’ATTUALE
ORIENTAMENTO GIURISPRUDENZIALE (PublikaDaily
n. 4 - 27.02.2019). |
PATRIMONIO:
M. Terzi,
I PROVENTI DA ALIENAZIONE DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE
(PublikaDaily n. 3 - 13.02.2019). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE:
S. Usai,
I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI INCENTIVI PER FUNZIONI
TECNICHE (PublikaDaily n. 3 - 13.02.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sacchi,
LA LEGGE CD. “SPAZZA CORROTTI” (PublikaDaily
n. 3 - 13.02.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
L’AFFIDAMENTO “DIRETTO” DI LAVORI PREVISTO NELLA LEGGE DI
BILANCIO PER IL 2019 (PublikaDaily n. 2 -
30.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
D. D'Alfonso,
LA DESTINAZIONE DEI PROVENTI EX ART. 208 DEL CODICE DELLA
STRADA (PublikaDaily n. 2 - 30.01.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
CODICE DEI CONTRATTI E NUOVA LEGGE DI BILANCIO N. 145/2018
(PublikaDaily n. 1 - 16.01.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
R. Sacchi,
DELIBERA ANAC N. 1074 DEL 21/11/2018: TUTTE LE NOVITÀ PER
L’ANNO 2019 (PublikaDaily n. 1 - 16.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
S. Freguglia,
GLI ULTIMI SVILUPPI INTERPRETATIVI SUI L IMITI PER GLI
INCARICHI AI SENSI DELL’ART. 110 DEL D.LGS. 267/2000
(PublikaDaily n. 1 - 16.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Tallarida,
I trasferimenti individuali nel rapporto di lavoro pubblico
e privato
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
---------------
Sommario: 1. Trasferimenti d’ufficio - 2. Norma
generale - 3. La giurisprudenza in materia - 4. Disposizioni
speciali - 5. ricongiungimento familiare - 6. Distacco,
comando, trasferta o missione - 7. Trasferimenti a domanda -
8. il lavoro agile - 9. Contrattazione collettiva nazionale
- 10. Considerazioni finali. |
APPALTI:
C. Colelli,
La tutela processuale nel rito “super accelerato”
degli appalti pubblici e i principi eurounitari - Corte di
giustizia Ue, Sez. IV, ordinanza 14.02.2019, C-54/18
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L. Soldini,
Qualche riflessione sull’accesso civico generalizzato a nota
della sentenza n. 1546/2019 del Consiglio di Stato
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: T.
Tessaro,
Responsabilità diretta del funzionario od amministratore e
limiti di riconoscibilità del debito fuori bilancio comunale
(23.11.2018 - tratto da
www.amministrativistiveneti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Terzi,
I PROVENTI DA ONERI DI URBANIZZAZIONE: DAL 2018 UN QUADRO
NORMATIVO DEFINITIVO (PublikaDaily n. 2 -
31.01.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
R. Sacchi,
LA PUBBLICAZIONE DEI BENEFICI ECONOMICI (PublikaDaily
n. 2 - 31.01.2018). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
S. Usai,
REDAZIONE ALBO PER AFFIDAMENTO INCARICHI LEGALI (PublikaDaily
n. 2 - 31.01.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G. Sacchi,
TRATTAMENTO DEI DIPENDENTI NEI PASSAGGI DI MOBILITÀ
(PublikaDaily n. 2 - 31.01.2018). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La
ratio della disciplina in materia è quella di valorizzare e
premiare i diversi profili, tecnici e amministrativi, del
personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di
spesa, dalla programmazione all’esecuzione del contratto,
consentendo l’erogazione degli incentivi anche per gli
appalti di servizi e forniture rientranti nell’ambito di
applicazione del Codice dei contratti pubblici; a fronte di
tale finalità ispiratrice non sembra esserci spazio per
alcuna distinzione relativa alla tipologia di appalto e alla
natura, corrente o di investimento, della spesa che lo
finanzia.
Opinando diversamente, si introdurrebbe in materia una
distinzione fra le diverse tipologie di appalto pubblico che
non trova fondamento nel dato normativo e, anzi, contrasta
con la considerazione unitaria delle tre fattispecie
contrattuali che connota l’art. 113 del Codice dei contratti
pubblici.
In
definitiva, l’incentivo in esame è
erogabile in tutte e tre le tipologie di contratti pubblici
di appalto (lavori, servizi e forniture), purché ricorrano
le condizioni di legge, tra cui in primo luogo lo
svolgimento di una gara.
Per le ipotesi di appalti di servizi
e forniture, una specifica condizione è posta dall’ultimo
inciso del comma 2 dell’art. 113, che limita gli emolumenti
incentivanti al «caso in cui è nominato il direttore
dell’esecuzione»; sul punto vengono in rilievo le Linee
guida ANAC n. 3 (recanti «Nomina, ruolo e compiti del
responsabile unico del procedimento per l’affidamento di
appalti e concessioni»), laddove la nomina del direttore
dell’esecuzione del contratto, quale soggetto diverso dal
RUP, è richiesta per gli appalti di importo superiore a una
determinata soglia ovvero connotati da profili di
complessità (§ 10.2)
---------------
Con nota del 19.03.2019 il Sindaco del Comune di
Triggiano (BA) ha formulato una richiesta di parere ex
art. 7, comma 8, della l. 05.06.2003, n. 131 in materia
di incentivi per funzioni tecniche. In particolare,
premesso che:
- in base al comma 2 dell’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016
(nel testo all’epoca vigente), «A valere sugli
stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base
di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle
stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure
di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di
direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti» (prima parte) e «La disposizione di cui
al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi
o forniture nel caso in cui è nominato il direttore
dell’esecuzione» (ultima parte);
- nei
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 28.09.2018 n. 140 la Sezione regionale di
controllo per la Puglia si è espressa nel senso
dell’impossibilità di riconoscere l’incentivo in rapporto
alle attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, in
quanto non presenti tra le attività elencate nell’art. 113
che, tra l’altro, fa espresso riferimento alle attività di
programmazione della spesa per investimenti;
- l’ultima parte sopra citata del comma 2 dell’art. 113, pur
riconoscendo la possibilità di incentivare gli appalti di
servizi e fornitura, non chiarisce se deve intendersi
qualsiasi tipologia di appalto (relativo a spesa corrente o
per investimenti) ovvero solo quello relativo alla spesa di
investimento;
il Comune ha chiesto «se per gli appalti di
affidamento dei servizi finanziati dalla spesa corrente,
quali ad esempio i servizi socio-assistenziali, previa
nomina del direttore dell’esecuzione e inserimento nel
relativo programma biennale di cui all’art. 21 del D.Lgs.
50/2016, possano essere previsti e corrisposti gli incentivi
per funzioni tecniche».
...
2. Passando al merito, la risposta al quesito
richiede una sintetica ricognizione del pertinente quadro
normativo, connotato dalla successione nel tempo di diverse
disposizioni (da ultimo quelle del d.l. 18.04.2019, n. 32),
nonché della sua interpretazione ad opera del giudice
contabile.
2.1 Riproducendo analoghe disposizioni contenute nell’art.
18 della l. 11.02.1994, n. 109 (recante la «Legge quadro
in materia di lavori pubblici»), l’art. 92, commi 5 e 6,
poi confluito nell’art. 93, commi 7-bis ss., del d.lgs.
12.4.2006, n. 163 (recante il «Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»)
prevedeva che –a valere sugli stanziamenti previsti per la
realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione
della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti– le
amministrazioni pubbliche destinassero «ad un fondo per
la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in
misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a
base di gara di un'opera o di un lavoro», rinviando la
definizione della percentuale effettiva a un regolamento
dell’amministrazione.
L’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (recante il «Codice
dei contratti pubblici») ha superato tale impianto,
segnando il passaggio dal «fondo per la progettazione e
l’innovazione» agli «incentivi per funzioni tecniche»
(questa la rubrica dell’articolo in esame), mediante la
previsione della possibilità per la P.A. di erogare
emolumenti accessori al proprio personale per funzioni
tecniche svolte in relazione ad attività puntualmente
indicate in materia di appalti di lavori, servizi o
forniture. Segnatamente, esso:
- nel testo vigente dopo le modifiche del d.lgs. 19.04.2017, n. 56
e fino a quelle del d.l. n. 32/2019 (cfr. infra), consentiva
alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare a un
apposito fondo –a valere sugli stanziamenti previsti per i
singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati
di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti (comma 1)– risorse finanziarie in misura non
superiore al 2%, modulate sull’importo dei lavori, servizi e
forniture posti a base di gara «per le funzioni tecniche
svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, di
valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di
controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero
direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico
amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base
di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti»
(comma 2, primo inciso); la disposizione «si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell'esecuzione» (comma 2, ultimo
inciso);
- prevede che l’80% delle risorse finanziarie del fondo sia
ripartito, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, con le
modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale, sulla base di un
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti; inoltre, gli incentivi
complessivamente corrisposti nell’anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono
superare il 50% del trattamento economico complessivo annuo
lordo (comma 3);
- dispone che gli incentivi in esame «fanno capo al
medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture» (comma 5-bis, inserito dall’art. 1,
comma 526, della l. 27.12.2017, n. 205 – legge di bilancio
2018).
2.2 La Sezione delle Autonomie ha avuto modo di pronunciarsi
più volte sul quadro normativo in materia, cogliendone
l’evoluzione. In dettaglio:
- la
delibera 13.11.2009 n. 16
ha escluso, tra gli altri, gli incentivi per la
progettazione interna di cui all’allora vigente art. 92 del
d.lgs. n. 163/2006 dai vincoli alla spesa per il personale
posti dall’art 1, commi 557 e 562, della l. 27.12.2006, n.
296 (legge finanziaria per il 2007), trattandosi di «spese
di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale,
iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito
dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera
pubblica, e non di spese di funzionamento»; tali
conclusioni sono state condivise dalle Sezioni Riunite con
la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, che ha escluso
l’incentivo per la progettazione interna dal rispetto del
limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n.
31.05.2010 n. 78 (convertito con modificazioni dalla l.
30.7.2010, n. 122);
- con la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 è stato sancito,
tra l’altro, che: i) il riconoscimento dell’incentivo alla
progettazione ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n.
163/2006 in favore del RUP non presuppone necessariamente
che l’intera attività di progettazione sia svolta
all’interno dell’ente; ii) gli incentivi possono essere
riconosciuti in favore delle figure professionali interne
che svolgano le attività tecniche ivi previste, anche in
presenza di progettazione affidata non integralmente a
soggetti estranei ai ruoli della stazione appaltante e dagli
stessi realizzata;
- prendendo atto del nuovo quadro regolatorio derivante
dall’adozione del Codice dei contratti pubblici,
la
deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha stabilito che
gli incentivi ex art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 devono
essere inclusi nel tetto
dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236,
della l. n. 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità 2016),
stante la loro differenza rispetto agli incentivi alla
progettazione ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n.
163/2006 («il compenso incentivante previsto dall’art.
113, comma 2, del nuovo codice degli appalti non è
sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato.
È anzi precisato nella legge delega (art. 1, comma 1, lett.
rr, l. n. 11/2016), che tale compenso va a remunerare
specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte
dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della
programmazione, predisposizione e controllo delle procedure
di gara e dell’esecuzione del contratto “escludendo
l’applicazione degli incentivi alla progettazione” (…) nei
nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di
qualificare la relativa spesa come finalizzata ad
investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili,
con carattere di generalità, anche per gli appalti di
servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino,
in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e,
dunque, come spese correnti (e di personale)»);
l’orientamento è stato ribadito dalla
deliberazione 10.10.2017 n. 24;
- successivamente, l’inserimento nell’art. 113 del comma 5-bis
(alla stregua del quale gli incentivi fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture) ha indotto la Sezione delle Autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6)
a ritenere che l’allocazione in bilancio degli incentivi
tecnici così stabilita «ha l’effetto di conformare in
modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in
quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa
complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo
nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie
relative agli incentivi tecnici»; conseguentemente, gli
incentivi ex art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 nel testo così
modificato dalla l. n. 205/2017 non sono soggetti al vincolo
posto al trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n.
75/2017;
- da ultimo, la
deliberazione 09.01.2019 n. 2, chiamata a
pronunciarsi sulla possibilità di riconoscere gli incentivi
per funzioni tecniche anche in relazione agli appalti di
lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, ha
riconsiderato le conclusioni a cui era pervenuta la
deliberazione 23.03.2016 n. 10 nel precedente
contesto normativo. In particolare, è stato affermato che:
• a fronte dell’originaria finalità della
disciplina in materia di spostare all’interno degli uffici
attività di progettazione e capacità professionali di
elevato profilo, l’art. 113 mira a stimolare e premiare i
diversi profili, tecnici e amministrativi, del personale
pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa,
consentendo l’erogazione degli incentivi anche per gli
appalti di servizi e forniture;
• l’inserimento tra le attività incentivabili
delle «verifiche di conformità», che rappresentano le
modalità di controllo dell’esecuzione dei contratti di
appalto di servizi e forniture (art. 102, comma 2, del
d.lgs. n. 50/2016), è rivelatore di una voluntas legis
tesa a stimolare, attraverso gli incentivi, una più attenta
gestione delle fasi della programmazione e dell’esecuzione
anche dei contratti pubblici di appalto di servizi e
forniture;
• il fatto che tali emolumenti siano erogabili,
con carattere di generalità, anche per gli appalti di
servizi e forniture comporta la loro configurabilità «non
più solo come spesa finalizzata ad investimenti, ma anche
come spesa di funzionamento e, dunque, come spesa corrente»;
in tal senso depone l’introduzione del comma 5-bis dell’art.
113 ad opera della l. n. 205/2017;
• nel mutato quadro normativo –che non riproduce
il divieto ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006
di ripartire l’incentivazione per le attività manutentive–
non vi sono motivi ostativi ad includere fra le attività
tecniche incentivabili quelle connesse con lavori di
manutenzione.
2.3 Infine, come sopra anticipato, l’art. 1, comma 1, lett.
aa), del citato d.l. n. 32/2019 (recante «Disposizioni
urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici,
per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di
rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi
sismici», c.d. Sblocca cantieri) ha modificato il comma
2 dell’art. 113.
La novella è consistita nel sostituire il riferimento alle «attività
di programmazione della spesa per investimenti, di
valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di
controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici» con quello alle «attività di
progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di
progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della
progettazione», lasciando inalterato il richiamo a
quelle di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
In sostanza, è stata sancita la reintroduzione degli
incentivi per la progettazione interna, abrogando
tacitamente uno dei principi direttivi della legge delega
(art. 1, comma 1, lett. rr) della l. 28.01.2016, n. 11),
sulla cui base era stato adottato l’art. 113 del Codice dei
contratti pubblici.
3. L’excursus normativo ed esegetico
fin qui condotto consente di fornire risposta affermativa al
quesito prospettato dall’Ente.
La ratio della disciplina in esame è
quella di «stimolare, valorizzare e premiare i diversi
profili, tecnici e amministrativi, del personale pubblico
coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione all’esecuzione del contratto, consentendo
l’erogazione degli incentivi anche per gli appalti di
servizi e forniture rientranti nell’ambito di applicazione
del Codice dei contratti pubblici»
(deliberazione
09.01.2019 n. 2) e di «accrescere
efficienza ed efficacia di attività tipiche
dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente
rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini
di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso
d’opera» (Sez.
reg. contr. Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186, richiamata dalla
deliberazione 09.01.2019 n. 2);
a fronte di tale finalità ispiratrice, che invera il
principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) e
quelli dell’art. 1 della l. 07.08.1990, n. 241, non sembra
esserci spazio per alcuna distinzione relativa alla
tipologia di appalto e alla natura, corrente o di
investimento, della spesa che lo finanzia.
Opinando diversamente, si introdurrebbe in materia una
distinzione fra le diverse tipologie di appalto pubblico che
non trova fondamento nel dato normativo e, anzi, contrasta
con la considerazione unitaria delle tre fattispecie
contrattuali che connota l’art. 113:
- gli oneri previsti al comma 1 fanno carico agli «stanziamenti
previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture» (comma 1);
- le risorse finanziarie da destinare agli incentivi sono modulate
«sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a
base di gara» (comma 2);
- l’80% delle risorse finanziarie è ripartito, «per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura», secondo specifici
modalità e criteri (comma 3);
- per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di
committenza «nell’espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture» per conto
di altri enti, può essere riconosciuta una quota parte
dell’incentivo (comma 5);
- gli incentivi fanno capo al «medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavori, servizi e forniture»
(comma 5-bis); previsione che «impone che l’impegno di
spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II
della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve
essere iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente
con quella del tipo di appalti di riferimento»
(deliberazione
26.04.2018 n. 6).
In definitiva, l’incentivo in esame è
erogabile in tutte e tre le tipologie di contratti pubblici
di appalto (lavori, servizi e forniture), purché ricorrano
le condizioni di legge, tra cui in primo luogo lo
svolgimento di una gara
(ex multis, Sez. reg. contr. Liguria,
parere 21.12.2018 n. 136; Sez. reg. contr.
Marche,
parere 08.06.2018 n. 28).
Per le ipotesi di appalti di servizi e
forniture, una specifica condizione è posta dall’ultimo
inciso del comma 2 dell’art. 113, che limita gli emolumenti
incentivanti al «caso in cui è nominato il direttore
dell’esecuzione»; sul punto vengono in rilievo le Linee
guida ANAC n. 3 (recanti «Nomina, ruolo e compiti del
responsabile unico del procedimento per l’affidamento di
appalti e concessioni»), laddove la nomina del direttore
dell’esecuzione del contratto, quale soggetto diverso dal
RUP, è richiesta per gli appalti di importo superiore a una
determinata soglia ovvero connotati da profili di
complessità (§ 10.2)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 22.05.2019 n. 52). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Gli incentivi per funzioni tecniche possono
essere riconosciuti esclusivamente per le attività
riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che,
secondo la legge, siano stati affidati previo espletamento
di una procedura comparativa.
Relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture,
la disciplina sui predetti incentivi si applica solo nel
caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione.
L’articolo 111, comma 2, del d.lgs. 50/2016 prevede che, di
norma, il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi
o di forniture coincida il responsabile unico del
procedimento.
La nomina del direttore dell’esecuzione è richiesta soltanto
negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a
€ 500.000 ovvero di particolare complessità così come
specificato nelle Linee guida ANAC n. 3/2016, le quali
stabiliscono l’importo massimo e la tipologia di servizi e
forniture per i quali il RUP può coincidere con il
progettista o con il direttore dell’esecuzione del contratto
e, nel contempo, precisano dettagliatamente i casi in cui
quest’ultimo deve essere soggetto diverso dal responsabile
del procedimento (Linee guida n. 3, recanti: “Nomina, ruolo
e compiti del responsabile unico dei procedimenti per
l’affidamento di appalti e concessioni”, destinate ad essere
sostituite dal Regolamento unico).
La particolare complessità che giustifica la scissione delle
due figure viene individuata, nelle Linee guida n.
3/2016, espressamente ed a prescindere dal valore delle
prestazioni, nelle seguenti circostanze:
1. interventi particolarmente complessi sotto il profilo
tecnologico;
2. prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di
competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle
strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie,
ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario,
supporto informatico);
3. interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di
processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate
prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità;
4. per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla stazione
appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità
organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti
che hanno curato l’affidamento
(massima tratta da www.self-entilocali.it).
---------------
Il Sindaco pro tempore del Comune di Torri di Quartesolo
(VI) ha inviato una richiesta di parere ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, in
merito alla corretta applicazione della norma sugli
incentivi per funzioni tecniche per appalti relativi a
servizi e forniture.
Richiamato l’art. 113, comma 2, ultimo periodo, del d.lgs.
n. 50/2016, nel testo aggiornato dal d.lgs. 19.04.2017, n.
56, nella parte in cui prevede che: “la disposizione di
cui al presente comma si applica agli appalti relativi a
servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore
dell'esecuzione”, da interpretare alla luce delle
prescrizioni delle Linee guida n. 3, “Nomina, ruolo e
compiti del responsabile unico dei procedimento per
l'affidamento di appalti e concessioni”, aggiornate
dall'ANAC con deliberazione n. 1007 dell'11.10.2017, la cui
disciplina sui presupposti e sulle modalità per la nomina
dei RUP, nonché sulle "possibili ipotesi di coincidenza
soggettivo con il progettista o con il direttore
dell'esecuzione", andrebbe ascritta a pieno titolo
all'ambito delle Linee Guida di contenuto vincolante, come
ritenuto dal Consiglio di Stato nel parere n. 2044/2017, il
Sindaco richiedente alla luce della prescrizione di cui al
punto n. 10 delle predette Linee guida (rubricato “Importo
massimo e tipologia di servizi e forniture per i quali il
RUP può coincidere con il progettista o con il direttore
dell'esecuzione del contratto”), in particolare dei
punti 10.1 e 10.2, perviene alla conclusione che negli
appalti di servizi e forniture il riconoscimento degli
incentivi per funzioni tecniche sia limitato ai casi in cui
ricorra l'obbligo della nomina del direttore dell'esecuzione
come soggetto diverso dal R.U.P. [appalti di importo
superiore ad € 500.000,00; forniture o servizi che
presentino le connotazioni di particolare complessità
indicate al punto 10.2, lettere b), c), d) o e) delle
predette Linee guida, a prescindere dal valore delle
prestazioni].
A detta del richiedente, le suesposte considerazioni
sarebbero avallate dal fatto che: a) negli appalti di
servizi e forniture il direttore dell'esecuzione coincide
col RUP e, quindi, non se ne richiede la nomina; b) la
coincidenza delle due funzioni (di RUP e direttore
dell'esecuzione) non è consentita, invece, negli appalti di
importo superiore ai 500.000,00 euro e in quelli che
presentino le caratteristiche previste dal punto 10.2 delle
Linee guida; c) al di fuori di tali casi, la nomina di un
direttore dell'esecuzione diverso dal RUP potrebbe
configurarsi come elusiva del limite posto dal richiamato
art. 113, comma 2, ultimo periodo, d.lgs. 50/2016 e s.m.i..
Ciò posto, nella richiesta di parere l’Amministrazione
comunale prospetta anche una diversa interpretazione, alla
luce della quale per gli appalti di cui trattasi sarebbe
consentito nominare il direttore dell'esecuzione anche per
soglie di valore pari o inferiore ad € 500.000,00 e senza
che rilevi la presenza o meno delle specifiche condizioni
poste dal punto 10.2, lett. da a) ad e) delle Linee guida.
Tale diversa interpretazione troverebbe fondamento nella
rubricazione del punto 10 delle citate Linee guida, la cui
formulazione lascerebbe intendere che, al di sotto
dell’importo massimo di € 500.000,00 e per qualsivoglia
tipologia di servizio e fornitura, il RUP possa, ma non
necessariamente debba, coincidere con il direttore
dell'esecuzione. A detta dell’Ente richiedente, in tali
ipotesi, essendo comunque possibile nominare come direttore
dell'esecuzione un dipendente diverso dal RUP, si verrebbe a
realizzare il presupposto previsto dal citato art. 113,
comma 2, ultima parte, per il riconoscimento degli incentivi
in questione.
Alla luce di quanto sopra riportato, l’Ente rivolge a
questa Sezione i seguenti quesiti:
“1. Per gli appalti relativi a servizi e forniture, è
possibile inserire nell'apposito regolamento comunale
prescritto dall'art. 113, comma 3, del D.Lgs. 50/2016, una
norma che preveda in generale la possibilità di riconoscere
e liquidare gli incentivi per le funzioni tecniche indicate
nello stesso art. 113 anche per gli appalti aventi ad
oggetto prestazioni di valore inferiore ad € 500.000,00 che
non siano riconducibili ad alcuna delle tipologie descritte
lettere alle lettere b), e), d) o e) del paragrafo 10.2
delle Linee guida ANAC n. 3, ossia per quegli appalti per i
quali non sussiste l'obbligo di nominare come direttore
dell'esecuzione un soggetto diverso dal RUP, oppure nelle
suddette ipotesi le funzioni di direttore dell'esecuzione
devono essere svolte dal RUP e, quindi, non sussistono le
condizioni previste dall'art. 113, comma 3, ultimo periodo,
per il riconoscimento degli incentivi di cui trattasi?
2. Qualora per esigenze organizzative l'Amministrazione Comunale
decidesse di nominare comunque un direttore dell'esecuzione
come soggetto diverso dal RUP anche in un appalto di valore
inferiore ad € 500.000,00 e non riconducibile ad alcuna
delle tipologie descritte lettere alle lettere b), e), d),
e) del paragrafo 10.2 delle Linee guida ANAC n. 3, tale
scelta comporterebbe il diritto al riconoscimento degli
incentivi di cui trattasi?”.
...
Con il primo dei quesiti formulati l’Ente richiama
l’attenzione della Sezione sulla problematica concernente la
possibilità di inserimento, nel regolamento comunale stilato
ai sensi dell’art. 113, comma 3, del d.lgs. n. 50/2016, di
una norma che preveda in generale la possibilità di
riconoscere e liquidare gli incentivi per le funzioni
tecniche indicate nello stesso art. 113 anche per gli
appalti aventi ad oggetto prestazioni di valore inferiore ad
€ 500.000,00 o per i quali non sussista l'obbligo di
nominare come direttore dell'esecuzione un soggetto diverso
dal RUP.
In pratica l’Ente chiede se per detti appalti le funzioni di
direttore dell'esecuzione devono essere comunque svolte dal
RUP con conseguente insussistenza delle condizioni previste
dall'art. 113, comma 3, ultimo periodo, per il
riconoscimento degli incentivi di cui trattasi oppure se,
attraverso l’adozione dell’apposito regolamento adottato
dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, ai
sensi del richiamato art. 113, comma 3, si possa prevedere
in via generale una clausola derogatoria delle condizioni
poste al comma 2 di tale articolato di legge al fine di
poter riconoscere e liquidare gli incentivi per le funzioni
tecniche indicate nello stesso art. 113 anche per gli
appalti non riconducibili ad alcuna delle tipologie
descritte lettere alle lettere b), e), d) o e) del paragrafo
10.2 delle Linee guida ANAC n. 3.
Il secondo quesito, a sua volta, involge la
problematica relativa alla sussistenza del diritto, o meno,
al riconoscimento degli incentivi di cui trattasi nel caso
in cui, per esigenze organizzative, l'Amministrazione
Comunale decidesse di nominare comunque un direttore
dell'esecuzione come soggetto diverso dal RUP anche in un
appalto di valore inferiore ad € 500.000,00 e non
riconducibile ad alcuna delle tipologie descritte lettere
alle lettere b), e), d), e) del paragrafo 10.2 delle Linee
guida ANAC n. 3.
La risoluzione di entrambi i quesiti si colloca nell’alveo
del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del
2016 e s.m.i.) e, precisamente dell’art. 113, da esaminarsi
in combinato disposto con gli artt. 31 e 213, nei testi
aggiornati dapprima dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56
(Disposizioni integrative e correttive al decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50), dall’art. 1, comma 526, della L. 27.12.2017, n. 205 (Legge di bilancio 2018), e, quindi
dal d.l. 18.04.2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il
rilancio del settore dei contratti pubblici, per
l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di
rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi
sismici) nonché con le disposizioni di “maggior dettaglio”
dettate dall’ANAC ai sensi del richiamato art. 31, comma 5,
attraverso le Linee guida n. 3, recanti: “Nomina, ruolo e
compiti del responsabile unico dei procedimenti per
l'affidamento di appalti e concessioni”, Approvate dal
Consiglio dell’Autorità con deliberazione n. 1096 del
26.10.2016 ed aggiornate al d.lgs. 56 del 19/04/2017 con
deliberazione del Consiglio n. 1007 dell’11.10.2017, aventi
natura vincolante (Consiglio di Stato, parere n. 2044/2017).
Si evidenzia, peraltro, che a seguito dell’intervenuto d.l.
18.04.2019, n. 32 cit., le Linee guida dell’ANAC ex art. 31,
comma 5, d.lgs. 50/2016, unitamente ai decreti adottati in
attuazione delle previgenti disposizioni, dovranno essere
sostituite dal regolamento unico recante disposizioni di
esecuzione, attuazione e integrazione del codice degli
appalti, di cui al novellato art. art. 216, comma 27-octies,
da emanarsi, entro 180 giorni dalla data di entrata in
vigore della relativa disposizione, ai sensi dell'articolo
17, comma 1, lettere a) e b), della legge 23.08.1988, n.
400, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti di concerto con il Ministro dell'economia e delle
finanze, sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Le richiamate Linee guida, pertanto, troveranno applicazione
fino alla data di entrata in vigore del predetto
regolamento. Inoltre, va ulteriormente osservato che, per
espressa volontà legislativa, le novelle così introdotte al
d.lgs. 50/2016, trovano applicazione per le procedure i cui
bandi o avvisi, con i quali si indice una gara, sono
pubblicati successivamente alla data del 19.04.2019 (data di
entrata in vigore del d.l.), nonché, in caso di contratti
senza pubblicazione di bandi o avvisi, per le procedure in
cui, alla medesima data, non sono ancora stati inviati gli
inviti a presentare le offerte.
4.2. Nello specifico, ai fini della risoluzione delle
questioni sottoposte, rileva in via generale l’art. 113,
laddove, nel dettare la disciplina dei nuovi “incentivi
per funzioni tecnici”, prescrive (testo vigente dal
19.04.2019) che: “Gli oneri inerenti alla progettazione,
alla direzione dei lavori ovvero al direttore
dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e
amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al
collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla
progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al
coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando
previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81,
alle prestazioni professionali e specialistiche necessari
per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni
dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i
singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati
di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti” (comma 1) e che “a valere sugli
stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base
di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle
stesse esclusivamente per le attività di progettazione, di
coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed
esecuzione, di verifica preventiva della progettazione
[modifica introdotta dal D.L. 18.04.2019, n. 32 art. 1,
comma 1 lett. aa)], di RUP, di direzione dei lavori ovvero
direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico
amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base
di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. (…..)
La disposizione di cui al presente comma si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell'esecuzione” (comma 2).
Il D.L. 18.04.2019, n. 32 ha disposto, altresì, che anche la
suesposta modifica all’art 113, comma 2, trova applicazione
per le procedure i cui bandi o avvisi, con i quali si indice
una gara, sono pubblicati successivamente alla data del
19.04.2019 (data di entrata in vigore del decreto), nonché,
in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi,
alle procedure in cui, alla medesima data, non sono ancora
stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
La citata norma dispone che la ripartizione della parte più
consistente delle risorse (l’80% del fondo costituito ai
sensi del comma 2) debba avvenire “per ciascuna opera o
lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale, sulla base di apposito regolamento adottato
dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra
il responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra
i loro collaboratori. (…..) La corresponsione dell'incentivo
è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, previo accertamento
delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti (…)”
(comma 3).
Ne consegue che gli incentivi per le funzioni tecniche vanno
a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e
individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello
specifico compito. Tali compensi, infatti, non sono rivolti
indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a
coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”)
nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro
collaboratori. Si tratta, quindi di una platea ben
circoscritta di possibili destinatari, accomunati
dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni
rilevanti nell’ambito di attività espressamente e
tassativamente previste dalla legge (in termini, Sezione
delle autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6. In senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108; SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Va rilevato, quindi, che per l’erogazione di detti incentivi
l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo
questa la condizione essenziale ai fini del legittimo
riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul
fondo e la sede idonea, unitamente alla contrattazione
decentrata, per circoscrivere dettagliatamene le condizioni
alle quali gli incentivi possono essere erogati (Sezione
delle autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6 cit.; SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353).
In altri termini, quindi, gli incentivi per funzioni
tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le
attività riferibili a contratti di lavori, servizi o
forniture che, secondo la legge, comprese le direttive ANAC
dalla stessa richiamate (ben note all’amministrazione
richiedente) o il regolamento dell’ente, siano stati
affidati previo espletamento di una procedura comparativa e,
relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture,
la disciplina sui predetti incentivi si applica solo “nel
caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione” (cfr.
SRC Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 190; SRC Marche,
parere 08.06.2018 n. 28; SRC Veneto,
parere 27.11.2018 n. 455; SRC
Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).
Quest’ultima circostanza ricorre soltanto negli appalti di
forniture e servizi di importo superiore a € 500.000 ovvero
di particolare complessità così come specificato nelle Linee
guida ANAC n. 3 del 2016, aggiornate con deliberazione del
Consiglio n. 1007 dell’11.10.2017, le quali in ossequio a
quanto disposto dall’art. 31, comma 5, della richiamata
normativa, stabiliscono (par. 10) l’importo massimo e la
tipologia di servizi e forniture per i quali il RUP può
coincidere con il progettista o con il direttore
dell’esecuzione del contratto e, nel contempo, precisano
dettagliatamente i casi in cui quest’ultimo deve essere
soggetto diverso dal responsabile del procedimento (par.
10.2 lett. da a ad e).
4.3. Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come
configurato a seguito delle ultime modifiche normative
intervenute, occorre prendere atto, conclusivamente, che
al
primo quesito formulato dal Sindaco del Comune di Torri di Quartesolo deve essere data risposta negativa.
Infatti, l’applicabilità degli incentivi, nell’ambito dei
contratti di affidamento di servizi e forniture, è
contemplata soltanto “nel caso in cui sia nominato il
direttore dell’esecuzione” (parte finale del comma 2,
come modificata, in senso limitativo, dall’art. 76, comma 1,
lett. b, del d.lgs. n. 56/2017), inteso quale soggetto
autonomo e diverso dal RUP, e tale distinta nomina è
richiesta soltanto negli appalti di forniture o servizi di
importo superiore a € 500.000,00 ovvero di particolare
complessità, con valutazione spettante ai dirigenti secondo
quanto specificato al punto 10 delle citate Linee guida
emanate dall’ANAC per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina,
ruolo e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e
concessioni”.
A ciò aggiungasi (SRC Veneto,
parere 27.11.2018 n. 455), che nella “gerarchia delle fonti del
diritto, i regolamenti rappresentano delle fonti secondarie
e dunque, per tale ragione non possono derogare o
contrastare con la Costituzione, né con i principi in essa
contenuti, non possono derogare o contrastare con le leggi
ordinarie, salvo che sia una legge ad attribuire loro il
potere -in un determinato settore e per un determinato caso-
di innovare anche nell’ordine legislativo (delegificando la
materia); non possono regolamentare le materie riservate
dalla Costituzione alla legge ordinaria o costituzionale
(riserva assoluta di legge), né derogare al principio di
irretroattività della legge (art. 11 preleggi). Ne consegue
evidentemente che il regolamento comunale non può prevedere
una disciplina contra legem” che, in specie, determini
la possibilità di prevedere autonomamente, in via generale,
una clausola derogatoria delle condizioni poste al comma 2
del richiamato articolato di legge al fine di poter
riconoscere e liquidare gli incentivi per le funzioni
tecniche, ivi indicate, anche per gli appalti non
riconducibili ad alcuna delle tipologie descritte nel
paragrafo 10.2 delle Linee guida ANAC n. 3/2016.
Analogamente, per le argomentazioni già rappresentate in
tema di presupposti normativi legittimanti l’erogazione
degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa
anche al secondo quesito formulato dall’amministrazione
comunale.
Sul punto, da un lato, appare opportuno rammentare che
l’art. 113 D.lgs. n. 50/2016 contiene un sistema compiuto di
vincoli per l’erogazione degli incentivi stessi e,
dall’altro, ricordare come, per effetto delle modifiche
apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 56 del 2017, i compensi incentivanti in parola
siano erogabili, in caso di servizi o forniture, solo
laddove sia stato nominato il direttore dell’esecuzione,
nomina richiesta -come ricordato recentemente anche dalla
Sezione delle Autonomie (deliberazione
09.01.2019 n. 2)- “secondo le Linee guida
ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e
servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di
particolare complessità”.
In specie, premesso che l’art. 111, comma 2, del d.lgs.
18.04.2016, n. 50 e s.m.i. prevede che, di norma, il
direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di
forniture coincida il responsabile unico del procedimento,
la particolare complessità che giustifica la scissione delle
due figure viene individuata, dalla disciplina di attuazione
del codice contenuta nelle citate Linee guida, espressamente
ed a prescindere dal valore delle prestazioni, nelle
seguenti circostanze: interventi particolarmente complessi
sotto il profilo tecnologico (lett. b); prestazioni che
richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es.
servizi a supporto della funzionalità delle strutture
sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione,
sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario, supporto
informatico) lett. c); interventi caratterizzati
dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi
innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per
quanto riguarda la loro funzionalità (lett. d); per ragioni
concernenti l’organizzazione interna alla stazione
appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità
organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti
che hanno curato l’affidamento (lett. e).
Dal quadro normativo sopra richiamato non si evincono
ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del
direttore dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi
contemplate.
In proposito deve osservarsi, anche, che la giurisprudenza
contabile è concorde nell’escludere l’incentivabilità di
funzioni o attività diverse da quelle considerate dall’art.
113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016 (Sezione
delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18;
SRC Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204;
SRC Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134;
SRC per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71). Ciò al fine di evitare un
ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari
dell’incentivo stesso, con il ragionevole rischio di elusione del limite espressamente posto dall'art. 113, comma
2, ultimo periodo, che a chiari lettere riconduce, e
circoscrive, gli incentivi per gli appalti di servizi o
forniture alle ipotesi sopra rappresentate (rischio peraltro
riconosciuto anche dalla stessa Amministrazione comunale
richiedente).
La circostanza che la rubricazione del richiamato punto 10
faccia riferimento all’”importo massimo e tipologia di
servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere con il
progettista o con il direttore dell'esecuzione del contratto”,
lungi dal giustificare la diversa interpretazione che
consentirebbe, al di sotto dell’importo massimo di cui sopra
e per qualsivoglia tipologia di servizio e fornitura, di
nominare come direttore dell'esecuzione un dipendente
diverso dal RUP, così realizzando il presupposto previsto
dal citato art. 113, comma 2, ultima parte, per il
riconoscimento degli incentivi in questione, ne avvalora, di
fatto, la tesi contraria.
Infatti, la determinazione dell’importo massimo individua
con chiarezza il confine che impone la differenziazione
delle due figure professionali. Al di sotto di detta soglia
la nomina disgiunta delle stesse non è né necessaria, né
tanto meno prevista, in quanto “il responsabile del
procedimento svolge, nei limiti delle proprie competenze
professionali, anche le funzioni di progettista e direttore
dell'esecuzione del contratto” (par. 10.1): solo al
superamento della stessa si impone la scissione delle due
figure.
Entro il sopra delineato quadro complessivo
l’Amministrazione comunale dovrà pertanto procedere ad
effettuare le valutazioni discrezionali di propria spettanza
quale ente esponenziale della collettività insediata sul
territorio (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 21.05.2019 n. 107). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Alla
Sezione Autonomie la decisione sulla retroattività dell'esclusione dai tetti
degli incentivi tecnici.
Dopo la decisione della Sezione delle Autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6) che, grazie all'intervento della legge di bilancio 2018,
ha finalmente considerato esclusi gli incentivi tecnici dai limiti dei tetti
di crescita del salario accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017),
la Sezione regionale delle Marche (deliberazione
16.05.2019 n.
30) ha rimesso una nuova questione di massima.
Il problema, in questo caso, riguarda il contrasto tra i pareri fino a oggi
resi da alcune sezione regionali, sulla retroattività dell'esclusione dai
tetti degli incentivi tecnici.
Una parte della giurisprudenza contabile ha
valorizzato la portata innovativa e non interpretativa della disposizione
legislativa introdotta solo a partire dal 01.01.2018, mentre per altra
giurisprudenza contabile l'effetto innovativo della disposizione legislativa
non può non ripercuotersi anche sugli stanziamenti di bilancio, già
effettuati per la realizzazione dell'opera pubblica (inclusi gli incentivi
tecnici), i quali essendo già stanziati sui relativi capitoli dell'appalto
non possono non avere conseguenze anche sulla cessazione dai limiti del
tetto retributivo dei trattamenti accessori.
Il contrasto tra le sezione regionali
La legge di bilancio 2018, inserendo il comma 5-bis all'articolo 113 del
Dlgs 50/2016 sugli incentivi tecnici, ha fatto mutare il precedente
orientamento della Sezione delle Autonomie tanto da spingerla a considerare
gli incentivi tecnici fuori dai limiti del salario accessorio. Sugli
incentivi tecnici maturati dal Dlgs 50/2016 alla data delle nuove
disposizioni legislative (01.01.2018) si sono formati due diversi
orientamenti delle sezione regionali.
Un parte della giurisprudenza contabile (Sezione Lombardia
parere 27.09.2018 n. 258), adeguandosi alla
decisione della Sezione delle Autonomie, ha valorizzato la portata
innovativa e non interpretativa delle modifiche introdotte dalla legge di
bilancio 2018, per cui la norma non può che avere effetto solo dalla data
della sua entrata in vigore dove gli incentivi sono stati considerati
all'interno dei tetti del salario accessorio.
A supporto dell'inclusione
degli incentivi nei limiti del fondo per le attività espletate prima del
01.01.2018 (data di validità della legge di bilancio 2018), militerebbero le
disposizioni del Dlgs 50/2016 che all'articolo 216 ha inserito una norma
transitoria secondo la quale, le disposizioni del codice dei contratti si
applicherebbero solo ai bandi o avvisi con cui si indice la procedura di
scelta del contraente pubblicati successivamente alla data della sua entrata
in vigore, nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o
avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di
entrata in vigore del codice, qualora non siano ancora stati trasmessi gli
inviti a presentare le offerte.
Queste disposizioni sarebbero compatibili con le precedenti decisioni della
Sezione delle Autonomie (deliberazione
06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24) che ha ritenuto gli incentivi
tecnici inclusi nei limiti dei tetti del salario accessorio.
Altra parte della giurisprudenza contabile (Sezione Veneto
parere 25.07.2018 n. 265 e
parere 14.11.2018 n. 429) ha, invece, sfruttato le ultime indicazioni della
Sezione delle Autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6)
secondo cui «l'avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad
ogni singola opera con riferimento all'importo a base di gara commisurato al
costo preventivato dell'opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse
ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di
fuori dei capitoli destinati a spesa di personale».
In questo caso, sono
tutti gli stanziamenti di bilancio già contabilizzati e impegnati che hanno
subito l'adeguamento alla nuove disposizioni normative, inclusi gli
incentivi tecnici, con la conseguenza che quest'ultimi cessano di concorrere
al tetto retributivo dei trattamenti accessori.
Conclusioni
Spetterà ora alla Sezione delle Autonomie chiarire, in via definitiva, se
gli incentivi maturati, nel periodo temporale che decorre dall'entrata in
vigore del Dlgs 50/2016 fino al giorno anteriore all'entrata in vigore del
comma 5-bis (01.01.2018), vadano o meno inclusi nel tetto dei trattamenti
accessori.
Va da ultimo rilevato, come nessun passaggio sia stato effettuato
dalla Sezione marchigiana in merito alla
parere 25.07.2018 n. 264 della Sezione del Veneto, la quale aveva, invece,
condizionato l'erogazione degli incentivi alla data di approvazione del
regolamento (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del
01.08.2018)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2019). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Va
sottoposta
al Presidente della Corte dei conti la seguente questione di
massima: “se gli incentivi tecnici
previsti dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, così
come integrato dal comma 5-bis dello stesso d.lgs., maturati
nel periodo temporale che decorre dall’entrata in vigore
dello stesso d.lgs., fino al giorno anteriore all’entrata in
vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018) vadano inclusi
nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma
236, della L. n. 208/2015, successivamente sostituito
dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017, nel caso la
provvista dei predetti incentivi sia già stata
predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti,
servizi o forniture”.
---------------
Con nota a firma del sindaco pro tempore del comune di
Civitanova Marche (MC), pervenuta via PEC in data 09.04.2019 per il tramite del Consiglio delle autonomie locali (CAL),
il comune di Civitanova Marche ha avanzato a questa Corte
una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003,
nei seguenti termini “Voglia l’adita
Corte…esprimere il proprio parere vincolante in merito alla
possibilità e/o legittimità di erogazione degli incentivi
per funzioni tecniche, nel caso in cui la relativa spesa sia
stata in precedenza imputata ai capitoli afferenti alla
realizzazione dei singoli lavori, servizi e/o forniture
affidate, nel periodo temporale che va dall’entrata in
vigore dell’art. 113 del Codice degli appalti (16.04.2016), fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del
comma 5-bis dello stesso art. 113 (introdotto a far data dal
01.01.2018); se, conseguentemente, l’aver
predeterminato la provvista dei predetti incentivi per
funzioni tecniche nei quadri economici dei singoli appalti,
collochino tali risorse economiche al di fuori dei capitoli
di spesa del bilancio comunale destinati alle retribuzioni
accessorie del personale, anche prima dell’espressa
previsione di cui al comma 5-bis dell’art. 113”.
Al riguardo ha esposto quanto segue.
La richiesta di parere è stata avanzata al fine di
individuare la corretta applicazione ed interpretazione
dell’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, in materia
di remunerazione delle funzioni tecniche svolte dal
personale dipendente all’interno dell’ente pubblico, in
relazione ai contratti di lavori, forniture e servizi
affidati in appalto ed in particolare circa la corretta
decorrenza ed applicazione del comma 5-bis (introdotto
dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205 del 2017) che ha
modificato ed integrato lo stesso art. 113, nella parte in
cui stabilisce che “gli incentivi di cui al presente
articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto
per i singoli lavori, servizi e forniture”.
L’ente locale ha precisato che, pur essendo pacifico che
siffatti emolumenti incentivanti siano esclusi dal fondo per
il trattamento accessorio solo a decorrere dal 01.01.2018 (ovverosia dopo l’integrazione dell’art. 113 con il
comma 5-bis approvato con legge 205/2017 e non anche per il
periodo precedente) sorgerebbe il dubbio circa
l’applicazione retroattiva della norma nel periodo
precedente al 2018 (dall’entrata in vigore dell’art. 113
della L. n. 50/2016 e cioè a far data dal 19.04.2016)
qualora l’Amministrazione abbia già inserito gli incentivi
per funzioni tecniche riconosciuti al personale al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture appaltati.
Nel ricostruire la normativa in applicazione, il comune
richiedente il parere ha rammentato che l’art. 113 del
d.lgs. n. 50 del 2017 (Codice dei contratti pubblici)
rubricato “incentivi per funzioni tecniche” consente, previa
adozione di un regolamento interno e della stipula di un
accordo di contrattazione decentrato, di erogare emolumenti
economici accessori a favore del personale interno alle
Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche ed
amministrative, nelle procedure di programmazione,
aggiudicazione e collaudo degli appalti di lavori, nonché a
seguito delle integrazioni di cui all’art. 76 del D.Lgs. n.
56 del 2017 anche degli appalti di fornitura di beni e
servizi.
Pur tuttavia l’Amministrazione comunale si è posta il
problema della compatibilità di tale disposizione con
all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, sostituito
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017, il quale ha
disposto che, dal 01.07.2017, l’ammontare complessivo
delle risorse destinate annualmente al trattamento
accessorio del personale di ciascuna delle amministrazioni
pubbliche non potesse superare il corrispondente importo
determinato per l’anno 2016.
L’istante non disconosce che la Sezione delle Autonomie di
questa Corte, con deliberazione n. 6 del 26.04.2018, ha
precisato che, con l’introduzione del comma 5-bis citato,
può evincersi che gli incentivi in questione non fanno
carico ai capitoli di spesa del trattamento accessorio del
personale, ma devono essere ricompresi nel costo complessivo
dell’opera e, quindi, fanno capo al capitolo di spesa
dell’appalto; per cui la separazione di tali emolumenti dai
salari accessori del personale avverrà solo dal 01.01.2018.
Tuttavia il chiarimento richiesto a questa Sezione concerne,
come cennato, gli appalti eseguiti nel periodo 2016-2017,
nel vigore dell’originaria formulazione dell’art. 113 del
D.Lgs, n. 50/2016, tenuto conto che l’imputazione degli
incentivi tecnici in questione era già considerata nei
singoli quadri economici degli appalti affidati.
...
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al
vaglio della Sezione, appare opportuno effettuare un
sintetico excursus della normativa in applicazione.
I c.d. incentivi tecnici furono introdotti per la prima
volta dall’art. 18 della L. n. 109/1994, allo scopo di
compensare l’attività del personale delle pubbliche
amministrazioni impegnato nelle attività di progettazione
interna agli enti pubblici in funzione anche del risparmio
conseguente ai minori costi conseguenti al mancato ricorso a
professionalità esterne.
La disciplina degli emolumenti in questione è poi stata
regolata dal d.lgs. 163/2006, art. 923, commi 5 e 6, per
confluire successivamente nell’art. 93, commi 7-bis e
seguenti, dello stesso decreto legislativo, per essere quindi
sostituita dall’attuale art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50
del 2016.
Sotto la vigenza di tale disciplina, la Sezione delle
Autonomie (deliberazione
06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24)
ebbe ad affermare il principio che gli incentivi previsti
dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 fossero da
includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui
all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015 (e successive
modificazioni ed integrazioni introdotte dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017). Questi, infatti, a differenza di
quelli previsti dall’art. 113, comma 1 (dovuti per la
progettazione) assumerebbero carattere di continuità e
sarebbero dunque assimilabili al trattamento economico
accessorio del personale in servizio.
Successivamente l’art. 113, comma 2, citato ha subìto un
primo intervento legislativo ad opera del d.lgs. n. 56/2017
ed infine –per quel che interessa in questa sede– ad opera
della L. n. 205/2017, il cui art. 1, comma 526, ha
introdotto il comma 5-bis nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del
2016, allo scopo di risolvere il problema interpretativo
sorto intorno alla natura dell’incentivo stesso recita “gli
incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa per i singoli lavori, servizi e
forniture”.
Sulla questione se detti incentivi fossero da ricomprendere
nel vincolo dei trattamenti accessori di cui all’art. 1,
comma 236, della L. n. 208/2015, sostituito dall’art. 23,
comma 2, del d.lgs. n. 75/2017 –come correttamente non ha
mancato di rammentare l’Amministrazione richiedente il
parere- si è espressa la Sezione delle Autonomie con
deliberazione n. 6/2018, la quale ha espresso la massima che
“gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n.
50/2016, nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, erogati su risorse finanziarie individuate
ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano
gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non
sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
In altri
termini è stato così superato il dubbio sulla natura di tali
incentivi, che non sono più sottoposti al vincolo del
trattamento accessorio che, invece, ha la sua fonte nei
contratti collettivi nazionali di comparto. Tanto dalla data
dell’entrata in vigore della legge di bilancio 2018 (01.01.2018).
Con riferimento allo specifico quesito posto dal comune di
Civitanova Marche, in relazione agli incentivi maturati nel
periodo intertemporale in considerazione (anni 2016-2017)
-e cioè se essi rientrino nei limiti di spesa del
trattamento accessorio del personale- si riscontrano
pronunce di segno opposto da parte delle Sezioni regionali
di controllo.
In senso affermativo sono la Sezione regionale di controllo
per il Veneto (parere
13.11.2018 n. 405), la Sezione
regionale di controllo per la Lombardia (parere 27.09.2018 n. 258) e la Sezione regionale di controllo per
l’Umbria (parere
28.03.2019 n. 56).
Tali pronunce hanno infatti valorizzato la citata
deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 6/2018, la
quale ha espressamente riconosciuto la portata innovativa e
non interpretativa del più volte citato art. 5-bis, per cui
detta norma, per il principio tempus regit actum, non può
che avere effetto dalla data della sua entrata in vigore.
In particolare, è stata considerata la disposizione
transitoria contenuta nel codice dei contratti pubblici
(art. 216 del d.lgs. n. 50/2016) secondo la quale le
disposizioni del Testo unico si applicano alle procedure ed
ai contratti per le quali i bandi o avvisi con cui si indice
la procedura di scelta del contraente siano pubblicati
successivamente alla data della sua entrata in vigore,
nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o
avvisi, alle procedure ed ai contratti in relazione ai
quali, alla data di entrata in vigore del codice, non siano
ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
In altri termini, fino all’entrata in vigore di tale novella
normativa, resterebbe fermo il principio espresso dalla
Sezione delle Autonomie con deliberazione
06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24 secondo cui detti incentivi tecnici sono da
includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui
all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015 (e successive
modificazioni ed integrazioni introdotte dall’art. 23 del
d.lgs. n. 75 del 2017).
Di segno opposto si riscontra l’avviso espresso dalla
Sezione di controllo per il Veneto con
parere 25.07.2018 n. 265 e
parere 14.11.2018 n. 429.
Tali pronunce hanno considerato la citata deliberazione
26.04.2018 n. 6 della Sezione delle Autonomie, laddove
testualmente recita che “l’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con
riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo
preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali
risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione
e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa
di personale”. Per cui l’effetto innovativo del citato art.
5-bis non può non ripercuotersi sugli stanziamenti di
bilancio già effettuati per la realizzazione dell’opera
pubblica (tra i quali rientrano gli incentivi tecnici) i
quali –essendo già stanziati sui relativi capitoli
dell’appalto prima dell’avvento della novella introdotta dal
citato articolo- cessano di concorrere al tetto retributivo
dei trattamenti accessori.
In tal modo non è messo in discussione l’effetto innovativo
e non retroattivo (interpretativo) del più volte citato art.
5-bis, giacché l’effetto del cumulo degli incentivi tecnici
col trattamento accessorio del personale non si è consumato
nell’anno 2017 (con l’accertamento del diritto alla
corresponsione delle relative erogazioni ed il relativo
impegno di spesa) ma è destinato ad essere considerato (e
quindi escluso) in epoca successiva all’entrata in vigore
della novella normativa.
In tal senso sembrano orientate le considerazioni svolte da
Sezione Umbria con
parere 05.02.2018 n. 14, laddove si rileva che
“sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato già
disponevano che tutte le spese afferenti agli appalti di
lavori, servizi e forniture debbano trovare imputazione
negli stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il comma
5-bis rafforza tale intendimento ed individua come
determinante ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici
dai tetti di spesa sopra citati l’imputazione delle relative
spese sul capitolo di spesa previsto per l’appalto”.
Peraltro la conclusione che siffatti incentivi tecnici non
confluiscano nel vincolo posto al trattamento accessorio
complessivo del personale era pure sostenuta da una cospicua
giurisprudenza di questa Corte anche prima dell’avvento del
citato art. 5-bis, nel rilievo (che si riscontra anche nella
deliberazione
26.04.2018 n. 6 della Sezione autonomie) che “essi
sono estremamente variabili nel corso del tempo e quindi
difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a
carattere generale, che hanno come parametro di riferimento
un predeterminato anno base (art. 23, comma 2, del d.lgs.
n. 75 del 2017). Il riferimento, infatti, ad un esercizio
precedente diviene, in modo del tutto casuale, favorevole o
penalizzante per i dipendenti dei vari enti pubblici”.
Pertanto, nel contrasto interpretativo più sopra
compendiato, si ritiene opportuno sospendere il giudizio
sulla richiesta di parere formulata dal sindaco del comune
di Civitanova Marche e sottoporre al Presidente della Corte
dei conti la relativa questione di massima, data l’esigenza
di un’interpretazione uniforme della normativa citata.
P.Q.M.
Visti l’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009, convertito
nella l. 102/2009 e l’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012,
convertito nella l. 213/2012;
la Sezione sospende la decisione sul parere richiesto dal
comune di Civitanova Marche per sottoporre al Presidente
della Corte dei conti la seguente questione di massima: “se
gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del
d.lgs. n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello
stesso d.lgs., maturati nel periodo temporale che decorre
dall’entrata in vigore dello stesso d.lgs., fino al giorno
anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis
(01.01.2018) vadano inclusi nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n.
208/2015, successivamente sostituito dall’art. 23 del d.lgs.
n. 75 del 2017, nel caso la provvista dei predetti incentivi
sia già stata predeterminata nei quadri economici dei
singoli appalti, servizi o forniture” (Corte
dei Conti, Sez. controllo Marche,
deliberazione
16.05.2019 n. 30). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
1) il regolamento può disciplinare con effetto
retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici
accantonati nel regime normativo antecedente il D.lgs.
50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita
dall’art. 216, 1° e 3° comma, D.lgs. 50/2016;
2) il regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni
pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che
la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni,
imponeva;
3) è escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa
attualmente disciplinare la distribuzione di risorse
accantonate secondo criteri non conformi con quelli in
vigore al tempo dell’attività incentivabile.
---------------
Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di
Gazzaniga (BG) pone una questione in merito alla
interpretazione dell’art. 113 del D.lgs. n. 50 del
18/04/2016 e in particolare del comma 5-bis.
Nello specifico si chiede se l’avvenuto accantonamento,
prima del 01/01/2018 delle somme relative agli incentivi per
le funzioni tecniche nei capitoli previsti per i lavori e le
forniture consente di escludere tali somme dalla spesa per
il personale e pure dalla spesa per il trattamento
accessorio, con conseguente legittimità della relativa
liquidazione dopo l’approvazione del relativo regolamento.
Si chiede inoltre se i trattamenti accessori per attività
programmate nell’anno 2017 ma aggiudicate e/o eseguite dopo
il 01/01/2018 debbano essere escluse o meno dal calcolo
della spesa e del trattamento accessorio erogato dall’Ente.
...
La questione degli incentivi per funzioni tecniche è stata
ampiamente dibattuta e sul tema si sono pronunciate più
volte, sia diverse Sezioni regionali della Corte dei Conti (Sez.
Controllo Lombardia
parere 07.11.2017 n. 307, Sez. Controllo Lazio ,
parere 06.07.2018 n. 57, Sez. Controllo Friuli
Venezia Giulia
parere 02.02.2018 n. 6, Sez. Controllo Veneto (parere
25.07.2018 n. 264, Sez. Lombardia
parere 27.09.2018 n. 258, Sez. Liguria
parere 03.04.2019 n. 31, Sez. Umbria
parere 28.03.2019 n. 56), sia la Sezione
Autonomie nella veste di organo nella propria funzione
nomofilattica. Così anche la ricostruzione del quadro
giuridico generale e della sua evoluzione nel tempo è stata
ampiamente ripresa da questa stessa sezione regionale, dalla
Sezione del Lazio e più recentemente dalla Sezione Liguria e
dalla Sezione Umbria.
Il tema più specifico sollevato dalla richiesta di parere
del Comune di Gazzaniga, cioè la valutazione della natura
delle spese relative agli incentivi e più specificamente la
loro imputabilità o meno tra le spese di personale, a sua
volta ha avuto un approfondimento articolato che ha condotto
a due distinte pronunce della Sezione Autonomie, in seguito
alle diverse successive modifiche susseguitesi nel quadro
normativo.
La prima pronuncia (deliberazione
06.04.2017 n. 7), precedente alla novella
introdotta dal comma 526, art. 1, della legge 205/2017 che
ha modificato l’art. 113 del D.lgs. 50/2016, aveva
stabilito, a seguito di numerosi problemi interpretativi,
che le spese per gli incentivi tecnici fossero a tutti gli
effetti da includere tra i costi del personale e dunque da
considerare nelle valutazioni dei relativi tetti di spesa.
Successivamente a questo chiarimento è poi intervenuta la
modifica dell’art. 113 del D.lgs. 50/2016 per opera appunto
della legge 205/2017, art. 1, comma 526, che ha introdotto
il principio della allocazione delle spese per incentivi
tecnici nei capitoli sui quali gravano gli oneri per i
singoli lavori, servizi e forniture.
Sulla base di questa modifica normativa, si è reso
necessario un nuovo intervento della Sezione Autonomie per
chiarire il nuovo quadro giuridico venutosi a creare. Pur
sottolineando la interpretabilità della novella normativa,
ai fini dell’inclusione delle spese per incentivi tra le
voci di spesa del personale, la Sezione Autonomie conclude
la sua pronuncia (deliberazione
26.04.2018 n. 6) affermando il seguente principio
”Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n.
50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526,
della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui
quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e
forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Rispetto alle questioni specifiche formulate dal Comune di
Gazzaniga occorre poi chiarire in primo luogo che, come
affermato in modo esplicito dalla Sezione Autonomie, la
norma contenuta all’ art. 113, comma 5-bis, così come
modificato dalla legge di bilancio per il 2018, non è norma
interpretativa, ma innovativa e dunque non può certamente
produrre alcun effetto retroattivo. Così si esprime al
proposito la Sezione Autonomie: “Proprio alla luce dei
suesposti orientamenti, va considerato che, sul piano
logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle
caratteristiche proprie delle norme di interpretazione
autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la
propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la
questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa
di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici
proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili
che possono apparire non compatibili con la natura delle
spese da sostenere”.
E ancora nella stessa pronuncia si aggiunge: “Pertanto,
il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge
di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti
incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del
bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del
d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente
rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale”.
Non solo dunque si ribadisce la portata innovativa e la
irretroattività della norma, ma si sottolinea che tali
incentivi gravano su risorse predeterminate, dunque
appositamente da prevedere nelle poste di bilancio con un
chiaro riferimento sinallagmatico tra le fasi di
programmazione e realizzazione dell’opera e l’appostamento
delle risorse destinate alla corresponsione degli incentivi.
A tale proposito, è intervenuto successivamente a valutare
il problema cronologico, il parere della Sezione Lazio
(Lazio
parere 06.07.2018 n. 57) a cui hanno aderito sia
la Sezione Lombardia (Lombardia
parere 27.09.2018 n. 258), sia la sezione Umbria
(Umbria
parere 28.03.2019 n. 56). In primo luogo, per
quanto riguarda il nuovo comma 5-bis dell’art. 113, ai fini
della individuazione della linea di demarcazione fra la
vecchia e la nuova regolamentazione della materia
incentivante, tale linea non può che essere individuata
nella data del 01.01.2018, anche tenendo conto, come
peraltro già affermato dalla Sezione Autonomie, che la
disposizione introdotta dal comma 526 dell’art. 1 della
legge di stabilità 2018 non ha natura di interpretazione
autentica, ma innovativa.
Inoltre, in modo convincente la Sezione Lazio nello stesso
parere afferma sul punto che “la fonte di copertura
inizia a variare per tutte le procedure la cui
programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018,
stante la intima compenetrazione sussistente tra tale
programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento
di risorse nel Fondo costituito ai fini della successiva
ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti. Per
cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal
comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il
cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed
inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018
o, per le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento
del contratto è stato deliberato dopo tale data”.
Pur essendo intervenuto anche un parere difforme della
sezione Veneto che giunge a conclusioni diverse (Sez. Veneto
parere 14.11.2018 n. 429), questa sezione
conferma nuovamente la posizione già assunta in passato e
l’interpretazione cronologica riportata nel parere della
Sezione Lazio a cui ha aderito di recente anche la Sezione
Umbria.
Infine, sempre con riferimento alla questione cronologica,
per quanto riguarda il ruolo che può assumere il regolamento
previsto e necessario per l’erogazione degli incentivi si
condivide quanto riportato nel parere della Sezione Liguria
(Sez. Liguria
parere 03.04.2019 n. 31) che esprime i seguenti
principi di diritto:
“1) il regolamento può disciplinare con effetto
retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici
accantonati nel regime normativo antecedente il D.lgs.
50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita
dall’art. 216, 1° e 3° comma, D.lgs. 50/2016;
2) il regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni
pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che
la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni,
imponeva;
3) è escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa
attualmente disciplinare la distribuzione di risorse
accantonate secondo criteri non conformi con quelli in
vigore al tempo dell’attività incentivabile” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.05.2019 n. 163). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Deve escludersi la possibilità di
erogare gli incentivi per lo svolgimento di funzioni
tecniche previsti dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50
del 2016 in favore dei membri di una commissione di gara, a
nulla rilevando la circostanza che l’attività di tale organo
sia stata svolta da una Stazione Unica Appaltante.
---------------
Il Sindaco del Comune di Trecate (NO), dopo aver
richiamato i testi dei commi 2 e 5 dell’art. 113 del D.Lgs.
18.04.2016, n. 50, chiede a questo Corte di
pronunciarsi “in merito all’erogazione dell’incentivo per
funzioni tecniche ai membri della Commissione di gara di una
Stazione Unica Appaltante, nel caso in cui i lavori della
Stazione Unica Appaltante consistano unicamente nelle
operazioni svolte dalla Commissione di gara stessa, ai sensi
degli accordi convenzionali tra gli enti aderenti che
prevedono il versamento di una quota di entità variabile a
second[a] dell’importo dell’appalto al Comune capofila della
SUA”.
...
Ciò posto, si premette che il comma 2 dell’art. 113 del
D.Lgs. n. 50 del 2016 prevede, tra l’altro, la possibilità,
per le amministrazioni aggiudicatrici, di destinare ad un
apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore
al due per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per remunerare “le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di
esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei
lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo
tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base
di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Il comma 5 del predetto articolo, invece, disciplina la
possibilità per una centrale unica di committenza di
richiedere una quota parte, non superiore ad un quarto,
dell'incentivo previsto dal citato comma 2 per i compiti
svolti da proprio personale nell'espletamento di procedure
di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di
altri enti.
Sulla base delle predette norme, il Sindaco del Comune di
Trecate chiede se il menzionato incentivo per funzioni
tecniche possa essere riconosciuto anche “ai membri della
Commissione di gara di una Stazione Unica Appaltante, nel
caso in cui i lavori della Stazione Unica Appaltante
consistano unicamente nelle operazioni svolte dalla
Commissione di gara stessa, ai sensi degli accordi
convenzionali tra gli enti aderenti che prevedono il
versamento di una quota di entità variabile a second[a]
dell’importo dell’appalto al Comune capofila della SUA”.
La risposta a tale quesito non può che essere negativa
atteso che il dettato normativo non lascia margini di
interpretazione in ordine alla possibilità di erogare gli
incentivi in parola “esclusivamente” per le attività
indicate dal comma 2 del D.Lgs. n. 50 del 2016, fra le quali
non rientrano quelle svolte dai commissari di gara.
La ratio di tale norma è da individuare nello scopo di
accrescere l’efficienza e l’efficacia di attività tipiche
dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente
rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini
di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso
d’opera (cfr. Sezione di controllo Toscana -
parere 14.12.2017 n. 186).
Al riguardo, la Sezione di controllo Lazio (cfr.
parere 06.07.2018 n. 57), esprimendosi in senso
conforme in merito ad un analogo quesito, ha evidenziato la
funzione premiale dell’istituto “volto ad incentivare,
con un surplus di retribuzione, lo svolgimento di
prestazioni intellettive qualificate che, ove fossero svolte
–invece che da dipendenti interni ratione officii– da
esterni sarebbero da considerare prestazioni di lavoro
autonomo professionali. La ratio dei nuovi incentivi è,
infatti, anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale
utilizzo delle professionalità interne, rispetto al ricorso
all’affidamento esterno di incarichi professionali, che
sarebbero comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente,
con aggravio della spesa complessiva”.
In ordine alla tassatività dell’elencazione delle attività
incentivabili, secondo l’orientamento prevalente di questa
Corte, la disciplina in parola è da considerarsi di natura
eccezionale rispetto al principio generale di
onnicomprensività del trattamento economico, per cui non
sono ammissibili interpretazioni che vadano oltre le
previsioni letterali della legge (cfr. Sezione regionale di
controllo Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204,
parere 24.01.2017 n. 5,
parere 21.09.2017 n. 108 e
deliberazione 09.02.2018 n. 9; Sezione regionale
controllo Marche,
parere 27.04.2017 n. 52, Sezione regionale
controllo Lombardia
parere 09.06.2017 n. 185, Sezione regionale
controllo Veneto,
parere 12.05.2017 n. 338; Sezione regionale
controllo Sicilia,
parere 30.03.2017 n. 71).
Orientamento consolidatosi con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6 con cui la Sezione
delle autonomie, con riguardo ai soggetti potenzialmente
destinatari degli incentivi per lo svolgimento di funzioni
tecniche, ha confermato che “si tratta, quindi, di una
platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati
dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni
rilevanti nell’ambito di attività espressamente e
tassativamente prevista dalla legge”.
Alla luce del predetto orientamento, si ritiene che
l’attività svolta dai membri di una Commissione di gara non
rientri tra quelle enunciate dal comma 2 dell’art. 113 del
D.Lgs. n. 50 del 2016 trattandosi di attività priva di
natura tecnico-esecutiva e meramente valutativa, da condurre
in applicazione delle regole e dei criteri enunciati nel
bando di gara (in senso conforme anche Sezione regionale
controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).
È necessario precisare, peraltro, che l’esclusione della
possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni
tecniche ai membri di una Commissione di gara è strettamente
connessa alla tipologia di attività svolta da tale organo,
per cui non assume alcuna rilevanza la circostanza,
richiamata dall’Ente richiedente il presente parere, che
tale Commissione sia incardinata presso una Stazione Unica
Appaltante.
Per altro verso si evidenzia che il trattamento economico da
riservare ai membri di una Commissione di gara è
disciplinato dal comma 10 dell’art. 77 del DLgs. n. 50 del
2016 il quale prevede che, con decreto del Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sentita l'ANAC, è stabilito
il compenso massimo per i commissari e sancisce
espressamente il divieto di corrispondere compensi in favore
dei dipendenti pubblici se appartenenti alla stazione
appaltante.
Fermo restando il predetto divieto, l’entità di tale
compenso non può superare i limiti indicati nell’allegato A
del decreto ministeriale 12.02.2018, adottato in attuazione
del predetto articolo di legge.
Conclusivamente, pertanto, deve escludersi
la possibilità di erogare gli incentivi per lo svolgimento
di funzioni tecniche previsti dall’art. 113, comma 2, del
D.Lgs. n. 50 del 2016 in favore dei membri di una
commissione di gara, a nulla rilevando la circostanza che
l’attività di tale organo sia stata svolta da una Stazione
Unica Appaltante (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 08.05.2019 n. 39). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI: La
legge europea (l. 37 del 03/05/2019) apporta modifiche ai
tempi di pagamento da parte delle p.a..
Domanda
L’assessore ai LLPP ha segnalato che una legge recentemente
approvata dal Parlamento è intervenuta sulla normativa in
materia di tempi di pagamento. Mi sapete dire di cosa si
tratta?
Risposta
La legge segnalata è la c.d. ‘Legge europea 2018’
(nota in passato come ‘Legge comunitaria’). Si tratta
della legge n. 37 del 03/05/2019, pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 109 dello scorso 11 maggio. La norma, già in
vigore dallo scorso 26 maggio, è stata adottata a seguito di
specifica procedura di infrazione avviata dall’Unione
Europea nei confronti dell’Italia per il ritardo nei
pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni. In
particolare, l’art. 5 della legge ha sostituito l’art.
113-bis del codice degli appalti riscrivendone in toto il
testo. Cosa cambia rispetto al testo previgente?
In sostanza, al fine di ridurre i tempi di pagamento nei
confronti delle ditte appaltatrici, si riducono i tempi
intercorrenti fra l’emissione del certificato di pagamento e
l’adozione degli stati di avanzamento. In precedenza
infatti, per gli acconti del corrispettivo di appalti, i
primi venivano emessi entro trenta giorni dai secondi, fatto
salvo il caso che le parti avessero espressamente concordato
in modo diverso (quindi potenzialmente anche peggiorativo),
purché non gravemente iniquo per il creditore; ora i due
documenti devono essere contestuali, ovvero al più, il
certificato deve essere emesso non oltre sette giorni
dall’adozione del s.a.l.
Il nuovo testo prevede che i pagamenti relativi agli acconti
siano effettuati entro trenta giorni decorrenti
dall’adozione di ogni stato di avanzamento dei lavori, salvo
che sia espressamente concordato nel relativo contratto un
diverso termine. Quest’ultimo, tuttavia, non può comunque
essere superiore a sessanta giorni e deve essere
oggettivamente giustificato dalla natura particolare del
contratto o da talune sue caratteristiche.
Per il collaudo e la verifica di conformità il vecchio testo
faceva un generico rinvio all’art. 4 del d.lgs. 231/2002. Il
nuovo comma 2 prevede ora che all’esito positivo del
collaudo o della verifica di conformità, e comunque entro un
termine non superiore a sette giorni dagli stessi, il
responsabile unico del procedimento debba rilasciare il
certificato di pagamento ai fini dell’emissione della
fattura da parte dell’appaltatore.
Il relativo pagamento è effettuato nel termine di trenta
giorni decorrenti dal suddetto esito positivo del collaudo o
della verifica di conformità, salvo che sia espressamente
concordato nel contratto un diverso termine, comunque non
superiore a sessanta giorni e purché ciò sia oggettivamente
giustificato dalla natura particolare del contratto o da
talune sue caratteristiche.
Il certificato di pagamento, conclude e conferma il comma
rispetto al passato, non costituisce presunzione di
accettazione dell’opera, ai sensi dell’articolo 1666,
secondo comma, del codice civile. Resta invece del tutto
invariato il vecchio comma 2 dell’articolo, ora
semplicemente spostato al comma 4, in materia di
applicazione di penali negli appalti pubblici.
Infine cogliamo l’occasione per segnalare che sul tema dei
pagamenti dei debiti commerciali delle p.a., intese in senso
lato, è intervenuto di recente anche il c.d. ‘Decreto
crescita’ (d.l. 34/2019). L’art. 22, inserisce il nuovo
articolo 7-ter del d.lgs. 231/2002.
Esso stabilisce che a partire dal 2019 le società (quindi
anche quelle partecipate dagli enti locali) «(…) danno
evidenza dei tempi medi di pagamento delle transazioni
effettuate nell’anno, individuando altresì gli eventuali
ritardi medi tra i termini pattuiti e quelli effettivamente
praticati. I medesimi soggetti danno conto nel bilancio
sociale anche delle politiche commerciali adottate con
riferimento alle suddette transazioni, nonché delle
eventuali azioni poste in essere in relazione ai termini di
pagamento».
Il decreto è ancora in corso di conversione. Non resta che
attendere di vedere se il testo verrà confermato nella sua
formulazione oppure no (10.06.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Distacco
sindacale e straordinario.
Domanda
Un dipendente dell’Ente è stato collocato dallo scorso 1
novembre in distacco sindacale part-time al 50%.
Per il restante 50% presta regolarmente servizio presso
questo Ente in due giorni settimanali (con orario
giornaliero di 9 ore).
Può svolgere nelle suddette giornate lavoro supplementare di
cui all’articolo 55 del CCNL del 21/05/2018?
Risposta
Occorre in primo luogo chiarire che la nozione di “lavoro
supplementare” utilizzata nel CCNL del Comparto Funzioni
Locali, sottoscritto in data 21.05.2018, attiene al rapporto
di lavoro a tempo parziale e fa riferimento
all’effettuazione di prestazioni di lavoro eccedenti
l’orario ridotto concordato tra le parti ma contenute entro
i limiti dell’orario a tempo pieno. Nell’eventualità di
svolgimento di prestazioni aggiuntive del dipendente che
superino anche la durata dell’orario normale di lavoro
occorre, invece, riferirsi alla nozione di lavoro
straordinario.
Fatta questo doverosa premessa, occorre fare riferimento, ai
fini del corretto inquadramento della situazione
rappresentata, a quanto dettato in materia di flessibilità
dei distacchi sindacali dall’articolo 8 del CCNQ sulle
modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative e permessi,
nonché delle altre prerogative sindacali, sottoscritto il
04/12/2017.
Il comma 5 del summenzionato articolo 8 stabilisce che “il
trattamento economico del lavoratore in distacco sindacale
part-time ai sensi del comma 3 è quello previsto all’art.
19, comma 3 (Trattamento economico). Per il diritto alle
ferie e per lo svolgimento del periodo di prova in caso di
vincita di concorso o passaggio di qualifica (purché in tale
ipotesi sia confermato il distacco sindacale con prestazione
lavorativa ridotta) si applicano le norme previste nei
singoli contratti collettivi di lavoro per il rapporto di
lavoro part-time –orizzontale o 10 verticale– secondo le
tipologie del comma 4. Tale ultimo rinvio va inteso solo
come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali che,
pertanto, non si configurano come un rapporto di lavoro
part-time – e non incidono sulla determinazione delle
percentuali massime previste, in via generale, per la
costituzione di tali rapporti di lavoro”.
Pertanto, la summenzionata disposizione chiarisce che i
rinvii alle norme in materia di part-time operati
nell’ambito del CCNQ quale riferimento per la disciplina da
applicare alle fattispecie menzionate vanno intesi meramente
come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali, non
configurando, pertanto, un rapporto di lavoro part-time ai
sensi del contratto collettivo del comparto.
Ne deriva, quindi, che il caso sottoposto non va considerato
alla stregua di un rapporto di lavoro a tempo parziale e
che, conseguentemente, la nozione di lavoro supplementare
non è appropriata (06.06.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
APPALTI: RUP
non dirigente.
Domanda
Il nostro ente (un comune) sta procedendo con la
costituzione di uno specifico ufficio di supporto al RUP.
Nel nosto caso i RUP, in certi casi, non coincidono con i
responsabili di servizio ma sono inquadrati comunque nella
categoria D.
E’ possibile da parte del RUP non responsabile del servizio
nominare, nell’ambito dell’ufficio di supporto, i
responsabili di procedimento ai sensi della legge 241/1990
per lo svolgimento di specifici compiti dell’ambito del
procedimento di affidamento? (es. nomina responsabile del
procedimento per la predisposizione dell’avviso a
manifestare interesse o per la predisposizione dell’albo dei
prestatori o simili).
Risposta
La stazione appaltante può, nell’ambito della propria
autonomia, organizzare come ritiene opportuno lo
sviluppo/svolgimento delle procedure di affidamento,
articolando anche alcune funzioni/compiti in modo differente
prevedendo, come nel caso del quesito posto, anche uno
specifico ufficio/servizio di supporto al RUP (anche, magari
con funzioni di verifica formale della documentazione
amministrativa delle gara e successiva verifica
sostanziale).
