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AGGIORNAMENTO AL 20.05.2019 |
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Anche le manutenzioni ordinarie e
straordinarie possono essere oggetto di
incentivazione, a patto che siano di particolare
complessità.
Beh, è ora che
anche la Corte dei Conte (con tutto rispetto) "si
dia una regolata": non sono più ammissibili
incertezze ovvero (pseudo)certezze che
-successivamente- non si rivelano tali andando, poi,
a mettere le mani nelle tasche dei dipendenti per
rifondere le casse comunali in ordine all'indebita
erogazione dell'incentivo.
Ma cosa significa
esattamente di "particolare complessità"?
Vero è
che la Corte scrive letteralmente che "L’attività
manutentiva ... deve risultare caratterizzata da
problematiche realizzative di particolare
complessità, tali da giustificare un
supplemento di attività da parte del personale
interno all’amministrazione affinché il
procedimento che regola il corretto avanzamento
delle fasi contrattuali si svolga nel pieno
rispetto dei documenti posti a base di gara, del
progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati,
aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia
della spesa".
Ma è altrettanto vero che, diversamente opinando, si
perverrebbe all'aberrante conclusione che la "normale"
e necessaria diligenza di un pubblico dipendente,
nello svolgimento degli affari correnti, non sarebbe
di per sé sufficiente -"se non assistita da un
supplemento di attività"- affinché "il
procedimento che regola il corretto avanzamento
delle fasi contrattuali si svolga nel pieno
rispetto dei documenti posti a base di gara, del
progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati,
aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia
della spesa".
Stiamo scherzando, vero?
Al riguardo,
risulta opportuno qui ricordare quanto evidenziavamo
con l'AGGIORNAMENTO
AL 16.10.2015 laddove la Suprema Corte ha
statuito (ovviamente) che il "modello" di Pubblica
Amministrazione, tra l'altro, "è
composta di funzionari preparati, efficienti,
prudenti e zelanti
(art. 98 cost.)".
E allora, prepariamoci a fiumi, inondazioni di parole,
commenti, interpretazioni che dir si voglia...
Altresì, la fantasia italica non tarderà a manifestarsi:
scommettiamo
che vedremo regolamenti comunali che statuiranno,
per esempio, quale "manutenzione ordinaria
particolarmente complessa" anche la semplice
sostituzione di una lampadina del WC? |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Ok dalla sezione Autonomie agli incentivi tecnici anche per le
manutenzioni ordinarie e straordinarie «complesse».
In modo simile all'estensione degli incentivi agli appalti di servizi e
forniture, che la legge limita alla sola presenza del direttore
dell'esecuzione e per importi non inferiori ai 500mila euro o di particolare
complessità, anche le manutenzioni ordinarie e straordinarie possono essere
oggetto di incentivazione, a patto che siano di particolare complessità.
Sono queste le indicazioni
della Corte dei conti, sezione delle Autonomie, nella
deliberazione 09.01.2019 n. 2.
Il contrasto tra le sezioni regionali
La Sezione di controllo per l'Umbria ha rimesso la questione di massima alla
Sezione delle Autonomie, per capire se, nel nuovo quadro legislativo,
rientrassero o meno gli incentivi tecnici legati ad attività di manutenzioni
ordinarie e straordinarie (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della
Pa del 16 ottobre) in considerazione del contrasto di soluzioni tra Sezioni
di controllo.
Si ricorda come il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione
Sicilia (parere
16.03.2018 n. 121) ne aveva delimitato il possibile ambito di
applicazione alle sole manutenzioni straordinarie, escludendo quelle
ordinarie.
Il percorso logico della Sezione Autonomie
Secondo la Sezione delle Autonomie, il legislatore, con le nuove
disposizioni del Dlgs 50/2016 (articolo 113), ha ritenuto incentivabili le
attività compiute, dai diversi profili tecnici e amministrativi, del
personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione all'esecuzione del contratto, consentendo l'erogazione degli
incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture e non più, come in
passato, per i soli appalti di lavori.
Tuttavia, per evitare una erogazione indiscriminata per gli appalti di
servizi e forniture, ha stabilito che questi ultimi potranno essere oggetto
di incentivazione solo in presenza della nomina del direttore
dell'esecuzione, obbligatoria per appalti di importo superiore a 500.000
euro ovvero qualora di particolare complessità.
Sicuramente la manutenzione straordinaria presenta caratteristiche
particolari potendo rientrare nel novero delle attività complesse, tali da
richiedere, da parte del personale tecnico-amministrativo, un'attività di
programmazione della spesa, di valutazione del progetto o di controllo delle
procedure di gara e dell'esecuzione del contratto rispetto ai termini del
documento di gara, esattamente come qualunque altro appalto di lavori,
servizi o forniture.
A differenza delle manutenzioni straordinarie, quelle ordinarie possono
essere di semplice realizzazione, in quanto spesso prive di un progetto da
attuare o perché l'amministrazione procede all'affidamento con modalità
diverse dalla gara che costituisce presupposto indefettibile della norma ai
fini della determinazione del fondo vincolato.
Conclusioni
In definitiva per la Sezione delle Autonomie anche le attività di
manutenzione straordinaria o ordinaria potrebbero rientrare, a pieno titolo,
tra le funzioni incentivabili purché caratterizzate da problematiche
realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento
di attività da parte del personale interno all'amministrazione affinché il
procedimento, che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali, si
svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto,
nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo,
l'efficienza e l'efficacia della spesa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.01.2019). |
INCENTIVO
FUNZIONI PUBBLICHE: Possibilità
di riconoscere gli incentivi previsti dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016,
n. 50 (Codice dei contratti pubblici) anche per le funzioni tecniche svolte
dai dipendenti pubblici in relazione ai lavori di manutenzione ordinaria e
straordinaria.
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Gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) possono essere
riconosciuti, nei limiti previsti dalla norma, anche in relazione agli
appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria di
particolare complessità.
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PREMESSO
Con nota dell’11.07.2018, la Provincia di Perugia ha rivolto alla
Sezione regionale di controllo per l’Umbria, per il tramite del Consiglio
delle Autonomie locali, una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma
8, della legge 05.06.2003, n. 131, in merito alla possibilità di
riconoscere gli incentivi previsti dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016,
n. 50 (Codice dei contratti pubblici) anche per le funzioni tecniche svolte
dai dipendenti pubblici in relazione ai lavori di manutenzione ordinaria e
straordinaria.
Nel rilevare che in due precedenti occasioni, precisamente nel
parere 14.05.2015 n. 71 e
parere 26.04.2017 n. 51, la Sezione
regionale di controllo per l’Umbria aveva escluso l’attività manutentiva dal
regime di incentivazione previsto, rispettivamente, dall’art. 93, comma
7-ter, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e dal citato art. 113 del d.lgs. n.
50/2016, il Presidente della Provincia di Perugia osservava come
sulla
medesima questione la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con
parere 09.06.2017 n. 190, avesse espresso un parere contrario, nel
senso che l’art. 113 non sembrerebbe “delimitare in senso escludente l’incentivabilità
di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato
il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime”.
In ragione del fatto nuovo costituito dalla sopravvenienza del parere reso
dalla Sezione di controllo Lombardia, la Provincia di Perugia sollecitava
una revisione dell’orientamento espresso dalla Sezione Umbria, chiedendo di
pronunciarsi “sull’inclusione o esclusione delle attività tecniche di
programmazione, verifica, appalto, di responsabile unico di procedimento e
direzione dei lavori connesse con i lavori di manutenzione, ordinaria e
straordinaria, nella o dall’incentivazione prevista dall’art. 113 del d.lgs.
50/2016”.
Con la
deliberazione 08.10.2018 n. 103, la Sezione
regionale di controllo per l’Umbria, richiamata in premessa la predetta
richiesta di parere e valutati positivamente i profili di ammissibilità
soggettiva ed oggettiva della questione, ha individuato i punti di
convergenza e di contrasto fra i diversi approdi ermeneutici delle Sezioni
regionali di controllo, ripercorrendone le motivazioni alla luce del mutato
quadro normativo.
In particolare, la Sezione remittente ha osservato come il dubbio
interpretativo origini dal raffronto tra la nuova disciplina dettata
dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 e quella previgente (contenuta nell’art.
93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006), la quale aveva espressamente
escluso la possibilità di ripartire gli incentivi per le attività
manutentive, esclusione che la nuova norma non ripete (almeno in maniera
esplicita).
Ed invero, mentre il comma 7-ter dell’art. 93, nel definire le modalità di
riparto delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e
l'innovazione, stabiliva che: “… Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse
alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a
quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale
ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive,
e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”, il vigente
art. 113, rubricato “Incentivi per funzioni tecniche”, al terzo comma
dispone che: “L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro,
servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti,
tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le
funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”.
Inoltre, mentre il comma 7-ter recitava: “L’80 per cento delle risorse
finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel
regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori”,
l’attuale dettato normativo di cui al secondo comma dell’art. 113 dispone
che: “… le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure
di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei
lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo
ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di
gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. […] La disposizione di
cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture
nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Ciò premesso, ad avviso della Sezione remittente appare dirimente stabilire,
in primo luogo, se le “attività manutentive” non siano incentivabili in
quanto non rientranti tra le funzioni tecniche indicate dalla norma, il cui
elenco è da considerare tassativo.
In secondo luogo, andrebbe stabilito se l’esclusione degli incentivi in
questione trovi fondamento nella definizione di “appalti pubblici di
lavori”, la quale, a giudizio della Sezione regionale per l’Emilia-Romagna
(parere
07.12.2016 n. 118), non consentirebbe di
includervi le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Dubbi nascerebbero anche dal fatto che, secondo l’indirizzo seguito dalla
Sezione di controllo Toscana (parere
14.12.2017 n. 186), le attività manutentive sarebbero caratterizzate, per lo più, dalla
loro semplicità, laddove l’incentivazione de qua mirerebbe a premiare lo
svolgimento di funzioni tecniche di una certa complessità.
Infine, andrebbe accertato se l’esistenza di un divieto alla concessione
dell’incentivazione per gli appalti di manutenzione possa desumersi in
ragione di una comune ratio ispiratrice tra nuova e previgente normativa in
materia di incentivi, come rappresentato dalla Sezione di controllo Veneto
(parere
12.05.2017 n. 338).
In diverso avviso rispetto a quanto osservato dalle altre Sezioni di
controllo, si è espressa la Sezione regionale per la Lombardia, la quale,
con il richiamato
parere 09.06.2017 n. 190, nel sottolineare come “gli
incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e
forniture”, aveva ritenuto che “l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza
la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò
possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito
di applicabilità del decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità
delle funzioni indicate nell’art. 113”.
Per altro verso, la Sezione remittente ha osservato come, in realtà, il
rischio che gli incentivi siano concedibili anche per attività manutentive
di contenuto semplice sarebbe ridotto, ove si consideri che, secondo il
citato parere della Sezione Lombardia, sono incentivabili “le sole funzioni
tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una
gara”, essendo gli incentivi in questione riconosciuti “esclusivamente per
le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che,
secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il
regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una
procedura comparativa”.
Alla luce di dette considerazioni, la Sezione regionale di controllo per
l’Umbria, preso atto del contrasto giurisprudenziale esistente, ha sospeso
la pronuncia ed ha rimesso la questione di massima alle valutazioni del
Presidente della Corte dei conti con riferimento al medesimo quesito
proposto dal Presidente della Provincia di Perugia.
Il Presidente della Corte, con ordinanza n. 25 del 27.11.2018, ha
deferito alla Sezione delle autonomie l’esame e la pronuncia in ordine alla
prospettata questione di massima.
CONSIDERATO
La Sezione è chiamata ad esprimere il proprio avviso in merito alla
questione di massima sollevata, ai sensi dell'art. 6, comma 4, del d.l. n.
174/2012, dalla Sezione regionale di controllo per l’Umbria con
deliberazione 08.10.2018 n. 103, incentrata sull’interpretazione
dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti
pubblici) ed, in particolare, sulla possibilità che gli incentivi per
funzioni tecniche siano riconosciuti in relazione anche agli appalti di
lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Questione analoga è stata già affrontata da questa Sezione in sede
nomofilattica e risolta in senso negativo con
deliberazione 23.03.2016 n. 10,
in riferimento, però, all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93,
comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006.
Gli aspetti innovativi della formulazione della norma sull’incentivazione
del personale delle amministrazioni pubbliche contenuta nell’art. 113
richiedono, tuttavia, un nuovo esame della questione alla luce dei più
recenti indirizzi interpretativi elaborati dalle Sezioni regionali di
controllo.
Come già evidenziato nella
deliberazione 06.04.2017 n. 7, “il compenso
incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice degli appalti
non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93,
comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato”.
La discontinuità della ratio della nuova normativa rispetto alla precedente
è chiaramente percepibile dai principi contenuti nella legge delega (art. 1,
comma 1, lett. rr, della legge n. 11/2016), dove si precisa che il compenso
per le attività tecniche è finalizzato ad “incentivare l'efficienza e
l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola
d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in
corso d'opera … escludendo l'applicazione degli incentivi alla
progettazione”.
Tale evoluzione normativa è stata lucidamente sintetizzata dalla Sezione di
controllo per la Toscana nella seguente espressione: “L’originaria ratio –rappresentata dalla volontà di spostare all’interno degli uffici attività di
progettazione e capacità professionali di elevato profilo e basata su un
nesso intrinseco tra opera e attività creativa di progettazione, di tipo
libero-professionale (“prestazioni professionali specialistiche offerte da
soggetti qualificati” come diceva la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite
della Corte dei conti)- è stata gradualmente affiancata e poi sostituita
con quella invece rappresentata dalla volontà di accrescere efficienza ed
efficacia di attività tipiche dell’amministrazione, passibili di divenire
economicamente rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini
di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso d’opera”
(parere
14.12.2017 n. 186).
Come esattamente rilevato, la nuova disciplina mira a stimolare, valorizzare
e premiare i diversi profili, tecnici e amministrativi, del personale
pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione all’esecuzione del contratto, consentendo l’erogazione degli
incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture rientranti
nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici (ex multis,
Sezione di controllo Emilia-Romagna,
parere 07.12.2016 n. 118).
L’inserimento tra le attività “incentivabili” previste dal secondo comma
dell’art. 113 delle “verifiche di conformità”, che rappresentano le modalità
di controllo dell’esecuzione dei contratti di appalto di servizi e forniture
(cfr. art. 102, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016), costituisce ulteriore
elemento dal quale è possibile inferire una voluntas legis tesa a stimolare,
attraverso gli incentivi, una più attenta gestione delle fasi della
programmazione e dell’esecuzione anche dei contratti pubblici di appalto di
servizi e forniture (benché per questi ultimi l’incentivo risulti
applicabile solo “nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”,
nomina richiesta, secondo le
Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2,
soltanto
negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro
ovvero di particolare complessità).
Il fatto, poi, che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di
generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture, comporta che gli
stessi si configurino, non più solo come spesa finalizzata ad investimenti,
ma anche come spesa di funzionamento e, dunque, come spesa corrente. In tal
senso depone la novella introdotta al comma 5-bis dell’art. 113 ad opera
dell’art. 1, comma 526, della legge di bilancio n. 205/2017, secondo la
quale gli oneri relativi agli incentivi per le funzioni tecniche vanno
imputati allo stesso capitolo del bilancio che finanzia i singoli lavori,
servizi e forniture, in modo che l’impegno di spesa vada assunto, a seconda
della natura (corrente o in c/capitale), nel Titolo I o nel Titolo II dello
stato di previsione del bilancio (deliberazione
26.04.2018 n. 6).
In questa rinnovata prospettiva, la circostanza che, nella nuova disciplina,
il legislatore non abbia riproposto il divieto, introdotto dal comma 7-ter
dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, di ripartire l’incentivazione per le
attività manutentive, è ancor più indicativo di una voluntas legis tesa a
segnare il superamento del precedente sistema con l’individuazione di
margini applicativi più ampi e la rinuncia ad intervenire sulle modalità di
riparto del fondo.
Una soluzione interpretativa che impedisse di destinare le risorse del fondo
a favore del personale interno impegnato nelle attività tecniche connesse a
lavori di manutenzione favorirebbe, per questo genere di attività, una
realizzazione dell’opera, paradossalmente, meno attenta all’osservanza delle
regole dell’arte, dei tempi di esecuzione e dei costi prestabiliti, in
antitesi con il principio ispiratore dell’art. 113.
Deve peraltro riconoscersi che l’esclusione delle attività manutentive dal
criterio di valutazione della complessità delle opere, prevista dal comma
7-ter dell’art. 93, non era dettata da ragioni di ordine sistematico, tant’è
che le opere di manutenzione non erano escluse dal comma 7-bis dello stesso
art. 93, benché questo, ai fini della determinazione della percentuale
effettiva del fondo, ribadisse (senza esclusione alcuna) gli stessi criteri
“dell’entità e della complessità dell’opera da realizzare” già previsti
dalla legge n. 109/1994 e riprodotti al comma 5 dell’art. 92 del d.lgs. n.
163/2006 (comma, a sua volta, abrogato dall’art. 13 del d.l. 24.06.2014,
n. 90, convertito in legge n. 114/2014).
Occorre, quindi, prendere atto che nel mutato quadro normativo non vi sono
motivi ostativi ad includere nell’incentivazione prevista dall’art. 113
anche le attività tecniche strettamente connesse a lavori di manutenzione,
svolte cioè all’interno delle fasi procedimentali che connotano gli
affidamenti dei contratti pubblici di manutenzione ordinaria e straordinaria
(programmazione, progettazione, selezione degli operatori economici,
stipulazione ed esecuzione del contratto).
Per loro natura, i lavori di manutenzione consistono in un’opera volta a
rimediare al degrado strutturale, tecnologico o impiantistico di un
manufatto o di sue componenti, quindi ad un recupero di valore e
funzionalità attraverso un’azione riparativa che rientra nel genere dei
“lavori” (come previsto dalla lettera nn) dell’art. 3, del d.lgs. n.
50/2016) e, più in particolare, nel quadro degli “appalti pubblici di
lavori” (quand’anche l’attività manutentiva risulti estranea alle
costruzioni edili di cui all’Allegato I).
Non si pone, in questo caso, neppure un problema di numerus clausus delle
“funzioni tecniche”, oggetto di incentivo secondo il principio di tassatività affermato e ribadito dalla Corte, con riferimento anche al
secondo comma dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, argomentando
dall’avverbio “esclusivamente” che precede l’elenco delle attività
incentivabili. Infatti, le attività manutentive non rientrano tra le
“funzioni tecniche” che i dipendenti pubblici svolgono ai fini
dell’incentivazione prevista dall’art. 113, in quanto la manutenzione
costituisce, appunto, l’oggetto di un appalto di lavori rispetto al quale il
personale dell’Amministrazione può svolgere una o più “funzioni tecniche” ad
esso correlate.
Negli appalti di lavori di manutenzione è possibile realizzare, in astratto,
tutte le attività tecniche previste dal secondo comma dell’art. 113, anche
se, in concreto, le stesse risultano compatibili con interventi di
manutenzione (soprattutto straordinaria) contrassegnati da elevata
complessità, i quali possono richiedere, da parte del personale
tecnico-amministrativo, un’attività di programmazione della spesa, di
valutazione del progetto o di controllo delle procedure di gara e
dell’esecuzione del contratto rispetto ai termini del documento di gara,
esattamente come qualunque altro appalto di lavori, servizi o
forniture.
Per gli interventi di manutenzione ordinaria di più
semplice realizzazione,
invece, la possibilità di svolgere le funzioni tecniche è esclusa, il più
delle volte, o dall’assenza di un progetto da attuare o perché
l’amministrazione procede all’affidamento con modalità diverse dalla gara,
la quale costituisce presupposto indefettibile della norma ai fini della
determinazione del fondo vincolato (facendo l’art. 113 espresso riferimento
all’“importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”).
Presupposto ulteriore per il riconoscimento degli incentivi, oltre al
rispetto del tetto annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo
ed alla previa adozione di un atto interno di natura regolamentare diretto a
stabilire criteri e modalità di ripartizione delle risorse tra gli aventi
diritto, è che le funzioni tecniche svolte dai dipendenti siano “necessarie”
per consentire “l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base
di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
L’attività manutentiva, pertanto,
deve risultare caratterizzata da
problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare
un supplemento di attività da parte del personale interno
all’amministrazione affinché il procedimento che regola il corretto
avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei
documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi
programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia della
spesa.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla
questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per l’Umbria
con la
deliberazione 08.10.2018 n. 103, enuncia il seguente principio di
diritto:
“Gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) possono essere
riconosciuti, nei limiti previsti dalla norma, anche in relazione agli
appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria di particolare
complessità.”
La Sezione regionale di controllo per l’Umbria si atterrà al principio di
diritto enunciato nel presente atto di orientamento, al quale si
conformeranno tutte le Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art. 6,
comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n.
213 (Corte dei Conti, Sez.
autonomie,
deliberazione 09.01.2019 n. 2). |
Ed altro, ancora, in materia di incentivo... |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Giro
contabile per incentivi e fondo innovazione.
Incentivi tecnici e fondo innovazione con giro contabile. È questa la
soluzione al rebus sulla corretta registrazione a bilancio delle due voci
incentivanti individuata dalla Commissione Arconet.
L'organismo che sovrintende all'applicazione del nuovo ordinamento contabile
degli enti territoriali ha affrontato la questione nella
riunione del 20 marzo scorso, il cui resoconto è stato appena
pubblicato. Sugli incentivi tecnici, la Commissione recepisce e integra
quanto già previsto dall'art. 113, comma 5-bis, del dlgs 50/2016, ai sensi
del quale le relative spese vanno imputate al medesimo capitolo previsto per
l'appalto. Quest'ultimo andrà collocato nel titolo II, ove si tratti di
opere, o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture. L
'impegno è registrato, con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a
seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate ed è
tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio
bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre
entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.»,
voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.00 Fondi incentivanti il
personale (legge Merloni).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di
personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione
integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento
accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita
dall'accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche
la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della
duplicazione della spesa.
Ricordiamo che, in base alla
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della sezione autonomie, gli incentivi non sono soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dall'art. 23, comma 2, del dlgs
75/2017. Le stesse modalità di registrazione sono adottate anche per la
quota del 20% prevista dal comma 4 dell'art. 113 (c.d. «fondo innovazione»)
destinata all'acquisto beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di
orientamento.
Tale quota è quindi impegnata anche tra le spese correnti o di investimento
in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio
contabile della competenza finanziaria
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2019). |
INCENTIVI
FUNZIONI TECNICHE: Arconet,
incentivi tecnici e fondo innovazione sempre in parte corrente.
Gli incentivi tecnici e il fondo innovazione devono sempre essere
contabilizzati nella parte corrente del bilancio.
Il tema, molto attuale per gli enti locali in un periodo di espansione degli
investimenti, spunta nelle carte di lavoro appena pubblicate della
Commissione Arconet (resoconto della riunione del 20
marzo scorso) che approva la modifica dei principi contabili
finalizzata a chiarire le modalità di registrazione degli incentivi tecnici
sia nella contabilità finanziaria (paragrafo 5.2), sia in quella
economico-patrimoniale (paragrafo 3).
Gli incentivi tecnici
Gli impegni riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche previsti
dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 (compresi i relativi oneri contributivi
ed erariali) devono essere assunti all'interno degli stanziamenti di spesa
riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono.
Sono dunque contabilizzati nel titolo II della spesa per le opere pubbliche
o nel titolo I per servizi e forniture. L'impegno è registrato, con
imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale
destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio, nel rispetto
dell'articolo 113, comma 2 e seguenti, ed è tempestivamente emesso il
relativo ordine di pagamento a favore del Titolo terzo delle entrate,
tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre
entrate correnti n.a.c.», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.00
Fondi incentivanti il personale.
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di
personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione
integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento
accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita
dall'accertamento di entrata di cui sopra, che svolge anche la funzione di
rettificare il doppio impegno, evitando effetti di duplicazione della spesa.
Il fondo innovazione
Tali modalità di registrazione si applicano anche per la quota del 20%
prevista dal comma 4 dell'articolo 113 («fondo innovazione») destinata
all'acquisto beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti
d'innovazione, nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di
orientamento.
A seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in
bilancio, nel rispetto dell'articolo 113, comma 2 e seguenti, la spesa è
impegnata a carico degli stanziamenti di uscita riguardanti i lavori,
servizi e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, ed è
tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del
bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre
entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.». Tale
quota del 20% è poi impegnata anche tra le poste correnti o di investimento
in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio
contabile della competenza finanziaria.
La copertura finanziaria è costituita dall'accertamento di entrata di cui
sopra, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno,
evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Risvolti economico-patrimoniali
È puntualizzato, poi, che in contabilità economico-patrimoniale gli
accertamenti effettuati a valere della voce del piano finanziario E.3.05.99.02.001
«Fondi incentivanti il personale (legge Merloni)» non determinano la
formazione di ricavi. La liquidazione degli impegni correlati a tali
entrate, assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti gli
incentivi tecnici e il fondo risorse finanziarie previsti dall'articolo 113,
comma 2, del Dlgs n. 50/2016 non determina la formazione di costi.
Fra le novità, infine, la ridenominazione della voce del piano dei conti
3.05.99.02.00, dove viene inserito il riferimento all'articolo 113 del Dlgs
50/2016 (al posto del richiamo della legge Merloni) e la conseguente
modifica del glossario SIOPE
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Le condizioni di carattere generale che
devono sussistere ai fini dell’incentivabilità delle funzioni tecniche
sono così riassumibili:
1.
che l’Amministrazione sia dotata di apposito regolamento interno
essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra
gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e sede idonea per
circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono
essere erogati. Occorre a tal proposito rilevare che il comma 3 dell’art.
113 fa obbligo all'Amministrazione aggiudicatrice di stabilire “i criteri
e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla
singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o
dei costi”: una condizione, questa, che secondo la Sezione delle
Autonomie, collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al
completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio
oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti;
2. che le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi
dell’art. 113, comma 2, siano ripartite, per ciascuna opera, lavoro,
servizio e fornitura, con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale;
3. che negli appalti relativi a servizi o forniture sia nominato il
direttore dell'esecuzione;
4. che il relativo impegno di spesa sia assunto a valere sulle
risorse stanziate nel quadro economico dell’appalto, attraverso la
costituzione di un apposito fondo vincolato non superiore al 2% dell’importo
dei lavori di manutenzione posti a base di gara;
5. che l’incentivo spettante al singolo dipendente non ecceda il
tetto annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo.
----------------
Negli appalti di lavori di manutenzione è possibile realizzare
tutte le attività tecniche previste dal secondo comma dell’art. 113, purché
gli interventi manutentivi siano contrassegnati da quella elevata
complessità che rappresenta il presupposto per lo svolgimento di dette
funzioni.
Per gli interventi di manutenzione ordinaria di più semplice
realizzazione, tuttavia, la possibilità di svolgere le funzioni tecniche
potrebbe essere esclusa in concreto dall’assenza di un progetto da attuare,
o dalla circostanza che l’Amministrazione proceda all’affidamento con
modalità diverse dalla gara.
Il secondo comma dell’art. 113 richiede infatti che l’incentivazione sia
destinata a quelle funzioni tecniche svolte dai dipendenti “ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Si presuppone pertanto che a monte vi sia una “gara”, cui del resto è
parametrato il limite percentuale massimo dell’incentivo, ed in assenza
della quale esso risulta pertanto non quantificabile, ed inoltre che
l'attività sia caratterizzata da “problematiche realizzative di
particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da
parte del personale interno all’Amministrazione affinché il procedimento che
regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno
rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi
e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia
della spesa”.
Permane poi necessario anche nella fattispecie il rispetto dei requisiti di
ordine generale già precedentemente richiamati, in risposta al primo quesito
(par. III in diritto).
Le ulteriori condizioni, che si cumulano alle
suddette di carattere generale, affinché le attività tecniche, svolte in
funzione di una corretta e spedita esecuzione delle attività di manutenzione
ordinaria, possano costituire oggetto di incentivazione, sono quindi così
riassumibili:
1. che alla base dell’affidamento vi sia una procedura di gara;
2. che l’attività manutentiva risulti caratterizzata da particolare
complessità, tale da necessitare di uno sforzo supplementare affinché
l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, il progetto,
i tempi e i costi prestabiliti;
3. che le attività tecniche, amministrative e contabili svolte dai
dipendenti, previamente accertate, siano strettamente collegate ai lavori manutentivi da eseguire.
----------------
Il fatto che si proceda mediante Consip non è di per sé preclusivo al
riconoscimento di incentivi per funzioni tecniche, come d'altra parte si
evince anche dalla norma contenuta nel secondo comma dell'art. 113, per la
quale “Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di
committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale
centrale” che implicitamente prevede la possibilità di destinare quota
del fondo ai dipendenti interni, ove ne ricorrano le condizioni.