Ciò che appare precluso alla stazione appaltante è la
possibilità di scindere le funzioni del RUP, proprio perché
responsabile unico della procedura (in questo senso, a
titolo esemplificativo, il Governo ha impugnato la legge
regionale della Sardegna in tema di appalti n. 8/2018 –e
segnatamente alcuni commi dell’articolo 34– proprio per la
previsione di due RUP guidati da un “responsabile di
progetto”).
Pertanto, al netto di quanto evidenziato, l’ipotesi è
praticabile ma si ritiene che il RUP non dirigente, ma solo
funzionario non responsabile del servizio, non possa
nominare gli specifici responsabili di procedimento ai sensi
della legge 241/1990.
Questa prerogativa, oltre a non essere prevista né
nell’articolo 31 né nelle linee guida ANAC n. 3, viene
esclusa più o meno implicitamente dalla legge 241/1990 ed in
particolare dall’articolo 5.
L’articolo citato al primo comma prevede che “il
dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad
assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all’unità la
responsabilità della istruttoria e di ogni altro adempimento
inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente,
dell’adozione del provvedimento finale”.
Il secondo comma –quale disposizione di chiusura– chiarisce
che “fino a quando non sia effettuata l’assegnazione” del
procedimento “è considerato responsabile del singolo
procedimento il funzionario preposto alla unità
organizzativa (…)” .
Si ritiene quindi che la dinamica RUP/collaboratori debba
essere “disciplinata” nell’ordine di servizio di
assegnazione delle funzioni (il dott. ... potrà disporre
dell’ausilio/collaborazione delle persone …..) – in sostanza
con una individuazione dei responsbaili di procedimento a
monte, in modo che in presenza di necessità il RUP non debba
sempre chiedere l’intermediazione/intervento del
dirigente/responsabile del servizio (05.06.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Modalità
di accesso civico generalizzato.
Domanda
In un comune piccolo (sotto i 3mila abitanti) ci è pervenuta
la prima richiesta di accesso agli atti, presentata ai sensi
dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013.
Non avendo situazioni precedenti a cui rifarci vorremmo
capire, in particolare, se è possibile accedere e ottenere
delle informazioni che l’ente deve assemblare,
estrapolandoli da delibere e determinazioni delle posizioni
organizzative.
Risposta
L’accesso civico generalizzato nasce con il decreto
legislativo 23.05.2016, n. 97, il quale ha introdotto
numerose e rilevanti modifiche al cosiddetto Decreto
Trasparenza (d.lgs. 33/2013). Con le modifiche introdotte,
la legislazione italiana si è arricchita di un nuovo
concetto di diritto di accesso, che riguarda le informazioni
detenute dalla pubblica amministrazione, con l’obiettivo di
assicurare al cittadino un controllo “sociale”
sull’azione amministrativa, oltre alla possibilità di
verificare il rispetto dei tradizionali canoni
costituzionali di buona amministrazione, imparzialità e
trasparenza.
L’ Accesso civico generalizzato –anche conosciuto come FOIA
– Freedom Of Information Act – Legge sulla libertà di
informazione, in lingua italiana– consente a chiunque di
richiedere dati e documenti ulteriori rispetto a quelli che
le amministrazioni sono obbligate a pubblicare nel sito web,
purchè siano dati in possesso dell’amministrazione.
Ciò significa, rispondendo allo specifico quesito, che
l’ente non è tenuto a raccogliere ed estrapolare
informazioni che non siano in suo possesso per rispondere ad
un’istanza di accesso generalizzato, ma deve limitarsi a
fornire documenti e dati che già detiene, senza necessità di
rielaborazione dei contenuti stessi. In questo senso,
dunque, la domanda di accesso va respinta.
L’unica attività di elaborazione permessa –anzi, dovuta– è
quella che riguarda l’eventuale oscuramento dei dati
personali (comuni, sensibili o giudiziari) eventualmente
presenti nel documento o nell’informazione richiesta (la
cosiddetta procedura di anonimizzazione), necessaria al fine
di rendere possibile l’accesso. In questo caso, però, prima
di accogliere la richiesta, si dovranno coinvolgere i
controinteressati che potranno fornire una “motivata
opposizione” entro dieci giorni.
Tornando all’istanza di accesso civico generalizzato
presentata dal cittadino, come prima attività istruttoria
occorre che siano verificati concretamente i documenti ed i
dati richiesti. La richiesta di accesso, infatti, deve
indicare, con precisione, i dati oggetto della domanda,
consentendo all’amministrazione di identificare agevolmente
le informazioni da rendere disponibili.
In pratica, dovranno essere ritenute NON ammissibili le
richieste formulate in modo vago e generico, così come le
domande che evidenziano espressamente la volontà del
richiedente di accertare il possesso di dati o documenti da
parte dell’amministrazione (cosiddetta: richiesta
esplorativa).
In tali casi, si consiglia di assistere il richiedente in
modo da giungere ad una adeguata definizione dell’oggetto
dell’istanza.
Riguardo, invece, alla motivazione o giustificazione della
richiesta di accesso civico generalizzato, si evidenzia che
non è necessario che questa sia espressa a sostegno.
Tale libertà di accesso incontra, comunque, determinati
limiti, individuati dal legislatore all’art. 5-bis del
Decreto Trasparenza (n. 33/2013), il quale specifica le
esclusioni disposte a tutela di interessi pubblici e privati
giuridicamente rilevanti, di cui occorre tenere conto.
Qualora si verifichino, in futuro, altre analoghe richieste,
si suggerisce, inoltre:
a) di consultare attentamente la delibera ANAC n. 1309 del
28.12.2016, avente ad oggetto le “Linee Guida recanti
indicazioni operative ai fini della definizione delle
esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art.
5, co. 2, del d.lgs. 33/2013”;
b) dotarsi di un regolamento interno (come previsto dall’ANAC) per
rendere uniforme ed omogeneo l’esame delle istanze tra le
varie strutture del comune;
c) pubblicare nel sito web nella sezione Amministrazione
trasparente > Altri contenuti > Accesso civico, i modelli di
richiesta per i tre accessi previsti e cioè quelli del FOIA;
l’accesso civico semplice (art. 5, comma 1, d.lgs. 33/2013)
e l’accesso agli atti disciplinato dal Titolo V, della legge
07.08.1990, n. 241.
Dal momento che la normativa è pienamente operativa da
dicembre 2016, per ulteriore approfondimento, è opportuno,
in caso di richiesta “dubbia”, consultare anche i
pareri emanati, in questi due anni e mezzo, dall’Autorità
Garante per la Protezione dei dati (Garante Privacy
italiano), rintracciabili al
seguente link (04.06.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Protocollo on-line aperto. Accesso
garantito ai consiglieri comunali. Ma il diritto va
esercitato in modo consapevole, selezionando gli atti.
Può il consigliere comunale accedere da remoto al protocollo informatico del
comune nel quale è stato eletto?
Il plenum della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del
16 marzo 2010, ha osservato che il diritto di accesso ed il diritto di
informazione dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la
loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che
riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato (confermato dal
successivo parere del 23.10.2012).
Il protocollo informatico è stato introdotto dall'art. 50 del dpr n.
445/2000, il quale, al comma 3, richiede la realizzazione o la revisione dei
sistemi informativi automatizzati in conformità anche alle disposizioni di
legge sulla riservatezza dei dati personali; gli artt. 53 e 55 del citato
dpr n. 445/00 prevedono, rispettivamente, la «registrazione di protocollo»
e la «segnatura di protocollo» che contengono una serie di dati che
consentono la rintracciabilità dei documenti.
La citata commissione per l'accesso, già con il richiamato parere del 2010
stabiliva che «l'accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al
sistema informatico dell'ente, ove operante, è uno strumento di accesso
certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria
attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a
conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel)».
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (vedi relazione del
2004, pagg. 19 e 20) aveva specificato che «nell'ipotesi in cui l'accesso
da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l'esercizio di
tale diritto, ai sensi dell'art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è
consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo,
di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a
documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi
interessati per consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta
ferma la necessità, che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole
finalità connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il
divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute.
Spetta quindi all'amministrazione destinataria della richiesta accertare
l'ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii
del consigliere comunale».
Rilevando che la specifica materia dovrebbe trovare apposita disciplina di
dettaglio nel regolamento dell'ente, si osserva che anche la giurisprudenza
ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo
generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di
materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al
segreto - ai sensi del citato art. 43 del dlgs n. 267/2000.
Già il Tar Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha affermato, tra l'altro,
che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna
esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto,
posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi
dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia,
01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere
l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono
visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono
disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Sempre il Tar Sardegna, approfondendo la tematica, con la sentenza n.
531/2018, ha specificato che il «possesso delle chiavi di accesso
telematico, rappresenta una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria,
per l'esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si
svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli
atti dell'amministrazione comunale, ma mediante una selezione degli oggetti
degli atti di cui si chiede l'esibizione. Peraltro, una delle modalità
essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla
possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione
in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi
ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo».
Appare dirimente, infine, la recentissima decisione n. 545 del 04/04/2019
con la quale il Tar Campania (sezione staccata di Salerno), ha confermato il
diritto del consigliere comunale all'accesso anche da remoto al protocollo
informatico dell'ente.
Lo stesso Tar Campania, confermando sostanzialmente quanto stabilito dal Tar
Sardegna con la richiamata sentenza 531/2018, ha ribadito che tale esercizio
non dovrebbe tuttavia essere esteso al contenuto della documentazione in
arrivo o in uscita dall'amministrazione -soggetta, invece, alle ordinarie
regole in materia di accesso, tra le quali la necessità di richiesta
specifica- ma ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione
telematica del protocollo (numero di registrazione al protocollo, data,
mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto)
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Furbetti
cartellino e reato di truffa.
Domanda
La falsa attestazione della presenza in servizio integra il
reato di truffa aggravata anche se il raggiro produce nel
complesso assenze di pochi minuti?
Risposta
La copiosa e recente giurisprudenza che si è occupata dei
furbetti del cartellino non ammette sconti nemmeno nei casi
in cui la falsa attestazione della presenza in servizio
derivi da manomissioni del sistema di rilevazione
dell’orario di presenza che nel complesso producono assenze
di pochi minuti.
Le ragioni delle diverse Cassazioni Penali (Cassazione
Penale, sentenza, n. 20130 del 08.05.2018; Cassazione
Penale, n. 3262 del 23.01.2019; Cassazione Penale n. 9900
del 05.03.2018; Cassazione Penale n. 22972 del 22.05.2018)
si esprimono all’unisono, muovendo dall’assunto che la falsa
attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in
ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli
presenza, è condotta fraudolenta, idonea aggettivamente ad
indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la
presenza sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa
aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far
risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di
assenza, sempre che siano da considerare economicamente
apprezzabili.
Apprezzabile però, non è sinonimo di rilevante.
Non va tenuto conto solo dell’aspetto economico del danno
patrimoniale, incarnato nell’indebita percezione, da parte
del lavoratore, di un emolumento retributivo in assenza di
prestazione lavorativa resa; l’esiguità dell’aspetto
economico non prevale infatti sul grave tradimento del
rapporto fiduciario esistente tra dipendente e
Amministrazione datrice di lavoro.
Le norme non ammettono una soglia di tolleranza al di sotto
della quale non è integrata la fattispecie di reato: non nel
caso di falsa attestazione della presenza in servizio, in
qualunque modo essa avvenga.
Anche una indebita percezione di poche centinaia di euro
costituisce quindi un danno economicamente apprezzabile per
il datore di lavoro pubblico.
L’esiguità della somma può tutt’al più integrare
l’attenuante della speciale tenuità ma non certo impedire la
configurabilità del reato di truffa aggravata.
In relazione alle situazioni che si palesano come meno gravi
in quanto afferenti ad intervalli temporali esigui e a
corrispondenti valori economici di somme indebitamente
percepite, è stata sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 55-quinquies (False attestazioni o
certificazioni) del d.lgs. 165/2001 nella parte in cui non
prevede un’ipotesi attenuata per i casi di minore gravità.
La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 184, depositata il
04.10.2018, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale dell’art.
55-quinquies del d.lgs. 165/2001 (30.05.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
APPALTI: La
deroga alla rotazione nei micro acquisti dopo la legge di
bilancio.
Domanda
Le linee guida n. 4 dell’autorità anticorruzione consentono
di derogare al principio di rotazione – con sintetica
motivazione – nel caso di acquisti di importo inferiore ai
mille euro. Acquisti che possono essere effettuati senza
obbligo di ricorrere al mercato elettronico.
La nuova legge di bilancio prevede la possibilità di
acquisti fuori mercato entro i 5 mila euro: si deve ritenere
che anche in questo caso sia possibile derogare al principio
di rotazione?
Risposta
La legge di bilancio (n. 145/2018) con il comma 130, art. 1,
introduce un importante adeguamento al comma 450, art. 1,
della legge 296/2006 (comma capitale in tema di spending
review) modificando la soglia –da somme inferiori ai mille
euro a somme inferiori a 5mila euro– , per cui è consentito
al RUP di procedere con l’acquisizione della commessa senza
necessità di ricorrere al mercato elettronico.
E’ bene annotare che il RUP ha una mera facoltà di non agire
attraverso il mercato elettronico ma, evidentemente, bene
sarebbe –salvo situazioni estreme di urgenza oggettiva–
sempre effettuare una escussione delle vetrine per
verificare la presenza del prodotto.
Come evidenziato nel quesito, in relazione alla pregressa “micro”
soglia dei mille euro, le linee guida n. 4 consentivano una
deroga al criterio della rotazione con una sintetica
motivazione.
Secondo l’autorità anticorruzione, è chiaro che esasperare
il formalismo della rotazione anche per micro acquisizioni
potrebbe avere un effetto deleterio rispetto ad esigenze di
tempestività dell’acquisizione.
La stessa ANAC, con lo schema di linee guida di recente
trasmesso al Consiglio di Stato, rileva la necessità di
chiarire se anche in relazione ad importi fino ai 5mila euro
il RUP possa o meno derogare al criterio dell’alternanza tra
imprese consentendo il riaffido al pregresso affidatario e/o
invitare al procedimento (qualora si volesse effettuare una
competizione tra diversi preventivi) anche soggetti già
invitati.
Se l’ANAC non fornisce una risposta sulla questione, occorre
invece registrare –in tema– l’importante parere del
Consiglio di Stato n. 1312/2019 reso proprio sullo schema di
cui si è appena detto.
Proprio in relazione alla questione specifica –deroga alla
rotazione nell’ambito dei 5mila euro– il Collegio
testualmente puntualizza di condividere “l’innalzamento
della soglia entro la quale è possibile, con scelta
motivata, derogare al principio di rotazione”.
Pertanto, nell’ambito anche dei 5mila euro la rotazione può
subire delle deroghe. Ora è chiaro che il RUP dovrà evitare
artificiosi frazionamenti negli acquisti e, si deve ritenere
secondo una prassi corretta, che la deroga potrebbe essere
motivata nel limite massimo di un riaffido (già un secondo
riaffido, salvo che si tratti di importi realmente esigui –es. 1.500 ciascuno–) esige una motivazione sicuramente più
accurata.
A titolo esemplificativo, si può ritenere –sotto il profilo
pratico– che il secondo riaffido, e nel terzo, potrebbe
essere effettuato confrontando comunque i prezzi del mercato
elettronico.
In ogni caso, la deroga deve avere una motivazione da
inserire nella determinazione a contrattare (29.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Obblighi
di pubblicazione dati e documenti amministratori comunali,
dopo le elezioni.
Domanda
Il 26.05.2019 si è votato anche nel nostro comune per il
rinnovo del Consiglio comunale e per l’elezione diretta del
Sindaco. Quali obblighi e con quali tempistiche si deve
procedere alla pubblicazione dei dati dei nuovi
amministratori?
Risposta
Gli obblighi di pubblicazione per gli amministratori
comunali sono dettagliatamente riportati nell’articolo 14,
comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33,
cosiddetto Decreto Trasparenza.
Per il sindaco, i consiglieri comunali e gli assessori (se
esterni) gli obblighi riguardano i seguenti documenti ed
informazioni:
a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della
durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati
con fondi pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi
titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all’art. 2, della legge 05.07.1982, n.
441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli
articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal
presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non
separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi
vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato
consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera
concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di
indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui
all’art. 7.
La delibera ANAC n. 241 del 08.03.2017, ha specificato che
relativamente alla situazione reddituale e patrimoniale
(articolo 14, comma 1, lettera f), l’obbligo riguarda
solamente gli amministratori dei comuni con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti.
Tra gli atti e documenti da pubblicare occorre distinguere
tra quelli che gli uffici comunali hanno già a loro
disposizione e quelli che possono essere forniti
esclusivamente dagli amministratori.
Tra i documenti “detenuti” dall’ente rientrano quelli
della:
lettera a) – atto di nomina o di proclamazione;
lettera c) – compensi di qualsiasi natura connessi alla carica e i
rimborsi delle spese per missioni.
Dovranno essere richiesti agli amministratori e, da questi,
consegnati agli uffici, i documenti e le dichiarazioni
della:
lettera b) – curriculum;
lettera d) – dati relativi all’assunzione di altre cariche e i
relativi compensi;
lettera e) – altri eventuali incarichi a carico della finanza
pubblica;
lettera f) – dichiarazione dei redditi e situazione patrimoniale
propria e dei famigliari qualora vi consentano. Oppure
dichiarazione, dell’amministratore circa il mancato consenso
del proprio coniuge e famigliari (figli; fratelli; genitori;
nonni; nipoti, intesi come figli dei figli; eccetera).
I dati dovranno essere richiesti ai singoli amministratori,
dopo l’insediamento degli organi, con nota a cura del
Responsabile della Trasparenza che, di norma, nei comuni è
il segretario comunale. Per i componenti della giunta,
occorrerà attendere i decreti di nomina degli assessori da
parte del sindaco.
Per la tempistica di pubblicazione, il comma 2, del citato
art. 14, prevede che i documenti vengano pubblicati nel sito
web, entro tre mesi dalla elezione o dalla nomina e per i
tre anni successivi dalla cessazione del mandato, fatte
salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale
e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato
e dei parenti entro il secondo grado, che vengono
pubblicate, solamente, fino alla cessazione del mandato.
A seguito dell’elezioni, quindi, l’ente –e per la durata di
tre anni– dovrà organizzare due link. Uno con i dati
dell’amministrazione scaduta e uno con le informazioni
sull’amministrazione in carica, ricordandosi di eliminare il
link dell’amministrazione cessata, trascorso il mese di
maggio 2022.
Tutti i dati, come previsto nell’Allegato “1” della delibera
ANAC n. 1310 del 28/12/2016, dovranno essere pubblicati, nel
sito internet dell’ente nella sezione: Amministrazione
trasparente > Organizzazione > Titolari di incarichi
politici, di amministrazione, di direzione e di governo.
bene rammentare, infine, che ai sensi dell’articolo 47,
comma 1, del d.lgs. 33/2013, l’ANAC può irrogare una
sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 euro, a carico
del responsabile della mancata comunicazione dei dati, a
seguito della mancata o incompleta comunicazione delle
informazioni e dei dati di cui all’art. 14, concernenti:
a) la situazione patrimoniale complessiva del titolare
dell’incarico al momento dell’assunzione in carica;
b) la titolarità di imprese, le partecipazioni azionarie proprie,
del coniuge e dei parenti entro il secondo grado;
c) tutti i compensi cui da diritto l’assunzione della carica.
Il relativo provvedimento sanzionatorio dell’Autorità
Anticorruzione dovrà essere pubblicato sul sito internet
dell’amministrazione (28.05.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Rimborso permessi amministratori locali dipendenti di s.p.a.
a totale partecipazione pubblica.
Ai sensi dell’art. 80 del TUEL, gli
oneri relativi ai permessi retribuiti degli amministratori
locali per l’espletamento delle loro funzioni pubbliche sono
a carico dell’ente presso cui dette funzioni vengono svolte
ove si tratti di lavoratori dipendenti da privati o da enti
pubblici economici.
Per quanto concerne la natura delle società a totale
partecipazione pubblica, il Consiglio di Stato, sez. I, ha
da ultimo chiarito, con il parere 16.11.2011, n. 706, che ai
fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL sono
considerate “privati” -e quindi hanno diritto al rimborso da
parte del Comune dei predetti oneri- tutte le società
pubbliche, ad esclusione di quelle inserite nel conto
economico consolidato individuate dall’ISTAT, ai sensi
dell’art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196/2009, e di quelle
che hanno per legge personalità giuridica di diritto
pubblico.
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di
rimborsare gli oneri relativi ai permessi retribuiti fruiti
da amministratori che sono dipendenti di azienda partecipata
dell’Ente, ai sensi dell’art. 80 del TUEL. Il Comune precisa
che l’azienda in questione è una SPA partecipata al 100% da
soci pubblici.
L’art. 80 del TUEL stabilisce che le assenze dal servizio
degli amministratori locali per partecipare alle riunioni
degli organi politici di cui fanno parte, nonché quelle
relative agli altri permessi previsti dalla legge per
l’espletamento del mandato, sono retribuite dal datore di
lavoro. La norma precisa altresì che, qualora detti
amministratori siano lavoratori dipendenti di privati o di
enti pubblici economici, gli oneri per i permessi retribuiti
sono a carico dell'ente presso il quale gli stessi
lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui
all'articolo 79 [1].
Stante la formulazione testuale della norma, il rimborso
degli oneri relativi ai permessi di cui si tratta da parte
del Comune è correlato alla natura privata (o di ente
pubblico economico) del datore di lavoro degli
amministratore locali [2].
Con riferimento ad amministratori dipendenti di s.p.a. a
capitale interamente pubblico –nella specie, Poste Italiane S.p.a. e Ferrovie dello Stato S.p.a.– una prima posizione
del Ministero è stata quella di escludere il rimborso dei
permessi retribuiti a dette società da parte dell’ente
locale, argomentando dalla natura pubblica di dette società
affermata dal Consiglio di Stato [3].
Peraltro, il Ministero ha successivamente ritenuto di
richiedere un parere al Consiglio di Stato sulla natura
pubblica o privata delle s.p.a. a capitale interamente
pubblico, ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL.
Ebbene, il Consiglio di Stato, nell’auspicare un intervento
chiarificatore del legislatore sull’effettiva natura delle
s.p.a. pubbliche, che prescinda dal contesto e
dall’applicazione di norme di settore, ha fornito un parere
in relazione alle specifiche esigenze applicative della
menzionata disposizione del D.Lgs. n. 267/2000.
In particolare, posto che l’art. 80 del TUEL fa riferimento
soprattutto al rapporto di dipendenza dei lavoratori, il
Consiglio di Stato ha preso in considerazione le normative
di carattere generale che lo connotano, in relazione alla
natura giuridica del datore di lavoro: in particolare, il
D.Lgs. n. 165/2001, recante “Norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche”, all’art. 1, comma 2, prevede
analiticamente cosa si debba intendere per amministrazioni
pubbliche, escludendo gli enti pubblici economici (e a fortiori le società per azioni a capitale pubblico).
Inoltre, la L. n. 196/2009 (legge di contabilità e finanza
pubblica), altra normativa di carattere generale, all’art.
1, commi 2 e 3, considera, ai fini della legge medesima, per
amministrazioni pubbliche i soggetti espressamente indicati
dall’ISTAT con specifico provvedimento da pubblicarsi nella
G.U. entro il 30 settembre di ogni anno.
Alla luce di tali riferimenti normativi, il Consiglio di
Stato ha affermato che sono da ritenersi amministrazioni
pubbliche: a) tutte quelle elencate dall’art. 1, comma 2,
D.Lgs. n. 165/2001; b) gli enti e gli altri soggetti inseriti
nel conto economico consolidato individuati, ai sensi
dell’art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196/2009, dall’ISTAT
[4];
c) quelle società alle quali la legge attribuisce
espressamente “personalità giuridica di diritto pubblico”.
Conseguentemente –conclude il Consiglio di Stato– sono
considerate “privati”, ai sensi dell’art. 80, secondo
periodo, D.Lgs. n. 267/2000, e quindi non sono a loro carico
gli oneri per i permessi retribuiti dei propri dipendenti
correlati all’esercizio delle funzioni pubbliche, tutte le
società pubbliche, ad esclusione di quelle inserite nel
conto economico consolidato individuate dall’ISTAT in
applicazione della normativa di cui al D.Lgs. n. 196/2009
richiamata, e di quelle che hanno per legge “personalità
giuridica di diritto pubblico”.
Il Consiglio di Stato precisa come tale conclusione sia a
favore di una soluzione di certezza giuridica che regga su
dati normativi testuali e prescinda da interpretazioni
legate all’accertamento della natura delle singole
situazioni [5].
Alla luce di quanto esposto, si ritiene che l’Ente possa far
riferimento, per la soluzione del caso che lo riguarda, ai
criteri elaborati dal Consiglio di Stato per
l’individuazione della natura (privata o pubblica), ai fini
dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL, della s.p.a.
interamente pubblica datore di lavoro dei dipendenti
amministratori,.
Un tanto anche avuto riguardo alla nota del Ministero
dell’Interno n. 47 del 13.01.2012, con cui il Ministero
trasmette ai Prefetti della Repubblica il parere del
Consiglio di Stato n. 706/2011, con preghiera di darne la
più ampia divulgazione presso le amministrazioni locali
[6].
---------------
[1] In tal caso, l'ente, su richiesta documentata del
datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso
corrisposto, per retribuzioni ed assicurazioni, per le ore o
giornate di effettiva assenza del lavoratore. Il rimborso
viene effettuato dall'ente entro trenta giorni dalla
richiesta.
[2] La ratio della norma è infatti quella di salvaguardare
l’esercizio delle funzioni pubbliche svolte da lavoratori
dipendenti prevedendo il ristoro dei conseguenti oneri nei
confronti dei soggetti datori di lavoro privati (o aventi
natura di ente pubblico economico), ristoro escluso nei
confronti dei soggetti datori di lavoro pubblici.
[3] Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari
interni e territoriali, parere del 10.06.2010, ove il
Ministero argomenta dalle considerazioni del Consiglio di
Stato sez. VI, 02.03.2001, n. 1206 secondo cui Poste
Italiane S.p.a. ha natura pubblica, sulla base del fatto che
la stessa sia ancora interamente posseduta dallo Stato, che
continui ad agire per il conseguimento di finalità
pubblicistiche e che lo Stato, nella sua veste di azionista
di maggioranza o totalitario, non possa che indirizzare le
attività societarie a fini di interesse pubblico generale.
Allo stesso modo, la giurisprudenza amministrativa aveva
affermato la natura pubblicistica di Ferrovie dello Stato
S.p.a., nonostante la veste formalmente privatistica
(Consiglio di Stato sez. VI, 16.12.1998, n. 1683; TAR Roma,
sez. III, 06.08.2002, n. 7010, richiamati dal Ministero
citato).
Per l’orientamento più recente, nel senso della natura
privata di dette società, ai fini dell’applicazione
dell’art. 80 del TUEL, si veda sub nota 4.
[4] In proposito, il Consiglio di Stato osserva che l’elenco
di cui al comunicato 24.07.2010 e a quello 30.09.2011 non
comprende Ferrovie dello Stato S.p.a., Trenitalia S.p.a. e
Poste Italiane S.p.a.
Lo stesso vale, da ultimo, per l’elenco di cui al comunicato
dell’ISTAT pubblicato nella G.U. del 28.09.2018, n.d.r.
[5] Nel senso della rimborsabilità dei permessi a datori di
lavoro aventi veste di s.p.a. a totale partecipazione
pubblica, v. anche Corte dei conti Lombardia 26.09.2017, n.
256, con specifico riferimento ad un assessore dipendente di
una s.p.a. a totale capitale pubblico che opera in
affidamento diretto in house per la gestione del servizio
idrico integrato.
La Corte dei conti Lombardia argomenta dal dato della
qualificazione formale, ossia la costituzione in forma
societaria con connessa distinzione soggettiva tra società e
soci così come la separazione dei rispettivi patrimoni (che
esclude che la provenienza pubblica delle risorse impiegate
nel capitale sociale determini automaticamente
l’acquisizione della natura pubblicistica delle
disponibilità finanziarie della società). Conforme anche
Corte dei conti Veneto 28.05.2014, n. 346, sulla
rimborsabilità dei permessi a dipendente di s.p.a. a totale
capitale pubblico, di cui il comune presso cui il lavoratore
esercita le funzioni pubbliche detiene alcune quote.
In senso parzialmente difforme sotto quest’ultimo profilo:
Corte dei conti Campania 18.09.2014, n 198 e Corte dei conti
Lazio 09.09.2013, n. 182, che sostengono l’inclusione delle
s.p.a. a totale partecipazione pubblica tra i soggetti
aventi diritto al rimborso degli oneri per permessi
retribuiti accordati a propri dipendenti per lo svolgimento
di funzioni pubbliche presso enti locali diversi da quelli
che ne detengono il capitale sociale”.
[6] Per completezza espositiva, si segnala la pronuncia del
Tribunale ordinario di Roma, sez. II, n. 16106 del
19.07.2014, che ha ritenuto di escludere la rimborsabilità
dei permessi ad una s.p.a. a capitale interamente pubblico,
ritenendo che la stessa, pur avendo natura giuridica formale
privata potesse essere parificata ai soggetti pubblici di
cui all’art. 80 del TUEL, avuto riguardo alla funzione
pubblica svolta di gestione tributaria.
Il Tribunale di Roma –a fronte della posizione del Consiglio
di Stato, che, per individuare i soggetti aventi natura
giuridica formale privata da parificarsi ai soggetti
pubblici di cui all’art. 80 del TUEL, ha optato per una
soluzione di certezza giuridica “che regga su dati normativi
testuali e prescinda da interpretazioni legate
all’accertamento della natura delle singole situazioni”– ha
comunque ritenuto potersi verificare in via interpretativa
se la s.p.a. a totale capitale pubblico di cui si trattava
potesse essere parificata ai soggetti pubblici di cui
all’art. 80 del TUEL.
Ed un tanto il Tribunale ha reputato possibile, sulla base
dello statuto della società in questione, da cui emergeva
che la stessa svolgeva esclusivamente attività istituzionali
proprie dell’ente proprietario (unico socio), non
compatibili con l’esercizio di attività di impresa in regime
di concorrenza (27.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, modifiche
doc. La materia è demandata al regolamento. Non spetta allo statuto
disciplinare il funzionamento dei consigli.
Può il presidente del consiglio rigettare una
proposta di modifica allo statuto proposta da un consigliere comunale?
Un consigliere ha
rappresentato di aver ricevuto una nota con la quale il presidente del
consiglio comunale comunicava di non poter recepire validamente la proposta
di modifica dello statuto in materia di quorum strutturale per le sedute di
seconda convocazione perché in contrasto con il dispositivo recato dall'art.
38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Il citato art. 38, comma 2, come noto, ha demandato alla fonte
regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, il
funzionamento dei consigli e, in particolare, la determinazione del numero
legale per la validità delle sedute, con il limite che detto numero non può,
in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei consiglieri assegnati per
legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco».
Ai sensi dell'art. 8, comma 1, del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale è previsto che l'iniziativa per le deliberazioni
consiliari si esercita mediante la formulazione di un testo di deliberazione
e che la relativa iniziativa spetta alla giunta e a ciascun consigliere
comunale. Il comma 2 del medesimo articolo prevede che il presidente, sulla
scorta dei pareri delle competenti strutture comunali, può dichiarare
inammissibili quelle proposte e quegli emendamenti privi della copertura o i
cui testi contrastino con norme di legge, dello statuto o dei regolamenti
comunali. Ai sensi del successivo comma 3, si individua il consiglio di
presidenza, composto dal presidente e dai vicepresidenti, quale organo di
reclamo per testi dichiarati inammissibili al dibattito consiliare.
Atteso il delineato contesto normativo, la nota del presidente del consiglio
comunale avrebbe dovuto menzionare il contenuto dei pareri previsti
dall'art. 8, comma 2, del regolamento sul consiglio comunale anche al fine
di fornire elementi utili a rimodulare correttamente la proposta di modifica
del quorum strutturale di seconda convocazione. In tal modo si sarebbe
consentito il pieno svolgimento dello ius ad ufficium del consigliere
con specifico riferimento all'esercizio del diritto di iniziativa
deliberativa.
Nel merito, poiché ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo
n. 267/2000, la materia concernente il quorum strutturale è demandata
non allo statuto, ma al regolamento del consiglio, la proposta di modifica
avrebbe dovuto riferirsi a tale fonte normativa (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
APPALTI: I
controlli semplificati nel nuovo Decreto cd “blocca
Cantieri”.
Domanda
La disciplina semplificata sui controlli prevista dal
decreto c.d. “Sblocca Cantieri” per le procedure
effettuate sui mercati elettronici è applicabile a tutte le
piattaforme?
Risposta
I nuovi commi 6-bis e 6-ter del d.lgs. 50/2016 cambiano la
disciplina dei controlli sui requisiti di carattere generale
ex art. 80 del codice nei mercati elettronici. In
particolare il comma 6-bis recita “Ai fini
dell’ammissione e della permanenza degli operatori economici
nei mercati elettronici di cui al comma 6, il soggetto
responsabile dell’ammissione verifica l’assenza dei motivi
di esclusione di cui all’articolo 80 su un campione
significativo di operatori economici. Dalla data di entrata
in vigore del decreto di cui all’articolo 81, comma 2, tale
verifica sarà effettuata attraverso la Banca dati nazionale
degli operatori economici di cui all’articolo 81, anche
mediante interoperabilità fra sistemi. I soggetti
responsabili dell’ammissione possono consentire l’accesso ai
propri sistemi agli operatori economici per la consultazione
dei dati, certificati e informazioni disponibili mediante la
banca dati di cui all’articolo 81 per la predisposizione
della domanda di ammissione e di permanenza ai mercati
elettronici”, mentre il comma 6-ter “Nelle procedure
di affidamento effettuate nell’ambito dei mercati
elettronici di cui al comma 6, la stazione appaltante
verifica esclusivamente il possesso da parte
dell’aggiudicatario dei requisiti economici e finanziari e
tecnico professionali”.
Con questa nuova formulazione il legislatore ha inteso
realizzare un’effettiva semplificazione nelle procedure di
affidamento tramite i mercati elettronici, ponendo infatti
in capo al gestore della piattaforma il compito di
effettuare a campione i controlli sugli operatori economici
(ai fini dell’ammissione e della permanenza al mercato
elettronico), circa il possesso dei requisiti generali ex
art. 80 del codice, lasciando alla Stazione Appaltante
l’onere di effettuare le verifiche sull’aggiudicatario dei
requisiti economico-finanziari o tecnico-professionali
eventualmente richiesti.
Nel caso di utilizzo del MePa, quale sistema che consente di
gestire affidamenti diretti e procedure negoziate ex artt.
36 e 63 del codice, basato su bandi di abilitazione,
rispetto ai quali i soggetti interessati richiedono di
essere qualificati, previa dichiarazione circa il possesso
degli specifici requisiti richiesti, la novella legislativa
è sicuramente applicabile, realizzandosi dunque quella
semplificazione in termini di economicità stessa del
procedimento, tanto richiesta dagli operatori di settore, e
senza il limite dei 40.000 euro come in precedenza previsto.
Per quanto riguarda le altre piattaforme telematiche, il
funzionario deve verificare se lo strumento elettronico
presenta una struttura analoga a quella del MePa, ovvero
basata sulla prequalificazione degli operatori. Nel caso ad
esempio della piattaforma Sintel, sistema che consente di
gestire anche procedure ordinarie, al momento, per la
registrazione e la qualificazione per i diversi acquirenti
pubblici, non è obbligatorio per gli operatori economici
presentare alcuna dichiarazione in ordine al possesso dei
requisiti.
In questi casi, pertanto, dove le procedure telematiche non
presentano un bando di abilitazione o albo fornitori vero e
proprio, o nel caso di procedure aperte, diventa difficile
poter sostenere che l’art. 36, comma 6-bis sia applicabile,
rimanendo in capo alla Stazione Appaltante l’onere di
verificare anche il possesso dei requisiti di cui all’art.
80 del codice (22.05.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
formazione obbligatoria in materia di anticorruzione,
trasparenza, privacy e codici di comportamento.
Domanda
La formazione in materia di anticorruzione, trasparenza e
privacy è obbligatoria in ogni anno? È possibile prevederla
ad anni alterni?
Risposta
Gli obblighi di formazione in materia di prevenzione della
corruzione e trasparenza, sono previsti da specifiche
disposizioni, contenute nell’articolo 1, della legge 06.11.2012, n. 190 (cd Legge Severino). In particolare,
meritano l’attenzione degli operatori:
• il comma 5, lettera b);
• il comma 8;
• il comma 10, lettera c);
• il comma 11.
In materia di attività formative è necessario, inoltre,
tenere a mente anche il contenuto dell’articolo 15, comma 5,
del decreto Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62
[1], che
testualmente recita:
5. Al personale delle pubbliche amministrazioni sono rivolte
attività formative in materia di trasparenza e integrità,
che consentano ai dipendenti di conseguire una piena
conoscenza dei contenuti del codice di comportamento, nonché
un aggiornamento annuale e sistematico sulle misure e sulle
disposizioni applicabili in tali ambiti.
Sull’argomento è intervenuta in più occasioni anche l’ANAC
[2],
ribadendo che la formazione riveste un ruolo strategico
nella prevenzione della corruzione e deve essere rivolta al
personale dipendente, prevedendo due livelli differenziati:
a) livello generale, rivolto a tutti i dipendenti: riguardante
l’aggiornamento delle competenze e le tematiche dell’etica e
della legalità;
b) livello specifico, rivolto al responsabile della prevenzione, ai
referenti, ai componenti degli organismi di controllo, ai
dirigenti e funzionari addetti alle aree di rischio. In
questo caso la formazione dovrà riguardare le politiche, i
programmi e i vari strumenti utilizzati per la prevenzione e
tematiche settoriali, in relazione al ruolo svolto da
ciascun soggetto dell’amministrazione.
Ogni ente, nell’apposito capitolo dedicato alla formazione
del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT), dovrà quantificare le ore/giornate
annue dedicate allo svolgimento dell’attività formativa,
definendo anche le categorie di lavoratori a cui la stessa
viene indirizzata.
Per quanto riguarda il Livello Generale, è possibile
valutare l’opzione di erogare la formazione anche con
cadenza biennale, a tutto il personale, mentre la formazione
di Livello Specifico è necessario che venga prevista per
ogni anno, nei confronti di tutte le figure che intervengono
nell’attuazione delle misure previste in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza.
Le modalità su come si sia svolta l’attività formativa
nell’ente, risultano oggetto di una specifica sezione della
Relazione che deve essere compilata e pubblicata nel sito
web, da parte del Responsabile prevenzione corruzione e
trasparenza (RPCT).
Se si affronta la questione della trasparenza e degli
obblighi di pubblicità, occorre, necessariamente, ragionare
anche di tutela dei dati personali. In particolare ciò è
necessario dopo la piena attuazione del Regolamento (UE) n.
2016/679, che è decorsa dal 25.05.2018.
Così come previsto dall’articolo 32, paragrafo 4, del
medesimo Regolamento, occorre prevedere un obbligo di
formazione per tutte le figure (dipendenti e collaboratori)
presenti nell’organizzazione degli enti.
Sono direttamente interessati alla formazione:
1. i Responsabili del trattamento;
2. i Sub-responsabili del trattamento;
3. gli incaricati del trattamento;
4. il Responsabile Protezione Dati.
Una efficace attività formativa in materia di privacy
costituisce un tassello rilevante del sistema di gestione
della tutela dei dati personali, in grado di dare
concretezza al principio di accontuability, inteso come
capacità di dimostrare di aver adottato misure di sicurezza
idonee ed efficaci.
Le Pubbliche amministrazioni, pertanto, dovranno
organizzarsi per:
• pianificare un percorso di formazione per tutte le figure
coinvolte, inserendolo nel Piano Formativo annuale, tenendo
conto della struttura dell’ente, i profili organizzativi, le
finalità di ciascun corso, la possibilità di associare, con
altri enti, l’attività formativa;
• prevedere idonee risorse in sede di approvazione del bilancio;
• prevedere prove finali di verifica del percorso formativo e
sessioni di aggiornamento sulla base delle modifiche
normative, organizzative e tecniche che interverranno;
• stabilire aree di priorità nell’attività formativa partendo –ad
esempio– dal Responsabile Protezione dei Dati (RPD) e dai
suoi collaboratori; dalle figure apicali presenti nell’ente;
i neo assunti; gli amministratori di sistema e tutto il
personale autorizzato al trattamento.
Negli enti locali, la formazione in materia di privacy deve
essere integrata con la digitalizzazione dei processi, con
la riforma del Codice di Amministrazione digitale, con i
codici di comportamento degli enti e con le ultime recenti
novità normative in materia di trasparenza, prevenzione
della corruzione, Foia e whistleblowing.
La formazione non deve essere considerata un mero
adempimento burocratico, ma un’opportunità per:
• rendere consapevoli gli operatori dei rischi connessi al
trattamento dei dati, delle misure di sicurezza;
• migliorare i processi organizzativi e i servizi erogati;
• evitare danni reputazionali;
• ridurre i rischi di sanzioni amministrative e rendere più
competitiva l’organizzazione.
Riassumendo:
a) la formazione in materia di prevenzione della corruzione,
trasparenza e privacy è obbligatoria per ogni anno e le
eventuali relative spese stanno fuori da tutti i tetti per
la formazione;
b) le ore/giornate annue vanno indicate nel PTPCT;
c) è possibile valutare (indicandolo nel Piano) di somministrare la
formazione di Livello generale ad anni alterni.
Da ultimo si sottolinea che anche l’Aggiornamento al PNA del
2018 [3],
ribadisce che "sarebbe necessario garantire una maggiore
formazione, a tutti i livelli, in materia di prevenzione
della corruzione e della trasparenza”.
---------------
[1] Regolamento recante codice di comportamento dei
dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165.
[2] Delibera n. 72/2013; Determinazione n. 12 del
28/10/2015, paragrafo 5.
[3] Delibera ANAC n. 1074 del 21.11.2018 (21.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI
LOCALI:
Assunzione spese registrazione atto costitutivo e statuto
associativo.
Di norma l’onere derivante dalle spese
di registrazione di scritture private, quali sono l’atto
costitutivo e lo statuto di un’associazione, ricade su tutti
i contraenti.
La circostanza che il Comune –il quale ha
partecipato, unitamente ad altri soci fondatori, alla
costituzione di un’associazione culturale non riconosciuta e
senza fini di lucro– abbia stabilito di assumere
integralmente le spese predette sembra configurare, nella
sostanza, la concessione di un vantaggio economico, la cui
disciplina generale si rinviene nell’art. 12 della L.
241/1990.
Il Comune, che ha formalmente aderito, in qualità di socio
fondatore [1],
alla costituzione di un’associazione culturale non
riconosciuta e senza fini di lucro, chiede un parere in
merito alla possibilità dell’assunzione integrale, a carico
dell’Ente, delle spese di registrazione degli atti fondativi
dell’associazione (peraltro prevista dall’art. 8 della bozza
di atto costitutivo dell’associazione, approvata, unitamente
alla bozza di statuto, con deliberazione della Giunta
comunale [2]),
senza successiva rivalsa sulle risorse proprie della stessa.
Occorre, anzitutto, ricordare che l’attività consultiva cui
è preposto questo Ufficio è volta a fornire un supporto
all’Ente locale richiedente per le determinazioni che lo
stesso è tenuto ad assumere nell’ambito della propria
discrezionalità, che deve essere esercitata entro i limiti
di legge, nonché alla luce delle proprie previsioni
regolamentari in materia.
Ciò posto, auspicando di poter coadiuvare il Comune nella
risoluzione della problematica rappresentata, questo
Ufficio, sentito il Servizio finanza locale, delinea di
seguito il quadro normativo e giurisprudenziale di
riferimento.
Premesso che, di norma, l’onere derivante dalle spese di
registrazione di scritture private (quali sono gli atti di
cui si discute) ricade su tutti i contraenti, la circostanza
che il Comune abbia stabilito di assumerle integralmente
sembra configurare, nella sostanza, la concessione di un
vantaggio economico, la cui disciplina generale si rinviene
nell’art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241.
Tale norma dispone che «La concessione di sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione
da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme
previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle
modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.»
(comma 1), prescrivendo poi che «L’effettiva osservanza
dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve
risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi
di cui al medesimo comma 1.» (comma 2).
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa rileva che:
- la norma riveste carattere di principio generale dell’ordinamento
giuridico ed in particolare della materia che governa tutti
i contributi pubblici, la cui attribuzione deve essere
almeno regolata da norme programmatorie che definiscano un
livello minimo delle attività da finanziare
[3];
- ai fini dell’adozione di provvedimenti volti a concedere
sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., le pubbliche
amministrazioni si devono attenere ai criteri e alle
modalità stabiliti con proprio regolamento, poiché sia la
predeterminazione di detti criteri, sia la dimostrazione del
loro rispetto in sede di concessione dei benefici mirano ad
assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa
[4] e si
atteggiano a principio generale, in forza del quale
l’attività di erogazione della pubblica amministrazione deve
in ogni caso rispondere a elementi oggettivi
[5];
- la predeterminazione dei criteri concernenti la destinazione di
sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e
vantaggi economici, oltre a costituire corollario del
principio generale di trasparenza, rappresenta la
declinazione in via amministrativa delle finalità
(politico-sociali o politico-economiche) che l’intervento
pubblico intende perseguire [6].
Va, al contempo, evidenziato che una Sezione regionale della
Corte dei conti, con orientamento costante, afferma che in
base alle norme e ai princìpi della contabilità pubblica non
è rinvenibile alcuna disposizione che precluda all’ente
locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove
queste siano necessarie per conseguire i propri fini
istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune, il finanziamento, anche se
apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un
depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo
[7].
Ad ogni modo, la stessa Sezione della Corte dei conti
precisa che «gli enti locali possono deliberare
contributi a favore di soggetti terzi in relazione alle
iniziative ritenute utili per la comunità amministrata nel
rispetto, in concreto, dei principi che regolano il
legittimo e corretto svolgimento delle proprie potestà
discrezionali, determinati proprio dall’articolo 12 della
legge 07.08.1990, n. 241» [8].
---------------
[1] Al medesimo titolo sono intervenute ulteriori dieci
parti, delle quali alcune a titolo personale ed altre in
rappresentanza di associazioni locali già costituite.
[2] Con la medesima deliberazione il Sindaco ha ricevuto
mandato per la sottoscrizione dei detti atti fondativi ed è
stato autorizzato ad apportarvi le modifiche non sostanziali
che si fossero rese eventualmente necessarie.
[3] Consiglio di Stato – Sez. V, sentenze 17.03.2015, n.
1373 e 23.03.2015, n. 1552.
[4] La finalità viene perseguita anche dall’art. 26 del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e dall’art. 1, commi
125-129, della legge 04.08.2017, n. 124, come sostituiti
dall’art. 35, comma 1, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34.
[5] TAR Puglia–Lecce, Sez. II, sentenza 25.10.2011, n. 1842.
[6] TAR Lombardia–Milano, Sez. III, sentenza 05.05.2014, n.
1142.
[7] Sez. reg. contr. Lombardia, pareri n. 9/2006, n.
10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n.
39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010,
n. 530/2011, n. 262/2012, n. 218/2014, n. 248/2014, n.
262/2014, n. 79/2015, n. 121/2015 e n. 362/2017.
[8] Sez. reg. contr. Lombardia, parere n. 146/2019 (20.05.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI: Tardiva
approvazione rendiconto.
Domanda
Sono assessore al bilancio di un comune di 3600 abitanti.
Per una serie di ragioni riconducibili al turn over del
personale del settore finanziario il mio ente deve ancora
approvare il Rendiconto del 2018.
Essendo decorso il termine del 30 aprile, quali conseguenze
ed effetti può avere tale ritardo? E’ prevista qualche
sanzione specifica?
Risposta
Come ricordato dal lettore nel suo quesito, il termine per
l’approvazione del rendiconto di esercizio è fissato
dall’art. 227 del TUEL al 30 aprile dell’anno successivo a
quello di riferimento. Il comma 2-bis di detto articolo,
introdotto dal d.l. 174 del 2012 ha esteso l’applicazione
del regime sanzionatorio, già previsto per la mancata
approvazione del bilancio di previsione entro la scadenza di
legge, al mancato rispetto del suddetto termine. La sanzione
è contenuta all’art. 141, che si occupa delle ipotesi di
scioglimento e di sospensione dei consigli comunali e
provinciali.
Il comma 2 dell’articolo prevede testualmente
che: “(…) trascorso il termine entro il quale il bilancio
deve essere approvato senza che sia stato predisposto dalla
giunta il relativo schema, l’organo regionale di controllo
nomina un commissario affinché lo predisponga d’ufficio per
sottoporlo al consiglio. In tal caso, e comunque quando il
consiglio non abbia approvato nei termini di legge lo schema
di bilancio predisposto dalla giunta, l’organo regionale di
controllo assegna al consiglio, con lettera notificata ai
singoli consiglieri, un termine non superiore a venti giorni
per la sua approvazione, decorso il quale si sostituisce,
mediante apposito commissario, all’amministrazione
inadempiente. Del provvedimento sostitutivo è data
comunicazione al prefetto che inizia la procedura per lo
scioglimento del consiglio”.
La sanzione è pertanto assai grave; tuttavia lo scioglimento
del consiglio non è certo automatico. Esso è l’ultimo atto
di una procedura piuttosto lunga e articolata che richiede
che si verifichino due condizioni: il decorso del termine
del 30 aprile e la mancata approvazione dello schema di
bilancio (in tale caso di rendiconto) da parte della Giunta
comunale. Che cosa si deve intendere per schema di
rendiconto? Per il bilancio di previsione non vi sono dubbi:
a chiarirlo è l’art. 174 del TUEL che stabilisce che la
competenza alla sua predisposizione (e approvazione) è
dell’organo esecutivo. Ma per il rendiconto? L’art. 227 non
dice nulla in merito. Si può fare allora riferimento alla
relazione sulla gestione di cui all’art. 231 che, a norma
dell’art. 151, comma 6 del TUEL compete all’organo
esecutivo.
È pertanto da verificare innanzitutto se tale relazione sia
stata approvata o meno dalla giunta con proprio atto
deliberativo. I venti giorni assegnati dalla Prefettura
quale ulteriore termine per approvare il rendiconto
decorrono dalla data di notifica ai singoli consiglieri.
Questa dipende dai tempi della Prefettura e segue, di norma,
la richiesta a tutti gli enti ricadenti nel territorio di
propria competenza, da parte di quest’ultima, dell’avvenuta
(o meno) approvazione del rendiconto. Solo dopo aver avuto
riscontro a tale richiesta ordinaria la Prefettura ha piena
contezza degli enti inadempienti e potrà avviare la
procedura sopra illustrata.
Ulteriore sanzione è prevista dall’art. 243, comma 6, lett.
b), del TUEL: la mancata approvazione del rendiconto entro i
termini di legge determina per gli enti inadempienti la
condizione di enti strutturalmente deficitari. Come tali
essi sono assoggettati ai controlli centrali in materia di
copertura del costo di alcuni servizi. Detta condizione
cessa con la sopravvenuta approvazione del rendiconto,
sebbene tardiva.
Infine si segnala che sul tema si è pronunciata di recente
anche la Corte dei conti. In particolare lo hanno fatto la
Sezione Lombardia con deliberazioni n. 10/2018/PRSE e n.
32/2019/PRSE, la Sezione Molise con propria deliberazione n.
67 del 19/04/2019 e la Sezione Sicilia con propria
deliberazione n. 86 del 19/04/2019.
Rinviando ad una loro lettura e disamina, si evidenzia qui
come, in particolare la sezione lombarda, abbia rimarcato
l’importanza di rispettare il termine del 30 aprile in
quanto il rendiconto “(…) costituisce un imprescindibile
riferimento per gli eventuali interventi sulla gestione in
corso d’esercizio e per la successiva programmazione
finanziaria” (20.05.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Diritto di accesso di un consigliere al sistema informatico
comunale.
L’accesso diretto tramite utilizzo di
apposita password al protocollo informatico dell’Ente è uno
strumento consentito ai consiglieri comunali, finalizzato a
favorire la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l’ordinaria attività
amministrativa.
Peraltro, la determinazione delle modalità organizzative
attraverso le quali viene garantito l’accesso ai consiglieri
comunali rientra tra le prerogative di esclusiva competenza
dell’Amministrazione.
Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso
spettante ai consiglieri comunali. Più in particolare,
premesso che un amministratore locale ha richiesto all’Ente
l’accesso, tramite apposita password, al sistema informatico
comunale “al fine di acquisire tempestivamente le
informazioni necessarie all’espletamento del proprio mandato
elettivo”, chiede se la consultazione del protocollo
generale comunale debba limitarsi ad una presa visione
generale dello stesso eventualmente seguita da una richiesta
specifica e mirata di determinati atti/documenti o se tale
consultazione già, ab origine, possa comprendere la
presa visione di tutti gli atti e documenti allegati,
ancorché relativi ad attività endoprocedimentali.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali è
disciplinato all’articolo 43 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, il quale, al comma 2, riconosce a questi
il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
loro mandato.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha
costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili
devono considerare l’esercizio, in tutte le sue potenziali
esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere
comunale è individualmente investito, in quanto membro del
consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la
possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la
visione dei provvedimenti adottati e l’acquisizione di
informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e
dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale,
utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente
consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma
anche per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le
varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di
quel collegio [1].
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è
quindi esercitato riguardo ai dati utili per l’esercizio del
mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata
all’interesse all’accesso del titolare di tale funzione
pubblica, legittimandolo all’esame e all’estrazione di copia
dei documenti che contengono le predette notizie e
informazioni [2].
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di
motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici
comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni
sottese all’istanza di accesso, né a compiere alcuna
valutazione circa l’effettiva utilità della documentazione
richiesta ai fini dell’esercizio del mandato. A tale
riguardo il Ministero dell’Interno ha evidenziato che “diversamente
opinando, la P.A. assumerebbe il ruolo di arbitro delle
forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo
deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini
collettivi. Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno
il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto
delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato” [3].
Il diritto di accesso spettante agli amministratori locali,
pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità
dei cittadini ai sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n.
241, incontra il divieto di usare i documenti per fini
privati o comunque diversi da quelli istituzionali, in
quanto i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta
devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità
collegate all’esercizio del mandato (presentazione di
mozioni, interpellanze, espletamento di attività di
controllo politico-amministrativo ecc.). Il diritto di
accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto
riferito ad atti palesemente inutili ai fini
dell’espletamento del mandato. [4]
Ancora è stato affermato che le richieste di accesso devono
essere esercitate con modalità e forme tali da evitare
intralci all’ordinario svolgimento dell’attività degli
Uffici. Su questa linea la giurisprudenza ha specificato
che: “Il consigliere comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento,
piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od
aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro
gli immanenti limiti della proporzionalità e della
ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa
dell’ente civico” [5].
Con riferimento specifico alla richiesta di accesso al
protocollo generale dell’Ente si è espresso il TAR Sardegna
[6]
affermando che “deve essere accolta la richiesta dei
consiglieri comunali di prendere visione del protocollo
generale […] senza alcuna esclusione di oggetti e notizie
riservate e di materie coperte da segreto, posto che i
Consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto, ai
sensi dell’art. 43, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267”.
Anche il Ministero dell’Interno, nell’affrontare questioni
analoghe a quella in esame, si è, anche di recente, espresso
in termini favorevoli all’accesso rilevando, in particolare,
che: “Anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del
consigliere alla visione del protocollo generale, senza
alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di
materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali
sono tenuti al segreto – ai sensi del citato articolo 43 del
decreto legislativo n. 267/2000” [7].
Con specifico riferimento al protocollo informatico comunale
la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nel
parere del 22.02.2011 ha rilevato che “ai sensi della
vigente normativa […] ogni comune deve provvedere a
realizzare il protocollo informatico, al quale possono poi
liberamente accedere i consiglieri comunali, i quali
pertanto –tramite tale protocollo– possono prendere
visione di tutte le determinazioni e le delibere adottate
dall’ente; ciò in ottemperanza al principio generale di economicità dell’azione amministrativa, che riduce allo
stretto necessario la redazione in forma cartacea dei
documenti amministrativi” [8].
Le conclusioni di cui sopra sono state fatte proprie anche
dal Ministero dell’interno [9]
il quale, investito della questione del diritto di accesso
al sistema informativo comunale da parte dei consiglieri ha
richiamato le determinazioni della Commissione per l’accesso
ai documenti amministrativi tra cui quella secondo cui “l’accesso
diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema
informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di
accesso certamente consentito al consigliere comunale che
favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l’ordinaria attività
amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato
messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.UOEL)”
[10].
Preme, tuttavia, osservare che l’accesso come sopra
configurato consentirebbe ai consiglieri di conoscere una
moltitudine di dati personali e di informazioni anche aventi
natura riservata e/o relative a determinate situazioni che
esigono una dovuta tutela al fine di scongiurare una
diffusione incontrollata di dati sensibili o comunque, la
cui conoscenza, potrebbe essere fonte di disagio sociale
[11].
Come rilevato dall’Anci, “l’accesso diretto non può,
però, essere esteso alla consultazione dei singoli atti
anche per la presenza nei registri del protocollo di atti
soggetti al segreto istruttorio o di atti personali o
riservati la cui visione è un diritto del consigliere,
comunque soggetta a valutazione da parte
dell’amministrazione” [12].
In altri termini si potrebbe affermare che, ferme le
considerazioni sopra espresse circa l’ampiezza del diritto
di accesso spettante ai consiglieri comunali, occorrerebbe
altresì considerare che “la determinazione delle modalità
organizzative attraverso le quali viene garantito l’accesso
ai Consiglieri comunali rientra tra le prerogative di
esclusiva competenza dell’Amministrazione che dovranno
evitare sia surrettizie limitazioni del diritto di accesso
che aggravi ingiustificati al buon funzionamento
dell’amministrazione” [13].
In questa direzione pare muoversi la recente sentenza del
TAR Sardegna [14]
la quale, pur riconoscendo il diritto dei consiglieri
comunali all’ottenimento delle chiavi di accesso al
protocollo informatico dell’Ente, ha limitato tale diritto
alla visione dei soli dati di sintesi ricavabili dalla
consultazione telematica.
Afferma, in particolare, detto TAR che “la richiesta di
accedere al protocollo informatico, e quindi di essere in
possesso delle chiavi di accesso telematico rappresenta una
condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per
l’esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che
questo si svolga non attraverso una apprensione
generalizzata e indiscriminata degli atti
dell’amministrazione comunale […] ma mediante una selezione
degli oggetti degli atti di cui si chiede l’esibizione.
Peraltro, una delle modalità essenziali per poter operare in
tal senso è rappresentata proprio dalla possibilità di
accedere (non direttamente al contenuto della documentazione
in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di
sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del
protocollo”.
Quanto, infine, all’accessibilità anche degli atti
endoprocedimentali il Ministero dell’Interno ha rilevato che
«salvo espressa eccezione di legge, ai consiglieri
comunali non può essere opposto alcun divieto,
determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo alla loro
funzione visto, peraltro che ai sensi dell’art. 22, c. 1,
lett. d), della legge n. 241/1990 anche gli atti interni
rientrano nel concetto di “documento amministrativo”,
indipendentemente dalla loro eventuale idoneità probatoria»
[15].
Riconosciuto, pertanto, il diritto di accesso dei
consiglieri comunali nell’accezione sopra descritta, il
Ministero dell’Interno ha ribadito, in varie occasioni, che
“Fatto salvo il diritto dei consiglieri, la materia,
comunque, dovrebbe trovare apposita disciplina regolamentare
di dettaglio per il suo esercizio” [16].
---------------
[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V,
sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994,
n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che
precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei
documenti spetta “a qualunque cittadino che vanti un proprio
interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute
nella più ampia e qualificata posizione di pretesa
all’informazione spettante ratione officii al consigliere
comunale”. Tale principio è stato successivamente ripreso e
confermato dal TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del
31.07.2009, n. 5879.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[4] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza
del 23.09.2014, n. 2363.
[5] TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza del 13.11.2012,
n. 2040.
[6] TAR Sardegna, sez. II, sentenza del 12.01.2007, n. 29.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 28.06.2018. Nello
stesso senso si veda, anche, il parere del Ministero
dell’Interno del 21.08.2018.
[8] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi,
plenum del 22.02.2011. La medesima Commissione in altra
occasione (plenum del 23.10.2012) ha affermato che: “Proprio
al fine di evitare che le continue richieste di accesso si
trasformino in un aggravio della ordinaria attività
amministrativa dell’ente locale, questa Commissione ha
riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di
avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche
contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di
servizio (fra gli ultimi, cfr. parere del 29.11.2009) e, più
recentemente, anche al protocollo informatico”.
Si veda, altresì, il parere espresso dalla medesima
Commissione del 03.02.2009 ove si afferma che: “Il
ricorso a supporti magnetici o l’accesso diretto al sistema
informatico interno dell’Ente, ove operante, sono strumenti
di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che
favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l’ordinaria attività
amministrativa”.
[9] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[10] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi,
seduta plenaria del 16.03.2010.
[11] Osservazioni tratte da M. Lucca, “L’accesso al
protocollo da parte del consigliere comunale”, reperibile
sul seguente sito internet: www.mauriziolucca.com
[12] ANCI, parere del 19.06.2018.
[13] ANCI, parere del 19.06.2018, citato anche in nota 12.
[14] TAR Sardegna, Cagliari, sentenza del 31.05.2018, n.
531. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Toscana,
Firenze, sentenza del 22.12.2016, n. 1844.
[15] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[16] Tra gli altri si veda Ministero dell’Interno parere del
28.06.2018 (15.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI:
Sulla esclusione delle imprese da gare pubbliche per
pregresse condotte che integrano illeciti anticoncorrenziali
(parere
06.08.2018-424435 -
AL
27806/2018
-
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
---------------
Con la nota indicata a margine, codesto Ufficio -
richiestone da Consip S.p.A. - ha posto alla scrivente
alcuni quesiti relativi alla rilevanza, quale motivo di
esclusione dalla partecipazione alle procedure di gara per
l’affidamento di contratti pubblici, di pregresse condotte
delle imprese che integrano illeciti anticoncorrenziali.
Si chiede in primo luogo di conoscere - alla luce del
pertinente quadro normativo e delle Linee guida pubblicate
dall’ANAC - se, al fine anzidetto, la stazione appaltante
debba valutare esclusivamente le condotte accertate con
provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del
mercato divenuto inoppugnabile o confermato, quanto meno
nella direzione di accertamento dell’illecito, con sentenza
passata in giudicato, ovvero se possano avere rilievo anche
illeciti che non siano divenuti già incontestabili da parte
delle imprese interessate («primo quesito»).
In secondo luogo - e in relazione a una limitazione, in tal
senso, contenuta nelle vigenti Linee guida dell’ANAC - si
chiede di conoscere, anche con specifico riferimento a un
recente cartello anticoncorrenziale accertato dall’AGCM, se,
ai fini suddetti, debba esserci integrale coincidenza tra il
mercato rilevante nel cui contesto si è realizzato
l’illecito antitrust e mercato oggetto del contratto da
affidare («secondo quesito»). (...continua).
---------------
(parere
26.11.2018-606595 - AL 27806/2018 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
Con nota prot. 424435/6 P del 06.08.2018, che si unisce
in copia, la scrivente, in risposta alla nota indicata a
margine, ebbe a rendere un parere sulla questione in oggetto
[Illeciti antitrust gravi ex art. 80, comma 5, lett. c) del
Codice dei contratti pubblici nelle posizioni di ANAC e
AGCOM, ndr], relativamente -tra l’altro- alla operatività,
quale motivo di esclusione dalle procedure di gara per
l’affidamento di contratti pubblici, di pregresse condotte
delle imprese che integrano illeciti anticoncorrenziali.
Nell’occasione, si è sostenuto che era da condividere la
soluzione contenuta nelle Linee guida n. 6, non vincolanti,
approvate dall’ANAC con delibera n. 1293 del 16.11.2016,
secondo la quale l’accertamento definitivo dell’illecito
antitrust -conseguente alla mancata impugnazione del
provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del
mercato che lo ha accertato o al passaggio in giudicato
della decisione del giudice amministrativo di rigetto del
ricorso dell’impresa interessata- non è condizione
necessaria per disporre l’esclusione dell’impresa dalle
gare. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Presidenza al
vicesindaco se è consigliere. L’assessore esterno non può guidare
l’assemblea non facendone parte.
È possibile affidare la carica di vice presidente
del Consiglio comunale al vice sindaco, assessore esterno, in un comune con
popolazione inferiore a 15.000 abitanti? Il vice sindaco facente funzioni
può assumere il ruolo di presidente della commissione elettorale comunale e
partecipare alle relative operazioni?
In merito al primo quesito, l'art. 64, comma 3, del Tuel (dlgs n. 267/2000),
prevede che, nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, non
vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore
nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio
fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47,
comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto riguarda le funzioni di presidente del consiglio comunale, l'art.
39, comma 3, del citato dlgs prevede che nei comuni sino a 15 mila abitanti
le stesse siano svolte dal sindaco, «salvo differente previsione
statutaria», mentre il comma 1, stabilisce che le funzioni vicarie del
presidente del consiglio, quando lo statuto non dispone diversamente, siano
esercitate dal consigliere anziano. La normativa statale, pertanto, anche in
carenza di specifiche disposizioni dell'ente, individua il vicario del
presidente del consiglio.
Nel caso di specie, lo statuto del comune attribuisce al sindaco il potere
di presiedere il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il
consigliere anziano sia assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la
presidenza è assunta dal consigliere che, nella graduatoria di anzianità…
occupa il posto immediatamente successivo». Anche il regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza
in capo al sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso
di assenza o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice
sindaco e ove questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di
età. La disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la
norma statutaria.
Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del
citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei
regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e
dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del
28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria dovrebbe
essere prevalente sulla norma regolamentare.
Tuttavia, circa la possibilità, nei comuni fino a 15 mila abitanti, di far
presiedere il consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vice sindaco
non consigliere comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del
21.02.1996 (richiamato dal successivo parere n. 501 del 14.06.2001) (con
riferimento all'estensione dei poteri del vice sindaco) ha affermato che il
vice sindaco può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del
consiglio comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di
consigliere comunale. Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nella
fattispecie in esame, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il
consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un
soggetto che non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova adeguata soluzione nell'orientamento
del Consiglio di Stato, espresso con pareri n. 94/1996 del 21.02.1996 e n.
501/2001 del 04.06.2001, che, nella sostanza, hanno avallato la linea
interpretativa già seguita, in materia, dal ministero dell'interno.
In particolare l'Alto Consesso, rilevando che le funzioni del sindaco
sospeso vengono svolte dal vice sindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che in caso di vicarietà,
nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e
vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta confortata da riflessioni di
carattere sistematico, poiché la preposizione di un sostituto all'ufficio o
carica in cui si è realizzata la vacanza implica, di regola, l'attribuzione
di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale
connessa alla vacanza medesima. Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di
continuità dell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in ogni
momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato ad adottare tutti i
provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse pubblico, è necessario
riconoscere al vicesindaco reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in ordine alla specifica fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223,
all'articolo 14, stabilisce che la commissione elettorale comunale è
presieduta dal sindaco e in caso di assenza, impedimento o cessazione dalla
carica, dall'assessore delegato o dall'assessore anziano. Se il sindaco,
infine, è sospeso dalle funzioni di ufficiale del governo, la commissione è
presieduta dal commissario prefettizio incaricato di esercitare tali
funzioni.
Nel caso di specie, alla luce delle disposizioni di cui al Tuel, dunque, il
vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione
elettorale in sostituzione del sindaco assente (articolo ItaliaOggi del 09.11.2018). |
PATRIMONIO:
Accordo (ex art. 15, l. 241/1990) tra una p.a. ed un ente
pubblico economico per la concessione in uso di beni
pubblici, presupposti e condizioni (parere
06.07.2018-363198, AL 19666/2017 -
Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 4/2018).
---------------
A) Con nota del 14.04.2017 codesta Amministrazione
chiedeva alla Scrivente di esprimere il proprio parere in
ordine alla possibilità di interpretare in via estensiva il
comma 233 dell’art. 4 della L. n. 350/2003, recante
disposizioni in materia di concessioni di spazi in comodato
d’uso gratuito a favore delle amministrazioni pubbliche, al
fine di verificare la possibilità di applicare tale
disciplina nei confronti di ENIT - Ente nazionale italiano
del turismo.
Il problema si poneva in quanto, a seguito della
trasformazione di ENIT in ente pubblico economico, questo
aveva perso il carattere di “amministrazione pubblica”, che
costituisce il requisito indispensabile per poter accedere
alla disciplina di cui al comma 233 citato. Tale
disposizione infatti prevede la possibilità, per gli uffici
all’estero, di concedere in comodato d’uso gratuito spazi a
favore delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1,
comma 2, del D.lgs n. 165/2001. (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n.
67/1997) in “un caso” di procedimento civile
conclusosi in rito (parere
15.06.2018-321483, AL 28649/2016 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
---------------
Con riferimento al quesito posto da codesta Avvocatura
distrettuale in relazione all’istanza di rimborso in
oggetto, esaminati gli atti, si osserva quanto segue.
Come è noto l’art. 18 del D.L. 25.03.1997, n. 67, convertito
in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 23.05.1997, n.
135, così recita: “le spese legali relative a giudizi per
responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei
confronti di dipendenti di amministrazioni statali in
conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del
servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e
conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro
responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di
appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'avvocatura
dello Stato. le amministrazioni interessate, sentita
l'avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni
del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza
definitiva che accerti la responsabilità”.
Dunque la rimborsabilità delle spese legali affrontate da un
dipendente pubblico in occasione di un procedimento
giudiziario a suo carico presuppone non solo che l’agire
incriminato sia strumentalmente connesso al diligente
espletamento della pubblica funzione, come ripetutamente
posto in luce dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez.
VI, 29.04.2005, n. 2041), ma anche ... (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il (non) rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n.
67/1997) in caso di decreto di archiviazione per remissione
della querela (parere
21.05.2018-269433, AL 43341/2016 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
---------------
In riscontro alla nota sopra indicata, relativa alla
richiesta avanzata dal nominato in oggetto, questa
Avvocatura non ritiene sussistere il diritto al rimborso
delle spese giudiziali, ex art. 18 D.l. n. 67/1997,
convertito in legge n. 135/1997.
Nel caso di specie, infatti, il decreto di archiviazione non
ha escluso la responsabilità del Prof. (..) esaminando nel
merito le imputazioni, come invece richiesto dall'art. 18
tenuto conto che il decreto è stato disposto esclusivamente
per ragioni di rito, senza che sia stata effettivamente
esclusa, con certezza, la responsabilità in ordine ai fatti
addebitati ... (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Modalità di applicazione della sospensione di diritto
dalla carica elettiva ex art. 11, d.lgs 31.12.2012 n. 235
(parere
11.05.2018-253361-253362, AL 24089/2017 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
---------------
Con le note alle quali si fa riscontro codesto Ministero
ha chiesto un parere in merito all'interpretazione dell'art.
11 del D.Lgs. n. 235 del 31.12.2012 (Testo unico delle
disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di
ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a
sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a
norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 06.11.2012, n.
190), rappresentando che il dr. (...), allorché rivestiva la
carica di Assessore e Vicesindaco del Comune di (...), era
stato condannato per il reato di abuso d'ufficio di cui
all'art. 323 del codice penale, con sentenza non definitiva
del 10.11.2016; conseguentemente il Prefetto di Reggio
Calabria, con decreto del 12.11.2016, aveva accertato nei
suoi confronti l'esistenza di una causa di sospensione di
diritto dalla carica, ai sensi dei commi 1 e 5 del predetto
art. 11.
La consiliatura nel corso della quale la sospensione aveva
operato si era, però, interrotta, a seguito della
sospensione del Consiglio comunale, con provvedimento
prefettizio del 23.12.2016, e del suo successivo
scioglimento, disposto con d.P.R. 03.02.2017, adottato ai
sensi dell'art. 141, comma 1, lettera b), n. 4), del D.Lgs.
235/2012.
Poiché l'interessato si era candidato alla carica di Sindaco
dell'ente nelle successive consultazioni amministrative
dell'11.06.2017, codesto Ministero, rilevando che,
nell'eventualità in cui egli fosse risultato eletto, il
Prefetto avrebbe dovuto adottare un nuovo provvedimento
accertativo dell'esistenza di una temporanea causa ostativa
all'espletamento del mandato, ha formulato, nella richiesta
di parere, i seguenti due quesiti: ... (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n.
67/1997) solo in caso di esercizio dei compiti istituzionali
espletati “senza violazione di doveri e senza conflitto di
interessi con l’amministrazione” (parere
18.12.2017-602712, AL 26925/2017 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Con riferimento all’istanza di rimborso in oggetto, preso
atto del parere sfavorevole espresso da codesta
Amministrazione, si osserva quanto segue.
Com’è noto l’art. 18 della legge 23.05.1997, n. 135
richiede, per il rimborso, che le spese legali siano
relative a “giudizi per responsabilità civile, penale e
amministrativa promossi nei confronti di dipendenti di
amministrazioni statali in conseguenza di fatti o atti
connessi con l’espletamento del servizio o con
l’assolvimento di obblighi istituzionali”.
Va osservato che la “ratio” del rimborso è quella di tenere
indenni i soggetti che abbiano agito in nome e per conto,
oltre che nell’interesse, dell’Amministrazione, dalle spese
legali affrontate per i procedimenti giudiziari relativi
agli atti connessi all’espletamento dei compiti
istituzionali.
In questo senso, è possibile imputare gli effetti degli atti
del dipendente direttamente all’amministrazione di
appartenenza solo quando risulti che l’agire incriminato di
questi sia strettamente strumentale al regolare e diligente
adempimento dei compiti istituzionali di servizio, vi sia
quindi coincidenza di posizioni e non si concreti invero un
conflitto di interessi con l’Amministrazione di appartenenza
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.04.2005, n. 2041). (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il (non) rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n.
67/1997) in caso di assoluzione da parte del giudice penale
per la particolare tenuità della condotta in contestazione
(parere 13.12.2017-595824, AL
38066/2017 -
Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Il dipendente indicato in oggetto ha presentato istanza
diretta ad ottenere il rimborso delle spese di difesa
sostenute nell’ambito del procedimento penale per il reato
militare di truffa militare continuata e pluriaggravata,
definito con sentenza di assoluzione della Corte militare di
appello di Roma, che, in riforma della sentenza di condanna
di primo grado, assolveva il militare perché il fatto non
sussiste, con la seguente precisazione “.. pur ritenendo
provata la condotta in contestazione ma avendo tuttavia a
riferimento la pochezza della fattispecie sottoposta ad
esame ..”.
Il militare ha allegato alla domanda, nota spese predisposta
dal proprio legale per un importo complessivo di euro
20.898,00 (importo comprensivo di CPA ed IVA).
La scala gerarchica e codesta Amministrazione hanno espresso
parere sfavorevole al rimborso, precisando che gli aspetti
disciplinari della vicenda sono ancora al vaglio
dell’Amministrazione, in attesa della definizione di un
procedimento penale avviato dalla procura della Repubblica
di Crotone per i reati di falsità materiale ed ideologica
commessa da p.u. in atti pubblici e rifiuto di atti
legalmente dovuti, sempre con riferimento ai medesimi fatti
esaminati dai giudici militari. (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il rimborso delle spese legali (ex art. 18 d.l. n.
67/1997) solo in caso di procedimenti giudiziari conseguenti
ad atti compiuti o connessi all’espletamento dei compiti
istituzionali (parere
11.12.2017-591316, AL 39953/2017 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Il dipendente indicato in oggetto ha presentato istanza
diretta ad ottenere il rimborso delle spese di difesa
sostenute nell’ambito del procedimento penale per i reati di
“insubordinazione con minaccia ed ingiuria continuate”,
definito con sentenza resa dal Tribunale militare di Roma
che, con sentenza confermata dalla Corte di Appello
militare, ha assolto il militare perché il fatto non
sussiste. Il dipendente ha allegato alla domanda una fattura
predisposta dal legale che ha patrocinato il giudizio nei
due gradi, per l’importo complessivo di € 900,85
(comprensivi di CPA ed IVA).
Risulta che a seguito dei fatti oggetto di contestazione in
sede penale è stato adottato provvedimento sanzionatorio
ministeriale di perdita del grado per rimozione, ai fini
della responsabilità disciplinare. L’amministrazione di
appartenenza ha espresso perplessità in merito alla
spettanza del rimborso, non ritenendo sussistenti i
requisiti richiesti dalla norma. (...continua). |
LAVORI PUBBLICI:
Gara pubblica, sulla regolarizzazione postuma della
posizione previdenziale di un impresa subentrata in seguito
a scorrimento della graduatoria (parere
05.12.2017-583778, AL 43320/2017 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Con riferimento alla richiesta di parere formulata da
codesta Amministrazione il 20.10.2017, si comunica quanto
segue.
Codesto Provveditorato ha bandito la gara per la
progettazione esecutiva e l'esecuzione dei lavori di
realizzazione di efficientamento energetico ed uso di fonti
rinnovabili sull'edificio H, presso la Caserma del
Carabinieri "Salvo D'Acquisto" in Roma. La procedura di gara
prescelta è stata quella dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, conclusasi in data 08.04.2015 con
l’aggiudicazione provvisoria al Consorzio I.