Va tuttavia evidenziato come la medesima giurisprudenza consultiva si sia
premunita di specificare come permanga anche in questo caso indefettibile il
presupposto che vi sia a monte una “gara”, poiché in mancanza di tale
requisito non può esservi l’accantonamento delle risorse nel fondo, ai sensi
del secondo comma dell’art. 113.
Va inoltre evidenziato come, in termini più generali,
le previsioni
legislative inerenti all’acquisto di beni e servizi mediante strumenti di
e-procurement (quali convenzioni Consip, MEPA, eccetera) rispondano ad
esigenze di semplificazione e razionalizzazione del procedimento di
provvista della Pubblica Amministrazione. Pertanto, come già correttamente
rilevato in sede consultiva, laddove l’ente sia tenuto o decida di far
ricorso a tali modalità di approvvigionamento, le attività indicate
nell’art. 113 potrebbero, in concreto, non realizzarsi, con conseguente
impossibilità di procedere alla erogazione dei connessi incentivi.
----------------
Posto che ricorra lo svolgimento di una delle attività elencate dal
secondo comma dell’art. 113 e che vi sia a monte una gara, l’incentivo può
essere riconosciuto anche in relazione ad un appalto di servizi, ove, in
analogia alle altre casistiche esaminate, ciò sia richiesto dalla
particolare complessità dell’appalto, entro i limiti, anch’essi già qui
analizzati, che possono essere così riassunti:
1. che l’Amministrazione sia dotata di apposito regolamento
interno;
2. che le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi
dell’art. 113, comma 2, siano ripartite con le modalità e i criteri previsti
in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
3. che sia stato nominato il direttore dell'esecuzione;
4. che il relativo impegno di spesa sia assunto attraverso la
costituzione di un apposito fondo vincolato non superiore al 2% dell’importo
posto a base di gara;
5. che l’incentivo spettante al singolo dipendente non ecceda il tetto
annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo;
6. che l’attività risulti caratterizzata da particolare
complessità, tale da necessitare di uno sforzo supplementare affinché
l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, i tempi ed i
costi prestabiliti.
----------------
La normativa contabile non pone di per sé un limite inferiore alla quota di
incentivi (sempre determinata a
partire dall’importo posto a base di gara e dal trattamento economico in
godimento) ma soltanto limiti superiori. Tuttavia, come già
evidenziato, la previsione di funzioni incentivate è intrinsecamente legata
alla esigenza di razionalizzazione della spesa pubblica, attuata nello
specifico attraverso la valorizzazione delle risorse interne, in quanto si
tratti di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali
specialistiche offerte da personale qualificato in servizio, per le quali
diversamente le Amministrazioni pubbliche dovrebbero ricorrere a
professionisti esterni sul mercato, con possibili aggravi di costi per il
bilancio dell’ente interessato.
Pur non essendovi alcuna norma che espressamente imponga all’ente di
utilizzare appieno gli incentivi per funzioni tecniche, l’eventuale “riconoscimento
di una percentuale anche molto inferiore al 2% previsto dall'art. 113”
deve essere valutato attentamente dall’Amministrazione, affinché esso non
sia associato a situazioni di sottoutilizzazione delle risorse interne tali
da potersi indirettamente ripercuotere in senso negativo sui costi
complessivamente sostenuti, eventualità che la ratio della norma vuole
invece scongiurare.
La previsione di incentivi, purché contenuta nei limiti richiamati, non è
dunque foriera di effetti che il legislatore giudica necessariamente
negativi per la finanza pubblica, ed in tal senso il ricorso allo strumento
andrà attentamente ponderato, tenuto conto di tutti gli interessi in gioco.
In ciò si sostanzia però in ultima analisi la discrezionalità amministrativa
dell’ente, nell’esercizio della quale questa Sezione di controllo non può
sostituirsi al Comune.
Spetterà dunque necessariamente al Comune stesso la
valutazione in concreto circa l’opportunità, o meno, di ricorrere a detta
forma d’incentivazione in misura sensibilmente inferiore a quella massima
consentita dalla legge.
----------------
Il Sindaco del Comune di Spinea (VE) ha posto a questa Sezione, con
un’unica richiesta di parere, sei distinti quesiti in merito alla
corretta destinazione e contabilizzazione degli incentivi di funzioni
tecniche, di cui all’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50
(Codice dei contratti pubblici), chiedendo se:
1. la spesa per il pagamento di tali incentivi per lo
svolgimento di funzioni tecniche rientri o meno nell'ammontare complessivo
della spesa del personale ai fini dell’applicazione del limite di cui
all'art. 1, co. 557, della legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria
per il 2007);
2. l'incentivo in oggetto possa essere riconosciuto per la
gestione di opere di manutenzione straordinaria ricomprese all'interno del
Piano triennale delle opere pubbliche dell'ente, e dunque di importo
rilevante per l'Amministrazione comunale;
3. l'incentivo in oggetto possa essere riconosciuto a fronte di
manutenzioni ordinarie che comunque prevedono lo svolgimento di alcune delle
attività previste dal richiamato art. 113, co. 2, del Codice dei contratti
pubblici, come, ad esempio, l'attività svolta dai dipendenti comunali per la
predisposizione e controllo delle procedure di gara e l'esecuzione dei
contratti pubblici riferiti alla riasfaltatura di una strada (manutenzione
ordinaria);
4. l'incentivo possa essere riconosciuto a fronte della gestione
di un appalto di fornitura di servizi affidato mediante adesione ad una
convenzione Consip già attiva. Nella fattispecie specifica la fornitura di
energia elettrica e la manutenzione degli impianti di pubblica
illuminazione, convenzione attiva in Consip, al quale l'ufficio tecnico del
Comune ha intenzione di aderire;
5. l'incentivo possa essere riconosciuto a fronte della gestione
di un appalto di fornitura di servizi di assistenza domiciliare, che verrà
assegnato a seguito dell'esperimento di apposita gara;
6. l'Amministrazione comunale possa destinare, per l'erogazione
di tutti gli incentivi in questione, un budget annuo complessivo che
potrebbe comportare il riconoscimento di una percentuale anche molto
inferiore al 2% previsto dall'art. 113 o l'esclusione di alcuni appalti
dall'incentivazione.
...
Tutto ciò premesso in ordine ai requisiti di ammissibilità in senso
oggettivo, la Sezione ritiene che i primi cinque quesiti posti dal
Sindaco del Comune di Spinea siano tutti ammissibili, vertendo in ordine
all’interpretazione della normativa vincolistica in materia di spesa per il
personale, in relazione a quanto disposto dall’art. 113 del Codice dei
contratti pubblici, mentre il sesto quesito è solo parzialmente
ammissibile, in quanto esorbitante i limiti dianzi esposti. Ragioni di
ordine logico-sistematico ed espositivo inducono tuttavia a definire
l'ambito di ammissibilità del sesto quesito, e la risposta allo
stesso entro i limiti così chiariti, solo dopo aver proceduto alla disamina
dei precedenti cinque, che come si è detto risultano tutti ammissibili.
II. Occorre rammentare brevemente l'evoluzione della normativa e della
giurisprudenza consultiva della Corte dei conti che hanno contraddistinto la
materia degli incentivi per funzioni tecniche ai dipendenti delle Pubbliche
Amministrazioni.
L’introduzione nell’ordinamento di detti incentivi risale, com’è noto, alla
legge 11.02.1994, n. 109 (c.d. legge Merloni), che prevedeva la ripartizione
a favore di determinati soggetti (il responsabile unico del procedimento,
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, ed i loro collaboratori) di un
incentivo a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori, fissato entro il limite massimo del 1,5% dell'importo posto
a base di gara.
La ratio della norma, come evidenziato dalle Sezioni riunite in sede di
controllo con
deliberazione 04.10.2011 n. 51, era quella di destinare una quota
di risorse pubbliche “a incentivare prestazioni poste in essere per la
progettazione di opere pubbliche, in quanto in tal caso si tratta
all’evidenza di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni
professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio
presso l’Amministrazione pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni
pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero
ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con
possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato”.
La previsione di funzioni incentivate è dunque intrinsecamente legata, sin
dal suo esordio nell’ordinamento, alla esigenza di razionalizzazione della
spesa, attuata nello specifico attraverso la valorizzazione delle risorse
interne. Il legislatore, al fine di non contraddire gli scopi dell’istituto,
ha posto attenzione ai vincoli di natura contabile entro cui rendere
utilizzabile lo strumento. Il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice
degli appalti) innovò alla previgente normativa, portando il limite delle
risorse destinabili all’incentivo al 2% dell’importo a base di gara, ma
prevedendo allo stesso tempo un vincolo ulteriore, per il quale l’incentivo
erogato non doveva comunque superare l’importo del trattamento complessivo
annuo lordo già in godimento dal singolo dipendente. Detto limite risulta
peraltro ridotto oggi al 50% del medesimo trattamento.
La legge 11.08.2014, n. 114, di conversione del decreto legge 24.06.2014, n.
90, istituì il “fondo per la progettazione e l’innovazione”, a valere
sugli stanziamenti destinati a finanziare gli incentivi, e da ripartirsi
secondo percentuali prestabilite: l’80% destinato agli incentivi per il
responsabile unico del procedimento e gli altri soggetti che svolgono le
funzioni tecniche, nonché i loro collaboratori, ed il restante 20%,
destinato invece all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie
funzionali a progetti di innovazione e di implementazione delle banche dati
per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa.
Con il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici)
si è passati dal suddetto “fondo per la progettazione e l’innovazione”
al fondo incentivante “le funzioni tecniche”, che ora includono, a
norma dell’art. 113 dell’articolato, anche le attività di “programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici” oltre a quelle, già incentivate in passato,
riferibili al responsabile unico del procedimento, alla direzione dei lavori
ed al collaudo tecnico-amministrativo; l’incentivo invece non è più
destinabile agli incaricati della redazione del progetto e del piano della
sicurezza, com’era nella previgente disciplina.
È evidente lo scopo del legislatore di estendere l’incentivo anche ad
attività dirette ad assicurare l’efficacia della spesa e l’effettività della
programmazione, attraverso l’ampliamento del novero dei beneficiari degli
incentivi in esame, individuati ora anche nel personale pubblico coinvolto
nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione
all’esecuzione del contratto (come già evidenziato dalla Sezione di
controllo per la Toscana con
parere 14.12.2017 n. 186).
Ad integrazione della predetta norma è intervenuto l’art. 76 del decreto
legislativo 19.04.2017, n. 56, che ha riferito l’imputazione degli oneri per
le attività tecniche ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione
della spesa, non solo con riguardo agli appalti di lavori (come da
formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di beni
e di servizi, confermando un indirizzo già emerso nella giurisprudenza
consultiva regionale (Sezione di controllo per la Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333).
L’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio per il
2018) ha poi specificato che il finanziamento del fondo per gli incentivi
tecnici grava sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi o forniture. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 113 in esame, introdotto
da detta norma, precisa infatti che “gli incentivi [di cui al presente
articolo] fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture”.
Quest’ultimo intervento normativo ha richiesto l’intervento nomofilattico
della Sezione delle Autonomie, che con
deliberazione 26.04.2018 n. 6 ha chiarito come la
contabilizzazione prescritta ora dal legislatore consenta di desumere
l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e dalla spesa per il
trattamento accessorio, affermando che “la ratio legis è quella di
stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in
termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di
attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di
personale”.
III. Ricostruita sinteticamente come sopra l'evoluzione della normativa e
della giurisprudenza consultiva, è possibile ora esaminare i singoli
quesiti.
Con il primo quesito il Comune chiede se la spesa per il pagamento
degli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche rientri o meno
nell'ammontare complessivo della spesa del personale ai sensi dell'art. 1,
co. 557, della L. n. 296/2006.
In merito alla questione questa Sezione si è già espressa con
parere 25.07.2018 n. 265 e
parere 14.11.2018 n. 429, dove, richiamando la
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della Sezione delle Autonomie, è stato chiarito che l’onere relativo ai
compensi incentivanti le funzioni tecniche non transita nell’ambito dei
capitoli dedicati alla spesa del personale, e dunque non può essere soggetto
ai vincoli posti alla relativa spesa da parte degli enti territoriali (in
senso conforme anche Sezione regionale di controllo per il Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).
Le condizioni di carattere generale che
devono sussistere ai fini dell’incentivabilità delle funzioni tecniche, già
ribadite qui in premessa (par. II in diritto) e nel corso di precedenti
pronunciamenti di questa Sezione, sono così riassumibili:
1.
che l’Amministrazione sia dotata di apposito regolamento interno
(come evidenziato da questa Sezione già con
parere 07.09.2016 n. 353, e da ultimo ribadito con
parere 07.01.2019 n. 1)
essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra
gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e sede idonea per
circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono
essere erogati. Occorre a tal proposito rilevare che il comma 3 dell’art.
113 fa obbligo all'Amministrazione aggiudicatrice di stabilire “i criteri
e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla
singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o
dei costi”: una condizione, questa, che secondo la Sezione delle
Autonomie, collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al
completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio
oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti (deliberazione
26.04.2018 n. 6);
2. che le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi
dell’art. 113, comma 2, siano ripartite, per ciascuna opera, lavoro,
servizio e fornitura, con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale (SRC Veneto
parere 07.01.2019 n. 1);
3. che negli appalti relativi a servizi o forniture sia nominato il
direttore dell'esecuzione (SRC Veneto
parere 07.01.2019 n. 1);
4. che il relativo impegno di spesa sia assunto a valere sulle
risorse stanziate nel quadro economico dell’appalto, attraverso la
costituzione di un apposito fondo vincolato non superiore al 2% dell’importo
dei lavori di manutenzione posti a base di gara;
5. che l’incentivo spettante al singolo dipendente non ecceda il
tetto annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo.
IV. Il secondo ed il terzo quesito possono essere esaminati
congiuntamente; con essi il Comune chiede se sia possibile riconoscere gli
incentivi per funzioni tecniche anche in relazione ad attività manutentive,
distinguendo tra manutenzione straordinaria (secondo quesito) ed ordinaria
(terzo quesito).
Occorre prendere le mosse dalle definizioni che il Codice dei contratti
pubblici, all'art. 3, antepone alla disciplina dei vari istituti
contrattuali:
• alla lettera oo-quater, introdotta dal decreto legislativo
19.04.2017 (cosiddetto I correttivo al Codice dei contratti) nel corpo
dell'unico comma del citato articolo 3, la manutenzione straordinaria è
definita come: “le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione
necessarie per eliminare il degrado dei manufatti e delle relative
pertinenze, al fine di conservarne lo stato e la fruibilità di tutte le
componenti, degli impianti e delle opere connesse, mantenendole in
condizioni di valido funzionamento e di sicurezza, senza che da ciò derivi
una modificazione della consistenza, salvaguardando il valore del bene e la
sua funzionalità”.
• alla lettera oo-quinquies, introdotta anch'essa dal I correttivo,
la manutenzione ordinaria è definitiva come: “le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali dei manufatti
e delle relative pertinenze, per adeguarne le componenti, gli impianti e le
opere connesse all'uso e alle prescrizioni vigenti e con la finalità di
rimediare al rilevante degrado dovuto alla perdita di caratteristiche
strutturali, tecnologiche e impiantistiche, anche al fine di migliorare le
prestazioni, le caratteristiche strutturali, energetiche e di efficienza
tipologica, nonché per incrementare il valore del bene e la sua funzionalità”.
La manutenzione, sia ordinaria che straordinaria, si sostanzia dunque
generalmente in un’opera, cioè nel risultato di un insieme di lavori volti a
rimediare al degrado di un manufatto o di sue componenti per conservarne
intatte le condizioni di sicurezza e di funzionamento. L'attività manutentiva rientrerà quindi generalmente nei “lavori” e, più in
particolare, nel quadro degli “appalti pubblici di lavori”, ma non è
da escludersi che attività di manutenzione straordinaria possano essere
associate ad appalti di forniture (definiti dalla lettera tt come "i
contratti tra una o più stazioni appaltanti e uno o più soggetti economici
aventi per oggetto l'acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o
l'acquisto a riscatto, con o senza opzione per l'acquisto, di prodotti"
con la precisazione che "un appalto di forniture può includere, a titolo
accessorio, lavori di posa in opera e di installazione"). A tale ultimo
proposito, va nuovamente rammentato che, ai sensi dell’ultimo inciso
dell’art. 113, l’applicabilità della normativa sulle funzioni incentivanti
agli appalti relativi a servizi o forniture è limitata al caso in cui sia
nominato il direttore dell'esecuzione.
In ogni caso, non si pone nella fattispecie un problema di numerus
clausus delle funzioni tecniche incentivate (derivante dall' uso
dell'avverbio "esclusivamente" che accompagna l'elencazione di dette
funzioni) in quanto in esse non rientrano le attività manutentive, che
costituiscono invece l’oggetto di un appalto, rispetto al quale il personale
dell’Amministrazione può svolgere una o più funzioni tecniche ad esso
correlate.
Questione analoga a quella oggetto del presente parere era stata invero già
affrontata dalla Sezione delle Autonomie, e risolta in senso negativo con
deliberazione 23.03.2016 n. 10, in riferimento però all’incentivo
per la progettazione di cui all’abrogato art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n.
163/2006. Gli aspetti innovativi della formulazione della norma
sull’incentivazione contenuta nell’art. 113 del Codice dei contratti hanno
tuttavia condotto ad un nuovo, differente indirizzo, espresso dalla Sezione
della Autonomie con
deliberazione 09.01.2019 n. 2.
Come già ricordato, la nuova disciplina mira a stimolare, valorizzare e
premiare i diversi profili, tecnici e amministrativi, del personale pubblico
coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione
all’esecuzione del contratto, e consente l’erogazione degli incentivi anche
per gli appalti di servizi e forniture. Di talché gli incentivi di funzioni
tecniche si configurano "non più solo come spesa finalizzata ad
investimenti, ma anche come spesa di funzionamento e, dunque, come spesa
corrente” (deliberazione 09.01.2019 n. 2).
In tal senso depone anche, secondo l'insegnamento della Sezione delle
Autonomie, la novella introdotta al comma 5-bis dell’art. 113 ad opera
dell’art. 1, comma 526, della legge 27/12/2017 n. 205 (legge di bilancio per
il 2018), secondo la quale gli oneri relativi agli incentivi per le funzioni
tecniche vanno imputati allo stesso capitolo del bilancio che finanzia i
singoli lavori, servizi e forniture, in modo che l’impegno di spesa vada
assunto, a seconda della natura (corrente o in c/capitale), nel Titolo I o
nel Titolo II dello stato di previsione del bilancio (deliberazione
26.04.2018 n. 6 già
richiamata in par. II in diritto).
In questa rinnovata prospettiva, la circostanza che, nella nuova disciplina,
il legislatore non abbia riproposto il divieto (di cui al comma 7-ter
dell’art. 93 del Codice degli appalti) di ripartire l’incentivazione per le
attività manutentive, è ancor più indicativo di una voluntas legis
tesa a segnare il superamento del precedente sistema con l’individuazione di
margini applicativi più ampi e la rinuncia ad intervenire sulle modalità di
riparto del fondo (deliberazione 09.01.2019 n. 2).
Negli appalti di lavori di manutenzione è pertanto possibile realizzare
tutte le attività tecniche previste dal secondo comma dell’art. 113, purché
gli interventi manutentivi siano contrassegnati da quella elevata
complessità che rappresenta il presupposto per lo svolgimento di dette
funzioni.
IV.1. Per gli interventi di manutenzione ordinaria di più semplice
realizzazione, tuttavia, la possibilità di svolgere le funzioni tecniche
potrebbe essere esclusa in concreto dall’assenza di un progetto da attuare,
o dalla circostanza che l’Amministrazione proceda all’affidamento con
modalità diverse dalla gara.
Il secondo comma dell’art. 113 richiede infatti che l’incentivazione sia
destinata a quelle funzioni tecniche svolte dai dipendenti “ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Si presuppone pertanto che a monte vi sia una “gara”, cui del resto è
parametrato il limite percentuale massimo dell’incentivo, ed in assenza
della quale esso risulta pertanto non quantificabile, ed inoltre che
l'attività sia caratterizzata da “problematiche realizzative di
particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da
parte del personale interno all’Amministrazione affinché il procedimento che
regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno
rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi
e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia
della spesa” (deliberazione 09.01.2019 n. 2).
Permane poi necessario anche nella fattispecie il rispetto dei requisiti di
ordine generale già precedentemente richiamati, in risposta al primo quesito
(par. III in diritto).
Le ulteriori condizioni, che si cumulano alle
suddette di carattere generale, affinché le attività tecniche, svolte in
funzione di una corretta e spedita esecuzione delle attività di manutenzione
ordinaria, possano costituire oggetto di incentivazione, sono quindi così
riassumibili:
1. che alla base dell’affidamento vi sia una procedura di gara;
2. che l’attività manutentiva risulti caratterizzata da particolare
complessità, tale da necessitare di uno sforzo supplementare affinché
l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, il progetto,
i tempi e i costi prestabiliti;
3. che le attività tecniche, amministrative e contabili svolte dai
dipendenti, previamente accertate, siano strettamente collegate ai lavori manutentivi da eseguire.
Ciò posto, spetta all’ente la valutazione dell’occorrenza, in concreto, di
attività effettivamente incentivabili.
V. Con il quarto quesito, il Comune chiede se l'incentivo possa
essere riconosciuto a fronte della gestione di un appalto di fornitura di
servizi affidato mediante adesione ad una Convenzione Consip già attiva.
Occorre qui preliminarmente ribadire che l’elencazione delle funzioni
incentivabili (di cui al secondo comma dell’art. 113) è riferita a
particolari attività, il cui espletamento sia richiesto dalla complessità
del procedimento cui esse attengono, quindi non ad una particolare categoria
di contratti.
Secondo la giurisprudenza consultiva che si è espressa sul tema, una volta
ammesso il ricorso a tali forme d’incentivazione anche per gli appalti di
servizi e forniture, ciò che rileva, ai fini della riconduzione o meno della
fattispecie entro lo spazio di applicabilità della norma, non è l’utilizzo
di determinati meccanismi di approvvigionamento, quanto l’effettiva
occorrenza di una delle attività incentivate, vale a dire: programmazione
della spesa per investimenti, verifica preventiva dei progetti,
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, responsabile unico del procedimento, direzione dei
lavori, direzione dell’esecuzione, collaudo tecnico amministrativo, verifica
di conformità, collaudatore statico (Sezione di controllo per la Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185 e Sezione di controllo per la Toscana
parere 27.03.2018 n. 19).
Il fatto che si proceda mediante Consip non è dunque di per sé preclusivo al
riconoscimento di incentivi per funzioni tecniche, come d'altra parte si
evince anche dalla norma contenuta nel secondo comma dell'art. 113, per la
quale “Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di
committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale
centrale” che implicitamente prevede la possibilità di destinare quota
del fondo ai dipendenti interni, ove ne ricorrano le condizioni.
Va tuttavia evidenziato come la medesima giurisprudenza consultiva si sia
premunita di specificare come permanga anche in questo caso indefettibile il
presupposto che vi sia a monte una “gara”, poiché in mancanza di tale
requisito non può esservi l’accantonamento delle risorse nel fondo, ai sensi
del secondo comma dell’art. 113.
Va inoltre evidenziato come, in termini più generali, le previsioni
legislative inerenti all’acquisto di beni e servizi mediante strumenti di
e-procurement (quali convenzioni Consip, MEPA, eccetera) rispondano ad
esigenze di semplificazione e razionalizzazione del procedimento di
provvista della Pubblica Amministrazione. Pertanto, come già correttamente
rilevato in sede consultiva, laddove l’ente sia tenuto o decida di far
ricorso a tali modalità di approvvigionamento, le attività indicate
nell’art. 113 potrebbero, in concreto, non realizzarsi, con conseguente
impossibilità di procedere alla erogazione dei connessi incentivi (SRC
Toscana
parere 27.03.2018 n. 19).
Occorre tenere a mente che Consip mette a disposizione delle Pubbliche
Amministrazioni un’ampia gamma di differenziati strumenti d’acquisto e di
negoziazione. La sussistenza del requisito della “gara” dipenderà
quindi dal tipo di strumento adottato, ed una volta chiarito come spetti di
conseguenza all’ente la valutazione circa l’occorrenza in concreto di
attività effettivamente incentivabili (SRC Lombardia
parere 09.06.2017 n. 185, SRC Toscana
parere 27.03.2018 n. 19)
si deve anche affermare come, nello specifico, l’adesione ad una convenzione
Consip già attiva non sia di per sé sufficiente ad integrare il requisito
della gara, ed atto a giustificare l’incentivazione delle connesse funzioni
amministrative svolte dal personale interno.
VI. Con il quinto quesito, il Comune chiede se l'incentivo possa
essere riconosciuto a fronte della gestione di un appalto di fornitura di
servizi di assistenza domiciliare, che verrà assegnato a seguito
dell'esperimento di apposita gara.
Le considerazioni svolte finora consentono di rispondere in modo
consequenziale al quesito.
Posto infatti che ricorra lo svolgimento di una delle attività elencate dal
secondo comma dell’art. 113 e che vi sia a monte una gara, l’incentivo può
essere riconosciuto anche in relazione ad un appalto di servizi, ove, in
analogia alle altre casistiche esaminate, ciò sia richiesto dalla
particolare complessità dell’appalto, entro i limiti, anch’essi già qui
analizzati, che possono essere così riassunti:
1. che l’Amministrazione sia dotata di apposito regolamento
interno;
2. che le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi
dell’art. 113, comma 2, siano ripartite con le modalità e i criteri previsti
in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
3. che sia stato nominato il direttore dell'esecuzione;
4. che il relativo impegno di spesa sia assunto attraverso la
costituzione di un apposito fondo vincolato non superiore al 2% dell’importo
posto a base di gara;
5. che l’incentivo spettante al singolo dipendente non ecceda il tetto
annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo;
6. che l’attività risulti caratterizzata da particolare
complessità, tale da necessitare di uno sforzo supplementare affinché
l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, i tempi ed i
costi prestabiliti.
Spetterà dunque all’ente la valutazione dell’occorrenza, in concreto, di
attività effettivamente incentivabili.
VII. Con il sesto quesito, il Comune chiede se “l'Amministrazione
comunale possa destinare, per l'erogazione di tutti gli incentivi in
questione, un budget annuo complessivo che potrebbe comportare il
riconoscimento di una percentuale anche molto inferiore al 2% previsto
dall'art. 113 o l'esclusione di alcuni appalti dall'incentivazione”.
In base ad un consolidato principio più volte ribadito da questa Sezione, ai
fini dell'ammissibilità dell’esercizio della funzione consultiva, il parere
non deve indicare soluzioni alle scelte operative discrezionali dell’ente o
determinare una sorta di inammissibile sindacato in merito ad un’attività
amministrativa in fieri, ma deve individuare o chiarire regole di
contabilità pubblica.
La normativa contabile non pone di per sé un limite inferiore alla quota di
incentivi (sempre determinata a
partire dall’importo posto a base di gara e dal trattamento economico in
godimento) ma soltanto limiti superiori. Tuttavia, come già
evidenziato, la previsione di funzioni incentivate è intrinsecamente legata
alla esigenza di razionalizzazione della spesa pubblica, attuata nello
specifico attraverso la valorizzazione delle risorse interne, in quanto si
tratti di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali
specialistiche offerte da personale qualificato in servizio, per le quali
diversamente le Amministrazioni pubbliche dovrebbero ricorrere a
professionisti esterni sul mercato, con possibili aggravi di costi per il
bilancio dell’ente interessato.
Pur non essendovi alcuna norma che espressamente imponga all’ente di
utilizzare appieno gli incentivi per funzioni tecniche, l’eventuale “riconoscimento
di una percentuale anche molto inferiore al 2% previsto dall'art. 113”
deve essere valutato attentamente dall’Amministrazione, affinché esso non
sia associato a situazioni di sottoutilizzazione delle risorse interne tali
da potersi indirettamente ripercuotere in senso negativo sui costi
complessivamente sostenuti, eventualità che la ratio della norma vuole
invece scongiurare.
La previsione di incentivi, purché contenuta nei limiti richiamati, non è
dunque foriera di effetti che il legislatore giudica necessariamente
negativi per la finanza pubblica, ed in tal senso il ricorso allo strumento
andrà attentamente ponderato, tenuto conto di tutti gli interessi in gioco.
In ciò si sostanzia però in ultima analisi la discrezionalità amministrativa
dell’ente, nell’esercizio della quale questa Sezione di controllo non può
sostituirsi al Comune.
Spetterà dunque necessariamente al Comune stesso,
anche sulla base delle indicazioni esposte in risposta ai precedenti
quesiti, la valutazione in concreto circa l’opportunità, o
meno, di ricorrere a detta forma d’incentivazione in misura sensibilmente
inferiore a quella massima consentita dalla legge.