Avverso l’aggiudicazione l’impresa C., seconda classificata,
ha proposto ricorso dinanzi al TAR Lazio.
Con sentenza n. 6527/2016, depositata il 07.06.2016 il TAR
ha accolto la domanda disponendo l’aggiudicazione
dell’appalto all’impresa ricorrente.
Avverso tale pronuncia, il Consorzio Stabile I. ha proposto
ricorso in appello al Consiglio di Stato che, con sentenza
n. 5475/2016 del 28 dicembre 2016 ha rigettato il gravame.
Al fine di procedere alla stipula del contratto con la C.,
codesto Provveditorato ha richiesto, in data 25.06.2017 un
nuovo DURC nel frattempo scaduto.
Tale documento è risultato “NON REGOLARE”.
All’impresa veniva, pertanto, richiesta la regolarizzazione
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CISANO BERGAMASCO (Bergamo) - art. 167 decreto legislativo n. 42 del 2004 - demolizione manufatto in zona paesaggisticamente vincolata e rimessione in pristino (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 01.07.2016 n. 19729 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Greve in Chianti (FI). Titoli abilitativi adottati in carenza di presupposta autorizzazione paesaggistica per errata applicazione dell'art. 142, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (MIBAC,
nota 29.05.2012 n. 9907 di prot.). --------------- Si fa riferimento alla nota della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana prot. n. 19786 del 16.12.2011, assunta al protocollo di questo ufficio prot. n. 8686 del 15.05.2011, con la quale si chiedono indicazioni in merito al corretto modo di agire dell'Amministrazione a fronte della situazione verificatasi in diversi Comuni, fra cui quello di Greve in Chianti, ove risultano già realizzati o in corso di realizzazione numerosi interventi costruttivi assentiti con il solo permesso di costruire, rilasciato in difetto della presupposta autorizzazione paesaggistica, a causa di un'errata applicazione, da parte degli Uffici comunali, dell'art. 142, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio. (...continua). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza costante “l'ordinanza di demolizione non deve
essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi
di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura
vincolata" e “il provvedimento con cui
viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo
e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso ( o) il
titolare attuale non sia responsabile dell'abuso…”.
---------------
In considerazione della natura totalmente vincolata dei
provvedimenti di demolizione parimenti infondate sono le ulteriori censure
svolte dai ricorrenti in rapporto all’omessa comunicazione di avvio del
procedimento di repressione degli abusi edilizi o alla pretesa carenza o
insufficienza della motivazione.
Per giurisprudenza costante, infatti, “l'ordinanza di demolizione non deve
essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi
di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura
vincolata" (TAR Campania, Napoli , sez. VII, 15.03.2019, n. 1448; TAR
Puglia, Lecce, Sez. III, 11.03.2019 n. 413) e “il provvedimento con cui
viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo
e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso ( o) il
titolare attuale non sia responsabile dell'abuso…” (TAR Puglia, Lecce, Sez. III , 18.02.2019, n. 262; Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.03.2019 , n.
1942).
Parimenti non meritevoli di accoglimento sono, infine, le ultime doglianze
esposte dai ricorrenti in rapporto alla pretesa sproporzione della sanzione
della demolizione rispetto all’entità degli abusi ed alla asserita
riconducibilità delle opere de quibus ad interventi di restauro o
risanamento conservativo, realizzabili “in base a semplice SCIA” e,
comunque, “assolutamente conformi al tessuto urbanistico di riferimento”.
Tali affermazioni sono del tutto contraddette dalla descrizione delle opere
contenuta nei verbali di accertamento e nelle varie determinazioni di
demolizione, nonché da quanto rappresentato nelle stesse domande di condono
presentate in relazione ad una serie di immobili “monopiano” realizzati man
mano nel corso degli anni, anche in aderenza l’uno all’altro, senza alcun
titolo e con creazione ex novo di superfici e volumi.
Da qui l’assoluta impossibilità di qualificare le opere de quibus come
restauro o risanamento conservativo, la sussumibilità delle stesse
nell’alveo degli interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, comma 1,
lett. e.1), del DPR n. 380/2001 e la piena congruità della sanzione di
demolizione disposta dall’Amministrazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.06.2019 n. 7300 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Risarcimento
dei danni per tardiva definizione del procedimento di rilascio
dell'autorizzazione per l'apertura di un centro commerciale.
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●
Edilizia – Convenzione urbanistica - Interventi attuativi dello strumento di
pianificazione - potestà pubbliche che presiede al rilascio di tali titoli –
E’ attuazione del programma concordato.
●
Risarcimento danni – Presupposti – Individuazione.
●
Risarcimento danni – Danno da ritardo - Presupposti – Individuazione.
●
Quando viene sottoscritta una convenzione urbanistica che preveda, nel
programma negoziale concordato, l’esecuzione di una serie di interventi
attuativi dello strumento di pianificazione, a loro volta soggetti a previo
rilascio di un titolo amministrativo a natura ampliativa (come
l’autorizzazione all’apertura di una grande struttura di vendita), anche
l’esercizio delle potestà pubbliche che presiede al rilascio di tali titoli
costituisce attuazione del programma concordato (1).
●
In materia di responsabilità della PA, affinchè sorga una obbligazione
risarcitoria, è necessario che l’illegittimità del provvedimento della P.A.
–anche quando sia posto in violazione di obblighi negoziali- comporti una
lesione definitiva della situazione giuridica di cui si chiede tutela,
consistente nella perdita di quella determinata utilità di interesse per il
privato, il cui ottenimento –o il mantenimento della quale– dipende
dall’azione della P.A. (2).
●
I termini di conclusione del procedimento hanno natura
ordinatoria; la loro inosservanza non genera, infatti, decadenza dalla
titolarità del potere o dal suo esercizio, in forza del principio di
naturale continuità dell’azione amministrativa; in compenso, a tutela della
parte istante, il procedimento amministrativo è soggetto ad un termine
naturale e ragionevole di conclusione (variamente fissato nei regolamenti
applicabili a ciascuna fattispecie, o, in mancanza, regolato in via
residuale dalla legge) la cui inosservanza, laddove comporti un danno
ingiusto a carico dell’istante, obbliga la P.A. al risarcimento, ex art.
2-bis, l. n. 241 del 1990.
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(1) Da tale principio il Tar ha fatto conseguire che le
Amministrazioni responsabili –salvo l’esito del doveroso controllo dei
presupposti per il rilascio delle autorizzazioni diversi ed ulteriori da
quelli già esaminati ed assolti nell’atto della sottoscrizione del negozio,
che a loro volta dipendono dall’adempimento, da parte del privato, dei
rispettivi oneri di progettazione dell’intervento– si obbligano a porre in
essere il procedimento non solo in virtù del dovere di provvedere già
esistente per legge, ma anche in forza della convenzione; pertanto,
l’eventuale ritardo nell’esecuzione del doveroso obbligo di provvedere
rileverà non più nei termini di una responsabilità ex art. 2043 cod. civ.
(come generalmente si ritiene in relazione a tale fattispecie, quando viene
in esame in contesti diversi da quelli caratterizzati dall’esistenza di una
convenzione), ma nei termini di una responsabilità da inadempimento
negoziale, con ogni conseguenza, specie in ordine al regime della prova ex
artt. 1176 e 1218 cod. civ. ed in ordine al regime della prescrizione.
(2) Ha aggiunto il Tar che qualora l’annullamento dell’atto
illegittimo di diniego comporti la reviviscenza del procedimento e
dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere in ordine ad una fattispecie
di interesse legittimo pretensivo, non essendosi ancora concretizzata la
perdita dell’utilità dipendente dall’azione della P.A., cui il privato
richiedente aspira, non è prospettabile una responsabilità per risarcimento
del danno, ad eccezione dei soli profili di lesione derivanti dal ritardo
(da valutarsi nei limiti ed alle condizioni di cui all’art. 2-bis, l. n. 241
del 1990) (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-ter,
sentenza 05.06.2019 n. 7312 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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IIIa) E’ bene premettere, in linea generale, che i termini
di conclusione del procedimento hanno natura ordinatoria; la loro
inosservanza non genera, infatti, decadenza dalla titolarità del potere o
dal suo esercizio, in forza del principio di naturale continuità dell’azione
amministrativa.
In compenso, a tutela della parte istante, il procedimento
amministrativo è soggetto ad un termine naturale e ragionevole di
conclusione (variamente fissato nei regolamenti applicabili a ciascuna
fattispecie, o, in mancanza, regolato in via residuale dalla legge) la cui
inosservanza, laddove comporti un danno ingiusto a carico dell’istante,
obbliga la P.A. al risarcimento, ex art. 2-bis della l. 241/1990
(su tali aspetti si rimanda a TAR Lazio, Roma, II-ter, 05.08.2014, nr. 8608
e richiami in essa contenuti).
Il ricorso trae fondamento, sul punto, dalla premessa secondo la quale la
responsabilità da ritardo andrebbe sancita in ogni caso, a prescindere
dall’esito del procedimento (o della sua stessa conclusione), essendo il “tempo”
un bene autonomamente valutabile in considerazione dell’esigenza che va
riconosciuta all’imprenditore di potersi determinare per tempo in ragione di
un quadro normativo (quindi anche procedimentale e provvedimentale
amministrativo) certo ed affidabile.
La giurisprudenza prevalente resta orientata a ritenere che
l'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento ex art. 2- bis, comma 1, l. n. 241/1990 richiede, ai fini della
responsabilità della PA, “la prova circa la spettanza del bene della
vita, il cui ottenimento è stato posticipato o pregiudicato dal ritardo
doloso o colposo con cui l'Amministrazione ha concluso il relativo
procedimento amministrativo”
(TAR Venezia, sez. III, 31/01/2019, n. 118; TAR Roma, sez. III, 15/01/2019,
n. 503; TAR Napoli, sez. III, 08/01/2019, n. 82; TAR Palermo, sez. I,
23/11/2018, n. 2431; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. IV, 15/01/2019, n.358
che richiama Cassazione, Sezioni unite civili, ordinanza 17.12.2018, n.
32620).
Va rilevato che la tesi della parte ricorrente –sempre in linea di
principio– trova conforto in un “obiter” dell’Adunanza Plenaria
04.05.2018 n. 5, nel quale si ritiene che con l'art. 2-bis
cit. "il legislatore -superando per tabulas il diverso orientamento in
passato espresso dalla sentenza dell'Adunanza plenaria 15.09.2005, n. 7- ha
introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, che si
configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla
posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in
violazione del termine di conclusione del procedimento (ad esempio, il
diniego di autorizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato
legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento). Il
danno deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione
negoziale: il ritardo nell'adozione del provvedimento genera, infatti, una
situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte
negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni)
che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l'adozione
del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell'amministrazione”.
A tacere del fatto che siffatta indicazione non risulta essere stata seguita
dalla giurisprudenza successiva, non può non rilevarsi che l’A.P. stessa non
manca di precisare che è “onere del privato fornire la
prova, oltre che del ritardo e dell'elemento soggettivo, del rapporto di
causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il
compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti
posto in essere......”.
Il principio della risarcibilità del danno a prescindere
dall’esito del procedimento, affermato (solo incidentalmente) dalla Ad.
Plenaria nr. 5/2018 meriterebbe un ben maggiore ed adeguato approfondimento,
posto che avendo riguardo alla natura aquiliana della responsabilità ex art.
2-bis della l. 241/1990, potrebbe invero predicarsi una immediata
risarcibilità di danni conseguenti al “mero” ritardo, ma ciò
solamente laddove (ed a condizione che) quest’ultimo risulti in concreto
causa efficiente di una perdita definitiva ed attuale di una utilità
dipendente non già dall’esito del procedimento apertosi per conseguire il
provvedimento richiesto alla PA, ma dall’incertezza e dal protrarsi del
procedimento stesso, quindi una utilità autonoma rispetto a quella
dipendente dal provvedimento; e ciò a maggior ragione se ci si pone
nell’ottica (preferita dal
Collegio quanto al caso di specie) della responsabilità
contrattuale da ritardo (nei casi in cui la conclusione del procedimento è
oggetto di una previsione negoziale pubblica come la convenzione
urbanistica), laddove l’inesatto adempimento (come il ritardo andrebbe
qualificato) consentirebbe alla parte interessata di potersi avvantaggiare
di un più favorevole regime di prova della responsabilità, ma senza poter
prescindere, anche in tal caso, dall’esistenza di una lesione patrimoniale
attuale e definitiva.
Tuttavia, nell’odierno giudizio, non sussistono i presupposti per accedere
ad un siffatto approfondimento, perché, nonostante l’indubbio sforzo
argomentativo, la prova di danni medio tempore già consumatisi per
effetto del ritardo “mero”, ovvero concretamente risarcibili a
prescindere dall’esito del procedimento (quale che sia la natura della
responsabilità da ritardo, aquiliana in generale, contrattuale nel caso di
specie), non è stata raggiunta, come conferma l’analisi delle specifiche
voci di danno che sono elencate al punto IV del ricorso, esaminato a
seguire. |
EDILIZIA PRIVATA: In
linea di diritto, che l’onere della prova dell'ultimazione entro una certa
data di un’opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra
fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra
quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché
realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul privato a ciò
interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di
elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca
di realizzazione del manufatto.
Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai
fini della prova del momento di realizzazione dell'abuso, un consolidato
orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di
notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non
rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi
che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non
risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria
dell’amministrazione -ovvero, le deduzioni con cui la stessa
amministrazione rileva l'inattendibilità di quanto rappresentato dal
richiedente-.
Ed infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente
l'ultimazione dell'edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la
detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur
presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova
circa la data certa di ultimazione dei lavori.
L’indagine sulla veridicità ed effettività di quanto viene dichiarato
nell’istanza di condono edilizio costituisce compito specifico
dell’amministrazione comunale che, fin dal sistema complessivamente
risultante dalla l. 47/1985, in particolare dall’art. 4 (oggi trasfuso nel
sistema di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380), la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale è riservata al Comune e detto
potere/dovere di vigilanza concerne anche la attenta verifica circa la
sussistenza dei presupposti per il rilascio di provvedimenti di condono
edilizio.
Quindi, a carico dell’amministrazione comunale raggiunta dall’istanza di
condono edilizio l’art. 31, comma 2, l. 47/1985 pone una indagine
istruttoria per la verifica del requisito dell'ultimazione, rilevante ai
fini del rilascio del condono, che si sviluppa attraverso due criteri
alternativi: il criterio “strutturale", che vale nei casi di nuova
costruzione e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di
opere interne di edifici già esistenti.
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Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici
“ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”.
Costituisce
principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante
solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma
necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in
concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili.
La nozione di completamento funzionale implica invece uno stato di
avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve
le sole finiture, la fruizione. In altri termini l'organismo edilizio non
soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza
planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d.
ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno)
sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne
connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.
La giurisprudenza
amministrativa ha evidenziato ai predetti fini che siano state realizzate le
opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da
quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto,
trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di
servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere
del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso, ossia quelle opere che qualifichino
in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione.
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7. – Va premesso, in linea di diritto, che l’onere della prova
dell'ultimazione entro una certa data di un’opera edilizia abusiva, allo
scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere
una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo
ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul
privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di
documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole
certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr., in tal senso tra le
molte e più di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2018 n. 1391).
Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai
fini della prova del momento di realizzazione dell'abuso, un consolidato
orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di
notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non
rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi
che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non
risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria
dell’amministrazione -ovvero, le deduzioni con cui la stessa
amministrazione rileva l'inattendibilità di quanto rappresentato dal
richiedente- (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2014 n. 2782
e 27.05.2010 n. 3378).
Ed infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente
l'ultimazione dell'edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la
detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur
presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova
circa la data certa di ultimazione dei lavori (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6548).
L’indagine sulla veridicità ed effettività di quanto viene dichiarato
nell’istanza di condono edilizio costituisce compito specifico
dell’amministrazione comunale che, fin dal sistema complessivamente
risultante dalla l. 47/1985, in particolare dall’art. 4 (oggi trasfuso nel
sistema di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380), la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale è riservata al Comune e detto
potere/dovere di vigilanza concerne anche la attenta verifica circa la
sussistenza dei presupposti per il rilascio di provvedimenti di condono
edilizio.
Quindi, a carico dell’amministrazione comunale raggiunta dall’istanza di
condono edilizio l’art. 31, comma 2, l. 47/1985 pone una indagine
istruttoria per la verifica del requisito dell'ultimazione, rilevante ai
fini del rilascio del condono, che si sviluppa attraverso due criteri
alternativi: il criterio “strutturale", che vale nei casi di nuova
costruzione e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di
opere interne di edifici già esistenti.
Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici
“ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”. Costituisce
principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante
solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma
necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in
concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr.,
fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 16.10.1998 n. 130).
La nozione di completamento funzionale implica invece uno stato di
avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve
le sole finiture, la fruizione. In altri termini l'organismo edilizio non
soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza
planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d.
ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno)
sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne
connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.
La giurisprudenza
amministrativa ha evidenziato ai predetti fini che siano state realizzate le
opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da
quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto,
trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di
servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere
del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 14.07.1995 n. 1071), ossia quelle opere che qualifichino
in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 04.07.2002 n. 3679)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.06.2019 n. 3696 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio non ignora come il criterio della vicinitas, in
materia edilizia, valga a radicarlo in capo ai proprietari di fondi finitimi
rispetto a quello dove sia in corso la realizzazione di un opus novum (dato
che esso “sintetizza ellitticamente il criterio dello stabile collegamento
in forza del quale il proprietario di un manufatto, limitrofo all'area in
cui dovrebbe sorgere il manufatto oggetto di un permesso di costruire che
dalla realizzazione di questo possa subire un pregiudizio, è titolare di un
interesse qualificato e differenziato ad evitare finanche la realizzazione
dell'opera, nonché -a più forte ragione- l'esecuzione di interventi
edilizi abusivo”).
Con più specifico riguardo all’esercizio del diritto di accesso ai
documenti amministrativi, rispetto ai soggetti sopra considerati “tale
posizione, in quanto qualificata e differenziata e non meramente emulativa o
preordinata ad un controllo generalizzato dell'azione amministrativa, basta,
ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241 del 1990 e s.m.i., a legittimare il
diritto di accesso alla documentazione amministrativa richiesta”.
---------------
Deve osservarsi come “i titoli edilizi sono atti pubblici, di talché chi
esegue le opere non può opporre un diritto di riservatezza”.
---------------
... per l'accertamento
- della antigiuridicità
del silenzio opposto sull'istanza di accesso agli atti presentata
dall'odierna ricorrente in data 26.11.2018 relativamente alla documentazione
a corredo del permesso di costruire n. 279/2017 rilasciato dal Comune di Pozzallo in favore del Sig. Le.Gi.,
nonché per l'accertamento
-
del diritto di accesso della ricorrente alla documentazione sopra indicata;
...
La Sig.ra Ca.Fr., proprietaria di un fabbricato per civile
abitazione in Pozzallo, identificato catastalmente al Foglio 7, Particella
1607 (ex 966), vedeva procedere alla realizzazione –sul lotto identificato catastalmente al Foglio 7, Particella 3858, confinante dal lato nord-est con
il proprio– di un edificio senza alcun ritiro dal confine (a differenza di
quanto invece era stato fatto in occasione della realizzazione dell’edificio
del quale ella era proprietaria).
Per acquisire maggiori informazioni circa l’attività edilizia posta in
essere sul fondo confinante, la Sig.ra Ca.Fr. avanzava –dapprima
informalmente- al Comune di Pozzallo una richiesta di accesso avente ad
oggetto il permesso di costruire n. 279/2017, e quindi, invitata dal
medesimo ente locale a formalizzare la predetta istanza, una domanda che,
oltre all’atto indicato in precedenza, aveva ad oggetto tutti quegli
ulteriori che avrebbero dovuto far parte della medesima pratica.
...
Prima di poter passare all’esame della fondatezza o meno delle censure
proposte con il ricorso in epigrafe, il Collegio non può non scrutinare ex
officio il profilo relativo alla sussistenza, nel caso di specie, di un
interesse a ricorrere in capo alla ricorrente.
Il Collegio certamente non ignora come il criterio della vicinitas, in
materia edilizia, valga a radicarlo in capo ai proprietari di fondi finitimi
rispetto a quello dove sia in corso la realizzazione di un opus novum (dato
che esso “sintetizza ellitticamente il criterio dello stabile collegamento
in forza del quale il proprietario di un manufatto, limitrofo all'area in
cui dovrebbe sorgere il manufatto oggetto di un permesso di costruire che
dalla realizzazione di questo possa subire un pregiudizio, è titolare di un
interesse qualificato e differenziato ad evitare finanche la realizzazione
dell'opera, nonché -a più forte ragione- l'esecuzione di interventi
edilizi abusivo”: Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. 28.03.2019, n.
2063).
Con più specifico riguardo all’esercizio del diritto di accesso ai
documenti amministrativi, rispetto ai soggetti sopra considerati “tale
posizione, in quanto qualificata e differenziata e non meramente emulativa o
preordinata ad un controllo generalizzato dell'azione amministrativa, basta,
ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241 del 1990 e s.m.i., a legittimare il
diritto di accesso alla documentazione amministrativa richiesta” (Consiglio
di Stato, Sez. V, sent. 14.05.2010, n. 2966; TAR Toscana, Sez. III, sent.
07.12.2012, n. 1993; Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. 21.11.2006, n. 6790).
La ricorrente ha puntualmente evidenziato in ricorso i profili critici
dell’intervento edilizio in corso di realizzazione sul fondo confinante,
così individuandoli:
- “il controinteressato ha, di recente, avviato lavori edili per la
realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica senza alcun ritiro dal confine”;
-
“la nuova fabbrica sembra non rispettare la quota di campagna naturale
coincidente con la quota stradale, bensì appare elevata artificiosamente di
circa 1,20 ml.”.
Ora, è agevole rilevare come la prima delle criticità riscontrate riguardi
profili con i quali non interferisce la legittimità/illegittimità del
permesso di costruire n. 297/2017: e segnatamente il rispetto delle norme in
materia di distanze ex art. 873 c.c. (così come integrato dai “regolamenti
locali” ivi richiamati), sul quale non può in alcun modo incidere il
provvedimento adottato a norma dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2011: dato che, a
norma del suo terzo comma, “il rilascio del permesso di costruire non
comporta limitazione dei diritti dei terzi”.
La stessa cosa però non può dirsi per quel che concerne l’asserito mancato
rispetto del”la quota di campagna naturale, coincidente con la quota
stradale”. Qui l’esercizio di poteri dominicali da parte del proprietario
del fondo confinante, fuori dal divieto di atti emulativi ex art. 833 c.c.
(i quali ovviamente qui non ricorrono, stante l’intrinseca utilitas che si
riconnette alla costruzione di un fabbricato destinato a civile abitazione),
non trova altro limite che negli atti di assenso rilasciati dall’ente locale
competente in ordine alla modificazione dell’originario stato dei luoghi –
sempre necessari “allorché la morfologia del territorio venga alterata in
conseguenza di rilevanti opere di scavo, sbancamenti, livellamenti
finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli” (ex plurimis e più di recente,
Cass. Pen., Sez. III, Sent. 25.11.2014, n. 48990).
Ritiene pertanto il Collegio che, in base al profilo indicato da ultimo,
sussista un obiettivo interesse della ricorrente ad ottenere la ostensione
degli atti oggetto della propria formale istanza del 26/11/2018.
Passando al merito, deve osservarsi come “i titoli edilizi sono atti
pubblici, di talché chi esegue le opere non può opporre un diritto di
riservatezza” (TAR Sardegna, Sez. I, Sent. 26.04.2018, n. 376).
In
considerazione di ciò, l’accesso formale richiesto dal Comune intimato
appare ultroneo, e comunque la domanda mediante il quale esso è stato
esercitato dalla ricorrente senz’altro meritevole di accoglimento, senza la
necessità di alcuna specifica valutazione della posizione antagonista del
soggetto impegnato nella realizzazione dell’intervento edilizio sul lotto
identificato catastalmente al Foglio 7, Particella 3858, del Comune di
Pozzallo (SR).
Di conseguenza il Collegio condanna il Comune di Pozzallo alla ostensione,
entro il termine di giorni 30 dalla comunicazione o notificazione della
presente sentenza, di tutta la documentazione oggetto della domanda di
accesso formulata dalla ricorrente in data 26/11/2018
(TAR Sicilia-Catania, Sez. VI,
sentenza 03.06.2019 n. 1362 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Rilevanza
dell’obbligo dichiarativo dei costi della sicurezza rispetto all'esecuzione
del singolo contratto.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Costi manodopera –
Omessa indicazione – Prescrizioni della gara – carenti ed ambigue sulla
sussistenza del relativo obbligo dichiarativo –Non assume autonoma rilevanza
escludente
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Costi sicurezza –
Mancata indicazione – Prescrizioni della gara – Necessità obbligo
dichiarativo – rispetto alla esecuzione del singolo contratto –Rilevanza
escludente
●
L’omessa indicazione dei costi della manodopera da parte dell’aggiudicataria
non assuma autonoma rilevanza escludente, dal momento che -nonostante la
clausola di chiusura che rinvia al codice appalti- tanto le prescrizioni
della lex specialis, quanto la struttura del modello allegato al
disciplinare di gara ai fini della predisposizione dell’offerta tecnica,
risultavano carenti ed ambigue sul punto in questione e potevano risultare
ingannevoli rispetto alla sussistenza del relativo obbligo dichiarativo.
●
L’obbligo dichiarativo concernente i costi della sicurezza non si
stempera in una dimensione dinamica e soggettiva (rapportata cioè alla
gestione dell’impresa nel tempo) ma ha una rigida rilevanza statica ed
oggettiva, essendo volto ad esplicitare gli oneri in argomento rispetto alla
esecuzione del singolo contratto, onde garantire, in concreto, il
soddisfacimento degli interessi pubblici di riferimento (1).
---------------
(1) Il Tar ha premesso che la Corte di Giustizia U.E., con la
recente sentenza 02.05.2019 n. 309, pur accertando la compatibilità della
prescrizione escludente, di cui al combinato disposto degli artt. 95, comma
10, e 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, con i principi di parità di
trattamento e di trasparenza di derivazione europea, ha concluso nel senso
che: “Spetta al giudice del rinvio, che è il solo competente a statuire
sui fatti della controversia principale e sulla documentazione relativa al
bando di gara in questione, verificare se per gli offerenti fosse in effetti
materialmente impossibile indicare i costi della manodopera conformemente
all'articolo 95, comma 10, del codice dei contratti pubblici e valutare se,
di conseguenza, tale documentazione generasse confusione in capo agli
offerenti, nonostante il rinvio esplicito alle chiare disposizioni del
succitato codice. Nell'ipotesi in cui lo stesso giudice accertasse che
effettivamente ciò è avvenuto, occorre altresì aggiungere che, in tal caso,
in considerazione dei principi della certezza del diritto, di trasparenza e
di proporzionalità, l'amministrazione aggiudicatrice può accordare a un
simile offerente la possibilità di sanare la sua situazione e di ottemperare
agli obblighi previsti dalla legislazione nazionale in materia entro un
termine stabilito dalla stessa amministrazione aggiudicatrice (v., in tal
senso, sentenza del 02.06.2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto 51, e
ordinanza del 10.11.2016, Spinosa Costruzioni Generali e Melfi, C-162/16,
non pubblicata, EU:C:2016:870, punto 32)”.
Il Tar ha osservato che nel concreto caso di specie il disciplinare di gara
sanzionava espressamente con l’esclusione dalla gara la mancata indicazione
degli oneri aziendali relativi alla sicurezza, senza operare alcun
riferimento ai costi della manodopera.
Il Tar ha chiarito che la dichiarazione dell’aggiudicataria che i costi
della sicurezza sono “pari a zero” ha natura meramente apparente, dal
momento che, nella sostanza, si risolve nella negazione dell’obbligo che
grava sull’impresa rispetto alla ostensione dei costi in questione e nella
elusione delle esigenze di tutela sottese all’art. 95, comma 10, del codice
dei contratti.
Il Tar ha aggiunto che la giustificazione della ditta, con la dichiarazione
che gli oneri di sicurezza risultano già regolarmente ammortizzati
nell’esecuzione di pregresse commesse, appare manifestamente incongrua ed
irragionevole, dal momento che in materia di appalti di lavori gli oneri per
la sicurezza rappresentano un costo normalmente non eludibile, e che -a
rigor di logica- eventuali vantaggi conseguiti in precedenti commesse, non
assumono immediata e diretta rilevanza rispetto alla commessa a cui si
riferisce la dichiarazione
(TAR Molise,
sentenza 03.06.2019 n. 204 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Commissari
di gara, nessun compenso minimo.
Annullato il Decreto Ministeriale del MIT sui compensi minimi dei commissari
di gara: la legge prevede solo i compensi massimi
Il decreto del MIT per la determinazione dei compensi
dei commissari di gara (Decreto 12.02.2018) deve essere annullato nella
parte in cui fissa il compenso lordo minimo per i componenti della
commissione giudicatrice di cui all’art. 77 del Codice degli appalti, mentre
secondo la legge doveva prevedere solo il massimo.
---------------
1. Il Comune ricorrente ha impugnato il decreto del 12.02.2018, emanato dal
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di concerto con il Ministero
dell’Economia e delle Finanze, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
16.04.2018, avente ad oggetto: “Determinazione della tariffa di
iscrizione all’albo dei componenti delle commissioni giudicatrici e relativi
compensi”, nella parte in cui fissa anche un compenso minimo come da
allegato A del decreto.
Si tratta di decreto emanato in virtù del comma 10 dell’art. 77 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (“Codice degli appalti”) che, al secondo capoverso,
ha previsto che “Con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze,
sentita l'ANAC, è stabilita la tariffa di iscrizione all'albo e il compenso
massimo per i commissari. I dipendenti pubblici sono gratuitamente iscritti
all'Albo e ad essi non spetta alcun compenso, se appartenenti alla stazione
appaltante”.
Il Ministero, con il decreto impugnato, ha fissato anche i compensi minimi
dei commissari, posti come limite minimo inderogabile.
Inoltre, nella tabella dei compensi allegata al decreto, sono previsti solo
tre scaglioni di valore ed il primo, quello minore, è stato così fissato: €
20.000.000,00 per gli appalti di lavori - concessioni di lavori; €
1.000.000,00 per appalti e concessioni di servizi - appalti di forniture; €
200.000,00 per appalti di servizi di ingegneria e di architettura. Con
riferimento a tutte le tre riportate tipologie di gara è stato previsto, per
lo scaglione più basso, quale compenso minimo per ciascun commissario,
l’importo di € 3.000,00 oltre rimborso spese.
Il Comune riferisce di non disporre, nella propria pianta organica, di
figure professionali in numero sufficiente a ricoprire tutti i ruoli di
commissari nelle commissioni giudicatrici di gare pubbliche e osserva che
nel suo caso, comune di piccole dimensioni in cui la maggior parte delle
gare sono di importi di gran lunga inferiori allo scaglione minimo per tutte
e tre le tipologie di appalti, il decreto in parola comporterà
l’impossibilità di procedere a buona parte delle gare necessarie al
perseguimento dei fini istituzionali, attesa l’esosità dei rimborsi minimi
previsti per i commissari di gara.
Quindi ha censurato il provvedimento per i seguenti motivi.
1) Illegittimità - violazione di legge: art. 77 comma 10 del Codice
degli appalti - eccesso di potere per eccesso dell’attribuzione di
competenza ed erroneità dei presupposti - arbitrarietà - difetto di
istruttoria.
L’atto impugnato violerebbe l’art. 77, comma 10, del “Codice degli
appalti” il quale demanda al Ministero la previsione di un compenso
massimo per i commissari, al fine di contenere la spesa pubblica e non
anche, dunque, la previsione di un compenso minimo.
2) Eccesso di potere: illogicità - irragionevolezza - sviamento –
violazione dell’art. 37 Codice degli appalti.
Sarebbe illogica e viziata la previsione di un compenso minimo di € 3.000,00
da corrispondere a ciascun componente la commissione giudicatrice, sia per
l’attività prestata per un appalto di lavori per complessivi € 20.000.000,00
sia per un appalto di importo ben inferiore, ad esempio di € 80.000,00.
Inoltre molte gare bandite dai Comuni sono rese possibili dall’utilizzo di
finanziamenti europei FESR, per i quali è espressamente previsto che le
spese generali siano contenute nel limite massimo del 10/12%; limite che, di
fatto, viene rispettato anche in gare non finanziate. Tuttavia detto limite
non potrebbe essere rispettato stanti i minimi tariffari fissati
dall’impugnato decreto. Infatti, con un costo per il funzionamento della
commissione non inferiore a € 10.980.00, sarebbe impossibile bandire tutte
le gare di importo inferiore o uguale a € 91.500,00, perché già il solo
costo della commissione risulterebbe superiore/uguale al 12% fissato per le
spese generali.
L’amministrazione intimata si è costituita in giudizio solo formalmente,
depositando una nota esplicativa a firma del Ragioniere Generale dello
Stato, nella quale si chiarisce che la fissazione del compenso minimo era
stata concordata con l’ANAC.
Con
ordinanza n. 4713 del 02.08.2018 il DM impugnato è stato sospeso
limitatamente alla fissazione di tariffe minime.
...
2. Il ricorso è fondato e va accolto.
L’art. 77, comma 10, D.Lgs. 50/2016 prevede che “Con decreto del
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, sentite l’ANAC, è stabilita la tariffa di
iscrizione all’albo e il compenso massimo per i commissari”.
Come già rilevato in sede cautelare, il decreto impugnato,
travalicando i limiti normativamente imposti al suo oggetto, ha fissato
anche il compenso minimo per fasce di valore degli appalti a partire da €
3.000,00, ma ciò in mancanza di copertura legislativa.
Non può essere condivisa quindi la tesi dell’amministrazione, rilevabile
dalla nota del 03.07.2018 del Dipartimento della Ragioneria generale dello
Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze, secondo cui la fissazione
di un compenso minimo è una “eventualità non proibita dalla norma
primaria”.
Invero va considerato il principio secondo cui il
legislatore ubi voluit dixit: nella disposizione in rassegna il
legislatore parla espressamente di compenso “massimo”, senza lasciare
margini interpretativi in ordine alla possibilità di stabilire anche un
compenso “minimo” o un compenso tout court, sicché ogni
opzione ermeneutica che si risolvesse nell'aggiunta di un diverso “limite”
da fissare dev'essere rifiutata “in quanto finirebbe per far dire alla
legge una cosa che la legge non dice (e che, si presume, secondo il suddetto
canone interpretativo, non voleva dire)”
(TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 06.03.2019, n. 3023).
Inoltre deve aversi riguardo alla ratio sottesa alla
disposizione in parola, che è quella del contenimento della spesa, reso
possibile anche attraverso specifici meccanismi di trasparenza.
Invero, nella relazione illustrativa della disposizione è
espressamente indicato che “le spese relative alla commissione sono
inserite nel quadro economico dell'intervento tra le somme a disposizione
della stazione appaltante. Lo stesso comma prevede l’emanazione di un
decreto ministeriale (emanato dal Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze,
sentita l'ANAC) per la determinazione della tariffa di iscrizione all'albo e
del compenso massimo per i commissari. I dipendenti pubblici sono
gratuitamente iscritti all'Albo e ad essi non spetta alcun compenso, se
appartenenti alla stazione appaltante”.
Dunque, dovendo le spese per il funzionamento della
commissione costituire una voce del quadro economico dell’intervento, mentre
si spiega la fissazione di un compenso “massimo”, va in direzione
decisamente contraria la fissazione di un compenso “minimo”.
Né, ad attribuire legittimità all’impugnato decreto, può soccorrere la
circostanza, rappresentata dall’amministrazione nella nota innanzi citata,
che la previsione di una misura minima dei compensi era stata condivisa con
l'ANAC, che, con proprio parere del 02.11.2017, aveva evidenziato come la
fissazione di un limite minimo del compenso avrebbe consentito “di
scongiurare il rischio di determinazione del compenso al ribasso, a
detrimento della prestazione”; si tratta di una esigenza che, per quanto
apprezzabile, non poteva essere soddisfatta con lo strumento in parola, non
essendo tale possibilità contemplata in una norma primaria.
Per completezza espositiva, e ferma restando l’illegittimità del decreto per
le ragioni evidenziate, deve ulteriormente osservarsi che,
se la ratio della censurata opzione, consistita di fatto in uno
sconfinamento dal perimetro dei poteri normativamente attribuiti al
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, fosse da ravvisare nella
volontà di dare decoro e dignità alla prestazione del commissario di gara,
risulterebbe altresì irragionevole la soglia minima del compenso, così come
livellata uniformemente in € 3.000,00 pur a fronte di procedure di
complessità e di valore significativamente diversi.
Conclusivamente, per quanto precede, il ricorso deve essere accolto e, per
l’effetto, il decreto impugnato deve essere annullato nella
parte in cui fissa il compenso lordo minimo per i componenti della
commissione giudicatrice di cui all’art. 77 del “Codice degli appalti”
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 31.05.2019 n. 6926 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha più volte affermato che in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio il Comune non può esimersi dal
verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici
sull’intervento proposto, ciò tuttavia vale solo nel caso in cui tali limiti
siano realmente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati,
di modo che il controllo da parte del Comune si traduca in una mera presa
d’atto, senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita disamina
dei rapporti tra privati.
---------------
7.1 - Tanto precisato, sono gli stessi appellanti a ricordare che
allorquando si invoca l’usucapione occorre fornire la prova circa l’uso
esclusivo, pacifico, pubblico ed incontrastato del bene, nonché la prova
della durata ultraventennale continua del preteso possesso (cfr. Corte Cass.,
14.01.2013, n. 709).
E’ evidente che un accertamento del genere comporta un’intensa attività
istruttoria (così come per l’accertamento di una eventuale servitù
costituita per destinazione del padre di famiglia), che non può ritenersi
esigibile in capo all’amministrazione, la quale nel rilascio dei titoli
edilizi, in rapporto all’assetto proprietario dei beni ed alla sussistenza
di vincoli di natura reale sugli stessi, tendenzialmente deve basarsi sui
dati desumibili dai pubblici registri e dai titoli documentali di
provenienza dei beni, anche per evidenti ragioni di certezza.
Al riguardo, la giurisprudenza ha più volte affermato che in sede di
rilascio del titolo abilitativo edilizio, il Comune non può esimersi dal
verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici
sull’intervento proposto, ciò tuttavia vale solo nel caso in cui tali limiti
siano realmente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati,
di modo che il controllo da parte del Comune si traduca in una mera presa
d’atto, senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita disamina
dei rapporti tra privati (Cfr. Cons. St., Sez IV, 30.12.2006 n. 8262; Cons. st. Sez VI, 20.12.2011 n. 6731; Cons. st. 26.01.2015 n.
316).
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve dunque essere confermata
la sentenza impugnata dove ha ritenuto che l’usucapione, come eccepita dai
ricorrenti, ai fini del presente giudizio “per valere come titolo
costitutivo di un diritto reale deve essere accertata dal giudice competente
in una sentenza come tale trascrivibile a garanzia della certezza delle
situazioni giuridiche”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.05.2019 n. 3675 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ai fini della legittimità di un atto amministrativo fondato su di
una pluralità di ragioni, fra loro autonome, è sufficiente che anche una
sola fra esse sia riconosciuta idonea a sorreggere l'atto medesimo, mentre
le doglianze formulate avverso gli altri motivi devono ritenersi carenti di
un sottostante interesse a ricorrere, giacché in nessun caso le stesse
potrebbero portare all'invalidazione dell'atto.
---------------
8 – Al rigetto delle censure appena esaminate consegue l’irrilevanza
dell’ulteriore doglianza svolta nei confronti del provvedimento di diniego
relativa al regime proprietario dell’area sulla quale insiste il fabbricato
oggetto di sanatoria.
Invero, ai fini della legittimità di un atto amministrativo fondato su di
una pluralità di ragioni, fra loro autonome, è sufficiente che anche una
sola fra esse sia riconosciuta idonea a sorreggere l'atto medesimo, mentre
le doglianze formulate avverso gli altri motivi devono ritenersi carenti di
un sottostante interesse a ricorrere, giacché in nessun caso le stesse
potrebbero portare all'invalidazione dell'atto (ex multis Cons. St. sez. IV,
07.04.2015, n. 1769)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.05.2019 n. 3675 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino.
---------------
9 - Con il terzo motivo di appello si critica la sentenza impugnata
nel punto in cui ha ritenuto che il potere di applicare misure repressive in
materia urbanistica ed edilizia possa essere esercitato in ogni tempo e
senza la necessità di una specifica motivazione in ordine alla perdurante
sussistenza di un interesse pubblico a disporre una demolizione.
9.1 – Anche su tale aspetto la sentenza di primo grado deve trovare
conferma.
La questione è stata infatti risolta dal recente arresto dell’Adunanza
Plenaria (Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9), alla quale il
Collegio aderisce, secondo la quale: “il provvedimento con cui viene
ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, per
la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.05.2019 n. 3675 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere precarie sottratte al permesso di costruire -
Destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente
precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e
limitati nel tempo - Necessità - Artt. 3, 10, 44 d.P.R. n.
380/2001 - Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Al fine di ritenere sottratto un
manufatto al preventivo rilascio del permesso di costruire
in ragione della sua asserita natura precaria, la stessa non
può essere desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve
ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale
dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per
fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con
conseguente possibilità di successiva e sollecita
eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua
rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo.
...
Nozione di costruzione urbanistica - Incremento del carico
urbanistico - Manufatti non precari - Parametri
analogicamente applicati ad opere simili - Giurisprudenza
amministrativa - Art. 3, lett. e), d.P.R. n. 380/2001 - Art.
812 cod. civ..
Per l'individuazione della nozione di
costruzione urbanistica, non è determinante l'incorporazione
nel suolo indispensabile per identificare, a norma dell'art.
812 cod. civ., il bene immobile, essendo sufficiente la
destinazione del bene ad essere utilizzato come bene
immobile, con la conseguenza che l'elencazione contenuta
nell'art. 3, lett. e) d.P.R. n. 380/2001, non può
considerarsi esaustiva, giacché i parametri indicati possono
essere analogicamente applicati ad opere simili.
A conclusioni analoghe è pervenuta anche la giurisprudenza
amministrativa, secondo la quale i manufatti non precari, ma
funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno
considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con
un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla
rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie,
posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco)
non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è
destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel
tempo in quanto stagionale
(Cons. Stato Sez. VI n. 2842 del 03/06/2014).
...
Natura e destinazione dell'opera precaria - Caratteristiche
specifiche - Giurisprudenza - Lavori soggetti a permesso di
costruire.
L'opera precaria, per la sua stessa
natura e destinazione, non comporta effetti permanenti e
definitivi sull'originario assetto del territorio tali da
richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo,
pertanto, l'intervento precario deve necessariamente
possedere alcune specifiche caratteristiche: la sua
precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data all'opera
dall'utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche
costruttive i materiali impiegati e l'agevole amovibilità;
deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso
realmente precario per fini specifici, contingenti e
limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita
eliminazione alla cessazione dell'uso
(Cass. Sez. 3, n. 36107/2016, Arrigoni e altro; Sez. 3, n.
6125/2016, Arcese; Sez. 3, n. 16316/2015, Curt; Sez. 3, n.
966/2015, Manfredini).
In conclusione, sono soggetti a permesso di
costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U.E., tutti
gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di
volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio,
determinando una trasformazione in via permanente del suolo
inedificato (Cass.
Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep. 2017), Palma)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.05.2019 n. 24149 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Poteri, doveri e verifiche
del giudice penale - Legittimità del permesso di costruire
in sanatoria - Conformità delle opere agli strumenti
urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina
legislativa in materia urbanistico-edilizia - Legittimità
dell'autorizzazione paesaggistica.
Il giudice penale ha il potere-dovere di
verificare in via incidentale la legittimità del permesso di
costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli
strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla
disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia,
senza che ciò comporti l'eventuale "disapplicazione"
dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge
20.03.1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una
identificazione in concreto della fattispecie con
riferimento all'oggetto della tutela, da identificarsi nella
salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio
regolati dagli strumenti urbanistici
(Cass. Sez. 3, n. 46477/2017, Menga e altri, nonché, con
riferimento all'autorizzazione paesaggistica, Sez. 3, n.
38856/2018, Schneider e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.05.2019 n. 24149 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Edilizia ed urbanistica – Attività edilizia – Opera precaria – Nozione –
Individuazione.
2. Edilizia ed urbanistica – Permesso di costruire – Necessità –
Casi in cui sussiste – Individuazione.
1. La precarietà di una opera edilizia non
può essere desunta dalle caratteristiche costruttive, dai materiali
impiegati o dall’agevole sua amovibilità; invero, una opera precaria, per
essere considerata tale, deve avere una intrinseca destinazione materiale ad
un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo e deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione
dell’uso (1).
2. Sono soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto
disposto dal T.U. (v. in part. l’art. 10, lett. a) del d.P.R. 380 del 2001),
tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi,
incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una
trasformazione in via permanente del suolo inedificato (2).
Tra gli interventi di nuova costruzione indicati, dall’art. 3, alla lettera
e), del T.U. sono elencati, nella attuale stesura, “l’installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere,
quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati
come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e
simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all’aperto
per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il
profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità
alle normative regionali di settore”.
Sono quindi soggetti a permesso di costruire tutte le strutture, di
qualsiasi genere, tra le quali sono comprese quelle elencate a titolo di
esempio, che siano destinate ad una stabile utilizzazione, non meramente
transitoria (3).
---------------
(1) Cfr. Cass. Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro,
Rv. 267759; Sez. 3, n. 6125 del 21/01/2016, Arcese, non massimata; Sez. 3,
n. 16316 del 15/01/2015, Curti, non massimata; Sez. 3, n. 966 del 26.11.2014
(dep. 2015), Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 25965 del 22/06/2009,
Bisulca, non massimata.
(2) Cfr. Cass., Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep.2017), Palma,
Rv. 268847; Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015), Agostini, Rv.
262475; Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.G. in proc. Dominelli
e altro, Rv. 242741; Sez. 3, n. 6930 del 27/01/2004, laccarino, Rv. 227566;
Sez. 3, n. 6920 del 21/01/2004, Perani, Rv. 227565; Sez. 3, n. 38055 del
30/09/2002, Raciti, Rv. 222849 ed altre prec. conf..
(3) Ha precisato la sentenza in rassegna che l’esplicita menzione
di detta tipologia di interventi nel Testo Unico ha, di fatto, codificato la
figura giuridica di “costruzione” elaborata dalla giurisprudenza
prima dell’entrata in vigore del TU. e nella quale rientravano tutti quei
manufatti che, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comunale, modificavano lo stato dei luoghi, in quanto, difettando
obiettivamente del carattere di assoluta precarietà, erano destinati almeno
potenzialmente a perdurare nel tempo, non avendo peraltro alcun rilievo a
riguardo la distinzione tra opere murarie e di altro genere, né il mezzo
tecnico con cui fosse assicurata la stabilità del manufatto al suolo (o al
muro perimetrale di quello esistente), in quanto la stabilità non va confusa
con l’irrevocabilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad
essa assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione
dell’opera a soddisfare un bisogno non temporaneo (così Sez. 3, n. 9138 del
07/07/2000, RM. in proc. Migliorini T. ed altro, Rv. 217217 ed altre prec.
conf.).
Si è successivamente avuto modo di precisare che, ai fini della
individuazione della nozione di costruzione urbanistica, non è determinante
l’incorporazione nel suolo indispensabile per identificare, a norma
dell’art. 812 cod. civ., il bene immobile, essendo sufficiente la
destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile, con la
conseguenza che l’elencazione contenuta nel menzionato art. 3, lett. e) non
può considerarsi esaustiva, giacché i parametri indicati possono essere
analogicamente applicati ad opere simili (Sez. 3, n. 37766 del 07/07/2005,
Terrin, non massimata).
A conclusioni analoghe è pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa,
secondo la quale i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei
luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando
la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo
o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato
ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale
(Cons. Stato Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842) (massima e commento tratti da
www.lexitalia.it)).
---------------
SENTENZA
3. Va considerato, quanto alla consistenza dell'opera, che le dedotte
caratteristiche di precarietà e facile amovibilità sono platealmente
smentite dalla descrizione della stessa effettuata nella sentenza di appello
sulla base delle emergenze processuali valorizzate nel giudizio di primo
grado.
Si specifica, infatti, che dalla documentazione fotografica (e non anche,
dunque, sulla sola base di dichiarazioni testimoniali) il manufatto
realizzato si presentava come stabilmente infisso al suolo e dotato di
pavimentazione circoscritta da un muretto di contenimento, aggiungendo, poi,
che l'opera poggiava su pilastri in ferro, a loro volta ancorati su plinti
in cemento armato e che, all'atto del sopralluogo da parte della polizia
giudiziaria, era stato accertato anche un cambiamento del livello
planovolumetrico e planoaltimetrico del terreno su cui l'opera era stata
realizzata. In altra parte della sentenza impugnata (pag. 7) si evidenzia,
poi, che i plinti su cui poggiava il manufatto "erano infissi su di una
zattera in cemento sulla quale era stata poi posta una pavimentazione in
lastre di pietra leccese".
Avuto riguardo a tali caratteristiche costruttive, risulta evidente che la
dedotta precarietà dell'opera è del tutto insussistente.
4. Occorre a tale proposito richiamare l'attenzione su quanto già precisato
in tema di interventi precari (Sez. 3, n. 31388 del 27/04/2018, Serio, non
massimata), ricordando che l'art. 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001
individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire,
quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene fornita dall'art. 3
dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che si intendono come
tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti
(che riguardano, lo si ricorda, gli interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di
ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da considerarsi
come interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere singolarmente
indicate in un elenco la cui natura è meramente esemplificativa e ricavata
utilizzando le qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge
dalla semplice lettura della della relazione illustrativa al T.U.
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli eventualmente individuati
con legge dalle regioni ai sensi del comma terzo del menzionato art. 3 e che
pertanto, in relazione all'incidenza sul territorio e sul carico
urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di
costruire.
Sono dunque
soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal
T.U., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di
volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una
trasformazione in via permanente del suolo inedificato
(cfr. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep. 2017), Palma, Rv. 268847; Sez. 3,
n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015), Agostini, Rv. 262475; Sez. 3, n. 8064
del 02/12/2008 (dep. 2009), PG. in proc. Dominelli e altro, Rv. 242741; Sez.
3, n. 6930 del 27/01/2004, laccarino, Rv. 227566; Sez. 3, n. 6920 del
21/01/2004, Perani, Rv. 227565; Sez. 3, n. 38055 del 30/09/2002, Raciti, Rv.
222849 ed altre prec. conf.).
Tra gli interventi di nuova costruzione indicati, dall'art. 3, alla lettera
e5), citata dalla ricorrente, sono elencati, nella attuale stesura, "l'installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee o siano ricom presi in strutture ricettive
all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate
sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in
conformità alle normative regionali di settore".
La medesima disposizione, che ha subito nel tempo diverse modifiche, era
così formulata all'epoca dei fatti per cui è processo: "l'installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee".
Le differenze, per quel che qui interessa, non rilevano, essendo chiara la
finalità della norma di considerare interventi di nuova costruzione, quindi
soggetti a permesso di costruire, tutte le strutture, di qualsiasi genere,
tra le quali sono comprese quelle elencate a titolo di esempio, che siano
destinate ad una stabile utilizzazione, non meramente transitoria.
L'esplicita menzione di detta tipologia di interventi nel
Testo Unico ha, di fatto, codificato la figura giuridica di "costruzione"
elaborata dalla giurisprudenza prima dell'entrata in vigore del TU. e nella
quale rientravano tutti quei manufatti che, comportando una trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio comunale, modificavano lo stato dei
luoghi, in quanto, difettando obiettivamente del carattere di assoluta
precarietà, erano destinati almeno potenzialmente a perdurare nel tempo, non
avendo peraltro alcun rilievo a riguardo la distinzione tra opere murarie e
di altro genere, né il mezzo tecnico con cui fosse assicurata la stabilità
del manufatto al suolo (o al muro perimetrale di quello esistente), in
quanto la stabilità non va confusa con l'irrevocabilità della struttura o
con la perpetuità della funzione ad essa assegnata dal costruttore, ma si
estrinseca nell'oggettiva destinazione dell'opera a soddisfare un bisogno
non temporaneo (così Sez. 3, n.
9138 del 07/07/2000, P.M. in proc. Migliorini T ed altro, Rv. 217217 ed
altre prec. conf.).
Si è successivamente avuto modo di precisare che, ai fini della
individuazione della nozione di costruzione urbanistica, non è determinante
l'incorporazione nel suolo indispensabile per identificare, a norma
dell'art. 812 cod. civ., il bene immobile, essendo sufficiente la
destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile, con la
conseguenza che l'elencazione contenuta nel menzionato art. 3, lett. e) non
può considerarsi esaustiva, giacché i parametri indicati possono essere
analogicamente applicati ad opere simili (Sez. 3, n. 37766 del 07/07/2005,
Terrin, non massimata).
A conclusioni analoghe è pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa,
secondo la quale i manufatti non precari, ma funzionali a
soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo
stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla
rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario
(es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti,
ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in
quanto stagionale (Cons. Stato
Sez. VI n. 2842 del 03/06/2014).
Tali considerazioni coincidono, peraltro, con la nozione di precarietà
dell'intervento edilizio in genere, individuata dalla giurisprudenza di
questa Corte.
5. Gli interventi edilizi precari, categoria già individuata dalla
giurisprudenza e dalla dottrina con inequivocabile indicazione delle
specifiche caratteristiche, sono ora espressamente menzionati dall'art. 6
del d.P.R. 380/2001 che, nell'attuale formulazione, li descrive al comma 1,
lett. e-bis) come opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti
e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità
e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa
comunicazione di avvio lavori all'amministrazione comunale.
In precedenza, il testo unico dell'edilizia conteneva riferimenti indiretti,
che riguardavano gli interventi di cui all'art. 3, comma primo, lett. e.5) e
quelli per le attività di ricerca descritti nell'art. 6.
L'opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione,
non comporta effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del
territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo
abilitativo e la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato
che l'intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche
caratteristiche: la sua precarietà non può essere desunta dalla temporaneità
della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore; sono
irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l'agevole
amovibilità; deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso
realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo;
deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso
(cfr. ex. pl . Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro, Rv.
267759; Sez. 3, n. 6125 del 21/01/2016, Arcese, non massimata; Sez. 3, n.
16316 del 15/01/2015, Curti, non massimata; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014
(dep. 2015), Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 25965 del 22/06/2009,
Bisulca, non massimata).
Nel caso di specie, come si è osservato, i necessari requisiti individuati
dalla richiamata giurisprudenza mancano del tutto ed, anzi, le
caratteristiche costruttive accertate depongono, unitamente alla rilevata
alterazione planovolumetrica e pianoaltimetrica del terreno, per un
intervento destinato a durare nel tempo che ha già determinato una modifica
dell'originario assetto dell'area su cui insiste.
Un'ulteriore conferma di una simile evenienza, che il ricorrente non coglie,
è data dal fatto che, per dette opere, l'interessato ha ritenuto di dover
richiedere un permesso di costruire in sanatoria (il cui rilascio viene
ripetutamente enfatizzato in ricorso per sostenere la legittimità
dell'intervento edilizio), che non sarebbe affatto necessario per un
intervento precario nel senso dianzi individuato, atteso che la natura
dell'opera precaria, che non determina stabili trasformazioni del
territorio, non richiede per la sua realizzazione, come si è detto, alcun
titolo abilitativo.
6. Deve pertanto ribadirsi che al fine di ritenere
sottratto un manufatto al preventivo rilascio del permesso di costruire in
ragione della sua asserita natura precaria, la stessa non può essere desunta
dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal
costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale
dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva
e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua
rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo.
7. Per ciò che concerne, inoltre, il permesso di costruire in sanatoria, di
cui diffusamente tratta il ricorso, deve in primo luogo osservarsi che lo
stesso non è stato affatto "disapplicato" dai giudici dell'appello, i
quali, invece, ne hanno evidenziato la estraneità rispetto alle opere
effettivamente realizzate, osservano che lo stesso riguarda una struttura "con
pannellature in vetro del tutto amovibili... fondazione realizzata con
plinti prefabbricati, inseriti direttamente nella sabbia e su di essi
poggeranno le travi in prefabbricato fissate ai plinti mediante particolari
bullonature. La piattaforma, costituita da pannelli portanti prefabbricati,
è poggiata sulle predette travi assemblate".
La Corte di appello, dunque, con motivazione del tutto coerente e logica e,
come tale, insindacabile in questa sede di legittimità, ha operato un
doveroso confronto tra quanto autorizzato e ciò che è stato effettivamente
realizzato, escludendo, conseguentemente, la rispondenza delle opere al
titolo abilitativo postumo.
Va in ogni caso osservato che la giurisprudenza di questa Corte ha
ripetutamente affermato che il giudice penale ha il
potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso
di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti
urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in
materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l'eventuale "disapplicazione"
dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n.
2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto
della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela, da identificarsi
nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati
dagli strumenti urbanistici (si
veda, da ultimo, Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga e altri, Rv. 273218,
nonché, con riferimento all'autorizzazione paesaggistica, Sez. 3, n. 38856
del 4/12/2017 (dep. 2018), Schneider e altro, Rv. 273703).
Si tratta, peraltro, di un indirizzo interpretativo ormai consolidato,
rispetto al quale si è dato ripetutamente conto anche di soluzioni
interpretative solo apparentemente difformi e di altre, isolate, di non
decisiva incidenza rispetto ad una stabile giurisprudenza ormai
ultraventennale (si veda, a tale proposito, quanto evidenziato in Sez. 3, n.
50648 del 09/10/2018, Fabbri, non massimata; Sez. 3, n. 56678 del
21/09/2018, lodice, non massimata; Sez. 3, n. 49687 del 07/06/2018, Bruno
non massimata).
E' appena il caso di ricordare, poi, che il conseguimento del permesso di
costruire in sanatoria avrebbe comunque comportato l'estinzione dei soli
reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, non spiegando
effetti rispetto alle violazioni del codice della navigazione e del codice
dei beni culturali e del paesaggio pure contestate nel presente procedimento
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.05.2019 n. 24149). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Illecito trasporto di rifiuti effettuato con il
mezzo del coniuge - Confisca obbligatoria del mezzo -
Proprietario del mezzo terzo estraneo - Onere di provare la
buona fede - Non collegabile ad un comportamento negligente
- Artt. 183, 208, 209, 211, 212, 214, 215, 216, 256, 259
d.lgs n. 152/2006.
In tema di illecita gestione dei
rifiuti, al fine di evitare la confisca obbligatoria del
mezzo prevista per il trasporto in assenza di valido titolo
abilitativo dall'art. 259, comma secondo, d.lgs. 152/2006,
incombe al terzo estraneo al reato, individuabile in colui
che non ha partecipato alla commissione dell'illecito ovvero
ai profitti che ne sono derivati, l'onere di provare la sua
buona fede, ovvero che l'uso illecito del mezzo gli era
ignoto e non collegabile ad un suo comportamento negligente.
...
RIFIUTI - Attività di gestione dei rifiuti - Assenza di
valido titolo abilitativo - Natura di reato istantaneo -
Esclusione dell'occasionalità della condotta - Dati
significativi - Effetti della sentenza di condanna - Art.
444 cod. proc. pen..
Il trasporto dei rifiuti rientra tra le
attività di gestione, come espressamente previsto dall'art.
183, lett. n), d.lgs. 152/2006 e la sua effettuazione in
assenza di valido titolo abilitativo configura un'ipotesi di
illecita gestione sanzionata dall'art. 256 d.lgs. 152/2006.
Trattandosi, nel caso dell'art. 256, comma 1, d.lgs.
152/2006, di reato istantaneo, è sufficiente anche una sola
condotta integrante una delle ipotesi alternative previste
dalla norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità
della condotta da dati significativi, quali l'ingente
quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività
implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla
preliminare raccolta e cernita dei materiali.
Alla sentenza di condanna per tale reato (o a quella emessa
ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen.) consegue, come
stabilito dall'art. 259, ultimo comma, d.lgs. 152/2006, la
confisca obbligatoria del mezzo di trasporto.
...
RIFIUTI - Configurabilità del reato di gestione abusiva di
rifiuti - Concreta attività posta in essere in assenza dei
prescritti titoli abilitativi - Non occasionalità della
condotta - Indicazione di alcuni elementi significativi non
esaustivi - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato
di gestione abusiva di rifiuti, (art. 256, d.lgs. 152/2006)
non rileva la qualifica soggettiva dell'agente, bensì la
concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti
titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o
in modo secondario, purché non sia caratterizzata da
assoluta occasionalità, da escludersi in ragione
dell'esistenza di una minima organizzazione dell'attività,
del quantitativo dei rifiuti gestiti, della predisposizione
di un veicolo adeguato e funzionale al loro trasporto, dello
svolgimento in più occasioni delle operazioni preliminari di
raccolta, raggruppamento e cernita dei soli metalli, della
successiva vendita e del fine di profitto perseguito
dall'imputato.
Agli elementi significativi, indicativi lo svolgimento di
un'attività implicante un "minimum" di organizzazione
necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei
materiali, per individuare la natura non occasionale
dell'attività di trasporto, vanno considerati, anche
alternativamente, altri elementi univocamente sintomatici,
quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una
determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che
effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei
rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del
rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività
preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita,
deposito (Sez. 3,
n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
Tuttavia, l'indicazione dei dati
significativi della non occasionalità della condotta
precedentemente elencati non sono, ovviamente, esaustivi,
ben potendo il giudice far ricorso ad altri elementi
obiettivamente significativi in relazione al caso concreto.
...
RIFIUTI - Confisca dei mezzi di trasporto appartenenti ad un
terzo estraneo al reato - Buona fede - Violazione di
obblighi di diligenza - Addebito di negligenza - Terzo
proprietario estraneo al reato - Onere della prova.
In materia di rifiuti, la confisca dei
mezzi di trasporto appartenenti ad un terzo estraneo al
reato non possa essere ordinata, sempre che nei suoi
confronti non sia individuata la violazione di obblighi di
diligenza e che risulti la buona fede, intesa quale assenza
di condizioni che rendano probabile a suo carico un
qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la
possibilità dell'uso illecito della cosa e senza che
esistano collegamenti, diretti o indiretti, ancorché non
punibili, con la consumazione del reato.
Pertanto, grava sul terzo proprietario estraneo al reato
l'onere di una rigorosa dimostrazione del necessario
presupposto della buona fede, ovvero di non essere stato a
conoscenza dell'uso illecito del mezzo o che tale uso non
era collegabile ad un proprio comportamento negligente, al
fine di ottenere la restituzione del mezzo ed evitare la
confisca, rilevando anche che, in tali casi, la
dimostrazione richiesta la terzo proprietario non configura
un'ipotesi di inversione di onere della prova che la legge
penale non consente, poiché non riguarda l'accertamento
della responsabilità penale
(Sez. III n. 22026 del 29/04/2010, Grisetti; Conformi, Sez.
3, n. 46012 del 04/11/2008, Castellano; Sez. 3, n. 26529 del
20/05/2008, Torre; Sez. 3, n. 33281 del 24/06/2004, Datola) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.05.2019 n. 23818 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: La
giurisprudenza più volte ha evidenziato che l’obbligo di sopralluogo abbia
valenza sostanziale, e non meramente formale, per consentire ai concorrenti
di formulare un’offerta consapevole e più aderente alle necessità
dell’appalto, essendo esso strumentale a garantire una completa ed esaustiva
conoscenza dello stato dei luoghi e conseguentemente funzionale alla miglior
valutazione degli interventi da effettuare in modo da formulare, con
maggiore precisione, la migliore offerta tecnica ed economica.
E’ stato così ritenuto non censurabile l’operato della stazione appaltante
che aveva disposto l’esclusione dalla gara (bandita nella vigenza del
precedente Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n.
163) per non essere stato il sopralluogo effettuato da tutte le imprese di
un raggruppamento costituendo (ed in mancanza di deleghe rilasciate da
alcune di esse) rilevando che in quel caso specifico (in cui era la stessa
lex specialis a richiedere alle concorrenti “pena la non ammissione alla
gara” di effettuare “preliminarmente…la presa visione degli elaborati
progettuali a base di gara di appalto” ed eseguire apposito sopralluogo
assistito in prossimità dei siti oggetto dell'intervento) venisse in rilievo
“un adempimento che costituiva un elemento essenziale per la serietà e
adeguatezza dell’offerta (in applicazione del principio di
autoresponsabilità) e non una mera incompletezza o irregolarità
documentale”.
In quel caso è stato osservato altresì che la specifica previsione della lex
di gara (che espressamente comminava l’esclusione nell’ipotesi in cui
l’offerta economica non contenesse l’attestazione di presa visione e di
avvenuto sopralluogo) non fosse contraria alla normativa di settore o
contraria al principio di tassatività delle cause di esclusione e di massima
partecipazione alle gare (oltre che di parità di trattamento, trasparenza,
imparzialità dell’azione amministrativa) in quanto funzionale a mettere la
stazione appaltante al riparo da contestazioni postume e a garantire anche
il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di
gara (oggetto dell’affidamento in quel caso era la progettazione esecutiva,
previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, e l’
esecuzione dei lavori di dragaggio di fondali portuali).
---------------
9. L’appello, i cui motivi possono essere trattati congiuntamente, è
infondato, così che si può prescindere dall’esame dell’eccezione preliminare
di inammissibilità e improcedibilità del ricorso di primo grado, riproposta
dall’amministrazione appellata.
9.1. E’ sicuramente corretta la premessa, condivisa anche dal primo giudice,
da cui muove l’appellante: è, infatti, vero che la giurisprudenza più volte
ha evidenziato che l’obbligo di sopralluogo abbia valenza sostanziale, e non
meramente formale, per consentire ai concorrenti di formulare un’offerta
consapevole e più aderente alle necessità dell’appalto, essendo esso
strumentale a garantire una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei
luoghi e conseguentemente funzionale alla miglior valutazione degli
interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore precisione, la
migliore offerta tecnica ed economica (cfr. Cons. Stato, VI, n. 2800 del
23.06.2016; IV, 19.10.2015, 4778).
E’ stato così ritenuto (Cons. Stato, V, 19.02.2018, n. 1037) non censurabile
l’operato della stazione appaltante che aveva disposto l’esclusione dalla
gara (bandita nella vigenza del precedente Codice dei contratti pubblici di
cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) per non essere stato il sopralluogo
effettuato da tutte le imprese di un raggruppamento costituendo (ed in
mancanza di deleghe rilasciate da alcune di esse) rilevando che in quel caso
specifico (in cui era la stessa lex specialis a richiedere alle
concorrenti “pena la non ammissione alla gara” di effettuare “preliminarmente…la
presa visione degli elaborati progettuali a base di gara di appalto” ed
eseguire apposito sopralluogo assistito in prossimità dei siti oggetto
dell'intervento) venisse in rilievo “un adempimento che costituiva un
elemento essenziale per la serietà e adeguatezza dell’offerta (in
applicazione del principio di autoresponsabilità) e non una mera
incompletezza o irregolarità documentale”; in quel caso è stato
osservato altresì che la specifica previsione della lex di gara (che
espressamente comminava l’esclusione nell’ipotesi in cui l’offerta economica
non contenesse l’attestazione di presa visione e di avvenuto sopralluogo)
non fosse contraria alla normativa di settore o contraria al principio di
tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione alle gare
(oltre che di parità di trattamento, trasparenza, imparzialità dell’azione
amministrativa) in quanto funzionale a mettere la stazione appaltante al
riparo da contestazioni postume e a garantire anche il puntuale rispetto
delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara (oggetto
dell’affidamento in quel caso era la progettazione esecutiva, previa
acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, e l’ esecuzione dei
lavori di dragaggio di fondali portuali).
9.2. Sennonché tali principi non sono applicabili tout court al caso
di specie.
9.2.1. Innanzitutto deve rilevarsi che l’oggetto stesso della procedura di
gara (concernente la concessione della gestione tecnica della spiaggia
libera attrezzata “lotto A e B” del relativo punto di ristoro,
facente parte della concessione demaniale n. 15/2005 di cui è titolare il
Comune e quindi in alcun modo comparabile con quella di cui al ricordato
precedente giurisprudenziale) e le specifiche previsioni della legge di gara
non consentono di ritenere che lo svolgimento del sopralluogo (ed il
relativo attestato) avesse un valore sostanziale e fosse cioè indispensabile
per la corretta formulazione dell’offerta.
E’ significativo che la carenza dell’obbligo di sopralluogo di cui si
discute (pure astrattamente strumentale ad assicurare una piena ed esaustiva
conoscenza dei luoghi) non è stato sanzionato con l’esclusione dalla gara
dalla concorrente; né la previsione escludente può implicitamente ricavarsi
dalla disciplina normativa ratione temporis applicabile alla
fattispecie in oggetto: trattasi, infatti, di gara bandita nella vigenza del
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, disciplina che, da un lato, ha abrogato
(con l’art. 217, comma 1, lettera u, punto 2) l’art. 106 del d.P.R. 207 del
2010 (relativo all’obbligo di sopralluogo nei luoghi dell’appalto), senza
sostituirlo con ulteriori previsioni a riguardo, dall’altro all’art.
79, comma 2, fa sì riferimento alle ipotesi in cui “le offerte possono
essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi o dopo
consultazione sul posto dei documenti di gara”, ma solo per farne
conseguire la necessità che i termini per la presentazione delle offerte
siano calibrati in modo che gli operatori interessati “possano prendere
conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte”.
9.2.2. Pertanto corrette risultano le statuizioni della sentenza impugnata
che hanno ritenuto legittimo l’operato della stazione appaltante la quale,
in virtù del divieto di aggravio del procedimento e del principio di massima
partecipazione alle gare pubbliche, non poteva, in assenza di valide ragioni
oggettive e immediatamente percepibili legate all’oggetto della gara,
subordinare la partecipazione all’effettuazione del sopralluogo (e ricavarne
l’estromissione della concorrente nel caso di sua inosservanza).
Non può di conseguenza ravvisarsi in concreto nel comportamento tenuto
dall’amministrazione appellata alcuna violazione della par condicio
competitorum.
Infatti il bando di gara non prevedeva l’obbligo di sopralluogo a pena di
esclusione, in piena conformità alle statuizioni dell’art. 83, comma 8,
ultimo periodo in base al quale “i bandi e le lettere di invito non
possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a
quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge
vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle.”
A ciò aggiungasi che una simile clausola, ove prevista nella fattispecie,
avrebbe violato, come rilevato dal giudice di prime cure, i principi di
massima partecipazione alle gare e divieto di aggravio del procedimento,
ponendo in capo all’operatore economico in maniera irragionevole un onere
formale sproporzionato e ingiustificato, in quanto la sua inosservanza in
alcun modo impediva il perseguimento dei risultati verso cui era diretta
l’azione amministrativa, né il suo adempimento poteva dirsi funzionale a
garantire il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla
legge di gara (sul punto del resto alcuna prova è stata fornita al
riguardo).
9.2.3. Neppure era richiesta a pena di esclusione la presentazione,
all’interno della documentazione amministrativa, della “attestazione di
avvenuto sopralluogo” di cui al punto A.6 del bando di gara: ciò anche
in ragione del fatto che si trattava di un documento formato nel
contraddittorio con l’Amministrazione comunale e da questa rilasciato e
dunque già in possesso della stazione appaltante, risultandone perciò l’
inserimento nella detta documentazione meramente facoltativo e comunque
soccorribile.
In definitiva, l’esclusione della concorrente, invocata dall’appellante, non
poteva essere disposta neppure in forza di un’eventuale eterointegrazione
del bando poiché nessun principio generale, né alcuna norma imperativa,
prevedono l’obbligatorietà del sopralluogo nelle procedure di affidamento in
concessione della gestione di un bene pubblico, né la presentazione della
relativa attestazione.
9.3. A tali valutazioni, già di per sé idonee a fondare il rigetto del
gravame, deve poi aggiungersi che nel caso concreto l’obbligo di sopralluogo
deve ritenersi assolto pienamente dall’aggiudicataria, non risultando le
formalistiche censure di parte appellante idonee a sovvertire le motivazioni
rese a riguardo dalla sentenza di primo grado.
Il Comune ha, infatti, prodotto in giudizio la documentazione attestante la
legittimazione dei soggetti che avevano eseguito il sopralluogo, i quali, al
di là della costituzione formale della società (intervenuta comunque prima
della scadenza del termine di presentazione delle offerte), avevano
dichiarato di agire nell’interesse della società ai fini della
partecipazione alla gara: in particolare, è stata versata in atti la bozza
dell’atto costituivo recante la data del 27.12.2017 recante tutti i dati
identificativi della società con indicazione dei soci, presentata in
occasione del sopralluogo al fine di dimostrare la legittimazione del
soggetto che lo avrebbe effettuato.
Deve altresì rilevarsi che i soggetti intervenuti al sopralluogo non
soltanto avevano dichiarato di agire per conto e nell’interesse della
società, ma di quella compagine societaria facevano parte, in quanto soci e
amministratori.
Alla luce di tali risultanze pienamente valida ed efficace, ai fini che
interessano, deve ritenersi l’attestazione di presa visione dei luoghi in
data 29.12.2017.
Non è poi affatto priva di rilievo, come sostiene parte appellante, la
circostanza che il sopralluogo sia stato ripetuto alla presenza di
funzionari del Comune il 03.01.2018, in data successiva alla costituzione
della società (avvenuta il 02.01.2018) e prima della scadenza del termine di
presentazione delle offerte: sebbene l’amministrazione legittimamente non
abbia inteso rinnovare l’attestazione (in presenza di quella, pienamente
valida ed efficace, relativa al primo sopralluogo), l’appellata ha fornito
elementi indiziari, gravi, precisi e concordanti (sostanzialmente non
contestati dall’appellante), ragionevolmente idonei e sufficiente a
comprovare l’effettivo avvenuto sopralluogo (al solo fine di confermare la
riferibilità ad essa del sopralluogo del 29.12.2017).
10. Alla stregua delle considerazioni svolte l’appello deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2019 n. 3581 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sui
presupposti legittimanti l'adozione dell'ordinanza sindacale contingibile ed
urgente.
Quanto ai presupposti, alle
condizioni ed alle modalità di esercizio del potere riconosciuto ai sindaci
dagli artt. 50 e 54 del T.U. n. 267 del 2000, vanno ribaditi i principi
ripetutamente espressi dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato,
secondo cui:
- presupposti per l’adozione dell’ordinanza sindacale sono la
sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica
incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati
dall'ordinamento;
- nonché la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, o
comunque la proporzionalità del provvedimento, non essendo possibile
adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni
prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa
come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a
tutela della pubblica incolumità;
- il potere di ordinanza, inoltre, presuppone necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui
sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua
motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale.
---------------
5. I motivi, che possono esaminati congiuntamente per ragioni di
connessione, sono fondati.
A riscontro della fondatezza del secondo, quanto ai presupposti, alle
condizioni ed alle modalità di esercizio del potere riconosciuto ai sindaci
dagli artt. 50 e 54 del T.U. n. 267 del 2000, vanno ribaditi i principi
ripetutamente espressi dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato,
secondo cui:
- presupposti per l’adozione dell’ordinanza sindacale sono la
sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica
incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati
dall'ordinamento (Cons. Stato, V, 18.06.2018, n. 3727, tra le altre);
- nonché la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti (Cons.
Stato, VI, 10.12.2018, n. 6951), o comunque la proporzionalità del
provvedimento (Cons. Stato, V, 26.04.2018, n. 2535), non essendo possibile
adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni
prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa
come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a
tutela della pubblica incolumità (Cons. Stato, V, 26.07.2016, n. 3369);
- il potere di ordinanza, inoltre, presuppone necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui
sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua
motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale (così, da ultimo, Cons. Stato,
V, 21.02.2017, n. 774, che richiama, nello stesso senso, i precedenti di cui
a Cons. Stato, sez. V, 22.03.2016, n. 1189; 25.05.2015, n. 2967; 05.09.2015,
n. 4499)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2019 n. 3580 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
legislazione statale in materia di condono presuppone la permanenza
dell’opera da condonare nel corso del procedimento di condono.
In pendenza di tale procedimento, sono ammessi solo lavori di completamento
dell’opera stessa, come risulta dalla chiara formulazione dell’art. 35,
comma 12, della l. n. 47/1985. Non è invece ammissibile la sua sostituzione
con un nuovo manufatto, anche se identico dal punto di vista volumetrico,
della sagoma e della superficie.
Dunque, il condono può essere disposto solo per “i manufatti considerati
nella loro consistenza oggettiva alla data di riferimento, per come indicati
nella domanda di condono”.
In ogni caso, con riferimento alle fattispecie di rovina e integrale
demolizione di un manufatto legittimamente assentito, evocate
dall’appellante, va precisato che, poiché in questi casi viene meno
l’esistenza del manufatto medesimo, viene meno anche l’efficacia della
originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per
volontà del suo titolare.
Ciò anche in caso di ristrutturazione edilizia, dato che essa postula la
preesistenza del manufatto da ristrutturare, trattandosi altrimenti di nuova
edificazione richiedente nuovo titolo edilizio.
---------------
6. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
In merito alla rovina, documentata in atti, dei manufatti oggetto dei
procedimenti di condono, il Collegio osserva che la legislazione statale in
materia di condono presuppone la permanenza dell’opera da condonare nel
corso del procedimento di condono. In pendenza di tale procedimento, sono
ammessi solo lavori di completamento dell’opera stessa, come risulta dalla
chiara formulazione dell’art. 35, comma 12, della l. n. 47/1985. Non è
invece ammissibile la sua sostituzione con un nuovo manufatto, anche se
identico dal punto di vista volumetrico, della sagoma e della superficie.