La “esclusione di alcuni appalti dall'incentivazione”, cui si
riferisce il Comune nella seconda parte del quesito, rappresenta a maggior
ragione una scelta discrezionale, riservata al Comune sulla base di
valutazioni sue proprie, finalizzate al miglior bilanciamento degli
interessi in gioco, che qui comprendono anche la scelta, da operarsi a
monte, in ordine alla migliore modalità di approvvigionamento o di
esecuzione di un’opera o un lavoro, in base alle specifiche esigenze e
finalità del Comune stesso.
Il quesito, a ben vedere, può considerarsi in verità mal posto. Da un punto
di vista di legittimazione oggettiva, sotto il profilo cioè dell’attinenza
alla materia contabile, esso avrebbe dovuto essere formulato chiedendo non
se un appalto si possa escludere, ma a quali condizioni le funzioni ad esse
connesso possano essere incentivate. In tal senso, il quesito trova risposta
nei precedenti, riferiti alle fattispecie specifiche portate all’attenzione
di questa Sezione (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 09.04.2019 n. 72). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Gli incentivi alla progettazione spettano
al personale dipendente che abbia svolto la
prestazione nel periodo che va dalla vigenza del
d.l. n. 90 del 2014, conv., con modificazioni, dalla
legge n. 114/2014 all’entrata in vigore del d.lgs.
n. 50/2016, sebbene il regolamento regionale (reg.
n. 2 del 30.12.2016) e il conseguente accordo
sindacale decentrato si siano perfezionati
successivamente all’entrata in vigore del nuovo
regime introdotto dal codice degli appalti.
Per i profili strettamente contabili, sono
utilizzabili le risorse di bilancio accantonate e
già impegnate. Non sono invece da ritenere più
disponibili per la corresponsione delle indennità le
risorse di bilancio ormai passate in economia.
---------------
Il Presidente della Regione Emilia Romagna
formula seguente richiesta di parere, articolata su
due quesiti:
a) se il regolamento regionale 30.12.2016 n. 2, che
disciplina la materia degli incentivi di
progettazione e di pianificazione svolta da
personale regionale, emanato a seguito dell’entrata
in vigore del d.l. n. 90 del 2014, conv., con
modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014
-superando così la pregressa disciplina di cui al
regolamento regionale 31.07.2006, n. 5, applicato
fino all’entrata in vigore del precitato d.l. n. 114
del 2014-, in concreto applicabile solo dopo la
definizione dell’accordo sottoscritto tra le Regioni
e le organizzazioni sindacali in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale,
possa ritenersi comunque ancora suscettibile di
applicazione per l’attribuzione di detti incentivi
dell’attività di progettazione e pianificazione
svolta dal personale regionale ratione temporis
e cioè fino all’entrata in vigore dell’ulteriore
diversa disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del 2016.
La richiesta di parere circa l’applicazione della
citata disciplina delle modalità di corresponsione
degli incentivi in questione, dopo l’entrata in
vigore del Codice degli appalti pubblici, muove dal
dubbio originato dall’orientamento espresso dalla
stessa Corte dei conti (cfr.
parere 09.10.2017 n. 177
della Sezione regionale di controllo per il
Piemonte), secondo cui all’attuazione delle
previsioni del d.lgs. n. 163/2006, come riformate
dalla l. n. 114/2014, potrebbe essere ostativo, a
seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n.
50/2016, il principio dell’irretroattività dei
regolamenti amministrativi, in particolare del
citato regolamento n. 2 del 2016, emanato
successivamente all’entrata in vigore del citato
Codice degli appalti;
b) la Regione distingue, poi, nell’ipotesi di una risposta
affermativa al quesito, due casi diversi:
a) che le somme riguardanti gli importi per
gli incentivi siano già stati accantonati ed
impegnati su capitoli di spesa riferiti alle opere;
b) che le somme riguardanti gli importi per
gli incentivi siano già stati accantonati ma non
impegnati su capitoli di spesa riferiti alle opere,
confluendo tra le “economie”.
...
2.1. La risposta al primo quesito è
affermativa.
Infatti, il titolo giuridico ad ottenere l’incentivo
si fonda sulla fonte primaria, e cioè, nella specie,
sul d.l. n. 90 del 2014, conv., con modificazioni,
dalla legge n. 114 del 2014; sicché, il regolamento
e il successivo citato accordo di contrattazione
decentrata trovano sicura applicazione, pur essendo,
medio tempore, entrata in vigore la nuova
disciplina di cui al Codice degli appalti. Infatti,
detta disciplina, a formazione giuridica successiva,
è applicabile laddove sussistano posizioni
giuridiche soggettive del personale dipendente in
relazione ad attività di progettazione e
pianificazione prestata nell’arco di tempo che,
nella specie, va dall’entrata in vigore della legge
n. 114/2014, di conversione del d.l. 90/2014 -che ha
introdotto i commi da 7-bis a 7-quinquies nell’art.
93 del d.lgs. n. 163/2006- fino all’entrata in
vigore del d.lgs. n. 50/2016 (in materia, cfr.,
Corte conti, Sez. Autonomie
deliberazione 24.03.2015 n. 11; deliberazione
08.05.2009 n. 7).
Il fatto, dunque, che il regolamento regionale sia
stato definito successivamente all’entrata in vigore
di una fonte normativa sovraordinata ma che non
regola la disciplina per il passato non impedisce,
anzi impone, che quelle posizioni giuridiche
soggettive maturate in vigenza della normativa
successivamente abrogata (e dunque con operatività
ex nunc, ad opera del d.lgs. n. 50/2016),
siano regolate propriamente sulla base della
disciplina applicabile ratione temporis, di
cui quella regolamentare e negoziata citate
costituiscono completamento, operando, come detto,
quale fattispecie normativa a formazione
progressiva.
2.2. La risposta al secondo quesito è più
articolata.
2.2.1. Deve certamente ritenersi consentita
l’assegnazione delle somme accantonate ed impegnate
in bilancio; sicché, per questa parte, dette somme
possono essere erogate per soddisfare le pretese
maturate all’ottenimento dell’incentivo, nel periodo
considerato, dal personale che abbia effettuato le
prestazioni di progettazione e pianificazione delle
opere pubbliche.
2.2.2. Ostativa, invece, all’accoglimento della
seconda prospettata ipotesi, e cioè della ancora
attuale possibilità di disporre di somme accantonate
ma non impegnate, è costituita dell’evento contabile
qualificato dalla stessa Regione quale “economia”
di somme, cioè, medio tempore non impegnate,
poiché dette somme, pur originariamente accantonate,
sono oramai confluite tra le economie di fine
esercizio: come tali definite e quantificate nel
rendiconto non possono per definizione ritenersi più
disponibili.
La Regione valuterà, dunque, laddove quelle risorse
già accantonate e non impegnate non si rivelino
sufficienti a soddisfare le legittime pretese dei
dipendenti regionali, i presupposti per lo
stanziamento di apposite risorse finanziarie sul
nuovo bilancio (Corte dei Conti, Sez. controllo
Emilia Romagna,
parere 05.04.2019 n. 26). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Ai fini della applicabilità delle disposizioni relative ai
pregressi ed abrogati incentivi alla progettazione e quindi in relazione ai
rapporti intertemporali fra l’art. 92 del d.lgs. 163/2006 e l’art. 93, commi
7-bis, ter e quater, del medesimo decreto, modificato nel 2014, si deve far
riferimento alla data di effettivo espletamento delle funzioni progettuali.
Gli emolumenti de quibus sono connessi ad un’attività che normalmente non si
esaurisce uno acto ma si articola in un procedimento complesso e durevole
nel tempo per cui mancando un criterio normativo ad hoc come quello di cui
all’art. 216 del D.Lgs. 50/2016, non può che farsi riferimento al generale
principio di irretroattività della legge in combinato disposto con il
principio tempus regit actum.
Ne consegue che se l’attività del dipendente è stata realizzata prima
dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte dalla l. n. 114/2014,
continua ad applicarsi la disciplina pregressa (art. 92 del d.lgs.
163/2006), se, invece, l’attività è stata realizzata dopo l’entrata in
vigore della novella del 2014 si applicherà l’art. 93, comma 7-bis e ss.,
del medesimo decreto.
----------------
... il Sindaco del Comune di Gravellona Toce (VCO), dopo aver
premesso che il Comune ha adottato il Regolamento sulla distribuzione degli
incentivi per la progettazione ai sensi del previgente art. 93, comma 7-bis,
del D.Lgs. 163 del 2006 come modificato dal D.L. 90 del 2014 conv. in L. 114
del 2014, chiede di sapere se “è possibile procedere alla liquidazione
dei c.d. incentivi alla progettazione di cui all’art. 93, comma 7, del D.Lgs.
163 del 2006 e s.m.i, per lavori effettuati e con somme accantonate all’uopo
alla luce della normativa e delle successive pronunce delle sezioni
regionali della Corte dei conti che in questi anni si sono susseguite”.
...
La richiesta in esame attiene sostanzialmente all’individuazione della
disciplina intertemporale applicabile nell’ipotesi di attività incentivanti
realizzate nella vigenza dell’art. 93 del D.Lgs. 163 del 2006. Tale
questione si pone come particolarmente rilevante e frequente in
considerazione del fatto che spesso le procedure relative alla realizzazione
di lavori pubblici si protraggono per diverso tempo e pertanto si espongono
allo ius superveniens. L’analisi del quesito proposto, pertanto, non
può che muovere da un approccio diacronico all’istituto in esame.
In origine gli incentivi tecnici erano riconosciuti in correlazione alle
funzioni progettuali, in forza del principio per il quale gli enti devono
provvedere alla progettazione con l’impiego di risorse interne, costituendo
l’affidamento esterno una mera eccezione (art. 18 della L. n. 190 del 1994
cd. Legge Merloni ed ancor prima dall’art. 1 del R.D. 1923 n. 422).
Dopo l’abrogazione della Legge Merloni l’istituto degli incentivi c.d. “alla
progettazione” ha trovato una disciplina ad hoc nell’ambito
dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006, con la definizione di un tetto massimo
al compenso che non poteva superare quello del complessivo trattamento annuo
lordo del dipendente che lo percepiva.
Successivamente con gli articoli 13 e 13-bis del D.L. n. 90 del 2014
convertito nella L. n. 114 del 2014, la disciplina degli incentivi alla
progettazione interna di opere o lavori è stata profondamente innovata.
Abrogato con effetto dal 19/08/2014, il comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. n.
163/2006, la disciplina dell’istituto è stata riproposta con rilevanti
modifiche, nel successivo art. 93, escludendosi:
a) la categoria dirigenziale dall’erogazione dei compensi
incentivanti per il principio di onnicomprensività del trattamento economico
percepito (comma 6-bis, aggiunto all’art. 92), con eccezione reiterata in
modo espresso nell’ultimo inciso del terzo comma dell’art. 113 del nuovo
Codice;
b) le attività di pianificazione urbanistica, nonché quelle di
progettazione riguardante attività di manutenzione straordinaria e
ordinaria, dal novero delle attività tecniche incentivabili.
Infine, con il nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 50/2016) il
Legislatore delegato ha scelto di non prevedere più la remunerazione
dell’attività di progettazione interna bensì di incentivare specifiche
attività –di natura eminentemente tecnica– svolte dai dipendenti pubblici,
tra cui quelle di programmazione, di predisposizione e di controllo delle
procedure di gara, nonché di esecuzione del contratto.
Venendo più nello specifico all’esame del quesito posto dall’Ente comunale è
da ricordare che il nuovo Codice dei contratti pubblici, il D.lgs. 50 del
2016 espressamente all’art. 216 prevede un criterio intertemporale ritenuto,
per consolidato orientamento di questa Corte (cfr. ex multis Sezione
regionale di controllo per il Piemonte,
parere 09.10.2017 n. 177 nonché
parere 23.05.2018 n. 54,
parere 23.05.2018 n. 56 e
parere 19.03.2019 n. 25,
Sezione regionale di controllo per il Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57) applicabile anche all’istituto in esame
e che consente di definire i perimetri cronologici tra gli incentivi ex art.
93 comma 7 e s.m.i. dell’abrogato D.Lgs. 163 del 2006 e l’art. 113 del
D.lgs. 50 del 2016.
In particolare al I comma è disposto che “Fatto salvo quanto previsto nel
presente articolo ovvero nelle singole disposizioni di cui al presente
codice, lo stesso si applica alle procedure e ai contratti per le quali i
bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano
pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in
caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e
ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del
presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le
offerte”. Per effetto di tale previsione il nuovo art. 113 trova
applicazione a decorrere dal 19.04.2016, data di entrata in vigore del
Codice (ex art. 220, dal giorno stesso della sua pubblicazione nella G.U.).
Ai fini della applicabilità delle disposizioni disciplinanti, invece, i
pregressi ed abrogati incentivi alla progettazione, e quindi in relazione ai
rapporti intertemporali fra l’art. 92 del d.lgs. 163/2006 e l’art. 93, commi
7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. 163/2006, come modificato nel 2014, si
deve far riferimento –secondo il vincolante orientamento nomofilattico
espresso dalla Sezione Autonomie– alla data di effettivo espletamento delle
funzioni progettuali (Sezione Autonomie (deliberazione
08.05.2009 n. 7;
deliberazione 24.03.2015 n. 11 e
deliberazione 13.05.2016 n. 18).
Infatti, in considerazione del fatto che gli emolumenti in parola sono
connessi ad un’attività che normalmente (anzi il più delle volte) non si
esaurisce uno acto ma si articola in un procedimento complesso e
durevole nel tempo e mancando un criterio normativo ad hoc come quello di
cui al citato art. 216, non può che farsi riferimento al generale principio
di irretroattività della legge (cfr. Corte dei Conti Sezione delle autonomie
deliberazione 24.03.2015 n. 11)
in combinato disposto con il principio tempus regit actum, secondo
cui ogni atto viene disciplinato dalla legge in vigore nel momento in cui lo
stesso viene posto in essere.
Non a caso nella
deliberazione 08.05.2009 n. 7,
la Sezione delle Autonomie, nel dar rilievo al momento di “compimento
effettivo dell’attività”, aveva specificato che “per le prestazioni
di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma
si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione
temporale di attività” (Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie
deliberazione 08.05.2009 n. 7).
Tale ricostruzione, come affermato dalla stessa Sezione Autonomie nella
successiva pronuncia n. 11 del 2015, conserva la sua validità ed attualità
anche all’indomani della novella del 2014 che ha modificato i cd. incentivi
alla progettazione. Ne consegue che se l’attività del dipendente è stata
realizzata prima dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte dalla l.
n. 114/2014 (di conversione con modifiche del D.L. 90/2014), continua ad
applicarsi la disciplina pregressa (art. 92 del d.lgs. 163/2006), se,
invece, l’attività è stata realizzata dopo l’entrata in vigore della novella
del 2014 non potrà che trovare applicazione l’art. 93, comma 7-bis e ss.,
del medesimo decreto.
Individuato il criterio di gestione dello ius superveniens spetta
all’Ente in concreto verificare la presenza degli altri requisiti
legittimanti la liquidazione dell’emolumento ed in particolare, giova qui
ricordare, l’esistenza di un regolamento interno dell’Ente erogatore che
preveda la misura dell’incentivo secondo i criteri fissati in contrattazione
decentrata e l’accantonamento al Fondo dedicato (Corte dei Conti, Sez.
controllo Piemonte,
parere 04.04.2019 n. 28). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Il
regolamento sugli incentivi tecnici assorbe il passato con la retroattività
«debole»
Il principio della cosiddetta retroattività «debole» rende legittima la
disciplina del regolamento degli incentivi tecnici che disponga il
pagamento, oltre che per il futuro, anche per le attività svolte prima della
sua approvazione. L'inclusione o esclusione dal fondo delle risorse
decentrate di questi incentivi (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017),
tuttavia, dovrà confrontarsi con la normativa vigente all'epoca delle
attività espletate divenute remunerabili solo a regolamento approvato.
Queste sono le indicazioni della Corte dei conti della Liguria (parere 03.04.2019
n. 31).
Il principio della retroattività «debole»
I giudici contabili liguri danno risposta positiva alla possibilità, da
parte del regolamento dell'ente, di poter attrarre quali attività
incentivabili anche quelle espletate prima della sua approvazione. Questo è
possibile grazie al principio della cosiddetta retroattività «debole» che
produce i suoi effetti dalla data di approvazione anche sulla base di una
fattispecie realizzatasi nel passato, a differenza della retroattività «forte»
che riguarda una espressa previsione della norma intesa a comprendere, dalla
sua entrata in vigore, anche le fattispecie e gli effetti avvenuti nel
passato.
La retroattività «debole» vale anche per gli incentivi tecnici i cui
effetti sono validi per il futuro ma che possono attrarre anche gli
accantonamenti ai fondi destinati agli incentivi effettuati prima della
disciplina regolamentare. Al medesimo ragionamento, secondo il collegio
contabile ligure, si giunge anche per altra via. Infatti, ove la legge
disciplina per il passato anche l'eventuale fonte regolamentare potrebbe
disciplinare ora per allora situazioni pregresse.
Nel caso degli incentivi tecnici, infatti, le disposizioni del Dlgs 50/2016
disciplinano situazioni del passato in due commi dell'articolo 216. Al comma
1 dove la nuova disciplina «si applica alle procedure e ai contratti per
i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano pubblicati successivamente alla sua data di entrata in
vigore nonché, in caso di pubblicazione di contratti senza pubblicazione di
bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla
data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati
inviati gli inviti a presentare offerte». Al comma 3 quando si precisa
che «Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all'articolo
21, comma 8, si applicano gli atti di programmazione già adottati ed
efficaci …».
Le regole da rispettare
Per i giudici contabili liguri una cosa sono gli effetti retroattivi del
regolamento, altra cosa è la legge applicabile alla distribuzione degli
incentivi che non può che essere quella vigente al momento delle attività
espletate dai dipendenti (nel caso di specie il precedente codice dei
contratti Dlgs 163/2006). Le medesime regole troveranno applicazione anche
alle nuove disposizioni della legge di bilancio 2018 che, inserendo
all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, il comma 5-bis, ha posto gli incentivi
fuori dai limiti e vincoli del salario accessorio (articolo 23, comma 2,
Dlgs 75/2017).
Alle medesime conclusioni giunge anche la Corte dell'Umbria (parere
28.03.2019 n. 56) che, dopo aver condiviso la possibilità che i regolamenti
possono attrarre anche accantonamenti già effettuati, precisano che
l'impegno di spesa sugli incentivi tecnici potrà essere assunto solo a
partire dalla data di entrata in vigore del regolamento, con la sola
precisazione che gli incentivi prima del 2018 dovranno essere considerati
quali spese del personale (soggetti ai vincoli del fondo) mentre quelli
successivi a questa data dovranno essere afferenti al medesimo capitolo
degli appalti, servizi o forniture (fuori dai limiti del fondo)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2019). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Distribuzione
incentivi tecnici per problematiche concernenti la possibile retroattività
del relativo Regolamento.
La Sezione esprime i seguenti principi di diritto
all’esito del quesito scrutinato:
1) il regolamento può disciplinare con effetto
retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime
normativo antecedente il D.Lgs. 50/2016 perché la retrodatazione degli
effetti è consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, D.Lgs. 50/2016;
2) il regolamento potrà disciplinare le suddette
situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la
normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva;
3) è escluso, di conseguenza, che il regolamento
suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di risorse
accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo
dell’attività incentivabile.
---------------
Con nota acquisita al protocollo della Corte dei conti, Sezione Regionale di
Controllo per la Liguria, 1541-5/3/2019-SC—LIG-T85-A, ritualmente trasmessa
dal Consiglio delle Autonomie Locali della Liguria, il Comune di Sanremo
(IM) ha inoltrato istanza di parere alla medesima Sezione Regionale ai sensi
dell’art. 7, comma 8, L. 131/2003.
Nella istanza in questione si chiede se, nel caso in cui un’amministrazione
–nel periodo precedente l’abrogazione del D.Lgs. 163/2006 ad opera del D.Lgs.
50/2016 (in particolare, nel periodo dal 19/08/2014 al 18/04/2016)- non
abbia adottato alcun regolamento ex D.L. 90/2014, sia possibile adottarne
uno con valenza retroattiva al fine di ripartire gli incentivi regolarmente
accantonati in bilancio e maturati dai dipendenti per l’attività svolta nel
periodo ricompreso tra l’entrata in vigore dell’art. 13-bis del D.L. 90/2014
(che ha introdotto il comma 7-bis e ss. nell’art. 93) e l’entrata in vigore
del D.Lgs. 50/2016.
In caso di esito sfavorevole al precedente quesito, si chiede, altresì, se
si possa procedere alla compensazione dell’attività svolta dal personale nel
periodo sopra citato in base al previgente regolamento, adottato sulla base
del D.Lgs. 163/2006.
Poiché l’amministrazione rappresenta come sussistano orientamenti
dissonanti, che riporta (in senso sfavorevole alla retroattività Corte dei
conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353; Sez. regionale di controllo per la Toscana,
parere 26.10.2017 n. 177; in senso favorevole Sez.
regionale di controllo per il Piemonte,
parere 09.12.2018 n. 135), la medesima chiede quale di essi vada seguito.
...
Il parere deve stabilire se la distribuzione degli incentivi tecnici,
previsti da ultimo dall’art. 113 D.Lgs. 50/2016, per attività espletate nel
sistema precedente a quello vigente, in assenza di regolamento, possa essere
disciplinata ora per allora, vale a dire con effetto retroattivo, da un
regolamento nuovo.
In linea generale, va detto che il regolamento costituisce fonte normativa
subordinata alla legge (artt. 1 e 4, 1° comma, Preleggi).
Disponendo la legge solo per l’avvenire, ex nunc, (art. 11, 1° comma,
Preleggi), il regolamento non può, pertanto, assumere efficacia retroattiva
(ex tunc) per ragioni di certezza del diritto e di tutela
dell’affidamento dei destinatari della norma (Cons. St. 882/2016).
Su tale argomentazione si attestano gli orientamenti giurisprudenziali
(menzionati in “fatto”) per fornire risposta negativa alla presente
questione.
Orbene, la Sezione diversamente ritiene di dover distinguere tra
retroattività cosiddetta “forte” e retroattività cosiddetta “debole”,
categorie queste puntualmente distinte da parte della dottrina.
Alla retroattività “forte” corrisponde il caso della norma produttiva
di effetti giuridici che vengono innestati nel passato, nel senso che la
legge retroattiva colloca prima della sua entrata in vigore sia la
fattispecie sia i suoi effetti.
Alla retroattività “debole” corrisponde la produttività di effetti
attuali ma sulla base di una fattispecie realizzatasi nel passato.
Quest’ultima situazione, ricorrente nel caso di specie, essendosi già
consumato nel passato l’accantonamento dei fondi destinati agli incentivi
tecnici, non subisce, ad avviso di questa Sezione, il divieto di
retroattività ex art. 11, 1° comma, Preleggi.
Difatti, quando l’ordinamento ha voluto escludere la retroattività “debole”,
lo ha detto espressamente.
La predetta dottrina offre l’esempio dell’art. 2 c.p. per il quale nessuno
può essere punito (oggi) per un fatto che, al momento della commissione
(ossia nel passato) non costituiva reato.
Si tratta di un divieto espresso della retroattività “debole”. Ma
tale divieto non avrebbe dovuto essere espresso se l’art. 11, 1° comma,
Preleggi già avesse escluso tale forma di retroattività.
Secondo tale prospettazione, dunque, costituendo l’accantonamento degli
incentivi tecnici un fatto già realizzatosi nel passato, il regolamento
potrebbe disciplinare retroattivamente la fattispecie atteso che,
trattandosi di retroattività “debole”, essa non incontra i limiti
dell’art. 11, 1° comma, Preleggi.
Per completezza va detto che, qualora si negasse la distinzione
retroattività forte/retroattività debole e si ritenesse che la presente
tematica coinvolga, invece, l’art. 11, 1° comma, Preleggi, occorrerebbe
considerare che tale disposizione è pur sempre contenuta in una legge
ordinaria (il codice civile) ed è perciò derogabile da altra legge di pari
grado (cfr. Corte cost. 118/1957; 199/1986; 385/1995).
Né il principio d’irretroattività della legge trova alcuna copertura
costituzionale, se non per il caso circoscritto della legge penale (art. 25,
2° comma, Cost.).
Ne deriva, sul piano generale, che ove la legge disponga per il passato,
anche l’eventuale fonte regolamentare potrebbe disciplinare ora per allora
situazioni pregresse.
In detto ambito, nel caso di specie, va evidenziata la disposizione di
diritto transitorio di cui al D.Lgs. 50/2016, art. 216, 1° comma, secondo
cui siffatta normativa “si applica alle procedure e ai contratti per i
quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano pubblicati successivamente alla sua data di entrata in
vigore nonché, in caso di pubblicazione di contratti senza pubblicazione di
bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla
data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati
inviati gli inviti a presentare offerte”.
Il 3° comma del citato art. 216 aggiunge che “Fino alla data di entrata
in vigore del decreto di cui all’articolo 21, comma 8, si applicano gli atti
di programmazione già adottati ed efficaci (…)”.
La disposizione richiamata va letta nel senso che il D.Lgs. 50/2016 trova
applicazione limitatamente alle fattispecie concrete, inclusive degli
incentivi tecnici, verificatesi dopo la sua entrata in vigore.
Ne deriva che le fattispecie concrete verificatesi prima di tale vigenza,
sempre inclusive degli incentivi tecnici, restano regolate dalla normativa
(legislativa e regolamentare) precedente (Corte dei conti, Sez. reg. di
controllo per il Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57) in
conformità al principio tempus regit actum (Cons. St. 5231/2017).
Più precisamente, “l’espressione letterale utilizzata dall’art. 216, 1°
comma, deve intendersi riferita a tutte le previsioni normative contenute
nel provvedimento normativo nel quale la relativa previsione transitoria
risulta inserita” (Cons. St., sez. III, 25/11/2016 n. 4994; in senso
conforme: TAR Toscana 12/12/2016 n. 1756).
Là dove, infatti, l’art. 216, 1° comma, si riferisce “al presente Codice”,
esso intende, evidentemente, comprendere entro il suo ambito applicativo
tutte le disposizioni del D.Lgs. 50/2016, compreso l’art. 113 che regola gli
incentivi tecnici, con le uniche eccezioni stabilite dalla norma transitoria
(Cons. St. 4994/2016 cit.)
Non è, perciò, inibito alla norma regolamentare sopravvenuta disciplinare,
nei limiti che si diranno, tali fattispecie pregresse, proprio perché
riferite ad ambiti temporali ai quali il D.Lgs. 50/2016 non si applica per
effetto della ridetta disposizione di diritto transitorio.
Quest’ultima dispone per il passato nei limiti in cui rimette espressamente
alla normativa previgente la disciplina delle fattispecie pregresse.
Più precisamente, l’art. 216, 1° e 3° comma, D.Lgs. 50/2016 detta una
disposizione per il passato quando rinvia materialmente alla normativa
precedente, incorporandola così nella norma di richiamo.
Tali conclusioni sono valorizzate dal richiamo dell’art. 216, 1° comma,
D.Lgs. 50/2016 ai “bandi (…) pubblicati successivamente alla sua entrata
in vigore”, quale condizione di applicabilità dello stesso D.Lgs.
50/1016.
Ne deriva, a contrariis, che i bandi pubblicati prima dell’entrata in
vigore sono regolati dalla normativa pregressa.
A rafforzare il dato normativo, va rilevato, poi, che il bando costituisce
lex specialis della procedura di evidenza pubblica, regolandone le
modalità di attuazione (Cons. St. 2423/2007), anche correlate alla materia
degli incentivi tecnici. E proprio in quanto lex specialis, il bando
non può essere disapplicato dall’amministrazione (Cons. St. 6530/2002). E il
divieto di disapplicazione opera anche in caso di precedente o successiva
abrogazione delle norme richiamate dal bando (TAR Lazio, Roma, Sez. II-ter,
616/2007; Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per l’Emilia Romagna, delib. 306/2011/PAR) disponendo in tal caso
l’amministrazione soltanto dell’autotutela attraverso l’annullamento del
medesimo bando.
Venendo al punto centrale costituito dai limiti che siffatta retroattività
nella specie incontra, va puntualizzato che il regolamento sopravvenuto
potrà disciplinare le situazioni pregresse, nel caso di specie la
ripartizione degli incentivi tecnici, nel rigoroso rispetto, tuttavia, dei
limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali
situazioni, imponeva: si deve, infatti, categoricamente escludere “che lo
stesso possa oggi disciplinare la distribuzione di risorse accantonate
secondo criteri non uniformi a quelli in vigore al momento dell’attività
incentivabile” (Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per il Piemonte,
parere 09.12.2018 n. 135).
La Sezione ritiene così di privilegiare, ai fini della soluzione del
quesito, l’imprescindibile dato normativo coincidente, nel caso di specie,
con il richiamato art. 216, 1° e 3° comma, D.Lgs. 50/2010, perché esso, come
detto, ammette la retroattività del regolamento nel rigoroso rispetto delle
condizioni che precedono.
Infatti, “il legislatore del 2016 si è fatto carico delle disposizioni di
diritto transitorio e le ha chiaramente risolte scegliendo e utilizzando
(tra quelle astrattamente disponibili) l’opzione dell’ultrattività, mediante
cioè la previsione generale che le disposizioni introdotte dal D.Lgs. 50 del
2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo l’entrata in vigore del
nuovo “Codice” (…)” (Cons. St. 4994/2016 cit.)
Secondo la giurisprudenza, pertanto, l’adozione del regolamento è condizione
essenziale per il legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate nel fondo per incentivi tecnici, essendo esso destinato ad
individuare le modalità e i criteri della ripartizione, oltre alla
percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla
legge (Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353).
Cosicché non può aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non
dopo l’adozione del predetto regolamento. Tuttavia, ciò non esclude che
quest’ultimo –nel rispetto dei suddetti limiti e parametri del tempo– possa
disporre la ripartizione di incentivi per funzioni tecniche espletate prima
dell’adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate
allo scopo nel preesistente quadro economico riguardante la singola opera
(sul punto cfr. Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per la Lombardia,
parere 07.11.2017 n. 305).
L’irretroattività degli atti normativi non significa, pertanto, che “il
Regolamento non possa disciplinare anche il riparto delle risorse del fondo
per prestazioni rese precedentemente alla sua approvazione. Ed invero, posto
che i criteri di assegnazione e di riparto del fondo devono, di regola,
essere determinati in sede decentrata con contrattazione integrativa per
essere, poi, recepiti dal Regolamento, ne consegue che quest’ultimo è solo
un contenitore (…), mentre sul piano sostanziale resta immutata la natura
pattizia della disposizione che regola l’incentivo (…)” (Corte dei
conti, Sez. reg. di controllo per la Basilicata
parere 08.03.2017 n. 7).
Quanto al rapporto giuridico sotteso agli incentivi tecnici, non va
sottaciuto che la Sezione Autonomie, con
deliberazione 26.04.2018 n. 6, ha stabilito che sussiste “(…) una diretta
corrispondenza tra incentivo e attività corrispondente in termini di
prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività
tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure”.
In tale prospettiva va evocato quell’orientamento del giudice nomofilattico
che qualifica come diritto risarcitorio la situazione giuridica soggettiva
di chi ha espletato le attività di cui all’art. 113 D.Lgs. 50/2016, cui
corrispondono gli incentivi tecnici, e si vede negati tali incentivi perché
l’amministrazione non ha adottato il regolamento (Cass., sez. lav., sent.
13937/2017; Cass., sez. civ., ord. n. 3779/2012; Cass., sez. lav. sent.
13384/2004).
Atteso il contenuto favorevole del parere in ordine al primo quesito
(ammissibilità della retroattività), rimane assorbita la questione inerente
al secondo quesito posto in via subordinata (compensazione).
In conclusione, la Sezione esprime i seguenti principi di
diritto all’esito del quesito scrutinato:
1) il regolamento può disciplinare con effetto
retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime
normativo antecedente il D.Lgs. 50/2016 perché la retrodatazione degli
effetti è consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, D.Lgs. 50/2016;
2) il regolamento potrà disciplinare le suddette
situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la
normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva;
3) è escluso, di conseguenza, che il regolamento
suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di risorse
accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo
dell’attività incentivabile (Corte
dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 03.04.2019
n. 31). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Distribuzione incentivi tecnici per problematiche concernenti la possibile
retroattività del relativo Regolamento.
L’obbligazione dell’ente nei confronti del personale
incentivato si perfeziona nel momento in cui, con il relativo regolamento
dell’amministrazione, vengono individuati i soggetti incaricati di svolgere
le attività che, in base all’articolo 113 del Codice dei contratti pubblici,
danno luogo alle incentivazioni ivi previste, in relazione ai singoli
appalti di lavori, servizi e forniture.
Con l’atto dell’amministrazione, infatti, vengono ad esistenza tutti gli
elementi che debbono sussistere per la formazione dell’impegno di spesa, ai
sensi dell’articolo 183 del Tuel, tra cui la somma da pagare e il soggetto
creditore.
Per quanto concerne l’imputazione della spesa, essa deve essere effettuata,
in osservanza al principio della competenza finanziaria potenziata,
nell’esercizio in cui si prevede che la spesa divenga esigibile.
A questo riguardo, considerato che le spese in questione afferiscono ad
appalti, la temporizzazione dei relativi impegni non può che seguire lo
sviluppo dei lavori, servizi e forniture nel cui ambito l’attività
incentivata viene svolta.
La scadenza di ogni obbligazione, pertanto, andrà individuata nel momento in
cui, secondo lo sviluppo temporale dell’appalto, si prevede che la singola
attività incentivata sarà portata a compimento, con conseguente diritto del
creditore di esigere il pagamento dell’incentivo a fronte dell’eseguita
prestazione.
Tale momento non deve ovviamente essere confuso con quello della
liquidazione, la quale comporta che l’amministrazione accerti il corretto
svolgimento dell’attività incentivata, operando, quando ne ricorrano i casi,
le eventuali riduzioni o esclusioni del compenso previste dal Regolamento.
Come evidenziato dai magistrati contabili, in presenza di accantonamenti già
effettuati, nelle more di approvazione del regolamento, l’impegno di spesa
dovrà essere assunto, a partire dalla data di entrata in vigore del
regolamento, anche per attività svolte in precedenza, con l’unico limite di
quelle relative ad appalti che si siano già conclusi prima dell’adozione del
regolamento stesso.
Infine, come evidenziato dai magistrati contabili, gli incentivi per
funzioni tecniche non sono soggetti al vincolo del trattamento accessorio
solo se relativi a contratti pubblici il cui progetto dell’opera o del
lavoro siano stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione
dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui
l’affidamento del contratto sia stato deliberato dopo tale data.
Ciò in quanto la norma contenuta all’articolo 113, comma 5-bis, del d.lgs.
50/2016, introdotta dalla legge di bilancio per il 2018, non è norma
interpretativa, ma innovativa e dunque non può produrre alcun effetto
retroattivo (in tal senso, sez. Lombardia,
parere 27.09.2018 n. 258; in senso contrario,
sez. Veneto,
parere 14.11.2018 n. 429)
(commento tratto da www.self-entilocali.it).
---------------
Il Sindaco del Comune di Città di Castello (PG) ha richiesto un parere di
questa Sezione ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n.
131, nei termini di cui appresso.
“Come noto, il comma 5-bis, dell'articolo 113 del D.Lgs. 113/2016, in
materia di incentivi per funzioni tecniche, come introdotto dall'art. 1
della L. 27.12.2017 n. 205, prevede che “gli incentivi di cui al presente
articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture”. A parere della Sezione Autonomie della Corte
dei Conti -deliberazione
26.04.2018 n. 6- gli
incentivi per funzioni tecniche di cui all'art. 113 citato, non soggiacciono
al vincolo posto al complessivo trattamento accessorio dei dipendenti
previsto dall'art. 23, comma 2, del D.Lgs. 75/2017.
È altresì noto che gli incentivi previsti dal nuovo codice ineriscono,
essenzialmente, due fasi del procedimento: la programmazione e l'esecuzione
dell'appalto, senza tuttavia che sia esattamente individuato, ai fini del
computo del fondo per il salario accessorio del personale dipendente,
l'esercizio di imputazione.
Questo Comune ha adottato, con Deliberazione di Giunta Comunale n. 48, del
12/03/2018, il regolamento previsto dal citato art. 113, accantonando le
risorse per il pagamento degli incentivi nel quadro o prospetto dei lavori o
servizi già nel corso dell'esercizio 2017, nelle more di approvazione del
regolamento.
Ciò premesso si chiede di sapere:
1. quale sia il momento giuridicamente rilevante ai fini
dell'imputazione al fondo del salario accessorio del personale dipendente,
delle quote di incentivazione previste nei quadri economici di spesa dei
singoli programmi di acquisizione di lavori, beni o servizi. In particolare,
anche in relazione al diverso regime contabile applicabile alle spese in
conto capitale e a quelle di parte corrente, in quale esatto momento deve
individuarsi il perfezionamento dell’obbligazione dell’ente nei confronti
del personale incentivato (esempio approvazione del progetto/programma di
acquisizione, determinazione a contrarre, determinazione di aggiudicazione);
2. alla luce del punto precedente, se gli incentivi per funzioni
tecniche di competenza dell'anno 2017 -siano essi di parte capitale o di
parte corrente- debitamente accantonati nelle more di adozione del
regolamento, soggiacciano o meno al vincolo posto al complessivo trattamento
accessorio previsto dall'art. 23, comma 2, del D.Lgs. 75/2017 (si richiamano
al riguardo i pareri della Corte dei Conti sezione delle Autonomie
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24,
della Corte dei Conti sezione regionale di controllo per la Lombardia
parere 27.09.2018 n. 258 e l'opposto parere della Corte dei
Conti sezione regionale di controllo per il Veneto
parere 14.11.2018 n. 429)”.
...
Nel merito, per quanto attiene al primo quesito, va intanto osservato che
le spese in questione sono state oggetto di accantonamento, secondo quanto
riferito dall’ente, nel corso del 2017. Esse afferiscono sicuramente al
Fondo destinato al pagamento del salario accessorio del personale dipendente
e, conseguentemente, debbono essere considerate, a tutti gli effetti, alla
stregua di spese per il personale.
La relativa obbligazione si perfeziona nel momento in cui, con atto
dell’amministrazione, vengono individuati i soggetti incaricati di svolgere
le attività che, in base all’art. 113 del Codice dei contratti pubblici,
danno luogo alle incentivazioni ivi previste, in relazione ai singoli
appalti di lavori, servizi e forniture. Nel caso specifico del Comune di
Città di Castello, tale individuazione è prevista, nel regolamento
approvato, all’art. 3, paragrafo 1 (“Individuazione del gruppo di lavoro”).
Con l’atto dell’amministrazione, infatti, vengono ad esistenza tutti gli
elementi che debbono sussistere per la formazione dell’impegno di spesa, ai
sensi dell’art. 183 del TUEL, tra cui la somma da pagare e il soggetto
creditore.
Per quanto concerne l’imputazione della spesa, essa deve essere effettuata,
in osservanza al principio della competenza finanziaria potenziata,
nell’esercizio in cui si prevede che la spesa divenga esigibile.
A questo riguardo, considerato che le spese in questione afferiscono ad
appalti, la temporizzazione dei relativi impegni non può che seguire lo
sviluppo dei lavori, servizi e forniture nel cui ambito l’attività
incentivata viene svolta. La scadenza di ogni obbligazione, pertanto, andrà
individuata nel momento in cui, secondo lo sviluppo temporale dell’appalto,
si prevede che la singola attività incentivata sarà portata a compimento,
con conseguente diritto del creditore di esigere il pagamento dell’incentivo
a fronte dell’eseguita prestazione.
Tale momento non deve ovviamente essere confuso con quello della
liquidazione, la quale comporta che l’amministrazione accerti il corretto
svolgimento dell’attività incentivata, operando, quando ne ricorrano i casi,
le eventuali riduzioni o esclusioni del compenso, secondo le previsioni del
regolamento approvato dall’ente (v. art. 4 “Modalità di liquidazione
dell’incentivo”).
Va soggiunto che, nella fase di prima attuazione della norma, deve
considerarsi che non è però possibile procedere ad impegno della spesa prima
dell’avvenuta approvazione del regolamento, essendo lo stesso un elemento
essenziale della fattispecie.
Poiché i regolamenti non possono disporre che per il futuro, in presenza di
accantonamenti già effettuati, come nel caso del Comune di Città di
Castello, l’impegno di spesa, nel concorso delle condizioni sopra
evidenziate, dovrà essere assunto, a partire dalla data di entrata in vigore
del regolamento, anche per attività svolte in precedenza, con l’unico limite
di quelle relative ad appalti che si siano già conclusi prima dell’adozione
del regolamento stesso (in senso conforme, v. parere Sezione regionale di
controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).
Venendo ora al secondo quesito, la Sezione non può, sul punto, che seguire
l’orientamento assunto dalla Sezione delle Autonomie nella
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
deliberazione 10.10.2017 n. 24 e, da
ultimo,
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
Come è noto, nella prima versione della norma nulla era specificato in
ordine alla natura degli incentivi in questione. La Sezione delle Autonomie,
nella prima delle deliberazioni citate, confermata dalla seconda, è giunta
alla conclusione che tali incentivi fossero da considerare alla stregua di
spese di funzionamento e, dunque, spese correnti (e di personale), come tali
da includere nel tetto dei trattamenti accessori.
Introdotto dall’art. 1 della L. 27.12.2017, n. 205 il comma 5-bis
dell’articolo 113 del D.Lgs. 113/2016, il quale ha previsto che “gli
incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di
spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”, la Sezione
delle Autonomie ha rivisto il proprio orientamento, affermando che “il
legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il
2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e
predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte
all’erogazione di compensi accessori al personale. Gli incentivi per le
funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Nella deliberazione è stato quindi rilevato come la norma che ha introdotto
il comma 5-bis non abbia natura di norma interpretativa, bensì innovativa.
Ne deriva che la nuova forma di copertura delle spese in questione da essa
prevista possa trovare applicazione solo a partire dal 01.01.2018, data
della sua entrata in vigore.
Come affermato dalla Sezione regionale di controllo Lazio nel
parere 06.07.2018 n. 57
già citata, pertanto, essa inizierà ad applicarsi “ai contratti pubblici
il cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei
documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di
appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale
data”. Infatti, secondo la citata deliberazione,
“risulta logico
ritenere che la fonte di copertura inizi a variare per tutte le procedure la
cui programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la
intima compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i relativi
stanziamenti con accantonamento di risorse nel Fondo costituito ai fini
della successiva ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti”.
Tale orientamento, fatto proprio dalla Sezione Lombardia nella
parere 27.09.2018 n. 258,
è condiviso anche da questa Sezione, apparendo ben più motivato e persuasivo
rispetto all’opposto avviso cui perviene il parere della Sezione regionale
Veneto
parere 14.11.2018 n. 429
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere
28.03.2019 n. 56). |
INCARICHI
PROGETTUALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Progettazione,
la modifica al principio chiarisce la contabilizzazione.
La modifica al principio applicato della contabilità finanziaria decisa da
Arconet nella
seduta del 09.01.2019 e destinata a dare attuazione a
quanto previsto dalla legge 145/2018 (articolo 1, comma 910) in materia di
costituzione del fondo pluriennale vincolato in relazione alla gestione
degli investimenti, ha il merito di chiarire anche il trattamento contabile
delle progettazioni.
In proposito, si manifestano alcune incertezze, anche
in funzione delle casistiche che la prassi propone, in ordine alla
collocazione contabile delle spese tra parte corrente e parte conto
capitale, con i conseguenti effetti e impatti in termini di modalità di
finanziamento e di risorse concretamente utilizzabili.
Progettazione interna o esterna
È così chiarito, ora, che la spesa riguardante il livello minimo di
progettazione richiesto ai fini dell'inserimento di un intervento nel
programma triennale dei lavori pubblici è, ovviamente, registrata nel
bilancio di previsione prima dello stanziamento per l'opera.
In questo caso, nondimeno, l'iscrizione della spesa nella parte investimenti
(conto capitale) è condizionata all'individuazione, da parte dei documenti
di programmazione dell'ente concernenti la realizzazione delle opere
pubbliche (Dup), in modo specifico, dell'investimento da eseguire con le
correlate modalità di copertura finanziaria. Questa indicazione vale
naturalmente per la spesa che riguarda la progettazione esterna la cui
contabilizzazione avverrà mediante l'utilizzo della voce U.2.02.03.05.001
concernente «Incarichi professionali per la realizzazione di investimenti».
Nel caso di progettazione interna, invece, la contabilizzazione seguirà la
natura economica dei fattori, con la conseguenza che la spesa di personale
sarà classificata nell'ambito della parte corrente, mentre eventuali
attrezzature saranno classificate nell'ambito delle spese in capitale. Fermo
restando questo trattamento nel quadro della contabilità finanziaria, è
comunque necessario procedere, nella contabilità economico-patrimoniale,
alla capitalizzazione dei costi mediante apposita registrazione in fase di
scrittura di assestamento.
Il finanziamento in attesa della contribuzione
È anche da segnalare che è pure chiarito, opportunamente, che, nel caso in
cui la copertura dell'intervento sia costituita da un contributo per il
finanziamento dell'opera (comprensivo della spesa di progettazione) concesso
nell'esercizio successivo a quello in cui è stata impegnata la spesa
concernente la progettazione, la quota riguardante la progettazione deve
essere gestita quale entrata libera, considerando che il vincolo è già stato
rispettato.
Si tratta del caso, piuttosto frequente, nel quale l'ente finanzia
autonomamente (con risorse proprie) la progettazione in attesa della
contribuzione (la cui richiesta implica, ad esempio, la partecipazione ad un
apposito bando) e che comporta, successivamente, l'esigenza di ripristinare
la disponibilità delle risorse medio-tempore impiegate con la medesima
natura (libera o vincolata).
I piccoli importi
Peraltro, la modifica al principio si occupa anche del trattamento degli
interventi di importo inferiore a 100.000 euro che non implicano la
preventiva attività di programmazione dei lavori pubblici, con la
conseguenza che lo stanziamento a bilancio può avvenire pure in caso di
mancato inserimento nel programma triennale.
In questa fattispecie, la spesa di progettazione è registrata nel Titolo II
della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera
complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione
esterna, sulla base dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016.
Quest'ultimo, in
particolare, prevede che «gli oneri inerenti alla progettazione, alla
direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al
collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione
dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza
in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari
per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti».
Anche in questa ipotesi, nondimeno, seguendo la natura economica, gli
stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione devono
essere classificati tra le spese di personale, con la conseguente
capitalizzazione nell'ambito della contabilità economico-patrimoniale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
In ordine alle modalità per il
riconoscimento degli incentivi per funzioni tecniche
di cui all’art. 113 del d.lgs. 50/2016 in caso di
concessione di servizi,
la
Sezione regionale di controllo della Corte dei conti
per la Lombardia delibera di sottoporre al
Presidente della Corte dei conti la valutazione
dell’opportunità di deferire alla Sezione delle
autonomie o alle Sezioni Riunite in
sede di controllo le seguenti
questioni di massima aventi carattere di interesse
generale:
●
“se
l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art.
113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere
riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso
di concessioni e se, in siffatta ipotesi, il
compenso premiale, anche laddove il flusso economico
derivante dalla concessione resti sostanzialmente
nella esclusiva disponibilità dell’operatore
economico aggiudicatario, debba essere determinato
sul valore posto a base di gara e non con riguardo
all’ammontare del canone concessorio”;
e, in via subordinata:
●
“quali
siano le corrette modalità di contabilizzazione
degli incentivi per funzioni tecniche in caso di
erogazione in relazione ad una procedura di
aggiudicazione di un contratto di concessione”;
e, sempre in via subordinata:
●
“se
gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs.
50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di
legge speciale, che individua le autonome risorse
finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli
specifici tetti, complessivi e individuali, che
devono essere osservati nell’erogazione possano
essere esclusi dal vincolo generale di finanza
pubblica, posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art.
23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 anche laddove
alimentati non già dalle risorse facenti capo al
singolo lavoro, servizio o fornitura di cui all’art.
113, comma 5-bis del d.lgs. 50/2016 e s.m.i. ma,
come in caso di concessione, da uno specifico
stanziamento previsto nel bilancio
dell’Amministrazione aggiudicatrice ai sensi del
comma 1 dello stesso art. 113”
.
---------------
Il Sindaco del Comune di Voghera (PV) ha inviato
la richiesta di parere sopra indicata
vertente sulle modalità per il riconoscimento degli
incentivi per funzioni tecniche nel caso di
concessione di servizi.
In particolare, il Sindaco del Comune di Voghera,
premessa l’intenzione di affidare in concessione,
mediante procedura ad evidenza pubblica, la gestione
della segnaletica direzionale, di impianti
pubblicitari di servizio, di impianti pubblicitari e
di cartellonistica stradale sul suolo pubblico,
chiede:
1. “se anche nel caso in cui il flusso economico derivante
dalla concessione resti sostanzialmente nella
esclusiva disponibilità dell’operatore economico
aggiudicatario, l’incentivo per funzioni tecniche
debba essere determinato sul valore posto a base di
gara e quindi sul fatturato presunto”;
2. “in caso affermativo, considerato che il canone è versato in
quote annuali nella misura di € 20.500 e che
l’incentivo, pari a € 62.500, deve invece essere
riconosciuto in correlazione all’esigibilità della
prestazione effettivamente svolta, se è corretto
che l’Ente anticipi, a valere sulle risorse correnti
di bilancio, l’importo da erogare al personale
dipendente”;
3. «considerato che l’art. 113, comma 5-bis, D.Lgs. 50/2016
prevede che “gli incentivi di cui al presente
articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavoro, servizi e forniture”
quale condizione per poter considerare detti importi
esclusi dal limite di cui all’art. 23, comma 2,
D.Lgs. 75/2017 (Corte Conti Sezione delle Autonomie
deliberazione
26.04.2018 n. 6), e
che in questo caso non vi è un capitolo di spesa in
quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi
correlati alla gestione della concessione, in
questo caso come occorre contabilizzare l’importo
per incentivi per soddisfare la condizione
necessaria all’esclusione dal limite previsto per il
salario accessorio»;
4. "se stante il combinato disposto degli articoli 31, comma
5 e 113, comma 2, ult. Cpv. del D.Lgs. 50/2016 e
viste le Linee guida ANAC n. 3, approvate con
deliberazione n. 1007 dell’11/10/2017, con cui al
punto 10.2 è stato definito l’importo massimo e la
tipologia dei servizi e forniture per le quali il
RUP può coincidere con il direttore dell’esecuzione
del contratto, è legittimo, nel caso prospettato,
riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche nel
caso in cui, con provvedimento dirigenziale, sia
nominato direttore dell’esecuzione il RUP. In caso
affermativo se è corretto corrispondere al medesimo
dipendente l’incentivo sia per le funzioni di RUP
che di direttore dell’esecuzione del contratto”.
...
Sotto questo profilo risulta inammissibile il
quesito di cui al n. 4 con cui l’Ente chiede se
sia legittimo riconoscere l’incentivo per funzioni
tecniche al RUP nominato, con provvedimento
dirigenziale, direttore dell’esecuzione del
contratto e se sia possibile riconoscere al medesimo
dipendente l’incentivo tanto per le funzioni di RUP
che per quelle di direttore dell’esecuzione.
Si tratta, difatti, di specifica questione relativa
alla corresponsione degli incentivi in parola di
ordine meramente gestionale e, come tale rimessa,
alla discrezionalità e responsabilità dell’ente
istante.
Sul tema, tuttavia, la Sezione rileva, in ottica
collaborativa, come, per effetto delle modifiche
apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett.
b), del d.lgs. n. 56 del 2017, i
compensi incentivanti in parola siano erogabili, in
caso di servizi o forniture, solo laddove sia stato
nominato il direttore dell’esecuzione, nomina
richiesta
-come recentemente osservato dalla Sezione delle
Autonomie nella precitata
deliberazione 09.01.2019 n. 2-
“secondo le Linee guida ANAC n.
3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e
servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero
di particolare complessità”.
L’art. 111, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e
s.m.i. prevede che, di norma, il direttore
dell’esecuzione del contratto di servizi o di
forniture coincida il responsabile unico del
procedimento, ma la disciplina di attuazione
contenuta nelle Linee guida A.N.AC. n. 3 – par. 10.2
sopra richiamate individua espressamente i casi in
cui il direttore dell’esecuzione del
contratto non può coincidere con il responsabile
del procedimento (tra cui proprio quelli di
prestazioni di importo superiore a 500.000 euro e
interventi particolarmente complessi sotto il
profilo tecnologico).
Dal disposto normativo sopra richiamato risulta,
dunque, che, nei suddetti casi,
anche ai fini dell’erogazione dei predetti compensi
incentivanti nell’ambito di servizi e forniture, la
figura del direttore dell’esecuzione del
contratto deve essere diversa da quella del
responsabile unico del procedimento:
diversamente opinando, in siffatte ipotesi, “nessun
dipendente svolgente le funzioni enumerate dal comma
2 dell’articolo 113 può percepire compensi
incentivanti”
(in questi termini cfr. Sezione regionale controllo
Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).
La risposta nel merito agli altri quesiti presuppone
una sintetica disamina del quadro normativo di
riferimento, tralasciando i profili di non immediato
interesse nel caso in esame, salvo richiamare, in
seguito, gli orientamenti della giurisprudenza
contabile in materia funzionali a fornire il
riscontro richiesto.
L’art. 113 del menzionato d.lgs. n. 50/2016 fissa la
possibilità di erogare emolumenti economici
accessori a favore del personale interno alle
Amministrazioni pubbliche espletante attività
tecniche e amministrative nelle procedure di
programmazione, aggiudicazione, esecuzione e
collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di
lavori, servizi o forniture.
Nello specifico la norma in discorso prevede che, a
valere sugli stanziamenti previsti per i singoli
appalti di lavori, servizi e forniture negli stati
di previsione della spesa o nei bilanci delle
stazioni appaltanti, le amministrazioni
aggiudicatrici possano destinare ad un apposito
fondo risorse finanziarie in misura non superiore al
2% modulate sull’importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per le funzioni
tecniche svolte dai dipendenti delle stesse ivi
espressamente indicate (programmazione della spesa
per investimenti, valutazione preventiva dei
progetti, predisposizione e controllo delle
procedure di gara e di esecuzione dei contratti
pubblici, funzioni di RUP, direzione dei lavori o
direzione dell’esecuzione e collaudo tecnico
amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire
l’esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e
costi prestabiliti).
La costituzione del fondo non è prevista da parte di
quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali
sono in essere contratti o convenzioni che prevedono
modalità diverse per la retribuzione delle funzioni
tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che
costituiscono o si avvalgono di una centrale di
committenza possono destinare il fondo o parte di
esso ai dipendenti di tale centrale.
Rispetto alla normativa previgente (art. 93, comma
7-bis e ss., del d.lgs. 12.04.2006, n. 163) la
disposizione in esame trova espressa applicazione
non solo per gli appalti di lavori, ma anche per
quelli relativi a servizi o forniture nel caso in
cui (secondo le integrazioni apportate all’art. 113
dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs.
19.04.2017, n. 56) sia stato nominato il direttore
dell’esecuzione: il tenore letterale della norma,
che fa espresso riferimento all’importo dei lavori,
servizi e forniture “posti a base di gara”,
induce a ritenere incentivabili le sole funzioni
tecniche svolte rispetto a contratti affidati
mediante lo svolgimento di una procedura di gara (cfr.,
ex multis, di questa Sezione
parere 09.06.2017 n. 190;
Sez. controllo Puglia
deliberazione 09.02.2018 n. 9;
Sez. controllo Marche
parere 08.06.2018 n. 28).
Il ricorso al predetto meccanismo premiale è
subordinato alla preventiva approvazione, da parte
dell’Amministrazione, di un regolamento interno e
alla conclusione di un accordo di contrattazione
decentrata in cui vanno regolati i criteri di
ripartizione fra i dipendenti interessati.
Nel succitato regolamento -la cui adozione è
considerata, nella giurisprudenza contabile (cfr.,
ex multis, Sez. controllo Veneto
parere 07.09.2016 n. 353;
Sez. controllo Regione autonoma Friuli Venezia
Giulia
parere 02.02.2018 n. 6)
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto
tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul
fondo- vanno individuate le modalità ed i criteri
della ripartizione dei compensi incentivanti, oltre
alla percentuale, che, comunque, non può superare i
limiti quantitativi posti dalla medesima norma. In
particolare il comma 3 dell’art. 113 prevede che “l’ottanta
per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2” possa essere
ripartito, per ciascun lavoro, servizio, fornitura,
con le modalità sopra indicate, “tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2
nonché tra i loro collaboratori”. Il restante
20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto
dal successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e
tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici
di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture;
attivazione di tirocini formativi e di orientamento;
svolgimento di dottorati di ricerca etc.).
La norma fissa, inoltre, un limite individuale alla
corresponsione degli incentivi in parola, stabilendo
che, complessivamente, nel corso dell’anno, un
singolo dipendente non possa percepire emolumenti di
importo superiore al 50% del proprio trattamento
economico annuo lordo. Il comma 3 precisa, inoltre,
che gli importi indicati devono essere “comprensivi
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a
carico dell'amministrazione”.