Dunque, il condono può essere disposto solo per “i manufatti considerati
nella loro consistenza oggettiva alla data di riferimento, per come indicati
nella domanda di condono” (Cons. Stato, sez. VI, n. 4954/2018, cit.).
In ogni caso, con riferimento alle fattispecie di rovina e integrale
demolizione di un manufatto legittimamente assentito, evocate
dall’appellante, va precisato che, poiché in questi casi viene meno
l’esistenza del manufatto medesimo, viene meno anche l’efficacia della
originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per
volontà del suo titolare (Cons. St. sez. V, 23.03.2000, n. 1610; sez. IV,
21.10.2008, n. 5162; CGARS, ad. sez. riun., 11.11.2014, n. 1229).
Ciò anche in caso di ristrutturazione edilizia, dato che essa postula la
preesistenza del manufatto da ristrutturare, trattandosi altrimenti di nuova
edificazione richiedente nuovo titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV
13.10.2010, n. 7476 e sez. V, 08.03.2011, n. 1452)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 28.05.2019 n. 3471 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Modifica
del bando in sede di chiarimenti.
---------------
Nell'interpretare le clausole del bando,
deve darsi prevalenza alle espressioni
letterali in esse contenute, escludendo ogni
procedimento ermeneutico in funzione
integrativa, considerando che, in caso di
oscurità ed equivocità, un corretto rapporto
tra p.a. e privato che sia rispettoso dei
principi generali del buon andamento
dell'azione amministrativa e di
imparzialità, oltre che di quello specifico
enunciato nell'art. 1337 c.c., impone che di
quella disciplina sia data una lettura
idonea a tutelare l'affidamento degli
interessati, interpretandola per ciò che
essa espressamente enuncia, restando il
concorrente dispensato dal ricostruire,
mediante indagini ermeneutiche ed
integrative, ulteriori ed inespressi
significati.
Pertanto, ove il dato testuale presenti
ambiguità, deve essere prescelto il
significato più favorevole all'ammissione
del candidato, essendo conforme al pubblico
interesse che alla procedura selettiva
partecipi il più elevato numero di candidati
---------------
I chiarimenti resi dalla
stazione appaltante in corso di gara non
possono modificare o integrare bando,
disciplinare e capitolato, quanto invece
limitarsi a fornire un'interpretazione
autentica, in nome della massima
partecipazione e del principio di economicità dell'azione amministrativa.
---------------
In relazione all'inidoneità dei chiarimenti
a modificare la lex specialis, nessun onere
di impugnazione autonoma ed immediata è
configurabile in capo alla concorrente lesa
dalla loro applicazione.
---------------
Per giurisprudenza pacifica,
nell'interpretare le clausole del bando,
deve darsi prevalenza alle espressioni
letterali in esse contenute, escludendo ogni
procedimento ermeneutico in funzione
integrativa, considerando che, in caso di
oscurità ed equivocità, un corretto rapporto
tra p.a. e privato che sia rispettoso dei
principi generali del buon andamento
dell'azione amministrativa e di
imparzialità, oltre che di quello specifico
enunciato nell'art. 1337 c.c., impone che di
quella disciplina sia data una lettura
idonea a tutelare l'affidamento degli
interessati, interpretandola per ciò che
essa espressamente enuncia, restando il
concorrente dispensato dal ricostruire,
mediante indagini ermeneutiche ed
integrative, ulteriori ed inespressi
significati.
Pertanto, ove il dato testuale presenti
ambiguità, deve essere prescelto il
significato più favorevole all'ammissione
del candidato, essendo conforme al pubblico
interesse che alla procedura selettiva
partecipi il più elevato numero di candidati
(TAR Campania, Napoli, Sez. V, 28.12.2018,
n. 7426, TAR Marche, Sez. I, 29.10.2018, n.
697, C.S., Sez. III, 20.08.2018, n. 4981).
Con riferimento alla fattispecie per cui è
causa, come detto, la lex specialis
non imponeva univocamente che il team di
professionisti fosse obbligatoriamente
composto da dipendenti dei concorrenti.
Al contrario, la previsione secondo cui il
personale indicato avrebbe dovuto essere “in
forza” presso l’impresa, richiama la
sussistenza di un legame del tutto generico
tra concorrente e professionisti,
compatibile con tipologie contrattuali
diverse dalla subordinazione, trattandosi
infatti di espressione in uso nel linguaggio
comune, priva di un preciso significato
giuridico, che deve conseguentemente essere
interpretata alla luce del favor
partecipationis.
III) Né peraltro rileva il chiarimento n. 2,
pubblicato dal R.U.P. in data 12.07.2018,
secondo cui, “in merito al criterio A1 il
rapporto di lavoro del team tecnico è da
intendersi come contratto di lavoro
subordinato”, atteso che, per
giurisprudenza pacifica, i chiarimenti resi
dalla stazione appaltante in corso di gara
non possono modificare o integrare bando,
disciplinare e capitolato, quanto invece,
limitarsi a fornire un'interpretazione
autentica, in nome della massima
partecipazione e del principio di
economicità dell'azione amministrativa (TAR
Sardegna, Sez. I, 29.11.2018, n. 997, C.S.,
Sez. III, 27.11.2018, n. 6721).
Inoltre, in relazione all'inidoneità dei
chiarimenti a modificare la lex specialis,
nessun onere di impugnazione autonoma ed
immediata è configurabile in capo alla
concorrente lesa dalla loro applicazione
(TAR Toscana, Sez. III, 11.12.2018, n.
1630), dovendosi pertanto respingere
l’eccezione preliminare di tardività
sollevata dalla difesa di Aler.
In conclusione, il ricorso proposto con i
motivi aggiunti va pertanto accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 28.05.2019 n. 1219 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente
– Rifiuti – Bonifica – Ordinanza diretta ai proprietari dell’area inquinata
– In mancanza di apposita e preventiva istruttoria diretta a verificare
l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa, in capo ai proprietari,
dell’abbandono dei rifiuti – Illegittimità.
E’ illegittima una ordinanza sindacale, adottata ai
sensi del comma 3 dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006, con la quale è
stato ingiunto alla società ANAS spa di bonificare un’area destinata a
intersezione tra due strade statali, da rifiuti abbandonati da ignoti,
mediante rimozione ed avvio a smaltimento degli stessi, ove risulti che
l’Amministrazione comunale non abbia provveduto, attraverso idonea e
preventiva istruttoria, a verificare in contraddittorio l’imputabilità, a
titolo di dolo o di colpa, in capo alla società stessa, dell’abbandono dei
rifiuti sul sito di proprietà e, in particolare, non abbia provveduto ad
inviare preventivamente alla società destinataria dell’ordinanza, la
comunicazione di avvio del procedimento, ex artt. 7 e segg. della legge n.
241 del 1990 e s.m.i. (massima
tratta da www.lexitalia.it).
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L’ANAS, odierna appellante, ha impugnato dinanzi alla Seconda Sezione del
Tar Palermo il provvedimento con il quale il Comune di Corleone le ha
ingiunto di rimuovere e smaltire i rifiuti abbandonati ad opera d’ignoti
presso l’intersezione tra la S.S. 118, km 31.400 con la dismessa S.S. 118
che conduce verso la Contrada S. Gandolfo.
...
L’appello è fondato e va accolto.
E’ anzitutto fondato il motivo con cui si lamenta la violazione dell’art. 7
l. n. 241/1990.
Il comma 3 dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 stabilisce infatti che
chiunque viola i divieti di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti
sul suolo e nel suolo “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei
luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a
titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al
controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede
all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate.”
La norma quindi impone una verifica in contraddittorio e l’assenza di essa
il rende il provvedimento impugnato in primo grado illegittimo.
Correttamente parte appellante insiste sulla carenza di urgenza che
giustificasse l’omissione del contraddittorio e sottolinea la differenza tra
scambio epistolare e formale comunicazione di avvio del procedimento.
Il procedimento previsto dall’art. 7 citato prevede una dinamica
procedimentale che supporta la verifica in contraddittorio e non la mera
corrispondenza tra enti con competenze diverse.
L’accoglimento di tale censura consente l’assorbimento di tutte le altre.
Per l’effetto, va annullata l’ordinanza sindacale 23.12.2011 n. 150
(CGARS,
sentenza 28.05.2019 n. 497 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito e spandimento rifiuti speciali allo stato
liquido - Liquami zootecnici - Deroga alla disciplina sui
rifiuti - Presupposti e limiti - AGRICOLTURA E ZOOTECNIA -
Attività di fertirrigazione - Elementi idonei ad escludere
l'utilizzazione di letame incompatibile - Quantità, qualità,
tempi e modalità di distribuzione - Onere della prova - Art.
256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Configura il reato di cui all'art. 256,
comma 2, del Dlgs 152/2006, il deposito sul suolo rifiuti
speciali allo stato liquido quali liquami prodotti da
all'allevamento in assenza di autorizzazione e comunque
fuori dei casi e procedure previste dalle norme in deroga
alla disciplina sui rifiuti.
Sicché, la pratica della "fertirrigazione", idonea a
sottrarre il deposito delle deiezioni animali alla
disciplina sui rifiuti, richiede, in primo luogo,
l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree
interessate dallo spandimento, nonché l'adeguatezza di
quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di
distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture e, in
secondo luogo, l'assenza di dati sintomatici di una
utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione, quali,
ad esempio, lo spandimento di liquami lasciati scorrere per
caduta a fine ciclo vegetativo
(Cass.. Sez. 3, n. 40782 del 06/05/2015, Valigi).
Inoltre, tutte le attività idonee a
sottrarre i rifiuti dalla relativa disciplina ordinaria e
dalle correlate ipotesi di reato in quanto integranti
un'eccezione alla regola devono essere dimostrate dalla
parte che vi abbia interesse
(Cass. Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.05.2019 n. 23148 - link a www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA LAVORO: Rischio
di cadute dall'alto: la Cassazione sugli obblighi del datore di lavoro.
L'obbligo del datore di lavoro, nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza
superiore a due metri, di apprestare (quando possibile) impalcature,
ponteggi o altre opere provvisionali, non può essere sostituito dall'uso
delle cinture di sicurezza
In tema di infortuni sul lavoro, “l'uso delle cinture di
sicurezza -misura di carattere generale e imperativo- deve essere adottato
in tutti i casi in cui il lavoratore sia esposto al rischio di caduta
dall'alto, con la sola esclusione della ipotesi di presenza di impalcati di
protezione e di parapetti idonei a scongiurare del tutto il rischio di
caduta: ne consegue che l'esonero dalla protezione delle cinture non è
previsto allorché tali parapetti siano idonei soltanto a facilitare il
lavoro, o, tutt'al più, ad attenuare soltanto il rischio”.
Lo ha ribadito la III Sez. penale della Corte di Cassazione con la
recentissima
sentenza 27.05.2019 n. 23140.
In questa sentenza la suprema Corte ha anche ricordato “lo
speculare e condivisibile principio per il quale in tema di prevenzione
degli infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro, nel caso di
lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di apprestare (quando
possibile) impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali non può essere
sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, previsto solo
sussidiariamente o in via complementare” (commento
tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
18. Inammissibile, in primo luogo, è la seconda censura, in forza
della quale l'adozione dei parapetti non sarebbe stata necessaria sul
cantiere, attesa la (pacifica) dotazione agli operai della cintura di
sicurezza.
Osserva la Corte, infatti, che la questione è posta in termini palesemente
fattuali -quindi, irricevibili in questa sede- muovendo dall'asserzione
secondo la quale non sarebbe "affatto pacifica, come sembra far credere
la Corte Salernitana..., la tesi dell'obbligatorietà dei parapetti in
aggiunta all'obbligatorietà delle cinture di sicurezza".
A ciò si aggiunga, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità ha già
rilevato -in senso contrario a quanto dedotto nel ricorso- che
in tema di infortuni sul lavoro, l'uso delle cinture di sicurezza
-misura di carattere generale e imperativo- deve essere adottato in tutti i
casi in cui il lavoratore sia esposto al rischio di caduta dall'alto, con la
sola esclusione della ipotesi di presenza di impalcati di protezione e di
parapetti idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta: ne consegue
che l'esonero dalla protezione delle cinture non è previsto allorché tali
parapetti siano idonei soltanto a facilitare il lavoro, o, tutt'al più, ad
attenuare soltanto il rischio (Sez.
4, n. 10213 del 13/01/2005, Vecchiato, Rv. 231249).
Quel che si concilia con lo speculare e condivisibile principio -richiamato
anche nella sentenza impugnata- per il quale in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro,
nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di
apprestare (quando possibile) impalcature, ponteggi o altre opere
provvisionali non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza,
previsto solo sussidiariamente o in via complementare
(per tutte, Sez. 4, n. 25134 del 19/04/2013, Urso, Rv. 256525). |
SICUREZZA LAVORO: La
norma di cui al dlgs 14.08.1996 n. 494 è stata
introdotta per ampliare -non certo per restringere- la sfera di tutela del
lavoratore e dei luoghi di lavoro, espandendo -non certo limitando- le
figure di garanzia e gli obblighi ad esse relativi, particolarmente
avvertiti qualora i lavori da eseguire siano complessi o prevedano
interferenze tra i vari soggetti coinvolti.
Ecco dunque il Piano di Sicurezza e Coordinamento (i cui contenuti minimi
sono definiti dagli artt. 2, 3 e 4, d.P.R. n. 223), redatto dal committente
o dal responsabile dei lavori; il Piano di Sicurezza Sostitutivo, redatto a
cura dell'appaltatore e del concessionario; il Piano Operativo di Sicurezza,
redatto da ciascun datore di lavoro delle imprese esecutrici; strumenti che, all'evidenza, non si sostituiscono, ma si
integrano, nell'ottica di una messa in sicurezza del cantiere che il
legislatore tende a garantire sempre con maggiore rigore.
Come confermato, del resto, dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha
delineato gli ambiti di responsabilità anche del committente (dal
quale, peraltro, non può esigersi un controllo pressante, continuo e
capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, occorrendo
verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta
nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della
ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità
dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente
per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla
sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto
di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da
parte del committente, di situazioni di pericolo; senza tuttavia rimuovere alcun profilo di
responsabilità in capo al datore di lavoro, primo destinatario della
posizione di garanzia nei confronti dei propri dipendenti, allorquando
-anche a fronte di competenze altrui- destini gli stessi a mansioni
oggettivamente pericolose, in ragione del generale contesto in cui si
svolgono.
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20.
Infondata, di seguito, risulta la terza censura del ricorso Vi., con
la quale si deduce la violazione del d.lgs. 14.08.1996, n. 494 (Attuazione
della direttiva 92/57/CEE concernente le prescrizioni minime di sicurezza e
di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili) e del d.P.R. 222 del
03.07.2003, con mancanza di motivazione su un punto decisivo della
controversia; la tesi difensiva -per la quale questa disciplina avrebbe
posto integralmente in capo al committente, non al datore di lavoro quale il
Vi., l'eventuale obbligo di adottare i parapetti nell'ambito del PSC (Piano
Sicurezza e Coordinamento)- non può esser infatti accolta.
21. Osserva il Collegio, al riguardo, che la normativa richiamata è stata
introdotta per ampliare -non certo per restringere- la sfera di tutela del
lavoratore e dei luoghi di lavoro, espandendo -non certo limitando- le
figure di garanzia e gli obblighi ad esse relativi, particolarmente
avvertiti qualora i lavori da eseguire siano complessi o prevedano
interferenze tra i vari soggetti coinvolti.
Ecco dunque il Piano di Sicurezza e Coordinamento (i cui contenuti minimi
sono definiti dagli artt. 2, 3 e 4, d.P.R. n. 223), redatto dal committente
o dal responsabile dei lavori; il Piano di Sicurezza Sostitutivo, redatto a
cura dell'appaltatore e del concessionario; il Piano Operativo di Sicurezza,
redatto da ciascun datore di lavoro delle imprese esecutrici (il Vi., nel
caso di specie); strumenti che, all'evidenza, non si sostituiscono, ma si
integrano, nell'ottica di una messa in sicurezza del cantiere che il
legislatore tende a garantire sempre con maggiore rigore.
Come confermato, del resto, dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha
delineato gli ambiti di responsabilità anche del committente (dal
quale, peraltro, non può esigersi un controllo pressante, continuo e
capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, occorrendo
verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta
nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della
ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità
dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente
per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla
sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto
di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da
parte del committente, di situazioni di pericolo; tra le altre, Sez.
4, n. 27296 del 02/12/2016, Vettor, Rv. 270100; Sez. 4, n. 44131 del
15/07/2015, Heqimi, Rv. 264974), senza tuttavia rimuovere alcun profilo di
responsabilità in capo al datore di lavoro, primo destinatario della
posizione di garanzia nei confronti dei propri dipendenti, allorquando
-anche a fronte di competenze altrui- destini gli stessi a mansioni
oggettivamente pericolose, in ragione del generale contesto in cui si
svolgono (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.05.2019 n. 23140). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione
di impatto ambientale.
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Ambiente - Valutazione di impatto ambientale – Verifica impatto che il
complesso delle nuove opere ha sull’ambiente – Omissione – Illegittimità.
E’ illegittima per difetto di istruttoria la
valutazione di impatto ambientale posta in essere prescindendo dal
considerare l’impatto che il complesso delle nuove opere ha sull’ambiente
(1).
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(1) Il Tar Toscana stabilisce che la valutazione di impatto
ambientale implica un esame dell’impatto complessivo che le singole opere
hanno sull’ambiente, in quanto la definizione del grado di modifica
dell’ambiente (se in misura più o meno penetrante) non può che essere
essenziale, consentendo di valutare se le alterazioni conseguenti alla
realizzazione delle opere possano ritenersi "accettabili" alla
stregua di un giudizio comparativo che tenga conto della necessità di
salvaguardare preminenti valori ambientali e dell’impatto della
realizzazione di una determinata opera, in applicazione ai fondamentali
principi di precauzione e prevenzione del diritto dell’ambiente.
Ne consegue l’emergere di un difetto di istruttoria tutte quelle volte che
la valutazione di compatibilità ambientale sia stata posta in essere
prescindendo dal considerare l’impatto che il complesso delle nuove opere ha
sull’ambiente e, ciò, operando un rinvio di detta valutazione all’esecuzione
di un considerevole numero di prescrizioni, in un contesto nel quale le
azioni da compiere non erano sufficientemente definite e che, pertanto,
avrebbero richiesto inevitabilmente nuove valutazioni conseguenti all’esame
istruttorio ancora da svolgere.
Lo scopo delle prescrizioni è, infatti, quello di individuare le condizioni
più idonee per meglio garantire la compatibilità ambientale, funzione quest’ultima
che presuppone un’avvenuta valutazione positiva dell’opera circa l’incidenza
di quest’ultima sugli elementi naturalistici del territorio.
Nel caso di specie il progetto presentato dall’Enac consisteva in un “Masterplan
Aeroportuale” che rinviava alla fase esecutiva le valutazioni di
incidenza sull’ambiente riferite a circa 142 prescrizioni che implicavano,
tra l’altro, lo spostamento di un corso d’acqua; il sotto-attraversamento di
un’autostrada; la ricollocazione del bacino denominato “Lago di Peretola”
(peraltro sottoposto a vincolo paesaggistico), l’interramento di quest’ultimo
e la creazione ex novo di un’area umida di circa 9,7 ettari con
trasferimento della fauna e della vegetazione e, ciò, oltre all’esame degli
scenari probabilistici del rischio di incidente aereo.
In particolare il Tar ha ritenuto esistenti i seguenti principi di diritto:
a) a prescindere dal fatto che si ritenga applicabile che la
disciplina introdotta dal d.lgs. n. 104 del 2017 (che modifica gli artt. 20
e ss., d.lgs. n. 152 del 2006), laddove consente che gli elaborati
progettuali siano predisposti con un livello informativo e di dettaglio
equivalente a quello del progetto di fattibilità, o al contrario (come
sostengono i ricorrenti) un livello di definizione al progetto esecutivo di
cui all’art. 93 comma 6, del d.lgs. 163/2006, è comunque indispensabile che
il progetto di un’opera pubblica, alla base della valutazione di impatto
ambientale, contenga quel grado di dettaglio minimo e sufficiente affinché
si possa addivenire ad una corretta valutazione degli effetti che l’opera ha
sull’ambiente circostante.
b) l’art. 25, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006 prevede
l’ammissibilità di prescrizioni che, tuttavia, sono espressamente
qualificate come condizioni per la realizzazione, l'esercizio e la
dismissione del progetto, nonché quelle condizioni dirette ad evitare,
prevenire, ridurre e, se possibile, compensare gli impatti ambientali
significativi e negativi; si tratta di allora di opere e modalità esecutive
eventuali e accessorie, che si pongono a valle di un progetto comunque
definito e compiuto, quanto meno in tutti quegli elementi sufficienti per
effettuare un giudizio sull’impatto delle opere rispetto all’ambiente
circostante.
c) le opere e gli interventi da realizzare nell’ambito delle
prescrizioni non possono che avere un carattere “accessorio” rispetto
al giudizio di compatibilità, attenendo alla fase di esecuzione del progetto
e non riguardare aspetti che avrebbero dovuto essere valutati e risolti in
sede di VIA.
d) la valutazione di compatibilità ambientale non può avere natura
condizionata se le prescrizioni a cui è subordinata non possiedono un reale
contenuto precettivo, recando per contro indicazioni meramente orientative
ipotetiche, e, in ogni caso, non può trattarsi di indicazioni la cui
concreta realizzabilità non sia stata preventivamente (Tar Toscana, sez. II,
23.12.2010, n. 6867);
e) la valutazione di impatto ambientale ha, infatti, il fine di
sensibilizzare l'autorità decidente, attraverso l'apporto di elementi
tecnico-scientifici idonei ad evidenziare le ricadute sull'ambiente
derivanti dalla realizzazione di una determinata opera, a salvaguardia
dell'habitat. Tale valutazione non può che implicare una complessiva ed
approfondita analisi di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del
progetto unitariamente considerato, per valutare in concreto il sacrificio
imposto all'ambiente rispetto all'utilità socio-economica perseguita (Cons.
St., sez. V, 06.07.2016, n. 3000 id., sez. IV, 24.03.2016, n. 1225);
f) il concetto di valutazione di impatto ambientale implica che le
opere da valutare siano state preventivamente definite (quanto meno nelle
linee essenziali), senza che possano emergere nuovi aspetti suscettibili di
condizionare l’avvenuta valutazione di compatibilità ambientale.
g) se le opere da realizzare non sono state compiutamente definite
è la stessa valutazione di compatibilità ambientale a risultare parziale,
non essendo stato possibile verificare in che misura l’ambiente ne
risulterebbe modificato, dall'altro, dell'interesse pubblico sotteso
all'esecuzione dell'opera, potendo gli organi amministrativi preposti al
procedimento di v.i.a. dettare prescrizioni e condizioni diretto solo a
meglio garantire la compatibilità ambientale dell'opera progettata (Tar
Milano, sez. III, 08.03.2013, n. 627).
h) nell’ipotesi in cui la progettazione esecutiva comporti
importanti variazioni all'opera già esaminata, tali da alterarne le
caratteristiche è necessario che in sede di approvazione del progetto
definitivo l'autorità amministrativa manifesti la consapevolezza del
susseguirsi dei provvedimenti e li ritenga compatibili con le risultanze
della valutazione di impatto ambientale e, ciò, al fine di consentire in
sede giurisdizionale il sindacato di legittimità sulla ragionevolezza di
tali determinazioni e di quella che esclude la rinnovazione della medesima
valutazione (Cons. St., sez. VI, 12.05.2006, n. 2694; id., sez. IV,
11.04.2007, n. 1649) (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 27.05.2019 n. 789 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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1.8 Ciò premesso è possibile esaminare le argomentazioni proposte,
anticipando sin d’ora come sia da accogliere il quarto, l’ottavo
e il dodicesimo motivo.
1.9 Con dette censure le parti ricorrenti sostengono che il decreto VIA n.
377/2017, avente ad oggetto il Master Plan 2014-2029 dell’aeroporto di
Firenze, sarebbe illegittimo in quanto subordinato a prescrizioni in gran
parte prive di contenuto precettivo che, di fatto, avrebbero l’effetto di
posticipare valutazioni che, invece, avrebbero dovuto essere eseguite prima
della conclusione del procedimento di VIA.
2. Al contrario le Amministrazioni resistenti sostengono che l’aver imposto
delle prescrizioni non comporterebbe un rinvio delle valutazioni di
compatibilità ambientale che, in realtà, sarebbero state effettuate
nell’ambito del procedimento in questione.
Le condizioni apposte sarebbero dirette esclusivamente a effettuare alcuni
approfondimenti al fine di individuare le migliori modalità esecutive.
A parere delle Amministrazioni sopra citate la circostanza che procedimento
VIA sia giunto a conclusione nella vigenza del d.lgs. 104/2017,
consentirebbe l’applicazione di detta nuova disciplina, laddove prevede che
gli elaborati progettuali siano predisposti con un livello informativo e di
dettaglio equivalente a quello del progetto di fattibilità, non richiedendo
così un grado di specificazione pari al progetto esecutivo di cui all’art.
93, comma 6, del d.lgs. 163/2006.
2.1 L’ottemperanza alle condizioni, inoltre, è stata verificata
dall’apposito Osservatorio costituito dal Ministero dell’Ambiente che, a sua
volta, ha confermato le valutazioni alle quali era giunto il decreto
377/2018.
2.2 Come si andrà a dimostrare è dirimente constatare che
il progetto sottoposto a VIA non conteneva quel grado di dettaglio minimo e
sufficiente affinché il Ministero dell’Ambiente addivenisse ad una corretta
valutazione di compatibilità ambientale, non essendosi individuati
compiutamente le opere da realizzare.
2.3 Il progetto presentato dall’Enac consiste in un “Masterplan
Aeroportuale”, documento che il Ministero dell’Ambiente ha ritenuto
assimilabile ad un “progetto definitivo”, consentendo la sua
sottoposizione alla procedura di compatibilità ambientale.
2.4 L’esame della documentazione in atti consente inoltre di evincere come
si sia in presenza di opere di considerevole impatto ambientale che
implicano, tra l’altro, lo spostamento di un tratto del Fosso Reale, il
sotto-attraversamento dell’Autostrada A11; la riorganizzazione dello
svincolo della A11 per Sesto Fiorentino e Osmannoro e la ricollocazione del
bacino denominato “Lago di Peretola” e di alcuni bacini del sito “La
Querciola”, oltre alla delocalizzazione di parte dei “boschi della
piana”.
2.5 L’incidenza della realizzazione di dette opere sul sistema ambientale
risulta evidente laddove si consideri che l’area di compensazione di “Mollaia”
consiste nella “creazione di un sistema di nuovi ambienti ad acquitrino e
bosco idrofilo, mentre l’area di compensazione di Santa Croce concerne la
sostituzione del Lago di Peretola, prevedendo l’interramento di quest’ultimo
e la creazione ex novo di un’area umida di circa 9,7 ettari con
trasferimento della fauna e della vegetazione.
2.6 Tali considerazioni risultano paradossalmente rafforzate dall’esame
della documentazione depositata nel corso del giudizio e riferita al
procedimento di localizzazione delle opere di pubbliche di interesse
statale, in relazione al quale è stata convocata la conferenza di servizi ai
sensi dell’art. 3, comma 1, del Dpr 383/1994.
2.7 Nel prosieguo del procedimento sono intervenute una serie di variazioni
e integrazioni rispetto agli atti in possesso del Ministero dell’Ambiente
nel momento in cui è stato adottato il giudizio di compatibilità ambientale.
2.8 E’ stata, infatti, dettagliata la realizzazione delle opere idrauliche
esterne all’area di sedime aeroportuale comprendenti, tra le altre, l’opera
di deviazione del Fosso Reale, l’attraversamento dell’Autostrada A11, la
realizzazione delle casse di espansione (aree di laminazione) e le opere di
compensazione ambientale funzionali alla mitigazione dell’impatto sui siti
protetti.
In particolare per quanto concerne le opere idrauliche va evidenziato che la
documentazione progettuale originariamente prodotta in sede di VIA non
conteneva l’indicazione delle relazioni geologiche, sismiche ed idrologiche,
nonché le verifiche geotecniche.
2.9 La documentazione presentata nell’ambito del procedimento urbanistico
conferma come in sede di VIA sia stato presentato un progetto parziale e
comunque insufficiente a consentire una compiuta valutazione degli impatti
ambientali, essendosi rinviato detto giudizio alle fasi progettuali
successive, devolvendo le attività di verifica della corretta esecuzione
delle prescrizioni al costituendo Osservatorio Ambientale.
3. L’assenza dell’esperimento di una corretta fase istruttoria risulta
dimostrata dal fatto che il decreto sopra citato contiene un numero di
prescrizioni (pari a circa 70) che, per le loro caratteristiche, hanno
l’effetto di condizionare la valutazione di compatibilità ambientale
contenuta nel provvedimento impugnato.
3.1 In particolare dalle prescrizioni contenute nel decreto 377/2018 è
possibile desumere che è stato rinviato alla fase esecutiva lo studio
riferito agli scenari probabilistici del rischio di incidente aereo
(prescrizione n. 3) e la stima del rischio di incidente rilevante con
strutture soggette alla Direttiva Seveso, presenti sulle direttrici di
atterraggio e decollo (prescrizione n. 4); la verifica della conformità
delle nuove aree di laminazione previste dal SIA (prescrizione n. 28);
l’individuazione di una soluzione progettuale che consenta di realizzare il
sotto attraversamento dell’autostrada A11 da parte del nuovo corso del Fosso
Reale (prescrizione n. 29); è stata posticipata l’individuazione delle
soluzioni a tutte le interferenze della nuova pista con l’assetto idraulico
e con le infrastrutture stradali della zona interessata dal progetto
(prescrizione n. 33); è stata rinviata l’individuazione delle soluzioni per
risolvere l’interferenza tra la pista e la già programmata cassa di
laminazione del PUE di Castello, nonché di quella già prevista dal Comune di
Sesto Fiorentino sul Canale di Cinta Orientale per la messa in sicurezza del
Polo Universitario di Sesto Fiorentino (prescrizione n. 34); non è stata
posta in essere la progettazione esecutiva e l’analisi del rischio di bird
strike (prescrizione n. 46), così come la redazione di un progetto di
massima degli ambienti umidi previsti a compensazione della distruzione
delle aree naturali, di cui al punto precedente (prescrizione n. 49).
3.2 La prescrizione n. 29 prevede che “il proponente in sede di
progettazione esecutiva dovrà correttamente sviluppare la soluzione di
attraversamento dell’autostrada A11 presentata nel SIA (e documentazione
integrativa) risolvendo la problematica tecnica evidenziata nel parere del
Genio Civile di Bacino Arno Toscana del 19.10.2015”.
3.1 Particolarmente incidenti sono le opere previste nelle prescrizioni n.
28, 30 e 33, laddove si rinvia alla fase di progettazione esecutiva la
verifica dell’adeguatezza delle nuove aree di laminazione.
3.2 Tra le prescrizioni suscettibili di incidere maggiormente sulla
valutazione di compatibilità ambientale vanno annoverate le opere da
realizzare e relative all’assetto idrologico-idraulico della Piana
fiorentina (in questo senso si veda l’ottavo motivo del ricorso).
3.3 Analogamente con la prescrizione n. 46 (dodicesimo motivo) viene
integralmente rimandata alla fase di progettazione esecutiva l’analisi del
rischio di “bird strike”, fattispecie quest’ultima in relazione alla
quale, peraltro, si era già pronunciato questo Tribunale.
La sentenza 1310/2016 aveva avuto modo di chiarire la necessità di una
preventiva realizzazione di detto studio, disponendo che “la
localizzazione della pista di volo può di per sé porre un problema di
intercettazione dei volatili. Il rischio di bird strike attiene infatti
all’ubicazione dell’aeroporto, e quindi la sua valutazione si rende
necessaria già al momento della scelta di piano. Non si tratta, cioè, di
impatto sull’ambiente evidenziabile solo in sede di predisposizione del
progetto, ovvero in fase di VIA, essendo già evincibile al momento della
localizzazione dell’opera la possibilità o meno di intercettazione di
passaggi dell’avifauna, sia in relazione ai percorsi migratori, sia in
relazione alla vicinanza di aree alberate o di corsi d’acqua, che
notoriamente attraggono gli uccelli”.
3.4 In questo senso è anche la prescrizione A3 “rischio di incidente
aereo”, laddove si richiede la predisposizione di uno studio “riferito
agli scenari probabilistici sul rischio di incidenti aerei”, finalizzato
a “descrivere e quantificare i rischi per la salute umana e l’ambiente
derivanti dalla vulnerabilità aeroportuale a gravi incidenti”.
3.5 Ciò premesso è evidente che il “progetto esecutivo” sia, di per
sé, deputato ad introdurre solo le specifiche, i dettagli e le modalità
delle lavorazioni da svolgere, non potendo costituire il momento in cui
effettuare “scelte progettuali” o nuove “valutazioni” circa
gli impatti dell’opera sulle componenti ambientali o in merito i rischi
derivanti dall’esecuzione del progetto (si vedano ad esempio le prescrizioni
nn. 3, 4, 29, 33 34, 46, 48 e 49).
3.6 L’art. 25, comma 4, del d.lgs. 152/2006 prevede l’ammissibilità di
prescrizioni che sono espressamente qualificate come condizioni per la
realizzazione, l'esercizio e la dismissione del progetto, nonché quelle
condizioni dirette ad evitare, prevenire, ridurre e, se possibile,
compensare gli impatti ambientali significativi e negativi.
3.7 Si tratta di prescrizioni, quindi, eventuali e accessorie, che si
pongono a valle di un progetto comunque definito e compiuto, quanto meno in
tutti quegli elementi indispensabili per effettuare un giudizio sull’impatto
delle opere rispetto all’ambiente circostante.
3.8 Ne consegue che le opere e gli interventi da realizzare non possono che
avere un carattere “accessorio” rispetto al giudizio di
compatibilità, attenendo alla fase di esecuzione del progetto e non
riguardare aspetti che dovevano essere valutati e risolti in sede di VIA.
3.9 E’, infatti, noto che la valutazione di impatto
ambientale ha il fine di sensibilizzare l'autorità decidente, attraverso
l'apporto di elementi tecnico-scientifici idonei ad evidenziare le ricadute
sull'ambiente derivanti dalla realizzazione di una determinata opera, a
salvaguardia dell'habitat.
Tale valutazione non può che implicare una complessiva ed
approfondita analisi di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del
progetto unitariamente considerato, per valutare in concreto il sacrificio
imposto all'ambiente rispetto all'utilità socio-economica perseguita
(Cons. di Stato Sez. V, sentenza n. 3000 del 06/07/2016; Cons. di Stato Sez.
IV, sentenza n. 1225 del 24/03/2016).
4. Ulteriori pronunce hanno poi, confermato la necessità di
una nuova valutazione tutte le volte che la progettazione esecutiva comporti
importanti variazioni all'opera già esaminata, tali da alterarne le
caratteristiche.
In tali casi, è necessario che in sede di approvazione del
progetto definitivo l'autorità amministrativa manifesti la consapevolezza
del susseguirsi dei provvedimenti e li ritenga compatibili con le risultanze
della valutazione di impatto ambientale e, ciò, al fine di consentire in
sede giurisdizionale il sindacato di legittimità sulla ragionevolezza di
tali determinazioni e di quella che esclude la rinnovazione della medesima
valutazione (Cons. di Stato Sez.
VI, sentenza n. 2694 del 12/05/2006 e Cons. Stato Sez. IV, 11/04/2007, n.
1649).
4.1 Nel caso di autorizzazione per la costruzione di
un'opera, la violazione delle prescrizioni vincolanti dettate in sede di
VIA, tali da dare vita ad un'opera da ritenersi sostanzialmente differente
da quella autorizzata, si deve ritenere di per sé idonea ad inficiare
irrimediabilmente la procedura (Cons.
Stato Sez. VI Sent., 03/10/2007, n. 5105).
4.2 E’ evidente che la maggior parte delle opere sopra
citate risultano “rilevanti” e astrattamente idonee ad alterare
l’ambiente e, ciò, con l’effetto che le scelte da operare in sede esecutiva
sono in realtà suscettibili di incidere sulla valutazione di idoneità
ambientale già posta in essere.
4.3 Come si è avuto modo di anticipare le prescrizioni di cui si tratta si
riferiscono allo spostamento di un fiume, alla necessità di reperire volumi
di compensazione idrauliche delle aree agricole, opere queste ultime la cui
necessità era stata rilevata anche dal Piano di Bonifica, evidenziando che
gli interventi di cui si tratta ricadono in aree classificate a pericolosità
idraulica media ed elevata.
4.4 Si consideri, peraltro, che la verifica dell'ottemperanza a dette
condizioni non è stata demandata ai due Ministeri che hanno emesso il
provvedimento di VIA, bensì ad un organismo a composizione mista dove è
presente (con diritto di voto) lo stesso proponente ENAC (e senza diritto di
voto) la società Toscana Aeroporti (e quindi il soggetto che gestisce
l’aeroporto), mentre è stata esclusa dall'Osservatorio la presenza di ogni
rappresentante dei Comuni ricorrenti, circostanza che ha impedito a questi
ultimi di presentare specifici rilievi una volta approvati i progetti
esecutivi.
4.5 Detta modalità di procedere contrasta con la finalità primaria del
procedimento di VIA, diretta com’è a dare concreta applicazione ai
fondamentali principi di precauzione e prevenzione del diritto
dell’ambiente.
4.6 E’ il complessivo tenore delle prescrizioni che dimostra come la
valutazione di compatibilità ambientale sia stata posta in essere
prescindendo dall’esame dell’impatto che le nuove opere potrebbero avere
sull’ambiente, in un contesto nel quale le azioni da compiere non sono
sufficientemente definite e che, pertanto, richiedono inevitabilmente nuove
valutazioni conseguenti all’esame istruttorio ancora da svolgere.
5.8 Al contrario lo scopo delle prescrizioni è quello di individuare le
condizioni più idonee per meglio garantire la compatibilità ambientale,
funzione quest’ultima che presuppone un avvenuta valutazione positiva
dell’opera circa l’incidenza di quest’ultima sugli elementi naturalistici
del territorio.
5.9 Il concetto di valutazione di impatto ambientale
implica, allora,
che le opere da valutare siano state preventivamente definite (quanto meno
nelle linee essenziali), risultando comunque possibile valutare l’incidenza
di queste ultime sugli elementi naturalistici del territorio.
6. Nell’ambito della VIA la definizione del grado di
modifica dell’ambiente (se in misura più o meno penetrante) non può che
essere essenziale, in quanto consente di valutare se le alterazioni
conseguenti alla realizzazione delle opere possano ritenersi "accettabili"
alla stregua di un giudizio comparativo che tenga conto, da un lato, della
necessità di salvaguardare preminenti valori ambientali, dall'altro,
dell'interesse pubblico sotteso all'esecuzione dell'opera, potendo gli
organi amministrativi preposti al procedimento di v.i.a. dettare
prescrizioni e condizioni per meglio garantire la compatibilità ambientale
dell'opera progettata (TAR
Lombardia Milano Sez. III Sent., 08/03/2013, n. 627).
6.1 Al contrario se le opere da realizzare non sono state
compiutamente definite è la stessa valutazione di compatibilità ambientale a
risultare parziale, non essendo stato possibile verificare in che misura
l’ambiente ne risulterebbe modificato.
6.2 Anche questo Tribunale (TAR Toscana, Sez. II, 23.12.2010, n. 6867), ha
avuto modo di affermare che la valutazione di compatibilità
ambientale non può avere natura condizionata se le prescrizioni a cui è
subordinata non possiedono un reale contenuto precettivo, recando per contro
indicazioni meramente orientative ipotetiche, e, in ogni caso, non può
trattarsi di indicazioni la cui concreta realizzabilità non sia stata
preventivamente verificata.
6.3 Ne consegue che la previsione di un numero così elevato
di prescrizioni, ma soprattutto il carattere e il tenore di queste ultime,
dimostra inevitabilmente il difetto di istruttoria in cui è incorsa
l’Amministrazione, che è stata obbligata a posticipare la valutazione dei
relativi impatti ambientali.
6.4 Le censure sopra citate sono, pertanto, fondate.
La circostanza che il procedimento di valutazione della compatibilità
urbanistica è tutt’ora in corso e che verrà posto in essere
nell’applicazione del diverso procedimento di cui all'art. 81 del DPR n.
616/1977 - analogamente al fatto che la pronuncia di questo Tribunale
relativa al PIT e al procedimento di VAS è al vaglio del Consiglio di Stato
in sede di appello, suggerisce di assorbire le ulteriori deduzioni proposte.
6.5 Il ricorso è, pertanto, fondato e va accolto, con conseguente
annullamento nei limiti della parte motiva dei provvedimenti in epigrafe
indicati. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Mancato
deposito delle ricevute di avvenuta consegna
della notifica a mezzo p.e.c..
Secondo quanto affermato
dalla giurisprudenza Corte di Cassazione, la
notifica a mezzo posta elettronica
certificata non si esaurisce con l’invio
telematico dell’atto, ma si perfeziona
soltanto a seguito della consegna del plico
informatico nella casella di posta
elettronica del destinatario.
La prova della consegna al destinatario è
costituita dalla ricevuta di avvenuta
consegna e, dunque, la mancata produzione in
giudizio della ricevuta di avvenuta consegna
della notifica a mezzo p.e.c. determina
l’inesistenza della notificazione.
Inoltre, nel sistema del processo
amministrativo telematico l’art. 14, comma
4, del D.P.C.M. n. 40 del 2016 stabilisce
che: “Le ricevute di cui all'articolo 3-bis,
comma 3, della legge 21.01.1994, n. 53, la
relazione di notificazione di cui al comma 5
dello stesso articolo e la procura alle liti
sono depositate, unitamente al ricorso, agli
altri atti e documenti processuali,
esclusivamente sotto forma di documenti
informatici, con le modalità telematiche
stabilite dalle specifiche tecniche di cui
all'articolo 19”.
Ne consegue che la mancata produzione sotto
forma di documenti informatici in via
telematica delle suddette ricevute determina
l’inammissibilità del ricorso
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 24.05.2019 n. 6482 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Ritenuto che:
- il ricorso si palesa inammissibile per le
ragioni di seguito esposte di cui le parti
sono state rese edotte in udienza, in
conformità alle previsioni dell’art. 73,
comma 3, c.p.a.;
- la difesa della parte ricorrente non ha
fornito prova della ritualità della
notificazione del ricorso che consta essere
stata eseguita a mezzo p.e.c., ai sensi
della l. n. 53 del 1994, non essendo state
prodotte le ricevute di accettazione e di
avvenuta consegna;
- sul punto è opportuno evidenziare che la
notifica p.e.c. a mente dell’art. 3-bis L.
53/1994 (introdotto dalla L. n. 228/2012), “si
perfeziona, per il soggetto notificante, nel
momento in cui viene generata la ricevuta di
accettazione prevista dall’articolo 6, comma
1, del decreto del Presidente della
Repubblica 11.02.2005, n. 68, e, per il
destinatario, nel momento in cui viene
generata la ricevuta di avvenuta consegna
prevista dall’articolo 6, comma 2, del
decreto del Presidente della Repubblica 11.02.2005, n. 68”.
Il gestore p.e.c. del mittente fornisce a
quest’ultimo la ricevuta di accettazione,
che contiene “i dati di certificazione
che costituiscono prova dell’avvenuta
spedizione di un messaggio di posta
elettronica certificata” (art. 6, comma
1, D.P.R. 68/2005).
Il gestore p.e.c. del destinatario fornisce
altresì al mittente la ricevuta di avvenuta
consegna (art. 6, comma 2, D.P.R. 68/2005),
che dà prova che il “messaggio di posta
elettronica certificata è effettivamente
pervenuto all’indirizzo elettronico
dichiarato dal destinatario e certifica il
momento della consegna tramite un testo,
leggibile dal mittente, contenente i dati di
certificazione” (art. 6, comma 3, D.P.R.
68/2005).
“Qualora non si possa procedere al
deposito con modalità telematiche dell’atto
notificato a norma dell’articolo 3-bis,
l’avvocato estrae copia su supporto
analogico del messaggio di posta elettronica
certificata, dei suoi allegati e della
ricevuta di accettazione e di avvenuta
consegna e ne attesta la conformità ai
documenti informatici da cui sono tratte ai
sensi dell’articolo 23, comma 1, del decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82” (art.
9, comma 1-bis, L. 53/1994).
La medesima procedura va seguita “In
tutti i casi in cui l’avvocato debba fornire
prova della notificazione e non sia
possibile fornirla con modalità telematiche”
(art. 9, comma 1-ter, L. 53/1994);
- la Suprema Corte di Cassazione, muovendo
dall’analisi delle suddette norme, ha
rilevato come la notifica a mezzo posta
elettronica certificata non si esaurisca con
l’invio telematico dell’atto, ma si
perfezioni soltanto a seguito della consegna
del plico informatico nella casella di posta
elettronica del destinatario. La prova della
consegna al destinatario è costituita dalla
ricevuta di avvenuta consegna e, dunque, la
mancata produzione in giudizio della
ricevuta di avvenuta consegna della notifica
a mezzo p.e.c. determina l’inesistenza della
notificazione (cfr., ex multis, Cass.
Sez. lavoro, 07.10.2015, n. 20072);
- nel sistema del processo amministrativo
telematico, inoltre, l’art. 14, comma 4 del
D.P.C.M. n. 40 del 2016 stabilisce che: “Le
ricevute di cui all'articolo 3-bis, comma 3,
della legge 21.01.1994, n. 53, la relazione
di notificazione di cui al comma 5 dello
stesso articolo e la procura alle liti sono
depositate, unitamente al ricorso, agli
altri atti e documenti processuali,
esclusivamente sotto forma di documenti
informatici, con le modalità telematiche
stabilite dalle specifiche tecniche di cui
all'articolo 19”;
- nella fattispecie, la difesa della
ricorrente non ha prodotto le sopra indicate
ricevute, essendosi limitata a depositare,
in data 29.04.2019, successivamente alla
rilevazione in udienza della causa di
inammissibilità in trattazione, una
dichiarazione priva di qualsivoglia
allegato;
- deve, altresì, escludersi l’ammissibilità
del beneficio della rimessione in termini,
non sussistendo nella fattispecie in esame
elementi idonei a fondare, sia pure solo
astrattamente, la concessione di detto
beneficio;
- in conclusione, per le ragioni sopra
esposte, il ricorso va dichiarato
inammissibile; |
EDILIZIA PRIVATA: Con
riguardo al possesso del titolo idoneo al rilascio della concessione o
permesso di costruire, l’amministrazione comunale deve considerare eventuali
limiti e vincoli di carattere privatistico, anche di natura reale, laddove
siano certi e non contestati, posto che la legittimità del permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2001, non può essere
inficiata da posizioni dei terzi che abbiano la consistenza di semplici
pretese di utilizzazione del bene oggetto dell’assentita attività
edificatoria.
L’amministrazione comunale, infatti, ha l’onere di verificare il rispetto
dei limiti privatistici (discendenti dall'esercizio dell'autonomia
negoziale, tra i quali spiccano gli iura in re aliena, come il diritto di
servitù), purché essi “siano immediatamente conoscibili, effettivamente e
legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il
controllo si traduca in una semplice presa d'atto".
In altri termini, l’amministrazione non è tenuta affatto a condurre
approfondite e dispendiose verifiche circa i rapporti tra le parti
contendenti.
---------------
10.1. - Con riguardo al possesso del titolo idoneo al rilascio della
concessione o permesso di costruire, l’amministrazione comunale deve
considerare eventuali limiti e vincoli di carattere privatistico, anche di
natura reale, laddove siano certi e non contestati, posto che la legittimità
del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2001, non può
essere inficiata da posizioni dei terzi che abbiano la consistenza di
semplici pretese di utilizzazione del bene oggetto dell’assentita attività
edificatoria.
L’amministrazione comunale, infatti, ha l’onere di verificare il rispetto
dei limiti privatistici (discendenti dall'esercizio dell'autonomia
negoziale, tra i quali spiccano gli iura in re aliena, come il diritto di
servitù), purché essi “siano immediatamente conoscibili, effettivamente e
legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il
controllo si traduca in una semplice presa d'atto” (cfr. C.d.S., sez. IV,
10.12.2007, n. 6332; C.d.S., sez. IV, 12.03.2007, n. 1206).
In altri termini, l’amministrazione non è tenuta affatto a condurre
approfondite e dispendiose verifiche circa i rapporti tra le parti
contendenti (Tar Campania, Napoli, sez. IV, n. 1165 del 25.02.2011)
(TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 24.05.2019 n. 438 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con
riferimento al rispetto delle distanze legali, precisato che la questione
non si pone con riferimento ai volumi tecnici (non costituendo, questi,
costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c., non devono essere considerati ai
fini del computo delle distanze dai confini), si deve rilevare ulteriormente
come i locali seminterrati, ossia quei locali che sporgono dal terreno per
un’altezza inferiore a tre metri, non siano assoggettabili alla norma sulla
distanza legale tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. n.
1444/1968.
---------------
In forza del principio di cui all’art. 878 del codice civile, il muro di
cinta di altezza non superiore a tre metri non rileva ai fini del rispetto
delle distanze delle costruzioni dal confine; e consente, quindi, la
realizzazione di costruzioni “in aderenza” al muro posto sul confine, purché
aventi altezza non superiore a tre metri.
---------------
10.2. - In secondo luogo, con
riferimento al rispetto delle distanze legali, precisato che la questione
non si pone con riferimento ai volumi tecnici (non costituendo, questi,
costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c., non devono essere considerati ai
fini del computo delle distanze dai confini), si deve rilevare ulteriormente
come i locali seminterrati, ossia quei locali che sporgono dal terreno per
un’altezza inferiore a tre metri, non siano assoggettabili alla norma sulla
distanza legale tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. n.
1444/1968.
E, nel caso di specie, come risulta dall’esame degli elaborati progettuali
allegati alla domanda di condono (cfr. deposito del 17.09.2011 del Comune di
Olbia), sia il locale tecnico trasformato in una unità edilizia residenziale
costituita da un vano e da un bagno (oggetto della concessione in sanatoria
n. 2160 del 26.05.2010), sia la cantina ubicata nel piano seminterrato e
trasformata in unità edilizia residenziale costituita da due camere con due
w.c., due ripostigli e un corridoio (concessione in sanatoria n. 2170 del
26.05.2010), hanno altezze inferiori a tre metri.
Il dato assume rilievo anche per quanto concerne l’applicazione delle norme
sulla distanza dal confine. Entrambi i manufatti per cui è controversia sono
stati realizzati –come si è visto– ad un’altezza inferiore a quella alla
quale sarebbe consentito realizzare il muro di cinta.
Da ciò consegue l’operatività del principio di cui all’art. 878 del codice
civile, per il quale il muro di cinta di altezza non superiore a tre metri
non rileva ai fini del rispetto delle distanze delle costruzioni dal
confine; e consente, quindi, la realizzazione di costruzioni “in aderenza”
al muro posto sul confine, purché aventi altezza non superiore a tre metri.
10.3. - Non sussistono, pertanto, le condizioni affinché possa concretamente
operare la distanza minima di 5 metri dal confine prevista dal Piano
regolatore generale, in quanto tale prescrizione non opera per le
costruzioni di altezza non superiore ai tre metri, posto che in questo caso
le esigenze di igiene e ornato pubblico sottese alla citata previsione
pianificatoria in concreto non sussistono (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 24.05.2019 n. 438 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino.
---------------
9. Con i primi due motivi l’appellante afferma che la sentenza di
primo grado non avrebbe tenuto conto della vetustà delle opere contestate
anche con riferimento al legittimo affidamento che si sarebbe determinato.
Le censure non sono fondate in ragione della non sanabilità degli abusi per
la violazione della normativa sulle distanze.
L’Adunanza plenaria n. 9 del 2017, infatti, ha stabilito (confermando
l’orientamento prevalente della giurisprudenza risalente) che «il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino».
Conseguentemente, deve essere respinta anche l’istanza istruttoria di
consulenza tecnica
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 23.05.2019 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul mancato rispetto della distanza minima tra pareti finestrate.
Circa il mancato rispetto delle distanze il Collegio si richiama
ai seguenti principi affermati dalla giurisprudenza
a) l’art. 9 del d.m. del 1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in
tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile.
Conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con
carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa
che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli
opposti interessi;
b) la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le
pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì
dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all’altra;
c) l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art.
41-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge n. 1150 del 1942, per cui in forza
dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10
metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i
Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale
disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti
urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel PRG
al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce quindi un principio assoluto ed inderogabile, che prevale sia
sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina
privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e
pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale
sovraordinata, sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto
tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti;
d) ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e
regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si
deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma
anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente
che ne comporti l'aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente
incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò
anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore
volumetria e/o dall’utilizzabilità della stessa a fini abitativi;
e) la sopraelevazione deve essere considerata come nuova
costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della
normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo
confinante; risulta, in tal caso, inapplicabile il criterio di prevenzione,
che si esaurisce, viceversa, con il completamento, dal punto di vista
strutturale e funzionale, della prima costruzione.
---------------
10. Per quanto riguarda il mancato rispetto delle distanze, alla base del
provvedimento impugnato, il Collegio si richiama ai seguenti principi
affermati dalla giurisprudenza e recentemente sintetizzati nella sentenza
della IV Sezione n. 6378/2018:
a) l’art. 9 del d.m. del 1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in
tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108; Cons. Stato, Sez.
V, 19.10.1999 n. 1565; da ultimo, Cass. civ., Sez. II, 03.10.2018 n. 24076);
conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con
carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa
che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli
opposti interessi (cfr. Cass., Sez. II, 16.08.1993 n. 8725 e 07.06.1993 n.
6360);
b) la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano (Cons. St., Sez. V, 16.02.1979, n. 89).
Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a
quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (Cass., Sez. II, 30.03.2001 n. 4715), indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass., Sez. II, 03.08.1999 n.
8383; Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909; id., 02.11.2010, n. 7731);
c) l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art.
41-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge n. 1150 del 1942, per cui in forza
dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10
metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i
Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale
disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti
urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel PRG
al posto della norma illegittima (Cass. civ., Sez. II, 29.05.2006, n.
12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce quindi un principio assoluto ed inderogabile (Cass. civ., Sez.
II, n. 11013/2002), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in
quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost., n.
232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni,
in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata (Cass. civ.,
Sez. II, n. 23495/2006), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in
quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle
parti (Cons. St., Sez. IV, 3094 del 2007);
d) ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e
regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si
deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma
anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente
che ne comporti l'aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente
incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò
anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore
volumetria e/o dall’utilizzabilità della stessa a fini abitativi (Cass., n.
8383 del 1999, cit.);
e) la sopraelevazione deve essere considerata come nuova
costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della
normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo
confinante; risulta, in tal caso, inapplicabile il criterio di prevenzione,
che si esaurisce, viceversa, con il completamento, dal punto di vista
strutturale e funzionale, della prima costruzione (Cass. n. 5049/2018).
Nel caso si specie non è in discussione che le distanze previste non siano
state rispettate e, in considerazione della loro inderogabilità, non è
rilevante la proprietà degli immobili.
Non sono pertanto accoglibili le censure proposte dall’appellante al terzo e
quarto motivo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 23.05.2019 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Finestre
e luci.
Premesso che l'art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di
distanze tra edifici, fa espresso ed
esclusivo riferimento alle pareti finestrate,
per tali dovendosi intendere unicamente le
pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle
quali si aprono semplici luci, non possono
essere considerate “vedute” alla stregua
dell'articolo 900 codice civile aperture
munite di grate di ferro e collocate ad
un’altezza tale dal pavimento del luogo al
quale si vuole dare luce ed aria che non
consentono le funzioni della veduta in
condizioni di sufficiente comodità e
sicurezza e non sono raggiungibili
normalmente senza l’ausilio di strumenti
appositi, non permettendo cioè né di
affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio)
né di guardare di fronte, obliquamente o
lateralmente (inspectio)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.05.2019 n. 1168 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
3. Venendo all’esame del merito il Collegio
ritiene che abbia carattere prioritario ed
assorbente l’esame del secondo motivo
di ricorso.
Se infatti, come ritenuto dal ricorrente, le
distanze previste dall’art. 9 del D.M.
1444/1968 non debbono essere rispettate con
riferimento alle luci, vengono meno anche le
assunte ragioni di illegittimità del
permesso di costruire e di interesse
pubblico al suo annullamento in autotutela,
e cade anche l’ordine di demolizione
contestato con i successivi motivi.
In merito occorre specificare che la Sezione
(TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30/11/2018
n. 2706) ha affermato che “l'art.
9 del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di
distanze tra edifici, fa espresso ed
esclusivo riferimento alle pareti finestrate,
per tali dovendosi intendere unicamente le
pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle
quali si aprono semplici luci
(Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n.
4628; cfr., nella giurisprudenza civile,
Cassazione civile, sez. II, 20.12.2016, n.
26383). L’operatività della
previsione è, quindi, condizionata dalla
natura delle aperture”.
Nel caso di specie né nel sopralluogo del
tecnico comunale del 14.09.2017 né nel
provvedimento impugnato il Comune ha preso
posizione in merito alla natura delle
aperture.
In sede giudiziale poi né il Comune né la
controinteressata hanno contestato la
qualificazione delle c.d. “finestrature
con interposte parti apribili ed entrambe
munite di grate in ferro”, come
qualificate nel verbale di sopralluogo, in
termini di luci o vedute.
Dall’esame degli atti e delle fotografie
prodotte risulta chiaro che
le aperture di cui si discute sono
qualificabili in termini di luce e non di
veduta.
Esse infatti sono munite di
grate di ferro e sono collocate ad
un’altezza tale dal pavimento del luogo al
quale si vuole dare luce ed aria, che non
sono esercitabili le funzioni della veduta
in condizioni di sufficiente comodità e
sicurezza
(Cass. n. 18910 del 2012; Cass. n. 7267 del
2003) e non sono le stesse
raggiungibili normalmente senza l’ausilio di
strumenti appositi.
Non possono quindi di certo
considerarsi “vedute” alla stregua
dell'articolo 900 codice civile -non
consentendo né di affacciarsi sul fondo del
vicino (prospectio) né di guardare di
fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-,
ma semplici “luci” in quanto
consentono il solo passaggio dell'aria e
della luce
(in questo senso Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.10.2015 n. 4628).
Ne consegue, anche senza
l’accertamento specifico dell'altezza
prescritta ex art. 901 c.c., che è possibile
affermare, senza ombra di dubbio, che le
aperture in questione non sono “vedute”
(sulla sufficienza di tale prova negativa
Cass. Civile Ord. Sez. 2 19/02/2019 n. 4830)
e quindi vanno qualificate come “luci”
ai sensi dell'art. 902 c.c..
Ne consegue, assorbite le restanti censure,
che il ricorso va accolto in quanto
l’annullamento in autotutela del permesso di
costruire è stato disposto per violazione
della distanza minima di 10 metri tra pareti
finestrate prevista dall’art. 9 del DM
1444/1968, in mancanza dei presupposti per
l’applicazione della suddetta normativa.
Il venir meno del provvedimento di
autotutela determina la caducazione
dell’ordine di demolizione, di cui il primo
costituisce atto presupposto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Danno
da rumore causato dal supermercato: sentenza della Cassazione.
L'evento di disturbo deve essere potenzialmente idoneo
ad essere risentito da un numero indeterminato di persone. Il fastidio non
deve essere limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa o agli
abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di
propagazione.
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1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, per come
articolati, non sono inammissibili; sono infondati il terzo ed il quarto
motivo di ricorso, per le ragioni che seguono.
1.1. Dal contenuto della motivazione deve ritenersi che la condanna sia
stata pronunciata per la contravvenzione di cui al comma 1 dell'art. 659
cod. pen.
La condotta sanzionata dal secondo comma dell'art. 659 cod. pen. è soltanto
quella costituita dalla violazione delle disposizioni della legge o delle
prescrizioni dell'autorità che disciplinano l'esercizio della professione o
del mestiere, mentre l'emissione di rumori eccedenti la normale
tollerabilità ed idonei a disturbare le occupazioni o il riposo delle
persone rientra nella previsione del comma 1, indipendentemente dalla fonte
sonora dalla quale i rumori provengono, quindi anche nel caso in cui l'abuso
si concretizzi in un uso smodato dei mezzi tipici di esercizio della
professione o del mestiere rumoroso.
1.2. Il disturbo della pubblica quiete può essere causato esorbitando dal
normale esercizio di una determinata attività con condotte concretamente
idonee a disturbare il riposo e le occupazioni di un numero indeterminato di
persone.
I concetti di rumori eccedenti la normale tollerabilità ed idonei a
disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, oggetto dell'art. 659
comma 1 cod. pen., sono diversi dai limiti massimi o differenziali di
emissione del rumore il cui superamento integra l'illecito amministrativo di
cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447.
Per la ricostruzione dell'ambito applicativo dell'art. 659, comma 1, del
comma 2 dell'art. 659 cod. pen. e dell'art. 10, comma secondo, della legge
26.10.1995, n. 447, può richiamarsi Cass. Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015,
Rv. 263433, Montoli e altro.
1.3. Nel reato previsto dall'art. 659 cod. pen. l'oggetto della tutela
penale è dato dall'interesse dello Stato alla salvaguardia dell'ordine
pubblico, considerato nel particolare aspetto della tranquillità pubblica,
consistente in quella condizione psicologica collettiva, inerente
all'assenza di perturbamento e di molestia nel corpo sociale.
Il bene giuridico protetto viene offeso dal disturbo delle occupazioni e del
riposo delle persone, cagionato mediante rumori, e cioè da suoni intensi e
prolungati, di qualunque specie e natura, atti a determinare il turbamento
della tranquillità pubblica, o da schiamazzi.
1.4. Secondo la giurisprudenza, invero, per integrare il reato di cui
all'art. 659, comma 1, è necessario che il fastidio non sia limitato agli
appartamenti attigui alla sorgente rumorosa (Sez. 3, 13.05.2014, n. 23529,
Ioniez, Rv. 259194), o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o
sottostante alla fonte di propagazione (Sez. 1, 14.10.2013, n. 45616,
Virgillito, Rv. 257345), occorrendo invece la prova che la propagazione
delle onde sonore sia estesa quanto meno ad una consistente parte degli
occupanti l'edificio, in modo da avere una diffusa attitudine offensiva ed
una idoneità a turbare la pubblica quiete.
La rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come
fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede
l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal
legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale
diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere
risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente
solo taluna se ne possa lamentare (Cass. Sez. 1, 29.11.2011, n. 47298, lori,
Rv. 251406; Sez. 3, 27.01.2015, n. 7912, Contino).
1.5. Tanto premesso, deve rilevarsi che dalla sentenza impugnata risulta che
le fonti di rumore fossero costituite in origine dall'attività
dell'esercizio commerciale, quindi a partire dalla loro installazione, dai
frigoriferi esterni, rimossi nel settembre 2012. Secondo la sentenza, pagina
2, anche dopo la rimozione dei frigoriferi esterni le immissioni sonore non
erano state neutralizzate; nel novembre del 2012 si accertò il superamento
dei limiti per le emissioni sonore da parte dei frigoriferi interni. Tale
ultima fonte rumorosa fu neutralizzata nell'aprile del 2013.
1.6. Deve però rilevarsi che non risulta motivato il requisito della
diffusività; come già indicato, l'evento di disturbo deve essere
potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di
persone. Il fastidio non deve essere limitato agli appartamenti attigui alla
sorgente rumorosa o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o
sottostante alla fonte di propagazione.
Dalla sentenza emerge che il disturbo è stato di fatto percepito solo da due
famiglie, quella di Po.Al. e quella di Mo.; dal provvedimento
impugnato risulta che l'indicazione delle altre famiglie che avrebbero
riferito di subire le immissioni sonore è avvenuta senza neanche indicare
con precisione la fonte dell'informazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.05.2019 n. 22459). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Reato di deposito incontrollato di rifiuti non
pericolosi - Configurabilità nei confronti di qualsiasi
soggetto - Responsabilità - Qualifica formale dell'agente o
della natura dell'attività economica - Ininfluenza - Art.
256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Il reato di deposito incontrollato di
rifiuti non pericolosi, di cui all'art. 256, comma 2, D.Lvo
n. 152/2006, è configurabile nei confronti di qualsiasi
soggetto che abbandoni rifiuti nell'esercizio, anche di
fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla
qualifica formale dell'agente o della natura dell'attività
medesima (Sez. 3,
n. 56275 del 24/10/2017, Marcolini), e nei
confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti
nell'esercizio di una attività economica di qualunque
natura, non essendo circoscritto ai soli titolari di imprese
che svolgono le attività di gestione di rifiuti di cui al
comma primo dell'art. 256, D.Lvo n. 152/2006
(Sez. 3, n. 19969 del 14/12/2016, dep. 2017, Boldrin, Rv.
269768; Sez. 3, n. 30133 del 05/04/2017, Saldutti e altro,
Rv. 270323) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.05.2019 n. 22451 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Abuso
d'ufficio e falso al comandante della polizia locale che tollera il
commercio illegale.
Il comandante della Polizia locale che chiude un occhio su una serie di
attività illecite dei venditori ambulanti è responsabile penalmente e non
trova giustificazione neanche quando lamenta di aver avuto un atteggiamento
non doloso, ma di semplice e diffusa tolleranza.
---------------
I reati per i quali è intervenuta condanna nei due gradi di merito chiamano
in causa Be. nella qualità di pubblico ufficiale in quanto Comandante della
Polizia Locale di Bagnara Calabria:
- con il capo C) è contestato il reato
continuato di abuso d'ufficio, per aver procurato ad un ambulante sprovvisto
di autorizzazione un ingiusto vantaggio patrimoniale consistito nel libero
svolgimento dell'attività e nell'ingiusto risparmio delle sanzioni
amministrative (accertato il 26/06/2012);
- con il capo D) sono contestati i reati
continuati di omissione d'atti d'ufficio e di omessa denuncia in relazione
alla mancata identificazione degli ambulanti autori del reato di cui
all'art. 474 cod. pen. e alla conseguente mancata adozione di atti di
polizia giudiziaria (accertato il 30/09/2012);
- con il capo F) sono contestati i reati continuati di
omissione d'atti d'ufficio e di omessa denuncia in relazione alla mancata
identificazione degli autori di un abuso edilizio e alla conseguente mancata
adozione di atti di polizia giudiziaria (accertato il 26/06/2012);
- con il capo L) è contestato il reato di falsità ideologica
commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico, perché, a seguito di
presentazione di istanza da parte di Fr.An.Ca. diretta ad ottenere
l'autorizzazione ad occupare una porzione di suolo pubblico per un'attività
commerciale, formava un parere attestando falsamente che l'occupazione
rispettava le prescrizioni del codice della strada, laddove l'occupazione
stessa insisteva tra due strade -con ciò creando pericolo per la
circolazione veicolare- e interamente sul marciapiede (il 05/07/2011);
- con il capo M) è contestato il reato di falsità ideologica
commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico, perché attestava
falsamente in una nota esplicativa di aver provveduto ad una ricognizione
generale delle occupazioni già in essere da parte degli esercizi
commerciali, accertando che le occupazioni relative ad una serie di locali
non rispettavano i requisiti del codice della strada, laddove già all'atto
del rilascio del parere le occupazioni non erano conformi a detti requisiti
(il 27/06/2012);
- con il capo O) è contestato in concorso a Be., a Ca.Fu. e
ad An.Fu. il reato continuato di invasione di suolo demaniale (accertato il
09/08/2012).
...
2. Muovendo dal ricorso nell'interesse di Be., il primo motivo, nella parte
relativa all'imputazione sub C), è inammissibile.
Ripercorso il compendio probatorio nella parte d'interesse, la Corte di
appello ha osservato che i dati probatori rendono ragione non già di un
singolo episodio nel quale l'imputato ha mostrato un atteggiamento di
tolleranza nei confronti di un commerciante abusivo, ma di un indiscriminato
e diffuso clima di illegalità che investiva tutto il territorio di Bagnara
Calabra: i fatti di cui all'imputazione, osserva dunque la Corte
distrettuale, sono ben lontani dall'atteggiamento di tolleranza prospettato
dalla difesa, in quanto rappresentano «una sorta di scelta dettata dalle
priorità che portavano a privilegiare taluni aspetti piuttosto che altri»,
colorandosi di «vera e propria tolleranza all'illegalità diffusa che mal
si concilia ed anzi si contrappone a quelli che sono i doveri del pubblico
ufficiale», tanto più che Be. «non si limitava ad una condotta
tendente a favorire il commerciante abusivo ma andava oltre rallentando
l'iter relativo alla contravvenzione elevata mostrando con tale condotta
successiva la volontà di favorire il predetto commerciante».
Nei termini indicati, la sentenza impugnata ha dato conto della prova del
dolo intenzionale sulla base di una serie di indici fattuali, tra i quali
assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni (Sez.
3, n. 35577 del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633), ossia di elementi
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio
patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (Sez. 6, n. 52882 del
27/09/2018, Pastore, Rv. 274580).
Il ricorso reitera le censure in ordine al dolo intenzionale e alla
riconducibilità dei fatti ad una sorta di tolleranza occasionale, omettendo
di confrontarsi con i dati richiamati dal giudice di appello e con le
inferenze tratte, in termini immuni da vizi logici, sulla base di essi: dati
che, come si è visto, rendono ragione del carattere tutt'altro che
occasionale delle condotte oggetto dell'imputazione e della loro proiezione
finalistica a "favorire" l'ambulante, secondo il testuale riferimento
tratto da una conversazione intercettata.
Le censure, pertanto, sono del tutto carenti della necessaria correlazione
tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a
fondamento dell'impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv.
253849).
3. Il primo motivo, nella parte relativa all'imputazione sub D), è
del pari inammissibile.
In premessa, mette conto rimarcare come i giudici di merito abbiano
ricondotto alla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 361 cod. pen.
l'omissione del doveroso rapporto all'autorità giudiziaria della messa in
vendita di prodotti contraffatti da parte dei venditori ambulanti e a quella
di cui all'art. 328 cod. pen. l'omesso sequestro della merce e l'omessa
identificazione dei detentori.
Ciò posto, le censure reiterano quelle esaminate e disattese dalla Corte
distrettuale, che ha escluso l'invocata irrilevanza penale delle omissioni
in questione in ragione di asserite ragioni di interesse superiore
(collegate alla festa patronale e al notevole afflusso di persone),
richiamando i dati probatori dimostrativi, da un lato, dell'ostacolo alla
viabilità determinato proprio dall'esposizione della merce contraffatta e,
dall'altro, della circostanza che l'imputato omise di intervenire per
assecondare le sollecitazioni di un terzo («un santo in paradiso che li
ha salvati»).
Anche per questo capo, il ricorso si sottrae alla specifica disamina critica
della motivazione resa dalla Corte distrettuale sulla base di dati probatori
non contestati e con argomentazione esente da cadute di conseguenzialità
logica (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza
21.05.2019 n. 22145). |
EDILIZIA PRIVATA: La
recinzione è attività che viene permessa ex art. 841 c.c. per precludere a
terzi l’ingresso nella proprietà privata ed ha rilievo edilizio solo quando
fatta con materiale che le diano un ancoramento al terreno.
---------------
La recinzione in pali di legno e rete metallica non è idonea a concretare un
reale impatto sul territorio, assumendo in realtà le caratteristiche proprie
di un modesto intervento volto a tutelare la proprietà privata e, quindi,
costituente esercizio di un'attività del tutto libera.
Tale aspetto rileva anche in relazione al vincolo ambientale esistente,
laddove l'opera realizzata non integra gli estremi di un intervento
edilizio, in quanto l'esistenza del vincolo, pur comportando l'applicazione
di una specifica normativa di protezione, non modifica la disciplina dei
titoli edilizi.
---------------
La recinzione è attività che viene permessa ex art. 841 c.c. per precludere
a terzi l’ingresso nella proprietà privata ed ha rilievo edilizio solo
quando fatta con materiale che le diano un ancoramento al terreno.
La recinzione in pali di legno e rete metallica non è idonea a concretare un
reale impatto sul territorio, assumendo in realtà le caratteristiche proprie
di un modesto intervento volto a tutelare la proprietà privata e, quindi,
costituente esercizio di un'attività del tutto libera.
Tale aspetto rileva anche in relazione al vincolo ambientale esistente,
laddove l'opera realizzata non integra gli estremi di un intervento
edilizio, in quanto l'esistenza del vincolo, pur comportando l'applicazione
di una specifica normativa di protezione, non modifica la disciplina dei
titoli edilizi ( TAR Toscana 1703/2015, 391/2012 )
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.05.2019 n. 757 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: La
scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero del piano di
lottizzazione) rileva esclusivamente nell'ambito della sola disciplina
urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle
obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi, con la
conseguenza che "mentre per i crediti espressi in un importo monetario (ad
esempio, il contributo di costruzione) decorre il normale termine di
prescrizione decennale, la cessione gratuita di aree non è soggetta a
prescrizione, almeno finché l'Amministrazione non decida di liberare il
fondo dei privati disponendo la monetizzazione dello standard".
---------------
Devono altresì richiamarsi i principi giurisprudenziali secondo cui la
scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero del piano di
lottizzazione) rilevi esclusivamente nell'ambito della sola disciplina
urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle
obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons.
Stato, Ad. Plen., 20.07.2012, n. 28), con la conseguenza che "mentre per
i crediti espressi in un importo monetario (ad esempio, il contributo di
costruzione) decorre il normale termine di prescrizione decennale (TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 03.05.2014 n. 464), la cessione gratuita di aree
non è soggetta a prescrizione, almeno finché l'Amministrazione non decida di
liberare il fondo dei privati disponendo la monetizzazione dello standard
(TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 15.09.2015 n. 991)" (cfr. TAR
Lombardia-Brescia, sez. I, 22/10/2018 n. 1005 e 25.09.2018 n. 902)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 21.05.2019 n. 423 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI SERVIZI: Appalti
con manodopera con analisi qualità/prezzo. L’Adunanza plenaria risolve un
contrasto giurisprudenziale.
Gli appalti di servizi ad alta intensità di
manodopera devono sempre essere affidati utilizzando il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, anche se si tratta di appalti
che abbiano caratteristiche standard.
A questa conclusione, recepita quasi
«in diretta» nel decreto-legge sblocca cantieri, è giunto il
Consiglio di stato con la
sentenza 21.05.2019 n. 8
in Adunanza plenaria che ha risolto una querelle giurisprudenziale
sull'interpretazione degli articoli 50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a),
del codice appalti (dlgs 50/2016).
Si trattava di comprendere quale criterio di aggiudicazione si dovesse
adottare in caso di appalto che avesse contemporaneamente caratteristiche di
alta intensità di manodopera (ovvero il cui costo per tale voce dell'offerta
sia «pari almeno al 50% dell'importo totale del contratto») e
standardizzate.
Il contrasto di giurisprudenza (applicazione del criterio qualità/prezzo o
del criterio del minore prezzo) si era determinato a causa di alcune
pronunce (della terza sezione) che avevano affermato la prevalenza del
criterio del massimo ribasso ai sensi dell'art. 95, comma 4, lett. b), del
codice appalti sul presupposto che la tipologia di cui alla lett. b) del
comma 4 dell'art. 95 (servizi e forniture standardizzate) riguardasse un
ipotesi del tutto differente dall'appalto «ad alta intensità di
manodopera» di cui all'art. 95, comma 3, lett. a) «che concerne
prestazioni comunque tecnicamente fungibili».
La terza sezione, sottolinea l'Adunanza plenaria, non aveva effettuato
un'analisi del rapporto strutturale tra le due diverse disposizioni di
legge. Diversamente, dicono i giudici, si sarebbe invece arrivati alla
conclusione che in ogni caso i servizi ad alta intensità di manodopera,
ancorché standardizzati, devono essere aggiudicati con il criterio del
miglior rapporto qualità/prezzo.
L'argomento peraltro era già stato trattato dall'Autorità nazionale
anticorruzione che aveva affermato che i servizi ad alta intensità di
manodopera, seppure standardizzati, rientrano nell'ambito di applicazione
del comma 3 dell'art. 95 e quindi devono essere aggiudicati esclusivamente
sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa
individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo. Una tesi sposata
anche dall'Adunanza plenaria in virtù del «carattere speciale e
derogatorio di quest'ultima regola (prezzo più basso) rispetto a quella
generale» che impone il ricorso al criterio qualità/prezzo.
Peraltro del contenuto dell'Adunanza plenaria, quasi «in diretta», si
è tenuto conto anche nell'ambito dell'esame del decreto-legge n. 32/2019, il
c.d. sblocca cantieri. Infatti con un emendamento all'articolo 1, comma 1,
lettera s), approvato il 17 maggio, si era provveduto ad un intervento
modificativo del comma 4 dell'articolo 95 del codice dei contratti pubblici
che stabilisce i casi in cui si possa ricorrere al criterio del «prezzo
più basso» e cita anche i «servizi e le forniture con caratteristiche
standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato».
L'emendamento chiarisce che da questi appalti di servizi e forniture
standardizzate sono comunque sempre esclusi i «i servizi ad alta
intensità di manodopera di cui al comma 3, lettera a)». E così il
cerchio sembra essersi chiuso in una apparentemente virtuoso rapporto fra
legislatore e giudice (articolo ItaliaOggi del 25.05.2019). |
APPALTI SERVIZI: L’Adunanza
plenaria ha pronunciato sull’obbligo di ricorrere al criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa nel caso di servizi ad alta intensità di
manodopera.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente
più vantaggiosa - Servizi ad alta intensità di manodopera – Necessità.