L’art. 1, comma 526, della legge 27.12.2017, n. 205
(legge di bilancio 2018) ha introdotto il comma
5-bis all’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 il quale
prevede testualmente che «Gli incentivi di cui al
presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di
spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture».
Il nuovo intervento normativo ha definitivamente
chiarito che gli incentivi per le funzioni tecniche
non fanno carico ai capitoli della spesa del
personale, ma devono essere ricompresi nel quadro
economico del singolo contratto: com’è noto, sulla
base dello ius superveniens, la Sezione delle
Autonomie (intervenendo nuovamente sulla questione
alla luce del mutato contesto normativo di seguito
alla
deliberazione 06.04.2017 n. 7
e
deliberazione 10.10.2017 n. 24)
ha affermato che “Gli incentivi disciplinati
dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo
modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n.
205 del 2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi
capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli
lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al
vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”
(Corte Conti, Sezione delle Autonomie
deliberazione
26.04.2018 n. 6).
Con il primo quesito, preso atto
dell’orientamento delle Sezioni regionali di
controllo (cfr. Sez. controllo Veneto,
parere 21.06.2018 n. 198
e
parere 27.11.2018 n. 455)
che estende la possibilità di riconoscere
l’incentivo per funzioni tecniche ex art. 113 del
d.lgs. n. 50/2016 anche con riferimento alle
concessioni (e ai contratti di partenariato), si
chiede se anche nell’ipotesi in cui il flusso
economico derivante dalla concessione resti
sostanzialmente nell’esclusiva disponibilità
dell’operatore economico aggiudicatario, l’incentivo
per funzioni tecniche debba essere determinato sul
valore posto a base di gara e, quindi, sul fatturato
presunto generato dalla fornitura del servizio alla
massa degli utenti.
Al riguardo, preliminarmente, il Collegio ritiene di
doversi soffermare sulla questione relativa
all’applicabilità dell’incentivo per funzioni
tecniche ex art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 anche con
riferimento al settore delle concessioni.
Si tratta di una problematica venuta solo
recentemente in emersione e affrontata funditus
nelle delibere della Sezione di controllo per il
Veneto sopra richiamate nelle quali si ammette che,
attraverso il regolamento di cui all’art. 113, comma
3, del d.lgs. n. 50 del 2016, gli enti locali
possano procedere all’estensione dell’istituto in
esame anche alle procedure di aggiudicazione
regolate dalla parte III del codice (concessione di
lavori pubblici o di servizi) e dalla parte IV (partenariato
pubblico o/e privato) nei limiti, naturalmente,
delle specifiche e tassative attività prescelte dal
legislatore come meritevoli di premialità.
La questione è solo lambita dalla Sezione regionale
controllo Lazio col
parere 06.07.2018 n. 57
dove si esclude che tali incentivi possano erogarsi
nei casi che l’art. 17 del codice dei contratti
pubblici fa oggetto di “Esclusioni specifiche”
(ad es. servizi legali connessi, anche
occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri),
ma si tratta, a ben vedere, di casi di inoperatività
delle disposizioni del codice dei contratti
pubblici, valevoli tanto per i contratti di appalto
che per le concessioni.
L’approccio ermeneutico seguito dalla Sezione
regionale di controllo per il Veneto (in particolare
nel
parere 21.06.2018 n. 198)
muove dalle difficoltà legate ad un’interpretazione
estensiva dell’istituto premiale in ragione,
anzitutto, della sedes materiae (l’art. 113 è
collocato nella parte II del codice, dedicata alla
disciplina dei contratti di appalto per lavori,
servizi e forniture); a ciò si unisce la difficoltà
di interpretare la portata del rinvio alle
disposizioni codicistiche in tema di appalto
contenuto all’art. 164, comma 2, del medesimo codice
relativamente alle procedure di aggiudicazione di
contratti di concessione di lavori pubblici o di
servizi, con particolare riguardo al problema se
detto «rinvio vada inteso esclusivamente con
riferimento agli aspetti prettamente procedurali
dell’esecuzione del contratto o, in senso più ampio,
a tutte le norme, con l’unico limite della
“compatibilità”, che disciplinano la fase
dell’esecuzione, ivi compresa la disposizione sull’incentivabilità
delle funzioni tecniche».
Nondimeno, la tesi estensiva è suffragata da
ampiezza di argomenti testuali e logico-sistematici
da cui si evince che “quando il legislatore abbia
inteso non incentivabili attività annoverabili tra
le funzioni tecniche svolte nell’ambito di certi
contratti pubblici lo ha fatto esplicitamente”;
inoltre l’incentivabilità delle funzioni tecniche è
prevista in altre disposizioni del codice
espressamente applicabili anche alle concessioni o
indistintamente riferite a tutti i contratti
pubblici: è il caso dell’art. 31, comma 12, su ruolo
e funzioni del responsabile del procedimento negli
appalti e nelle concessioni e dell’art. 102, comma
6, a mente del quale il compenso spettante per
l’attività di collaudo sull’esecuzione dei contratti
pubblici (senza alcuna distinzione) è contenuto, per
i dipendenti della stazione appaltante, nell’ambito
dell’incentivo di cui all’art. 113.
Così, secondo quanto affermato nel succitato
parere 21.06.2018 n. 198,
rileva, ai fini dell’applicazione della disciplina
in tema di incentivi per funzioni tecniche, una
nozione unitaria di contratti pubblici imposta dal
diritto positivo (cfr. art. 3, comma 1, lett. dd)
del Codice) e comprensiva sia dei contratti di
appalto che di concessione, con la fondamentale
differenza del c.d. rischio operativo insito nella
concessione che giustifica la diversa forma di
remunerazione accordata, in tale caso, all’operatore
economico.
Tanto premesso, il Collegio non rinviene, in linea
di principio, ragioni per discostarsi
dall’orientamento assunto in merito dalla Sezione
regionale di controllo per il Veneto in materia di
riconoscibilità dell’incentivo per le funzioni
tecniche per le ipotesi di concessioni.
Ciò soprattutto alla luce della ratio sottesa al
riconoscimento del meccanismo premiale in discorso,
strumentale ad accrescere, nell’esecuzione delle
commesse pubbliche, “efficienza ed efficacia di
attività tipiche dell’amministrazione, passibili di
divenire economicamente rilevanti” (così Sezione
regionale di controllo Toscana,
parere 10.10.2018 n. 63).
Nella prospettiva del miglioramento della qualità
spesa pubblica in un settore fondamentale per gli
investimenti e la crescita economica, il
riconoscimento di compensi incentivanti esprime,
sotto questo profilo, esigenze comuni alla materia
della contrattualistica pubblica relativa ad appalti
e concessioni, salve le peculiarità disciplinari che
connotano tradizionalmente quest’ultimo istituto.
Del resto, come recentemente osservato (cfr. Sezione
regionale controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57)
“la ratio dei nuovi incentivi è, infatti,
anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale
utilizzo delle professionalità interne, rispetto al
ricorso all’affidamento all’esterno di incarichi
professionali, che sarebbero comunque forieri di
oneri aggiuntivi per l’Ente, con aggravio della
spesa complessiva”.
Tale lettura appare anche in linea con la portata
estensiva di alcune recenti pronunce che hanno
caratterizzato la materia, emblematiche di un sempre
più ampio “approccio funzionale” nell’ermeneusi
delle regole relative ad una premialità, quale
quella in esame, collegata all’accrescimento di
efficienza ed efficacia di attività tipiche
dell’amministrazione.
È il caso, tra l’altro, del recente
parere 12.12.2018 n.
162
della Sezione di controllo per la Puglia -in cui
l’incentivo viene ammesso, a certe condizioni, anche
in riferimento a varianti contrattuali di lavori,
forniture e servizi di appalti comunque affidati
mediante gara o procedure competitive– e della
deliberazione 09.01.2019 n. 2
della Sezione delle Autonomie che ha riconosciuto,
nei limiti previsti dalla norma, l’incentivabilità
delle funzioni tecniche negli appalti di
manutenzione straordinaria e ordinaria di
particolare complessità.
Il Collegio, pur aderendo, sostanzialmente,
all’approdo ermeneutico venutosi a delineare nella
giurisprudenza contabile sopra richiamata, ritiene
opportuno sollecitare, in assenza di un dato
positivo univoco, una pronuncia di orientamento
generale in ordine all’incentivabilità delle
funzioni tecniche in materia di concessioni.
Tale soluzione appare imposta dalla specialità che
contraddistingue la disciplina degli incentivi per
le funzioni tecniche rispetto al principio generale
della onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici in forza del quale, ad esempio,
l’espressa possibilità di applicare detta normativa
ai casi di appalti relativi a servizi o forniture è
stata sancita, come detto, solo da un’apposita
modifica normativa.
Sotto altro profilo un intervento nomofilattico su
una questione ancora non consolidata appare
indispensabile per prevenire incertezze applicative
in una materia contrassegnata, nel tempo, da
notevoli oscillazioni e contrasti interpretativi,
determinati da una normativa sovente carente e
ondivaga, causa del frequente ricorso all’intervento
pretorio.
Non può essere trascurata, poi, la possibile
ricaduta, in termini di programmazione e impatto sul
bilancio degli enti locali, legata al riconoscimento
dell’incentivo per le funzioni tecniche in ipotesi
di concessioni.
Anzitutto, a monte, appare necessario che il ricorso
alla prestazione incentivante risulti coerente con
gli strumenti di programmazione
economico-finanziaria dell’ente, con particolare
riguardo al programma biennale degli acquisti di
beni e servizi e alla programmazione dei lavori
pubblici di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del
2016.
Inoltre, se pure la corresponsione dell’incentivo è
assoggettata, anche in questo caso, ai suddetti
limiti normativi, non può non cogliersi
un’importante differenza -palesata dalla richiesta
di parere in esame- rispetto al caso dei contratti
di appalto.
In tali ipotesi gli incentivi di che trattasi
gravano sul medesimo capitolo di spesa previsto per
i singoli lavori, servizi e forniture: pertanto, già
nell’ambito delle risorse destinate al contratto
pubblico, una parte viene accantonata, a monte, per
la specifica finalità dell’erogazione del compenso
incentivante quale premialità per la realizzazione
della procedura competitiva e la corretta esecuzione
del contratto.
Discorso diverso è quello in cui non vi sia un
capitolo di spesa dedicato in quanto non sono
previsti nel bilancio comunale costi correlati alla
gestione del contratto, come avviene per le
concessioni: in siffatta ipotesi l’ente è chiamato
necessariamente ad impiegare, ai suddetti fini,
risorse proprie parametrate sulle entrate derivanti
dal canone concessorio che potrebbero, tuttavia,
risultare non calibrate alla misura che può
concretamente assumere l’incentivo.
Tale evenienza emerge, in modo emblematico, dalla
disamina del primo quesito posto dal Comune in
ordine al quale il Collegio ritiene, in linea con
quanto ulteriormente osservato dalla Sez. controllo
Veneto nella
parere 27.11.2018 n. 455 (anche alla luce
del consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa) che l’incentivo per funzioni
tecniche in caso di concessioni, una volta che se ne
ammetta l’assentibilità, risulti determinabile non
già con riferimento al canone dovuto dal
concessionario, ma solo con riguardo al valore posto
a base di gara.
Tale lettura appare necessitata dal combinato
disposto dell’art. 113 -nella misura in cui fissa
l’ammontare del Fondo in misura non superiore al 2%
dell’importo dei lavori, servizi e forniture “posti
a base di gara”– e dell’art. 167 dello stesso
codice dei contratti pubblici che ricollega
indefettibilmente il valore di una concessione al
fatturato totale del concessionario generato per
tutta la durata del contratto nei termini ivi
specificati.
Sotto questo profilo appare irrilevante, ai suddetti
fini, che il flusso economico derivante dalla
concessione resti sostanzialmente nell’esclusiva
disponibilità dell’operatore economico
aggiudicatario se solo si ha riguardo alla
particolare forma di remunerazione che connota tale
tipologia contrattuale in cui il trasferimento della
gestione del servizio all’operatore economico (con
diritto ai relativi proventi) è bilanciato
dall’assunzione, in capo allo stesso, del c.d. “rischio
operativo” legato alla gestione dello stesso
servizio.
In questo senso, per l’Amministrazione che intenda
prevedere compensi incentivanti ex art. 113 del
d.lgs. n. 50/2016 in caso di concessione, risulta,
anche a tali fini, fondamentale un’attendibile
previsione del fatturato generato del contratto,
secondo quanto più volte rimarcato dalla
giurisprudenza amministrativa (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, sez. III, 18.10.2016, n. 4343) e
in linea con il metodo di calcolo oggi fissato dal
suddetto art. 167 del d.lgs. n. 50/2016: ciò,
soprattutto laddove, nella decisione dell’Ente, la
corresponsione degli incentivi in questione sia
stata correlata alle previsioni di entrata derivante
dal canone previsto a carico del concessionario.
Uno spunto in questo senso è già ricavabile dalla
ridetta pronuncia della Sezione di controllo per il
Veneto
parere 21.06.2018 n. 198 ove si lascia
impregiudicata la libertà contrattuale
dell’Amministrazione di ipotizzare, in sede di
corrispettivo, una modalità di finanziamento degli
oneri connessi, così avvalorando, implicitamente,
soluzioni negoziali che pongano di fatto a carico
del concessionario la quota di compenso incentivante
da riconoscere al personale dell’Ente.
Tuttavia, da tutto quanto precede risulta che, in
particolar modo nei casi di concessioni relative a
lavori o servizi con elevato volume d’affari, un
incentivo per funzioni tecniche rapportato al valore
posto a base di gara, pur modulato
dall’Amministrazione nei limiti consentiti dalla
norma sopra richiamata, potrebbe rivelarsi non
sostenibile, soprattutto ove l’Ente interessato, in
sede di programmazione, non abbia adeguatamente
ponderato e parametrato, anche a tali fini, il
canone dovuto dal concessionario, quale unica
entrata destinata al finanziamento della premialità.
Le inevitabili ricadute sotto il profilo
disciplinare della questione in esame involgono
l’interesse non solo del Comune istante, ma di tutte
le “amministrazioni aggiudicatrici”
(ministeri, enti pubblici non economici, università,
aziende sanitarie etc.) soggette all’applicazione
del codice dei contratti pubblici.
Conseguentemente la scrivente
Sezione regionale di controllo ritiene opportuno
deferire al Presidente della Corte dei conti la
seguente questione interpretativa di massima di
carattere generale:
●
“se l’incentivo per funzioni
tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016
possa essere riconosciuto, per via regolamentare,
anche in caso di concessioni e se, in siffatta
ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il
flusso economico derivante dalla concessione resti
sostanzialmente nella esclusiva disponibilità
dell’operatore economico aggiudicatario, debba
essere determinato sul valore posto a base di gara e
non con riguardo all’ammontare del canone
concessorio”.
Nell’ipotesi in cui la questione di massima sopra
illustrata venga definita nel senso
dell’ammissibilità degli incentivi per funzioni
tecniche in ipotesi di concessioni, la Sezione
ritiene che le problematiche poste dal Comune, in
particolare con il terzo e il quarto
quesito, possano dare luogo ad ulteriori
questioni di massima, dirimenti ai fini della
necessità di orientare in termini generali
l’autonomia regolamentare dei soggetti interessati.
In particolare, con il terzo quesito, stante
il disposto dell’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs.
n. 50/2016 in forza del quale gli incentivi in
parola gravano sul medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavori, servizi e forniture,
con conseguente esclusione dal vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dei
dipendenti pubblici dall’art. 23, comma 2, d.lgs. n.
75/2017 secondo quanto statuito dalla Sezione delle
Autonomie nella
deliberazione
26.04.2018 n. 6,
l’ente chiede come occorre contabilizzare l’importo
per incentivi per soddisfare la condizione
necessaria all’esclusione dal limite previsto per il
salario accessorio nel caso in cui non vi sia un
capitolo di spesa in quanto non sono previsti nel
bilancio comunale costi correlati alla gestione
della concessione.
La questione è connessa a quella posta con il
secondo quesito con cui si chiede se è corretto
che l’Ente anticipi, a valere sulle risorse correnti
di bilancio, l’importo da erogare al personale
dipendente per le prestazioni incentivate sopra
richiamate.
Al riguardo, come già osservato in altra circostanza
(cfr. deliberazione n. 312/2017/PAR) si fa notare
che risulta precluso a questa Corte fornire
dettagliate indicazioni operative finalizzate a
supportare specifici comportamenti amministrativi e
gestionali dell’Ente istante, spettando a quest’ultimo
individuare le concrete modalità di specifica
quantificazione e liquidazione del predetto Fondo
incentivante.
Ai suddetti fini l’Ente dovrà procedere
nell’osservanza dei limiti normativi posti dall’art.
113 e dei principi contabili, con particolare
riguardo al principio di competenza finanziaria
potenziata e alle regole che presiedono alla
costituzione del fondo pluriennale vincolato in
presenza di risorse accertate che, in quanto
destinate al finanziamento di obbligazioni passive
dell’ente già impegnate, ma esigibili in esercizi
successivi, richiedono un periodo di tempo
pluriennale per il loro effettivo impiego e utilizzo
per le finalità programmate.
Sul punto è d’uopo rilevare, inoltre, il costante
orientamento della giurisprudenza contabile (cfr.
Sezione regionale di controllo Toscana,
parere 10.10.2018 n. 63;
Sezione regionale di controllo Liguria,
parere
21.12.2018 n. 136)
che rimarca come l’articolo 113 del d.lgs. n.
50/2016, allo scopo di erogare l’incentivo, richieda
l’effettivo svolgimento di una delle attività
elencate dalla norma di riferimento.
Difatti (cfr. Sezione regionale di controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57)
gli incentivi devono essere correlati allo
svolgimento delle prestazioni tecniche realmente
svolte, in modo da remunerare il concreto carico di
responsabilità e di lavoro assunto dai dipendenti;
sotto questo profilo la norma, al comma 3, prevede
che la corresponsione dell’incentivo sia disposta
dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai
dipendenti.
Inoltre, seppure, in via generale, l’accantonamento
–a monte– degli stanziamenti finalizzati a
costituire ed impinguare il Fondo è frutto di una
discrezionale ed unilaterale scelta dell’Ente (così
Sezione regionale di controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57)
per l’Amministrazione che intenda prevedere compensi
incentivanti ex art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 in
caso di concessione (ove se ne ammetta la
praticabilità per tutto quanto sopra evidenziato)
appare necessaria un’attenta valutazione in ordine
alle risorse all’uopo devolvibili e in merito
all’opportunità di adottare specifiche misure
prudenziali rispetto al rischio di mancata
riscossione del canone da parte del concessionario.
In ordine al terzo quesito sopra richiamato
va osservato come la stessa pronuncia nomofilattica
ivi menzionata abbia rilevato come, con
l’inserimento del predetto comma 5-bis all’interno
dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, il legislatore
abbia inteso compiere “un intervento volto a
tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio
degli incentivi per le funzioni tecniche”
all’esito del quale permane, tuttavia, “l’esigenza
di chiarire le specifiche modalità operative di
contabilizzazione”.
Sempre subordinatamente alla risoluzione della
questione principale sopra descritta, la predetta
pronuncia reca dei principi di fondo che sembrano
utilizzabili per una corretta impostazione della
problematica in termini generali anche in ordine
alla contabilizzazione di compensi incentivanti da
riconoscere in caso di concessioni.
Anzitutto, in forza del predetto orientamento, gli
incentivi in parola, anche alla luce del precipuo
regime vincolistico cui sono assoggettati, devono
necessariamente gravare su risorse autonome e
predeterminate del bilancio dell’Ente interessato,
con un chiaro riferimento sinallagmatico tra le fasi
di programmazione ed esecuzione della commessa
pubblica e l’appostamento delle risorse destinate
alla corresponsione degli incentivi.
In questo senso, “l’avere correlato
normativamente la provvista delle risorse ad ogni
singola opera con riferimento all’importo a base di
gara commisurato al costo preventivato dell’opera,
àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un
modello predeterminato per la loro allocazione e
determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a
spesa di personale” (cfr. sempre
deliberazione
26.04.2018 n. 6).
Va, tuttavia, ricordato come il comma 1 dello stesso
articolo preveda che gli oneri in questione facciano
carico agli stanziamenti previsti per i singoli
appalti di lavori, servizi e forniture negli stati
di previsione della spesa o, comunque, “nei
bilanci delle stazioni appaltanti”.
Tale previsione normativa sembra, così, consentire
sempre alle Amministrazioni l’allocazione, nel
proprio bilancio, di specifiche risorse destinate
alla corresponsione dei suddetti compensi: anche in
siffatte ipotesi gli incentivi risultano erogabili
nel rispetto dei suddetti limiti normativi posti
dall’art. 113 più volte citato e in presenza di una
sicura copertura, come più volte ribadito dalla
giurisprudenza contabile (cfr. la deliberazione di
questa Sezione
parere 06.11.2018 n. 304; Sez. Liguria
deliberazione 29.06.2017 n. 58 e Sezione
Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186 e
parere 27.03.2018 n. 19).
Del resto -come rimarcato sempre dalla Sez.
controllo Veneto nel
parere 21.06.2018 n. 198- la
contabilizzazione, la gestione e l’onere finanziario
dei benefici in esame, che costituiscono eccezione
al principio di onnicomprensività della retribuzione
del pubblico dipendente in funzione di
incentivazione dell’efficienza e dell’efficacia nel
perseguimento della realizzazione e dell’esecuzione
a regola d’arte, sono oggetto di esclusivo
adempimento in capo all’amministrazione.
Anche sul piano dell’assunzione degli impegni di
spesa finalizzati all’erogazione dei compensi in
parola la Sezione non può che conformarsi alla
giurisprudenza di questa Corte e, in particolare,
alla pronuncia nomofilattica della Sezione delle
Autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6,
ampiamente richiamata, da ultimo, dalla
summenzionata
deliberazione 09.01.2019 n. 2)
ove si osserva che “il fatto, poi, che tali
emolumenti siano erogabili, con carattere di
generalità, anche per gli appalti di servizi e
forniture, comporta che gli stessi si configurino,
non più solo come spesa finalizzata ad investimenti,
ma anche come spesa di funzionamento e, dunque, come
spesa corrente”, con la conseguenza che
l’impegno di spesa vada assunto, a seconda della
natura (corrente o in c/capitale), nel Titolo I o
nel Titolo II dello stato di previsione del
bilancio.
Posto quanto sopra, anche su questo aspetto si
ravvisa l’esigenza di una chiarimento nomofilattico
non solo con riguardo al fatto che gli incentivi
erogati in caso di concessione possano essere
contabilizzati nei termini sopra richiamati, ma
anche sulla circostanza che gli stessi possano
reputarsi esclusi dal limite previsto per il salario
accessorio; ciò anche laddove non vadano,
giocoforza, a gravare sul medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavori, servizi e forniture,
ma su altro stanziamento appositamente previsto nel
bilancio comunale quale costo inerente alla gestione
della concessione.
In altri termini risulta necessario chiarire se
l’inclusione dell’incentivo nel medesimo capitolo di
spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture si ponga sempre come condicio sine qua
non ai fini dell’esclusione dal limite normativo
previsto per il salario accessorio dall’art. 23,
comma 2, d.lgs. n. 75/2017.
La questione risente, inevitabilmente, della
difficoltà di coordinamento di norme diverse,
stratificate nel tempo quali quelle contenute oggi
al comma 1 e al comma 5-bis del più volte citato
art. 113.
Tale chiarimento sembra motivato anche da un’analisi
della recente legislazione in materia di compensi
incentivanti in cui l’esclusione dal suddetto tetto
risulta il frutto di un’espressa scelta in tal senso
da parte del legislatore.
È il caso dei compensi incentivanti previsti ai fini
del potenziamento della riscossione delle entrate
locali dall’art. 1, comma 1091, della legge
30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019).
La norma in parola consente ai comuni che hanno
approvato il bilancio di previsione ed il rendiconto
entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, di
prevedere, con proprio regolamento, che il maggiore
gettito accertato e riscosso, relativo agli
accertamenti dell’imposta municipale propria e della
TARI, nell'esercizio fiscale precedente a quello di
riferimento risultante dal conto consuntivo
approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia
destinato, limitatamente all’anno di riferimento, al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici
comunali preposti alla gestione delle entrate e al
trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale.
In siffatta ipotesi la norma prevede espressamente
l’erogazione dell’emolumento in deroga al limite di
cui all’articolo 23, comma 2, del decreto
legislativo 25.05.2017, n. 75.
Ciò posto, il Collegio ritiene che, una volta
ammessa l’operatività del compenso premiale in
parola anche in caso di concessioni, permangano le
ragioni sostanziali analiticamente descritte nella
deliberazione di questa Sezione
deliberazione 16.02.2018 n. 40,
fondate sulla natura dell’emolumento e sul peculiare
statuto disciplinare vincolistico che lo governa,
per ritenere i compensi in parola esclusi dal limite
complessivo trattamento economico accessorio dei
dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del
d.lgs. n. 75 del 2017.
Tale ricostruzione pare avvalorata dalla previsione
normativa sopra richiamata che consente sempre alle
Amministrazioni aggiudicatrici l’allocazione, nel
proprio bilancio, di specifiche risorse destinate
alla corresponsione dei suddetti compensi diverse
dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione
di emolumenti accessori al personale.
Del resto, diversamente opinando, potrebbe
addivenirsi al paradosso di considerare alcuni
incentivi, previsti pur sempre nell’ambito di
procedure competitive finalizzate all’aggiudicazione
di contratti pubblici e remunerativi delle medesime
attività, irrilevanti ai fini del rispetto del
vincolo di finanza pubblica ove erogati a valle di
un contratto di appalto e rilevanti, invece, in caso
di concessione.
Sulla base delle considerazioni esposte,
la scrivente Sezione regionale di controllo
intende, pertanto, sottoporre, in subordine alla
prima, le seguenti ulteriore questioni di massima:
●
“quali siano le corrette
modalità di contabilizzazione degli incentivi per
funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione
ad una procedura di aggiudicazione di un contratto
di concessione”;
●
“se gli incentivi disciplinati
dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte
in una disposizione di legge speciale, che individua
le autonome risorse finanziarie a cui devono essere
imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e
individuali, che devono essere osservati
nell’erogazione possano essere esclusi dal vincolo
generale di finanza pubblica, posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti
pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n.
75 del 2017 anche laddove alimentati non già dalle
risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o
fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis, del
d.lgs. 50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di
concessione, da uno specifico stanziamento previsto
nel bilancio dell’Amministrazione aggiudicatrice ai
sensi del comma 1 dello stesso art. 113”.
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo
della Corte dei conti per la Lombardia
dichiara il quesito in parte inammissibile e, per la
restante parte, alla luce degli approdi ermeneutici
evidenziati, attesa la rilevanza sistematica della
questione nell’ambito della materia dei contratti
pubblici, sospende la pronuncia e
delibera di sottoporre al Presidente della Corte dei
conti la valutazione dell’opportunità di deferire
alla Sezione delle autonomie,
ai sensi dell’art. 6, co. 4, del d.l. 174/2012,
o alle Sezioni Riunite in sede di controllo,
ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. 78/2009,
le seguenti questioni di massima aventi
carattere di interesse generale:
●
“se l’incentivo per funzioni
tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016
possa essere riconosciuto, per via regolamentare,
anche in caso di concessioni e se, in siffatta
ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il
flusso economico derivante dalla concessione resti
sostanzialmente nella esclusiva disponibilità
dell’operatore economico aggiudicatario, debba
essere determinato sul valore posto a base di gara e
non con riguardo all’ammontare del canone
concessorio”;
e, in via subordinata:
●
“quali siano le corrette
modalità di contabilizzazione degli incentivi per
funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione
ad una procedura di aggiudicazione di un contratto
di concessione”;
e, sempre in via subordinata:
●
“se gli incentivi disciplinati
dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte
in una disposizione di legge speciale, che individua
le autonome risorse finanziarie a cui devono essere
imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e
individuali, che devono essere osservati
nell’erogazione possano essere esclusi dal vincolo
generale di finanza pubblica, posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti
pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n.
75 del 2017 anche laddove alimentati non già dalle
risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o
fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis del
d.lgs. 50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di
concessione, da uno specifico stanziamento previsto
nel bilancio dell’Amministrazione aggiudicatrice ai
sensi del comma 1 dello stesso art. 113” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
deliberazione 14.03.2019 n. 96). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE:
Progettazioni, no incentivi per lavori fuori programma.
Deliberazione Corte dei conti sul 2% ai tecnici della p.a..
Senza programmazione degli interventi risulta
impossibile applicare l'incentivo pari al 2% del valore dell'opera concesso
ai tecnici delle pubbliche amministrazioni; non è infatti possibile
provvedere alla verifica di conformità che misura come il personale interno
alla stazione appaltante procede con il controllo sullo stato di avanzamento
dei lavori, sui tempi e sui costi dell'opera.