Gli appalti di servizi ad alta intensità di manodopera
ai sensi degli artt. 50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei
contratti pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio del miglior
rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi abbiano anche
caratteristiche standardizzate ai sensi del comma 4, lett. b), del medesimo
codice (1).
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(1) La questione era stata rimessa da
Cons. St., sez. III, 05.02.2019, n. 882.
Ha chiarito l’Alto consesso che in questo senso va composto il contrasto di
giurisprudenza venutosi a creare per effetto delle pronunce richiamate dalla
Sezione rimettente, in particolare per effetto della sentenza della III
Sezione del 13.03.2018, n. 1609, che pure per un servizio di vigilanza
antincendio a favore di un’azienda sanitaria locale, aveva invece affermato
la prevalenza del criterio del massimo ribasso ai sensi dell’art. 95, comma
4, lett. b), del codice dei contratti pubblici (peraltro supponendo che: «la
tipologia di cui alla lett. b) del comma 4 dell’art. 95 attiene ad un
ipotesi ontologicamente del tutto differente sia dall’appalto “ad alta
intensità di manodopera” di cui all’art. 95, comma 3, lett. a), che concerne
prestazioni comunque tecnicamente fungibili»; e non già all’esito di
un’analisi del rapporto strutturale tra le due diverse disposizioni di
legge).
Richiamato il principio poc’anzi espresso, va quindi ribadito che le
caratteristiche di servizio ad alta intensità di manodopera della vigilanza
antincendio non consentono che lo stesso sia aggiudicato con il criterio del
massimo ribasso, benché caratterizzato anche da una forte standardizzazione
dello attività in esso comprese.
Ha affermato che il comma 3 dell’art. 95 del Codice dei contratti si pone ad
un punto di convergenza di valori espressi in sede costituzionale e facoltà
riconosciute a livello europeo ai legislatori nazionali, per la
realizzazione dei quali nel codice dei contratti pubblici il miglior
rapporto qualità/prezzo è stato elevato ad criterio unico ed inderogabile di
aggiudicazione per appalti di servizi in cui la componente della manodopera
abbia rilievo preponderante.
Sulla base dell’analisi normativa interna ed europea, e della cornice
indirizzo politico-legislativo ad esse presupposta, si può dunque pervenire
a definire il rapporto tra i commi da 2 a 5 dell’art. 95 in esame nel senso
seguente:
- ai sensi del comma 2 le amministrazioni possono aggiudicare i
contratti di appalto pubblico secondo il criterio (ora denominato in
generale) dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata dal
miglior rapporto qualità/prezzo o che abbia a base il prezzo o il costo,
seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia;
- in attuazione della facoltà riconosciuta agli Stati membri dalla
direttiva 2014/24/UE di escludere o limitare per determinati tipi di appalto
il solo prezzo o il costo (art. 67, par. 2, ultimo cpv., sopra citato), e in
conformità ai criteri direttivi della legge delega n. 11 del 2016, il comma
3 pone invece una regola speciale, relativa tra l’altro ai servizi ad alta
intensità di manodopera, derogatoria di quella generale, in base alla quale
per essi è obbligatorio il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo;
- per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate
si riespande invece la regola generale posta dal comma 2, con il ritorno
alla possibilità di impiegare un criterio di aggiudicazione con a base
l’elemento prezzo, e precisamente il «minor prezzo», purché questa
scelta sia preceduta da una «motivazione adeguata».
Nell’ipotesi in cui un servizio ad alta intensità di manodopera abbia
contemporaneamente caratteristiche standardizzate ai sensi del comma 4,
lett. b), del medesimo art. 95, come nel caso che ha dato origine alla
rimessione a questa Adunanza plenaria, vi è un concorso di disposizioni di
legge tra loro contrastanti, derivante dal diverso ed antitetico criterio di
aggiudicazione rispettivamente previsto per l’uno o l’altro tipo di servizio
e dal diverso grado di precettività della norma. Si pone quindi un conflitto
(o concorso apparente) di norme, che richiede di essere risolto con
l’individuazione di quella prevalente. Il conflitto così prospettato non può
che essere risolto a favore del criterio di aggiudicazione del miglior
rapporto qualità/prezzo previsto dal comma 3, rispetto al quale quello del
minor prezzo invece consentito in base al comma 4 è subvalente.
La soluzione ora espressa (di recente riaffermata dalla V Sezione di questo
Consiglio di Stato, con sentenza 24.01.2019, n. 605) è infatti
conseguenza diretta di quanto rilevato in precedenza, e cioè del carattere
speciale e derogatorio di quest’ultima regola rispetto a quella generale,
laddove il criterio del minor prezzo ai sensi del comma 4 ne segna invece il
ritorno, con la riaffermazione della facoltà di scelta discrezionale
dell’amministrazione di aggiudicare l’appalto secondo un criterio con a base
il (solo) prezzo.
Il ritorno alla regola generale incontra tuttavia un ostacolo insuperabile
nella deroga prevista nel comma 3, che impone alle amministrazioni un
obbligo anziché una mera facoltà, per cui per effetto di essa in tanto è
possibile aggiudicare i contratti di appalto di servizi con caratteristiche
standardizzate al massimo ribasso in quanto il servizio non abbia nel
contempo abbia caratteristiche di alta intensità di manodopera
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 21.05.2019 n. 8 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
intervento di demolizione e successiva ricostruzione può essere qualificato
come di ristrutturazione edilizia solo laddove vi sia una certa continuità
tra la nuova opera e quella precedente alla demolizione.
Il criterio discretivo tra l’intervento di “demolizione e ricostruzione” e
la “nuova costruzione” è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di
variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui,
in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di
intervento equiparabile a “nuova costruzione”, da assoggettarsi alle regole
proprie della corrispondente attività edilizia.
Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito
dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata
dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto proprio perché non vi è più il limite
della ‘fedele ricostruzioné si richiede la conservazione delle
caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che
debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i
volumi, per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire
per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche
fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione
dell’edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a
sagoma, superfici e volumi.
---------------
8.1.2. L’appellante, nel motivo in esame, affida i propri rilievi ad
un’ulteriore osservazione che impinge nella qualificazione giuridica
dell’intervento realizzato, riconducibile, secondo le sue prospettazioni,
alla fattispecie di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, laddove
annovera tra gli interventi edilizi anche quelli di ristrutturazione c.d.
pesante, che portano alla realizzazione di un organismo edilizio diverso dal
preesistente.
Tale intervento, tuttavia, anche nella sua versione cosiddetta “pesante”,
è da intendere come un intervento di recupero, che nel caso di specie non si
configura dal momento che, come sopra precisato, il manufatto preesistente
risulta interamente demolito. A sua volta il concetto stesso di ampliamento
non può prescindere dalla permanenza in situ di una parte del
manufatto preesistente nella sua consistenza edilizia originaria, nel caso
di specie insussistente.
Infatti un intervento di demolizione e successiva ricostruzione può essere
qualificato come di ristrutturazione edilizia solo laddove vi sia una certa
continuità tra la nuova opera e quella precedente alla demolizione. Il
criterio discretivo tra l’intervento di “demolizione e ricostruzione”
e la “nuova costruzione” è costituito proprio, nel primo caso,
dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma
dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise
condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a “nuova
costruzione”, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente
attività edilizia.
Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito
dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata
dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto “proprio perché non vi è più il
limite della ‘fedele ricostruzione’ si richiede la conservazione delle
caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che
debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i
volumi” per cui “la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non
finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le
caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva
ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le precedenti linee
fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi” (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 09.08.2018, n. 4880).
Nel caso di specie, tale conformità con il preesistente non sussiste e
pertanto emergono i presupposti per ritenere le opere de quibus non
suscettibili di sanatoria, avuto riguardo a quanto statuito dall’art. 2
della legge Regione Lombardia n. 31 del 2004, che, nell’introdurre una
disciplina più restrittiva rispetto all’art. 32 del D.L. n. 269 del 2003,
consente la sanabilità degli “ampliamenti entro i limiti massimi del 20
per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa,
di 500 metri cubi” ed esclude, invece, dal condono “le opere abusive
relative a nuove costruzioni, residenziali e non, qualora realizzate in
assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi agli strumenti
urbanistici generali vigenti alla data di entrata in vigore della presente
legge”.
La natura dell’intervento quale opera di “nuova costruzione” invece
che di ampliamento, come afferma parte appellante, comporta quindi che esso
non è riconducibile all’alveo applicativo del condono come regolato dalla
disciplina regionale, promulgata a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 196 del 2004
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 3208 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si lamenta che
l’emissione dell’ordine demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla
necessaria partecipazione procedimentale.
La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la
considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non
rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione
procedimentale.
Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio come
“l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla
sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa
la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In
sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione
ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della
natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la
preventiva comunicazione di avvio del procedimento, né un’ampia
motivazione”.
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8.3. Infondato è anche il terzo
mezzo, col quale, nel reiterare la corrispondente censura di primo grado
(pagina 10 dei motivi aggiunti), si lamenta che l’emissione dell’ordine
demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla necessaria partecipazione
procedimentale.
La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la
considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non
rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione
procedimentale.
Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in
particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente
si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017,
n. 5595, nonché Cons. Stato n. 2799/18), “l’ordine di demolizione è un
atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e
non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto
interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la
sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di
adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e
quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura
vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la
preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un’ampia motivazione”.
Peraltro, come correttamente rilevato dal Tribunale, le osservazioni
presentate dall’appellante avverso l’ordinanza di demolizione riproponevano
sostanzialmente argomenti già confutati dall’Amministrazione con il diniego
di condono, osservazioni che, quindi, non hanno imposto all’Amministrazione
di ripercorrere anche nella (consequenziale) ordinanza di demolizione quanto
già controdedotto nel precedente diniego.
Dagli atti di causa è peraltro dato rilevare che, a seguito del diniego di
condono del 30.05.2007, il Comune di Seregno ha comunicato al signor Lu. Di
Na. l’avviso di avvio procedimentale del 28.05.2008, a seguito del quale
questi ha fatto pervenire, in data 01.07.2008, le sue controdeduzioni a
proposito delle quali l’Amministrazione, nel corpo dell’ingiunzione a
demolire, evidenzia che “quanto osservato non trova riscontro negli atti
d’ufficio e nella documentazione depositata presso questa Amministrazione”.
Da tale sia pur sintetica locuzione si evince che l’Amministrazione si è
soffermata sul contributo partecipativo reso dal destinatario del
provvedimento demolitorio (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 3208 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’ingiustificata inottemperanza
all’ordine di demolizione comporti l’automatica acquisizione gratuita
dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune, ai sensi dell’art. 31,
comma 3, del TU Edilizia.
In base al comma 4 della stessa disposizione, l’accertamento di tale
inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all’iscrizione nei
registri immobiliari ed all’immissione nel possesso, per cui il relativo
atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura
meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di esternare e
formalizzare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo
all’amministrazione, che si è già prodotto per il mero decorso del tempo,
una volta che sia venuto a scadenza il termine previsto dalla legge e
indicato nel provvedimento di demolizione.
---------------
Il verbale d’inottemperanza non è impugnabile, in quanto “Il provvedimento
di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e quello
successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell’area di
sedime debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti
all’ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei
luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili, in
mancanza di impugnazione dell’atto con cui si ingiunge la demolizione o di
irricevibilità dell’impugnazione tardivamente proposta avverso tale atto”.
La notificazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza
all’ordinanza di demolizione, inoltre, “non ha alcun contenuto dispositivo,
limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l’inadempimento
dell’ordine di demolizione, non è quindi necessario che lo stesso venga
notificato al responsabile dell’abuso prima di adottare il provvedimento con
cui si disponga l’acquisizione gratuita, rilevando l’adempimento della
notificazione all’interessato dell’accertamento formale
dell’0inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all’ente l’immissione
in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo
dell’acquisizione”.
---------------
Nella disciplina statale non par dubbio che il proprietario possa essere
coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza
all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo
all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a
prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che
tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei
principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili
dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro
ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost..
E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio,
non aventi carattere ‘personale’ ma reale, essendo adottate in funzione di
accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine
demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di
ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente
interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio.
---------------
9. L’appello è infondato.
9.1. I rilievi sollevati col gravame in esame impingono nella stessa
dinamica del procedimento sanzionatorio innescato dall’esecuzione di opere
edilizie abusive, evidenziandosi che la contestazione circa la
legittimazione passiva rispetto all’atto che dispone l’acquisizione
dell’abuso al patrimonio indisponibile del Comune non postula l’efficace
impugnativa della previa ordinanza demolitoria.
Invero, l’appellante avversa il passaggio della motivazione dell’impugnata
sentenza, col quale il giudice di prime cure ha evidenziato la natura
automatica dell’effetto acquisitivo alla scadenza del termine per
l’esecuzione della sanzione demolitoria, che è stata sì impugnata
dall’appellante ma con ricorso dichiarato improcedibile dal Tribunale con la
sentenza n. 264 cit..
9.2. Per vero, questo Consiglio ha ribadito, di recente, che l’effetto
acquisitivo si produce automaticamente al decorso del termine di 90 giorni
previsto per l’esecuzione della demolizione e che il verbale che attesta
l’inottemperanza all’ordine demolitorio non è suscettibile di autonoma
impugnativa.
Per il primo profilo si è infatti osservato che: “La giurisprudenza sul
punto è concorde nel ritenere che l’ingiustificata inottemperanza all’ordine
di demolizione comporti l’automatica acquisizione gratuita dell’immobile al
patrimonio disponibile del Comune, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del TU
Edilizia. In base al comma 4 della stessa disposizione, l’accertamento di
tale inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all’iscrizione
nei registri immobiliari ed all’immissione nel possesso, per cui il relativo
atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura
meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di esternare e
formalizzare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo
all’amministrazione, che si è già prodotto per il mero decorso del tempo,
una volta che sia venuto a scadenza il termine previsto dalla legge e
indicato nel provvedimento di demolizione (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
14.04.2015 n. 1884)” (cfr. sentenza Cons. Stato, sez. IV, 16.01.2019, n.
398).
Per il secondo aspetto, questo Consiglio ha rilevato che il verbale
d’inottemperanza non è impugnabile, in quanto “Il provvedimento di
accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e quello
successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell’area di
sedime debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti
all’ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei
luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili, in
mancanza di impugnazione dell’atto con cui si ingiunge la demolizione o di
irricevibilità dell’impugnazione tardivamente proposta avverso tale atto”
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.07.2018, n. 4479).
La notificazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza
all’ordinanza di demolizione, inoltre, “non ha alcun contenuto
dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata
l’inadempimento dell’ordine di demolizione, non è quindi necessario che lo
stesso venga notificato al responsabile dell’abuso prima di adottare il
provvedimento con cui si disponga l’acquisizione gratuita, rilevando
l’adempimento della notificazione all’interessato dell’accertamento formale
dell’0inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all’ente l’immissione
in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo
dell’acquisizione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.05.2014, n. 2368).
Vale quindi il principio, confermato di recente da questo Consiglio, secondo
cui “Nella disciplina statale, infatti, non par dubbio che il
proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo
all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in
particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio
comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta
responsabilità nell’illecito edilizio. La giurisprudenza amministrativa ha
avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di
criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali
ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che
trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base
all’art. 117 Cost.. E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni
in senso improprio, non aventi carattere ‘personale’ ma reale, essendo
adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia
conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la
effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la
soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del
territorio” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.07.2017, n. 3366; Cons.
Stato, sez. VI, 15.04.2015, n. 1927).
Alla luce dell’orientamento assunto da questo Consiglio, dal quale il
Collegio non ha motivo di discostarsi, le critiche sollevate dall’appellante
non sono in grado di superare le statuizioni in rito contenute
nell’impugnata sentenza, aventi effetto preclusivo all’indagine del merito
del ricorso, che pertanto vanno in questa sede confermate
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 3207 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire formatosi per silentium: é ammessa la decadenza per mancato
avvio dei lavori?
Due cittadine pugliesi presentavano istanza per ottenere dal Comune un
permesso di costruire. L’Amministrazione civica si guardava bene dal
pronunciarsi sulla domanda e, a detta delle istanti, sulla stessa si formava
il silenzio assenso.
Ad un certo punto il Comune emanava invece un provvedimento di decadenza del
titolo, formatosi per silentium, sul presupposto che le due donne non
avevano iniziato i lavori tempestivamente.
A questo punto costoro presentavano ricorso al TAR assumendo in particolare
che l’atto contestato era viziato da sviamento, travisamento,
contraddittorietà-illogicità.
Il TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 725, ha accolto l’impugnativa.
Il Collegio ha preliminarmente osservato che la formazione del
silenzio-assenso (art. 5 legge 12.07.2011 n. 106) sulla domanda di
permesso di costruire (art. 20, comma 8, del T.U. 6 giugno 2001 n. 380)
postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti amministrativi e
tecnici, sia soggettivi che oggettivi, di accoglibilità, in quanto in
assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei detti
presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo
tacito può validamente formarsi.
Tale forma di silenzio, che origina un titolo edilizio tacito, equivalente
al provvedimento, pur tuttavia non incide in senso abrogativo sull’esistenza
del regime autorizzatorio edilizio, che rimane inalterato, bensì introduce
solo un’alternativa modalità, presuntivamente semplificata, di tipo
“rimediale” per il conseguimento dell’autorizzazione anelata, laddove
l’amministrazione rimanga inerte.
Tuttavia trattasi pur sempre di un’alternativa posta nell’interesse del
destinatario, ossia del soggetto passivo che “attende” il provvedimento.
Secondo l’interessante pronuncia dei giudici pugliesi, la natura rimediale
(e derogatoria) del silenzio-assenso, infatti, va qualificata in senso per
così dire “protettivo” dell’interesse del richiedente all’irrinunciabilità
dell’atto esplicito e formale, preordinato ad evitare l’avvio di un’attività
a gravoso impatto territoriale ed economico, peraltro non facilmente
reversibile.
Ciò posto, non può dunque che essere riconosciuta la facoltà per il privato
di optare per il permesso di costruite in forma espressa, laddove sia pur
prevista la formazione del titolo in forma tacita (e per di più
condizionata).
L’interpretazione da fornirsi in ordine alla “scala” degli atti di assenso
agli interventi edilizi previsti dalla normativa di specie (D.P.R. 06.06.2001 n. 380), va compiuta in senso razionale. Se, dunque, per un intervento
minore è sufficiente la S.C.I.A., ma su richiesta di parte può optarsi per
il rilascio di un permesso di costruire espresso, è quindi, secondo la
logica giuridica, necessario che, per un intervento maggiore, dove è
previsto il permesso di costruire, si possa pretendere il rilascio di un
permesso espresso, seppure in alternativa in base alla normativa possa
risultare sufficiente il silenzio-assenso, peraltro previsto solo in
funzione rimediale all’inerzia e sottoposto a talune condizioni.
E’ stato quindi affermato che rimane nella disponibilità del privato
l’opzione per il rilascio di un provvedimento espresso (art. 2, comma 1, L.
07.08.1990 n. 241), sancito dalla normativa edilizia (D.P.R. 06.06.2001 n. 380) come regola generale, laddove sia stata prevista, come regola
speciale (ma deve ritenersi a ratione solo in via alternativa), la
formazione di un silenzio-assenso.
Difatti, la validità dell’auto-qualificazione compiuta e la completezza o
meno della documentazione, utili a formare il titolo edilizio tacito,
costituisce, anche a seconda della complessità dell’intervento costruttivo a
realizzarsi, una questione talvolta opinabile, in relazione alla quale il
soggetto istante ben può conservare l’interesse a optare per il rilascio di
un titolo edilizio espresso da parte dei competenti uffici comunali, onde
evitare di esporsi al successivo esercizio del potere di autotutela, con
lesione della propria sfera economico-patrimoniale.
Ragion per cui, giammai l’Amministrazione comunale può pronunciare una
“decadenza” in ordine al titolo edilizio tacito (presuntivamente) formatosi,
qualora sia stato richiesto, più volte nel tempo –com’è avvenuto nel caso
di specie– l’emanazione di un provvedimento espresso. In altri termini, non
può pronunciarsi una decadenza, in ordine ad un provvedimento inespresso e
di contenuto indeterminato e indeterminabile, alla stregua della normativa
da applicarsi in concreto.
In buona sostanza con la sentenza in commento il Comune di Trani è stato
obbligato, laddove invero specificamente richiesto e sollecitato, a
pronunciarsi sul rilascio del permesso edilizio in modo espresso, stante il
principio generale imposto dall’art. 2, comma 1, della citata L. n. 241 del
1990: con conseguente annullamento dell’atto di decadenza (commento tratto
da www.ilquotidianodellapa.it - TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 725 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Decadenza,
per mancata conclusione dei lavori, del permesso edilizio rilasciato per
silenzio-assenso.
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Edilizia – Permesso di costruire – Rilasciato per silenzio-assenso –
Decadenza per mancata conclusione dei lavori – Esclusione.
L’amministrazione comunale non può pronunciare la
decadenza per mancata attivazione e conclusione dei lavori, in ordine al
titolo edilizio tacito (presuntivamente) formatosi, qualora sia stato
richiesto, più volte nel tempo, l’emanazione di un provvedimento espresso;
non è infatti configurabile la decadenza su un atto tacito “condizionato”
alla presenza di tutti i requisiti previsti dall’art. 20, comma 8, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (completezza documentale ed esclusione da vincoli), che
sono suscettibili di vario apprezzamento oggettivo e soggettivo
(auto-qualificazione) e, quindi, sono indeterminati ex se nel loro contenuto
precettivo (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che la formazione del silenzio-assenso
(art. 5, l. 12.07.2011. n. 106) sulla domanda di permesso di costruire (art.
20, comma 8, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) postula che l’istanza sia assistita
da tutti i presupposti amministrativi e tecnici, sia soggettivi che
oggettivi, di accoglibilità, giacché in assenza della documentazione
prescritta dalle norme o di uno dei detti presupposti per la realizzazione
dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può validamente formarsi (Cons.
St., sez. IV, 12.07.2018, n. 4273; id.
05.09.2016, n. 3805).
Detta forma di silenzio-assenso non incide in senso abrogativo
sull’esistenza del regime autorizzatorio edilizio, che rimane inalterato,
bensì introduce solo un’alternativa modalità semplificata di tipo
“rimediale” per il conseguimento dell’autorizzazione edilizia anelata, posta
nell’interesse del destinatario, che “attende” il provvedimento. Resta
pertanto ferma l’irrinunciabilità dell’atto esplicito e formale.
2.- Deve, quindi, ritenersi che, allo stesso modo in cui il legislatore ha
previsto, in favore del richiedente il titolo edilizio, per gli interventi
sottoposti a S.C.I.A., la facoltà di optare per il permesso di costruire
espresso (art. 22, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), è quindi a fortiori
riconosciuta la facoltà di optare per il permesso di costruite in forma
espressa, laddove sia pur prevista la formazione del titolo in forma tacita
(e per di più condizionata).
L’interpretazione da fornirsi in ordine alla scala degli atti di assenso
agli interventi edilizi previsti dalla normativa di specie (d.P.R.
06.06.2001, n. 380), va infatti compiuta in senso razionale.
Se per un intervento minore è sufficiente la S.C.I.A., ma su richiesta di
parte può optarsi per il rilascio di un permesso di costruire espresso, è
quindi, secondo la logica giuridica, necessario che, per un intervento
maggiore, dove è previsto il permesso di costruire, si possa pretendere il
rilascio di un permesso espresso, seppure in alternativa in base alla
normativa possa risultare sufficiente il silenzio-assenso, peraltro previsto
solo in funzione rimediale all’inerzia e sottoposto a talune condizioni.
Rimane nella disponibilità del privato l’opzione per il rilascio di un
provvedimento espresso (art. 2, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241), sancito
dalla normativa edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380) come regola
generale, laddove sia stata prevista, come regola speciale, ma deve
ritenersi a ratione solo in via alternativa, la formazione di un
silenzio-assenso, in quanto anche gli strumenti autorizzativi diversi o
minori (c.d. S.C.I.A. e C.I.L.A.) sono consentiti solo nei casi speciali
espressamente contemplati e fanno comunque salva la possibilità di scelta
della richiesta da parte dell’interessato per il rilascio di un
provvedimento espresso (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 725 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
...
per l’annullamento:
- del provvedimento prot. n. 3567/29.01.2019, con cui il Comune di Trani ha
dichiarato la decadenza del permesso di costruire tacito, formatosi in
ordine all’istanza delle ricorrenti (pratica n. 111/2009) per omesso avvio
dei lavori entro il termine annuale.
...
1.- In fatto, le sorelle La. hanno impugnato il provvedimento di
decadenza, per omesso avvio dei lavori entro il termine annuale, pronunciato
in ordine al permesso di costruire tacito, formatosi –secondo quanto
ritenuto dal Comune di Trani– sulla domanda di rilascio del permesso
edilizio presentata dalle ricorrenti.
Difatti, l’amministrazione comunale intimata, a fronte della presentazione
dell’istanza di permesso di costruire, ha serbato silenzio, senza adottare
un provvedimento espresso.
Pertanto, le ricorrenti hanno impugnato il provvedimento in epigrafe per
eccesso di potere, assumendo in particolare l’atto viziato da sviamento,
travisamento, contraddittorietà-illogicità. Inoltre, venivano contestate la
correttezza e la trasparenza dell’azione amministrativa e la violazione del
giudicato di una precedente pronuncia giurisdizionale intervenuta sulla
vicenda.
...
2.- In diritto, va, in via preliminare, osservato che la formazione del
silenzio-assenso (art. 5 legge 12.07.2011 n. 106) sulla domanda di
permesso di costruire (art. 20, comma 8, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380)
postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti amministrativi e
tecnici, sia soggettivi che oggettivi, di accoglibilità, giacché in assenza
della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei detti presupposti
per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può
validamente formarsi (Cons. St., sez. IV, 12.07.2018 n. 4273; Cons. St.,
sez. IV, 05.09.2016 n. 3805).
La giurisprudenza (TAR Puglia, Bari, sez. III, 14.01.2016 n. 37) ha
già avuto modo di precisare che detta forma di silenzio, che origina un
titolo edilizio tacito, equivalente al provvedimento, pur tuttavia non
incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio
edilizio, che rimane inalterato, bensì introduce solo un’alternativa
modalità, presuntivamente semplificata, di tipo “rimediale” per il
conseguimento dell’autorizzazione anelata, laddove l’amministrazione rimanga
inerte.
Epperò, trattasi pur sempre di un’alternativa posta nell’interesse del
destinatario, ossia del soggetto passivo che “attende” il provvedimento.
La natura rimediale (e derogatoria) del silenzio-assenso, infatti, va
qualificata in senso per così dire “protettivo” dell’interesse del
richiedente all’irrinunciabilità dell’atto esplicito e formale, preordinato
ad evitare l’avvio di un’attività a gravoso impatto territoriale ed
economico, peraltro non facilmente reversibile.
3.- Deve, quindi, ritenersi che, allo stesso modo in cui il legislatore ha
previsto, in favore del richiedente il titolo edilizio, per gli interventi
sottoposti a S.C.I.A., la facoltà di optare per il permesso di costruire
espresso (art. 22, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), è quindi a fortiori da ritenersi che debba essere riconosciuta la facoltà di optare per
il permesso di costruite in forma espressa, laddove sia pur prevista la
formazione del titolo in forma tacita (e per di più condizionata).
L’interpretazione da fornirsi in ordine alla scala degli atti di assenso
agli interventi edilizi previsti dalla normativa di specie (d.P.R. 06.06.2001 n. 380), va compiuta in senso razionale.
Se per un intervento minore è sufficiente la S.C.I.A., ma su richiesta di
parte può optarsi per il rilascio di un permesso di costruire espresso, è
quindi, secondo la logica giuridica, necessario che, per un intervento
maggiore, dove è previsto il permesso di costruire, si possa pretendere il
rilascio di un permesso espresso, seppure in alternativa in base alla
normativa possa risultare sufficiente il silenzio-assenso, peraltro previsto
solo in funzione rimediale all’inerzia e sottoposto a talune condizioni.
Difatti, nella misura in cui la surriferita disciplina ha introdotto a
carico del privato, che richiede il permesso di costruire, una serie di
gravosi oneri di auto-qualificazione (anche opinabili), circa il possesso
dei requisiti dell’intervento edilizio da realizzarsi e di attestazione di
conformità dello stesso ai presupposti di legge, il silenzio-assenso non è
affatto incondizionato e per di più fa comunque salvi i poteri di autotutela
dell’amministrazione (art. 20, comma 3, legge 07.08.1990 n. 241).
Tali poteri di autotutela, nella forma dell’auto-annullamento, sono
esercitabili, quando il permesso di costruire sia tacito, nell’ipotesi in
cui è necessario tutelare l’interesse pubblico alla legittima utilizzazione
del territorio, sotto il profilo urbanistico-edilizio, in presenza di
situazioni non significativamente consolidate dei privati per il tempo
trascorso (Cons. St., sez. IV, 05.09.2016 n. 3805; Cons. St., sez. IV,
28.06.2016 n. 2908; Cons. St., sez. IV, 12.07.2013 n. 3749).
4.- In ultima analisi, va affermato che rimane nella disponibilità del
privato l’opzione per il rilascio di un provvedimento espresso (art. 2,
comma 1, legge 07.08.1990 n. 241), sancito dalla normativa edilizia (d.P.R.
06.06.2001 n. 380) come regola generale, laddove sia stata prevista, come
regola speciale, ma deve ritenersi a ratione solo in via alternativa, la
formazione di un silenzio-assenso, in quanto anche gli strumenti
autorizzativi diversi o minori (c.d. S.C.I.A. e C.I.L.A.) sono consentiti
solo nei casi speciali espressamente contemplati e fanno comunque salva la
possibilità di scelta della richiesta da parte dell’interessato per il
rilascio di un provvedimento espresso.
Difatti, la validità dell’auto-qualificazione compiuta e la completezza o
meno della documentazione, utili a formare il titolo edilizio tacito,
costituisce, anche a seconda della complessità dell’intervento costruttivo a
realizzarsi, una questione talvolta opinabile, in relazione alla quale il
soggetto istante del provvedimento autorizzatorio edilizio ben può
conservare l’interesse a optare per il rilascio di un titolo edilizio
espresso da parte dei competenti uffici comunali, onde evitare di esporsi al
successivo esercizio del potere di autotutela, con lesione della propria
sfera economico-patrimoniale.
5.- Motivo per cui, giammai l’amministrazione comunale può pronunciare una
“decadenza” in ordine al titolo edilizio tacito (presuntivamente) formatosi,
qualora sia stato richiesto, più volte nel tempo –com’è avvenuto nel caso
di specie– l’emanazione di un provvedimento espresso.
Il Comune di Trani è, dunque, obbligato ex lege, laddove invero
specificamente richiesto e sollecitato, a pronunciarsi sul rilascio del
permesso edilizio in modo espresso, stante il principio generale imposto
dall’art. 2, comma 1, della legge 07.08.1990 n. 241.
Di conseguenza, non è configurabile la decadenza su un atto tacito
“condizionato” alla presenza di tutti i requisiti previsti dall’art. 20,
comma 8, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (completezza documentale ed
esclusione da vincoli), che sono suscettibili di vario apprezzamento
oggettivo e soggettivo (auto-qualificazione) e, quindi, sono indeterminati
ex se nel loro contenuto precettivo.
Non può pronunciarsi una decadenza, in ordine ad un provvedimento inespresso
e di contenuto indeterminato e indeterminabile, alla stregua della normativa
da applicarsi in concreto.
6.- In conclusione, il Comune di Trani, in quanto sollecitato al rilascio di
un permesso di costruire in forma espressa, è tenuto ad emanare il relativo
provvedimento e non può persistere nell’omissione. Di conseguenza, è
illegittimo il provvedimento di decadenza impugnato nel presente ricorso,
come specificato in epigrafe.
Ergo, il ricorso va accolto e annullato il provvedimento di decadenza
impugnato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in
dispositivo. Il contributo unificato va rifuso, in applicazione dell’art.
13, comma 6-bis, del d.P.R. 30.05.2002 n. 115. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Furbetti del cartellino, licenziamento d’obbligo. CORTE D’APPELLO
DI GENOVA: PRESUNTA BUONA FEDE NON È FONTE DI ANNULLAMENTO.
Una presunta buona fede del furbetto del cartellino
non può essere fonte di annullamento del licenziamento per giusta causa.
La Corte d'appello di Genova, con la sentenza 20.05.2019 n. 250/2019 respinge su tutta la linea il ricorso presentato da uno dei
furbetti del cartellino di San Remo, che aveva chiesto la revisione della
sentenza di primo grado, con la quale era già stata respinta la domanda di
annullamento del licenziamento.
La corte di appello non dà spazio alcuno alle ragioni difensive, che
oggettivamente per molti versi appaiono artificiose e insostenibili. In
particolare, appunto, il passaggio difensivo secondo il quale la sanzione
del licenziamento risulterebbe eccessiva, perché il comune non avrebbe
tenuto conto della circostanza che il dipendente era convinto della
sufficienza di un consenso verbale del proprio responsabile
all'allontanamento dall'ufficio.
I giudici sono trancianti: il dipendente essendo alle dipendenze da molti
anni dal comune non poteva non essere a conoscenza dell'obbligo, imposto da
sempre da leggi e contratti collettivi, di timbrare il cartellino presenze
sia in entrata che in uscita. Inoltre, la violazione contestata dal comune
non riguarda tanto la circostanza dell'omessa timbratura quanto l'elemento
ancor più grave della fraudolenta alterazione della presenza in servizio.
Infatti, a carico del dipendente interessato era stato rilevato di aver
manomesso le timbrature, facendo risultate entrate ed uscite dall'ufficio in
orari diversi da quelli effettivi.
Né ha retto lo spunto difensivo alla «situazione di stress» connessa alla
necessità di prestare assistenza alla madre anziana. La sentenza evidenzia
come le indagini abbiano comprovato che il dipendente licenziato fosse stato
visto ripetutamente rientrare in ufficio con i sacchetti della spesa. La
Corte d'appello non manca, inoltre, di rilevare che i fatti addebitati
concernono circa 50 alterazioni delle timbrature, per mezzo delle quali, per
altro, il dipendente si era accreditato ore di straordinario
illegittimamente.
Ma non basta: ad escludere ogni buona fede è la circostanza che il
licenziato ha anche timbrato più volte per i colleghi, ricevendo in cambio
analoghi indebiti favori: il che è ulteriore prova del comportamento
certamente fraudolento, che, secondo anche insegnamenti della Cassazione,
impongono l'adozione della misura del licenziamento, non essendo consentito
dalla legge adottare sanzioni di natura «conservativa», come la sospensione
dal servizio.
La Corte d'appello ha rigettato anche altri rilievi di presunta nullità del
licenziamento, quali, tra tutti presunte incompatibilità tra ruolo di
responsabile dell'ufficio dei procedimenti disciplinari e segretario
generale. Il comune di San Remo a suo tempo affidò alla segretaria la
responsabilità dei procedimenti disciplinari: la Corte d'appello osserva che
l'Anac con una nota del 06.11.2016 ha confermato la correttezza
dell'incarico.
Allo stesso modo, nonostante l'ufficio per i procedimenti disciplinari fosse
monocratico, costituito solo dal segretario generale del comune, nulla gli
vietava, come effettivamente accaduto, di acquisire da soggetti terzi, in
particolare gli agenti di polizia giudiziaria competenti alle indagini
penali scattate a suo tempo, elementi utili per l'istruttoria: questo, a
differenza di quanto reclamato in appello, non aveva modificato l'assetto
monocratico dell'ufficio, né invalidato il procedimento.
Del tutto privo di fondamento, ancora, sono state considerate le richieste
di pronuncia di nullità per violazione del principio del giudice
precostituito per legge, applicabile ovviamente solo ai procedimenti
giurisdizionali, ai quali non appartiene certo il procedimento disciplinare.
Né migliore fortuna hanno avuto le doglianze legate alla presunta mancata
qualificazione del soggetto agente nelle lettere di comunicazione degli atti
del procedimento e del licenziamento: le note inviate al dipendente
licenziato erano scritte su carta intestata del comune e ricondotte alla
competenza del segretario generale, incaricato anche quale dirigente del
personale, quindi senza alcun dubbio riproducenti una volontà da ricondurre
a quella del comune quale datore di lavoro (articolo ItaliaOggi del 22.05.2019). |
URBANISTICA: La
lottizzazione abusiva ex art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001 prescinde dallo
stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto
rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell’intervenuta illegittima
trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei
terzi acquirenti in buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta
valere in sede civile nei confronti dell’alienante.
L’ordinamento contempla di per sé due ipotesi
fenomeniche di lottizzazione abusiva che possono verificarsi in modo
separato o anche concomitantemente: l’una c.d. “materiale”
o “sostanziale”, posta in essere con l’esecuzione di
opere in aree non adeguatamente urbanizzate che determinino una
trasformazione edilizia ovvero urbanistica del territorio in violazione
degli strumenti urbanistici vigenti o adottati o comunque di leggi statali o
regionali; l’altra c.d. “cartolare” (definita peraltro correntemente
anche come “giuridica” o “negoziale”), che viceversa si
realizza mediante il compimento di atti di disposizione tra vivi comportanti
il frazionamento dei terreni in modo tale da determinarne in maniera
inequivocabile la destinazione d’uso a scopo di edificazione contra legem.
Con riferimento specifico alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare”
è stato ripetutamente rimarcato che la fattispecie è ravvisabile allorquando
la trasformazione del suolo è predisposta mediante il frazionamento e la
vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato
in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche –con riguardo
soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla
destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti
urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo
edificatorio degli atti adottati dalle parti.
Ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “cartolare”
non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno
collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un
sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile
desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione
perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti (cfr. ibidem).
Detto altrimenti, l’attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e
il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un
intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che
rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione,
rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e
univoche, che confermino che l’attività posta in essere è propedeutica alla
realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini
edificatori.
Per quanto attiene alle ipotesi di lottizzazione c.d. “materiale”
è stato rimarcato che la realizzazione delle opere deve risultare
globalmente apprezzabile in termini di trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto,
di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione
cui compete la pianificazione urbanistico-edilizia.
Le opere medesime devono essere quindi valutate con riguardo alla
complessiva ratio dell’art. 30 in esame, il cui bene giuridico tutelato
risiede infatti nella necessità di salvaguardare la potestà programmatoria,
delle amministrazioni titolari delle funzioni di pianificazione del
territorio. nonché le connesse attribuzioni di controllo sull’ordinato
svolgersi delle attività urbanistico-edilizie, ossia –più in generale- del
corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione delle aree
edificate in rapporto agli standard apprestabili.
Sintomatica al fine dell’accertamento della lottizzazione abusiva c.d. “materiale”
è ad esempio la realizzazione sistematica di manufatti, soprattutto se
suscettibili di stravolgere, per le proprie caratteristiche, la destinazione
del suolo, siccome avulsi da ogni connessione funzionale con quest’ultima,
nonché nella realizzazione di suddivisioni, recinzioni, cancelli, impianti
di illuminazione, reti di distribuzione di acqua, energia elettrica, gas,
strade o spazi aperti di accesso ai lotti, ecc..
Né pare superfluo in questo contesto ribadire che la natura permanente delle
sopradescritte attività “materiali” e/o “cartolari”
perpetrate conra legem rende tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio
soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti
coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e,
vieppiù, che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali
terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie.
In tal senso una giurisprudenza ormai del tutto consolidata afferma che la
lottizzazione abusiva ex art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 prescinde dallo
stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto
rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell’intervenuta illegittima
trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei
terzi acquirenti in buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta
valere in sede civile nei confronti dell’alienante.
Sotto questo profilo opportunamente è stato anche richiamato in via di
coerenza sistematica la giurisprudenza penale laddove, argomentando dal
carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che
gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possono
invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo
essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei
all’illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria
diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza,
tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di
illecita utilizzazione del territorio.
Sempre in tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede e
di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo
di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente
nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito
contestato possono al più utilizzare l’argomento al mero fine
dell’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca
urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (reputata
comunque compatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828), nel mentre l’argomento
medesimo non è utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione
ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio
disponibile del Comune,segnatamente contemplata dall’art. 30, comma 8, del
d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato.
Né è superfluo precisare che l'ordinanza di sospensione contemplata
dall’art. 30, comma 7, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto provvedimento
vincolato al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
incisi, e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile –proprio per
quanto evidenziato poc’anzi- alcun affidamento tutelabile alla conservazione
di una situazione di illecito avente natura permanente, che il tempo non può
legittimare in via di fatto.
Il medesimo provvedimento di sospensione, inoltre, ha natura cautelare e non
sanzionatoria, né richiede l’obbligo di comunicazione di avvio del
procedimento a’ sensi dell’art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241, essendo
giustificata l’omissione di tale obbligo in presenza di ragioni derivanti da
particolari esigenze di celerità.
---------------
4.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
4.2.1. Come è ben noto, la disciplina delle fattispecie di lottizzazione
abusiva è contenuta nell’art. 30 del T.U. approvato con d.P.R. 05.06.2001,
n. 380, che ivi codifica le disposizioni normative che in prosieguo di tempo
sono intervenute a normare la materia, ossia l’art. 13 della l. 28.02.1985,
n. 47, gli artt. 1, comma 3-bis e 7, del d.l. 23.04.1985, n. 146, convertito
con modificazioni con l. 21.06.1985, n. 298, e gli artt. 107 e 109 del T.U.
approvato con d.lgs. 18.08.2000, n. 267.
Il testé riferito art. 30 dispone -per quanto qui segnatamente interessa–
che “si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando
vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia
dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale
trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o
atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche
quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la
eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi
riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio” (cfr. ivi, comma 1).
I susseguenti commi da 2, 3, 4, 4-bis e 5 recano disposizioni tassative in
ordine alla ricezione, formazione e comunicazione degli atti pubblici
mediante i quali si trasferiscono tra vivi, ovvero si costituiscono o si
sciolgono le comunioni di diritti reali ricadenti su terreni, allo scopo di
prevenire l’insorgere della fattispecie.
Il comma 6, abrogato per effetto dell’art. 1 del D.P.R. 09.11.2005, n. 304,
ineriva sempre agli adempimenti riguardanti la comunicazione di tali atti.
Ferma restando l’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 44,
comma 1, lett. c), prima parte del medesimo T.U. n. 380 del 2001, “nel
caso in cui il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
accerti l’effettuazione di lottizzazione di terreni a scopo edificatorio
senza la prescritta autorizzazione, con ordinanza da notificare ai
proprietari delle aree ed agli altri soggetti indicati nel comma 1
dell’articolo 29” (ossia il titolare del permesso di costruire, il
committente e il costruttore, e –ove del caso– direttore dei lavori: cfr.
ivi) “ne dispone la sospensione. Il provvedimento comporta l’immediata
interruzione delle opere in corso ed il divieto di disporre dei suoli e
delle opere stesse con atti tra vivi, e deve essere trascritto a tal fine
nei registri immobiliari” (cfr. art. 30 cit., comma 7).
“Trascorsi novanta giorni, ove non intervenga la revoca del provvedimento
di cui al comma 7, le aree lottizzate sono acquisite di diritto al
patrimonio disponibile del comune il cui dirigente o responsabile del
competente ufficio deve provvedere alla demolizione delle opere. In caso di
inerzia si applicano le disposizioni concernenti i poteri sostitutivi di cui
all’articolo 31, comma 8”, esercitati dall’amministrazione regionale (cfr.
ibidem, comma 8).
“Gli atti aventi per oggetto lotti di terreno, per i quali sia stato
emesso il provvedimento previsto dal comma 7, sono nulli e non possono
essere stipulati, né in forma pubblica né in forma privata, dopo la
trascrizione di cui allo stesso comma e prima della sua eventuale
cancellazione o della sopravvenuta inefficacia del provvedimento del
dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale” (cfr.
ibidem, comma 9).
Va ancora evidenziato che tutte le disposizioni surriferite “si applicano
agli atti stipulati ed ai frazionamenti presentati ai competenti uffici del
catasto dopo il 17.03.1985, e non si applicano comunque alle divisioni
ereditarie, alle donazioni fra coniugi e fra parenti in linearetta ed ai
testamenti, nonché agli atti costitutivi, modificativi od estintivi di
diritti reali di garanzia e di servitù” (cfr. ibidem, comma 10).
4.2.2. Dalla lettura delle su riportate disposizioni consta dunque che
l’ordinamento contempla di per sé due ipotesi fenomeniche di
lottizzazione abusiva che possono verificarsi in modo separato o anche
concomitantemente: l’una c.d. “materiale” o “sostanziale”,
posta in essere con l’esecuzione di opere in aree non adeguatamente
urbanizzate che determinino una trasformazione edilizia ovvero urbanistica
del territorio in violazione degli strumenti urbanistici vigenti o adottati
o comunque di leggi statali o regionali; l’altra c.d. “cartolare”
(definita peraltro correntemente anche come “giuridica” o “negoziale”),
che viceversa si realizza mediante il compimento di atti di disposizione tra
vivi comportanti il frazionamento dei terreni in modo tale da determinarne
in maniera inequivocabile la destinazione d’uso a scopo di edificazione
contra legem (cfr. per ulteriori approfondimenti su tale distinzione,
ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108, e l’ulteriore
giurisprudenza ivi richiamata).
Con riferimento specifico alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare”
è stato ripetutamente rimarcato che la fattispecie è ravvisabile allorquando
la trasformazione del suolo è predisposta mediante il frazionamento e la
vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato
in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche –con riguardo
soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla
destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti
urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo
edificatorio degli atti adottati dalle parti (cfr. sul punto, ex multis,
Cons. Stato, Sez. V, 03.08.2012, n. 4429, e Sez. IV, 13.05.2011, n. 2937).
Ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “cartolare”
non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno
collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un
sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile
desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione
perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti (cfr. ibidem).
Detto altrimenti, l’attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e
il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un
intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che
rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione,
rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e
univoche, che confermino che l’attività posta in essere è propedeutica alla
realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori
(cfr. al riguardo, ex plurimis, la già citata sentenza di Cons.
Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108, nonché Cons. Stato, Sez. IV,
31.03.2009, n. 2004).
Per quanto attiene alle ipotesi di lottizzazione c.d. “materiale”
è stato rimarcato che la realizzazione delle opere deve risultare
globalmente apprezzabile in termini di trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto,
di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione
cui compete la pianificazione urbanistico-edilizia.
Le opere medesime devono essere quindi valutate con riguardo alla
complessiva ratio dell’art. 30 in esame, il cui bene giuridico tutelato
risiede infatti nella necessità di salvaguardare la potestà programmatoria,
delle amministrazioni titolari delle funzioni di pianificazione del
territorio. nonché le connesse attribuzioni di controllo sull’ordinato
svolgersi delle attività urbanistico-edilizie, ossia –più in generale- del
corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione delle aree
edificate in rapporto agli standard apprestabili (così, ad es., Cons. Stato,
Sez. VI, 06.06.2018, n. 3416).
Sintomatica al fine dell’accertamento della lottizzazione abusiva c.d. “materiale”
è ad esempio la realizzazione sistematica di manufatti, soprattutto se
suscettibili di stravolgere, per le proprie caratteristiche, la destinazione
del suolo, siccome avulsi da ogni connessione funzionale con quest’ultima (cfr.
sul punto, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 03.08.2010, n. 5170, e
01.06.2010, n. 3475), nonché nella realizzazione di suddivisioni,
recinzioni, cancelli, impianti di illuminazione, reti di distribuzione di
acqua, energia elettrica, gas, strade o spazi aperti di accesso ai lotti,
ecc. (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 11.10.2006, n. 6060).
4.2.3. Né pare superfluo in questo contesto ribadire che la natura
permanente (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 30.08.2016,
n. 4651, e Sez. VI, 18.09.2013, n. 4651) delle sopradescritte attività “materiali”
e/o “cartolari” perpetrate conra legem rende tale
tipologia di illecito urbanistico-edilizio soggettivamente trasferibile
propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti
titolari dei terreni abusivamente lottizzati e, vieppiù, che abbiano goduto
di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo
attivamente alla prosecuzione della fattispecie.
In tal senso una giurisprudenza ormai del tutto consolidata afferma che la
lottizzazione abusiva ex art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 prescinde dallo
stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto
rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell’intervenuta illegittima
trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei
terzi acquirenti in buona fede, estranei all’illecito, può essere fatta
valere in sede civile nei confronti dell’alienante (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV, 08.01.2016, n. 26).
Sotto questo profilo opportunamente Cons. Stato, Sez. IV, 03.04.2014, n.
1589, ha anche richiamato in via di coerenza sistematica la giurisprudenza
penale laddove, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di
lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti
risultanti dal frazionamento non possono invocare sic et simpliciter
una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro
qualità, qualificarsi come terzi estranei all’illecito, dovendo, invece,
dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei
doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in
buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita utilizzazione del
territorio (cfr. Cass. pen., Sez. III, 13.02.2014, n. 2646; id., 03.12.2013,
n. 51710; id., 27.04.2011, n. 21853).
Sempre in tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede e
di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo
di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente
nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito
contestato possono al più utilizzare l’argomento al mero fine
dell’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca
urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (reputata
comunque compatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828), nel mentre l’argomento
medesimo non è utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione
ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio
disponibile del Comune,segnatamente contemplata dall’art. 30, comma 8, del
d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato (cfr., in tal senso, Cons.
Stato, sez. VI, 23.03.2018, n. 1878).
Né è superfluo precisare che l'ordinanza di sospensione contemplata
dall’art. 30, comma 7, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto provvedimento
vincolato al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
incisi, e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile –proprio per
quanto evidenziato poc’anzi- alcun affidamento tutelabile alla conservazione
di una situazione di illecito avente natura permanente, che il tempo non può
legittimare in via di fatto (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV,
30.08.2016, n. 3721, e 16.04.2012 n. 2185).
Il medesimo provvedimento di sospensione, inoltre, ha natura cautelare e non
sanzionatoria, né richiede l’obbligo di comunicazione di avvio del
procedimento a’ sensi dell’art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241, essendo
giustificata l’omissione di tale obbligo in presenza di ragioni derivanti da
particolari esigenze di celerità (così Cons. Stato, Sez. VI, 09.10.2018, n.
5805)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 17.05.2019 n. 3196 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione accessorio alla condanna penale per
reati edilizi - Riesame in sede esecutiva - Pendenza di un
procedimento amministrativo - Sospensione o revoca -
Presupposti - Bilanciamento di interessi - Fattispecie -
Art. 31 d.P.R. 380/2001.
L'ordine di demolizione accessorio alla
condanna penale per reati edilizi, insuscettibile di passare
in giudicato, è riesaminabile in sede esecutiva ove può
essere revocato in presenza di determinazioni della autorità
o giurisdizione amministrativa incompatibili con
l'abbattimento del manufatto oppure può essere sospeso
quando sia ragionevolmente prevedibile, in base a elementi
concreti, che un tale provvedimento sarà adottato in breve
arco temporale.
Mentre la revoca, (che si fonda sul sopravvenire di
legittimi provvedimenti amministrativi che siano
assolutamente incompatibili con l'ordine stesso o per aver
conferito all'immobile altra destinazione o per essersi
proceduto alla regolarizzazione postuma di opere che, pur
non conformi alle norme urbanistico-edilizie ed alle
previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in
cui vennero eseguite, lo siano divenute solo
successivamente), nel caso di specie, non è configurabile in
difetto di provvedimenti incompatibili con l'ordine di
demolizione impartito ai ricorrenti, la pendenza di un
procedimento amministrativo per il conseguimento di un
titolo concessorio in sanatoria non è invece di ostacolo, in
astratto, ad un provvedimento di sospensione, dovendosi
tuttavia a tal fine contemperare due interessi, tra loro
configgenti, ed entrambi meritevoli di protezione: quello
pubblico alla tutela del territorio con la rapida
riparazione del bene violato e quello del privato ad evitare
un danno irreparabile in presenza di una situazione
giuridica che potrebbe evolversi a suo favore.
Fattispecie: abuso edilizio consistito nella realizzazione,
in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione
della Soprintendenza su un'area soggetta a vincolo
paesaggistico con contestuale violazione della normativa per
le costruzioni in cemento armato ed in zona sismica.
...
Reati urbanistici - Ordine di demolizione - Istanza di
condono o di sanatoria - Passaggio in giudicato della
sentenza di condanna - Richiesta di revoca o sospensione -
Riesame in sede esecutiva - Poteri e verifiche del giudice
dell'esecuzione.
In materia di reati urbanistici, in
presenza di una istanza di condono o di sanatoria successiva
al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il
giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di revoca
o sospensione dell'ordine di demolizione di opere accertate
come abusive, è tenuto ad una attenta disamina dei possibili
esiti e dei tempi di definizione della procedura ed, in
particolare:
a) a verificare il possibile risultato dell'istanza e se esistono
cause ostative al suo accoglimento;
b) nel caso di insussistenza di tali cause, a valutare i tempi di
definizione del procedimento amministrativo e sospendere
l'esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento
dello stesso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.05.2019 n. 21383 - link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pa
responsabile del danno anche quando il dipendente agisce a scopo personale.
Lo Stato o l’ente pubblico rispondono del danno subìto dal terzo per
l’illecito del dipendente, anche quando agisce solo per scopi personali,
estranei ai fini dell’amministrazione. La corresponsabilità scatta purché
l’azione illecita sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le
funzioni svolte dal dipendente infedele. E dunque se questa non sarebbe
stata possibile senza l’esercizio del ruolo, per quanto svolto in modo
illecito.
---------------
A. Inquadramento della fattispecie.
1. La sentenza impugnata ha rigettato la domanda risarcitoria
della vittima del peculato del cancelliere in base all'orientamento della
giurisprudenza di legittimità (richiamando: Cass. 21/11/2006, n.
24744; Cass. 17/09/1997, n. 9260; Cass. 06/12/1996, n. 10896; Cass.
13/12/1995, n. 12786; Cass. 03/12/1991, n. 12960) secondo
cui, affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo
posto in essere dal proprio dipendente, poiché il fondamento di quella
risiede nel rapporto di immedesimazione organica, deve sussistere,
oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso,
anche la riferibilità all'Amministrazione del comportamento stesso, la
quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente si
manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico e cioè
tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini
istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del
servizio cui il dipendente è addetto; tale riferibilità viene meno,
invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un
fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli del tutto
estraneo all'amministrazione o perfino contrario ai fini che essa
persegue ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie
dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra
l'attività del dipendente e la P.A. (militando nello stesso senso anche
Cass. 12/04/2011, n. 8306, nonché, in precedenza e tra le altre:
Cass. 08/10/2007, n. 20986; Cass. 18/03/2003, n. 3980).
2. Il ricorrente si affida ad un unitario motivo, con cui denuncia, in
riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione
e falsa applicazione dell'art. 28 Cost. e dell'art. 2049 cod. civ.,
dolendosi dell'esclusione della responsabilità del Ministero; nega che
«ai fini dell'applicazione dell'art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità
fra il comportamento del funzionario e l'evento dannoso, debba
necessariamente ricorrere anche l'ulteriore, troncante presupposto
della "riferibilità all'amministrazione di quel comportamento"»;
contesta che debba «ricadere esclusivamente sul danneggiato la
scelta dell'Amministrazione di affidare la direzione di un ufficio a
soggetto rivelatosi privo dei requisiti morali»; chiede che risponda del
«danno ... occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli».
3. Sostiene, ancora, il Di Be. che il principio secondo cui la
responsabilità dell'Amministrazione, nelle ipotesi previste dall'art. 28
Cost., debba ritenersi esclusa ogni qual volta l'agente, profittando
delle sue precipue funzioni, abbia dolosamente commesso il fatto per
ritrarre egli stesso utilità, non troverebbe giustificazione nel dettato
costituzionale, né in norme di legge, integrando un «disparitario
postulato assolutamente privo di sostrato logico e giuridico, che non
solo svuota di ogni contenuto quella norma di garanzia
(evidentemente posta a tutela dell'amministrato), ma ne sbilancia
smaccatamente gli effetti a tutto favore dell'Amministrazione»; sicché
la Corte di merito avrebbe dovuto piuttosto aderire al diverso
orientamento espresso con la sentenza di questa Corte, VI Sez. Pen.,
n. 13799 del 31.03.2015, secondo cui «è configurabile la
responsabilità civile della P.A. anche per le condotte dei dipendenti
pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali
mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse sono
poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l'occasione
offerta dall'adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono,
inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali
funzioni, in applicazione di quanto previsto dall'art. 2049 cod. civ.»
(annullato così il rigetto della domanda risarcitoria nei confronti di
imputato che, quale agente di Ufficio notifiche esecuzioni e protesti, si
era appropriato di titoli di credito ed effetti cambiari a lui consegnati per il protesto, commettendo i reati di peculato, falso e truffa).
4. Pertanto, per il ricorrente la responsabilità del Ministero si
fonda sul fatto che, come emerso nelle fasi di merito, lo Sc.
aveva esplicato l'attività criminosa, non imprevedibile in assoluto,
nella qualità di funzionario di cancelleria e che solo grazie a quella
veste istituzionale gli era stato possibile accedere alla cassaforte ove i
libretti vincolati erano custoditi, falsificare i mandati di pagamento e
conseguirne di persona l'incasso.
5. Dal canto suo il Ministero, eccepita la tardività del ricorso,
invoca la giurisprudenza di legittimità sulla necessità, ai fini della
responsabilità diretta dell'Amministrazione, della riferibilità a questa
della condotta del funzionario o del dipendente, come esplicazione
dell'attività di quella in virtù del rapporto organico, ricollegabile ad
attribuzioni proprie di lui: tanto da escludere ogni responsabilità nel
caso, come quello in esame, di condotta sorretta da un fine
strettamente personale ed egoistico del funzionario o dipendente ed
anzi contrario agli scopi istituzionali perseguiti dall'Amministrazione.
6. Con la memoria depositata per l'udienza del 09/04/2019, poi, il
Ministero nega la rilevanza dell'invocata giurisprudenza di legittimità
penale, da un lato perché anch'essa postula i caratteri dell'assoluta
imprevedibilità ed eterogeneità della condotta dell'agente rispetto ai
suoi compiti istituzionali (in modo da non consentire un collegamento
con essi) e dall'altro perché la stessa P.A. avrebbe potuto costituirsi
parte civile nel procedimento penale per peculato contro il suo
funzionario evidentemente infedele, attesa la natura plurioffensiva del
delitto di peculato per il quale quello è stato poi condannato.
7. Il Pubblico Ministero, infine, nella requisitoria scritta con
ampiezza di riferimenti ricostruisce i termini della questione, iniziando
dalla disamina della natura della responsabilità di Stato ed Enti
pubblici per i fatti illeciti commessi dai propri dipendenti e funzionari;
illustra una prima impostazione ermeneutica, propria della prevalente
odierna giurisprudenza civilistica e di quella penalistica più risalente
(ma pure di quella amministrativa), per la quale la responsabilità
dello Stato per il fatto illecito dei propri dipendenti sussiste solo in
applicazione di criteri pubblicistici e quindi esclusivamente in caso di
attività corrispondente ai fini istituzionali e, in virtù del rapporto
organico, allorché quella vada imputata direttamente all'ente (con
orientamento definito consolidato da Cass. n. 15930/2002, seguita poi,
tra le altre, da Cass. nn. 2089 e 27246 del 2008, 8306 e 29727 del 2011,
21408/2014 e 8991/2015); ma ricorda pure una seconda
interpretazione, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica
(Cass. pen. nn. 21195/2011, 40613/2013, 13799 e 44760 del 2015) e di
una giurisprudenza civilistica ora più remota e poi superata, ora
minoritaria (Cass. nn. 20928/2015 e 17836/2007), ora riferita a rapporti
di preposizione privatistici (Cass. nn. 2226/1990, 20924/15, 22058/2017,
4298/2019) e quindi non assimilabili al rapporto che lega il pubblico
dipendente allo Stato o all'ente pubblico, la quale riconosce la
responsabilità di questi pure in applicazione di criteri privatistici,
corrispondenti a quelli elaborati per la responsabilità del preponente
ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., ammettendola così in ipotesi di nesso
di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
8. Nella stessa requisitoria scritta si dubita poi della sussistenza di
un effettivo contrasto: da un lato, per la costanza nella configurazione
di una responsabilità diretta e, dall'altro, per la sussistenza di questa
esclusivamente in caso di condotta del dipendente strumentalmente
connessa con l'attività d'ufficio, benché non esclusa in ipotesi di
condotta dolosa o con abuso di poteri o con violazione di legge o di un
ordine, purché si innesti nell'attività dell'ente e sia anche soltanto
indirettamente collegabile alle sue attribuzioni e non sia connotata dal
carattere dell'imprevedibilità ed eterogeneità rispetto a queste ultime,
sì da escluderne ogni collegamento con le medesime, dovendo
rimettersi il superamento delle discrasie all'apprezzamento di fatto
delle circostanze concrete. Per l'errore di diritto consistente nella
violazione di tale principio si chiede così l'accoglimento del ricorso.
B. L'ordinanza di rimessione.
9. L'ordinanza di rimessione
(05/11/2018, n. 28079), esclusa la
tardività del ricorso in base al testo dell'art. 327 cod. proc. civ.
applicabile in ragione della data di instaurazione del giudizio in primo
grado, identifica come oggetto della controversia la questione della
sussistenza o meno della responsabilità civile della Pubblica
Amministrazione per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del
dipendente quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed
agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee
all'amministrazione di appartenenza; ed individua la ragione della sua
devoluzione a queste Sezioni Unite nella rilevata non univocità, sul
punto, delle conclusioni della giurisprudenza di legittimità.
10. Da un lato, la prevalente giurisprudenza civile di legittimità ha
ravvisato il fondamento della responsabilità di Stato ed enti pubblici
nell'art. 28 della Costituzione -la cui ratio è quella di un più agevole
od ampio conseguimento del risarcimento da parte del danneggiato-
e, basandosi tale norma sul rapporto di immedesimazione organica,
solo in virtù del quale l'attività posta in essere dal funzionario (o
dipendente) è sempre imputabile all'ente di appartenenza, ne ha
desunto la configurazione di una responsabilità diretta o per fatto
proprio, ma soltanto se l'attività dannosa si atteggi come esplicazione
dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico e cioè tenda, sia pur con
abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali,
nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente
è addetto (richiamando: Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass.
30/01/2008, n. 2089; Cass. 17/09/1997, n. 9260).
Ne conseguirebbe
l'esclusione di quella responsabilità in tutti i casi in cui la condotta sia
sorretta da un fine esclusivamente privato od egoistico, o a maggior
ragione se contrario ai fini istituzionali dell'ente (Cass. 12/04/2011, n.
8306; Cass. 8/10/2007, n. 20986, Cass. 21/11/2006, n. 24744;
Cass. 18/03/2003, n. 3980; Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass.
13/12/1995, n. 12786).
11. Dall'altro lato, però, almeno in tempi recenti la giurisprudenza
penale di legittimità configura la responsabilità civile della pubblica
amministrazione pure per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a
perseguire finalità esclusivamente personali e mercé la realizzazione
di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l'occasione necessaria
offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi
sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo
sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione
del criterio previsto dall'art. 2049 cod. civ. (Cass. pen., 20/01/2015,
n. 13799 -poi richiamata da Cass. pen. 03/04/2017, n. 35588, ma
preceduta da Cass. pen. 11/06/2003, n. 33562- in consapevole
contrasto con l'orientamento precedente, di cui è stata ulteriore
espressione la più recente Cass. pen. 04/06/2015, n. 44760).
12. Ad analoga estensione della responsabilità civile si assiste
nella giurisprudenza civile di legittimità in altri ambiti di preposizione,
meramente privatistici, quali quelli propri dei funzionari di banche o
dei promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria, in
ordine ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei preponenti
anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra
le incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso
che è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente
ex art. 2049 cod. civ. e non viene meno in caso di commissione da
parte del preposto di un illecito penale per finalità di carattere
esclusivamente personale (v. già Cass. 06/03/2008, n. 6033;
successivamente, v.: Cass. 16/04/2009, n. 9027; Cass. 24/07/2009,
n. 17393; Cass. 25/01/2011, n. 1741; Cass. 24/03/2011, n. 6829;
Cass. 13/12/2013, n. 27925; Cass. 04/03/2014, n. 5020; Cass.
10/11/2015, n. 22956).
Di qui il rilievo della non univocità della
giurisprudenza in materia e la rimessione della relativa questione a
queste Sezioni Unite.
C. La normativa applicabile.
13. Pertinenti per la risoluzione
della questione sono:
- l'art. 28 della Costituzione, per il quale, com'è noto: «I
funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono
direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative,
degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la
responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici»;
- l'art. 2049 cod. civ., rubricato «responsabilità dei padroni e dei
committenti», per il quale «i padroni e i committenti sono responsabili
per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi
nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
14. Sostanzialmente neutri ai fini che qui interessano, per il rinvio
espresso che operano ai principi ed alle norme vigenti, si rivelano
invece alcuni articoli del t.u. 10.01.1957, n. 3 (Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in
particolare gli artt. 22 e 23, i cui rispettivi primi commi prevedono:
- «l'impiegato che, nell'esercizio delle attribuzioni ad esso conferite
dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi
dell'art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo. L'azione di
risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con
l'azione diretta nei confronti dell'Amministrazione qualora, in base alle
norme ed ai principi vigenti dell'ordinamento giuridico, sussista anche la
responsabilità dello Stato»;
- «è danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante
da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per
dolo o per colpa grave; restano salve le responsabilità più gravi previste
dalle leggi vigenti».
D. La normativa costituzionale.
15. È noto l'ampio dibattito,
soprattutto in dottrina e all'indomani
dell'entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell'art.
28 della Costituzione: superate le prime tesi sulla natura meramente
sussidiaria della responsabilità di Stato od ente pubblico rispetto a
quella dell'agente, è invalso il riconoscimento della natura
concorrente o solidale delle due responsabilità, ricostruita quella dello
Stato od ente pubblico come diretta, in forza dei principi
sull'immedesimazione organica dovendo escludersi che l'attività posta in
essere al di fuori dei compiti istituzionali dal pubblico funzionario o
dipendente potesse imputarsi allo Stato o ente pubblico.
16. Non ha incontrato il favore degli interpreti la ricostruzione
della responsabilità della Pubblica Amministrazione per l'illecito del
suo dipendente quale responsabilità indiretta (o per fatto altrui,
dovendo la Pubblica Amministrazione sopportare i rischi delle
conseguenze dannose degli atti posti in essere da coloro che agiscono
per suo conto), né altra tesi eclettica, che ha prospettato la natura
composita di quella stessa responsabilità, dovendo l'Amministrazione
rispondere in via diretta per i danni causati nello svolgimento
dell'attività provvedimentale (l'unica rispetto alla quale si
configurerebbe un'immedesimazione organica, in quanto esplicazione
della funzione diretta al perseguimento del pubblico interesse e posta
in essere da funzionari dotati del potere rappresentativo -organi in
senso stretto- attraverso cui l'Ente esprime la sua volontà ed agisce
nei rapporti esterni) ed in via indiretta per i danni causati
nell'espletamento di ogni altra attività, tra cui quella materiale.
17. Nella prevalente dottrina pubblicistica la tesi della
responsabilità diretta da rapporto organico in funzione limitativa si
fonda sulla tesi del contenimento dell'innovazione portata dalla norma
costituzionale: questa non starebbe nell'immutazione della natura
della responsabilità dell'Ente, che andrebbe sempre qualificata, come
nel sistema anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, in
termini di responsabilità diretta o per fatto proprio; essa invece
starebbe nella previsione, accanto alla responsabilità diretta della
pubblica amministrazione, di una concorrente responsabilità, sempre
diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema
previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l'Ente
di appartenenza, solo ove tale responsabilità solidale fosse prevista
da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe
cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e
solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato
la scelta se far valere l'una o l'altra od entrambe.
19. La giurisprudenza amministrativa è, poi, ferma nel ritenere
interrotta l'imputazione giuridica dell'attività posta in essere da un
organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in
essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di
atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato,
Sez. 5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11.08.2012, n. 536), o comunque allorché il soggetto agente, legato alla
P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in
essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la
P.A., nell'ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un
interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell'Ente
(TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno
dell'imputabilità dell'atto all'Amministrazione, per interruzione del
rapporto organico, determina la nullità dell'atto stesso, per mancanza
di uno degli «elementi essenziali» -ex art. 21-septies, l. n. 241 del
1990- individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo
alla stessa P.A., escludendosi che l'atto de quo possa dirsi posto in
essere da una P.A. nell'esplicazione di un'attività amministrativa).
20. E la stessa Corte costituzionale ha reiteratamente statuito (tra
le altre: Corte cost. n. 64 del 1992, con richiami a Corte cost. n. 18
del 1989, n. 26 del 1987, n. 148 del 1983, n. 123 del 1972) che l'art.
28 Cost. stabilisce la responsabilità diretta per violazione di diritti
tanto dei dipendenti pubblici per gli atti da essi compiuti, quanto dello
Stato o degli enti pubblici, rimettendone la disciplina dei presupposti
al legislatore ordinario, con la precisazione che (Corte cost. nn. 18 del
1989 e 88 del 1963) la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico
può esser fatta valere anteriormente o contestualmente a quella dei
funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario.
E. La normativa codicistica.
21. Il codice civile regola la
responsabilità dei padroni e
committenti, mutuandola pedissequamente dalla previsione del Code
civil francese (ed in particolare dal suo originario art. 1384, che oggi
corrisponde all'art. 1242, in forza dell'Ordonnance n. 2016-31 del
10/02/2016, in vigore dal 01/10/2016), a mente del quale «les
maitres et les commettants ... sont solidairement responsables du
dommage causé ... par leurs domestiques et préposés dans les
fonctions auxquelles ils les ont employés»; in tale fattispecie si
conferma, analogamente ad altre ipotesi di responsabilità civile senza
colpa, la deroga al principio ohne Schuld keine Haftung, che permea
sia l'altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (quello tedesco in
punto di Deliktsrecht, benché in via di graduale superamento e solo in
determinati settori, mediante la ricostruzione di obblighi derivanti
direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona
fede e, poi, dalla novella del BGB sulla sussistenza di obblighi di
protezione più ampi rispetto a quelli di prestazione, tali da riverberare
i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto), sia il
sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone
appunto ed almeno in linea generale un difetto di due diligence).
22. Il concetto di padrone o committente, in origine riferito ad
economie rudimentali e connotate da rapporti assai stretti di
preposizione, è stato via via ampliato in forza di un'interpretazione
evolutiva, per essere esteso a molte figure di soggetti che, per
conseguire i propri fini, si avvalgono dell'opera di altri a loro legati in
forza di vincoli di varia natura (e non necessariamente di dipendenza:
su tale specifico punto, tra le prime, v. Cass. 16/03/2010, n. 6325).
23. Si è, al riguardo, superata l'originaria configurazione della
responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio, quando
questo si identificava almeno in una colpa in eligendo o in vigilando: il
testo normativo non concede al responsabile alcuna prova liberatoria,
cosicché il ricorso alla fictio della presunzione assoluta di colpa si
risolve nell'introduzione artificiosa nella norma di un presupposto che
le è irrilevante; al contrario (benché in dottrina si parli anche di
responsabilità diretta o per il fatto proprio di essere il preponente), si
è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
24. Si tratta (per tutte: Cass. 09/06/2016, n. 11816, ove ulteriori
richiami giurisprudenziali; più di recente: Cass. ord. 12/10/2018, n.
25373; Cass. 14/02/2019 n. 4298; quanto al rapporto tra ente
pubblico concedente e concessionario, Cass. 20/02/2018, n. 4026,
espressamente fonda la responsabilità del primo sull'inserimento del
secondo nell'apparato organizzativo della P.A.) di un'applicazione
moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del
quale l'avvalimento, da parte di un soggetto, dell'attività di un altro
per il perseguimento di propri fini comporta l'attribuzione al primo di
quella posta in essere dal secondo nell'ambito dei poteri conferitigli.
25. Ma una tale appropriazione di attività deve comportarne
l'imputazione nel suo complesso e, così, sia degli effetti favorevoli che
di quelli pregiudizievoli: un simile principio risponde ad esigenze
generali dell'ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte
dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell'operato di
altri (poco importa se per scelta od utilità, come nel caso delle
persone fisiche, o per necessità, come in ogni altro caso, in cui è
indispensabile il coinvolgimento di persone fisiche ulteriori e distinte
per l'imputazione di effetti giuridici ad entità sovraindividuali).
26. Dalla correlazione di tale specifica forma di responsabilità ai
vantaggi che sia lecito per il preponente attendersi dall'avvalimento
dell'altrui operato la giurisprudenza civile di legittimità per i rapporti
privatistici di preposizione e quella più recente penale di legittimità
hanno ricavato la necessità di un nesso di occasionalità necessaria tra
esercizio delle incombenze e danno al terzo (quale ultimo elemento
costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione ed
all'illiceità del fatto del preposto): nesso che è stato ritenuto
sussistente non solamente se il fatto dannoso derivi dall'esercizio
delle incombenze, ma pure nell'ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad
esporre il terzo all'ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi
abbia abusato della sua posizione od agito per finalità diverse da
quelle per le quali le incombenze gli erano state affidate.
27. Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità
necessaria (e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura
in cui le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso
possibile la realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante
che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od
abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte:
Cass. 24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla
condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il
non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni,
non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un'attività
del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od
eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse
all'espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/2016, cit.).
28. Non ha infatti giuridico fondamento accollare a chicchessia le
conseguenze dannose di condotte del preposto in alcun modo
collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione, ove cioè
non riconducibili al novero delle normali potenzialità di sviluppo di
queste -anche sotto forma di deviazione dal fine perseguito o di
contrarietà ad esso o di eccesso dall'ambito dei poteri conferiti-
secondo un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione.
29. L'appropriazione dei risultati delle altrui condotte deve, in
definitiva, essere correlata (e, corrispondentemente, limitata) alla
normale estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle
oggetto della preposizione ad esse collegate, sia pure considerandone
le violazioni o deviazioni oggettivamente probabili: sicché chi si
avvale dell'altrui operato in tanto può essere chiamato a rispondere, per di
più senza eccezioni e la rilevanza del proprio elemento
soggettivo, delle sue conseguenze dannose in quanto egli possa
ragionevolmente raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni
dei poteri conferiti o almeno tenerne conto nell'organizzazione dei
propri rischi; e così risponde di quelle identificate in base ad un
giudizio oggettivizzato di normalità statistica, cioè riferita non alle
peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come di
verificazione probabile o -secondo i principi di causalità adeguata
elaborati da questa Corte fin da Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576-
«più probabile che non», in un dato contesto storico.
F. La natura della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici.
30. Deve allora constatarsi una
non piena coerenza tra le
impostazioni ermeneutiche di questa Corte di legittimità: una prima,
propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella
preponderante penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella
amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti
pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è
diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in
caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù
del rapporto organico, quella vada imputata direttamente all'ente; una seconda, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più
recente e di parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata,
ora minoritaria, ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione
privatistici), in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o
dell'ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti
sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai
sensi dell'art. 2049 cod. civ., sol che sussista un nesso di
occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
31. Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità
tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più,
nell'odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato
dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico rispetto a quello di ogni
altro privato, quando la prima non sia connotata dall'esercizio di
poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante
orientamento civilistico dell'esclusione della responsabilità in ipotesi di
condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
32. In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi
ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del
rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto
altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed
ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della
P.A. di volta in volta posta in essere.
33. Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in
violazione dei criteri generali dell'art. 2043 cod. civ., al risarcimento
del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U.
22/07/1999, n. 500) o si riconduce all'estrinsecazione del potere
pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo,
emesso nell'ambito e nell'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali
ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale,
disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi
formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di
giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364;
tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363).
34. Orbene, nel primo caso (attività provvedimentale o, se si
volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di
pubblicistiche ed istituzionali potestà), l'immedesimazione organica -di regola- pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola
responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta
all'ente; del resto, con l'introduzione dell'art. 21-septies legge n. 241
del 1990 pure la carenza di un elemento essenziale -in genere
esclusa se l'atto integra l'elemento oggettivo di un reato- comporta
la mera nullità e non più l'inesistenza dell'atto, come invece voleva la
dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l'attribuibilità
all'ente dell'atto nullo poiché delittuoso, sia pure a certe condizioni).
35. Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o
comunque materiale, ove pure vada esclusa l'operatività del criterio
di imputazione pubblicistico fondato sull'attribuzione della condotta
del funzionario o dipendente all'ente (questione non immediatamente
rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata),
non può però negarsi l'operatività di un diverso criterio: non vi è
alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello
Stato o dell'ente pubblico -se correttamente ricostruita, pure ad
evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni-
al di fuori dell'esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli
altri presupposti validi in caso di avvalimento dell'operato di altri.
36. Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di
evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello
Stato o dell'ente pubblico, in palese contrasto con il principio di
uguaglianza formale di cui all'art. 3, comma primo, Cost. e col diritto
di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello
sovranazionale dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell'Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 04.08.1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed
entrata in vigore il 10/10/1955) e dall'art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e
confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata,
in versione consolidata, sulla G.U. dell'U.E. del 30/03/2010, n. C83,
pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di
Lisbona -ratificato in Italia con L. 02.08.2008, n. 130- e cioè
01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria,
invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente.