Lo ha precisato la Corte dei conti con il
parere 19.03.2019 n. 25
della sezione regionale di controllo per il Piemonte relativa
all'applicazione dell'articolo 113 del codice dei contratti pubblici, una
delle norme che dovrebbero essere riviste, almeno stando alle bozze del
decreto «sblocca cantieri» circolate in queste ultime due settimane.
In attesa di conoscere il testo definitivo del decreto, che sarà poi
trasmesso alle camere, assume un certo rilievo la delibera della
magistratura contabile che mette in stretta relazione l'applicazione della
norma con la previa effettuazione delle attività di programmazione degli
interventi.
La Corte era stata interpellata da un sindaco per sapere se, rispetto ai
servizi e alle forniture per i quali non è stato approvato il progetto e il
quadro economico, fosse possibile post-aggiudicazione finanziare gli
incentivi delle funzioni tecniche se nel capitolo di spesa dell'appalto
erano disponibili risorse.
I giudici hanno precisato innanzitutto che la «necessità che
l'affidamento di un appalto di servizi o di forniture sia preceduta da
un'attività di programmazione e di progettazione rappresenta un'esigenza
immanente nell'ordinamento a prescindere dal valore del contratto. Per
avvalorare questa impostazione i giudici hanno ricordato che in ogni caso
«seppur con strumenti più duttili e semplificati» ogni amministrazione
deve sempre procedere a una puntuale individuazione «dei bisogni onde
procedere all'affidamento di appalti volti al soddisfacimento
quali-quantitativo degli stessi».
In assenza di programmazione e di una procedura comparativa non è quindi
possibile remunerare gli incentivi: infatti risulta compromessa la stessa
possibilità di determinare il valore del relativo fondo e quindi diviene di
fatto impraticabile la funzione di controllo e verifica intestata al
direttore dell'esecuzione (alla cui nomina è subordinata, ex art. 113, comma
2, la possibilità di remunerare le funzioni tecniche ivi tassativamente
previste).
In altre parole, il Rup non potrebbe mai riuscire a svolgere le «verifiche
di conformità» che rappresentano le modalità attraverso cui il personale
interno procede al controllo sull'avanzamento delle fasi contrattuali nel
pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei
tempi e dei costi programmati.
Pertanto, per i giudici contabili, è necessario che sia avvenuto
l'accantonamento delle risorse anche solo sulla scorta del dato normativo di
cui al secondo comma dell'art. 113 del codice dei contratti pubblici. In
assenza di un accantonamento, relativo almeno all'esercizio in cui si è
svolta l'attività «incentivabile», infatti, non è possibile impegnare
ex post, ossia in un successivo esercizio, risorse riferibili ad
obbligazioni già scadute in quanto di competenza dell'esercizio precedente
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
La necessità che l’affidamento di un
appalto di servizi o di forniture sia preceduta da
un’attività di programmazione e di progettazione
rappresenta un’esigenza immanente nell’Ordinamento a
prescindere dal valore del contratto. Sicché, seppur
con strumenti più duttili e semplificati le stazioni
appaltanti sono tenute a svolgere concretamente
l’analisi dei bisogni onde procedere all’affidamento
di appalti volti al soddisfacimento
quali-quantitativo degli stessi.
In assenza di programmazione e di una procedura
comparativa:
- non è possibile remunerare gli incentivi,
- è compromessa la stessa possibilità di determinare il valore del
relativo fondo,
- diviene di fatto impraticabile la funzione di controllo e
verifica intestata al direttore dell’esecuzione
(alla cui nomina è subordinata, ex art. 113 comma II,
la possibilità di remunerare le funzioni tecniche
ivi tassativamente previste),
- sono impedite le “verifiche di conformità” che rappresentano le
modalità attraverso cui il personale interno procede
al controllo sull’avanzamento delle fasi
contrattuali nel pieno rispetto dei documenti posti
a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei
costi programmati.
---------------
In considerazione della natura sinallagmatica
dell’incentivo assume autonomo rilievo, rispetto
alla stipula del contratto, il momento di effettivo
svolgimento dell’attività ed è necessario che sia
avvenuto l’accantonamento delle risorse anche solo
sulla scorta del dato normativo di cui al II comma
dell’art. 113 del D.lgs. 50 del 2016 ss.mm.ii.
In assenza di un accantonamento, relativo almeno
all’esercizio in cui si è svolta l’attività
“incentivabile”, infatti, non è possibile impegnare
ex post, ossia in un successivo esercizio, risorse
riferibili ad obbligazioni già scadute in quanto di
competenza dell’esercizio precedente. Tale
operazione si configurerebbe elusiva del principio
della competenza finanziaria potenziata, che impone
di imputare gli impegni e gli accertamenti
all’esercizio in cui viene a scadere l’obbligazione
giuridicamente perfezionata, e che si configura come
regola a garanzia dell’effettività del principio
dell’equilibrio dinamico di bilancio elevato
dall’art. 81 Cost. a principio di sana
amministrazione.
---------------
Con nota indicata in epigrafe il Sindaco del
Comune di Verbania (VCO), dopo aver richiamato
il primo ed il secondo comma dell’art. 113 del D.Lgs.
n. 50 del 2016 relativi alla disciplina degli
incentivi per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti ha chiesto alla Sezione di
pronunciarsi in ordine ai due quesiti di seguito
riportati:
1. “in merito ai servizi ed alle forniture per i quali non è
stato approvato il progetto ed il quadro economico è
possibile post-aggiudicazione finanziare gli
incentivi delle funzioni tecniche se nel capitolo di
spesa dell’appalto sono disponibili risorse";
2. "se gli incentivi per le funzioni tecniche relativi a
forniture e servizi possono essere erogati per
contratti stipulati prima del 01.01.2018 per le
funzioni svolte dopo l’01.01.2018 e dopo
l’approvazione del Regolamento e se in caso di
mancato accantonamento delle risorse è possibile
prevederle.”
...
La richiesta in esame attiene sostanzialmente
all’interpretazione delle previsioni normative che
regolamentano la possibilità, di remunerare lo
svolgimento delle funzioni tecniche, tassativamente
previste dall’art. 113 del D.Lgs. 50 del 2016 e
ss.mm.ii., effettivamente svolte dai dipendenti
pubblici in relazione ad appalti di servizi e
forniture.
In particolare con il primo dei due quesiti
formulati, il Sindaco del Comune di Verbania chiede
di sapere se “in merito ai servizi ed alle
forniture per i quali non è stato approvato il
progetto ed il quadro economico è possibile
post-aggiudicazione finanziare gli incentivi delle
funzioni tecniche se nel capitolo di spesa
dell’appalto sono disponibili risorse".
Giova premettere che la programmazione degli
interventi è un’attività indispensabile per
un’amministrazione orientata al risultato ed
ispirata al principio costituzionale del buon
andamento di cui all’art. 97 della Cost. La
rilevanza e la centralità dell’attività
programmatica la si rinviene anche nell’Allegato 4/1
al D.lgs. 118 del 2011 definisce la programmazione
come “il processo di analisi e valutazione che,
comparando e ordinando coerentemente tra loro le
politiche e i piani per il governo del territorio,
consente di organizzare, in una dimensione temporale
predefinita, le attività e le risorse necessarie per
la realizzazione di fini sociali e la promozione
dello sviluppo economico e civile delle comunità di
riferimento”.
Più nello specifico in relazione all’oggetto del
quesito richiesto, l’art. 21 del Codice dei
contratti pubblici declina l’obbligo di
programmazione stabilendo la necessità per le
amministrazioni aggiudicatrici di adottare il
programma biennale degli acquisti di beni e servizi
ed il programma triennale dei lavori pubblici
(nonché i relativi aggiornamenti annuali) da
includere nel Documento unico di programmazione (D.U.P.).
Il successivo articolo 23, al comma 14 prevede che “la
progettazione di servizi e forniture è articolata,
di regola, in un unico livello ed è predisposta
dalle stazioni appaltanti, di regola, mediante
propri dipendenti in servizio”. Ed al successivo
comma 15 precisa che “per quanto attiene agli
appalti di servizi, il progetto deve contenere: la
relazione tecnico-illustrativa del contesto in cui è
inserito il servizio; le indicazioni e disposizioni
per la stesura dei documenti inerenti alla sicurezza
di cui all'articolo 26, comma 3, del decreto
legislativo n. 81 del 2008; il calcolo degli importi
per l'acquisizione dei servizi, con indicazione
degli oneri della sicurezza non soggetti a ribasso;
il prospetto economico degli oneri complessivi
necessari per l'acquisizione dei servizi; il
capitolato speciale descrittivo e prestazionale,
comprendente le specifiche tecniche, l'indicazione
dei requisiti minimi che le offerte devono comunque
garantire e degli aspetti che possono essere oggetto
di variante migliorativa e conseguentemente, i
criteri premiali da applicare alla valutazione delle
offerte in sede di gara, l'indicazione di altre
circostanze che potrebbero determinare la modifica
delle condizioni negoziali durante il periodo di
validità, fermo restando il divieto di modifica
sostanziale. Per i servizi di gestione dei patrimoni
immobiliari, ivi inclusi quelli di gestione della
manutenzione e della sostenibilità energetica, i
progetti devono riferirsi anche a quanto previsto
dalle pertinenti norme tecniche”.
La necessità che l’affidamento di un appalto di
servizi o di forniture sia preceduta da un’attività
di programmazione e di progettazione, volte a
definire i bisogni della collettività, ad approntare
le necessarie misure per soddisfarli ed a consentire
la verifica della congruità, proporzionalità,
dell’efficienza dei risultati raggiunti, rappresenta
un’esigenza immanente nell’Ordinamento a prescindere
dal valore del contratto.
Il principio del buon andamento dell’azione
amministrativa, seppur necessariamente bilanciato
con il criterio della proporzionalità,
dell’adeguatezza e dell’efficacia delle scelte
amministrative, non può essere derogato in relazione
al valore dell’appalto. Sicché, seppur con strumenti
più duttili e semplificati le stazioni appaltanti, a
prescindere dal valore del contratto, sono tenute a
svolgere concretamente l’analisi dei bisogni onde
procedere all’affidamento di appalti di lavori,
servizi e forniture effettivamente tesi al
soddisfacimento quali-quantitativo degli stessi.
Orbene, venendo al quesito in esame, in assenza
della descritta e necessaria fase della
programmazione e di una procedura comparativa,
ritiene questa Sezione regionale che non sia
possibile procedere alla remunerazione degli
incentivi per le funzioni tecniche. Lo stesso
articolo 113, più volte richiamato, al II comma
espressamente prevede “a valere sugli
stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per le funzioni
tecniche svolte dai dipendenti delle stesse. La
disposizione di cui al presente comma si applica
agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso
in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Dall’esame di tale disposizione è di palmare
evidenza come in assenza di un quadro economico, che
definisca nel dettaglio ogni singola voce del
corrispettivo relativo al servizio o alla fornitura,
sia addirittura compromessa la stessa possibilità di
determinare il valore del fondo volto a remunerare
gli incentivi de quibus (che ai sensi del II
comma dell’art. 113 deve essere “in misura non
superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei
lavori, servizi e forniture posti a base di gara”).
Analogamente l’assenza di un progetto, come pure di
una relazione tecnico-illustrativa, o di ogni altro
strumento ad esso assimilabile, rende di fatto
impraticabile la funzione di controllo e verifica
intestata al direttore dell’esecuzione, alla cui
nomina è subordinata, dalla Legge (art. 113, comma
II, ultimo periodo), la possibilità di remunerare le
funzioni tecniche tassativamente previste dal
medesimo comma (cfr. in termini le Linee guida ANAC
n. 3 – par. 10.2).
D’altronde l’impossibilità di determinare l’importo
da mettere a base di gara si configura come un
concreto ostacolo alla remunerabilità delle funzioni
tecniche anche in considerazione della necessità di
circoscrivere l’incentivo de quo “esclusivamente
per le attività riferibili a contratti di lavori,
servizi o forniture che, secondo la legge (comprese
le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il
regolamento dell’ente, siano stati affidati previo
espletamento di una procedura comparativa” (in
termini Sezione Autonomie
deliberazione 09.01.2019 n. 2 e Sezione
regionale di controllo per Piemonte
parere 09.10.2017 n. 177).
Un’ulteriore conferma della voluntas legis di
circoscrivere la remunerazione degli incentivi a
funzioni tecniche “complesse” riconducibili
ad una più attenta gestione delle fasi della
programmazione e dell’esecuzione, in relazione agli
appalti di servizi e forniture, si invera anche nel
richiamo alle “verifiche di conformità” che
rappresentano le modalità attraverso cui il
personale interno procede al controllo
sull’avanzamento delle fasi contrattuali nel pieno
rispetto dei documenti posti a base di gara, del
progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati,
aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia
della spesa (cfr. art. 113, II comma, ed art. 102,
comma 2, del d.lgs. n. 50/2016). Attività di
controllo e verifica anch’essa preclusa nel caso in
cui manchino documenti di natura programmatica e
progettuale.
Quanto al secondo quesito, il Sindaco del
Comune di Verbania chiede di conoscere “Se gli
incentivi per le funzioni tecniche relativi a
forniture e servizi possono essere erogati per
contratti stipulati prima del 01.01.2018 per le
funzioni svolte dopo l’01.01.2018 e dopo
l’approvazione del Regolamento e se in caso di
mancato accantonamento delle risorse è possibile
prevederle.”
In ordine al primo interrogativo questa Sezione,
richiamando propri precedenti (cfr. Corte Conti
parere 09.10.2017 n. 177)
oltre che pronunce consolidate sul punto della
Sezione delle Autonomie (Corte dei Conti, Sezione
delle Autonomie
deliberazione 24.03.2015 n. 11
e
deliberazione 08.05.2009 n. 7)
ed in considerazione della natura sinallagmatica
dell’emolumento de quo, ritiene di riconoscere
autonomo rilievo, rispetto alla stipula del
contratto, al momento di effettivo svolgimento
dell’attività prevista dalla Legge dal quale sorge
il conseguente incentivo del dipendente, purché però
sia stato previsto l’accantonamento delle risorse
anche solo sulla scorta del dato normativo di cui al II comma dell’art. 113 del D.lgs. 50 del 2016
ss.mm.ii.
In assenza di un accantonamento relativo almeno
all’esercizio in cui si è svolta l’attività “incentivabile”,
infatti, non è possibile impegnare ex post, ossia in
un successivo esercizio, risorse riferibili ad
obbligazioni già scadute in quanto di competenza
dell’esercizio precedente. Tale operazione si
configurerebbe quantomeno elusiva del principio
della competenza finanziaria potenziata, che impone
di imputare gli impegni e gli accertamenti
all’esercizio in cui viene a scadere l’obbligazione
giuridicamente perfezionata, e che si configura come
regola gestionale fondamentale per la realizzazione
per l’effettività del principio dell’equilibrio
dinamico di bilancio elevato dall’art. 81 Cost. a
principio di sana amministrazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 19.03.2019 n. 25). |
ENTI LOCALI
- INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Spesa
di personale, revisori obbligati ai controlli anche sugli incentivi per
funzioni tecniche.
La verifica del rispetto delle disposizioni in materia di personale è sempre
stato un tema molto sentito dagli organi di revisione economico finanziaria,
anche per la complessità della normativa.
Il
documento n. 6
(Controlli sui vincoli di assunzione e sulle spese di personale) dei principi di
revisione approvati dal Cndcec (e si veda anche il Quotidiano degli enti
locali e della Pa del 28 febbraio, del 1° marzo e del 4 marzo) ricorda in
proposito che «L'obiettivo di contenimento delle spese di personale è un
punto fermo della disciplina vincolistica ispirata al riequilibrio della
finanza pubblica ed è annoverato tra gli obiettivi prioritari di intervento
anche per il quadro sanzionatorio da cui è assistito».
Per questo motivo gli
organi di revisione sono tenuti a verificare:
• il rispetto del limite di spesa di personale in base ai commi 557 e 562
della legge 296/2006, mediante confronto di serie storiche omogenee. In
particolare, la verifica dovrà riguardare:
1. in sede di bilancio di previsione, il rispetto programmatico del
vincolo di contenimento delle spese di personale oltre che il rispetto
tendenziale del limite nell'esercizio precedente, dandone atto nell'ambito
del parere richiesto dall'articolo 239 del Tuel;
2. durante la gestione, il permanere del rispetto programmatico del
vincolo di contenimento delle spese di personale, soprattutto in relazione
ai provvedimenti (come le variazioni di bilancio) che sono destinati a
produrre un impatto su queste ultime anche in modo prospettico;
3. in sede di rendiconto, l'effettivo rispetto del vincolo di
contenimento delle spese di personale, dandone atto nell'ambito della
relazione al rendiconto prevista dall'articolo 239 del Tuel;
4. nell'esercizio successivo a quello di mancato rispetto del
vincolo di contenimento delle spese di personale, l'effettiva applicazione
dei meccanismi sanzionatori previsti.
• il rispetto del limite di spesa per lavoro flessibile, secondo la
disciplina contenuta nell'articolo 9, comma 28, del decreto legge 78/2010,
che abbraccia tutte le forme contrattuali (tempi determinati, Co.co.co.,
somministrazione, convenzioni o comandi, contratti di formazione e lavoro o
tirocini formativi);
• il rispetto del limite di spesa delle risorse destinate al salario
accessorio del personale fissato dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017
nell'ammontare corrisposto per l'anno 2016 e la conformità delle clausole
dei contratti decentrati integrativi (normativi ed economici) alla
disciplina sovraordinata. L'organo di revisione dovrà in particolare
verificare la corretta applicazione degli istituti previsti dalla
contrattazione nazionale, la compatibilità dei costi della contrattazione
decentrata con gli stanziamenti del bilancio di previsione, la conformità
delle risorse riportate nel fondo per il trattamento accessorio
(distintamente per la dirigenza e per il comparto) con le disposizioni che
ne disciplinano la costituzione, la sussistenza delle condizioni che
legittimano l'inserimento di risorse aggiuntive. Il parere dovrà essere reso
sulla base della relazione illustrativa e tecnico finanziaria, presupposti
imprescindibili per l'attività di controllo;
• il rispetto dei vincoli in materia di turn-over, determinati in funzione
delle caratteristiche dell'ente locale, dell'evoluzione normativa e di
alcuni elementi di premialità.
Gli incentivi per funzioni tecniche
Sebbene rubricati in documento diverso da quello dedicato alle spese di
personale [documento
n. 2 (pag. 84) - Funzioni dell’Organo di revisione: attività di collaborazione, pareri
obbligatori e vigilanza], i principi demandano all'organo di revisione anche il controllo e
la vigilanza in materia di incentivi per funzioni tecniche. Il fatto che
questi incentivi non siano più considerati spesa di personale e assoggettati
ai limiti delle risorse destinate al salario accessorio non fa spegnere i
riflettori su questa delicata materia.
Più che al rilascio del parere sul
regolamento di disciplina degli incentivi, da approvare previa stipula di un
accordo di contrattazione decentrata (parere non esplicitamente previsto né
dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 né tanto meno dai principi di revisione),
il controllo verte piuttosto –secondo un approccio sostanzialistico- sulla
verifica della corretta gestione del ciclo degli incentivi.
L'organo di revisione deve infatti accertare:
• in sede di quantificazione:
1. che sia stata calcolata e finanziata la percentuale degli
incentivi da accantonare nel fondo in coerenza con i tempi di esecuzione del
contratto, riportati nel cronoprogramma di attività e di spesa;
2. che l'accantonamento venga riportato nello stesso capitolo di
spesa delle altre voci del quadro economico previsto;
3. che sia stato costituito il gruppo di lavoro.
• in fase di liquidazione, se:
1. è stato adempiuto l'onere della preventiva fissazione dei
criteri e della modalità di distribuzione delle risorse ad esso
specificamente "destinate" in sede di contrattazione collettiva decentrata;
2. l'ente abbia disciplinato e modulato (comma 2 dell'articolo 113
del Dlgs 50/2016) con apposito regolamento la ripartizione degli incentivi
per funzioni tecniche con l'obiettivo di premiare i dipendenti che
concretizzano l'esecuzione dell'opera, del servizio o della fornitura nel
rispetto di importi e tempi programmati;
3. la determina di approvazione del dirigente/responsabile del
servizio documenti il completamento delle attività e le persone impegnate
nello svolgimento dell'attività;
4. i singoli importi per gli incentivi rispettino i limiti fissati
nel regolamento approvato dalla giunta;
5. le somme complessivamente erogate al personale rispettino i due
limiti finanziari di contenimento: uno di carattere generale (il tetto
massimo al 2% dell'importo posto a base di gara, senza considerare eventuali
ribassi) e l'altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del
trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo
dipendente);
6. gli incentivi sono destinati solo ai componenti del gruppo di
lavoro, gia formalmente individuato a monte dal dirigente o dal responsabile
del servizio su proposta del responsabile unico del procedimento, tenendo
presente le attività realmente svolte, la spesa sostenuta rispetto a quella
prevista, nonché i tempi di realizzazione rispetto a quelli previsti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.03.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Fuori dagli incentivi tecnici il
responsabile del piano della sicurezza poiché
figura non contemplata dalla legge. Invero,
nel procedere all’interpretazione del
dettato normativo non si può non rilevare il
carattere tassativo dell’elencazione fatta dal
legislatore, elencazione preceduta, infatti,
dall’avverbio esclusivamente che, inevitabilmente,
porta ad una lettura testuale della disposizione non
suscettibile di interpretazioni estensive.
Appare, pertanto, di chiara evidenza la volontà del
legislatore di attribuire gli incentivi di che
trattasi esclusivamente per le funzioni
espressamente indicate e qualsiasi diversa soluzione
interpretativa verrebbe a violare i principi
generali dell’ordinamento giuridico dello Stato in
tema di interpretazione della legge: l’art. 12 disp.
att. recita, infatti, che nell’applicare la legge
non si può ad essa attribuire altro senso che quello
fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse e dell’intenzione del
legislatore.
---------------
Con nota prot. n. 98591 del 21/12/2018 il sindaco
del Comune di Agrigento inoltrava richiesta di
parere ex art. 7, VIII c., l. 131 del 2003,
formulando due specifici quesiti in tema di
individuazione dei soggetti beneficiari degli
incentivi per funzioni tecniche ex art. 113 d.lvo 50
del 2016; ulteriore quesito veniva formulato in tema
di possibilità di riconoscere compensi ai
responsabili di programmi integrati e/o complessi,
nell’ambito del quadro economico dell’iniziativa.
...
Orbene, l’art. 113 del nuovo Codice dei contratti
pubblici, approvato con d.l.vo 50 del 2016, al II
c., dispone che “A valere sugli stanziamenti di
cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici
destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie
in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti
a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per
investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di gara e di esecuzione dei contratti
pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero
direzione dell’esecuzione e di collaudo
tecnico-amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario
per consentire l’esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto,
dei tempi e costi prestabiliti”.
Rispetto al dettato normativo previgente, di cui
all’art. 93, c. 7-ter, d.lgs. 163 del 2006, il quale
indicava quali figure professionali cui
ripartire le risorse finanziarie del fondo per la
progettazione e l’innovazione “il responsabile
del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori,
del collaudo, e i loro collaboratori”,
il nuovo testo normativo non contempla la
figura del responsabile del piano della sicurezza:
orbene, nel procedere all’interpretazione del
dettato normativo, questa Sezione non può non
rilevare il carattere tassativo dell’elencazione
fatta dal legislatore, elencazione preceduta,
infatti, dall’avverbio esclusivamente che,
inevitabilmente, porta ad una lettura testuale della
disposizione non suscettibile di interpretazioni
estensive.
Sul punto già diverse deliberazioni emesse da
Sezioni regionali di controllo e dalla Sezione
Autonomie, hanno affermato e ribadito come il
legislatore del 2016 abbia individuato le varie fasi
procedimentali che portano all’affidamento di un
contratto pubblico, valorizzando le figure
espressamente indicate al II comma dell’art. 113.
Detta scelta è, peraltro, in linea con i criteri
dettati in sede di legge di delega –n. 11 del 2016-
laddove si disponeva che “al fine di incentivare
l’efficienza e l’efficacia nel perseguimento della
realizzazione e dell’esecuzione a regola d’arte, nei
tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a
varianti in corso d’opera, è destinata una somma non
superiore al 2 per cento dell’importo posto a base
di gara per le attività tecniche svolte dai
dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando
e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione
dei lavori e ai collaudi, con particolare
riferimento al profilo dei tempi e dei costi,
escludendo l’applicazione degli incentivi alla
progettazione”.
Appare, pertanto, di chiara evidenza la
volontà del legislatore di attribuire gli incentivi
di che trattasi esclusivamente per le funzioni
espressamente indicate e qualsiasi diversa soluzione
interpretativa verrebbe a violare i principi
generali dell’ordinamento giuridico dello Stato in
tema di interpretazione della legge: l’art. 12 disp.
att. recita, infatti, che nell’applicare la legge
non si può ad essa attribuire altro senso che quello
fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse e dell’intenzione del
legislatore.
In tal senso si sono espresse recenti deliberazioni
delle Sezioni regionali della Corte dei conti le
quali, in tema di tassatività della previsione
normativa, ribadiscono il principio che la suddetta
tassatività che connota la dimensione oggettiva
della fattispecie non può che riverberarsi sul piano
soggettivo, in quanto i destinatari degli incentivi
sono individuati o individuabili con riferimento
alle attività incentivate; l’ambito soggettivo dei
destinatari viene, pertanto, delimitato per
relationem con riferimento ai soggetti che
svolgono le attività tecniche indicate nel citato
art. 113 (Sez. Aut.,
deliberazione 26.04.2018 n. 6;
Sez. controllo Liguria,
parere 06.12.2018 n. 131).
Il Collegio, pertanto, rilascia in base alle
considerazioni sopra esposte il parere richiesto dal
Comune di Agrigento.
Il terzo quesito riguarda la possibilità
riconoscere compensi ai responsabili di programmi
integrati e/o complessi, nell’ambito del quadro
economico dell’iniziativa. Ritiene il Collegio che,
detto quesito sia inammissibile sotto il profilo
oggettivo, trattandosi di fattispecie inerente
assetti di tipo normativo-regolamentare, con
refluenze sul piano contabile solo eventuali e,
comunque, successive alla disciplina di carattere
sostanziale.
Si richiamano, al riguardo, le già citate
deliberazioni delle SS.RR. n. 54 del 17/11/2010 ove
si precisa che non sono condivisibili linee
interpretative che ricomprendano nel concetto di
contabilità pubblica qualsivoglia attività degli
Enti che abbia, comunque, riflessi di natura
finanziaria, comportando, direttamente o
indirettamente, una spesa, con susseguente fase
contabile attinente all’amministrazione ed alle
connesse scritture di bilancio e della Sezione
Autonomie 5/2006 laddove precisa che la disciplina
contabile si riferisce solo alla fase discendente,
distinta da quella sostanziale, antecedente non
disciplinata da normativa di carattere
contabilistico (Corte dei Conti, Sez. controllo
Sicilia,
parere 04.03.2019 n. 54). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Sussiste la possibilità di incentivare
gli appalti di manutenzione straordinaria e
ordinaria, ai sensi dell’art. 113 del D.lgs.
n. 50/2016, a condizione che
siano caratterizzati da particolare complessità.
La Corte dei conti dell'Umbria, con la
parere 01.02.2019 n. 7
ha esaminato il quesito posto dalla Provincia di
Perugia circa la possibilità di erogare gli
incentivi di cui all'articolo 113 del Dlgs 50/2016
per appalti per attività manutentiva.
Secondo i magistrati contabili, gli incentivi per
funzioni tecniche possono essere riconosciuti anche
per appalti di manutenzione straordinaria e
ordinaria di particolare complessità, tali da
giustificare un supplemento di attività da parte del
personale interno all'amministrazione affinché il
procedimento che regola il corretto avanzamento
delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto
dei documenti posti a base di gara, del progetto,
nonché dei tempi e dei costi programmati,
aumentando, in tal modo, l'efficienza e l'efficacia
della spesa.
In particolare, uniformandosi al principio espresso
dalla Sezione per le Autonomie con
deliberazione 09.01.2019 n. 2
(«Gli incentivi per funzioni tecniche previsti
dall'art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice
dei contratti pubblici) possono essere riconosciuti,
nei limiti previsti dalla norma, anche in relazione
agli appalti di manutenzione straordinaria e
ordinaria di particolare complessità»), il
Collegio umbro ha sottolineato che gli incentivi in
questione, fermi restando i limiti posti dalla
normativa, debbono essere destinati ai soli
interventi manutentivi che presentino le
caratteristiche evidenziate
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.03.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Appare
compatibile l’attuale corresponsione degli incentivi
per funzioni tecniche riferiti a procedimenti di
gara avviati prima del 2018 purché erogati nel
rispetto dei criteri e con i presupposti di cui
all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2017.