37. Ed una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in
base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poiché la tutela dei
diritti non può mai a queste essere -se non altro sic et simpliciter o
in linea di principio- sacrificata (come, in campo sovranazionale,
riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo
Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo
14/11/2017, IV sez., Spahie e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n.
20514/15 e altri) e poiché in ogni caso va garantita, affinché possa
dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un'adeguata tutela
risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla
Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi
organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi
principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera,
GMgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119).
38. In definitiva, non può più accettarsi, perché in insanabile
contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una
interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la
conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi
dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo
attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria
dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi
siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti.
39. Si tratta, riprendendo una tesi non ignota alla stessa dottrina
pubblicistica (sopra, punto 16), della ricostruzione sistematica di un
regime di responsabilità articolato, corrispondente alla composita
natura delle condotte dello Stato e degli enti pubblici: a seconda che
cioè esse siano poste in essere nell'esercizio, pur se eccessivo o
illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente
finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano
poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della
titolarità o dell'esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni),
sia
pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o
contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite.
40. Nel primo caso, l'illecito è riferito direttamente all'Ente e
questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale
principio dell'art. 2043 cod. civ.; nel secondo caso, con le precisazioni
di cui appresso, la responsabilità civile dell'Ente deve invece dirsi
indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di
principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e
desunti dall'art. 2049 cod. civ.
41. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo
rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta
la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente
(salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla
peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale
scolastico -ex art. 61 cpv. legge 11.07.1980, n. 312, su cui v.
Corte cost. n. 64 del 1992- o dei magistrati ex lege 113/1987, su cui v.
tra le altre Corte cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve
farsi eccezione quando vi sia un'esplicita diversa previsione normativa
che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi
esente da responsabilità l'ente pubblico e mantenga esclusivamente
quella dell'agente o viceversa.
42. Ritengono queste Sezioni Unite che debba allora superarsi la
rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di
imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto: l'art. 28
Cost. non preclude l'applicazione della normativa del codice civile,
piuttosto essendo finalizzata all'esclusione dell'immunità dei
funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico ed alla
contemporanea riaffermazione della responsabilità della P.A.; ne
consegue che la concorrente responsabilità della P.A. e del suo
dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest'ultimo al di fuori
delle finalità istituzionali di quella deve seguire, in difetto di deroghe
normative espresse, le regole del diritto comune.
43. Del resto, più non osta all'applicabilità dell'art. 2049 cod. civ.
l'originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in
eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto
organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di
selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi
estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame
prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa.
44. Nemmeno l'ontologica differenza tra rapporto di preposizione
institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo
funzionario o dipendente osta alla generalizzazione del principio
dell'art. 2049 cod. civ., poiché questo è solamente espressione di un
generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli
ma anche pregiudizievoli, dell'attività non di diritto pubblico dei
soggetti di cui ci si avvale; e che la P.A. possa rivestire la qualità di
parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del
dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei
confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello.
45. Ancora, solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente
coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali)
di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell'obbligazione
risarcitoria l'attribuzione (talora normativamente prevista: v. ad es.
l'art. 22, cpv., del richiamato d.P.R. 10.01.1957, n. 3) di questo
per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto
di cui all'art. 2049 cod. civ.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512),
salva per quest'ultimo la prova della colpa pure dell'amministrazione.
G. L'occasionalità necessaria.
46. Alla puntualizzazione dell'ambito di operatività del criterio di
imputazione ricondotto ai principi dell'art. 2049 cod. civ. va premesso
un richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile.
47. A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni
Unite di cui alle sentenze nn. 576 ss. del dì 11/01/2008 (alla cui
esauriente motivazione, tuttora valida e meritevole di piena
condivisione, qui basti un richiamo), ai fini della definizione della
causalità materiale nell'ambito della responsabilità extracontrattuale
va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41
cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se,
ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in
assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
48. Tuttavia, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause,
posto dall'art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento
dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel
principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della
medesima disposizione, in base al quale l'evento dannoso deve
essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta
sopravvenuta, solo se quest'ultima risulti tale da rendere irrilevanti le
altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di
sviluppo della serie causale già in atto.
49. Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una
causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex
ante idonee a determinare l'evento secondo il principio della c.d. causalità
adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest'ultima, a
sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che -secondo l'id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità
statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante- integra gli estremi
di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento
originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce
l'antecedente necessario e sufficiente. E, sempre secondo i citati
precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante deve essere
prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell'agente,
ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in
sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire
oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione
dell'evento.
50. Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex
ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e
svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno
ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello
scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei
doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi
entro l'elemento soggettivo dell'illecito (la colpevolezza), ove questo per
l'ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro efficienza
peculiare nel senso dell'elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra
l'illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di questa
Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478, 2480 e
2482).
51. Non è questa la sede per esaminare le differenze tra causa ed occasione
o concausa, né per sanare la contradictio in adiecto della nozione di
occasionalità necessaria: infatti, basta qui rilevare che questa coinvolge
una peculiare specie di relazione di causalità, visto che, nella concreta
elaborazione che finora se ne è operata e con le precisazioni di cui
appresso, una tale occasionalità necessaria si identifica con quella
peculiare relazione tra l'uno e l'altro tale per cui la verificazione del
danno- onseguenza non sarebbe stata possibile senza l'esercizio dei poteri
conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non
sufficiente; ma qui va affermata la necessità che tale valutazione di
impossibilità sia operata in base ai principi della causalità adeguata
appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ex
ante, di regolarità causale atta a determinare l'evento, vale a dire di
normalità -in senso non ancora giuridico, ma naturalistico-statistico-
della sua conseguenza.
52. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo
descrittivamente identificarsi lo Stato o l'ente pubblico nella fattispecie
di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o
dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza
l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici:
e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell'agente (non potendo dipendere
il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell'atteggiamento
psicologico dell'autore del fatto), ma in relazione all'oggettiva
destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o -a
maggior ragione- contrari a quelli per i quali le funzioni o le
attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.
53. La conseguenza è l'integrale applicazione della disciplina della
responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un'adeguata
delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le
regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole sopra
ricordate; in secondo luogo, vige l'elisione del nesso in ipotesi di fatto
naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a
determinare l'evento; in terzo luogo, si applica la regola generale
dell'art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del
danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478,
2480 e 2482 del 2018).
54. Soprattutto, però, è insito nel concetto stesso di causalità adeguata
che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle
tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex
ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo,
anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch'esse
oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle
funzioni, attribuzioni o poteri.
55. In tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico
al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto
egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa
prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell'organizzazione della
propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi
in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono
avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili)
sequenze causali dell'estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni)
conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del
dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo
circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla
stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. n. 13799 del
2015 cit.).
56. Ne deriva che quest'ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di
quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in
estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse
inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non
anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di
quell'estrinsecazione, quand'anche distorta o deviata o vietata: in tanto
assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante
fattispecie dei danni causati dall'illecito del pubblico funzionario, ogni
altra conclusione sull'occasionalità necessaria, tra cui l'estensione alla
mera agevolazione della commissione del fatto.
H. Sintesi.
57. Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare una
natura composita della responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico per
il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i principi
della responsabilità indiretta elaborati per l'art. 2049 cod. civ.
all'attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica
amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e solidale
responsabilità per i danni causati da condotte del preposto pubblico
definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non
improbabile delle normali condotte di regola inerenti all'espletamento delle
incombenze o funzioni conferite, anche quale violazione o come sviamento o
degenerazione od eccesso, purché anche essi prevenibili perché
oggettivamente non improbabili.
58. Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico
anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se
devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del
potere di agire, purché:
- si tratti di condotte a questo legate da un nesso di
occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto
dell'estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa - e
quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto - non sarebbe stata
possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al
giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta; nonché
- si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente,
sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell'esercizio del
conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il
potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o
ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non
oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei
poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti.
59. Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere del
fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in
tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa
nell'applicazione anche in materia di danni da attività non provvedimentale
della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di
caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sé solo idoneo a
reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di
concorso del fatto almeno colposo di costoro.
60. La questione sottoposta a queste Sezioni Unite dall'ordinanza
interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di
diritto: «lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente
del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente
anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per
finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle
dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da
un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il
dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita
dannosa -e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi- non sarebbe
stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in
base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza
l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od
illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo»
(Corte di Cassazione, Sezz.
unite civili,
sentenza
16.05.2019 n. 13246). |
PATRIMONIO: Il
sindaco non è obbligato a chiudere la scuola a basso indice di sicurezza
sismica.
La non rispondenza del fabbricato adibito a scuola materna ai criteri
antisismici aggiornati non impone di per sé la dichiarazione di inagibilità
dell'edificio ma determina soltanto un dovere di programmazione degli
interventi edilizi necessari per il suo adeguamento sismico.
Pertanto, non è
imputabile per il reato di omissione di atti d'ufficio il sindaco che non
dispone l'immediata chiusura della scuola tramite ordinanza contingibile e
urgente (articolo 54 del Tuel Dlgs 267/2000).
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Modena ricorre
avverso l'ordinanza la quale il Tribunale di Modena ha, in accoglimento del riesame proposto ai
sensi degli artt. 322
e 324 cod. proc. pen. dall'indagato Ba.Cl., annullato il
decreto col quale il G.i.p. di
quello stesso Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo dell'immobile
adibito a scuola
d'infanzia comunale in Serramazzoni nell'ambito del procedimento avviato nei
confronti di
Ro.Ru. e Cl.Be., sindaci pro-tempore del Comune di
Serramazzoni e
pertanto ufficiali di governo, il primo dall'anno 2013 al 10/06/2018 e il
secondo a partire da tale
ultima data, nonché nei confronti di Gi.Ga., Assessore ai lavori
pubblici del medesimo
Comune dal luglio 2013 ad oggi.
Con lo stesso provvedimento impugnato, il
Tribunale disponeva a restituzione dell'immobile in questione all'amministrazione comunale
proprietaria.
I soggetti sopra nominati sono indagati per il reato di cui agli artt. 110 e
328 cod. pen.
perché, nelle suddette rispettive qualità, indebitamente rifiutavano un atto
dei loro uffici che,
per ragioni di sicurezza pubblica, avrebbe dovuto essere compiuto senza
ritardo.
Secondo la
prospettazione accusatoria essi, preso atto della "Relazione tecnica,
valutazione della sicurezza
strutturale del fabbricato ad uso scuola materna" di proprietà comunale sito
in Serramazzoni,
Via IV Novembre n. 195 che evidenziava un indice di rischio sismico pari a
0,26, di gran lunga
inferiore al limite minimo di 0,6 previsto dalle NCT 2018 con riguardo a
interventi di
miglioramento sismico su edifici esistenti, omettevano di dichiarare
l'inagibilità di detta scuola
materna nonché di provvedere all'immediata chiusura della stessa previa
adozione di ordinanza
contingibile e urgente ex art. 54 D.L.vo 267/2000.
L'ordinanza impugnata ha in primo luogo ritenuto la mancanza di autonoma
valutazione del
G.i.p. circa i presupposti legittimanti il disposto sequestro.
Ha quindi in
ogni caso escluso che la
normativa vigente imponga l'obbligatorietà della messa fuori servizio
dell'opera non appena se
ne riscontri l'inadeguatezza rispetto alle azioni ambientali non
controllabili dall'uomo e soggette
ad ampia variabilità nel tempo ed incertezza nella loro determinazione,
sicché i proprietari o i
gestori delle singole opere, siano essi enti pubblici o soggetti privati,
sono chiamati a definire e
programmare i provvedimenti più idonei, commisurati alla vita naturale
nominale restante
dell'opera, alla sua classe d'uso e alla disponibilità di risorse ordinarie
o straordinarie allo scopo
destinate.
Da ciò consegue, ad avviso del Tribunale del riesame, che
la non
rispondenza di
costruzioni preesistenti agli indici di sicurezza sismica posti dalle Norme
tecniche di costruzione
(NTC) non determina di per sé un obbligo di intervento di salvaguardia
rilevante ai sensi dell'art.
328, comma 1, cod. pen., dovendosi per questo escludere nel caso di specie
la sussistenza del fumus commissi delicti. In tal senso, il mero carattere probabilistico
astratto del parametro
espresso dall'indice di sicurezza sismica non assumerebbe una valenza
autonoma, trattandosi
della definizione di un rischio diacronico che proietta la sua funzione sul
piano della
programmazione degli interventi edilizi necessari all'adeguamento sismico
piuttosto che su
quello della diagnostica del rischio attuale.
Il Tribunale non ha quindi
ritenuto in contrasto con i paradigmi tecnico-amministrativi applicabili
alla fattispecie l'azione amministrativa intrapresa dal
Comune, che ha provveduto in primo luogo a dare soluzione alle rilevate
criticità statiche
mediante la realizzazione di pertinenti interventi strutturali, ed ha
programmato, nel più ampio
contesto di maggiori e più immediati investimenti per l'adeguamento sismico
di altre scuole, un
investimento triennale per il miglioramento e l'adeguamento sismico della
scuola sottoposta a
sequestro (Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 15.05.2019 n. 21175). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Discarica abusiva - Realizzazione e gestione di
discarica non autorizzata commessi da terzi - Responsabilità
del proprietario del terreno - Configurabilità in forma
omissiva - Esclusione - Produttori e detentori dei rifiuti -
Presenza di un obbligo giuridico - Limiti - Artt. 192, 256
d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, il proprietario
di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di
realizzazione e gestione di discarica non autorizzata
commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per
la rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità
sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di
impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento
lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia
atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Pertanto, non è configurabile in forma omissiva il reato di
gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti
del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano
illecitamente depositato i rifiuti, in quanto nessun obbligo
di controllo può ravvisarsi in carico del proprietario
medesimo, mentre gli obblighi di corretta gestione e
smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei
produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi.
...
RIFIUTI - Smaltimento dei rifiuti - Centro di raccolta -
Violazione di sigilli - Principio del cui prodest ed
altri elementi di fatto di sicuro valore indiziante - Art.
349 cod. pen. - Giurisprudenza.
In caso di violazione di sigilli, punita
dall'art. 349 cod. pen., risponde della stessa il titolare
dell'impresa individuale di smaltimento dei rifiuti, al cui
centro di raccolta i sigilli risultavano apposti, sulla base
del principio del cui prodest, atteso che deve presumersi
che la prosecuzione dell'attività non possa che essere
riferita al titolare della stessa, in assenza della prova
della estraneità del medesimo alla attività illecita. In
generale, comunque, è stata ritenuta non censurabile, in
sede di legittimità, la sentenza del giudice di appello che
fondi il giudizio di colpevolezza sul principio del cui
prodest, qualora esso sia supportato da altri elementi di
fatto di sicuro valore indiziante (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.05.2019 n. 21080 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Recinzione
in prossimità dell’argine di un fiume.
In considerazione di
quello che è l’interesse pubblico perseguito
dal RD 368/1904, deve ritenersi che la norma
si applichi a tutti i manufatti in grado di
interferire con la pulizia delle sponde,
l’uso degli argini e il normale alveo del
corso d’acqua.
Ne consegue che manufatto costituito da un
basamento in cemento armato sormontato da
una rete metallica va qualificato una
“fabbrica” assoggettata alle prescrizioni
dell’articolo 133 R.D. n. 368/1904 che
indica gli atti o fatti vietati in modo
assoluto rispetto ai “corsi d'acqua, strade,
argini ed altre opere d'una bonificazione”
(fattispecie relativa a una recinzione che
sorge a 1,20 m. dalla mezzeria di un canale)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.05.2019 n. 1074 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
7.1. Il ricorso è infondato: il che consente
di prescindere, per ragioni di economia
processuale, dalla disamina delle eccezioni
preliminari sollevate sia dalla difesa del
Comune, che da quella del Consorzio (cfr.,
TAR Lazio–Roma, Sez. III, sentenza n.
9086/2016).
7.2. Il ragionamento deve necessariamente
muovere dal dato normativo.
Ebbene, il R.D. n. 368/1904 (recante il “Regolamento
sulle bonificazioni delle paludi e dei
terreni paludosi”) all’articolo 133
disciplina le fasce di inedificabilità
assoluta rispetto a «corsi d’acqua, strade,
argini ed altre opere d’una bonificazione».
In particolare, per quanto qui di interesse,
la testé richiamata disposizione
regolamentare vieta in una fascia compresa
tra i 4 e i 10 m. dal corso d’acqua la
realizzazione di “fabbriche” o “fabbricati”.
Ed, infatti, la deliberazione consortile n.
125 del 31.05.2007, in esecuzione della
suvvista disposizione, esercitando la
discrezionalità riconosciutagli all’interno
dell’intervallo predeterminato dalla norma,
ha fissato in 6 m. la fascia di rispetto per
i canali derivatori.
7.3.1. Sennonché, è irrilevante che la
recinzione di cui si discute sia stata
realizzata prima della su ricordata
deliberazione consortile, posto che non è in
contestazione che essa sorge a 1,20 m. dalla
mezzeria del canale, quindi comunque entro
la minor fascia di 4 m. fissata dal R.D. n.
168/1904, ovverosia in area comunque
assoggettata a vincolo di inedificabilità.
Questo significa che in nessun caso la
recinzione avrebbe potuto essere collocata
in quel punto.
E significa, altresì, che, giusta quanto
dispone l’articolo 33, primo comma, lettera
a), L. n. 47/1985, espressamente richiamato
dall’articolo 32, comma 27, D.L. n. 269/2003
(convertito in L. n. 326/2003), il manufatto
in alcun modo non è sanabile.
7.3.2. Né può sostenersi che la recinzione
non costituisca una “fabbrica” e,
dunque, non sia assoggettata alle
prescrizioni dell’articolo 133 R.D. n.
368/1904.
Come condivisibilmente osservato dalla
difesa del Consorzio, in considerazione di
quello che è l’interesse pubblico
perseguito, deve ritenersi che la norma si
applichi a tutti i manufatti in grado di
interferire con la pulizia delle sponde,
l’uso degli argini e il normale alveo del
corso d’acqua. E, nel caso di specie, il
manufatto è costituito da un basamento in
cemento armato sormontato da una rete
metallica: il che ne fa sicuramente una “fabbrica”
ai fini sopra visti.
7.3.3. Nemmeno può opporsi –così come tenta
di fare la difesa di parte ricorrente- che
la recinzione di cui si discute è allineata
alla recinzione di altre proprietà che
costeggiano il canale e che recentemente
anche il Comune ha realizzato dall’altra
parte del canale una palizzata a protezione
della pista ciclabile.
Infatti, anche ammettendo che le allegazioni
siano confermate, non costituisce certo
causa di illegittimità l’essersi l’Autorità
procedente allontanata da una prassi
illegittima (cfr., TAR Emilia Romagna–Parma,
sentenza n. 242/2016). La violazione di una
norma di legge non repressa non legittima
affatto la reiterazione della violazione
medesima (cfr., TAR Toscana, Sez. III,
sentenza n. 507/2015).
7.4. In questo quadro, il ritiro in
autotutela di un provvedimento (i.e.
il permesso di costruire in sanatoria) che
ab origine non avrebbe potuto essere
rilasciato si configura come atto vincolato
(cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n.
2799/2018), come tale non necessitante di
una motivazione ulteriore rispetto ai
presupposti che legittima l’esercizio di un
potere nella sostanza repressivo (cfr.,
C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 3659/2018).
7.5. Infine, il richiamo operato dalla
revoca in autotutela del permesso di
costruire in sanatoria alle sanzioni
previste dall’articolo 26 del Regolamento
consortile è privo di valenza
provvedimentale, costituendo un semplice
avviso rispetto a provvedimenti che saranno
adottati in un secondo momento e a poteri
ancora da esercitare.
8.1. In conclusione, il ricorso è infondato
e per questo viene respinto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione non autorizzata di rifiuti - Rilevanza
della "assoluta occasionalità" - Singola condotta
assolutamente occasionale - Valutazione rimessa al giudice
del merito - Art. 256, c. 1, d.lgs. n. 152/2006.
La rilevanza della "assoluta
occasionalità", ai fini dell'esclusione della tipicità
dell'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, deriva non
già da un'arbitraria delimitazione interpretativa della
norma, bensì dal tenore della fattispecie penale, che,
punendo l'attività" di raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento, commercio ed intermediazione, concentra il
disvalore su un complesso di azioni, che, dunque, non può
coincidere con una singola condotta assolutamente
occasionale. Inoltre, il profilo dell'assoluta occasionalità
della condotta è oggetto precipuo della valutazione di fatto
rimessa al giudice del merito, e dunque questione
essenzialmente probatoria, che, ove congruamente motivata,
non è suscettibile di censura in sede di legittimità.
...
RIFIUTI - Natura della assoluta occasionalità - Limiti di
carattere soggettivo o oggettivo - Soggetto agente (privato,
imprenditore, ecc.) - Ininfluenza - Minimum di
organizzazione - Altri elementi - Giurisprudenza.
L'assoluta occasionalità non può essere
ricavata esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto
agente (privato, imprenditore, ecc.), dovendo, invece,
ritenersi non integrata in presenza di una serie di indici
dai quali poter desumere un minimum di organizzazione che
escluda la natura solipsistica della condotta.
In particolare, ai fini della configurabilità del reato
previsto dall'art. 256 d.lgs. n. 152 del 2006, il carattere
non occasionale della condotta di trasporto illecito di
rifiuti può essere desunto da indici sintomatici, quali la
provenienza del rifiuto da un'attività imprenditoriale
esercitata da chi effettua o dispone l'abusiva gestione, la
eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le
caratteristiche del rifiuto indicative di precedenti
attività preliminari di prelievo, raggruppamento, cernita,
deposito (Sez. 3,
n. 36819 del 04/07/2017 - dep. 25/07/2017, Ricevuti; in
senso conforme, Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016 - dep.
29/02/2016, P.M. in proc. Revello, la quale ha escluso l'occasionalità
della condotta atteso che, pur essendo stato effettuato il
trasporto in un'unica occasione, l'ingente quantità di
rifiuti denotava lo svolgimento di un'attività commerciale
implicante un minimum di organizzazione necessaria alla
preliminare raccolta e cernita dei materiali).
Altri elementi indicativi per valutare l'occasionalità
o meno del trasporto possono trarsi dal dato ponderale dei
rifiuti oggetto di gestione, dalla disponibilità di un
veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, dal
fine di profitto perseguito (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.05.2019 n. 20467 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sono
le tamponature esterne a realizzare in concreto i volumi di un edificio,
rendendoli individuabili e calcolabili, con la conseguenza che la
realizzazione di tali tamponature produce senz’altro effetti in termini di
aumento di volume.
Gli
interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione
interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino
l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi
non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o
risanamento conservativo), ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione
edilizia; ciò in quanto
“gli interventi di manutenzione straordinaria sono caratterizzati da un
duplice limite: uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i
lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti
dell’edificio, e l’altro di ordine strutturale, consistente nella
proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari o di mutare la loro destinazione”.
---------------
In secondo luogo, premesso che sul fabbricato, come risulta dalla
relazione tecnica riferita al sopralluogo effettuato dai tecnici comunali in
data 09.12.2008, erano stati compiuti interventi di tamponamento con
aumento volumetrico ed era stata creata superficie utile con costruzione di
vani ad uso residenziale con i relativi necessari servizi, il Collegio
ritiene che tali opere non possano essere ricondotte alla manutenzione
straordinaria come argomentato dall’appellante.
Non sussistono infatti
ragioni per discostarsi dalla giurisprudenza di questo Consiglio per la
quale: sono le tamponature esterne a realizzare in concreto i volumi di un
edificio, rendendoli individuabili e calcolabili (Cons. Stato, sez. VI, 27.06.2008, n. 3286), con la conseguenza che la realizzazione di tali
tamponature produce senz’altro effetti in termini di aumento di volume; “gli
interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione
interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino
l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi
non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o
risanamento conservativo), ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione
edilizia” (Cons. Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4523); ciò in quanto
“gli interventi di manutenzione straordinaria sono caratterizzati da un
duplice limite: uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i
lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti
dell’edificio, e l’altro di ordine strutturale, consistente nella
proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari o di mutare la loro destinazione” (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2007, n. 1388)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 3058 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
discrimine tra ristrutturazione e realizzazione di nuovo organismo
edilizio è chiaro nella giurisprudenza di questo Consiglio, secondo la
quale per aversi ristrutturazione occorre che sia conservata la struttura
fisica della costruzione preesistente o che questa sia oggetto di una
ricostruzione se non fedele, comunque rispettosa della volumetria e della
sagoma della struttura preesistente.
---------------
7. L’appello è infondato.
Il Collegio ritiene di affrontare in primo luogo le doglianze di parte
appellante con cui si deplora che non sia stata data applicazione all’art.
33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 (Testo unico per l’edilizia). Tale
disposizione prevede, in caso di ristrutturazione edilizia eseguita in
assenza di permesso o in totale difformità da esso, l’irrogabilità della
sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, nell’eventualità che non sia
possibile la rimessione in pristino, come avverrebbe nella fattispecie,
considerato anche che il piano seminterrato ha una funzione di sostegno del
piano terra.
Tali doglianze sono infondate in quanto nella fattispecie non ricorre il
presupposto della ristrutturazione edilizia in presenza del quale è
applicabile l’invocato art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001.
L’accertamento svolto dal Comune di Piombino ha evidenziato opere edilizie
abusive che hanno portato alla realizzazione di nuovi volumi e superfici
-tra cui la costruzione di un intero piano seminterrato, di una tettoia e di
una scala, nonché un manufatto del tutto nuovo- dando luogo ad un nuovo
organismo edilizio con modificazione dell’originaria destinazione d’uso
agricola in residenziale, per il quale sarebbe stato necessario il rilascio
di un idoneo titolo edilizio.
Il discrimine tra ristrutturazione e realizzazione di nuovo organismo
edilizio è chiaro nella giurisprudenza di questo Consiglio, secondo la quale
per aversi ristrutturazione occorre che sia conservata la struttura fisica
della costruzione preesistente o che questa sia oggetto di una ricostruzione
se non fedele, comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della
struttura preesistente (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. V,
10.09.2012, n. 4771, Sez. IV, 07.04.2015, n. 1763), requisiti che non
ricorrono nella fattispecie.
Infatti, in variazione essenziale dalla concessione rilasciata per la
demolizione e ricostruzione di annessi agricoli precari condonati, la
realizzazione di pergolato e la posa in opera di un impianto di
subirrigazione, è stata invece accertata la realizzazione di un immobile in
muratura, costruito su due piani invece di uno, con un piano aggiuntivo
seminterrato fuori sagoma, suddiviso in stanze, con cucina ammobiliata e
servizio igienico, allacciatura alla fornitura di energia elettrica e acqua,
con cambio della destinazione d’uso.
A fronte di tale accertamento, risultano prive di rilevo le doglianze di
parte appellante riferite al primo piano dell’edificio, relative
all’erroneità di alcune misure indicate nell’ordinanza di demolizione e
all’assenza di allacci alle reti di servizi e allo scarso mobilio di tale
piano.
Correttamente quindi l’Amministrazione comunale ha disposto la demolizione
ai sensi dell’art. 132 della l.r. n. 1/2005 (Norme per il governo del
territorio), che, con disposizioni analoghe a quelle contenute nell’art. 31
del d.P.R. n. 380/2001, prevede l’ingiunzione di demolizione delle opere
eseguite in variazione essenziale rispetto al titolo edilizio
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 3057 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' infondato l’argomento con cui si
censura l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione
comunale nella valutazione della difformità delle opere realizzate rispetto
al titolo edilizio.
Per sua natura tale attività non ha carattere discrezionale, essendo
limitata ad un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
---------------
Questo Consiglio ha chiarito, con un orientamento da tempo consolidato, che
“le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg., l.
n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono
risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento non va inteso in senso
formalistico, ma risponde all’esigenza di provocare l’apporto collaborativo
da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva
influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla
concreta portata del provvedimento finale”.
Infatti, l’ingiunzione di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e
vincolato, finalizzato a sanzionare la costruzione di opere realizzate senza
il prescritto titolo edilizio e, ai fini della sua adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario.
---------------
Anche l’argomento con cui si
censura l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione
comunale nella valutazione della difformità delle opere rispetto al titolo
edilizio è infondato. Per sua natura tale attività non ha carattere
discrezionale, essendo limitata ad un mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (cfr.
Cons. Stato Sez. IV, 29.03.2019, n. 2086).
Il motivo d’appello relativo alla violazione dell’art. 7 della l. n.
241/1990 è infondato.
Questo Consiglio ha chiarito, con un orientamento da tempo consolidato, che
“le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg.,
l. n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono
risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento non va inteso in senso
formalistico, ma risponde all’esigenza di provocare l’apporto collaborativo
da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva
influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla
concreta portata del provvedimento finale” (ex plurimis, Cons.
Stato, sez. IV, 13.08.2018, n. 4918).
Infatti, l’ingiunzione di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e
vincolato, finalizzato a sanzionare la costruzione di opere realizzate senza
il prescritto titolo edilizio e, ai fini della sua adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario; essi, comunque, nella
fattispecie, non avrebbero potuto far venire meno la circostanza che le
opere erano state realizzate senza il necessario titolo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 3057 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art. 17 del D.P.R.,
08.06.2001, n. 380, comma 3, lettera c), prevede
l’esenzione del contributo per “gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati,
in attuazione di strumenti urbanistici".
In base al dato testuale della norma e alla sua costante interpretazione
giurisprudenziale, la esenzione esige il concorso di due presupposti, e
cioè, uno oggettivo, l’ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione
edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e
l’altro soggettivo, l’esecuzione delle opere da parte di enti
istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia
demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse
generale (ovvero da parte di privati concessionari dell’ente pubblico,
purché le opere siano inerenti all’esercizio del rapporto concessorio).
Pertanto, è necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede
l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue
oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un
utilizzo dell’intera collettività.
Se alla luce dell’evoluzione del concetto di pubblica amministrazione,
inteso non più meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono
ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le amministrazioni
formalmente previste e riconosciute come tali dalla legge, ma anche soggetti
privati (imprenditori individuali, società per azioni) che esercitino
un’attività pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di
longamanus della p.a., tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è
necessario anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della
quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, l’orientamento della giurisprudenza, dal quale il
Collegio non ritiene di potersi discostare nel caso di specie, interpreta
restrittivamente le fattispecie di esenzione, richiedendo che l’opera, per
la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione,
sia, per le sue oggettive caratteristiche, esclusivamente finalizzata ad un
utilizzo dell’intera collettività; ciò in quanto il pagamento degli oneri
concessori, essendo finalizzato alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione necessarie al corretto assetto del territorio, ai sensi
dell’art. 9 della Costituzione, costituisce un principio generale
dell’ordinamento le cui eccezioni sono di stretta interpretazione.
Sulla
base di tali principi, viene, quindi, affermata la non sufficienza di un
nesso di mera strumentalità dell’opera a un interesse generale,
richiedendosi l’esclusiva finalizzazione alla realizzazione dell’interesse
generale.
---------------
L’appello è infondato.
L’art. 17 del D.P.R., 08.06.2001, n. 380, comma 3, lettera c), prevede
l’esenzione del contributo per “gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati,
in attuazione di strumenti urbanistici".
In base al dato testuale della norma e alla sua costante interpretazione
giurisprudenziale, la esenzione esige il concorso di due presupposti, e
cioè, uno oggettivo, l’ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione
edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e
l’altro soggettivo, l’esecuzione delle opere da parte di enti
istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia
demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse
generale (ovvero da parte di privati concessionari dell’ente pubblico,
purché le opere siano inerenti all’esercizio del rapporto concessorio) (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 20.11.2017, n. 5356; sez. V, 07.05.2013, n. 2467; sez. IV,
02.03.2011, n. 1332).
Pertanto, è necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede
l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue
oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un
utilizzo dell’intera collettività.
Se alla luce dell’evoluzione del concetto di pubblica amministrazione,
inteso non più meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono
ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le amministrazioni
formalmente previste e riconosciute come tali dalla legge, ma anche soggetti
privati (imprenditori individuali, società per azioni) che esercitino
un’attività pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di
longamanus della p.a., tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è
necessario anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della
quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, l’orientamento della giurisprudenza, dal quale il
Collegio non ritiene di potersi discostare nel caso di specie, interpreta
restrittivamente le fattispecie di esenzione, richiedendo che l’opera, per
la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione,
sia, per le sue oggettive caratteristiche, esclusivamente finalizzata ad un
utilizzo dell’intera collettività; ciò in quanto il pagamento degli oneri
concessori, essendo finalizzato alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione necessarie al corretto assetto del territorio, ai sensi
dell’art. 9 della Costituzione, costituisce un principio generale
dell’ordinamento le cui eccezioni sono di stretta interpretazione.
Sulla
base di tali principi, viene, quindi, affermata la non sufficienza di un
nesso di mera strumentalità dell’opera a un interesse generale,
richiedendosi l’esclusiva finalizzazione alla realizzazione dell’interesse
generale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 06.06.2016, n. 2394; 07.07.2014, n. 3421)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 3054 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
chiacchiera in ufficio è prova. Registrare di nascosto i colleghi non viola
la privacy. La Cassazione sul licenziamento per giusta causa: il dialogo
deve essere pertinente.
Registrare di nascosto le conversazioni con i
colleghi non costituisce motivo di licenziamento per giusta causa. Infatti è
legittimo il comportamento del lavoratore finalizzato a precostituirsi un
mezzo di prova contro il datore di lavoro per una causa futura o imminente.
È dunque possibile produrre in giudizio le registrazioni occulte di vari
colloqui avvenuti con i colleghi, in quanto il diritto di difesa prevale
sulla tutela della privacy. Attenzione però: le registrazioni sul lavoro
sono consentite a patto che i dialoghi siano pertinenti alla tesi da
sostenere in giudizio e il mezzo utilizzato non ecceda le finalità.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 10.05.2019 n. 12534.
Il caso. La
vicenda portata all'attenzione della Suprema corte riguarda un licenziamento
per giusta causa, ai sensi dell'art. 2119 cod. civ., nei confronti di un
dirigente sorpreso a registrare sul posto di lavoro conversazioni con i
colleghi. Nel caso di specie, sia il Tribunale sia la Corte d'appello di
Bologna, avevano dichiarato, concordemente, la legittimità del provvedimento
espulsivo intimato al lavoratore a causa del suo comportamento ostile
assunto contro l'azienda nell'esecuzione del suo rapporto di lavoro.
Tra i fatti che l'azienda aveva contestato al dirigente (per esempio l'auto
assegnazione dei periodi di congedo per le ferie), c'era anche la
circostanza di aver registrato in modo occulto, e quindi all'insaputa degli
interlocutori, vari colloqui con i suoi colleghi di lavoro. Il lavoratore
impugnava le decisioni delle pronunce di primo e secondo grado di giudizio e
ricorreva in Cassazione.
I motivi. Tra i
motivi del ricorso, il lavoratore sollevava l'errore di diritto della Corte
di merito per avere ritenuto che le registrazioni delle conversazioni
effettuate con i colleghi rientrassero tra le condotte non consentite.
Infatti, a parere del ricorrente, la registrazione di una conversazione
all'insaputa dell'interlocutore deve ritenersi legittima e validamente
utilizzabile in sede processuale qualora necessaria per tutelare e far
valere un diritto in sede giudiziaria.
Inoltre, il lavoratore lamentava che i giudici della Corte d'appello,
nell'affermare la legittimità del licenziamento, si fossero limitati a fare
riferimento alla nozione astratta di «giusta causa» dovendo, comunque,
essere verificata la sussistenza in correlazione con i criteri concordati
dalle parti collettive nell'individuare le condotte di rilevanza
disciplinare e nel graduare le relative sanzioni.
La sentenza. I
giudici della Corte hanno cassato la decisione dei giudici di merito
riconfermando la propria giurisprudenza in materia di registrazioni occulte
sul luogo di lavoro. Al riguardo, gli ermellini hanno affermato che
l'utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e
i colleghi sul luogo di lavoro non esige il consenso dei presenti, in
ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze
della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto
dall'altra.
Ne consegue che è legittima, e inidonea a integrare un illecito
disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali
registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e
per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente
alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità
conseguenti al legittimo esercizio di un diritto (Cass. n. 11322 del
10/05/2018 n. 11322; Cass. n. 27424 del 29/12/2014).
Conclusioni.
Dalla lettura della sentenza derivano sostanzialmente due conclusioni: da un
lato è legittimo registrare di nascosto i colleghi per precostituirsi un
mezzo di prova contro il datore di lavoro in una possibile vertenza contro
di questi, dall'altro, invece, le registrazioni sul lavoro sono consentite a
patto che i dialoghi siano pertinenti alla tesi da sostenere in giudizio e
il mezzo utilizzato non ecceda le finalità.
Quindi, la registrazione video o audio può essere rivolta ad acquisire le
prove per un processo che si ha solo intenzione di intentare ma che non è
stato ancora avviato. Questo comportamento, alla luce della giurisprudenza
di legittimità, non può essere considerato reato, anzi costituisce
l'esercizio di un diritto (articolo ItaliaOggi Sette del 20.05.2019).
---------------
MASSIMA
11.1. E', invece, da accogliere la censura che investe la ritenuta
illiceità tout court delle registrazioni di conversazioni fra
colleghi, addebitate al Bu., dovendosi dare continuità alla giurisprudenza
di questa Corte secondo la quale l'utilizzo a fini
difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul
luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione
dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della
riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto
dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento
dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la
tutela dei diritti in giudizio; ne consegue che è legittima, ed inidonea ad
integrare un illecito disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia
effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno
dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa,
se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle
necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto
(Cass. 10/5/2018 n. 11322; Cass. 29/12/2014 n. 27424).
La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata in relazione alla
censura accolta con rinvio ad altro giudice di secondo grado, che si indica
nella Corte di appello di Bologna in diversa composizione, il quale
procederà ai fini della verifica della esistenza della giusta causa di
licenziamento alla rivalutazione degli addebiti contestati sulla base del
principio richiamato.
Al giudice del rinvio è demandato il regolamento delle spese del giudizio di
legittimità. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Fanghi derivanti dalle deiezioni animali - Natura
di rifiuti pericolosi - Esclusione - Giurisprudenza.
Le deiezioni animali in assenza di altra
specificazione, debbono essere considerate rifiuti non
pericolosi. Nella fattispecie, pertanto, non si integra il
reato di attività di gestione dei rifiuti non autorizzata,
ex art. 256, comma 1, lettera b), e 6, del dlgs n. 152 del
2006, per aver smaltito illecitamente rifiuti sanitari e
fanghi provenienti dalla conduzione di due canili (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2019 n. 19900 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose - Disturbo della
pubblica quiete - Verifica del superamento della soglia
della normale tollerabilità - Elementi probatori -
Dichiarazioni.
La verifica del superamento della soglia
della normale tollerabilità non deve essere necessariamente
effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben
potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine
alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare
oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi
probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di
coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e
gli effetti dei rumori percepiti, occorrendo, ciò nondimeno
accertare la diffusa capacità offensiva del rumore in
relazione al caso concreto.
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività di un bar regolarmente
autorizzato dall'autorità amministrativa - Esercizio di un "mestiere
rumoroso" - Disturbo delle occupazioni e del riposo
delle persone - Piano di zonizzazione acustica - Calcolo dei
cd. limiti differenziali - Contenuto del documento unico
attività produttive (DUAP) - Fattispecie - Giurisprudenza.
In tema di disturbo delle occupazioni e
del riposo delle persone, l'attività di un bar regolarmente
autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto
fino a tarda notte e all'uso di strumenti musicali e di
diffusione sonora, va classificata come esercizio di un
"mestiere rumoroso", in quanto l'uso di tali strumenti è
strettamente connesso e necessario all'esercizio
dell'attività autorizzata, con la conseguenza che il
superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti
massimi o differenziali di emissione del rumore integra
l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, l.
26.10.1995, n. 447
(Sez. 3, n. 34920 del 11/06/2015 - dep. 18/08/2015,
Masselli).
Nella fattispecie, tuttavia, non risulta
che il bar fosse stato autorizzato dall'autorità
amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e
all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, di
talché l'attività svolta da detto bar non è classificabile
come esercizio di un "mestiere rumoroso", con conseguente
applicazione della fattispecie di cui al comma 1 dell'art.
659 cod. pen..
Difatti nel DUAP, nell'ambito delle attività di
somministrazione di alimenti e di bevande del locale, non
era stata indicata anche l'emissione sonora effettuata
tramite strumentazione meccanica e casse acustiche con la
prescritta predisposizione della documentazione di impatto
acustico.
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Bene tutelato dall'art. 659 cod.
pen. - Nozione di quiete pubblica - Configurabilità del
reato - Diffusività dell'evento di disturbo.
Il bene tutelato dall'art. 659 cod. pen.
è rappresentato dalla quiete pubblica, la quale implica di
per sé l'assenza di disturbo per la pluralità dei
consociati, per la sussistenza del reato è necessario che i
rumori abbiano una tale diffusività che l'evento di disturbo
sia idoneo ad essere risentito dalla collettività, in tale
accezione ricomprendendosi ovviamente il novero dei soggetti
che si trovino nell'ambiente o, comunque, in zone limitrofe
alla provenienza della fonte sonora, atteso che la
valutazione circa l'entità del fenomeno rumoroso va fatta in
relazione alla sensibilità media del gruppo sociale in cui
il fenomeno stesso si verifica.
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Società in accomandita semplice -
Responsabilità ex art. 659 cod. pen. - Individuazione.
Nelle società in accomandita semplice,
per il reato di cui all'art. 659 cod. pen., la
responsabilità della società spetta al socio accomandatario
al quale è stata conferita l'amministrazione della società
e, quindi, la rappresentanza nei rapporti con i terzi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2019 n. 19230 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore.
Superamento della normale tollerabilità: non è sempre necessaria una
perizia.
In tema di inquinamento acustico, la verifica del
superamento della soglia della normale tollerabilità non deve essere
necessariamente effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben
potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine alla sussistenza
di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica
quiete su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di
coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei
rumori percepiti, occorrendo, ciò nondimeno, accertare la diffusa capacità
offensiva del rumore in relazione al caso concreto
(massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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3. Il secondo e il terzo motivo, che possono essere esaminati
congiuntamente stante la stretta correlazione logica e giuridica delle
questioni dedotte, sono infondati.
3.1. Invero, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle
persone, l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità
amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e all'uso di strumenti
musicali e di diffusione sonora, va classificata come esercizio di un "mestiere
rumoroso", in quanto l'uso di tali strumenti è strettamente connesso e
necessario all'esercizio dell'attività autorizzata, con la conseguenza che
il superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti massimi o
differenziali di emissione del rumore integra l'illecito amministrativo di
cui all'art. 10, comma 2, l. 26.10.1995, n. 447 (così, da ultimo, Sez. 3, n.
34920 del 11/06/2015 - dep. 18/08/2015, Masselli, Rv. 264739).
Nel caso in esame, tuttavia, non risulta che il bar fosse stato autorizzato
dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e all'uso
di strumenti musicali e di diffusione sonora, di talché l'attività svolta da
detto bar non è classificabile come esercizio di un "mestiere rumoroso",
con conseguente applicazione della fattispecie di cui al comma 1 dell'art.
659 cod. pen.; e difatti il Tribunale ha correttamente osservato che nel
DUAP, nell'ambito delle attività di somministrazione di alimenti e di
bevande del locale, non era stata indicata anche l'emissione sonora
effettuata tramite strumentazione meccanica e casse acustiche con la
prescritta predisposizione della documentazione di impatto acustico.
3.2. A tal proposito, non rileva nemmeno l'invocata disciplina regionale di
cui agli artt. 22, 23 e 28 l.r. Sardegna n. 5 del 2006; invero, è dirimente
osservare che l'art. 28, al comma 3, stabilisce espressamente quanto segue:
"resta inteso che l'esercizio delle attività del comma 2" -che
contempla, ai fini che qui rilevano, l'effettuazione di piccoli
trattenimenti musicali senza ballo"-, "deve necessariamente avvenire nel
rispetto di tutte le disposizioni vigenti, in quanto applicabili, ed in
particolare di quelle in materia (...) di inquinamento acustico".
Stante il chiaro dettato letterale della norma, è perciò evidente che i "piccoli
trattenimenti musicali" non possono derogare alla disciplina dettata dal
comma 1 dell'art. 659 cod. pen.
4. Il quarto motivo è infondato.
Invero, poiché il bene tutelato dalla fattispecie in esame è rappresentato
dalla quiete pubblica, la quale implica di per sé l'assenza di disturbo per
la pluralità dei consociati, per la sussistenza del reato è necessario che i
rumori abbiano una tale diffusività che l'evento di disturbo sia idoneo ad
essere risentito dalla collettività, in tale accezione ricomprendendosi
ovviamente il novero dei soggetti che si trovino nell'ambiente o, comunque,
in zone limitrofe alla provenienza della fonte sonora, atteso che la
valutazione circa l'entità del fenomeno rumoroso va fatta in relazione alla
sensibilità media del gruppo sociale in cui il fenomeno stesso si verifica.
Il Tribunale ha, perciò, ritenuto la sussistenza del reato, desumendolo
dalla diffusività del rumore, ben percepibile al di fuori dell'edificio da
cui proveniva, anche in pieno orario notturno, arrecando così disturbo al
riposo di un numero indeterminato di persone: non solo le due persone offese
che abitano nell'appartamento sopra il bar (che, proprio per la contiguità
tra i due edifici, erano maggiormente esposte all'inquinamento acustico in
orario notturno), ma anche chi abita nelle vicinanze, essendo l'esercizio
pubblico ubicato non in un luogo isolato, ma in una zona centrale della
città, come emerge dalla sentenza impugnata (p. 4) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2019 n. 19230). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Ampliamento di un fabbricato - Concetto
urbanistico di pertinenza - Giurisprudenza - Manufatto
distinto e separato da quello principale - Asservimento -
Fattispecie: costruzione di un nuovo vano in adiacenza alla
preesistente abitazione - Permesso di costruire - Art. 3,
10, 36, 44, 45, 71 e ss. 83, 93, 95, d.P.R. 380/2001 (T.U.E.).
In materia di reati edilizi,
l'ampliamento di un fabbricato preesistente non può
considerarsi pertinenza, ma parte integrante dell'edificio e
privo di autonomia rispetto ad esso, perché, una volta
realizzato, ne completa la struttura per meglio soddisfare i
bisogni cui è destinato
(Sez. 3, n. 4139/2018).
La pertinenza, richiede che si tratti di un
manufatto distinto e separato da quello principale a cui è
asservito, essendovi in caso contrario ampliamento
dell'edificio che, laddove avvenga «all'esterno della sagoma
esistente» è da considerarsi intervento di nuova costruzione
ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1), T.U.E.,
assoggettato a permesso di costruire ai sensi del successivo
art. 10, comma 1, lett. a). Per questo la giurisprudenza ha
sempre ritenuto necessario detto provvedimento (o la
previgente concessione edilizia) nel caso, ad es., di
trasformazione di balconi in verande
(Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 2014, Summa),
di tettoie realizzate sul lastrico solare
(Sez. 3, n. 21351/2010, Savino), di
porticato addossato ad un fabbricato
(Sez. 3, n. 33657/2006, Rossi).
Nella specie, l'ampliamento dell'edificio
residenziale in questione con costruzione di un nuovo vano
in adiacenza alla preesistente abitazione -vano che al
momento del sopralluogo era destinato a cucina- esclude la
possibilità di invocare il concetto urbanistico di
pertinenza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni in zona sismica - Natura precaria o permanente
dell'intervento e materiali utilizzati - Sicurezza e
pubblica incolumità - Controllo preventivo da parte della
P.A. - Necessità - Artt. 83 e 95 d.P.R. n. 380/2001 -
Disciplina sismica - Applicazione a tutte le costruzioni
realizzate in zona sismica.
Le disposizioni previste dagli artt. 83
e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le
costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza
possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si
rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte
della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle
relative strutture, nonché dalla natura precaria o
permanente dell'intervento
(Sez. 3, n. 9126/2017, Aliberti).
La sentenza impugnata, poi, richiama il
corretto principio secondo cui il reato di omessa denuncia
lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R.
06.06.2001, n. 380, è configurabile anche in caso di
esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a basso
indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo, del
citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle
categorie delle zone medesime
(Sez. 3, n. 30651 del 20/12/2016, dep. 2017, Rubini e a., Rv.
270233; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Morini, Rv.
250369).
...
Reati edilizi in zona sismica - Depositato allo sportello
unico "in sanatoria" degli elaborati progettuali -
Effetti - Contravvenzione antisismica - Comunicazione
richiesta dall'art. 93 T.U.E.
Il deposito allo sportello unico "in
sanatoria" degli elaborati progettuali non estingue la
contravvenzione antisismica, che punisce l'omesso deposito
preventivo di detti elaborati in quanto l'effetto estintivo
è limitato dall'art. 45 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 alle sole
contravvenzioni urbanistiche
(Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Braccolino e aa., Rv.
246462; il principio è stato di recente ritenuto estensibile
anche ai reati previsti dagli artt. 71 ss. d.P.R. 380 del
2001 per la violazione della disciplina delle opere in
conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a
struttura metallica: Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018,
Cardella) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Zona paesaggisticamente vincolata - Interventi che incidono
sull'aspetto esteriore degli edifici - Natura di reato di
pericolo - Effettivo pregiudizio per l'ambiente - Esclusione
Art. 181 d.lgs. 42/2004.
Il reato di pericolo previsto dall'art.
181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della
sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente,
essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva
autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei
ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato
(Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia; Sez. 3, n. 6299
del 15/01/2013, Simeon e a.), tali
certamente essendo gli interventi che incidano sull'aspetto
esteriore degli edifici
(Sez. 3, del 21/06/2011, Fanciulli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Alla
plenaria la questione se la società incorporante possa essere considerata
responsabile del danno ambientale causato dalla incorporata.
La IV Sez. del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la questione
giuridica della possibilità di considerare la società incorporante
responsabile del danno ambientale causato dalla società incorporata.
Alla plenaria la questione se la società incorporante possa essere
considerata responsabile del danno ambientale causato dalla incorporata.
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Danno ambientale – Responsabilità – Società – Fusione per incorporazione
– Deferimento all’Adunanza plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato la questione se una società incorporante, nel regime
anteriore alla modifica del diritto societario, possa essere considerata
responsabile dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata ai sensi
dell’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 (e, in seguito, degli artt. 242 ss.
d.lgs. n. 152 del 2006) (1).
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(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la IV Sez. del
Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza plenaria la questione della
possibilità di considerare responsabile l’incorporante per l’inquinamento
ambientale posto in essere dall’incorporata ai sensi dell’art. 17 d.lgs. n.
22 del 1997, come poi sostituito, in sostanziale continuità normativa, dagli
artt. 242 ss. d.lgs. n. 152 del 2006.
II. – L’originaria ricorrente aveva impugnato una determinazione
dirigenziale del 2015
mediante la quale la stessa era stata diffidata a procedere alla bonifica
delle aree contaminate
da cromo esavalente e da solventi clorurati. Il Tar per il Piemonte
aveva, in primo grado,
respinto il ricorso. Il Consiglio di Stato respingeva, con sentenza non
definitiva, tutte le
censure dell’appellante ad eccezione di una in relazione alla quale, con
l’ordinanza in
commento, ne riteneva necessaria la devoluzione all’Adunanza plenaria.
In particolare, l’appellante rappresentava di non aver mai gestito
direttamente
l’impianto in questione, di non esserne mai stata proprietaria e che la
contaminazione era
imputabile ad altre società che avevano gestito l’impianto.
La società che
aveva gestito il
citato sito fino al 1986 si sarebbe poi estinta nel luglio del 1991, al
momento
dell’incorporazione nella società appellante.
L’appellante ritiene, quindi,
che: il d.lgs. n. 22
del 1997 (cd. decreto Ronchi), il cui art. 17 avrebbe per la prima volta
introdotto
nell’ordinamento l’obbligo di procedere a bonifica in capo al soggetto
responsabile di eventi
di contaminazione, non potrebbe essere applicato ad episodi di inquinamento
verificatisi
anteriormente alla propria vigenza; l’ordine di bonifica non potrebbe essere
a lei diretto in
quanto non avrebbe mai direttamente posto in essere alcuna condotta
inquinante; la società
incorporata dall’appellante non avrebbe trasferito alcuna situazione
soggettiva di obbligo
di fare sia perché la condotta di contaminazione non avrebbe avuto alcun disvalore
giuridico al momento in cui è stata commessa, sia perché la legislazione
vigente ratione
temporis non avrebbe conosciuto l’istituto.
Il collegio ha, quindi, osservato che:
a) secondo un orientamento della giurisprudenza
amministrativa:
a1) le disposizioni vigenti anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs.
n. 22 del 1997 contemplano divieti o doveri, ma non contengono specifici
obblighi di fare del genere di quelli prescritti dall’art. 17 del decreto
Ronchi, che introduce una misura ablatoria personale, la cui adozione crea
in capo al destinatario un obbligo di attivazione, consistente nel porre in
essere determinati atti e comportamenti unitariamente finalizzati al
recupero ambientale dei siti inquinanti;
a2) l’art. 17 del decreto Ronchi non ha carattere meramente procedimentale,
in quanto la disposizione non è destinata a regolare l’attuazione in via
amministrativa, al momento della scoperta dell’inquinamento, dell’obbligo di
risarcimento di cui all’art. 2058 c.c., ma ha carattere pienamente
sostanziale e non è riconducibile a mera species del genus
della responsabilità aquiliana;
a3) in base alla teoria della “continuità normativa”, infatti, ogniqualvolta
al
formale succedersi di previsioni legislative non corrisponda un’effettiva
eliminazione né una radicale modifica della normativa cronologicamente
anteriore, i precetti in questa contenuti, malgrado la legge sopravvenuta
e l’immutazione del veicolo normativo, continuano a sopravvivere
nell’ordinamento giuridico, anche se trasfusi in altri contenenti
legislativi.
In particolare, si ha continuità normativa tra due prescrizioni normative
se la disposizione temporalmente posteriore è diretta alla tutela di beni
giuridici identici rispetto alla precedente;
a4) nel caso di specie, l’applicazione della teoria in esame consente di
riconoscere come esistenti nel patrimonio del dante causa, effetti giuridici
precisati da leggi successive da reputarsi in continuità normativa con le
prescrizioni vigenti prima dell’estinzione del dante causa;
a5) secondo questa ricostruzione, tuttavia, l’art. 2043 c.c. e le altre
ipotesi di
responsabilità speciale previste nel Codice civile non possono ritenersi in
continuità normativa con l’art. 17 in quanto: a differenza dell’art. 2043
c.c.,
l’art. 17 postula sempre l’intermediazione di un procedimento e di un
provvedimento amministrativo; gli artt. 2043 ss. c.c. determinano la
costituzione di un’obbligazione risarcitoria pecuniaria, salvo che sia
accolta una richiesta di risarcimento in forma specifica, mentre l’art. 17 è
costitutivo di un primario obbligo di fare del responsabile
dell’inquinamento e di un sussidiario ed eventuale obbligo di intervento
pubblicistico del Comune e, in via di ulteriore subordine, di un obbligo
di intervento della Regione; l’art. 2043 c.c. richiede la prova del danno
ambientale, mentre per l’art. 17 è sufficiente il mero pericolo di
inquinamento o, nel caso di contaminazione, il superamento dei limiti di
accettabilità stabiliti dal d.m. n. 471 del 1999; diverso è il criterio di
imputazione soggettiva della responsabilità, che nel decreto Ronchi è
sempre oggettivo; diversi sono i legittimati passivi (nel 2043 c.c. il
danneggiante e i suoi successori a titolo universale, mentre nell’art. 17
l’autore diretto dell’inquinamento, in disparte il parallelo onere di
attivazione del proprietario del terreno inquinato ove questi intenda
scongiurare il pregiudizio al regime giuridico del bene immobile
conseguente all’adozione di ordinanze di bonifica); solo l’art. 17
determina all’adozione delle ordinanze la costituzione di un onere reale
sul fondo e la previsione di cause di prelazione, sotto forma di un
privilegio speciale immobiliare e di un privilegio generale mobiliare, del
credito per le spese di bonifica e di messa in sicurezza; l’art. 2043 c.c.
si
pone in rapporto di specialità con l’art. 18 della l. n. 349 del 1986,
mentre
le misure di cui all’art. 17 concorrono con il danno ambientale; di regola
le controversie relative alle due fattispecie sono sottoposte a differenti
giurisdizioni;
a6) da tali differenze, la giurisprudenza ha tratto il principio secondo cui
“un’eventuale applicazione dell'art. 17 ad un soggetto estinto prima del
1997
trasmoderebbe in una non consentita applicazione retroattiva della legge",
giacché "nell'ipotesi in esame non è ravvisabile una remota partecipazione
causale del successore a titolo universale all'eziogenesi dell'evento”. Non
sarebbe nemmeno praticabile l’opzione ermeneutica della trasmissione iure successionis dell’obbligo di provvedere, ostandovi la discontinuità
normativa che separa l’art. 17 dalle norme codicistiche in tema di
responsabilità extracontrattuale;
b) pur condividendosi le argomentazioni della giurisprudenza in ordine alle
differenze ontologiche fra l’art. 17 del decreto Ronchi e gli artt. 2043 ss.
c.c.,
tuttavia, può dubitarsi del fatto che una società che abbia incorporato
un'altra
società (direttamente o tramite incorporazioni intermedie) nel regime
anteriore
alla modifica del diritto societario non possa essere considerata essa
stessa, ai
sensi e per gli effetti dell'applicazione dell'art. 17 del decreto Ronchi
(e, in
seguito, degli artt. 242 e ss. del d.lgs. n. 152 del 2006), soggetto
direttamente
responsabile dell’inquinamento;
b1) la fusione è disciplinata nelle sue conseguenze dall’art. 2504-bis ss. c.c., ai
sensi del quale, nella formulazione in vigore a decorrere dal 2005, la
società che risulta dalla fusione o quella incorporante assume i diritti e
gli
obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i
loro
rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione;
b2) per le fusioni antecedenti all’introduzione della citata disposizione,
la
giurisprudenza riteneva che la fusione per incorporazione determinasse
l’estinzione della società incorporata e il trasferimento dei relativi
diritti
e obblighi in capo all’incorporante, in esito a una vicenda assimilabile a
una successione in universum jus;
b3) nel vigore dell’attuale testo la giurisprudenza qualifica la fusione
come
una vicenda evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico che,
pur in presenza di un nuovo assetto organizzativo, conserva la propria
identità. Tale ricostruzione del fenomeno non sarebbe applicabile alle
fusioni anteriori all’entrata in vigore della nuova disciplina che avrebbe
carattere innovativo e non interpretativo;
b4) in termini generali la commissione di una condotta contra jus
cristallizza,
in capo all’autore, una correlativa responsabilità giuridica. Nel caso di
specie, quindi, la responsabilità per la compromissione ambientale è
divenuta parte del complessivo patrimonio giuridico della società che ha
causato la contaminazione. “Ciò posto, il Collegio si interroga se tale
responsabilità giuridica per condotte già allora pienamente contra jus,
quale
componente giuridicamente qualificata del complessivo patrimonio della
società
incorporata, ovvero in diversa prospettiva quale effetto giuridico già
interamente
prodottosi, non possa essere anch'essa traslata nel patrimonio della società
incorporante, in virtù della portata generale del fenomeno della successione
a
titolo universale”;
b5) l’art. 17 del decreto Ronchi non ha natura penalistica né afflittiva, ma
mira
a ripristinare il bene ambiente leso, mediante l’imposizione autoritativa e
unilaterale da parte dell’amministrazione di un obbligo di facere in capo
al responsabile al fine di ovviare a un danno ancora attuale;
b6) l’art. 17: si affianca alle ordinarie forme di tutela civile, artt.
2043, 2050 e
2058 c.c., previste in favore dei privati lesi dalla condotta di
inquinamento; plasma un istituto a tutela dell’interesse pubblico alla
preservazione del bene ambiente, attribuendo agli enti esponenziali della
collettività locale la potestà di ordinare al responsabile l’adozione di
condotte tese alla bonifica dell’area. L’ordinamento ha quindi creato, per
tutelare il bene ambiente, uno strumento pubblicistico teso a consentire il
recupero materiale del valore ambiente a cura e spese del responsabile
della contaminazione. La misura, pur differenziandosi dall’art. 2058 c.c.,
sembra svolgere una funzione ripristinatoria-reintegratoria che ne
impedisce l’ascrizione all’ambito del diritto punitivo, che non è
finalizzato a recuperare il bene leso, ma a depauperare la sfera giuridica
del soggetto autore di una condotta contra jus;
c) in conclusione:
c1) l’istituto disciplinato dall’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 può
trovare
applicazione anche a fenomeni di inquinamento verificatisi prima della
sua entrata in vigore, alla sola condizione che l’evento compromissione
dell’ambiente sia ancora attuale;
c2) il carattere universale della successione in universum jus potrebbe
determinare la responsabilità dell’incorporante se si muovesse dalla
considerazione che, al momento dell’incorporazione, nel patrimonio
della incorporata era già presente la responsabilità per la commissione di
un atto già allora oggettivamente contra jus;
c3) “l'antecedente condotta di inquinamento posta in essere
dall'incorporata, in
quanto già allora anti-giuridica, ha generato in capo ad essa, secondo il
criterio
norma-fatto-effetto, una responsabilità che, a seguito dell'incorporazione,
non
potendo andare dispersa (il principio della conservazione dei valori
giuridici è
immanente nell'ordinamento - cfr. art. 1367 c.c.), non può che essere
confluita,
come posta passiva, nel patrimonio dell'incorporante. In tale ottica,
peraltro, non
si ravviserebbe alcuna applicazione retroattiva dell'art. 17, posto che una
conclusione siffatta si limiterebbe a riconnettere ad un danno ancora
attuale le
conseguenze che il vigente diritto contempla: di tale conseguenze non
potrebbe
che rispondere la società succeduta a titolo universale al soggetto che ebbe
a
causare quel danno”.
III. – Per completezza si segnala quanto segue:
d) con sentenza non definitiva 07.05.2019, n. 2926, la medesima sezione
ha
respinto le altre censure formulate dall’appellante, precisandosi
nell’ordinanza
in rassegna che l’eventuale adesione dell’Adunanza plenaria alla tesi della
responsabilità della società incorporante condurrebbe al definitivo rigetto
dell’appello, mentre l’adesione alla tesi contraria comporterebbe
l’accoglimento
del ricorso in appello e l’annullamento del provvedimento impugnato in primo
grado;
e) nel senso della mancanza di responsabilità della incorporante per fatti
attribuibili all’incorporata si veda Cons. Stato, sez. V, 05.12.2008,
n. 6055
nitidamente analizzata nella sentenza in rassegna (in Dir. e giur. agr. e
ambiente,
2009, 279, con nota di ROMANELLI; Riv. giur. ambiente, 2009, 365, con nota
di
DE CESARIS), secondo cui, tra l’altro:
- “L'art. 17 d.leg. n. 22/1997 presenta,
rispetto
al plesso normativo composto dagli art. 2043, 2050 e 2058, differenze
talmente
numerose e tanto profonde da non consentire la formulazione di alcun
giudizio di
continuità tra le stesse; ne discende che l'applicazione dell'art. 17 ad un
soggetto estinto
prima del 1997 si risolve in una non consentita applicazione retroattiva
della legge”;
-
“La peculiarità dell'istituto disciplinato dall'art. 17, che non trova
antecedenti diretti
nella previgente disciplina, risiede nella sua natura di misura ablatoria
personale,
consentita in apicibus dall'art. 23 cost., la cui adozione crea in capo al
destinatario un
obbligo di attivazione, consistente nel porre in essere determinati atti e
comportamenti
unitariamente finalizzati al recupero ambientale dei siti inquinati”;
- “Nei
confronti dei
successori di società responsabili degli inquinamenti, estintesi prima del
1997, non è
possibile applicare l'art. 17 d.leg. n. 22/1997; è però possibile far valere
l'ordinaria
responsabilità civilistica di tipo aquiliano e, sul versante amministrativo,
rimangono
comunque adottabili, in base alle regole della c.d. «successione economica»,
i
provvedimenti contingibili e urgenti, ove ne ricorrano i presupposti
stabiliti
dall'ordinamento”;
- “In sede amministrativa il contraddittorio procedimentale
sugli
accertamenti tecnici può svolgersi secondo regole diverse da quelle di cui
all'art. 223
disp. att. c.p.p. e la regola del preventivo avviso, pur configurandosi come
una forte
tutela, non è sempre imposta dall'ordinamento né deve essere necessariamente
osservata, potendo ugualmente assicurarsi una piena dialettica tra
l'amministrazione e
gli interessati seguendo altri schemi procedurali, come quelli previsti
nell'all. 2 d.m.
ambiente 25.10.1999 n. 471 sul prelievo e l'analisi dei campioni”;
f) per un’applicazione della successione fra imprese in materia di
concorrenza si
veda Corte di giustizia CE, 11.12.2007, C-280/06, Autorità garante
concorrenza e mercato c. Ente tabacchi it. (in Foro amm.-Cons. Stato, 2007,
3305, in
Giurisdiz. amm., 2007, III, 1228, in Giust. civ., 2008, I, 549, in Guida al
dir., 2008,
fasc. 1, 92, con nota di DE PASQUALE, e in Rass. avv. Stato, 2008, fasc. 1,
114,
con nota di CHIECO), secondo cui, tra l’altro: “Qualora una condotta
costitutiva
di una stessa infrazione alle regole della concorrenza (art. 81 seg. Ce) sia
stata posta in
essere da una determinata impresa e successivamente proseguita da un altro
ente che ad
essa è succeduto, tale secondo ente può essere sanzionato per l'infrazione
nella sua
interezza, qualora si dimostri che entrambi gli enti sono posti sotto la
tutela della stessa
autorità pubblica; ciò vale anche nel caso in cui il primo ente non abbia
cessato di
esistere”;
g) nel senso che la normativa introdotta dall’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997
si applichi
a qualunque situazione di inquinamento dei suoli in atto al momento
dell’entrata in vigore del decreto legislativo stesso è orientato, Cons.
Stato, sez.
VI, 09.10.2007, n. 5283 (in Ambiente, 2008, 749, con nota di RINALDI);
h) con riferimento al rapporto tra incorporante e incorporata nella
giurisprudenza
di legittimità, si vedano:
h1) per le fusioni anteriori all’introduzione nel Codice civile dell’art.
2504-bis
c.c.:
- Cass. civ., sez. un., 28.12.2007, n. 27183 (in Foro it., 2008,
I, 2920,
con nota di DESIATO; Corriere giur., 2008, 1413, con nota di GODIO),
secondo cui, tra l’altro:
- “La fusione di società mediante incorporazione,
avvenuta prima della riforma del diritto societario di cui al d.leg. 6/2003 e
dell'introduzione dell'art. 2504-bis c.c., realizza una situazione giuridica
corrispondente a quella della successione universale e produce gli effetti,
tra loro
indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale
sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi
facenti capo a
questa, della società incorporante, la quale assume la medesima posizione
processuale della società estinta, con tutte le limitazioni e i divieti ad
essa
inerenti; ne consegue che la stessa non può proporre domande nuove per
l'attribuzione di diritti autonomi e indipendenti dal diritto successorio,
mentre
può far valere i diritti azionati dal dante causa, anche prima della
successione,
ma acquisibili soltanto nel corso del tempo (quali il risarcimento dei danni
derivanti da illecito permanente iniziato prima della fusione, i cui effetti
dannosi
si siano però protratti anche successivamente)”,
- “La fusione di società
mediante
incorporazione avvenuta prima della riforma del diritto societario di cui al
d.leg.
n. 6 del 2003 ed all'introduzione dell'art. 2504-bis c.c., realizza una
situazione
giuridica corrispondente a quella della successione universale e produce gli
effetti, tra loro indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e
della
contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e
passivi
facenti capo a questa, della società incorporante, per cui quest'ultima, al
pari di
qualsiasi successore universale, assume la stessa posizione processuale
dell'attore, con tutte le limitazioni ed i divieti ad essa inerenti; ne
consegue che
la stessa non può proporre domande nuove per l'attribuzione di diritti
autonomi
ed indipendenti dal diritto successorio, mentre le si debbono riconoscere i
diritti
fatti valere dal dante causa, anche quelli azionati prima della successione,
ma
acquisibili solo nel corso del tempo; spetta quindi alla società
incorporante il
risarcimento dei danni derivanti da illecito permanente (nella specie
illecita
captazione di acque pubbliche), iniziato prima della fusione i cui effetti
dannosi
si siano però protratti anche successivamente”;
- Cass. civ., sez. I, 16.02.2007, n. 3695 (in Giust. civ., 2008, I, 2261), secondo cui “La fusione per
incorporazione di società realizza una successione a titolo universale
corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro
interdipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della
contestuale
sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e
passivi, anche
processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di
imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i
soggetti
incorporati, mentre non si verifica alcun mutamento nella titolarità dei
preesistenti rapporti giuridici della incorporante, anche se successivamente
alla
fusione essa abbia mutato la propria denominazione (ciò costituendo mera
modifica dell'atto costitutivo, che non determina l'estinzione dell'ente e
la
nascita di un nuovo e diverso soggetto giuridico); ne consegue la
persistente
validità della procura generale ad lites rilasciata dalla società
incorporante a un
determinato avvocato e l'ammissibilità dell'appello da lui proposto, in
forza di
quella procura, in nome della società incorporante (sia pure con la nuova
denominazione) già presente nel giudizio di primo grado”;
- Cass. civ., sez.
I, 22.06.1999, n. 6298 (in Foro it., 2000, I, 379), secondo cui “La fusione
della
società mediante incorporazione determina automaticamente l'estinzione della
società assoggettata a fusione ed il subingresso della società incorporante
nei
rapporti ad essa relativi, crea una situazione giuridica corrispondente a
quella
della successione universale mortis causa, che, agli effetti processuali,
trova la
propria disciplina nell'art. 300 c.p.c., e provoca l'interruzione del
processo ove il
procuratore della società incorporata abbia fatto la prescritta
comunicazione
dell'evento realizzatosi nel corso del giudizio, dalla quale decorre il
termine
semestrale per la riassunzione del processo; tale principio deve ritenersi
tuttora
in vigore pur a seguito delle sentenze della corte costituzionale n. 139 del
1967 e
159 del 1971, concernenti, come ribadito dalla stessa corte con le
successive
pronunce n. 136 del 1992 e n. 18 del 1999, esclusivamente le ipotesi di
morte,
radiazione o sospensione dall'albo del procuratore (sent. n. 139 del 1967),
e di
morte della parte, ovvero di perdita di capacità della stessa verificatasi
prima della
costituzione in giudizio (sent. n. 159 del 1971), le ipotesi, cioè, in cui
l'interruzione del processo interviene automaticamente all'atto della
realizzazione dell'evento impeditivo e non, invece, le ipotesi di morte, o
perdita
della capacità di una delle parti verificatasi dopo che quest'ultima si sia
costituita
in giudizio, in cui l'interruzione non è automatica, ma interviene solo se
il
procuratore abbia comunicato l'evento, senza che un siffatto sistema
differenziato
si ponga in contrasto con gli art. 3 e 24 cost.”;
h2) per le fusioni successive all’entrate in vigore dell’art. 2504-bis c.c.,
da
intendersi come disposizione che ha dato ingresso ad una vicenda
evolutivo-modificativa dello stesso rapporto giuridico, si veda: Cass. civ.,
sez. VI, 16.05.2017, n. 12119, secondo cui “In tema di fusione per
incorporazione, l'art. 2504-bis c.c., nel testo modificato dal d.leg. n. 6
del 2003,
nel prevedere la prosecuzione dei rapporti giuridici, anche processuali, in
capo al
soggetto unificato quale centro unitario di imputazione di tutti i rapporti
preesistenti, risolve la fusione in una vicenda evolutivo-modificativa dello
stesso
soggetto giuridico, che, pur in presenza di un nuovo assetto organizzativo,
conserva la propria identità (nella specie, la suprema corte ha cassato la
sentenza
della commissione tributaria regionale, che aveva accolto il ricorso avverso
il
diniego di rateizzazione avanzato da una società incorporante un'altra
società,
già in precedenza decaduta dal detto beneficio)”;
h3) nel senso che l’art. 2504-bis c.c. abbia carattere innovativo e non
interpretativo Cass. civ., sez. I, 26.01.2016, n. 1376 (in Corriere giur.,
2017, 1363, con nota di FANCIARESI), secondo cui, tra l’altro, “In tema di
fusione, l'art. 2504-bis c.c., introdotto dalla riforma del diritto
societario (d.leg.
n. 6 del 2003), ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il
principio,
da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda
meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che
conserva la
propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le
fusioni
(per unione od incorporazione) anteriori all'entrata in vigore della nuova
disciplina (01.01.2004), le quali, pur dando luogo ad un fenomeno
successorio, si diversificano, tuttavia, dalla successione mortis causa
perché la
modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla
volontà delle società partecipanti, sicché quella che viene meno non è
pregiudicata
dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza,
né
alcun pregiudizio subisce la incorporante (o la società risultante dalla
fusione),
che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole,
neppure
applicandosi, a dette fusioni, la disciplina dell'interruzione di cui agli
art. 299 e
seg. c.p.c.”;
h4) sulle conseguenze processuali si vedano anche:
- Cass. civ., sez. un., 17.09.2010, n. 19698 (in Corriere giur., 2010, 1565, con nota di
MELONCELLI, in Foro it., 2011, I, 472, con nota di DALFINO, in Mondo
bancario, 2011, fasc. 1, 53), secondo cui “L'art. 2504-bis c.c., nel testo
introdotto dall'art. 6 d.leg. 17.01.2003 n. 6, secondo cui la fusione
di società
non determina l'estinzione della società fusa, non è una norma di
interpretazione
autentica e non ha, quindi, efficacia retroattiva” e “nella modificazione
dell’organizzazione societaria, invece, il fenomeno è riconducibile alla
volontà del
soggetto e pertanto non sussiste l’esigenza garantistica che giustifica il
verificarsi
dell’effetto interruttivo e del conseguente onere di riassunzione dell’altra
parte.
La società che ‘viene meno’ a seguito della volontaria fusione non è
pregiudicata
dalla continuazione di un processo di cui era perfettamente a conoscenza,
così
come nessun pregiudizio subisce la società incorporante o risultante dalla
fusione, la quale può intervenire nel processo e, comunque, ha il potere di
impugnare la decisione sfavorevole”;
- Cass. civ., sez. un., 14.09.2010,
n. 19509 (in Guida al dir., 2010, fasc. 40, 46, con nota di PIRRUCCIO; Foro
it., 2011, I, 472, con nota di DALFINO; Giur. it., 2011, 1073 (m), con nota
di BERTOLOTTI, e in Giur. comm., 2011, II, 888, con nota di ZORZI),
secondo cui:
- “L'impugnazione notificata presso il procuratore costituito di
una
società che, successivamente alla chiusura della discussione (o alla
scadenza del
termine di deposito delle memorie di replica), si sia estinta per
incorporazione,
deve ritenersi valida se l'impugnante non abbia avuto notizia dell'evento
modificatore della capacità della persona giuridica, mediante notificazione
di esso
(fattispecie anteriore alla modifica dell'art. 2504-bis c.c. ad opera del d.leg. 17.01.2003 n. 6)”;
- “In tema di fusione per incorporazione, realizzata
prima
dell'entrata in vigore del novellato art. 2504-bis c.c., l'impugnazione è
validamente notificata al procuratore costituito di una società che,
successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine
di
deposito delle memorie di replica) si sia estinta per incorporazione, se
l'impugnante non abbia avuto notizia dell'evento modificatore della capacità
della giuridica mediante la notificazione di esso”;
- “Ai fini
dell'applicazione della
disciplina processuale della notificazione degli atti e dell'interruzione ex
art. 300
c.p.c., la modificazione dell'organizzazione societaria costituisce fenomeno
riconducibile alla volontà del soggetto e pertanto non sussiste l'esigenza
garantistica che giustifica il verificarsi dell'effetto interruttivo e del
conseguente
onere di riassunzione dell'altra parte; la società che «viene meno» a
seguito della
volontaria fusione non è pregiudicata dalla continuazione di un processo di
cui
era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la
società
incorporante o risultante dalla fusione, la quale può intervenire nel
processo e,
comunque, ha il potere di impugnare la decisione sfavorevole”;
h5) sottolinea DALFINO, nota a Cass. civ., sez. un., 17.09.2010, n.
19698 (cit.), che la tesi della natura innovativa della modifica dell’art.
2504-bis, 1° comma, c.c. non è condivisibile, “infatti, già nella vigenza
dell’art.
2504-bis c.c. testo previgente, appariva ragionevole sostenere l’inidoneità
estintiva della fusione societaria e la sua configurabilità, piuttosto,
quale operazione modificativo-evolutiva volta al potenziamento dei soggetti
coinvolti.
A tal proposito, non sembrava decisivo il riferimento letterale alle
«società
estinte», a fronte della reale portata del fenomeno sul piano sostanziale;
sicché,
oggi la norma —che utilizza la diversa formula «società partecipanti alla
fusione», stabilendo che queste proseguono «in tutti i loro rapporti, anche
processuali, anteriori alla fusione»— non fa che confermare quanto era già
possibile dedurre prima del d.leg. 6/2003”.
Con particolare riferimento
all’interruzione, osserva l’A., che, anche prima dell’introduzione dell’art.