---------------
Il Comune di Rovigo, con nota prot. n. 74513
del 23.11.2018, a firma del Sindaco, formula
a questa Corte una richiesta di parere, ai
sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge
05.06.2003, n. 131 volto a chiarire l’attuale
assoggettabilità o meno degli incentivi per funzioni
tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. n. 50
del 2016 ai limiti del salario accessorio di cui
all’art. 23, c. 2, del d.lgs. 75/2017 a seguito
dell’intervenuto art. 1, c. 526, della legge n. 205
del 2017 e della
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della
Sezione Autonomie.
In particolare il Comune chiede se la suddetta
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della
Sezione delle Autonomie, volta ad interpretare
in modalità univoca la portata del dettato normativo
che ha introdotto all’art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016
il comma 5-bis (“Gli incentivi di cui al presente
articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”)
apra “una nuova questione di diritto
intertemporale tra i contratti pubblici approvati od
affidati prima o dopo il primo gennaio 2018, ai fini
della sottoposizione ai limiti” e se
veramente gli incentivi per funzioni tecniche sin
dalla loro nascita non sono assoggettati ai limiti
di spesa in concorso con il restante trattamento
accessorio.
...
Venendo al merito, la citata
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della Sezione Autonomie è completamente esaustiva
nel dichiarare gli incentivi per funzioni tecniche
non soggetti al vincolo posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, c. 2, del d.lgs.
n. 75 del 2017, avendo il legislatore, con
l’introduzione all’art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016
dell’art. 5-bis, voluto considerare la spesa per
lavori, servizi e forniture in
modo globale, ovvero comprensiva anche delle risorse
finanziarie destinate agli incentivi tecnici i
quali, previsti da una legge speciale, esulano così
dalle regole degli emolumenti accessori aventi fonte
nei contratti collettivi.
La Sezione Autonomie ha conseguentemente enunciato
in modo chiaro il seguente principio di diritto: ”Gli
incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n.
50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma
526, della legge 205 del 2017, erogati su risorse
finanziarie individuate ex lege facenti capo agli
stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i
singoli lavori, servizi e forniture, non sono
soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del
2017”.
Ovviamente l’erogazione degli incentivi di che
trattasi resta subordinata ai vincoli di
contenimento espressamente previsti dall’art. 113,
con particolare riferimento al rispetto dei tetti
(2% dell’importo posto a base di gara e 50% del
trattamento economico complessivo per gli incentivi
spettanti al singolo dipendente) ed alla previa
emanazione del Regolamento di cui al comma 3 del
citato art. 113, che definisce criteri e modalità
per la corresponsione delle somme di che trattasi, e
che quindi costituisce indispensabile presupposto
della liquidazione.
Per quanto riguarda le norme ratione temporis
applicabili con riferimento alla nuova
interpretazione emersa in materia di corresponsione
di incentivi tecnici dal 2018, questa Sezione ha già
avuto modo di pronunciarsi col
parere 25.07.2018 n. 264, intervenendo su
di un quesito interpretativo volto a conoscere la
legittimità della liquidazione di somme accantonate
prima della adozione del Regolamento. In quel
contesto la Sezione ha concluso come
l’irretroattività del Regolamento “…non
preclude …. la ripartizione delle risorse in
precedenza accantonate e ciò rende legittimo
l’accantonamento, in misura ovviamente conforme al
limite normativo, nelle more dell’adozione di tale
atto”.
Con riferimento a quanto prospettato dal Comune di
Rovigo, appare quindi compatibile
l’attuale corresponsione degli incentivi per
funzioni tecniche riferiti a procedimenti di gara
avviati prima del 2018 purché erogati nel rispetto
dei criteri e con i presupposti di cui all’art. 113
del d.lgs. 50 del 2017
precedentemente richiamati (Corte dei Conti, Sez.
controllo veneto,
parere
24.01.2019 n. 17). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
per funzioni tecniche, sull'IRAP decide l'Ente.
Con il
parere 15.01.2019 n. 2 la Corte dei
conti, Sezione regionale di controllo per la Sardegna, pur avendo deciso per
l’inammissibilità della richiesta di parere non vertendosi su questioni
generali attinenti alla finanza pubblica, rassegna una serie di conclusioni
esegetiche che vale la pena esporre e considerare, vista la notevole
importanza che rivestono per la gestione degli Enti locali.
In particolare, l’Ente richiedente faceva istanza per conoscere quale
indirizzo giurisprudenziale valga per i crediti derivanti dagli incentivi
decurtati dall’Irap, prima del
parere 29.03.2012 n. 27
della Corte dei Conti.
La questione afferisce all’applicazione dell’articolo 113 del Codice dei
contratti pubblici, di cui al Dlgs 50/2016, che prevede, come il codice
previgente, il pagamento delle cd incentivazioni per funzioni tecniche. La
tematica attiene, quindi, all’inclusione, o meno, dell’Irap ai fini della
determinazione dei compensi dovuti ai dipendenti di profilo tecnico per
l’attività di progettazione e direzione lavori, ai sensi dell’art. 92, comma
5, del Dlgs 163/2006, (Codice dei contratti pubblici per lavori, servizi e
forniture) e, in ultima analisi, sul quesito se detta imposta debba
rimanere, per tali incentivi, a carico del lavoratore ovvero
dell’Amministrazione.
Infatti, mentre la previgente normativa codicistica meglio e più ampiamente
disciplinava la questione, quella attualmente in vigore lascia aperte varie
soluzioni, riaccendendo il dibattito interpretativo in passato sopito.
Sia per un argomento letterale (non essendo l’Irap ricomprensibile tra gli
oneri cd riflessi) che per un approccio sistematico (realizzandosi il
presupposto impositivo di tale onere fiscale non sul lavoratore bensì
sull’Ente), si deve giungere alla conclusione per la quale mentre sul piano
dell’obbligazione giuridica rimane chiarito che l’Irap grava
sull’Amministrazione, su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle
modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’Amministrazione non potrà che
quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti,
accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene
anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico.
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di
personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei
fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei
confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse
necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’Amministrazione.
La Corte conclude osservando che le disponibilità di bilancio da destinare
ai “fondi” da ripartire non possono che essere quantificate al netto
delle somme destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che gravano
sull’Amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde
interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle
richiamate disposizioni, ma anche con il principio di copertura degli oneri
finanziari (art. 81, quarto comma, Cost.).
Infatti, se si considera che l’Irap viene commisurata per le Amministrazioni
pubbliche alla spesa per il personale, l’incremento della retribuzione
accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche l’espansione
dell’imposta che deve, comunque, trovare copertura nell’ambito delle risorse
quantificate e disponibili, in linea con l’obiettivo del contenimento di
ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti sui bilanci
degli Enti pubblici.
Pertanto, ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per
le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole
indisponibili, le somme che gravano sull’Ente per oneri fiscali, nella
specie, a titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi
vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli “oneri assicurativi e
previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non includono, per
le ragioni sopra indicate, l’Irap.
In conclusione, pertanto, la Corte, ribadita la inammissibilità oggettiva
della richiesta che potrebbe investire l’aspetto relativo alle concrete
modalità di difesa dell’Ente avverso una pretesa afferente a un credito di
lavoro vantato dal dipendente, anche in sede giudiziaria, e tanto sia per la
concretezza dell’eventuale siffatto quesito che per la possibile commistione
della soluzione offerta con le competenze di altri plessi giurisdizionali
ivi compresi quelli della Corte dei conti non in sede di controllo, richiama
il contenuto della
deliberazione 30.06.2010 n. 33
della Sezione delle Autonomie, rimanendo in capo al Comune richiedente,
nell’ambito della propria discrezionalità amministrativa, le scelte da
adottare in ordine all’eventuale maturare del termine prescrizionale per la
quota di crediti afferente all’IRAP non corrisposta ai beneficiari degli
incentivi alla progettazione che attivino una pretesa di corresponsione di
tali importi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.02.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Sia per un
argomento letterale (non essendo l’IRAP
ricomprensibile tra gli oneri c.d. riflessi) che per
un approccio sistematico (realizzandosi il
presupposto impositivo di tale onere fiscale non sul
lavoratore bensì sull’ente), si deve giungere alla
conclusione per la quale “mentre sul piano
dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap
grava sull’amministrazione (…), su un piano
strettamente contabile, tenuto conto delle modalità
di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione
non potrà che quantificare le disponibilità
destinabili ad avvocati e professionisti,
accantonando le risorse necessarie a fronteggiare
l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento
delle altre retribuzioni del personale pubblico (…).
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la
copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap)
si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei
fondi per la progettazione e per l’avvocatura
interna ripartibili nei confronti dei dipendenti
aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse
necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante
sull’amministrazione”.
Si conclude osservando “che le disponibilità di
bilancio da destinare ai “fondi” da ripartire non
possono che essere quantificate al netto delle somme
destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che
gravano sull’amministrazione a titolo di Irap,
poiché, diversamente, una discorde interpretazione
confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle
richiamate disposizioni, ma anche con il principio
di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto
comma, Cost.). Infatti, se si considera che l’Irap
viene commisurata per le amministrazioni pubbliche
alla spesa per il personale, l’incremento della
retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi
titolo, determina anche l’espansione dell’imposta
che deve, comunque, trovare copertura nell’ambito
delle risorse quantificate e disponibili, in linea
con l’obiettivo del contenimento di ogni effetto di
incremento degli oneri di personale gravanti sui
bilanci degli enti pubblici. Pertanto, ai fini della
quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per
le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di
copertura, rendendole indisponibili, le somme che
gravano sull’ente per oneri fiscali, nella specie, a
titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo
indicato, i compensi vanno corrisposti al netto,
rispettivamente, degli “oneri assicurativi e
previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non
includono, per le ragioni sopra indicate, l’Irap.”.
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Il Consiglio delle Autonomie Locali della Regione
Autonoma della Sardegna ha trasmesso a questa
Sezione una richiesta di parere del 21.05.2018, n.
271, formulata dal Sindaco del Comune di Uras (OR)
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003,
ritenendola ammissibile.
L’Ente domanda alla Sezione di esprimersi “sulla
liquidazione dei crediti da lavoro inerenti all’IRAP
trattenuta nell’ambito degli incentivi per la
progettazione in riferimento agli anni 2008-2012
ovvero prima del
parere 29.03.2012 n. 27 della Corte dei Conti Sardegna. La
disposizione di legge di cui si chiede
l’interpretazione è l’art. 92, c. 5, del Dlgs
163/2006 in combinato disposto con l’art. 2946 c.c.”.
A tale proposito, il Comune propone una
ricostruzione delle disposizioni normative che si
sono susseguite in materia e delle interpretazioni
in argomento rese dalla giurisprudenza contabile,
anche in sede nomofilattica, e precisa che “solo
a seguito del
parere 29.03.2012 n. 27 della Corte dei Conti Sardegna gli
Enti locali che non avevano adottato un regolamento
di liquidazione dell’incentivo tecnico prevedendo lo
scorporo dell’IRAP, hanno provveduto alla
liquidazione dell’incentivo medesimo al netto dell’IRAP
ponendola a carico dell’Ente”.
L’istante conclude richiedendo, in tema di
prescrizione dei “crediti da lavoro ivi compresi
gli incentivi decurtati dall’IRAP”, una
pronuncia avente a oggetto l’individuazione di “quale
indirizzo giurisprudenziale vale per i crediti
derivanti dagli incentivi decurtati dall’IRAP, prima
del
parere 29.03.2012 n. 27 della Corte dei Conti ”.
...
La questione prospettata è relativa alla
corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche
attualmente regolati dall’art. 113, D.lgs. 50/2016,
recante la “Attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione,
sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto
degli enti erogatori nei settori dell'acqua,
dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali,
nonché per il riordino della disciplina vigente in
materia di contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture”.
Trattasi di materia attinente alla gestione della
spesa di personale del Comune, che può essere fatta
rientrare nella nozione di contabilità pubblica che
qui rileva, allorché venga interessata
dall’applicazione di norme vincolistiche finalizzate
al coordinamento della finanza pubblica, quali i
limiti alla determinazione dei fondi per il
trattamento accessorio.
Si ricorda, d’altra parte, che la funzione
consultiva attribuita alle Sezioni regionali di
controllo non può concernere fatti gestionali
specifici del soggetto istante, ma ambiti e oggetti
di portata generale, rimanendo nella piena
discrezionalità e responsabilità dell’ente la scelta
amministrativa e gestionale da adottare nella
fattispecie concreta.
Nel caso in esame l’oggetto della sollecitata
funzione consultiva della Sezione sembra essere la
sorte dei crediti dei lavoratori che hanno subìto la
decurtazione dell’IRAP nella corresponsione degli
emolumenti in parola, per tale parte di incentivo
trattenuta dall’amministrazione, con particolare
riferimento al maturare del termine prescrizionale.
Si tratta di questione, quindi, da risolvere secondo
canoni dell’ordinamento civile, che prescinde
dall’applicazione di limiti imposti per esigenze di
coordinamento della finanza pubblica e dalla quale
possono derivare contenziosi rimessi alla competenza
di giudice diverso dalla Corte dei conti.
La Sezione, pertanto, rileva che il parere richiesto
è inammissibile dal punto di vista oggettivo, e,
pertanto, di seguito ci si limiterà a un breve
richiamo degli aspetti salienti della disciplina
considerata, tra l’altro richiamati dal Comune
medesimo.
Come è noto, l’istituto degli incentivi alle
funzioni tecniche ha conosciuto molteplici e
complessi interventi normativi spesso forieri di
dubbi interpretativi.
Tralasciando i profili di non immediato interesse
per la risoluzione del quesito posto dal Comune, si
ricorda che la norma attualmente vigente, contenuta
nell’art. 113 del “Codice dei contratti pubblici”
di cui al D.lgs. 50/2016, prevede che, a valere
sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di
lavori, servizi e forniture, negli stati di
previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici
destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie,
in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti
a base di gara, per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per
investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di gara e di esecuzione dei contratti
pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero
direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico
amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire
l’esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e
costi prestabiliti.
Il successivo comma 3 dell’articolo in commento
stabilisce che l’ottanta per cento delle risorse
finanziarie del fondo è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura, con le modalità
e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale, sulla base di
apposito regolamento adottato dalle amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti, tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche nonché tra i loro
collaboratori e che “Gli importi sono comprensivi
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a
carico dell'amministrazione”.
La disciplina di cui all’art. 92, comma 5, del
D.lgs. 163/2006, contenente il previgente Codice dei
contratti, sulla quale si appunta espressamente il
quesito interpretativo mosso dal Comune, prevedeva,
analogamente, che il fondo degli incentivi alla
progettazione fosse alimentato con una somma non
superiore al due per cento dell'’importo posto a
base di gara di un’opera o di un lavoro, somma “comprensiva
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a
carico dell'amministrazione”; ai fini della
ripartizione del fondo, si disponeva che l’80 per
cento delle risorse finanziarie d fosse ripartito,
per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale e adottati con
apposito regolamento, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della direzione
dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori e, anche in tal caso, che gli importi
fossero “comprensivi anche degli oneri previdenziali
e assistenziali a carico dell'amministrazione” (art.
93, comma 7-bis, del vecchio Codice).
Occorre ricordare che il D.lgs. 163/2006 è stato
abrogato dall’art. 217, comma 1, lett. e), D.Lgs.
50/2016, recante il nuovo Codice dei contratti, a
decorrere dal 19.04.2016, ai sensi di quanto
disposto dal successivo art. 220 del medesimo
decreto.
Ripercorrendo a ritroso la normativa in argomento,
si rammenta, altresì, che il menzionato art. 92,
comma 5, riprendeva il dettato dell’art. 18 della L.
109/1994, come interpretato, a sua volta, dall’art.
3, comma 29, della L. 350/2003, secondo il quale
detti compensi “si intendono al lordo di tutti
gli oneri accessori connessi alle erogazioni, ivi
compresa la quota di oneri accessori a carico degli
enti stessi” e dall’art. 1, comma 207, della L.
266/2005, per il quale detti emolumenti sono
comprensivi “degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell’amministrazione”.
Come peritamente evidenziato dal Comune di Uras, la
Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, con
deliberazione 30.06.2010 n. 33,
si è espressa sulla “inclusione, o meno, dell’Irap
ai fini della determinazione dei compensi dovuti ai
dipendenti di profilo tecnico per l’attività di
progettazione e direzione lavori, ai sensi dell’art.
92, comma 5, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice
dei contratti pubblici per lavori, servizi e
forniture)” e, in ultima analisi, sul quesito se
detta imposta dovesse rimanere, per tali incentivi,
a carico del lavoratore ovvero dell’amministrazione.
Sinteticamente ripercorrendo l’iter motivazionale
della pronuncia testé citata, alla quale si rimanda
per l’ampia ricostruzione del contrasto
interpretativo risolto, si evidenzia che
sia per un
argomento letterale (non essendo l’IRAP
ricomprensibile tra gli oneri c.d. riflessi) che per
un approccio sistematico (realizzandosi il
presupposto impositivo di tale onere fiscale non sul
lavoratore bensì sull’ente), si deve giungere alla
conclusione per la quale “mentre sul piano
dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap
grava sull’amministrazione (…), su un piano
strettamente contabile, tenuto conto delle modalità
di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione
non potrà che quantificare le disponibilità
destinabili ad avvocati e professionisti,
accantonando le risorse necessarie a fronteggiare
l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento
delle altre retribuzioni del personale pubblico (…).
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la
copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap)
si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei
fondi per la progettazione e per l’avvocatura
interna ripartibili nei confronti dei dipendenti
aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse
necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante
sull’amministrazione”.
Snodo essenziale della descritta soluzione
interpretativa è rappresentato dall’individuazione,
nell’ambito dell’art. 1 della L. 266/2005, di due “blocchi
di norme”, tra loro ritenute “coerenti”.
Il primo, che comprende i commi dal 176 al
206, regolamenta i fondi per il finanziamento dei
contratti collettivi integrativi e le connesse
modalità di copertura degli oneri ovvero la
provvista delle risorse finanziarie “per far
fronte a “tutti gli oneri” derivanti dalle spese di
personale, ivi inclusi i fondi “per l’incentivazione
alla progettazione” ivi compresa “la quota parte
occorrente all’amministrazione per fronteggiare gli
oneri che sulla stessa gravano a titolo di Irap”,
costituendo, pertanto, “le disponibilità complessive
massime e, pertanto, non superabili”.
Il secondo “blocco” di norme, composto
dai commi 207 e 208, disciplina i compensi
professionali ovvero il trattamento economico dei
lavoratori, senza che si faccia riferimento all’IRAP
“costituendo un onere fiscale che grava sull’ente
datore di lavoro”; detti compensi, difatti, “concorrono
alla determinazione della base imponibile dell’ente,
ai sensi dell’art. 10-bis del d.lgs. 15.12.1997, n.
446, secondo cui le amministrazioni pubbliche di cui
all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30.05.2001, n. 165,
ai fini della determinazione della base imponibile
Irap, devono tenere conto anche delle retribuzioni
da erogare al personale dipendente (Agenzia delle
entrate, Risoluzione n. 327/E
del 14.11.2007)”.
Si conclude osservando “che le disponibilità di
bilancio da destinare ai “fondi” da ripartire non
possono che essere quantificate al netto delle somme
destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che
gravano sull’amministrazione a titolo di Irap,
poiché, diversamente, una discorde interpretazione
confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle
richiamate disposizioni, ma anche con il principio
di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto
comma, Cost.). Infatti, se si considera che l’Irap
viene commisurata per le amministrazioni pubbliche
alla spesa per il personale, l’incremento della
retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi
titolo, determina anche l’espansione dell’imposta
che deve, comunque, trovare copertura nell’ambito
delle risorse quantificate e disponibili, in linea
con l’obiettivo del contenimento di ogni effetto di
incremento degli oneri di personale gravanti sui
bilanci degli enti pubblici. Pertanto, ai fini della
quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per
le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di
copertura, rendendole indisponibili, le somme che
gravano sull’ente per oneri fiscali, nella specie, a
titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo
indicato, i compensi vanno corrisposti al netto,
rispettivamente, degli “oneri assicurativi e
previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non
includono, per le ragioni sopra indicate, l’Irap.”.
Tale impostazione è stata assunta dalla scrivente
Sezione quale supporto argomentativo delle
valutazioni espresse con il
parere 29.03.2012 n. 27, in riscontro al
contenuto del parere richiesto in detta sede, pur
reso in materia distinta (diritti di rogito dei
segretari comunali).
A tale proposito, in ossequio alla finalità della
funzione attivata in tal sede, occorre ricordare che
i pareri offerti dalle Sezioni regionali di
controllo della Corte dei conti ai sensi dell’art.
7, comma 8, L. 131/2003, rappresentano l’esito di
una funzione tipicamente di ausilio all’ente locale
in chiave collaborativa intestata alla Corte dei
conti quale organo neutrale in materia di finanza
pubblica e non possono essere considerati altro che
apporti interpretativi, ma non come uno “spartiacque”
temporale ai fini della determinazione di diritti
derivanti dal rapporto di servizio.
In disparte il valore attribuito dagli artt. 95,
comma 4, e 69, comma 2, del Codice di giustizia
contabile di cui al D.lgs. 174/2016, altri effetti
non sono evidentemente ascrivibili alle pronunce
rese in tal sede che solo si propongono di fornire
elementi chiarificatori dei precetti dettati dal
legislatore di talché la menzionata deliberazione
della Sezione che, tra l’altro incidentalmente in
via analogica e in punto di motivazione, tratta
della problematica dell’IRAP nei termini descritti,
non può essere considerata che foriera di
indicazioni di orientamento nei confronti degli enti
che versavano, prima di essa, secondo asserito
dall’istante, in una situazione di incertezza.
Del resto, detto parere riprende, come detto, la
deliberazione resa in sede nomofilattica dalla
Sezione delle Autonomie nel 2010, decisione,
anch’essa, giova ribadirlo, che si innesta, a
garanzia dell’unità e coerenza interpretativa della
Corte dei conti, e con effetto conformativo delle
(sole) Sezioni regionali di controllo, nella
funzione consultiva della Corte medesima.
La Sezione, pertanto, ribadita la inammissibilità
oggettiva della richiesta che potrebbe investire
l’aspetto relativo alle concrete modalità di difesa
dell’Ente avverso una pretesa afferente a un credito
di lavoro vantato dal dipendente, anche in sede
giudiziaria, e tanto sia per la concretezza
dell’eventuale siffatto quesito che per la possibile
commistione della soluzione offerta con le
competenze di altri plessi giurisdizionali ivi
compresi quelli della Corte dei conti non in sede di
controllo (Sezione delle Autonomie, deliberazione n. 5/AUT/2006
e n. 3/SEZAUT/2014/QMIG),
richiama il contenuto della
deliberazione 30.06.2010 n. 33
della Sezione delle Autonomie, rimanendo in capo al
Comune richiedente, nell’ambito della propria
discrezionalità amministrativa, le scelte da
adottare in ordine all’eventuale maturare del
termine prescrizionale per la quota di crediti
afferente all’IRAP non corrisposta ai beneficiari
degli incentivi alla progettazione che attivino una
pretesa di corresponsione di tali importi.
DELIBERA
l’inammissibilità della richiesta di parere alla
stregua delle considerazioni che precedono (Corte
dei Conti, Sez. controllo Sardegna,
parere 15.01.2019 n. 2). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici, dalla Corte dei Conti Veneto un riepilogo dei limiti soggettivi e
oggettivi.
Con il
parere 07.01.2019 n. 1
la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto, ha evaso
la richiesta di parere di un ente locale in ordine alla spettanza degli
incentivi al personale individuato per tutte le attività contemplate nel
comma 2 dell’articolo 113 del Dlgs n. 50/2016 e, in particolare, se spettino
gli incentivi, di cui sopra, anche per le altre figure individuate e
coinvolte nelle procedure, oltre al direttore dell’esecuzione.
L’approfondimento
La Corte procede, dapprima, con un excursus normativo, dal quale
emerge che la norma, oggetto del parere, sostituisce le analoghe
disposizioni previgenti e, nello specifico, l’articolo 18 della legge n. 109
del 1994 e l’articolo 92, commi 5 e 6, del Dlgs n. 163 del 2006, confluito
in seguito nell’articolo 93, commi 7-bis e seguenti, del medesimo decreto
legislativo.
Le norme vigenti e le previgenti autorizzano l’erogazione di emolumenti
economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche
amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di
programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di
conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture, previa adozione di
un regolamento interno e della stipula di un Accordo di contrattazione
decentrata.
Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti
esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o
forniture che, secondo la legge o il regolamento dell’Ente, siano stati
affidati previo espletamento di una procedura comparativa. Nell’elencazione
delle attività per le quali spettano gli incentivi per le funzioni tecniche
la norma parla di attività svolte dai dipendenti, non limitandosi alla sola
figura del direttore dell’esecuzione (coincidente in molti casi con la
figura del Rup), ma ponendo la nomina di questa figura quale presupposto
necessario affinché possano essere erogati gli incentivi per funzioni
tecniche anche in relazione agli appalti di servizi o di forniture.
Appurata la presenza di questi presupposti di legittimità, la norma prevede
esplicitamente che l’ottanta per cento del fondo sia ripartito tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le cosiddette
funzioni tecniche. Del resto, non si può non sottolineare che già in vigenza
del precedente Codice degli appalti (Dlgs n. 163/2006) la Corte dei conti,
Sezione delle autonomie, con la
deliberazione 13.05.2016 n. 18,
si era espressa stabilendo l’imprescindibilità dell’adozione di un
regolamento interno ai fini dell’erogazione dei predetti emolumenti.
Quanto alla nozione di collaboratori, la Sezione delle Autonomie si è
espressa ritenendo che nella citata nozione –in astratto ‘atecnica’ e
priva di un’autonoma portata qualificatrice– possano essere ricompresi i
soggetti in possesso anche di profili professionali non tecnici, purché
necessari ai compiti da svolgere e sempre che il regolamento interno
all’Ente ripartisca gli incentivi in modo razionale equilibrato e
proporzionato alle responsabilità attribuite; inoltre, statuiva che
l’accezione di ‘collaboratore’, ai fini della ripartizione degli
incentivi, non può essere aprioristicamente delimitata in relazione al
bagaglio professionale –tecnico od amministrativo– posseduto, ma deve
necessariamente porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica
rispetto alle attività da compiere.
A tal proposito, non discostandosi dalla precedente giurisprudenza
contabile, si ritiene che la regolamentazione interna delle singole
Amministrazioni, attuativa della disciplina degli incentivi per le funzioni
tecniche, debba delimitare la portata definitoria del termine ‘collaboratori’,
al fine di evitare un ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari
dell’incentivo stesso, prevedendo, altresì, una gradazione di riparto degli
incentivi rispettosa dei criteri di proporzionalità, logicità, congruenza e
ragionevolezza, il tutto nell’ottica di valorizzazione delle figure
professionali in servizio.
Tra l’altro, appare opportuno rammentare che l’articolo 113 Dlgs n. 50/2016
contiene un sistema compiuto di vincoli per l’erogazione degli incentivi
stessi, soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata
espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo
posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al
50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al
singolo dipendente). Pertanto, tali compensi non sono rivolti
indiscriminatamente al personale dell’Ente, ma mirati a coloro che svolgono
particolari funzioni (‘tecniche’) nell’ambito di specifici
procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme).
Conclusioni
Conclusivamente, affinché possa procedersi legittimamente all’erogazione
degli incentivi per le funzioni tecniche a favore dei dipendenti, devono
essere soddisfatti i seguenti requisiti:
a) l’ente deve avere adottato idoneo regolamento, il quale dovrà
prevedere tra l’altro la delimitazione del concetto di collaboratore in
stretto collegamento funzionale alle attività da svolgere nell’ambito dei
singoli procedimenti;
b) le risorse finanziarie del fondo, costituito ai sensi
dell’articolo 113, comma 2, dovranno essere ripartiti, per ciascuna
opera/lavoro, servizio e fornitura, con le modalità e i criteri previsti in
sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
c) la disposizione di cui all’articolo 113, comma 2, si applica
agli appalti relativi a servizi o forniture esclusivamente nel caso in cui
sia stato nominato il direttore dell’esecuzione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.01.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
L'Ente, nel premettere che l'incentivo per le
funzioni tecniche ex art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016
"Codice degli appalti" può essere erogato solo per
quei lavori, servizi e forniture per i quali è stato
nominato il direttore dell'esecuzione, chiede
se tale incentivo spetti anche per le altre figure
individuate e coinvolte nelle procedure, oltre al
direttore dell'esecuzione.