2504-bis c.c., la fusione societaria costituiva un atto volontario, come
tale
non riconducibile alla ratio degli artt. 299 ss. c.p.c.;
i) sulla disciplina europea della fusione di società per azioni ai fini
della tutela dei
soci e dei terzi, si veda Corte di giustizia UE, sez. V, 05.03.2015,
C-343/13,
Modelo Continente Hipermercados S A (in Foro it., 2015, IV, 191):
i1) secondo la Corte “L'art. 19, par. 1, terza direttiva 78/855/Cee del
consiglio, del 09.10.1978, basata sull'art. 54, par. 3, lett. g), del trattato e
relativa alle
fusioni delle società per azioni, come modificata dalla direttiva
2009/109/Ce del
parlamento europeo e del consiglio del 16.09.2009, va interpretato
nel
senso che una «fusione mediante incorporazione», ai sensi dell'art. 3, par.
1, di
detta direttiva, comporta la trasmissione, alla società incorporante,
dell'obbligo
di pagare l'ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale
fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società
incorporata
precedentemente alla fusione stessa”;
i2) la Corte aderisce ad un’interpretazione evolutiva dell’art. 19 della
terza
direttiva 78/855/Cee del consiglio del 09.10.1978, come
successivamente modificata, il quale, se alla lett. a) prescrive che il
trasferimento universale, tanto tra la società incorporata e la società
incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell’intero patrimonio attivo
e passivo della società incorporata alla società incorporante, alla
successiva lett. c) stabilisce che la società incorporata si estingue. La
Corte
ritiene che l’estinzione si porrebbe in contraddizione con la natura stessa
della fusione per incorporazione, la quale consiste nel trasferimento
dell’intero patrimonio della società incorporata alla società incorporante
tramite uno scioglimento senza liquidazione;
i3) il principio espresso nella massima, pertanto, è diretto a garantire la
tutela degli interessi dei soci e dei terzi all’atto della fusione per
incorporazione, dovendosi annoverare fra i terzi anche coloro i quali siano
destinati ad essere qualificati come creditori in data successiva rispetto
alla fusione, ma in base a situazioni sorte in data antecedente;
i4) il principio appare
destinato a rimanere fermo anche a seguito dell’abrogazione della direttiva
78/855, a far data dal 01.07.2011, ad opera della direttiva 2011/35/Ue del
parlamento europeo e del consiglio, del 05.04.2011, relativa alle fusioni
delle società per azioni;
j) sulle modificazioni soggettive delle società (anche ad esito di
fallimento) responsabili di danni ambientali ovvero proprietarie di terreni
e sul regime generale della responsabilità ambientale anche con riferimento
alla successione ereditaria, si vedano:
j1) Cons. Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672 (in Fallimento, 2018, 586, con
nota di D'ORAZIO, in Foro amm., 2017, 1541, e in Riv. giur. ambiente, 2017,
726 (m), con note di VANETTI, FISCHETTI), secondo cui, tra l’altro:
- “La
curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche
quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può avvantaggiarsi
dell'esimente interna di cui al 3° comma dell'art. 192, d.leg. n. 152/2006
(codice dell'ambiente), lasciando abbandonati i rifiuti risultanti
dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata; nella qualità di
detentore dei rifiuti la curatela fallimentare è obbligata a metterli in
sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero”;
- “In
base al diritto comunitario (art. 14, par. 1, dir. 2008/98/Ce), i costi della
gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori
del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti, e questa regola
costituisce un'applicazione del principio «chi inquina paga»; in definitiva,
la detenzione dei rifiuti fa sorgere automaticamente un'obbligazione
«comunitaria» avente un duplice contenuto: (a) il divieto di abbandonare i
rifiuti; (b) l'obbligo di smaltire gli stessi; aggiungasi che, se per
effetto di categorie giuridiche interne, questa obbligazione non fosse
eseguibile, l'effetto utile delle norme comunitarie sarebbe vanificato; solo
chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del
terreno su cui gli stessi siano collocati, può invocare l'esimente interna
dell'art. 192 3° comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152”;
j2) per una complessiva ricostruzione del sistema, Cass. civ., sez. I, 20.07.2016, n. 14935 (in Foro it., 2017, I, 1406, e in Danno e resp., 2017, 203,
con
nota di TINTINELLI), secondo cui:
- “Proposta dal ministero dell'ambiente e
da un'autorità portuale domanda di ammissione al passivo della procedura di
amministrazione straordinaria di una società ritenuta responsabile
dell'inquinamento di alcune aree, è erronea la decisione di non ammettere il
credito avente a oggetto il rimborso delle spese già erogate dagli istanti
per la
messa in sicurezza e il ripristino dei siti contaminati, ove il giudice di
merito si
sia basato sull'assenza di prova del nesso di causalità tra le attività
produttive
dell'impresa e l'inquinamento riscontrato, non tenendo conto della relazione
dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, né
disponendo
una consulenza tecnica d'ufficio”;
- “Ove una controversia volta al
risarcimento
del danno ambientale sia ancora pendente alla data di entrata in vigore
della l. 06.08.2013 n. 97, mentre è ormai esclusa la risarcibilità per equivalente,
il
giudice può ancora conoscere della domanda, individuando le misure di
riparazione primaria, complementare e compensativa ivi prescritte e, per il
caso
di loro omessa o incompleta esecuzione, determinandone il costo, da rendere
oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti”;
- “La liquidazione del
danno
ambientale per equivalente è ormai esclusa alla data di entrata in vigore
della l.
n. 97 del 2013, ma il giudice può ancora conoscere della domanda pendente
alla
data di entrata in vigore della menzionata legge in applicazione del nuovo
testo
dell'art. 311 d.leg. n. 152 del 2006 (come modificato prima dall'art. 5-bis,
1º
comma, lett. b), d.l. n. 135 del 2009 e poi dall'art. 25 l. n. 97 del 2013),
individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa
e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il
costo, da
rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati”.
Nel caso
di
specie, la società che gestiva un gruppo siderurgico era ritenuta tra i
corresponsabili dell’inquinamento prodotto da acciaierie di Piombino e
dalla ferriera di Servola a Trieste. La società veniva quindi ammessa alla
procedura di amministrazione straordinaria cui faceva seguito la
dichiarazione dello stato di insolvenza.
In relazione alle problematiche
ambientali, facevano valere in sede concorsuale alcune ragioni di credito
sia il Ministero dell’ambiente, sia l’autorità portuale di Trieste.
All’avvio
della procedura di amministrazione straordinaria, come pure nel
momento della richiesta di insinuazione al passivo, il testo che regola il
risarcimento del danno ambientale, art. 311 d.leg. n. 152 del 2006, era
quello risultante dalle modifiche apportate dall’art. 5-bis d.l. n. 135 del
2009, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 166 del 2009.
Con tale
intervento normativo era, in particolare, modificato il secondo comma
della disposizione dove l’alternativa tra ripristino della precedente
situazione e risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello
Stato veniva sostituita da un meccanismo più complesso. Si partiva, cioè,
dall’addossare al responsabile l’obbligo di ripristinare a proprie spese lo
status quo ante, per poi dichiararlo tenuto a adottare le misure di
riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva
2004/35/Ce; infine, soltanto quando gli anzidetti rimedi risultassero in
tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi
dell’art. 2058 c.c. o comunque attuati in modo incompleto o difforme
rispetto a quelli prescritti, il danneggiante sarebbe stato obbligato in via
sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale. In pendenza
dell’esame della domanda di ammissione al passivo, l’art. 311 subiva
un’ulteriore trasformazione, in virtù dell’art. 25 l. n. 97 del 2013.
Nella
rubrica veniva eliminato il riferimento al risarcimento per equivalente
patrimoniale; a sua volta, il secondo comma era totalmente riscritto,
conferendo rilievo primario alle misure di riparazione primaria,
complementare e compensativa e, quindi, attribuendo al ministero
dell’ambiente, in caso di fallimento delle stesse, il compito di determinare
i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta
attuazione e di agire nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il
pagamento delle somme corrispondenti.
Nel rendere esecutivo lo stato
passivo, il giudicante disattendeva le istanze del ministero con
riferimento al danno ambientale. La successiva opposizione ai sensi
dell’art. 98 della legge fallimentare era respinta in quanto: non risultava
dimostrato che il comportamento dell’impresa poi assoggettata ad
amministrazione straordinaria spiegasse un’effettiva incidenza causale
sul degrado dei siti; con riferimento ai costi degli interventi da
effettuare
in vista del ripristino delle aree, riconoscere i corrispondenti crediti
avrebbe di fatto comportato un risarcimento per equivalente monetario,
non più consentito dalla più recente versione dell’art. 311, ritenuta
applicabile ai giudizi pendenti e non ancora definiti da sentenza passata
in giudicato; l’autorità portuale era in ogni caso carente di legittimazione
attiva rispetto al risarcimento del danno ambientale.
La Corte di
Cassazione, contrariamente, affermava che: rispetto al nesso eziologico,
l’indagine avrebbe dovuto fare i conti con quanto emergeva dalla
relazione tecnica predisposta dall’Istituto superiore per la protezione e la
ricerca ambientale e poteva essere, se del caso, arricchita mediante una
consulenza tecnica d’ufficio; per quel che concerne la legittimazione
attiva, l’art. 311 attribuisce in via esclusiva al ministero dell’ambiente
la
legittimazione a esperire l’azione risarcitoria in materia di danno
all’ambiente, ma, nel caso di specie, si era formato il giudicato
endofallimentare in ordine alla legittimazione dell’Autorità portuale di
Trieste, dal momento che la stessa era stata ammessa al passivo dal
giudice delegato, senza che la relativa statuizione fosse impugnata dal
commissario straordinario.
La Corte invece concorda con il giudice di
merito in ordine all’esclusione del risarcimento per equivalente
pecuniario. I giudici della legittimità si riportano ai precedenti che hanno
sancito l’applicabilità, ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore
della l. n. 97 del 2013, del novellato art. 311 d.leg. n. 152 del 2006;
anche
rispetto alle domande risarcitorie proposte in epoca anteriore, l’unica
condanna pecuniaria del danneggiante potrà riguardare soltanto il costo,
determinato dal giudice, delle misure di riparazione non eseguite;
j3) Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765 (in Foro it., 2017, III,
513; Nuovo
dir. amm., 2016, fasc. 4, 23, con nota di BUZZANCA; Riv. giur. ambiente,
2016, 303 (m), con nota di MASCHIETTO VANETTI), secondo cui: “È
legittima l'ordinanza comunale contenente l'obbligo di rimozione dei rifiuti
e di
bonifica rivolto al proprietario del terreno nella sua qualità di erede del
responsabile dell'inquinamento in quanto l'obbligo ripristinatorio, avendo
natura patrimoniale, è trasmissibile agli eredi”; “Fermo che gli obblighi
ripristinatori, avendo natura patrimoniale, sono trasmissibili agli eredi
dell'originario destinatario dell'ordinanza sindacale ex art. 14 d.leg. 05.02.1997 n. 22, gli obblighi di bonifica ambientale sorgono in capo non soltanto
al
proprietario dell'area inquinata, e al locatore del medesimo, ma anche di
chiunque
si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli - e per ciò stesso imporgli - di esercitare una funzione di
protezione
e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente (nella
specie
è stata riformata la sentenza di prime cure che escludeva la responsabilità
degli
eredi per essere stato accertato che anche questi né avevano impedito lo
sversamento dei rifiuti sui propri suoli, né avevano provveduto alla
rimozione
degli stessi, omettendo di impedire che l'attività di devastazione delle
aree oggetto
dell'ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni)”;
j4) con specifico riferimento alla bonifica di siti inquinati: Cons. Stato,
sez. V,
14.04.2016, n. 1509, secondo cui, una volta riscontrato un fenomeno di
potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione,
messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino
ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione
solamente ai soggetti responsabili dell’inquinamento, e cioè ai soggetti
che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un
proprio comportamento commissivo od omissivo, legato
all’inquinamento da un preciso nesso di causalità; ciò impone un rigoroso
accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento,
nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile
all’effetto consistente nella contaminazione, accertamento che
presuppone un’adeguata istruttoria, non essendo configurabile una sorta
di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore
dell’immobile in ragione di tale sola qualità; è stato d’altra parte
puntualizzato che, se è vero, per un verso, che l’amministrazione non può
imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta
sull’origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di
recupero e di risanamento —secondo il principio cui si ispira anche la
normativa comunitaria, la quale impone al soggetto che fa correre un
rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della
riparazione—, per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce
una misura di correzione dei danni e rientra pertanto nel genus delle
precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al
principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore
del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente e, non avendo
finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l’individuazione dell’eventuale responsabile; Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2016, n. 1301 (in Riv. giur. ambiente, 2016, 298 (m), con nota di
MASCHIETTO, e in Foro amm., 2016, 812), secondo cui l’art. 192 d.leg. 03.04.2006, n. 152, esige che il sindaco dia formale comunicazione di
avvio del procedimento al soggetto destinatario di un’ordinanza di
rimozione rifiuti (e bonifica) e consenta l’instaurazione del
contraddittorio sugli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al
controllo, l’ordinanza emessa in difetto delle predette garanzie
procedimentali è illegittima; Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3544
(in Ragiusan, 2016, fasc. 385, 114), secondo cui il proprietario di un’area
inquinata, non responsabile dell’inquinamento, non è tenuto agli oneri di
bonifica per come imposti dalla pubblica amministrazione, non potendo
determinarsi in capo alla società appellante la responsabilità
dell’inquinamento del sito (risalente a molti decenni addietro e
imputabile eziologicamente all’attività inquinante di altri soggetti
giuridici), la stessa società non è tenuta ad eseguire la caratterizzazione
dell’area, secondo le prescrizioni impostele dall’amministrazione all’esito
della conferenza decisoria);
j5) Cons. Stato, sez. II, 18.05.2015, n. 933 (in Foro amm., 2015, 1454);
j6) Cons. Stato, Ad. plen., 13.11.2013, n. 25, e 25.09.2013, n. 21 (in
Giurisdiz. amm., 2013, ant., 53, in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 2296, in
Giornale dir. amm., 2014, 365 (m), con nota di SABATO, in Riv. giur.
edilizia, 2013, I, 835, in Riv. amm., 2013, 715, e in Ragiusan, 2014, fasc.
361, 131), secondo cui “Si rimette all'esame della corte di giustizia Ue
la questione pregiudiziale di corretta interpretazione relativa al se i
principi dell'Ue in materia ambientale sanciti dall'art. 191 par. 2 Tfuee
dalla dir. Ce 21.04.2004 n. 35 (art. 1 e 8 n. 3, tredicesimo e
ventiquattresimo considerando) -in particolare, il principio «chi inquina
paga», il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il
principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni
causati all'ambiente- ostino a una normativa nazionale, quale quella
delineata dagli art. 244, 245 e 253 d.leg. 03.04.2006 n. 152, che, in caso
di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il
soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da
quest'ultimo gli interventi di riparazione, non consente all'autorità
amministrativa di imporre l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza
e di bonifica al proprietario non responsabile dell'inquinamento,
prevedendo, a carico di quest'ultimo, soltanto una responsabilità
patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi
di bonifica” (per la risposta della Corte di giustizia infra § k2);
j7) Cons. Stato, sez. II, 20.05.2013, n. 263, che -richiesto dal Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, direzione generale
per la tutela del territorio e delle risorse idriche, di esprimere il
proprio
parere sul ricorso straordinario al presidente della repubblica proposto
per l’annullamento del provvedimento del comune di Bagnolo di Po di
rigetto dell’istanza presentata per la revoca parziale e per l’annullamento
dell’ordinanza comunale n. 13 del 05.10.2006 con cui è esteso alla
ricorrente, in luogo del fratello defunto, l’obbligo di ripristino dello
stato
dei luoghi e di rimozione, recupero e smaltimento dei materiali depositati
abusivamente in un’area del citato comune, circa la trasmissibilità
dell’obbligazione- ha espresso l’avviso che «risulta evidente a questa
sezione
che, accettando l’eredità, la ricorrente è subentrata nel patrimonio del
dante
causa, gravato di una passività rappresentata dall’obbligazione di risanare
l’area
trasformata illecitamente in discarica di rifiuti»;
k) nella giurisprudenza europea con riferimento alla responsabilità
ambientale del successore si vedano:
k1) Corte di giustizia UE, 13.07.2017, C-129/16, Túrkevei Tejtermelo Kft
(in
Foro it., 2017, IV, 496, in Urbanistica e appalti, 2017, 815, con nota di
CARRERA; Riv. giur. ambiente, 2017, 489 (m), con nota di MASCHIETTO,;
Riv. giur. edilizia, 2017, I, 1235 (m), con nota di PAGLIAROLI, nonché
oggetto della News US in data 20.07.2017), secondo cui:
- “Le disposizioni
della direttiva 2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del
danno ambientale, lette alla luce degli art. 191 e 193 Tfue devono essere
interpretate nel senso che, sempre che la controversia di cui al
procedimento
principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35,
circostanza
che spetta al giudice del rinvio verificare, esse non ostano a una normativa
nazionale che identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato
generato
l'inquinamento illecito, un'altra categoria di persone solidalmente
responsabili
di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che
occorra
accertare l'esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei
proprietari e il
danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme ai principî
generali di diritto dell'Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei
trattati
Ue e Fue e degli atti di diritto derivato dell'Unione”;
- “L'art. 16 direttiva
2004/35/Ce e l'art. 193 Tfue devono essere interpretati nel senso che,
sempre che
la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di
applicazione
della direttiva 2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come
quella
controversa nel procedimento principale, ai sensi della quale non solo i
proprietari
di fondi sui quali è stato generato un inquinamento illecito rispondono in
solido,
con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno ambientale, ma nei loro
confronti
può anche essere inflitta un'ammenda dall'autorità nazionale competente,
purché una normativa siffatta sia idonea a contribuire alla realizzazione
dell'obiettivo di protezione rafforzata e le modalità di determinazione
dell'ammenda non eccedano la misura necessaria per raggiungere tale
obiettivo,
circostanza che spetta al giudice nazionale verificare”;
k2) Corte di giustizia UE, 04.03.2015, C-534/13, Min. ambiente c. Soc. Fipa
Group (in Foro it., 2015, IV, 293; Urbanistica e appalti, 2015, 635, con
nota di
CARRERA, in Riv. giur. ambiente, 2015, 33 (m), con note di MASCHIETTO,
POZZO, GAVAGNIN, in Rass. forense, 2015, 138, in Giur. it., 2015, 1480
(m), con note di VIPIANA PERPETUA, VIVANI, in Riv. quadrim. dir.
ambiente, 2015, fasc. 1, 186, con nota di GRASSI, in Riv. giur. edilizia,
2015,
I, 137, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2015, 946, con nota di
ANTONIOLI,
in Nuovo notiziario giur., 2015, 615, con nota di CARDELLA, in Ragiusan,
2016, fasc. 381, 122), secondo cui: “La direttiva 2004/35/Ce del parlamento
europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale
in
materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere
interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di
cui
trattasi nel procedimento principale, la quale, nell'ipotesi in cui sia
impossibile
individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da
quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente
di
imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al
proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è
tenuto soltanto al
rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità
competente nel
limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali
interventi”.
La sentenza in esame ha escluso distonie tra la direttiva
2004/35/Ce e le disposizioni italiane secondo le quali, ove sia impossibile
individuare il responsabile della contaminazione di un sito od ottenere
da quest’ultimo le misure di riparazione, l’autorità competente non può
imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al
proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale
è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi
effettuati
dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito,
determinato dopo l’esecuzione di tali interventi
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 07.05.2019 n. 2928 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Preavviso
di rigetto nel procedimento di sanatoria.
L’istituto del preavviso
di rigetto di cui all’art. 10-bis legge n.
241/1990 si applica anche nei procedimenti
di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve essere ritenuto
illegittimo il provvedimento di diniego
dell’istanza di sanatoria che non sia stato
preceduto dall’invio della comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento, in quanto
in mancanza di tale preavviso al soggetto
interessato risulta preclusa la piena
partecipazione al procedimento e dunque la
possibilità di un apporto collaborativo.
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.. per l'annullamento:
- della ordinanza n. 3 in data 14.02.2017, Prot. n. 625, notificata
in data 16.02.2017, con la quale il
Responsabile dell'Area Tecnica comunale ha
ingiunto di provvedere alla demolizione del
“… fabbricato adibito a garage di superficie
pari a mq 48,90 utili in lato nord del
confine stradale";
- di ogni altro atto presupposto, preordinato, connesso e/o,
comunque, consequenziale, ivi inclusi la
comunicazione di avvio del procedimento n.
Prot. 585 in data 23.02.2016, il verbale di
sopralluogo in data 28.05.2016, nonché la
nota in data 07.02.2017 con la quale il
Responsabile dell'Area Tecnica, “… preso
atto della difformità dell'opera realizzata
rispetto alla comunicazione n. 1848 in data
21.07.2015 (formazione di pergolato in
legno) ed in totale assenza del Permesso di
costruire …”, ha comunicato la “…non
procedibilità della soluzione proposta in
quanto l'area su cui sorge il fabbricato
oggetto di contestazione è inibita
all'edificazione…”.
...
Risulta, innanzitutto, fondata la censura,
di carattere formale, di violazione
dell’art. 10-bis della legge n. 241 del
1990, in relazione all’adozione della nota
comunale del 02.07.2017.
Invero, l’istituto del preavviso di rigetto
di cui al succitato art. 10-bis si applica
anche nei procedimenti di sanatoria o di
condono edilizio, con la conseguenza che
deve essere ritenuto illegittimo il
provvedimento di diniego dell’istanza
presentata dall’interessato che non sia
stato preceduto dall’invio della
comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento, in quanto in mancanza di
tale preavviso al soggetto interessato
risulta preclusa la piena partecipazione al
procedimento e dunque la possibilità di un
apporto collaborativo (ex multis,
Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2018, n.
2615; id., 01.03.2018, n. 1269; TAR
Sardegna, sez. II, 20.09.2018, n. 797; TAR
Sicilia, Palermo, sez. I, 08.09.2017, n.
2137).
La comunicazione comunale del 02.07.2017 è,
dunque, illegittima, e va annullata, non
essendo stata data la possibilità alla
ricorrente di partecipare al procedimento al
fine di fornire il proprio apporto
collaborativo, esponendo le ragioni a
sostegno della propria domanda (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 04.05.2019 n. 434 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mancato
uso del permesso di costruire, comune tenuto a restituire gli oneri di
urbanizzazione.
Il privato che rinunci o non utilizzi più il permesso di
costruire ha diritto a richiedere all’Amministrazione le somme versate a
titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costi di costruzione,
dovuti per l’ottenimento del permesso.
È quanto afferma il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la
sentenza 02.05.2019 n. 426.
Il caso
Il Tribunale amministrativo per la Lombardia, sede distaccata di Brescia,
Sezione II, ha deciso che, in caso di rinuncia o mancato utilizzo del
permesso di costruire, «l’Amministrazione deve essere condannata, ai
sensi dell’articolo 2033 cod. civ., alla restituzione delle somme
indebitamente percepite a titolo di oneri di urbanizzazione e per costo di
costruzione, oltre interessi sino all’effettivo soddisfo, da calcolarsi, non
essendo stata provata la sua malafede, a decorrere dal giorno della domanda
e, quindi, dal giorno di notificazione dell’atto introduttivo».
La parte ricorrente, a seguito di un permesso di costruire, aveva
corrisposto all’Amministrazione comunale il pagamento dovuto per oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria, nonché per i costi di costruzione.
Tuttavia, il privato, successivamente, non ha mai dato seguito al permesso
di costruire, rinunciando all’esecuzione delle opere e non comunicando mai,
per l’appunto, la data di inizio dei lavori. Pertanto, presentava quindi una
richiesta di rimborso degli oneri di costruzione già pagati e riscossi dal
Comune. A seguito di tale richiesta, dato che il Comune rimaneva inerte
nonostante l’intervento di una diffida, il privato, con ricorso, ha
investito il Tar Brescia della questione.
Il Giudice, dopo aver verificato la tempestività della domanda, in accordo
col termine prescrizionale ordinario decennale, nell’accogliere il ricorso,
ha ricordato un precedente analogo del Tar Lombardia, Milano, Sezione II,
sentenza 07.01.2016, n. 12, secondo cui «il contributo concessorio è
strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio.
Pertanto, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento
risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare. Ne consegue
che, qualora il privato, rinunci o non utilizzi il permesso di costruire,
sorge in capo all’Amministrazione ex articolo 2033 c.c. l’obbligo di
restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione nonché, conseguentemente, il diritto
del privato a pretenderne la restituzione».
Diritto alla restituzione delle somme versate
La sentenza in commento si allinea a principi già affermati in
giurisprudenza.
In particolare, appare utile richiamare una sentenza analoga del Tar
Catania, 18.01.2013, n. 159, secondo cui, «Allorché il privato rinunci o
non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la
decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla Pa, anche ex articolo 2033
o, comunque, 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a
titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e
conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione. Il
diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata
realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire
sia stato utilizzato solo parzialmente».
Del medesimo avviso anche Consiglio di Stato, Sezione IV, 20.05.2011, n.
3027, secondo cui, «Il pagamento effettuato per ottenere la concessione
edilizia seppure dovuto nel momento del rilascio di quest’ultima essendone
la condizione», nel momento in cui il permesso di costruzione non è
stato utilizzato dal privato, che aveva già provveduto al pagamento degli
oneri, «s’è trasformato, dal lato del Comune, per quanto già considerato,
in riscossione senza titolo di una somma che quest’ultimo è tenuto a
restituire a mente dell’articolo 2033 con decorrenza degli interessi dalla
data della domanda non potendo ritenersi la sua mala fede al momento della
riscossione stessa»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.05.2019).
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SENTENZA
A seguito del rilascio del Permesso di Costruire n. 22/2010, la
ricorrente provvedeva, secondo quanto sostenuto in ricorso, a corrispondere
all’amministrazione comunale la somma di Euro 55.779,75 per oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria e costo di costruzione.
La stessa società rinunciava, però, all’esecuzione delle opere assentite e
per tale ragione non comunicava mai l’inizio dei lavori e, il 10.09.2013,
presentava una richiesta di rimborso degli oneri corrisposti.
Nel silenzio del Comune, la ricorrente, da un lato diffidava il
Comune al pagamento e, dall’altro, chiedeva allo stesso un permesso
di costruire in sanatoria relativamente a opere di ristrutturazione
edilizia, con formazione di 4 unità immobiliari, all’interno della residenza
“Ma.” in Località Cambrembo.
Con il permesso di costruire in sanatoria n. 01/2014, il Comune chiedeva,
quindi, alla Ju. srl, il pagamento dell’oblazione per 31.553,06 euro e, nel
corso dell’anno 2016, le parti formalizzavano la compensazione dei
rispettivi rapporti di debito–credito a mezzo di scritture contabili.
Il 28.09.2016, parte ricorrente chiedeva al Comune il pagamento del credito
residuo, per un importo pari a Euro 24.226,69, giustificando la propria
pretesa alla luce del principio secondo cui il pagamento
del contributo di costruzione non costituisce acquiescenza alla sua
imposizione e pertanto l’azione di ripetizione per indebito totale o
parziale è pienamente legittima vista la natura tributaria del contributo
(TAR Lombardia–Milano, sez. II, del 14.04.2004, n. 1463).
La domanda, così formulata, da ritenersi tempestiva in quanto proposta entro
il termine prescrizionale ordinario decennale, appare suscettibile di
positivo apprezzamento.
Essa trova fondamento nel fatto che “il contributo
concessorio è strettamente connesso all’attività di trasformazione del
territorio. Pertanto, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo
pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare. Ne
consegue che, qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di
costruire, sorge in capo all’Amministrazione ex art. 2033 c.c. l’obbligo di
restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione nonché, conseguentemente, il diritto
del privato a pretenderne la restituzione; con la precisazione che il
diritto alla restituzione sorge non solo nel caso in cui la mancata
realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire
sia stato utilizzato solo parzialmente”
(TAR Lombardia–Milano, sez. II, del 07.01.2016, n. 12; in senso conforme:
TAR Sicilia–Catania, sez. II, del 27.01.2017, n. 189).
L’Amministrazione deve, dunque, essere condannata, ai sensi dell’art. 2033
cod. civ., alla restituzione della somma indebitamente percepita a titolo di
oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione, pari ad euro 24.226,69
(il cui ammontare non è contestato), oltre interessi sino
all’effettivo soddisfo, da calcolarsi, non essendo stata provata la sua
malafede, a decorrere dal giorno della domanda e, quindi, dal giorno di
notificazione dell’atto introduttivo del presente giudizio.
Trattandosi di debito di valuta
(cfr. Cassazione civile, sez. lav., 20.12.1996, n. 11440), e non essendo
stata dimostrata la sussistenza del maggior danno ai sensi dell’art. 1224,
secondo comma, cod. civ. (TAR Campania Napoli, sez. IV, 02.04.2015, n.
1907), non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria. |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sull'abuso
d'ufficio del pubblico dipendente.
Il dolo intenzionale tipico dell'art. 323 cod. pen. prescinde
dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende
favorire,
potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto,
purché
tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal
comportamento
"non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori,
concordemente
dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di
cagionare
un danno ingiusto.
Il dolo intenzionale
deve essere, quindi, ricavato da elementi ulteriori rispetto al
comportamento
"non iure" dell'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del
suo
comportamento,
cosicché la certezza che la volontà dell'agente sia stata orientata proprio
a
procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto non può provenire
esclusivamente dal comportamento "non iure", ma deve trovare conferma anche
in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale
del
soggetto attivo, l'apparato motivazionale del provvedimento, la presenza o
meno
di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o
i
soggetti, che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono
danno.
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Ulteriore carenza di motivazione si riscontra anche in ordine al
concorso del
ricorrente nel reato di abuso d'ufficio, in quanto il Tribunale ha ritenuto
integrato
il reato in ragione della macroscopica illegittimità della proroga
rilasciata
dall'ufficio tecnico, nonostante la Soprintendenza archeologica avesse
segnalato,
già nell'agosto 2015, l'assenza di documentazione relativa ad una
concessione demaniale marittima rilasciata al Ge., sollecitandone la
trasmissione
urgente per l'adozione dei provvedimenti vincolanti di competenza, in
assenza
dei quali la concessione doveva ritenersi illegittima; ha inoltre, affermato
che il
rilascio della proroga in violazione di legge e l'evidente vantaggio
patrimoniale
conseguito dal Ge. rende superfluo l'accertamento di un accordo
collusivo
tra il Ge. e il dirigente dell'ufficio tecnico.
La motivazione sul punto è apparente, in quanto secondo l'orientamento di
questa Corte il dolo intenzionale tipico dell'art. 323 cod. pen. prescinde
dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende
favorire,
potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto,
purché
tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal
comportamento
"non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori,
concordemente
dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di
cagionare
un danno ingiusto (Sez. 6, n. 52882 del 27/09/2018, Pastore, Rv. 274580 -
01;
Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma, Rv.272331).
Il dolo intenzionale
deve essere, quindi, ricavato da elementi ulteriori rispetto al
comportamento
"non iure" dell'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del
suo
comportamento (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280),
cosicché la certezza che la volontà dell'agente sia stata orientata proprio
a
procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto non può provenire
esclusivamente dal comportamento "non iure", ma deve trovare conferma anche
in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale
del
soggetto attivo, l'apparato motivazionale del provvedimento, la presenza o
meno
di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o
i
soggetti, che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono
danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255368; Sez. 6, n. 35814
del 27/06/2007, Pacia, Rv. 237916), nella specie mancanti, specie a fronte
di
proroghe rilasciate in base a disposizioni normative, che prorogavano i
termini di
scadenza delle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative.
Il concorso del ricorrente non risulta sorretto da una adeguata e logica
motivazione, non risultando evidenziato il previo concerto e/o l'istigazione
o la
determinazione criminosa del privato né valutato l'affidamento riposto dal
privato
nel comportamento della P.A., che sino all'adozione dell'ultimo
provvedimento
censurato aveva esitato favorevolmente le richieste di proroga (Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 30.04.2019 n.
17989). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito incontrollato - Rifiuti speciali non
pericolosi - Fanghi derivanti dalle operazioni di lavaggio
degli ortaggi - Classificazione tra rifiuto e sottoprodotto
- Disciplina eccezionale e derogatoria - Applicabilità -
Onere della prova - Responsabilità del legale rappresentante
committente e del titolare dell'impresa esecutrice - Artt.
184-bis e 256 d.lgs, n. 152/2006.
Configura il reato di cui all'art. 256,
comma 2, d.lgs. n. 152/2006, il deposito incontrollato (di
circa 50 metri cubi) di rifiuti speciali non pericolosi
quali fanghi palabili derivanti dalla pulizia delle vasche
di decantazione delle acque di lavaggio degli ortaggi.
Nella specie, l'escavazione e il deposito sul terreno per
l'essiccamento sono condotte ritenute estranee all'attività
produttiva di lavaggio e confezionamento per la vendita
degli stessi, con conseguente esclusione dell'ipotesi del
sottoprodotto di cui all'art. 184-bis D.Lvo n. 152/2006 ed
applicazione della disciplina derogatoria sui rifiuti.
Inoltre, i ricorrenti non hanno assolto alla prova positiva
della qualificazione degli scarti come sottoprodotto che
grava su di loro poiché si tratta d'ipotesi di esclusione da
responsabilità, fondata su una disciplina avente natura
eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria
(Cass., Sez. 3, n. 56066 del 19/09/2017, Sacco e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.04.2019 n. 17819 - link a www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI:
Ici, società agricole agevolate. Benefici estesi a chi esercitava
l’attività prima del 2012. La Cassazione fa dietrofront sul trattamento di
favore e condanna il comune alle spese.
La Cassazione ha cambiato ancora una volta idea sui
benefici fiscali per le società agricole. È tornata sui propri passi, dopo
aver negato in precedenza il trattamento agevolato per le attività agricole
svolte in forma societaria e, come se non bastasse, ha condannato
l'amministrazione comunale a pagare le spese processuali.
Con la
sentenza 30.04.2019 n. 11415
- V Sez. civile, infatti,
ha affermato che le agevolazioni Ici vanno riconosciute agli imprenditori
agricoli che esercitano l'attività in forma societaria anche prima del 2012.
Dunque, si applicano anche alle società e non solo alle persone fisiche che
hanno la qualifica di coltivatori diretti o imprenditori agricoli. E se il
terreno è posseduto e condotto da una società non può essere assoggettato a
imposizione come area edificabile, ancorché l'immobile abbia questa
qualificazione in base al piano regolatore comunale.
Per i giudici di legittimità, «le disposizioni di cui al dlgs n. 228 del
2001, e del dlgs n. 99 del 2004, hanno profondamente inciso sulla stessa
configurazione del requisito soggettivo per la fruizione dell'agevolazione
fornendo una lettura più in linea con la normativa eurounitaria».
In particolare le agevolazioni Ici, consistenti nel considerare agricolo
anche il terreno posseduto da una società di persone, si applicano qualora
possa essere «considerata imprenditore agricolo professionale ove lo statuto
preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle attività agricole
di cui all'art. 2135 c.c., e almeno un socio sia in possesso della qualifica
di imprenditore agricolo ovvero abbia conoscenze e competenze
professionali».
Le interpretazioni della Cassazione.
Sulla questione de qua permangono incertezze dovute a pronunciamenti della
Cassazione del tutto contrastanti.
La Cassazione con l'ordinanza n. 375/2017, in linea con la sentenza n.
11415, ha stabilito che le agevolazioni Ici vanno riconosciuti agli
imprenditori agricoli che esercitano l'attività in forma societaria anche
prima del 2012. I benefici fiscali si applicano anche alle società agricole
e non solo alle persone fisiche che hanno la qualifica di coltivatori
diretti o imprenditori agricoli. Quindi, se il terreno è posseduto e
condotto da una società agricola non può essere assoggettato a imposizione
come area edificabile, nonostante l'immobile abbia questa qualificazione in
base al piano regolatore comunale.
Mentre con la successiva ordinanza 22484/2017 ha sostenuto il contrario. Ha
fatto marcia indietro e ha escluso che possano spettare le agevolazioni,
diversamente da quanto stabilito con l'ordinanza 375/2017, alle società in
qualsiasi forma costituite.
Le società agricole non hanno diritto a fruire dei benefici fiscali Ici fino
al 2011, considerato che la norma di legge riconosceva espressamente il
trattamento agevolato solo alle persone fisiche.
La normativa speciale, che disciplina questo tributo, impedisce che possa
essere applicato lo stesso trattamento che il regime fiscale ordinario
riserva ad altre imposte, facendo rientrare le società nella nozione
giuridica di imprenditori agricoli professionali (Iap).
In effetti l'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997, considerato norma
speciale, imponeva che «ai fini Ici» il terreno fosse posseduto e condotto
dall'agricoltore persona fisica. Non a caso i giudici di legittimità, con
l'ordinanza n. 14734/2014, avevano sostenuto che le agevolazioni Ici
previste dall'articolo 9 del decreto legislativo 504/1992 si applicassero
unicamente agli imprenditori agricoli individuali. E' ormai pacifico,
invece, che le società fruiscono delle agevolazioni Imu, ai sensi
dell'articolo 13 del dl Monti (201/2011).
La finzione giuridica di non edificabilità dell'area.
Bisogna ricordare che il terreno sul quale venivano esercitate le attività
agricole non era soggetto all'Ici come area edificabile, anche se il bene
era qualificato come tale dal piano regolatore comunale.
Dalla formulazione letterale degli articoli 2 e 9 del decreto legislativo
504/1992, però, sembrava che fosse escluso il beneficio della finzione
giuridica di non edificabilità dei terreni per le società agricole in
qualsiasi forma costituite.
Il citato articolo 2, applicabile anche all'Imu, dispone che sono
considerati non fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai coltivatori
diretti o da imprenditori agricoli sui quali persiste l'utilizzazione
agro-silvo-pastorale. Il citato articolo 58 prevedeva che, per quanto
concerne le agevolazioni Ici sui terreni agricoli, si considerassero
coltivatori diretti o imprenditori agricoli a titolo principale solo le
«persone fisiche» iscritte negli appositi elenchi comunali previsti
dall'articolo 11 della legge 9/1963 e soggette al corrispondente obbligo
dell'assicurazione per invalidità, vecchiaia e malattia.
L'esenzione per i terreni.
Se esistono i presupposti per la finzione giuridica di non edificabilità, le
aree relative oggi non possono essere assoggettate a imposizione neppure
come terreni agricoli.
Dal 2016 non sono tenuti al pagamento dell'imposta i titolari di terreni
montani o di collina ubicati nei comuni elencati nella circolare del
ministero dell'economia e delle finanze 9/1993. Inoltre, sono esonerati i
terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori
agricoli professionali, a prescindere dalla loro ubicazione, quelli ubicati
nelle isole minori, nonché quelli a immutabile destinazione
agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile.
Il legislatore, come è già avvenuto in passato, per individuare i comuni
montani o di collina rinvia alla circolare ministeriale 9/1993. Quindi, non
fa più fede l'elenco predisposto dall'istituto nazionale di statistica (Istat),
al quale le amministrazioni locali hanno dovuto fare riferimento per il
2015. Nell'elenco allegato alla circolare, redatto utilizzando i dati
forniti dal ministero dell'agricoltura e delle foreste, sono indicati i
comuni, suddivisi per provincia di appartenenza, sul cui territorio i
terreni agricoli saranno esenti dall'imposta municipale, come previsto
dall'articolo 7, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 504/1992. Se a
fianco dell'indicazione del comune non è riportata alcuna annotazione, vuol
dire che l'esenzione opera sull'intero territorio.
Qualora, invece, sia riportata l'annotazione parzialmente delimitato «PD»,
l'agevolazione sarà circoscritta a una parte del territorio.
Questo comporta che negli enti montani e di collina non sono più richiesti
requisiti soggettivi in capo ai possessori dei terreni, ma conta solo la
loro inclusione nella circolare ministeriale. Gli altri terreni,
indipendentemente dalla loro ubicazione, possono invece fruire del
trattamento agevolato solo se posseduti e condotti da coltivatori diretti e
imprenditori agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola.
Sono poi esonerati dal prelievo i terreni ubicati nei comuni delle isole
minori di cui all'allegato A della legge 448/ 2001 e quelli a immutabile
destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e
inusucapibile.
Fino al 2015 erano esonerati dal pagamento coloro che erano titolari di
terreni ubicati in comuni montani, sia agricoli che incolti, e parzialmente
montani. Per questi ultimi l'esonero dal pagamento dell'Imu spettava solo
qualora i terreni fossero posseduti da coltivatori diretti e imprenditori
agricoli. I comuni parzialmente montani erano indicati in un elenco
predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (Istat). Pertanto, non
tutti gli agricoltori potevano fruire dell'esenzione sui terreni.
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Conta il possesso di diritto.
Le agevolazioni Ici e Imu spettano al coltivatore diretto o all'imprenditore
agricolo solo nel caso in cui possieda, di diritto, il terreno. Le norme
richiedono il possesso del bene da parte del titolare, nella sua qualità di
soggetto passivo, oltre che la conduzione del terreno da parte dello stesso.
Se la conduzione del terreno è effettuata sulla base di un contratto di
affitto o di comodato da parte di un soggetto diverso dal proprietario non
si ha diritto ai benefici fiscali. In questi casi l'agricoltore che non sia
possessore di diritto dei terreni non è soggetto al pagamento delle imposte
locali e, per l'effetto, non ha bisogno di fruire delle agevolazioni.
Le stesse regole valgono per la Tasi sulle aree edificabili possedute e
condotte da coltivatori diretti e imprenditori agricoli. Gli agricoltori non
pagano l'imposta sui servizi indivisibili sulle aree edificabili se
utilizzate per l'esercizio delle attività agricole (articolo ItaliaOggi Sette del 20.05.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di restauro e risanamento conservativo - Area
sottoposta a vincolo - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI -
Mutazione della qualificazione tipologica del manufatto
preesistente - Esclusione - Necessità del permesso di
costruire e nulla osta Art. 181 d.lgs. n. 42/2004 - Art. 44,
D.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In materia edilizia, ai fini della
configurabilità di un intervento quale restauro e
risanamento conservativo non possono essere mutati la
qualificazione tipologica del manufatto preesistente, ovvero
i caratteri architettonici e funzionali che ne consentono la
qualificazione in base alle tipologie edilizie, gli elementi
formali che configurano l'immagine caratteristica dello
stesso e gli elementi strutturali, che materialmente
compongono la struttura dell'organismo edilizio
(Sez. 3, n. 16048/2006, D'Antoni; in senso conforme, Sez. 3,
n. 1978/2015, Sgalambro e altro; Sez. 3, n. 6873/2017, P.M.
in proc. Buti e altri).
Fattispecie: prolungamento di una tettoia
preesistente, allo scopo di evitare la forte irradiazione
solare della facciata e il surriscaldamento dei locali
interni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.04.2019 n. 17732 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di reati urbanistici, nel caso di costruzione in zona agricola, la
destinazione del manufatto alle opere dell'agricoltura ed il possesso dei
requisiti soggettivi di imprenditore agricolo in capo a chi lo realizza
-tanto al momento della richiesta e del rilascio del permesso di costruire,
quanto al tempo della eventuale voltura del titolo abilitativo in favore di terzi- sono elementi rilevanti nella valutazione
della
rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di
conseguenza, anche per la valutazione di conformità ai fini del rilascio
della
sanatoria.
Si è, in particolare, affermato che non è sufficiente il possesso temporaneo
di
fatto della qualifica di imprenditore agricolo professionale (ai sensi
dell'art. 1,
comma 5-ter, d.lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio del
permesso di
costruire in zona agricola, in quanto i requisiti soggettivi per il rilascio
di tale
permesso devono esistere al momento della richiesta ed al momento del
rilascio
del titolo abilitativo; inoltre, il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore
agricolo
deve sussistere non solo al momento del rilascio del permesso di costruire
in zona
agricola, ma anche al momento della voltura del titolo abilitativo in favore
di terzi, al fine di garantire l'effettiva destinazione delle opere
all'agricoltura.
Per l'edificazione in zona agricola la destinazione del manufatto e la
posizione soggettiva di chi lo realizza sono, dunque, elementi che assumono
entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell'opera alle prescrizioni
dello strumento urbanistico nonché per l'eventuale valutazione di conformità
ai fini del rilascio della sanatoria.
---------------
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in
tema di reati
urbanistici, nel caso di costruzione in zona agricola, la destinazione del
manufatto
alle opere dell'agricoltura ed il possesso dei requisiti soggettivi di
imprenditore
agricolo in capo a chi lo realizza -tanto al momento della richiesta e del
rilascio
del permesso di costruire, quanto al tempo della eventuale voltura del
titolo
abilitativo in favore di terzi- sono elementi rilevanti nella valutazione
della
rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di
conseguenza, anche per la valutazione di conformità ai fini del rilascio
della
sanatoria.
Si è, in particolare, affermato che non è sufficiente il possesso temporaneo
di
fatto della qualifica di imprenditore agricolo professionale (ai sensi
dell'art. 1,
comma 5-ter, d.lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio del
permesso di
costruire in zona agricola, in quanto i requisiti soggettivi per il rilascio
di tale
permesso devono esistere al momento della richiesta ed al momento del
rilascio
del titolo abilitativo (Sez. 3, n. 46085 del 29/10/2008, Monetti e altro, Rv.
24177001); inoltre, il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore
agricolo
deve sussistere non solo al momento del rilascio del permesso di costruire
in zona
agricola, ma anche al momento della voltura del titolo abilitativo in favore
di terzi,
al fine di garantire l'effettiva destinazione delle opere all'agricoltura (Sez.
3, n.
33381 del 05/07/2012, Pmt in proc. Murgioni e altri, Rv. 25365901).
Per l'edificazione in zona agricola la destinazione del manufatto e la
posizione
soggettiva di chi lo realizza sono, dunque, elementi che assumono entrambi
rilievo
ai fini della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento
urbanistico
nonché per l'eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della
sanatoria
(Sez. 3, n. 7681 del 13/01/2017, Rv. 269159)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
29.04.2019 n. 17723). |
EDILIZIA PRIVATA:
La cessione di cubatura è un istituto di fonte negoziale, la cui
legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale,
in
forza del
quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni,
la
"cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro
fondo,
cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario
sarà
caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello
originariamente
goduto.
E si è precisato che
tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei
vincoli
posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta
gestione del
territorio, è soggetto a determinate condizioni delle quali le principali,
rilevanti
nella vicenda esaminata, sono costituite:
a) dall'essere i terreni in
questione se
non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della
reciproca
prossimità;
b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità
urbanistica, avere cioè tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di
fabbricabilità originario, perché altrimenti, in assenza di dette
condizioni,
attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto
legittimo,
sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, confliggenti
con le
esigenze di corretta pianificazione del territorio.
Si è, inoltre, rimarcato
che
si
potrebbe verificare, laddove si ritenesse legittima la "cessione di
cubature" fra
terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione
di
"affollamento edilizio" in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi
cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con
evidente
pregiudizio per l'attuazione dei complessivi criteri di programmazione
edilizia
contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più manifesto ove
fosse
consentita la "cessione di cubatura" fra terreni aventi diversa destinazione
urbanistica ovvero diverso indice di edificabilità; essendo, infatti,
evidente che ove fosse consentito l'asservimento di un terreno avente un
indice di fabbricabilità più
vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una
diversa
destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano
presieduto alla
scelta amministrativa di differenziare gli indici di edificabilità dei due
fondi, ovvero
la loro stessa destinazione, rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte; nel
caso
esaminato, si era, quindi, rilevata la illegittimità della cessione di
cubatura fra
terreni caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi e l'abusività
dell'utilizzo di tale strumento negoziale in quanto grossolanamente volto
alla
elusione dei principi e delle regole in materia di pianificazione edilizia, abusività
ritenuta poi ridondante in senso negativo sulla legittimità dei permessi a
costruire
rilasciati.
---------------
La
censura attiene alla applicabilità alla fattispecie in esame della "cessione
di
cubatura", prevista dal 5, comma 3, del d.l. n. 70/2011, convertito con
modificazione nella legge n. 106 del 2011 e trasfuso nell'art. 5, comma 1,
lett. c).
Questa Suprema Corte (Sez. 3, n. 8635 del 18/09/2014, dep. 27/02/2015, Rv. 262512) ha chiarito che la cessione di cubatura è un istituto di fonte
negoziale,
la cui legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale
(per tutte
si richiama Consiglio di Stato, Sezione V, 28.06.2000, n. 3636), in
forza del
quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni,
la
"cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro
fondo,
cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario
sarà
caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello
originariamente
goduto.
E si è precisato che tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei
vincoli
posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta
gestione del
territorio, è soggetto a determinate condizioni delle quali le principali,
rilevanti
nella vicenda esaminata, sono costituite:
a) dall'essere i terreni in
questione se
non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della
reciproca
prossimità;
b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità
urbanistica, avere cioè tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di
fabbricabilità originario, perché altrimenti, in assenza di dette
condizioni,
attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto
legittimo,
sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, confliggenti
con le
esigenze di corretta pianificazione del territorio.
Si è, inoltre, rimarcato
che si
potrebbe verificare, laddove si ritenesse legittima la "cessione di
cubature" fra
terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione
di
"affollamento edilizio" in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi
cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con
evidente
pregiudizio per l'attuazione dei complessivi criteri di programmazione
edilizia
contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più manifesto ove
fosse
consentita la "cessione di cubatura" fra terreni aventi diversa destinazione
urbanistica ovvero diverso indice di edificabilità; essendo, infatti,
evidente che ove fosse consentito l'asservimento di un terreno avente un
indice di fabbricabilità più
vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una
diversa
destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano
presieduto alla
scelta amministrativa di differenziare gli indici di edificabilità dei due
fondi, ovvero
la loro stessa destinazione, rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte; nel
caso
esaminato, si era, quindi, rilevata la illegittimità della cessione di
cubatura fra
terreni caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi e l'abusività
dell'utilizzo di tale strumento negoziale in quanto grossolanamente volto
alla
elusione dei principi e delle regole in materia di pianificazione edilizia, abusività
ritenuta poi ridondante in senso negativo sulla legittimità dei permessi a
costruire
rilasciati.
Tali argomentazioni sono state ribadite, negli stessi termini, nelle
successive
pronunce (Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017, dep. 19/01/2018, Rv. 271770; Sez. 3,
n.
35166 del 28/03/2017, Nespoli ed altri, non massimata)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
29.04.2019 n. 17723). |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazione sostanziale e/o formali in materia antisismica -
Omessa denuncia lavori in zona sismica - Configurabilità del
reato - Zona inclusa tra quelle a basso indice sismico -
Violazione delle prescrizioni tecniche antisismiche -
Decorrenza del termine di prescrizione - Giurisprudenza -
Artt. 44, 83, 93 e 95, d.P.R. n. 380/2001.
Il reato di omessa denuncia lavori in
zona sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, è configurabile anche in caso di esecuzione di opere in
zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che
l'art. 83, comma secondo, del d.P.R. n. 380/2001, non pone
alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone
medesime (Sez. 3,
n. 30651/2017, Rubini; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011,
Marini).
Quanto al reato di cui all'art. 95, d.P.R.
n. 380 del 2001, la decorrenza iniziale del termine di
prescrizione è stata variabilmente risolta a seconda che sia
contestata la violazione sostanziale delle prescrizioni
tecniche in materia antisismica
(nel qual caso la permanenza ha termine con la cessazione
dei lavori; cfr. Sez. Un., n. 18 del 23/07/1999, Lauriola;
Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro)
o, come nel caso di specie, che vengano contestate
le violazioni formali della omessa denunzia dei lavori e/o
dell'omesso deposito dei progetti
(nel qual caso si registra un contrasto di giurisprudenza
tra chi ritiene la natura istantanea del reato - Sez. Un.,
n. 18/1999; Sez. 3, n. 20728 del 29/03/2018, Staiano; Sez. 3,
n. 23656 del 26/05/2011, Armatori -e chi, invece, ne afferma
la natura permanente con cessazione alla data di adempimento
degli obblighi formali ovvero di cessazione dei lavori-
così, da ultimo, Sez. 3, n. 12235 del 11/02/2014, Petrolo;
Sez. 3, n. 1145 del 08/10/2015, Stabile; Sez. 3, n. 2209 del
03/06/2015, Russo).
...
Costruzione abusiva - Reato di natura permanente -
Decorrenza e cessazione della permanenza - Edificio
concretamente funzionale - Provvedimento di sequestro.
Il reato di costruzione abusiva cessa
con il totale esaurimento dell'attività illecita e, quindi:
a) quando siano terminati i lavori di rifinitura
(Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, secondo cui deve
ritenersi "ultimato" solo l'edificio concretamente
funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o
abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo,
ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla
presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per
ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile
abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la
conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni;
Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali);
b) ovvero, se precedente, con
il provvedimento di sequestro, che sottrae all'imputato la
disponibilità di fatto e di diritto dell'immobile (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.04.2019 n. 17701 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: "Volumi tecnici" sono solo quelli
strettamente
necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici,
aventi un
rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
(serbatoi
idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto
termico,
canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di
gronda), che
non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli
impianti, entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle
norme
urbanistiche.
---------------
6. Non hanno miglior fortuna le censure relative al capo B della rubrica che
imputa al Di Fr. di aver rilasciato il permesso di costruire n. 8 del
02/02/2010 che, per quanto qui rileva, autorizzava il Bu. a realizzare,
in
variante al precedente permesso, un "volume tecnico" espressamente
finalizzato
ad estendere il fabbricato fino al confine con la proprietà Al., in
spregio
all'art. 11 delle NTA del nuovo PRG (approvato il 28/10/2009 e pubblicato
sulla
GU della Regione Sicilia il 24/12/2009) che imponeva una distanza minima dal
confine di 5 metri.
6.1. Tale volume, secondo la descrizione della Corte di appello, «eliminava
l'intercapedine immaginaria che si esisteva tra l'immobile del Bu. (fino
a quel
momento posto da distanza variabile dalla linea di confine con la proprietà
Al.
da cm. 65 a m. 1), ponendolo sulla linea di confine. Tale volume tecnico
risulta
avere lunghezza pari a m. 11 e larghezza da cm. 60 a m. 1 ed altezza non
inferiore a 3 m. e presenta un tetto a falde».
Si trattava di «un vano
chiuso con
accesso autonomo (...) posto lungo tutto il lato ovest del fabbricato del Bu.,
con un impatto visivo considerevole», in quanto impegnava più della metà del
prospetto ovest del fabbricato.
Il vano realizzato, prosegue la Corte, «non
può
ritenersi suscettibile di alcun uso abitativo, considerata la larghezza
variabile
(dunque al saldo dei muri) da 55-60 cm. a 90 cm. circa. Dunque risulta
materialmente impossibile che il vano possa avere un uso abitativo,
mancando,
peraltro, di collegamenti interni con il resto del fabbricato. Tuttavia, le
dimensioni
del vano, di forma trapezioidale (pari a circa mc. 27), appaiono del tutto
sproporzionate rispetto alla funzione tecnica da svolgere o di ricovero di
opere,
visto che i pozzetti di ispezione che dovrebbe contenere sono di norma
realizzati
all'aria aperta e non necessitano di alcuna sovrastruttura), rivelando quale
destinazione principale -peraltro apertamente dichiarata nel progetto di
variante- quella funzionale, ossia annullare la distanza del fabbricato autorizzato
con C.E. n. 132/09 a seguito della quale risulta emessa la C.E. n. 8/10 di
cui si discute):
proprio per questo motivo risulta realizzato con tale imponenza».
6.2. La Corte di appello ha correttamente escluso che tale volume aggiuntivo
possa qualificarsi come "tecnico"; "volumi tecnici" sono solo quelli
strettamente
necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici,
aventi un
rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
(serbatoi
idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto
termico,
canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di
gronda), che
non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli
impianti, entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle
norme
urbanistiche (Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Casu, Rv. 267289; Sez. 3, n.
14281 del 04/02/2016, Mocetti, Rv. 266394; Sez. 3, n. 2187 del 03/12/1992,
dep. 1993, Fluss, Rv. 192757; Sez. 3, n. 1488 del 21/09/2017, dep. 2018,
n.m.;
Sez. 7, n. 20755 del 24/06/2016, dep. 2017)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
24.04.2019 n. 17516). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mentre le "varianti in senso proprio",
ovvero le
modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza
rispetto al
progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale
mutamento
del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette
al
rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto
il
profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso
a
costruire, le "varianti essenziali", ovvero quelle caratterizzate da
incompatibilità
quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai
parametri
indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio
di
permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello
originario e
per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione
della
variante.
Si è ricordato, in particolare, che «secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Suprema Corte, la nozione di "variante" deve ricollegarsi a
modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza
rispetto
all'originario progetto e che gli elementi da prendere in considerazione, al
fine di
discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro
preesistente,
riguardano la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze
dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed
esterne, del fabbricato».
Il
nuovo
provvedimento (da rilasciarsi con il medesimo procedimento previsto per il
rilascio del permesso di costruire) rimane in posizione di sostanziale
collegamento con quello originario ed in questo rapporto di complementarietà
e
di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in
variante, che giustifica -tra l'altro- le peculiarità del regime giuridico
cui esso
viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale.
Rimangono
sussistenti,
infatti, tutti i diritti quesiti e ciò rileva specialmente nel caso di
sopravvenienza di
una nuova contrastante normativa che, se non fosse ravvisatale l'anzidetta
situazione di continuità, renderebbe irrealizzabile l'opera.
E' stato,
quindi,
affermato che
costituisce "variante essenziale" ogni variante incompatibile
con il
disegno globale ispiratore del progetto edificatorio originario, sia sotto
l'aspetto
qualitativo che sotto l'aspetto quantitativo.
---------------
Nel D.P.R. n. 380 del 2001
non si rinviene alcun riferimento espresso all'istituto della variante
essenziale
ma, per la configurazione dell'ambito di tale istituto, può essere utile
tenere
conto della definizione (comunque non coincidente e che non ne esaurisce il
concetto) di "variazione essenziale" posta dal D.P.R. n. 380 del 2001, art.
32.
Ed
ai sensi dell'art. 32 potrà aversi variazione essenziale "quando si verifica
una o
più delle seguenti condizioni":
a) mutamento della destinazione d'uso che
implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968, n.
1444;
b)
aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, da valutare
in
relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri
urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione
dell'edificio
sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento
edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica,
quando non attenga a fatti procedurali.
Caratteri peculiari
presentano, poi, le c.d. "varianti leggere o minori in corso d'opera" (già
disciplinate dalla L. n. 10 del 1977, art. 15, comma 12, e poi dalla L. n. 47
del
1985, art. 15, modificato nuovamente dalla L. n. 662 del 1996).
Il D.P.R. n.
380
del 2001, art. 22, comma 2, -come modificato dal D.Lgs. n. 301 del 2002-
prevede che sono sottoposte a denuncia di inizio dell'attività (ora SCIA a
seguito
delle successive modifiche dell'art. 17, comma 1, lett. m), n. 1, del d.l.
12.09.2014
n. 133 conv., con modificazioni nella l. 11.11.2014 n. 164) le varianti a
permessi
di costruire che:
- non incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie;
- non
modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia;
- non alterano la
sagoma dell'edificio; non violano le prescrizioni eventualmente contenute
nel
permesso di costruire.
La denuncia di inizio dell'attività (ora SCIA)
costituisce
"parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione
dell'intervento principale" e può essere presentata prima della
dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22
consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità
dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori.
---------------
6. Non hanno miglior fortuna le censure relative al capo B della rubrica che
imputa al Di Fr. di aver rilasciato il permesso di costruire n. 8 del
02/02/2010 che, per quanto qui rileva, autorizzava il Bu. a realizzare,
in
variante al precedente permesso, un "volume tecnico" espressamente
finalizzato
ad estendere il fabbricato fino al confine con la proprietà Al., in
spregio
all'art. 11 delle NTA del nuovo PRG (approvato il 28/10/2009 e pubblicato
sulla
GU della Regione Sicilia il 24/12/2009) che imponeva una distanza minima dal
confine di 5 metri.
6.1. Tale volume, secondo la descrizione della Corte di appello, «eliminava
l'intercapedine immaginaria che si esisteva tra l'immobile del Bu. (fino
a quel
momento posto da distanza variabile dalla linea di confine con la proprietà
Al.
da cm. 65 a m. 1), ponendolo sulla linea di confine. Tale volume tecnico
risulta
avere lunghezza pari a m. 11 e larghezza da cm. 60 a m. 1 ed altezza non
inferiore a 3 m. e presenta un tetto a falde».
Si trattava di «un vano
chiuso con
accesso autonomo (...) posto lungo tutto il lato ovest del fabbricato del Bu.,
con un impatto visivo considerevole», in quanto impegnava più della metà del
prospetto ovest del fabbricato.
Il vano realizzato, prosegue la Corte, «non
può
ritenersi suscettibile di alcun uso abitativo, considerata la larghezza
variabile
(dunque al saldo dei muri) da 55-60 cm. a 90 cm. circa. Dunque risulta
materialmente impossibile che il vano possa avere un uso abitativo,
mancando,
peraltro, di collegamenti interni con il resto del fabbricato. Tuttavia, le
dimensioni
del vano, di forma trapezioidale (pari a circa mc. 27), appaiono del tutto
sproporzionate rispetto alla funzione tecnica da svolgere o di ricovero di
opere,
visto che i pozzetti di ispezione che dovrebbe contenere sono di norma
realizzati
all'aria aperta e non necessitano di alcuna sovrastruttura), rivelando quale
destinazione principale -peraltro apertamente dichiarata nel progetto di
variante- quella funzionale, ossia annullare la distanza del fabbricato autorizzato
con C.E. n. 132/09 a seguito della quale risulta emessa la C.E. n. 8/10 di
cui si discute):
proprio per questo motivo risulta realizzato con tale imponenza».
6.2. La Corte di appello ha correttamente escluso che tale volume aggiuntivo
possa qualificarsi come "tecnico"; "volumi tecnici" sono solo quelli
strettamente
necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici,
aventi un
rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
(serbatoi
idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto
termico,
canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di
gronda), che
non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli
impianti, entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle
norme
urbanistiche (Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Casu, Rv. 267289; Sez. 3, n.
14281 del 04/02/2016, Mocetti, Rv. 266394; Sez. 3, n. 2187 del 03/12/1992,
dep. 1993, Fluss, Rv. 192757; Sez. 3, n. 1488 del 21/09/2017, dep. 2018,
n.m.;
Sez. 7, n. 20755 del 24/06/2016, dep. 2017).
6.3. La Corte di appello ha però ritenuto possibile l'intervento sul rilievo
che
si tratta di variazione non essenziale ai sensi dell'art. 4, legge reg.
Sicilia n. 37
del 1985, che, in attuazione del previgente art. 8, legge n. 47 del 1985
(oggi art.
32, d.P.R. n. 380 del 2001), esclude la natura essenziale della variazione
quando
le opere aggiuntive non comportano un aumento della cubatura dell'immobile
superiore al 20%.
6.4. 5ull'argomento questa Corte ha recentemente ribadito (Sez. 3, n. 34148
del 13/06/2018, Ulcini, n.m.) che mentre le "varianti in senso proprio",
ovvero le
modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza
rispetto al
progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale
mutamento
del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette
al
rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto
il
profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso
a
costruire, le "varianti essenziali", ovvero quelle caratterizzate da
incompatibilità
quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai
parametri
indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio
di
permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello
originario e
per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione
della
variante.
Si è ricordato, in particolare, che «secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. 3, n. 9922 del 20/01/2009, Rv.
243103; Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010, Rv. 247687; Sez. 3, n. 7241 del
09/02/2011, Rv. 249544), la nozione di "variante" deve ricollegarsi a
modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza
rispetto
all'originario progetto e che gli elementi da prendere in considerazione, al
fine di
discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro
preesistente,
riguardano la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze
dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed
esterne, del fabbricato» (vedi C. Stato, Sez. 4, 11.04.2007, n. 1572).
Il
nuovo
provvedimento (da rilasciarsi con il medesimo procedimento previsto per il
rilascio del permesso di costruire) rimane in posizione di sostanziale
collegamento con quello originario ed in questo rapporto di complementarietà
e
di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in
variante, che giustifica -tra l'altro- le peculiarità del regime giuridico
cui esso
viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale.
Rimangono
sussistenti,
infatti, tutti i diritti quesiti e ciò rileva specialmente nel caso di
sopravvenienza di
una nuova contrastante normativa che, se non fosse ravvisatale l'anzidetta
situazione di continuità, renderebbe irrealizzabile l'opera. E' stato,
quindi,
affermato che costituisce "variante essenziale" ogni variante incompatibile
con il
disegno globale ispiratore del progetto edificatorio originario, sia sotto
l'aspetto
qualitativo che sotto l'aspetto quantitativo.
Nel D.P.R. n. 380 del 2001, si
è detto,
non si rinviene alcun riferimento espresso all'istituto della variante
essenziale
ma, per la configurazione dell'ambito di tale istituto, può essere utile
tenere
conto della definizione (comunque non coincidente e che non ne esaurisce il
concetto) di "variazione essenziale" posta dal D.P.R. n. 380 del 2001, art.
32. Ed
ai sensi dell'art. 32 potrà aversi variazione essenziale "quando si verifica
una o
più delle seguenti condizioni":
a) mutamento della destinazione d'uso che
implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968, n.
1444;
b)
aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, da valutare
in
relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri
urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione
dell'edificio
sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento
edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica,
quando non attenga a fatti procedurali.
E si è sottolineato che caratteri
peculiari
presentano, poi, le c.d. "varianti leggere o minori in corso d'opera" (già
disciplinate dalla L. n. 10 del 1977, art. 15, comma 12, e poi dalla L. n. 47
del
1985, art. 15, modificato nuovamente dalla L. n. 662 del 1996).
Il D.P.R. n.
380
del 2001, art. 22, comma 2, -come modificato dal D.Lgs. n. 301 del 2002-
prevede che sono sottoposte a denuncia di inizio dell'attività (ora SCIA a
seguito
delle successive modifiche dell'art. 17, comma 1, lett. m), n. 1, del d.l.
12.09.2014
n. 133 conv., con modificazioni nella l. 11.11.2014 n. 164) le varianti a
permessi
di costruire che:
- non incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie;
- non
modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia;
- non alterano la
sagoma dell'edificio; non violano le prescrizioni eventualmente contenute
nel
permesso di costruire.
La denuncia di inizio dell'attività (ora SCIA)
costituisce
"parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione
dell'intervento principale" e può essere presentata prima della
dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22
consente, pertanto, la
possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire
e poi
regolarizzarle entro la fine dei lavori
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
24.04.2019 n. 17516). |
EDILIZIA PRIVATA: L'incompletezza
della documentazione allegata alla domanda di permesso di costruire esonera
l'amministrazione dell'obbligo di pronunciarsi in maniera espressa su di
essa entro i prescritti termini procedimentali.
Invero “il
silenzio-assenso non può, infatti, formarsi in assenza della documentazione
completa, in quanto l'eventuale inerzia dell'Amministrazione nel provvedere
non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
avrebbero potuto mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso”.
---------------
6 - La censura è infondata.
Correttamente il TAR ha rilevato, in conformità al noto insegnamento
della giurisprudenza, che l'incompletezza della documentazione allegata alla
domanda di permesso di costruire esonera l'amministrazione dell'obbligo di
pronunciarsi in maniera espressa su di essa entro i prescritti termini procedimentali (Cons. St., Sez. V, 22.09.2015, n. 4424: “il
silenzio-assenso non può, infatti, formarsi in assenza della documentazione
completa, in quanto l'eventuale inerzia dell'Amministrazione nel provvedere
non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
avrebbero potuto mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso”).
6.1 - In applicazione di tale principio, il TAR ha escluso che
sull’istanza si sia formato il silenzio-assenso, constatando che soltanto in
allegato alla comunicazione di inizio lavori del 23.10.2013 era stata
prodotta all'amministrazione la necessaria asseverazione di conformità del
progetto alle prescrizioni urbanistico-edilizie.
Il TAR ha altresì rilevato che la documentazione tecnica originariamente
prodotta con la domanda di permesso di costruire, oltre ad attestare la
conformità del progetto con lo strumento urbanistico e il regolamento
edilizio del comune di Frattamaggiore anziché Crispano, aveva anche un
contenuto più limitato (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.04.2019 n. 2581 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata
dell’amministrazione, con la conseguenza che l’eventuale mancata
partecipazione del privato al relativo procedimento non consente in ogni
caso di pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua dell’art.
21-octies della legge 241/1990.
---------------
10
– Deve essere rigettato anche il motivo con il quale si lamenta l’omissione
degli adempimenti partecipativi di cui alla legge 241/1990.
Invero, per quanto attiene a quest’ultima violazione procedimentale, va
ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce attività vincolata dell’amministrazione, con la conseguenza che
l’eventuale mancata partecipazione del privato al relativo procedimento non
consente in ogni caso di pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua
dell’art. 21-octies della legge 241/1990 (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 734
del 2014; Cons. St., sez. V, n. 3337 del 2012; Cons. St., sez. V, n.
4764/2011) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.04.2019 n. 2581 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per realizzare una nuova volumetria, e quindi una
«nuova costruzione», occorre il rilascio di un permesso di
costruire (o del titolo avente efficacia equivalente). Si
può solo ammettere, nei limiti in cui le disposizioni
urbanistiche (e paesaggistiche) lo consentano, la
realizzazione di modesti volumi tecnici, ma solo nei
suddetti limiti e se strettamente necessari all’uso per il
quale sono destinati.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, possono
considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che sono
realizzati per esigenze tecnico-funzionali della costruzione
(per la realizzazione di impianti elettrici, idraulici,
termici o di ascensori) che non possono essere ubicati
all’interno di questa e che sono del tutto privi di propria
autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale. Si è,
quindi, escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di
fuori di tale ambito «al fine di negare rilevanza giuridica
ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica».
---------------
La pertinenza può essere riconosciuta, ai fini edilizi, se
vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa
accessoria e quella principale, cioè un nesso che non
consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso
pertinenziale durevole, e (soprattutto) se l'opera
pertinenziale ha una dimensione ridotta e modesta rispetto
alla cosa cui esso inerisce, tale da rendere l’opera priva
di un autonomo valore di mercato e non comportante un carico
urbanistico o una alterazione significativa dell'assetto del
territorio.
Non può quindi ritenersi meramente pertinenziale, ai fini
del possesso dei necessari titoli abilitativi edilizi (e
paesaggistici), un’opera quando determina, come nella
fattispecie, un nuovo volume di consistenti dimensioni su
un’area diversa e ulteriore rispetto a quella già occupata
dal preesistente edificio principale.
---------------
1.1.– Le opere realizzate dalla società appellante sono
costituite da due corpi di fabbrica realizzati in legno
lamellare e infissi al suolo, della dimensione di circa 55
mq l’uno, di circa 125 mq l’altro e dell’altezza fino a 3,13
metri l’uno e fino a 4,50 metri l’altro. In considerazione
dei materiali utilizzati, delle dimensioni
plano-volumetriche e del carattere non precario,
l’intervento edilizio in esame costituisce senza dubbio una
«nuova costruzione» –nella cui nozione rientra, ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.1), del d.P.R. n. 380
del 2001, la «costruzione di manufatti edilizi fuori
terra o interrati, ovvero l’ampliamento di quelli esistenti
all'esterno della sagoma esistente […]»–, come tale
soggetta al regime del permesso di costruire (ai sensi
dell’art. 10 del testo unico dell’edilizia).
1.2.− In quanto non conforme alla disciplina urbanistica (la
circostanza è incontestata tra le parti), e quindi
integrando anche un abuso di carattere sostanziale, non
sussistevano i presupposti per procedere all’accertamento di
conformità previsto dall’art. 36 del testo unico
dell’edilizia, il quale (come noto) è diretto a sanare le
opere eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma
conformi «alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente
sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al
momento della presentazione della domanda».
1.3.− L’assunto appena svolto non può essere contestato
adducendo che le opere realizzate conduce a ritenere che non
si tratta nel caso di specie di meri volumi tecnici.
Come si è detto sopra, per realizzare una nuova volumetria,
e quindi una «nuova costruzione», occorre il rilascio
di un permesso di costruire (o del titolo avente efficacia
equivalente). Si può solo ammettere, nei limiti in cui le
disposizioni urbanistiche (e paesaggistiche) lo consentano,
la realizzazione di modesti volumi tecnici, ma solo nei
suddetti limiti e se strettamente necessari all’uso per il
quale sono destinati.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, possono
considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che sono
realizzati per esigenze tecnico-funzionali della costruzione
(per la realizzazione di impianti elettrici, idraulici,
termici o di ascensori) che non possono essere ubicati
all’interno di questa e che sono del tutto privi di propria
autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale. Si è,
quindi, escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di
fuori di tale ambito «al fine di negare rilevanza
giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica»
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.11.2014, n. 5428; Sez. VI,
29.01.2015, n. 406).
Facendo applicazione di tali principi, si deve osservare
che, nel caso di specie, l’appellante ha sostenuto la
strumentalità del manufatto rispetto all’immobile
principale, senza dimostrare, né la necessità tecnica di
creare a tal fine un così rilevante ingombro (di circa 55 mq
l’uno, di circa 125 mq l’altro e dell’altezza fino a 3,13
metri l’uno e fino a 4,50 metri l’altro), né che sussiste
l’impossibilità di ubicare tali impianti all’interno dei
locali già esistenti della costruzione principale (ovvero
anche all’aperto).
Va aggiunto, per completezza, che neanche potrebbe avere
rilievo, per giustificare la realizzazione dell’opera in
questione in assenza del necessario titolo abilitativo, la
sua destinazione pertinenziale.
Per principio consolidato, infatti, la pertinenza può essere
riconosciuta, ai fini edilizi, se vi è un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, e
(soprattutto) se l'opera pertinenziale ha una dimensione
ridotta e modesta rispetto alla cosa cui esso inerisce
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615), tale da
rendere l’opera priva di un autonomo valore di mercato e non
comportante un carico urbanistico o una alterazione
significativa dell'assetto del territorio (Consiglio di
Stato, Sezione VI, n. 406 del 29.01.2015).
Non può quindi ritenersi meramente pertinenziale, ai fini
del possesso dei necessari titoli abilitativi edilizi (e
paesaggistici), un’opera quando determina, come nella
fattispecie, un nuovo volume di consistenti dimensioni su
un’area diversa e ulteriore rispetto a quella già occupata
dal preesistente edificio principale (in termini, Consiglio
di Stato, Sezione IV, n. 4290 del 26.08.2014) (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 23.04.2019 n. 2577 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito temporaneo - Qualificazione del deposito
ex art. 183 T.U.A. - Onere della prova - Produttore rifiuti
- Raggruppamento di rifiuti - Condizioni - Tempi e sicurezze
- Fattispecie: abbandono di rifiuti in modo incontrollato in
un'area di una massa di macerie edili - Artt. 183 e 256
d.lgs. n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, l'onere
della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di
liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo,
fissate dall'art. 183 D.lgs. 03.04.2006, n. 152, grava sul
produttore dei rifiuti, in considerazione della natura
eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla
disciplina ordinaria.
Mentre, ricorre la figura del deposito temporaneo solo nel
caso di raggruppamento di rifiuti e del loro deposito
preliminare alla raccolta ai fini dello smaltimento per un
periodo non superiore all'anno o al trimestre (ove superino
il volume di 30 mc), nel luogo in cui gli stessi sono
materialmente prodotti o in altro luogo, al primo
funzionalmente collegato, nella disponibilità del produttore
e dotato dei necessari presidi di sicurezza
(Sez. 3, n. 50129 del 28/06/2018 - dep. 07/11/2018, D.) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 17.04.2019 n. 16716 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria - Emissioni in atmosfera -
Condotta di esercizio abusivo di attività produttiva di
emissioni in atmosfera - Artt. 256 e 279, d.lgs. n. 152/2006
- Fattispecie: esercizio di attività di lavorazione marmi e
ceramica, in assenza di autorizzazione alle emissioni in
atmosfera - Violazione delle semplici prescrizioni
autorizzative - Possesso dell'autorizzazione - Sanzione
amministrativa.
La condotta di esercizio abusivo di
attività produttiva di emissioni in atmosfera, è una
condotta prevista e punita dal comma 1 dell'art. 279, d.Lgs.
n. 152 del 2006, in quanto tale costituente tutt'ora reato,
laddove invece, il richiamo alla sanzionabilità
amministrativa, previsto dal comma 2-bis della citata
disposizione, è relativo alla sola violazione delle semplici
prescrizioni autorizzative, che evidentemente presuppongo il
possesso dell'autorizzazione, situazione non ravvisabile nel
caso di specie, in cui l'attività veniva svolta senza
l'autorizzazione prevista dalla legge.
Trova, quindi, applicazione il principio per cui la
contravvenzione prevista dall'art. 279, comma 1, del d.lgs.
03.04.2006, n. 152 è un reato proprio riferibile al "gestore
dell'attività" da cui provengono le emissioni, quale
soggetto obbligato a richiedere l'autorizzazione ai sensi
dell'art. 269 del citato d.lgs. n. 152 del 2006 (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 17.04.2019 n. 16669 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI -
URBANISTICA:
Modifiche che comportano la necessità di una
nuova effettuazione della VIA.
La necessità di
rinnovazione della VIA o della verifica di
assoggettabilità a VIA sorge solo nel caso
di modifiche che comportino la realizzazione
di un'opera radicalmente diversa da quella
già esaminata, che comporti il peggioramento
dell'impatto dell'opera stessa sull'ambiente.
---------------
nel rendere il giudizio di valutazione di
impatto ambientale e nell'effettuare la
verifica preliminare, l'amministrazione
esercita un'amplissima discrezionalità che,
si badi bene, non ha solo natura tecnica ma
ha anche natura amministrativa dovendo la
stessa amministrazione effettuare
l'apprezzamento degli interessi pubblici in
rilievo e la loro ponderazione rispetto
all'interesse all'esecuzione dell'opera.
Questa attività di apprezzamento e
bilanciamento dei contrapposti interessi è
sindacabile dal giudice amministrativo
soltanto in ipotesi di manifesta illogicità
o travisamento dei fatti, nel caso in cui
l'istruttoria sia mancata o sia stata svolta
in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo
sconfinamento del potere discrezionale.
---------------
24. Per quanto riguarda invece la ritenuta
necessità di procedere ad una nuova verifica
di assoggettabilità a VIA, si deve osservare
che, in base all’art. 24, comma 9-bis, del
d.lgs. n. 152 del 2006, solo le modifiche
sostanziali comportano la necessità di una
nuova effettuazione della valutazione. L’
art. 5, primo comma, lett. l-bis), del
d.lgs. n. 152 del 2006 stabilisce poi che si
ha modifica sostanziale di un progetto,
opera o impianto solo nel caso in cui la
variazione sia tale da incidere in maniera
significativa e negativa sull'ambiente o
sulla salute umana.
25. Applicando queste norme, la
giurisprudenza ha chiarito che la necessità
di rinnovazione della VIA o della verifica
di assoggettabilità a VIA sorge solo nel
caso di modifiche che comportino la
realizzazione di un'opera radicalmente
diversa da quella già esaminata, che
comporti il peggioramento dell'impatto
dell'opera stessa sull'ambiente (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 26.10.2010, n.
1142; id., sez. VI, 04.04.2008 n. 1414; TAR
Lazio Roma, sez. I, 15.07.2013, n. 6997).
...
28. Si possono
ora affrontare le specifiche questioni
sollevate nel primo motivo nel quale, come
visto, si evidenzia che l’Amministrazione
avrebbe effettuato valutazioni non adeguate
con riferimento all’impatto del traffico
veicolare, ed avrebbe adottato il
provvedimento finale positivo discostandosi
dai pareri espressi da ARPA e dal Comune
ricorrente e non attendendo il parere
richiesto al Ministero dell’Ambiente.
29. A questo proposito, si osserva
preliminarmente che, nel rendere il giudizio
di valutazione di impatto ambientale e
nell'effettuare la verifica preliminare,
l'amministrazione esercita un'amplissima
discrezionalità che, si badi bene, non ha
solo natura tecnica ma ha anche natura
amministrativa dovendo la stessa
amministrazione effettuare l'apprezzamento
degli interessi pubblici in rilievo e la
loro ponderazione rispetto all'interesse
all'esecuzione dell'opera. Questa attività
di apprezzamento e bilanciamento dei
contrapposti interessi è sindacabile dal
giudice amministrativo soltanto in ipotesi
di manifesta illogicità o travisamento dei
fatti, nel caso in cui l'istruttoria sia
mancata o sia stata svolta in modo
inadeguato, e sia perciò evidente lo
sconfinamento del potere discrezionale (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2018, n.
1240; id., 27.03.2017, n. 1392; TAR Lazio
Roma, sez. II, 26.11.2018, n. 11460)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 17.04.2019 n. 861 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Collaudo di opere pubbliche - Azione di garanzia per i vizi
e difetti dell'opera nei confronti dell'appaltatore -
Termini di decadenza e prescrizione - Art. 1667 c.c. -
Presupposti.
In tema di appalti, i termini di
decadenza e prescrizione per l'esperimento dell'azione di
garanzia per i vizi e difetti dell'opera, di cui all'art.
1667 c.c., nei confronti dell'appaltatore di opera pubblica,
iniziano a decorrere dall'approvazione del collaudo riguardo
ai vizi e difetti rivelatisi precedentemente o
contemporaneamente al suo esperimento, poiché è solo con il
collaudo che l'opera può dirsi formalmente accettata dalla
Pubblica Amministrazione, e tuttavia detto principio è
applicabile sempre che il collaudo sia avvenuto nel rispetto
dei termini previsti dalla legge (nella specie, n. 741 del
1981, art. 5, applicabile ratione temporis), poiché, in
mancanza, i suddetti termini di decadenza e prescrizione
decorrono dalla scadenza del termine previsto per il
collaudo, tranne che il committente dimostri che questo non
sia avvenuto per fatto imputabile all'impresa (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 15.04.2019 n. 10501 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cassazione:
la disciplina edilizia antisismica è sottratta alla legislazione regionale.
La disciplina edilizia antisismica e quella per le costruzioni in
conglomerato cementizio armato attengono alla sicurezza statica degli
edifici, rientrante nella competenza esclusiva dello Stato.
---------------
Dei rapporti tra la summenzionata disciplina regionale e la normativa
statale contenuta nel D.p.r. 380/2001 si è ripetutamente occupata la
giurisprudenza di questa Corte.
Si è così avuto modo di chiarire che, in ogni caso, le disposizioni
introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali fissati
dalla legislazione nazionale e, conseguentemente, devono essere interpretate
in modo da non collidere con i detti principi (Sez. 3, n. 28560 del
26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez. 3, n. 2017 del 25/10/2007 (dep. 2008),
Giangrasso, Rv. 238555; Sez. 3, n. 33039 del 15/06/2006, RM. in proc.
Moltisanti, Rv. 234935. Conf., ma con riferimento ad altre disposizioni
normative della Regione siciliana, Sez. 3, n. 4861 del 09/12/2004 (dep.
2005), Garufi, Rv. 230914; Sez. 3, n. 6814 del 11/01/2002, Castiglia V, Rv.
221427) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.04.2019 n.
15746). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sono da considerarsi "volumi tecnici" (la cui
realizzazione in difetto del permesso di costruire non integra la
contravvenzione di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380/2001) quei volumi
strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti
tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione alla quale si connettono, alla duplice condizione negativa che
tali impianti non possano trovare ubicazione, per evidenti ragioni di
funzionalità, entro il corpo dell'edificio asservito e che non vi sia
sproporzione, in termini di ingombro, tra tali volumi e le esigenze
effettivamente sussistenti.
---------------
Né
coglie nel segno la deduzione difensiva che invoca, comunque, l'applicazione
dell'art. 32, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, risultando evidente che l'opera
in esame non può configurarsi come volume tecnico.
Va ricordato che sono da considerarsi "volumi tecnici" (la cui
realizzazione in difetto del permesso di costruire non integra la
contravvenzione di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380/2001) quei volumi
strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti
tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione alla quale si connettono, alla duplice condizione negativa che
tali impianti non possano trovare ubicazione, per evidenti ragioni di
funzionalità, entro il corpo dell'edificio asservito e che non vi sia
sproporzione, in termini di ingombro, tra tali volumi e le esigenze
effettivamente sussistenti (Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Rv. 267289;
Sez. 3, n. 14281 del 04/02/2016, Rv. 266394) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.04.2019 n.
15746). |
APPALTI: Rti, imprese mandanti non decidono sui lavori.
Non possono agire di propria iniziativa.
In
assenza di specifica disciplina di gara che individui la prestazione
principale di un appalto, è vietato ai concorrenti definire di propria
iniziativa la scomposizione delle prestazioni; illegittimo ammettere un
raggruppamento verticale di imprese (Rti) se non è individuabile con
chiarezza quale sia la prestazione principale.
È quanto ha affermato il
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 05.04.2019 n. 2243 per un caso in cui la lex specialis della gara non conteneva una
specifica suddivisione delle prestazioni dedotte in contratto, non
distinguendo in particolare tra prestazione principale e secondaria. Si
poneva, quindi, il quesito se fosse legittimo che i concorrenti procedessero
di propria iniziativa alla scomposizione delle prestazioni.
La sentenza propende per la soluzione negativa giustificando la scelta in
ragione della disciplina legale della responsabilità delle imprese riunite
in associazione temporanea (Rti). Nel previgente ordinamento (art. 37, dlgs
163/2006, ma oggi art. 48, commi 2 e 5, dlgs 50/2016), nei raggruppamenti
verticali, le responsabilità dei concorrenti che si fanno carico delle parti
secondarie del servizio è circoscritta all'esecuzione delle prestazioni di
rispettiva competenza.
Ma se è così, hanno detto i giudici, non è possibile
rimettere alla loro libera scelta l'individuazione delle prestazioni
principali e di quelle secondarie (attraverso l'indicazione della parte del
servizio di competenza di ciascuno) perché questo comporterebbe l'elusione
della norma in materia di responsabilità solidale, prevista per la sola
mandataria nei raggruppamenti verticali (dove la mandataria esegue la
prestazione «principale») e per tutte nei raggruppamenti orizzontali (dove
l'apporto di competenza è in capo a tutte le imprese raggruppate, pro
quota).
Da ciò, hanno detto i giudici, deriva che la possibilità di ammettere a una
gara un raggruppamento di tipo verticale è legittima solo laddove la
stazione appaltante abbia preventivamente individuato negli atti di gara,
con chiarezza, le prestazioni «principali» e quelle «secondarie»,
fattispecie che non ricorreva nel caso in esame
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).
---------------
MASSIMA
5.2. E’ pacifico che la lex specialis della gara per cui è causa
non conteneva una specifica suddivisione delle prestazioni dedotte in
contratto, non distinguendo in particolare tra prestazione principale e
secondaria.
Non era indi consentito ai concorrenti di procedere di propria iniziativa
alla suddetta scomposizione.
Il divieto, come chiarito dalla giurisprudenza anche recente di questo
Consiglio di Stato (V, 14.05.2018, n. 2855; 07.12.2017, n. 5772; III,
09.05.2012, n. 2689), da cui non vi sono ragioni per discostarsi,
si
giustifica in ragione della disciplina legale della responsabilità delle
imprese riunite in associazione temporanea, dettata nel previgente
ordinamento della materia dall’art. 37, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006,
in base al quale nei raggruppamenti verticali, la responsabilità dei
concorrenti che si fanno carico delle parti secondarie del servizio è
circoscritta all’esecuzione delle prestazioni di rispettiva competenza, si
talché non è possibile rimettere alla loro libera scelta l’individuazione
delle prestazioni principali e di quelle secondarie (attraverso
l’indicazione della parte del servizio di competenza di ciascuno) e la
conseguente elusione della norma in materia di responsabilità solidale, in
assenza di apposita previsione nella disciplina di gara, e, oggi,
dall’analoga disciplina -qui applicabile- di cui all’art. 48, commi 2 e 5,
del d.lgs. n. 50 del 2016, disponenti, rispettivamente, che “Nel caso di
forniture o servizi, per raggruppamento di tipo verticale si intende un
raggruppamento di operatori economici in cui il mandatario esegue le
prestazioni di servizi o di forniture indicati come principali anche in
termini economici, i mandanti quelle indicate come secondarie; per
raggruppamento orizzontale quello in cui gli operatori economici eseguono il
medesimo tipo di prestazione; le stazioni appaltanti indicano nel bando di
gara la prestazione principale e quelle secondarie”, e che “L’offerta
degli operatori economici raggruppati o dei consorziati determina la loro
responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante, nonché
nei confronti del subappaltatore e dei fornitori. Per gli assuntori di
lavori scorporabili e, nel caso di servizi e forniture, per gli assuntori di
prestazioni secondarie, la responsabilita' e' limitata all'esecuzione delle
prestazioni di rispettiva competenza, ferma restando la responsabilita'
solidale del mandatario”.
Questa Sezione (sentenza n. 5772 del 2017, cit.) ha precisato, in
particolare, che la distinzione tra raggruppamenti verticali e orizzontali
non è puramente nominalistica, ma discende dalle concrete e specifiche
attribuzioni delle imprese associate, secondo il principio enunciato
dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza 13.06.2012, n.
22, a mente del quale “La distinzione tra a.t.i. orizzontali e a.t.i.
verticali [...] poggia sul contenuto delle competenze portate da ciascuna
impresa raggruppata ai fini della qualificazione a una determinata gara: in
linea generale, l’a.t.i. orizzontale è caratterizzata dal fatto che le
imprese associate (o associande) sono portatrici delle medesime competenze
per l’esecuzione delle prestazioni costituenti l’oggetto dell'appalto,
mentre l’a.t.i. verticale è connotata dalla circostanza che l’impresa
mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione prevalente,
diverse da quelle delle mandanti, le quali possono avere competenze
differenziate anche tra di loro, sicché nell'a.t.i. di tipo verticale
un’impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa
ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni secondarie
scorporabili”.
Con la conseguenza che la possibilità di ammettere a una gara un
raggruppamento di tipo verticale si rende attuabile solo laddove la stazione
appaltante abbia preventivamente individuato negli atti di gara, con
chiarezza, le prestazioni “principali” e quelle “secondarie”,
fattispecie che, come detto, non ricorre nel caso in esame.
Né rileva la circostanza che i modelli di domanda allegati al disciplinare
della gara per cui è causa prevedessero tale possibilità (conforme, Cons.
Stato, V, n. 2855 del 2018, cit.), e che Eu. non li abbia gravati.
Infatti, come visto, la questione si pone non al livello della teorica
ammissibilità o inammissibilità, in sé e per sé considerata, della
partecipazione alla gara di un raggruppamento di tipo verticale, bensì sul
piano, autonomo ancorché necessariamente presupposto, della presenza, o
meno, nella lex specialis, della suddivisione delle prestazioni in
principali e secondarie.
Di modo che, una volta acclarata l’inesistenza di tale suddivisione, a nulla
vale opporre la modalità della concreta strutturazione formale conferita a
tali modelli, che sono del tutto ininfluenti in tema di distinzione tra
prestazioni principali e secondarie e che non possono concorrere al fine di
evidenziare profili di ambiguità o contraddizioni nella formulazione delle
disposizioni della lex specialis sul punto, rilevanti ai fini
dell’applicazione del principio del favor partecipationis.
Essi modelli, infatti, costituendo un ausilio per l’operatore economico
concorrente alla gara predisposto dalla stazione appaltante, possono sì
essere astrattamente significativi in ordine al suo legittimo affidamento in
ordine alla rituale partecipazione alla procedura, ma non al punto da
incidere sul regime delle responsabilità nei confronti della stazione
appaltante in cui refluisce l’aspetto della modalità di partecipazione alla
gara secondo la tipologia del raggruppamento prescelto (che non dà luogo
ex se alla creazione di un soggetto autonomo e distinto dalle imprese
che lo compongono né a un loro rigido collegamento strutturale, sicché nelle
ATI orizzontali ciascuna delle imprese riunite è responsabile solidalmente
nei confronti della stazione appaltante, mentre nelle ATI verticali le
mandanti rispondono ciascuna per le prestazioni assunte e la mandataria
risponde in via solidale con ciascuna delle imprese mandanti in relazione
alle rispettive prestazioni secondarie, secondo quanto chiarito da Ad. Plen.
n. 22 del 2012, cit.).
Viene infatti in evidenza non il principio di favor partecipationis,
ma i principi, di pari rango, di efficacia, economicità ed efficienza
dell’azione amministrativa, che si concretano, in una procedura a evidenza
pubblica, nell’esigenza dell’amministrazione di ottenere, nel complesso, la
garanzia di una prestazione che si collochi al livello richiesto nella legge
di gara, secondo il ruolo operativo che ciascuna delle imprese associate si
è autonomamente assegnata in sede di partecipazione, e che, operando ex
ante, non può essere rimessa, come pure ritiene la ricorrente, alla sola
cauzione definitiva.
Per le stesse ragioni appena esposte è altresì ininfluente sia che le
società facenti parte del RTI Ci.Fo. fossero in possesso dei requisiti
previsti dalla lex specialis per partecipare alla gara anche in forma
orizzontale, in quanto non si tratta qui di stabilire in astratto la
possibilità di tali imprese di partecipare alla gara, bensì di verificare la
ritualità della modalità, evidentemente immodificabile (trattandosi di
elemento essenziale, anche a mezzo del soccorso istruttorio), con cui esse
vi hanno partecipato in concreto, sia la questione, di puro fatto, afferente
il rilevante distacco tra il punteggio conseguito dalle offerte delle due
partecipanti nella graduatoria di merito della procedura.
Quanto, infine, al principio della tassatività delle cause di esclusione, la
Sezione può limitarsi a richiamare quanto rilevato dal giudice di primo
grado, in ordine alla circostanza che la già evidenziata essenzialità della
corrispondenza tra suddivisione delle prestazioni da parte della stazione
appaltante e possibilità di partecipazione di un raggruppamento di tipo
verticale, direttamente prevista dal Codice dei contrati pubblici, legittima
l’integrazione ex lege delle regole di gara. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Reato di scarico di acque
reflue industriali - Officina meccanica e autolavaggio
veicoli - Natura di insediamenti produttivi - Assimilabilità
agli scarichi civili - Esclusione - Assenza di
autorizzazione o scaduta - Art. 137, d.lgs. n. 152/2006.
Lo scarico dei reflui provenienti da
impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di
autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, comma
primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque
essere assimiliate a quelle domestiche
(Sez. 3, n. 51889 del 21/07/2016; Sez. 3, n. 26543 del
21/05/2008; Sez. 3, n. 985 del 05/12/2003; Sez. 3, n. 5465
del 26/03/1999, secondo cui gli impianti di autolavaggio
hanno natura di insediamenti produttivi in quanto utilizzano
in grande quantità e continuità non solo detersivi ma anche
altri materiali che interagiscono nelle operazioni di
lavaggio dando luogo ad un inquinamento chimico ripetuto e
costante).
Ne consegue che non è possibile configurare
una assimilabilità degli stessi agli scarichi civili
provenienti da insediamenti abitativi e caratterizzati da
uso limitato di detersivi. Inoltre, l'art. 124, comma 8,
d.lgs. n. 152 del 2006, consente il mantenimento provvisorio
degli scarichi per i quali sia stato chiesto
"tempestivamente" il rinnovo dell'autorizzazione.
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Reato ambientale - Scarico di
acque reflue industriali senza autorizzazione -
Inapplicabilità della circostanza attenuante o diminuente
per successivo rilascio dell'autorizzazione -
Giurisprudenza.
Al reato di scarico di acque reflue
industriali senza autorizzazione non è applicabile la
circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale
tenuità di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., perché la
stessa è incompatibile con la natura contravvenzionale e di
pericolo della fattispecie di cui all'art. 137 D.Lgs. n. 152
del 2006, rispetto alla quale non trova applicazione nemmeno
la diminuente di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. in caso di
successivo rilascio dell'autorizzazione, in quanto il
conseguimento del titolo abilitativo non comporta di per sé
l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze del reato
ambientale, avendo solo l'effetto di rendere lecita la
condotta successiva
(Sez. 3, n. 3199 del 02/10/2014) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 04.04.2019 n. 14762 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Effluenti di allevamento - Fertirrigazione -
Presupposti - AGRICOLTURA E ZOOTECNIA - Utilizzazione
agronomica - Esistenza effettiva di colture - D.M.
25/02/2016 - Giurisprudenza.
Ai fini della sottrazione delle
deiezioni animali dalla normativa sui rifiuti è necessario
che la loro utilizzazione in agricoltura avvenga nel
rispetto delle condizioni di liceità indicate dal D.M.
07.04.2006 (oggi D.M. 25.02.2016) e della normativa
regionale (Sez. 3,
n. 9104 del 15/01/2008, Manunta).
La pratica della fertirrigazione, inoltre,
prevede l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree
interessate dallo spandimento, nonché l'adeguatezza di
quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di
distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture e, in
secondo luogo, l'assenza di dati sintomatici di una
utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione
(Sez. 3, n. 40782 del 06/05/2015, Valigi) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 04.04.2019 n. 14760 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Abbandono di rifiuti - Obbligo giuridico di
impedire l'evento - Esclusione - Condotta omissiva da parte
del proprietario del terreno - Responsabilità in caso di
inerzia - Presupposti e limiti - Inottemperanza
all'ordinanza di rimozione - Artt. 255 e 256 d.lgs. n.
152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, la semplice inerzia
conseguente all'abbandono da parte di terzi o la
consapevolezza, da parte del proprietario del fondo, di tale
condotta da altri posta in essere, non sono idonee a
configurare il reato e ciò sul presupposto che una condotta
omissiva può dare luogo a ipotesi di responsabilità solo nel
caso in cui ricorrano gli estremi del comma secondo
dell'art. 40 cod. pen., ovvero sussista l'obbligo giuridico
di impedire l'evento.
A tali conclusioni deve pervenirsi anche nel caso in cui il
proprietario del terreno non si attivi per la rimozione dei
rifiuti, in quanto la responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che
questi può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti.
Inoltre, l'obbligo giuridico di impedire l'evento, non può
certamente essere ravvisato nell'inottemperanza
all'ordinanza di rimozione, provvedimento successivo
all'abbandono, che presuppone, infatti, il previo
accertamento dello stesso e l'inosservanza del quale
configura autonomo reato, sanzionato dall'art. 255, comma 3,
d.lgs. 152/2006 (cfr.
Sez. 3, n. 39430 del 12/06/2018, Pavan).
...
RIFIUTI - Mancata indicazione degli articoli di legge
violati - Irrilevanza - Esercizio del diritto di difesa.
In materia di rifiuti, la mancata
indicazione degli articoli di legge violati è irrilevante
quando il fatto addebitato sia puntualmente e
dettagliatamente esposto, in modo tale che non possa
insorgere alcun equivoco sul pieno esercizio del diritto di
difesa (Sez. 3, n.
5469 del 05/12/2013 (dep. 2014), Russo ed altre prec. conf.)
e, nei ricorsi, la lesione dell'esercizio del
diritto di difesa viene apoditticamente censurata, senza
tuttavia fornire alcuna indicazione concreta (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.03.2019 n. 13606 - link a www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA LAVORO: Cassazione:
al direttore dei lavori compete l'alta sorveglianza delle opere.
Tale sorveglianza, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera
sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta
comunque il controllo della realizzazione dell'opera nelle sue varie fasi.
Con l'ordinanza 14.03.2019 n. 7336, la II
Sez. civile della Corte di Cassazione ha ribadito il suo costante
orientamento secondo cui, “in tema di responsabilità conseguente a vizi o
difformità dell'opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del
committente, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni
involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le
proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente
all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento
deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza,
ma alla stregua della "diligentia quam in concreto"; rientrano, pertanto,
nelle obbligazioni del direttore dei lavori l'accertamento della conformità
sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, sia delle
modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della
tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a
garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi”.
Pertanto, non si sottrae a responsabilità “il professionista che ometta di
vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di
controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al
committente; in particolare l'attività del direttore dei lavori per conto
del committente si concreta nell'alta sorveglianza delle opere, che, pur non
richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento
di operazioni di natura elementare, comporta comunque il controllo della
realizzazione dell'opera nelle sue varie fasi e pertanto l'obbligo del
professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti
diretti con gli organi tecnici dell'impresa, da attuarsi in relazione a
ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell'arte e la
corrispondenza dei materiali impiegati”
(commento tratto da
www.casaeclima.com).
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SENTENZA
IV. L'ottavo motivo del ricorso R.G. 3038/2014 deduce la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1176 cpv., 1218, 2226 e 2236 c.c., quanto
all'adempimento della prestazione dovuta dal direttore dei lavori architetto
Ma.Gi..
IV.1. Anche questa censura è fondata.
La Corte d'Appello di Torino ha sostenuto che, quanto agli accertati vizi e
difformità "di poco momento" dei lavori edili eseguiti dall'impresa
Scafidi (avendo compromesso meno di 1/10 del totale delle opere), non vi
fosse corresponsabilità del direttore dei lavori, non essendo lo stesso "tenuto
ad essere costantemente presente in cantiere e a rilevare tutto quanto
eseguito (come al microscopio)", ed essendo perciò da imputare soltanto
all'appaltatore le manchevolezze accertate.
I ricorrenti evidenziano come tali difetti accertati consistano nel cattivo
funzionamento della fossa biologica e nell'errata contabilizzazione dello
sbancamento del cortile.
Va qui ribadito il costante orientamento di questa Corte (del quale non ha
tenuto conto la sentenza impugnata, non avendo svolto la corretta
sussunzione delle risultanze di causa in tali principi giurisprudenziali),
secondo cui, in tema di responsabilità conseguente a vizi o
difformità dell'opera appaltata, il direttore dei lavori per conto
del committente, essendo chiamato a svolgere la propria attività in
situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, deve
utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare,
relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il
committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo
comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto
di diligenza, ma alla stregua della "diligentia quam in concreto";
rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori
l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione
dell'opera al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al
capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i
necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera
senza difetti costruttivi.
Non si sottrae, dunque, a responsabilità il professionista
che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo,
nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di
riferirne al committente; in particolare l'attività del direttore dei
lavori per conto del committente si concreta nell'alta
sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e
giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura
elementare, comporta comunque il controllo della realizzazione dell'opera
nelle sua varie fasi e pertanto l'obbligo del professionista di verificare,
attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici
dell'impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono
state osservate le regole dell'arte e la corrispondenza dei materiali
impiegati (Cass. Sez. 2,
03/05/2016, n. 8700; Cass. Sez. 2, 24/04/2008, n. 10728; Cass. Sez. 2,
27/02/2006, n. 4366; Cass. Sez. 2, 20/07/2005, n. 15255). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva - Esistenza di un precedente giudicato
assolutorio – Principio di autonomia dei giudizi – Progresso
edificatorio – Fatto nuovo – Fattispecie.
In tema di lottizzazione abusiva,
l’esistenza di un precedente giudicato assolutorio non
interdice né condiziona le valutazioni che in un diverso
successivo processo il giudice deve compiere relativamente
allo stesso tipo di reato riferito alla stessa area, quando
per effetto della costruzione di altri fabbricati e di nuove
opere di urbanizzazione abusiva i medesimi luoghi abbiano
subito una trasformazione ulteriore rispetto allo stato che
costituiva l’oggetto del precedente giudizio.
Infatti quando ciò accade, indipendentemente dal principio
di autonomia dei giudizi, ‘‘il progresso edificatorio“ e
degli interventi di urbanizzazione abusivi nella stessa
area, da un punto di vista processuale configura un fatto
nuovo (fattispecie relativa ad un’area di campagna che a
partire dagli anni ’90 al 2013, attraverso una serie
inarrestata di lottizzazioni cartolari e materiali, in poco
tempo aveva di fatto trasformato la destinazione urbanistica
a verde agricolo, impressa dal PRG, in residenziale, con
tanto di impianti e di opere di urbanizzazione al servizio
delle abitazioni e di nuova toponomastica. Una precedente
sentenza, che aveva ad oggetto lo stato dei luoghi nel 2005,
non aveva riconosciuto la sussistenza di una lottizzazione
abusiva).
...
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reato di violazione dei
sigilli connesso alla prosecuzione della costruzione abusiva
– Computo della prescrizione – Regime probatorio.
Ai fini del computo della prescrizione
del reato di violazione dei sigilli connesso alla
prosecuzione della costruzione abusiva vale il medesimo
regime probatorio; è pacifico, secondo la giurisprudenza
della Corte di Cassazione, che grava sull'imputato che
voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto o in
aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di
causa, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei
quali è il solo a potere concretamente disporre, per
determinare la data di inizio del decorso del termine di
prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con quella
di esecuzione dell'opera incriminata.
Tale onere probatorio, peraltro, non può ritenersi assolto
attraverso fonti dichiarative ma presuppone la dimostrazione
attraverso elementi di prova documentali -fatture di
acquisto di materiali edili; rilievi fotografici attestanti
lo stato dei luoghi alla data della asserita retrodatazione;
etc.- che consentano di supportare la prospettazione
difensiva in ordine all’epoca di consumazione del reato in
data antecedente a quella risultante dalla contestazione
mossa dal PM (TRIBUNALE
di Palermo, Sez. III penale,
sentenza 19.02.2019 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al
fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento
edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un
apprezzamento globale delle opere medesime, atteso che la considerazione
atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere in modo
adeguato l’impatto effettivo degli interventi compiuti.
I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati cioè in maniera
“frazionata”.
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Di seguito si formulano talune considerazioni specifiche sulle opere
realizzate anche “singolarmente considerate”, in particolare circa la
modifica di alcuni vani porta-finestra in finestra, e viceversa e sulle
canne fumarie.
Sul primo aspetto, relativo alla modifica dei prospetti, occorre operare una
distinzione tra i concetti di sagoma e prospetto.
Il primo, riguarda la conformazione planivolumetrica della
costruzione e il suo perimetro, considerato in senso verticale e
orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi
comprese le strutture perimetrali con gli oggetti e gli sporti; il
secondo individua gli sviluppi in verticale dell’edificio e quindi la
facciata dello stesso, rientrando nella fattispecie anche le aperture
presenti sulle pareti esterne. Attengono al prospetto gli interventi che
modificano l’originaria conformazione estetico architettonica dell’edificio,
realizzati sulla facciata o sulle pareti esterne del fabbricato, senza
superfici sporgenti.
La modifica dei prospetti, pertanto, deve considerarsi quale intervento
edilizio autonomo, riconducibile (sempre avendo riguardo alla disciplina
applicabile applicando il principio “tempus regit actum”), al “genus” della
ristrutturazione edilizia, riscontrabile in fattispecie quali apertura di
nuove finestre, chiusura di quelle preesistenti e loro apertura in altre
parti; nella apertura di una nuova porta di ingresso sulla facciata
dell’edificio o comunque su una parete esterna dello stesso; nella
trasformazione di vani finestra in altrettante porte–finestre..
Al contrario, non sarebbe da ricondursi a tale tipologia di intervento tutto
ciò che, pur riguardando la facciata dell’edificio, non ha rilievo edilizio,
o si concretizza nel rinnovamento o nella sostituzione delle finiture
dell’immobile, nell’integrazione o nel mantenimento in efficienza degli
impianti tecnologici esistenti, o che si sostanzia in interventi interni al
fabbricato.
Dunque, gli interventi comportanti modifiche dei prospetti descritti nella
fattispecie rientrano nella tipologia, applicabile “ratione temporis”, della
ristrutturazione edilizia e, in quanto tali, richiedono il rilascio
del permesso di costruire.
---------------
Sul tema “canne fumarie”, e sulla necessità di un permesso di costruire
qualora l’impatto sia significativo, va rammentata la giurisprudenza
amministrativa formatasi sul punto.
Invero, è necessario il previo rilascio del permesso di costruire,
rientrandosi nella categoria dei lavori di ristrutturazione edilizia
di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001,
realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, qualora tali
strutture non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese evidenza
rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile e non possano
considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e
aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla
preesistente struttura dell'immobile.
Si ritiene occorrente il permesso di costruire tutte le volte in cui venga
in rilievo un intervento il quale, per dimensioni, altezza e conformazione,
risulti incidere in modo significativo sul prospetto e sulla sagoma della
costruzione sulla quale la canna fumaria è installata; mentre soltanto
l’intervento di mera sostituzione di una canna fumaria (ma non è questo il
nostro caso), con le stesse dimensioni e identica localizzazione rispetto
alla precedente, va considerato di manutenzione straordinaria, ai sensi
dell’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
4.2. Sulla qualificazione da dare agli interventi eseguiti, inerenti, giova
rammentarlo, alla realizzazione di:
- “manufatto in legno di mt. 3,00 x 4,00 adibito a deposito
attrezzi, legnaia in muratura di mt. 3,00 x 0,67,
- modifica di alcuni vani porta-finestra in finestra e viceversa,
- sul prospetto ovest due canne fumarie di cui una in muratura e
l’altra in rame,
- sul prospetto est una struttura orizzontale in legno di mt. 7,40
x 4,30 su un lato e mt. 3,40 x 1,40 sull’altro adibita a tettoia e terrazza,
- strada di mt. 135 circa, piazzale in betonelle, marciapiede lungo
il perimetro dell’edificio“,
in termini generale va ricordato che l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R.
n. 380 del 2001, nel testo applicabile “ratione temporis” alla
fattispecie in esame, dispone che "interventi di ristrutturazione
edilizia" (sono) gli interventi rivolti a trasformare gli organismi
edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e (ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente), fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento
alla normativa antisismica.
L’art. 10 del t.u. edilizia, nel testo applicabile “ratione temporis”,
stabilisce a sua volta che “costituiscono interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di
costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di
ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia
[che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e)] che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso”.
Ciò premesso sul piano normativo, sempre in via preliminare va considerato
che il TAR ha correttamente preso in esame dette opere, realizzate su
un’area assoggettata a vincolo paesistico, nel loro “insieme sistematico”,
che porta “ad un organismo in tutto od in parte diverso dal precedente”
incidendo in modo tutt’altro che irrilevante sulla consistenza volumetrica,
sulla sagoma e sui prospetti dell’edificio preesistente, confermando nella
sostanza la qualificazione che ne aveva dato l’Amministrazione comunale.
Questo perché, prima di tutto, al fine di valutare l’incidenza sull’assetto
del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di
opere, va compiuto un apprezzamento globale delle opere medesime, atteso che
la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di
comprendere in modo adeguato l’impatto effettivo degli interventi compiuti.
I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati cioè in maniera “frazionata”.
Essi, al contrario, nel –peculiare, invero- contesto qui in discussione,
debbono essere vagliati in un quadro di insieme, e non segmentato.
Ciò non toglie che si possano, qui di seguito, formulare talune
considerazioni specifiche sulle opere realizzate anche “singolarmente
considerate”, in particolare circa la modifica di alcuni vani
porta-finestra in finestra, e viceversa, profilo sul quale sembra
appuntarsi l’attenzione degli appellanti, specie in memoria, e sulle
canne fumarie.
Sul primo aspetto, relativo alla modifica dei prospetti, occorre operare una
distinzione tra i concetti di sagoma e prospetto. Il primo, riguarda la
conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro,
considerato in senso verticale e orizzontale, ovvero il contorno che viene
ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli
oggetti e gli sporti; il secondo individua gli sviluppi in verticale
dell’edificio e quindi la facciata dello stesso, rientrando nella
fattispecie anche le aperture presenti sulle pareti esterne. Attengono al
prospetto gli interventi che modificano l’originaria conformazione estetico
architettonica dell’edificio, realizzati sulla facciata o sulle pareti
esterne del fabbricato, senza superfici sporgenti.
La modifica dei prospetti, pertanto, deve considerarsi quale intervento
edilizio autonomo, riconducibile (sempre avendo riguardo alla disciplina
applicabile applicando il principio “tempus regit actum”), al “genus”
della ristrutturazione edilizia, riscontrabile in fattispecie quali apertura
di nuove finestre, chiusura di quelle preesistenti e loro apertura in altre
parti; nella apertura di una nuova porta di ingresso sulla facciata
dell’edificio o comunque su una parete esterna dello stesso; nella
trasformazione di vani finestra in altrettante porte–finestre (in tema di
modifiche di prospetti e necessità di permesso di costruire v. Cass. pen. nn.
921/2017, 20846/2015, 30575/2014, 38338/2013, 834/2008).
Al contrario, non sarebbe da ricondursi a tale tipologia di intervento tutto
ciò che, pur riguardando la facciata dell’edificio, non ha rilievo edilizio,
o si concretizza nel rinnovamento o nella sostituzione delle finiture
dell’immobile, nell’integrazione o nel mantenimento in efficienza degli
impianti tecnologici esistenti, o che si sostanzia in interventi interni al
fabbricato.
Ma non è questo il nostro caso e, sotto detta angolazione, come rilevato
sopra al p. 1., in tema di opere interne e impianti tecnologici
(alloggiamento dell’autoclave e della caldaia), il TAR ha accolto in parte i
ricorsi, con statuizioni sulle quali è sceso il giudicato.
Dunque, gli interventi comportanti modifiche dei prospetti descritti nella
fattispecie rientrano nella tipologia, applicabile “ratione temporis”,
della ristrutturazione edilizia e, in quanto tali, richiedono il rilascio
del permesso di costruire, sicché le sentenze impugnate, sul punto, sono
corrette e vanno confermate.
L’intervento di modifica di alcuni vani porta–finestra in finestra e
viceversa, già di per sé qualificabile come intervento di ristrutturazione
da assoggettare a permesso di costruire, è stato accompagnato, come si è
detto sopra, da una serie di opere ulteriori che, come si è anticipato, il
TAR ha correttamente considerato nel loro insieme.
In relazione al principio “tempus regit actum” non può quindi trovare
applicazione la sopravvenuta “normativa mitigatrice” di cui al d.P.R.
n. 31/2017, salve rimanendo ovviamente eventuali iniziative autonome che
parte appellante riterrà di assumere alla luce della normativa sopravvenuta
più favorevole.
Sul tema “canne fumarie”, e sulla necessità, sempre “ratione
temporis”, di un permesso di costruire qualora l’impatto sia
significativo, va rammentata la giurisprudenza amministrativa formatasi sul
punto.
Per Cons. Stato, VI, n. 553 del 2016, è necessario il previo rilascio del
permesso di costruire, rientrandosi nella categoria dei lavori di
ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d),
del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi
ed impianti, qualora tali strutture non si presentino di piccole dimensioni,
siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma
dell'immobile e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio,
ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale
assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile.
Si ritiene occorrente il permesso di costruire tutte le volte in cui venga
in rilievo un intervento il quale, per dimensioni, altezza e conformazione,
risulti incidere in modo significativo sul prospetto e sulla sagoma della
costruzione sulla quale la canna fumaria è installata; mentre soltanto
l’intervento di mera sostituzione di una canna fumaria (ma non è questo il
nostro caso), con le stesse dimensioni e identica localizzazione rispetto
alla precedente, va considerato di manutenzione straordinaria, ai sensi
dell’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Data l’incidenza delle canne fumarie e l’esigenza di valutare gli interventi
nell’insieme, dunque, la statuizione del TAR sul punto risulta corretta
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.02.2019 n. 902 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini
urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di
modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio
i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”,
ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della
funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne
risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che,
a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un
manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la
creazione di un "nuovo volume".
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale
occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente
efficacia equivalente) quando si tratti di un "manufatto edilizio".
Fatta salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi
manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su
un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera come, ad esempio, una
tettoia, che ne alteri la sagoma.
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Nemmeno può poi trovare accoglimento la deduzione secondo la quale, nel caso
in esame, circa il deposito attrezzi, la legnaia e la tettoia, verrebbero in
considerazione opere di natura pertinenziale.
Vengono invece in rilievo manufatti che, per consistenza e tipologia, hanno
comportato una trasformazione del territorio e del suolo non irrilevante e
che in modo corretto sono stati fatti ricadere nella categoria degli
interventi che richiedono il permesso di costruire ai sensi dell’art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
In proposito, più volte questo Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra
il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche
sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini
urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di
modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio
i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et
similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni
e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto
all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal
che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica (cfr.
Cons. St., Sez. VI, 02.01.2018, n. 24, 02.02.2017, n. 694, 04.01.2016, n.
19, 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012).
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che,
a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un
manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la
creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n.
615, cit.).
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale
occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente
efficacia equivalente) quando si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr.
Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952). Fatta salva una diversa normativa regionale o
comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia
realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una
qualsiasi opera come, ad esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Esaminando da vicino la fattispecie, anche alla luce della documentazione in
atti, il carattere pertinenziale delle opere sembra escluso proprio in
ragione delle caratteristiche dei manufatti e della considerazione e
valutazione degli stessi compiuta in maniera globale e unitaria dalla
pubblica autorità.
Evidente, poi, la trasformazione del territorio e, comunque, l’alterazione
dello stato dei luoghi legata alla realizzazione di strada, marciapiedi e
piazzale.
Di qui, la correttezza della decisione comunale, avallata nelle sentenze
impugnate, di applicare la sanzione della demolizione di cui all’art. 31 del
t.u. n. 380 del 2001 (a differenza di quanto sostiene la parte appellante,
la quale invoca, implicitamente ma non per questo meno sicuramente, la
irrogazione di una sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37 del t.u.
dell’edilizia, considerando inapplicabile il regime sanzionatorio di cui
all’art. 31 del t.u. medesimo)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.02.2019 n. 902 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
INCARICHI
PROGETTUALI: Prestazione
professionale senza iscrizione all'Albo: niente compenso.
Cassazione: è irrilevante la circostanza che l’elaborato sia controfirmato
da un altro professionista competente in materia.
Con l'ordinanza 24.01.2019 n. 2038, la Corte di
Cassazione -Sez. II civile- ha confermato che l'esecuzione di una
prestazione d'opera professionale di natura intellettuale, effettuata da chi
non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo a nullità
assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di
qualsiasi effetto, in contrario non rilevando la circostanza che il progetto
dell'opera realizzando risulti redatto da altro professionista (un
ingegnere) cui quello incaricato (un geometra) si sia al riguardo rivolto,
dal personale possesso del titolo abilitante da parte di quest'ultimo
dipendendo la validità del negozio.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale della suprema Corte, ricorda la
sentenza, “la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra
in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri e degli
architetti sono illegittime, cosicché a rendere legittimo un progetto
redatto da un geometra non rileva che esso sia controfirmato o vistato da un
ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e
diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve
essere, altresì, titolare della progettazione, trattandosi di incombenze che
devono essere inderogabilmente affidate dal committente al professionista
abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le
relative responsabilità”
(commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
10.
Con il quinto motivo, il ricorrente Lo.Sa., lamentando la violazione
e l'erronea interpretazione ed applicazione dell'art. 16 del r.d. n. 274 del
1929, dell'art. 17 della l. n. 64 del 1974, dell'art. 2 della l. n. 1086 del
1981 nonché degli artt. 1418 e 2231 c.c., in relazione all'art. 360, n. 3,
c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte
d'appello ha rigettato la domanda riconvenzionale proposta ritenendo che il
contratto di prestazione d'opera professionale stipulato da un geometra,
tutte le volte in cui il progetto prevede l'adozione, anche in minima parte,
di strutture in cemento armato in una futura costruzione civile, è nullo ai
sensi dell'art. 1418 c.c., per violazione di una norma imperativa, e non dà
diritto ad alcun compenso, laddove, al contrario, in base alle norme
previste dal r.d. n. 274 del 1929, che disciplina le competenze
professionali del geometra, dalla l. n. 144 del 1949, che ha approvato la
relativa tariffa, dal r.d. n. 2229 del 1939, dalla successiva l. n. 1086 del
1971 e dalla l. n. 64 del 1964, rientra nella competenza dei geometri anche
la progettazione di costruzioni di cemento armato, purché, secondo
un'indagine da svolgere caso per caso, tali costruzioni, sotto il profilo
tecnico-qualitativo, rientrino, per i problemi tecnici che implicano, nella
loro competenza professionale, al pari della direzione dei relativi lavori,
e che, secondo il criterio economico-quantitativo, non comportino pericoli
per l'incolumità pubblica.
11. Il motivo è infondato.
Il ricorrente, infatti, ha riproposto argomenti già più volte esaminati e
disattesi dalla giurisprudenza civile di questa Corte,
la quale ha costantemente evidenziato come ai geometri sia
solo consentita, ai sensi della norma contenuta nell'art. 16, lett. m), del
r.d. n. 274 del 1929, la progettazione, direzione e vigilanza di modeste
costruzioni civili, con esclusione in ogni caso di opere che prevedono
l'impiego di strutture in cemento armato, a meno che non si tratti di
piccoli manufatti accessori, nell'ambito di fabbricati agricoli o destinati
alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di
calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per
l'incolumità pubblica.
Peraltro, trattandosi di una scelta inequivoca del legislatore dettata da
evidenti ragioni di pubblico interesse, i limitati margini
di discrezionalità accordati all'interprete attengono soltanto alla
valutazione dei requisiti della modestia delle costruzioni, della non
necessità di complesse operazioni di calcolo ed all'assenza di implicazioni
per la pubblica incolumità, mentre invece, per l'altra condizione,
costituita dalla natura di annesso agricolo o industriale agricolo dei
manufatti, eccezionalmente progettabili dagli anzidetti tecnici anche nei
casi di impiego di cemento armato, non vi sono margini di sorta, attesa la
chiarezza e tassatività del precetto normativo, esigente un preciso
requisito (la suddetta destinazione), che o c'è o non c'è.
Disattesa, per le suesposte considerazioni, la possibilità di
un'interpretazione estensiva della citata disposizione, deve altresì
escludersi, ai sensi dell'art. 14 disp. gen., l'applicabilità analogica
della deroga, contenuta nell'art 16, lett. m), del r.d. cit., al generale
divieto di progettazione di opere in cemento armato, in considerazione della
evidenziata natura eccezionale della norma, che pertanto non si presta, de
iure condito, ad adattamenti di tipo "evolutivo", quale che sia la
meritevolezza delle esigenze al riguardo prospettate.
Va ancora precisato, per completezza, che di nessun apporto alla suddetta
tesi è il richiamo alle previsioni contenute nei testi normativi
disciplinanti le costruzioni in cemento armato e quelle nelle zone sismiche,
considerato che sia l'art. 2 della l. n. 1086 del 1971, sia l'art. 17 della
l. n. 64 del 1974 fanno riferimento, per quanto attiene alla progettazioni
in questione da parte delle varie categorie di professionisti, ai limiti
delle rispettive competenze, così chiaramente rinviando, senza introdurre
autonomi ed innovativi criteri attributivi di competenza, alle previgenti
rispettive normative professionali di riferimento, tra le quali, dunque, per
quanto riguarda i geometri, quella in precedenza esaminata, che è rimasta
immutata (Cass. n. 19292 del 2009; conf., Cass. n. 27441 del 2006; Cass. n.
6649 del 2005; Cass. n. 3021 del 2005; Cass. n. 5961 del 2004; Cass. n.
15327 del 2000; Cass. n. 5873 del 2000; Cass. n. 3046 del 1999; Cass. n.
1157 del 1996).
Ne consegue la nullità del contratto di affidamento della
direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la
progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento
armato, trattandosi di attività demandata agli ingegneri, attese le limitate
competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929
(Cass. n. 5871 del 2016; Cass. n. 19989 del 2013, per cui
il contratto di progettazione e direzione dei lavori relativo a costruzioni
civili che adottino strutture in cemento armato stipulato da un geometra
anteriormente all'abrogazione -ad opera del d.lgs. n. 212 del 2010- del r.d.
n. 2229 del 1939, è nullo in quanto contrario a norme imperative, sul
rilievo che la menzionata abrogazione, comportando l'introduzione di una
disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa previgente,
non ha prodotto effetti retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione
degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non ha, dunque,
influito sulla invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in
cui lo stesso è stato concluso).
La decisione impugnata è, dunque, sul punto giuridicamente corretta: la
corte d'appello, infatti, dopo aver accertato, in fatto, che l'edificio
progettato dal ricorrente era destinato ad abitazione e richiedeva la
realizzazione di opere in cemento armato, ha giustamente ritenuto la nullità
del relativo contatto trattandosi di progetto redatto da un geometra in
materia estranea alla relativa competenza professionale.
...
14.
Con il settimo motivo, il ricorrente Lo.Sa., lamentando la violazione
e l'erronea interpretazione ed applicazione dell'art. 16 del r.d. n. 274 del
1929, dell'art. 17 della l. n. 64 del 1974, dell'art. 2 della l. n. 1086 del
1981 nonché degli artt. 1418 e 2231 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3
c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte
d'appello, in accoglimento dell'eccezione di nullità contrattuale, ha
rigettato la domanda riconvenzionale proposta ritenendo irrilevante che
l'attività di progettazione e di direzione dei lavori delle strutture in
cemento armato fosse stata eseguita, in accordo con i committenti,
dall'arch.
Da., laddove, in realtà, ove il tecnico laureto abbia assunto, in modo
esplicito, sia nei confronti del committente privato, che della pubblica
amministrazione, la responsabilità per tutti quei profili che nell'ottica
della tutela della pubblica incolumità richiedono specificamente il suo
intervento, la normativa di legge sulle competenze professionali non può
dirsi violata.
15. Il motivo è infondato.
Escluso, infatti, per quanto in precedenza esposto, ogni rilievo ai fatti
che la sentenza non ha espressamente rappresentato quali oggetto del suo
accertamento, non avendo il ricorrente dedotto il come e il quando ne avesse
fatto allegazione nel corso del giudizio di merito, la Corte non può che
ribadire il principio per cui il progetto redatto da un geometra in materia
riservata alla competenza professionale degli ingegneri è illegittimo, a
nulla rilevando né che sia stato controfirmato da un ingegnere, né che un
ingegnere abbia eseguito i calcoli del cemento armato e diretto le relative
opere, perché è il professionista competente che deve essere, altresì,
titolare della progettazione, assumendosi la relativa responsabilità.
Ne consegue che, nella suddetta ipotesi, il rapporto tra il geometra ed il
cliente è radicalmente nullo ed al primo non spetta alcun compenso per
l'opera svolta, ai sensi dell'art. 2231 c.c. (Cass. n. 6402 del 2011).
È appena il caso di ricordare che nell'ambito della disciplina normativa
sopra evidenziato, dal quale emerge una chiara ripartizione di competenze
tra geometri ed altri professionisti in riferimento alla progettazione ed
alla direzione di opere relative a costruzioni ed edifici, trova fondamento
l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, dal quale non vi sono
ragioni per discostarsi, secondo cui la progettazione e la direzione di
opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza
professionale degli ingegneri e degli architetti sono illegittime, cosicché
a rendere legittimo un progetto redatto da un geometra non rileva che esso
sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i
calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il
professionista competente che deve essere, altresì, titolare della
progettazione, trattandosi di incombenze che devono essere inderogabilmente
affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio
statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
Anche per tale ragione, dunque, correttamente la sentenza impugnata ha
concluso per la nullità del contratto (Cass. n. 3021 del 2005, secondo cui, per il disposto dell'art. 2231 c.c., l'esecuzione di una
prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi
non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo a nullità
assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di
qualsiasi effetto, in contrario non rilevando la circostanza che il progetto
dell'opera realizzando risulti redatto da altro professionista (nel caso, un
ingegnere) cui quello incaricato (nel caso, un geometra) si sia al riguardo
rivolto, dal personale possesso del titolo abilitante da parte di quest'ultimo
dipendendo la validità del negozio). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Il
promissario acquirente si rifiuta legittimamente di perfezionare l'atto di
trasferimento dell'appartamento privo della certificazione di abitabilità..
Il rifiuto del promissario acquirente di stipulare
il contratto di compravendita definitivo di un immobile privo dei
certificati di agibilità, abitabilità e di conformità alla concessione
edilizia, anche se il mancato rilascio dipende dall'inerzia del Comune, è
giustificato in quanto l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà
dell'immobile idoneo ad assolvere alla funzione economico-sociale e a
soddisfare bisogni che inducono all'acquisto, per cui tali certificati
risultano essenziali.
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Con l'unico motivo di ricorso si lamenta la falsa applicazione ed
estensione al contratto preliminare delle norme disciplinanti il contratto
di compravendita, in particolare degli artt. 1470 e 1477 c.c., in relazione
all'art. 360, 1° comma, n. 3 c.p.c..
Afferma la ricorrente che la Corte territoriale ha errato nell'applicare al
caso di specie le predette norme che, in quanto dettate per il contratto di
compravendita, possono operare solo a seguito della stipulazione del
definitivo, e non anche per effetto della conclusione del contratto
preliminare.
Le obbligazioni gravanti sul venditore, tra le quali rientra anche quella
della consegna della cosa oggetto della compravendita, dei titoli e dei
documenti relativi alla proprietà della cosa venduta, vanno eseguite al
momento della stipula del definitivo, non potendosene esigere l'adempimento
nella fase precedente.
Il ricorso deve essere rigettato.
In tal senso rileva che, con accertamento in fatto i i giudici di appello
hanno ritenuto che la ricorrente avesse garantito la totale regolarità
urbanistica dell'immobile, e che quindi "avrebbe dovuto fornire al
promissario acquirente la documentazione attestante tale regolarità",
documentazione in cui rientra inequivocabilmente anche il certificato di
abitabilità, ritenendo che tale obbligo fosse consequenziale all'assunzione
della garanzia quanto alla regolarità urbanistica del bene.
Peraltro è consolidato orientamento di questa Corte quello per cui
il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita
definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di
agibilità e di conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato
rilascio dipende da inerzia del Comune -nei cui confronti, peraltro, è
obbligato ad attivarsi il promittente venditore- è giustificato, ancorché
anteriore all'entrata in vigore della legge 28.02.1985, n. 47, perché
l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad
assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che
inducono all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene,
per cui i predetti certificati devono ritenersi essenziali
(Cass. nn. 10820/2009 e 15969/2000).
Nella vendita di immobile destinato ad abitazione, il
certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del
bene compravenduto, come ricorda
Cass. n. 1514/2006, al punto tale che esso è in grado di
incidere sull'attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione
economico-sociale, assicurandone il legittimo godimento e la
commerciabilità.
D'altronde, ed anche prima della formale stipula del
definitivo, si è affermato che (cfr.
Cass. n. 13969/2006) nel caso in cui il preliminare preveda
la consegna anticipata del bene, rientra tra le obbligazioni gravanti sul
promittente venditore anche quella di allegare il certificato di abitabilità
dell'immobile contestualmente alla consegna dell'appartamento, nel caso in
cui sia anche anticipato il pagamento del prezzo
(conf. Cass. n. 4513/2001).
In tale ottica, reputa il Collegio che non possa essere censurata la
valutazione compiuta dai giudici di appello circa l'attualità dell'obbligo
della ricorrente di dover consegnare il certificato in questione, attese le
reiterate richieste di parte intimata, così come comprovate dall'istruttoria
svolta, ed avvenute in prossimità proprio della scadenza del termine per la
stipula del definitivo, e con il chiaro intento quindi di mettere a
disposizione del notaio rogante tutta la documentazione idonea ad assicurare
la verifica circa la regolarità urbanistica del bene.
Trattasi di soluzione che costituisce a ben vedere una piana applicazione
del principio della buona fede.
Al riguardo può richiamarsi quanto ritenuto in passato da questa Corte (cfr.
Cass. n. 20399/2004, Cass. n. 13345/2006), secondo cui in
tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della
reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto,
così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva,
accompagnarlo in ogni sua fase, sicché la clausola generale di buona fede e
correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del
creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.),
quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti
all'esecuzione di un contratto (art. 1375 cod. civ.), concretizzandosi nel
dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse
della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o
passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il
contenuto e gli effetti del contratto.
La buona fede, pertanto, si atteggia come un impegno od
obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei
comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal
dovere del "neminem laedere", senza rappresentare un apprezzabile
sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell'altra
parte (nel precedente del 2004 è
stata confermata la sentenza della Corte d'Appello che, in relazione
all'esecuzione di un contratto preliminare di vendita immobiliare
antecedente l'entrata in vigore della legge n. 47 del 1985, aveva ritenuto
inadempienti i promittenti venditori in quanto essi non avevano proceduto a
sanare l'immobile, abusivamente costruito, e ad acquisire il relativo
certificato di abitabilità, e ciò aveva fatto sebbene tale condotta omissiva
non fosse stata esplicitamente sanzionata nell'accordo negoziale).
Ad avviso del Collegio, a fronte di un'assunzione della
garanzia circa la regolarità urbanistica del bene, se,
come dedotto in ricorso, il certificato de quo era
già esistente, l'omessa risposta alle richieste di consegna dello stesso da
parte del promissario acquirente in epoca prossima alla scadenza del termine
previsto per la stipula del definitivo, allorquando quindi si palesava la
necessità di entrarne in possesso, costituisce comportamento evidentemente
contrario ai principi di buona fede, laddove allo stesso abbia fatto poi
seguito la dichiarazione di recesso della promittente venditrice sul
presupposto del mancato rispetto del termine de quo, e giustifica quindi
l'accoglimento della domanda di risoluzione per inadempimento della
ricorrente (Corte di Cassazione,
Sez. VI civile,
ordinanza 14.01.2019 n. 622). |
EDILIZIA PRIVATA: Comodato
verbale per le agevolazioni.
Per accedere alle detrazioni relative a spese di ristrutturazione di un
immobile, non è necessario che sia registrato il contratto di comodato
gratuito in virtù del quale i soggetti che effettuino quegli interventi
hanno la disponibilità dell'immobile stesso, nel quale oltretutto vivono.
È il principio che si legge nella
sentenza 23.08.2018
n. 282/1/2018 emessa dalla prima sezione della Ctp di Varese chiamata
a giudicare su un ricorso proposto da due coniugi avverso una cartella di
pagamento successiva a controlli automatici con cui l'ufficio aveva
disconosciuto ai due l'applicazione delle detrazioni per ristrutturazioni
immobiliari dagli stessi effettuate.
Secondo i ricorrenti, che rappresentavano di vivere sin dal giorno del
matrimonio in un immobile di proprietà dei genitori della donna, in virtù di
un comodato gratuito, pur non registrato, il diritto di fruire delle
agevolazioni per gli interventi di risparmio energetico attuati
sull'abitazione spettava loro in ogni caso. Il diritto alla detrazione,
infatti, non doveva ritenersi subordinato alla registrazione di un contratto
di comodato, come invece sostenuto dall'ufficio.
La Ctp condivideva la tesi dei ricorrenti, peraltro richiamando anche altra
giurisprudenza di merito, in particolare della Ctr Emilia Romagna (sent.
2914/3/2016), dalla quale si evince espressamente che anche il contratto di
comodato concluso solo verbalmente e non registrato dà diritto alla
detrazione per spese di ristrutturazione. Quest'ultima spetta, infatti, a
fronte della detenzione, del possesso o della disponibilità dell'immobile e
non ne rappresenta un presupposto la necessità di registrazione del
contratto di comodato a monte. Tale opinione è ormai accolta dalla
giurisprudenza delle commissioni tributarie.
Si richiama, all'uopo, anche la Ctp di Como (sent. 43/5/2013) che ha affermato che, ai fini agevolativi,
sono irrilevanti il titolo giuridico (proprietà, o altro diritto reale, o
contratto ad effetti obbligatori) e la forma del contratto (scritta o
verbale) in base al quale il contribuente che ha sostenuto quelle spese di
ristrutturazione detiene l'immobile.
Nel caso di specie, tuttavia, se
infondata era sul punto l'eccezione di mancata registrazione del comodato
sollevata dall'ufficio, nel merito i ricorsi venivano comunque respinti
poiché i lavori non riguardavano interventi su immobile esistente ma erano
tesi ad un aumento di volumi, quindi a una nuova costruzione non
agevolabile..
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Con ricorsi riuniti nn. 586 e 688/2017 depositati in data rispettivamente
23/10/2017 e 01.12.2017, deposito dì documenti in data 17.05.2018 e memoria
28/05/2018 P.M.-M.L. si opponevano alle cartelle di pagamento (…) con le
quali l'Agenzia delle Entrate di Varese per l'anno di imposta 2012 a seguito
di controllo automatizzato non aveva riconosciuto le detrazioni per
interventi di ristrutturazione per interventi finalizzati al risparmio
energetico e per l'arredo degli immobili ristrutturati: precisavano i
ricorrenti che l'Agenzia aveva agito per tre motivi: 1 - nessuna titolarità
dell'immobile; 2 - lavori inquadrabili come nuova costruzione; 3 - mancanza
di prova dell'esistenza dì riscaldamento; eccepivano: 1 - dal momento del
matrimonio vivevano nell'immobile di proprietà dei genitori di M. per
comodato gratuito che, anche se non registrato, è idoneo a dare il diritto
alla detrazione; 2 - si tratta di sopraelevazione che è considerata
ristrutturazione anche se c'è aumento di volumetria perché quest'ultimo è
funzionale alla sopraelevazione; 3 - fornivano la prova dello smaltimento
della vecchia stufa esistente; depositavano perizia dell'arch. Z. circa
l'aumento di volumetria; chiedevano raccoglimento del ricorso, previa
sospensione respinta per entrambi i
ricorsi prima della riunione degli stessi. Si costituiva l'Agenzia in data
02.11.2017 quanto a RG 586 e 12/01/2018 quanto a RG 688 precisando che 1- il
contratto deve essere registrato; (…)
Quanto alla questione relativa alla necessità di registrazione del contratto
di comodato, la Commissione ritiene che la stessa non sia necessaria: non
esiste infatti nessuna norma che impone la registrazione del contratto di
comodato d'uso per usufruire delle detrazioni, ma solo una prassi (errata)
adottata dall'Agenzia delle Entrate che non deve essere considerata
vincolante per i contribuenti. In base alla Legge 296/2006 e al dm 19.02.2007 per accedere alla detrazione gli aspetti da considerare sono
la detenzione, il possesso e la disponibilità dell'immobile (cfr. Ctr.
Emilia-Romagna 2914/3/2016). Sul punto, pertanto, è infondata l'eccezione
sollevata dall'ufficio.
Quanto al resto invece i ricorsi devono essere respinti. Quando, a seguito
dell'intervento di recupero, vengano realizzati nuovi e ulteriori volumi
sono detraibili le sole spese effettuate per gli interventi eseguiti sul
volume esistente, mentre quelli che riguardano il nuovo volume sono
considerati come nuova costruzione e pertanto non sono in alcun modo
agevolabili (…)
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sul
pagamento della quota di iscrizione all'albo professionale per poter
svolgere il mansionario quotidiano.
Nelle attività rientranti tra quelle svolte dal
personale rientra la 'predisposizione di
progetti inerenti la realizzazione, la manutenzione di edifici, impianti e
sistemi di prevenzione di strutture comunali', attività per le quali è
prevista l'abilitazione all'esercizio della professione da cui deriva, in
presenza delle condizioni soggettive ed oggettive previste, l'obbligo di
iscrizione all'albo professionale.
Non vi è tuttavia alcuna norma che espressamente preveda il rimborso da
parte dell'amministrazione dei costi di iscrizione all'albo, richiamando a
tale scopo la difesa del ricorrente la norma di cui all'art. 1719 c.c..
Tale ricostruzione difensiva è stata avallata dalla giurisprudenza di
legittimità.
Segnatamente Cassazione civile, sez. lav., 16/04/2015 n. 7776 ha stabilito:
"Il pagamento della tassa annuale di iscrizione all'Elenco speciale
annesso all'Al. degli avvocati, per l'esercizio della professione forense
nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro, rientra tra i costi per
lo svolgimento di detta attività, che, in via normale, devono gravare
sull'Ente stesso. Quindi, se tale pagamento viene anticipato
dall'avvocato-dipendente deve essere rimborsato dall'Ente medesimo, in base
al principio generale applicabile anche nell'esecuzione del contratto di
mandato, ai sensi dell'art. 1719 c.c., secondo cui il mandante è obbligato a
tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi
abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali
necessari".
---------------
Con ricorso regolarmente notificato il ricorrente, dipendente del Comune di
Pozzuoli con la qualifica professionale di Architetto, abilitato
all'esercizio della professione ed iscritto all'Al. degli Architetti di
Napoli, inquadrato nella Cat. (omissis) del CCNL dipendenti Enti locali del
31.03.1999 come Istruttore Tecnico Direttivo, conveniva in giudizio il
Comune di Pozzuoli affinché fosse accertato e dichiarato il suo diritto al
rimborso delle tasse annuali (dal 2007 al 2015) di iscrizione all'Al.
professionale degli Architetti, dallo stesso anticipate, e condannato il
Comune di Pozzuoli a corrispondere all'odierno ricorrente la somma di €
1.222,66.
Si costituiva il Comune di Pozzuoli che contestava nel merito le avverse
deduzioni, eccependo la prescrizione quinquennale e l'infondatezza della
domanda; concludeva chiedendo il rigetto del ricorso.
All'odierna udienza la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo e
sulla scorta delle motivazioni che seguono.
E' infondata l'eccezione di prescrizione il cui termine, decennale ex art.
2946 c.c., non è decorso attendendo la prima pretesa all'anno 2007 ed
essendo stato, il ricorso, notificato il 19.05.2016. Peraltro agli atti vi è
missiva inoltrata dal ricorrente in data 15.11.2015 idonea, anch'essa, ad
interrompere il decorso del termine prescrizionale.
Il Comune, costituendosi, eccepisce la genericità delle allegazioni in
merito al contenuto effettivo delle mansioni disimpegnate dal ricorrente.
E' incontestato tuttavia che il Di Ma. abbia espletato mansioni
riconducibili alla cat. (omissis) del CCNL dipendenti Enti locali del
31.03.1999.
Ebbene, nelle attività rientranti tra quelle svolte dal personale
appartenente alla suddetta categoria rientra la 'predisposizione di
progetti inerenti la realizzazione, la manutenzione di edifici, impianti e
sistemi di prevenzione di strutture comunali', attività per le quali è
prevista l'abilitazione all'esercizio della professione da cui deriva, in
presenza delle condizioni soggettive ed oggettive previste, l'obbligo di
iscrizione all'albo professionale.
Non vi è tuttavia alcuna norma che espressamente preveda il rimborso da
parte dell'amministrazione dei costi di iscrizione all'albo, richiamando a
tale scopo la difesa del ricorrente la norma di cui all'art. 1719 c.c..
Tale ricostruzione difensiva è stata avallata dalla giurisprudenza di
legittimità.
Segnatamente Cassazione civile, sez. lav., 16/04/2015 n. 7776 ha stabilito:
"Il pagamento della tassa annuale di iscrizione all'Elenco speciale
annesso all'Al. degli avvocati, per l'esercizio della professione forense
nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro, rientra tra i costi per
lo svolgimento di detta attività, che, in via normale, devono gravare
sull'Ente stesso. Quindi, se tale pagamento viene anticipato
dall'avvocato-dipendente deve essere rimborsato dall'Ente medesimo, in base
al principio generale applicabile anche nell'esecuzione del contratto di
mandato, ai sensi dell'art. 1719 c.c., secondo cui il mandante è obbligato a
tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi
abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali
necessari".
Il ricorso va dunque accolto con conseguente condanna del Comune a pagare al
ricorrente la somma di € 1.222,66 oltre interessi legali
(TRIBUNALE di Napoli, Sez. lavoro,
sentenza 21.11.2017
n. 7954). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: L’alta
vigilanza del coordinatore per l'esecuzione
dei lavori. La Sezione osserva che
«i compiti assegnati al coordinatore per la sicurezza, per quanto afferenti alla generale configurazione dei lavori alla stregua di funzioni di alta vigilanza, si caratterizzano nondimeno nella descrizione normativa anche per un connotato di effettività e concretezza in funzione delle perseguite finalità di prevenzione, ciò escludendo che tale funzione possa risolversi in un mero disbrigo di attività formali e di verifiche astratte e superficiali», e che «a tale figura pertiene non solo il compito di organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori».
Ammette che «non sussiste a carico del coordinatore per l’esecuzione dei lavori un obbligo di presenza continuativa –operativa– sul cantiere (demandata al datore di lavoro e ai soggetti da lui preposti alla sicurezza dei lavoratori)», e tuttavia chiarisce che «egli è comunque tenuto a programmare ed effettuare le visite periodiche nel modo più idoneo e funzionale all’espletamento dei suoi compiti di vigilanza, nonché a informarsi scrupolosamente sullo sviluppo delle opere, verificando specificamente (per ciascuna fase) l’effettiva realizzazione e adozione delle prescritte misure di sicurezza, provvedendo a contestare per iscritto ai titolari delle imprese coinvolte le violazioni riscontrate alla disciplina antinfortunistica, segnalandole contestualmente al committente». Insegna, dunque, che, per un verso, «egli non è obbligato a tal fine a controllare momento per momento l’esecuzione dei lavori», e che, per l’altro,
è obbligato «comunque a pianificare le proprie verifiche ovvero a precostituire un sistema di controlli che siano in grado di consentirgli l’effettivo assolvimento del compito comunque a lui affidato, non potendo in tal senso certamente bastare una osservazione superficiale della situazione complessiva del cantiere, ma occorrendo una puntuale e concreta verifica del modo in cui i diversi lavori vengono effettivamente organizzati nella loro fase esecutiva, sotto il profilo della sicurezza e della concreta (non meramente astratta o apparente) adozione delle misure indicate nel piano». Di qui un’indicazione operativa preziosa per il coordinatore: «non basta al coordinatore dimostrare di essersi recato periodicamente in cantiere, ma occorre dimostrare che quanto accertato consentiva una tranquillante verifica della concreta, effettiva e prevedibilmente costante adozione delle misure predisposte nel piano per quella data fase dei lavori, di modo che quel che legittimamente resta sottratto ai suoi compiti di vigilanza è il caso episodico e contingente –scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori, ovvero da una episodica inosservanza di misure di sicurezza comunque predisposte, pur effettivamente approntate ed esistenti in cantiere, agevolmente utilizzabili e adeguate– come tale affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro o del suo preposto; non invece l’evento riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione».
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Per verificare se un infortunio coinvolga la responsabilità del coordinatore per la sicurezza, si devono analizzare le caratteristiche del rischio dal quale è scaturita la caduta; occorre, cioè, comprendere se si tratti di un accidente contingente, scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori, come tale affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro o del suo preposto, o se, invece, l’evento stesso sia riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione.
In tale ultimo ambito è affidato al
coordinatore per la sicurezza il dovere di alta vigilanza, che non implica la costante presenza nel cantiere con ruolo di controllo delle contingenti lavorazioni, ma comporta certamente la verifica della conformità delle caratteristiche strutturali di base delle lavorazioni alle norme prevenzionistiche.
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Con sempre maggiore efficacia, la Corte Suprema sta chiarendo la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione dei lavori (sul tema v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 659 ss., cui adde, da ultimo, Cass. 01.09.2014, n. 36510, Caporale e altri, in ISL, 2014, 11, 551; Cass. 05.05.2014, n. 8515, Landi e R.C., ibid., 2014, 7, 365; Cass. 05.05.2014, n. 18459, Brioschi e altri, ibid., 2014, 7, 363; Cass. 05.05.2014, n. 18436, Angele, ibid., 2014, 7, 366). A) Per cominciare, la sentenza Cardarelli (Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 23.01.2015 n. 3272) esamina un’ipotesi in cui il
datore di lavoro capocantiere e il
coordinatore per la sicurezza in fase di
progettazione ed esecuzione (nominato dalla committente s.r.l.) furono dichiarati colpevoli del reato di omicidio colposo, per «non avere impedito a un lavoratore autonomo (pure condannato) di manovrare l’autopompa per il getto del calcestruzzo in vicinanza di una linea elettrica ad alto voltaggio in funzionamento, così procurando la morte per folgorazione di un operaio intento all’opera di sversamento del calcestruzzo». Nel confermare la condanna, la Sez. IV premette che «agli imputati risulta essere stato addebitato il rimprovero di non avere imposto la corretta applicazione della procedura prevista nel piano di sicurezza e di coordinamento, così come integrato dal piano operativo della sicurezza, in relazione alle operazioni di getto di calcestruzzo nella parete di contenimento posta al di sotto della linea elettrica area alimentata a 8.400 volt, al fine di mantenere la distanza minima di sicurezza di metri cinque tra il braccio dell’autopompa e i conduttori elettrici», «ancor più ove si consideri che quella stessa mattina il primo getto era stato effettuato (nella piena ed evidente consapevolezza del rischio) sotto la direzione del datore di lavoro, il quale aveva impartito le disposizioni ritenute necessarie al lavoratore autonomo». Aggiunge che «entrambi gli imputati avevano avuto modo di concretamente sperimentare la pericolosità del sito, in quanto appena qualche giorno prima altro operaio era stato coinvolto in un analogo incidente, dal quale era uscito miracolosamente incolume e che la gravità della situazione aveva imposto riunioni tra datore di lavoro, coordinatore, ed esponenti della società, nell’interesse della quale operava il lavoratore autonomo, senza che si fosse acceduto alle misure preventive risolutive, costituite dalla richiesta di temporanea disattivazione della linea o dell’uso di congegni di autolimitazione del braccio dell’autobetoniera o di altri efficaci ed effettive cautele». B) Particolarmente ampia è poi l’analisi svolta dalla sentenza Bartoli (Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 17.11.2014 n. 47283). La Sez. IV osserva che «la figura del coordinatore per l’esecuzione dei lavori è stata introdotta nell’ambito di una generale e più articolata ridefinizione delle posizioni di garanzia e delle connesse sfere di responsabilità correlate alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili –a fianco di quella del committente- allo scopo di consentire a quest’ultimo di delegare, a soggetti qualificati, funzioni e responsabilità di progettazione e coordinamento, altrimenti su di lui ricadenti, implicanti particolari competenze tecniche», e che «la funzione di vigilanza è alta e non si confonde con quella operativa demandata al datore di lavoro ed alla figure che da esso ricevono poteri e doveri: il dirigente ed il preposto». Subito, però, avverte che «i compiti assegnati al coordinatore per la sicurezza, per quanto afferenti alla generale configurazione dei lavori alla stregua di funzioni di alta vigilanza, si caratterizzano nondimeno nella descrizione normativa anche per un connotato di effettività e concretezza in funzione delle perseguite finalità di prevenzione, ciò escludendo che tale funzione possa risolversi in un mero disbrigo di attività formali e di verifiche astratte e superficiali», e che «a tale figura pertiene non solo il compito di organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori». Ammette che «non sussiste a carico del coordinatore per l’esecuzione dei lavori un obbligo di presenza continuativa –operativa– sul cantiere (demandata al datore di lavoro e ai soggetti da lui preposti alla sicurezza dei lavoratori)», e tuttavia chiarisce che «egli è comunque tenuto a programmare ed effettuare le visite periodiche nel modo più idoneo e funzionale all’espletamento dei suoi compiti di vigilanza, nonché a informarsi scrupolosamente sullo sviluppo delle opere, verificando specificamente (per ciascuna fase) l’effettiva realizzazione e adozione delle prescritte misure di sicurezza, provvedendo a contestare per iscritto ai titolari delle imprese coinvolte le violazioni riscontrate alla disciplina antinfortunistica, segnalandole contestualmente al committente». Insegna, dunque, che, per un verso, «egli non è obbligato a tal fine a controllare momento per momento l’esecuzione dei lavori», e che, per l’altro, è obbligato «comunque a pianificare le proprie verifiche ovvero a precostituire un sistema di controlli che siano in grado di consentirgli l’effettivo assolvimento del compito comunque a lui affidato, non potendo in tal senso certamente bastare una osservazione superficiale della situazione complessiva del cantiere, ma occorrendo una puntuale e concreta verifica del modo in cui i diversi lavori vengono effettivamente organizzati nella loro fase esecutiva, sotto il profilo della sicurezza e della concreta (non meramente astratta o apparente) adozione delle misure indicate nel piano». Di qui un’indicazione operativa preziosa per il coordinatore: «non basta al coordinatore dimostrare di essersi recato periodicamente in cantiere, ma occorre dimostrare che quanto accertato consentiva una tranquillante verifica della concreta, effettiva e prevedibilmente costante adozione delle misure predisposte nel piano per quella data fase dei lavori, di modo che quel che legittimamente resta sottratto ai suoi compiti di vigilanza è il caso episodico e contingente –scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori, ovvero da una episodica inosservanza di misure di sicurezza comunque predisposte, pur effettivamente approntate ed esistenti in cantiere, agevolmente utilizzabili e adeguate– come tale affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro o del suo preposto; non invece l’evento riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione». In questo quadro, la Sez. IV prende atto che, nel caso di specie, «punto nodale è se il controllo operato dal coordinatore imputato fosse sufficiente ad esaurire i suoi doveri o se, nella situazione data, esso si sia rivelato meramente formale e superficiale», e che «la risposta negativa data a tale quesito muove essenzialmente dal rilievo della inadeguatezza in concreto del ponte mobile (c.d. trabattello) rispetto alle esigenze lavorative, tale da aver condotto al sistematico mancato utilizzo dello stesso». Con un giudizio finale di «inadeguatezza del controllo operato dall’imputato che, nella misura in cui si è limitato alla mera presa d’atto dell’esistenza di almeno un trabattello, si rivela inosservante degli specifici doveri a lui imposti riferibili non solo alla astratta previsione delle misure di sicurezza (nel caso, il trabattello), ma anche alla verifica della sua effettiva e concreta predisposizione in cantiere e della sua adeguatezza». C) Anche la sentenza Turroni (Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 17.10.2014 n. 43466) illumina l’approdo interpretativo ultimamente raggiunto dalla Corte Suprema. Infatti, chiarisce che, «per verificare se un infortunio coinvolga la responsabilità del coordinatore per la sicurezza, si devono analizzare le caratteristiche del rischio dal quale è scaturita la caduta; occorre, cioè, comprendere se si tratti di un accidente contingente, scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori, come tale affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro o del suo preposto, o se, invece, l’evento stesso sia riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione», e che «in tale ultimo ambito è affidato al
coordinatore per la sicurezza il dovere di alta vigilanza, che non implica la costante presenza nel cantiere con ruolo di controllo delle contingenti lavorazioni, ma comporta certamente la verifica della conformità delle caratteristiche strutturali di base delle lavorazioni alle norme prevenzionistiche». E rileva che, «nel caso di specie, la corte d’appello ha logicamente tratto, dalla ritenuta difformità del ponteggio realizzato nel cantiere rispetto al progetto ed alle norme prevenzionistiche di riferimento, l’insorgenza a carico del coordinatore per la sicurezza del generico dovere, riferibile alla sua posizione funzionale, di procedere all’immediata adozione di tutte le cautele concretamente necessarie a impedire che l’esecuzione di attività lavorative in prossimità di tali ponteggi potesse costituire un possibile pericolo per i lavoratori ivi coinvolti, individuando un rischio evidentemente riconducibile alla omessa verifica della conformità delle caratteristiche strutturali di base delle lavorazioni alle norme prevenzionistiche» (tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 3/2015). |
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