Affinché
possa procedersi legittimamente all’erogazione degli
incentivi per le funzioni tecniche a favore dei
dipendenti dell’amministrazione comunale devono
essere soddisfatti i seguenti requisiti:
a) l’ente deve avere adottato idoneo regolamento il quale dovrà
prevedere tra l’altro la delimitazione del concetto
di “collaboratore” in stretto collegamento
funzionale alle attività da svolgere nell’ambito dei
singoli procedimenti;
b) le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi dell’art.
113, comma 2, dovranno essere ripartiti, per
ciascuna opera/lavoro, servizio, e fornitura con le
modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale;
c) la disposizione di cui all’art. 113, comma 2, si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture
esclusivamente nel caso in cui sia stato nominato il
direttore dell'esecuzione.
--------------
Il Sindaco del Comune di San Bonifacio (VR) ha
trasmesso una richiesta di parere ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n.
131, inerente gli incentivi per funzioni tecniche ex
articolo 113, comma 2, del decreto legislativo
50/2016 recante il “Codice degli appalti”.
La citata nota prot. n. 31388/2018 premetteva che “l’Ente
ha provveduto ad approvare con deliberazione della
Giunta Comunale numero 75 del 27/06/2017 il
Regolamento per la costituzione e ripartizione del
fondo incentivi funzioni tecniche, comprendente, fra
l'altro, la corresponsione degli incentivi al
personale individuato per tutte le attività
contemplate nel comma 2 dell'articolo 113 del D.Lgs.
50/2016 per lavori, servizi forniture di importo
superiore ad € 40.000, per gli appalti relativi non
solo alle spese di investimento in conto capitale,
ma anche con imputazione alle spese correnti con
individuazione dell'aggiudicatario in conformità a
quanto stabilisce il D.Lgs. 50/2016 (capitolato
d'appalto, etc.).", al fine di veder chiarito
“(…) considerato che l'articolo 113 del D.Lgs.
50/2016 al comma 2 elenca tutte le attività per le
quali è previsto l'incentivo, le cui modalità sono
state fissate nel regolamento approvato da questo
Ente, e al comma 3 indica che è possibile erogare
tali compensi solo per quei lavori, servizi e
forniture per i quali è stato nominato il direttore
dell'esecuzione, (….) se spettano gli incentivi di
cui sopra anche per le altre figure individuate e
coinvolte nelle procedure oltre al Direttore
dell'Esecuzione.”
...
V. Nel merito, l’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016,
rubricato “Incentivi per funzioni tecniche”
così come modificato dall’art. 76 del d.lgs. 56/2017
e da ultimo dall’art. 1, comma 526, della L.
205/2017, prevede che “1. Gli oneri inerenti alla
progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al
direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle
verifiche di conformità, al collaudo statico, agli
studi e alle ricerche connessi, alla progettazione
dei piani di sicurezza e di coordinamento e al
coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione
quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche necessari per la redazione di un
progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per i singoli
appalti di lavori, servizi e forniture negli stati
di previsione della spesa o nei bilanci delle
stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le
amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un
apposito fondo risorse finanziarie in misura non
superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei
lavori, servizi e forniture, posti a base di gara
per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle
stesse esclusivamente per le attività di
programmazione della spesa per investimenti, di
valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di
gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP,
di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo
ovvero di verifica di conformità, di collaudatore
statico ove necessario per consentire l'esecuzione
del contratto nel rispetto dei documenti a base di
gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Tale fondo non è previsto da parte di quelle
amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in
essere contratti o convenzioni che prevedono
modalità diverse per la retribuzione delle funzioni
tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che
costituiscono o si avvalgono di una centrale di
committenza possono destinare il fondo o parte di
esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione
di cui al presente comma si applica agli appalti
relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell'esecuzione.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del
fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito,
per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con
le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti,
tra il responsabile unico del procedimento e i
soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate
al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. L'amministrazione
aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i
criteri e le modalità per la riduzione delle risorse
finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi
non conformi alle norme del presente decreto. La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente o dal responsabile di servizio preposto
alla struttura competente, previo accertamento delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti.
Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso
dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del
50 per cento del trattamento economico complessivo
annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, incrementano la
quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma
non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse
finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad
esclusione di risorse derivanti da finanziamenti
europei o da altri finanziamenti a destinazione
vincolata è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie
funzionali a progetti di innovazione anche per il
progressivo uso di metodi e strumenti elettronici
specifici di modellazione elettronica informativa
per l'edilizia e le infrastrutture, di
implementazione delle banche dati per il controllo e
il miglioramento della capacità di spesa e di
efficientamento informatico, con particolare
riferimento alle metodologie e strumentazioni
elettroniche per i controlli. Una parte delle
risorse può essere utilizzato per l'attivazione
presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini
formativi e di orientamento di cui all'articolo 18
della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo
svolgimento di dottorati di ricerca di alta
qualificazione nel settore dei contratti pubblici
previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le
Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una
centrale unica di committenza nell'espletamento di
procedure di acquisizione di lavori, servizi e
forniture per conto di altri enti, può essere
riconosciuta, su richiesta della centrale unica di
committenza, una quota parte, non superiore ad un
quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2.
5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo
fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto
per i singoli lavori, servizi e forniture.”
La sopra riportata norma sostituisce le analoghe
disposizioni previgenti: nello specifico l’art. 18
della legge n. 109 del 1994 e smi, e l’art. 92,
commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, confluito
in seguito nell’art. 93, commi 7-bis e ss, del
medesimo decreto legislativo.
Tale disposizione autorizza l’erogazione di
emolumenti economici accessori a favore del
personale interno alle Pubbliche amministrazioni per
attività, tecniche e amministrative, nelle procedure
di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e
collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di
lavori, servizi o forniture, previa adozione di un
regolamento interno e della stipula di un accordo di
contrattazione decentrata.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in esame
consente alle amministrazioni aggiudicatrici di
destinare -a valere sugli stanziamenti di cui al
comma 1- “ad un apposito fondo risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara”.
Tale fondo può essere finalizzato a premiare
esclusivamente le funzioni, amministrative e
tecniche, svolte dai dipendenti interni quali sono
le: “attività di programmazione della spesa per
investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di gara e di esecuzione dei contratti
pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero
direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico
amministrativo, ovvero, di verifica di conformità,
di collaudatore statico”. Il successivo comma 3
della medesima disposizione estende la possibilità
di erogare gli incentivi anche ai rispettivi “collaboratori”
ad esclusione, tuttavia, delle attività svolte dai
dipendenti che rivestono la qualifica dirigenziale.
In altri termini, gli incentivi per funzioni
tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente
per le attività riferibili a contratti di lavori,
servizi o forniture che, secondo la legge (comprese
le direttive ANAC dalla legge richiamate) o il
regolamento dell’ente, siano stati affidati previo
espletamento di una procedura comparativa (cfr.
parere 09.06.2017 n. 190
della Sezione regionale di controllo per la
Lombardia).
In mancanza di una procedura di gara l’art. 113,
comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non
prevede l’accantonamento delle risorse e,
conseguentemente, la relativa distribuzione (cfr.
parere 09.06.2017 n. 185
della Sezione regionale di controllo per la
Lombardia).
Deve essere, dunque, evidenziato che “La ratio
legis è quella di stabilire una diretta
corrispondenza tra incentivo ed attività compensate
in termini di prestazioni sinallagmatiche,
nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e
amministrative analiticamente indicate e rivolte
alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere
correlato normativamente la provvista delle risorse
ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara commisurato al costo preventivato
dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali
risorse ad un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei
capitoli destinati a spesa di personale” (Sez.
Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
VI. Ciò premesso, quanto alla richiesta specifica
del comune di San Bonifacio, questa Sezione non può
che ribadire che l’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016
consente di erogare i predetti emolumenti economici
a favore del personale interno alle Pubbliche
Amministrazioni per attività tecniche e
amministrative, nelle procedure di programmazione,
predisposizione, esecuzione e collaudo (o verifica
di conformità) degli appalti di lavori, servizi o
forniture, esclusivamente previa adozione di un
regolamento interno e la stipula di un accordo di
contrattazione decentrata integrativa, che deve
determinarne le modalità ed i criteri.
Al fine di meglio analizzare il contenuto del citato
articolo, è possibile evidenziare che, da un lato,
il comma 1 inerente ai costi che gravano sugli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di
lavori, servizi e forniture negli stati di
previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti, dall’altro, i successivi commi
che fissano i principi e i criteri per la
modulazione e corresponsione dell’incentivo,
dovranno essere declinati in appositi regolamenti
degli enti che costituiranno la base sulla quale la
contrattazione integrativa si svolgerà per
disciplinare la ripartizione della quota dell’80%
del fondo.
Il comma 2 elenca espressamente le attività per le
quali spettano gli incentivi per le funzioni
tecniche svolte dai dipendenti, dunque non
limitandoli alla figura del direttore
dell’esecuzione (coincidente in molti casi con la
figura del R.U.P.), ma ponendo la nomina di questa
figura quale presupposto necessario affinché possano
essere erogati gli incentivi per funzioni tecniche
anche in relazione agli appalti di servizi o di
forniture.
Appurata la presenza di questi presupposti di
legittimità, la norma prevede esplicitamente che
l’ottanta per cento del fondo (…) sia ripartito tra
il responsabile unico del procedimento e i soggetti
che svolgono le cd. funzioni tecniche.
Del resto, non si può non sottolineare che già in
vigenza del precedente codice degli appalti (Dlgs.
163/2006) la Corte dei Conti – Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 si era espressa
stabilendo l’imprescindibilità dell’adozione di un
regolamento interno ai fini dell’erogazione dei
predetti emolumenti, affermando in tal senso che
il
regolamento, “(…) nel quale trova necessario
presupposto l’erogazione degli emolumenti in
questione, ha rappresentato da sempre un passaggio
fondamentale per la regolazione interna della
materia, nel rispetto dei principi e canoni
stabiliti dalla legge, e per tale motivo gli enti
sono tenuti ad adeguarlo tempestivamente alle novità
normative medio tempore intervenute.”
La citata delibera, inoltre, sottolinea che “Analogo
adempimento, pertanto (previa definizione dei nuovi
criteri in sede di contrattazione decentrata
integrativa), si renderà necessario anche a seguito
dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei
contratti pubblici, approvato con decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, in attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014.”
Quanto alla nozione di collaboratori, la Sezione
delle Autonomie si è in precedenza espressa (in
vigenza dell’art. 93 del Dlgs 163/2006) ritenendo
che nella citata nozione -in astratto “atecnica”
e priva di un’autonoma portata qualificatrice-
possano essere ricompresi i soggetti “in possesso
anche di profili professionali non tecnici, purché
necessari ai compiti da svolgere e sempre che il
regolamento interno all’ente ripartisca gli
incentivi in modo razionale equilibrato e
proporzionato alle responsabilità attribuite”;
inoltre statuiva che “l’accezione di
“collaboratore”, ai fini della ripartizione degli
incentivi, non può essere aprioristicamente
delimitata in relazione al bagaglio professionale
-tecnico od amministrativo- posseduto, ma deve
necessariamente porsi in stretta correlazione
funzionale e teleologica rispetto alle attività da
compiere”.
A tal proposito, non discostandosi dalla precedente
giurisprudenza contabile si ritiene che la
regolamentazione interna delle singole
amministrazioni, attuativa della disciplina degli
incentivi per le funzioni tecniche debba delimitare
la portata definitoria del termine “collaboratori”,
al fine di evitare un ingiustificato ampliamento dei
soggetti beneficiari dell’incentivo stesso,
prevedendo, altresì, una gradazione di riparto degli
incentivi rispettosa dei criteri di proporzionalità,
logicità, congruenza e ragionevolezza, il tutto
nell’ottica di valorizzazione delle figure
professionali in servizio.
Tra l’altro, appare opportuno rammentare che l’art.
113 D.lgs. n. 50/2016 contiene un sistema compiuto
di vincoli per l’erogazione degli incentivi stessi
soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono
l’incontrollata espansione: uno di carattere
generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto
a base di gara) e l’altro di carattere individuale
(il tetto annuo al 50% del trattamento economico
complessivo per gli incentivi spettante al singolo
dipendente) (in questo senso Corte dei Conti sezione
Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Questa Sezione, pertanto, non può che conformarsi
alla giurisprudenza di questa Corte ed in
particolare alla recente pronuncia della Sezione
delle Autonomie, secondo cui “tali compensi non
sono rivolti indiscriminatamente al personale
dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono
particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di
specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in
senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi di una
platea ben circoscritta di possibili destinatari,
accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento
di funzioni rilevanti nell’ambito di attività
espressamente e tassativamente previste dalla legge
(in senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108). Va rilevato, inoltre, che
per
l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di
un apposito regolamento, essendo questa la
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto
tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul
fondo (in termini: SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353)
e la sede idonea per
circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle
quali gli incentivi possono essere erogate”.
“Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa
obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di
stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione
delle risorse finanziarie connesse alla singola
opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi
dei tempi o dei costi”. Una condizione, dunque, che
collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo
al completamento dell’opera o all’esecuzione della
fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in
conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti.”
Conclusivamente affinché possa
procedersi legittimamente all’erogazione degli
incentivi per le funzioni tecniche a favore dei
dipendenti dell’amministrazione comunale devono
essere soddisfatti i seguenti requisiti:
a) l’ente deve avere adottato idoneo regolamento il quale dovrà
prevedere tra l’altro la delimitazione del concetto
di “collaboratore” in stretto collegamento
funzionale alle attività da svolgere nell’ambito dei
singoli procedimenti;
b) le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi dell’art.
113, comma 2, dovranno essere ripartiti, per
ciascuna opera/lavoro, servizio, e fornitura con le
modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale;
c) la disposizione di cui all’art. 113, comma 2, si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture
esclusivamente nel caso in cui sia stato nominato il
direttore dell'esecuzione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 07.01.2019 n. 1). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
La sussistenza della procedura comparativa costituisce un presupposto
indefettibile al fine dell’erogazione dell’incentivo.
L’art. 113 d.lgs. n. 50/2016, riferendosi genericamente agli “importi
dei lavori, servizi e forniture, poste a base di gara”, non menziona la
fonte (legale o volontaria) del vincolo di selezione comparativa, che,
pertanto, non integra un presupposto di erogabilità dell’incentivo.
la
questione non è tanto quella della sussistenza o meno dell’obbligo di gara o
del meccanismo di valutazione comparativa degli offerenti effettivamente
adottato, quanto dell’effettiva sussistenza di una delle attività
incentivabili, tassativamente indicate dal più volte citato art. 113.
---------------
Per l’erogabilità dell’incentivo, la sussistenza di una
procedura di selezione comparativa degli offerenti è condizione necessaria,
ma non sufficiente, dovendo ricorrere una delle attività contemplate
dall’art. 113 con una elencazione -si ripete- tassativa e, quindi, insuscettibile di interpretazione analogica.
---------------
Con la nota in epigrafe, il Comune di Recco (GE) chiede alla Sezione un
parere in merito all’erogabilità degli incentivi previsti dall’art. 113
d.lgs. 50/2016 in caso di contratti di importo inferiore ai 40.000 euro
contemplati dall’art 36, comma 2, lett. a), del medesimo decreto.
In particolare, l’Ente formula i seguenti quesiti:
1) “se il regolamento comunale sugli incentivi tecnici possa
prevedere il riconoscimento degli incentivi ai dipendenti” anche in
relazione ad “affidamenti inferiori ai 40.000 euro in caso di procedura con
richiesta di preventivi ad operatori di settore”;
2) “se, sotto la soglia dei 40.000 euro, nel caso in cui venga
seguita una procedura con pubblicazione di avviso pubblico per
manifestazione di interesse aperto a tutti gli operatori, si possano
riconoscere gli incentivi tecnici, così come, sempre sotto la soglia dei
40.000 euro, nel caso di procedura di gara su mercato elettronico MEPA con
richiesta di offerta RDO senza individuazione preventiva delle ditte da
invitare”.
...
3. Passando al merito della richiesta, il Comune chiede un parere in merito
alla possibilità di erogare gli incentivi per funzioni tecniche per gli
appalti sottosoglia di importo inferiore ai 40.000 euro, previsti dall’art
36, comma 2, lett. a), d.lgs. 50/2016, nel caso in cui il contraente venga
selezionato a seguito di valutazione comparativa di preventivi oppure nel
caso in cui venga utilizzata la procedura di gara su mercato elettronico
MEPA con richiesta di offerte RDO senza individuazione preventiva delle
ditte da invitare o nel caso in cui venga seguita una procedura con
pubblicazione di avviso pubblico per manifestazione di interesse aperto a
tutti gli operatori.
L’erogazione di incentivi per funzioni tecniche a favore dei dipendenti è
disciplinata dall’art. 113 dlgs 50/2016, il quale sancisce che “le
amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei
lavori, servizi e forniture, poste a base di gara per le funzioni tecniche
svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di
programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di
esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero
direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di
verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di
gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
La giurisprudenza contabile, nel sottolineare la natura derogatoria
dell’istituto rispetto al principio dell’onnicomprensività della
retribuzione, ne ha circoscritto l’applicazione alle attività tassativamente
previste, in quanto “si tratta nel complesso di compensi volti a remunerare
prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente
correlati all’adempimento dello specifico compito affidato ai potenziali
beneficiari dell’incentivo” (Sezione delle Autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
La disposizione individua nell’importo posto a base di gara il parametro per
il calcolo della percentuale da destinare al fondo incentivi per funzioni
tecniche, limitando, di conseguenza, l’ambito applicativo della previsione
alle fattispecie in cui la scelta del contraente avvenga mediante
valutazione comparativa formalizzata tra più operatori economici.
Per tali ragioni, gli incentivi in esame possono essere riconosciuti
“esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o
forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa
richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo
espletamento di una procedura comparativa” (cfr. Sezione controllo
Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 190). Per contro,
ove la gara manchi, non è
previsto l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa
distribuzione (cfr. Sezione controllo Veneto,
parere 27.11.2018 n. 455).
L’impossibilità di erogare l’incentivo in caso di affidamento diretto,
disposto ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a), d.lgs. 50/2016,
costituisce, pertanto, il logico corollario di quanto espressamente sancito
dalla disposizione in esame, così come costantemente interpretata dalla
giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sezione controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57, Sezione controllo Marche,
parere 08.06.2018 n. 28). Solo in
presenza di una procedura di gara o, in generale, di una procedura
competitiva è possibile accantonare il fondo che viene successivamente
ripartito sulla base di un regolamento adottato dall’amministrazione, mentre
le procedure eccezionali e non competitive sono sottratte
all’incentivazione.
Posto che la sussistenza della procedura comparativa costituisce un
presupposto indefettibile al fine dell’erogazione dell’incentivo, il quesito
del Comune di Recco impone di esaminare la particolare ipotesi in cui, pur
vertendosi nella fattispecie di cui all’art. 36, comma 2, lett. a), dlgs
50/2016 (appalti di importo inferiore a 40.000 mila euro per cui è
consentito l’affidamento diretto, ma per i quali lo stesso art 36, comma 2,
fa salva la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie), l’Ente
decida di selezionare il contraente mediante valutazione comparativa dei
preventivi o con pubblicazione di avviso pubblico per manifestazione di
interesse aperto a tutti gli operatori o attraverso il ricorso al MEPA.
In altri termini, si tratta di verificare se le conclusioni cui è giunta la
giurisprudenza sopra richiamata, sulla base dell’interpretazione letterale
dell’art. 113, conservino validità anche nel caso in cui la selezione
comparativa degli offerenti non sia imposta dalla legge, ma venga adottata
volontariamente dall’amministrazione (cd. “autovincolo”).
Sotto tale profilo, l’articolo in esame, riferendosi genericamente agli
“importi dei lavori, servizi e forniture, poste a base di gara”, non
menziona la fonte (legale o volontaria) del vincolo di selezione
comparativa, che, pertanto, non integra un presupposto di erogabilità
dell’incentivo [cfr., a contrario, l’art. 133, lett. e n. 1) c.p.a. che
-nel
riferirsi alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e
forniture svolte da soggetti comunque tenuti al rispetto delle procedure di
evidenza pubblica previste dalla normativa statale o regionale- richiede
espressamente, per radicare la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, che l’obbligo di gara discenda dalla legge].
La questione, tuttavia, non è tanto quella della sussistenza o meno
dell’obbligo di gara o del meccanismo di valutazione comparativa degli
offerenti effettivamente adottato, quanto dell’effettiva sussistenza di una
delle attività incentivabili, tassativamente indicate dal più volte citato
art. 113.
Ciò che rileva, in sostanza, è l’effettivo compimento di una delle attività
contemplate dalla legge “nel caso di specie concretamente accertata come
svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti,
di verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile
unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in
concreto, nelle diverse possibili evenienze” (Sezione controllo Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185), negli stessi termini, Sezione controllo Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186 e
parere 27.03.2018 n. 19).
In conclusione, per l’erogabilità dell’incentivo, la sussistenza di una
procedura di selezione comparativa degli offerenti è condizione necessaria,
ma non sufficiente, dovendo ricorrere una delle attività contemplate
dall’art. 113 con una elencazione -si ripete- tassativa e, quindi, insuscettibile di interpretazione analogica.
L’accertamento della sussistenza in concreto dei presupposti sopra indicati
rientra nell’ambito della discrezionalità dell’Ente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere
21.12.2018 n. 136). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Per
la determinazione del fondo incentivante, di cui al secondo comma dell’art.
113 del citato decreto, si deve far riferimento all’importo dei lavori
stanziati in bilancio e oggetto di base d’asta e non all’importo dei lavori
soggetto al ribasso (al netto degli importi relativi ai costi della
sicurezza).
---------------
Con nota acquisita al protocollo interno della Sezione al n. 7563 in data
08.12.2018, il Sindaco del comune di Civitella in Val di Chiana (AR) ha
inoltrato, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, richiesta di
parere ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, al fine di conoscere la
corretta determinazione del fondo per i cd. incentivi tecnici di cui al
comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016.
In particolare, il Comune, considerato che l’art. 23 del predetto decreto,
al comma 16 dispone che “i costi della sicurezza sono scorporati
dall’importo assoggettato a ribasso”, chiede di sapere se, al fine di
calcolare il fondo di cui al comma 2 cit., si debba considerare l’importo
relativo all’intero valore dell’appalto (importo a base d’asta) o il solo
importo soggetto a ribasso.
...
Venendo al quesito oggetto della presente richiesta, l’Ente richiama l’art.
23, comma 16, del codice degli appalti, il quale all’ultimo periodo dispone
che i costi della sicurezza siano scorporati dal costo dell'importo
assoggettato al ribasso. Da ciò il dubbio se, per la determinazione del
fondo incentivante, di cui al secondo comma dell’art. 113 del citato
decreto, si debba far riferimento all’importo dei lavori stanziati in
bilancio e oggetto di base d’asta, o all’importo dei lavori soggetto al
ribasso (al netto degli importi relativi ai costi della sicurezza).
In proposito, questa Sezione ritiene che il fondo per gli incentivi tecnici,
debba essere calcolato facendo riferimento all’importo dello stanziamento di
bilancio per ciascun lavoro, servizio o fornitura, nel limite massimo del 2%
dei predetti stanziamenti.
Difatti, il comma 2 del cit. art. 113, nel prevedere il fondo per il
riferimento ad un parametro oggettivo e ben individuato in base al quale
calcolare l’ammontare delle risorse incentivanti: tale parametro è
rappresentato dallo stanziamento di bilancio, ossia dall’importo
dell’appalto posto a base d’asta. Non prevede, pertanto, alcuna distinzione
o limitazione ulteriore sulle quali eventualmente parametrare l’incentivo.
Ciò, come detto, in quanto il comma 2 cit. dispone un criterio di calcolo
mediante rinvio ad un dato finanziario oggettivo.
Di contro, il comma 16, ultimo periodo, ha una diversa finalità,
rappresentata dalla necessità di tutelare la sicurezza sul lavoro di coloro
che sono coinvolti nell’appalto. Sicurezza che non può essere oggetto di “trattativa”
al fine di risultare vincitori dell’appalto in quanto costi oggettivi ed “essenziali”
e, pertanto, non oggetto di ribasso.
Peraltro, tale norma è del tutto avulsa dalla disposizione che istituisce e
finanzia il fondo incentivante mediante un criterio di calcolo, come già più
volte osservato, oggettivo (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 20.12.2018 n. 140). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
L'incentivo ex art. 113 del d.lgs. 50/2016 è
ispirato a una logica di premialità dell'efficienza;
pertanto, non ricorrono ostacoli alla sua erogazione in
assenza di difformità da tale parametro, come nel caso delle
circostanze impreviste e imprevedibili di cui alle varianti
in corso d'opera o delle prestazioni supplementari.
Il presupposto indefettibile ai fini dell'erogazione
dell'incentivo deve essere rinvenuto nell'effettivo
espletamento, in tutto o in parte, di una o più attività
afferenti alla gestione degli appalti pubblici;
conseguentemente, deve ritenersi legittimo il riconoscimento
dell'emolumento anche in ipotesi di affidamento all'esterno
di una delle attività tassativamente elencate nell'art. 113
del d.lgs. 50/2016, purché venga remunerata solo l'attività
di supporto a quest'ultima effettivamente svolta dai
dipendenti dell'ente.
L'art. 113 del d.lgs. 50/2016 non contiene alcuna
disposizione nel senso della necessaria previsione di un
valore minimo d'importo a base di gara per l'applicazione
degli incentivi.
---------------
Con nota del 15/11/2018 il Vice Sindaco del Comune di
Taranto ha formulato un’istanza di parere ex art. 7 della l.
n. 131/2003 in ordine all’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016.
Con successiva nota del 29/11/2018 un’istanza di parere di
tenore identico è stata avanzata dal Sindaco del medesimo
Comune; quest’ultimo, nell’annullare la precedente
richiesta, ne ha motivato la riproposizione con la
rilevazione di problemi nell’originario invio.
L’istanza ha ad oggetto i seguenti quesiti:
1) “se l’incentivo sia possibile anche in riferimento a varianti
contrattuali di lavori, forniture e servizi di appalti
comunque affidati mediante gara o procedure competitive e,
in caso affermativo, se il valore di riferimento su cui
calcolare l’incentivo debba essere l’importo a base di gara
oppure quello conseguente al prezzo finale di
aggiudicazione;
2) se anche nel caso di affidamento all’esterno, mediante procedure
comparative, del collaudatore dei lavori o di altra figura
tecnica riguardante i lavori per cui la normativa
consentirebbe l’incentivo a personale interno, ove non sia
reperibile apposita professionalità nell’ambito
dell’organizzazione dell’Ente attestata dal responsabile del
procedimento, sia possibile prevedere l’incentivo a favore
di quest’ultimo in riferimento alla procedura di affidamento
predetta;
3) se è necessario o facoltativo prevedere un valore minimo di
importo a base di gara (come suggerito dall’ANCI), per
l’applicazione degli incentivi de quibus.”
...
Ciò posto e passando al merito, la risposta ai quesiti
presuppone una sintetica ricognizione del quadro normativo
di riferimento.
Riproducendo analoghe disposizioni previgenti, l’art. 113
d.lgs. n. 50/2016 (rubricato “Incentivi per funzioni
tecniche”) consente –previe adozione di un regolamento
interno e stipula di un accordo di contrattazione
decentrata– di erogare emolumenti economici accessori a
favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni
per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di
programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o
verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o
forniture.
In dettaglio, come di recente chiarito da questa Sezione (parere
28.09.2018 n. 140), i commi 1 e 2 dell’art. 113, nel testo
risultante dalle modifiche di cui all’art. 76 del d.lgs.
19/04/2017 n. 56, statuiscono che, a valere sugli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori,
servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o
nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base
di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle
stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure
di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di
direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti.
Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni
aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o
convenzioni che prevedono modalità diverse per la
retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri
dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una
centrale di committenza possono destinare il fondo o parte
di esso ai dipendenti di tale centrale.
L’espresso riferimento all’importo dei lavori, servizi e
forniture “posti a base di gara” induce a ritenere
incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a
contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara
(Sezione regionale di controllo per la Puglia,
deliberazione 09.02.2018 n. 9), emergendo un inequivoco favor del legislatore
verso dinamiche concorrenziali dei contratti pubblici.
La l. 27/12/2017 n. 205 (art. 1, comma 526) ha inserito
all’art. 113 il comma 5-bis, alla stregua del quale i
predetti incentivi “fanno capo al medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In tal modo il legislatore ha inteso chiarire come gli
incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al
trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa
previsti dalla normativa vigente), ma fanno capo al capitolo
di spesa dell’appalto. Del resto, sia il comma 1 sia il
comma 2 dell’art 113 già disponevano l’imputazione di tutte
le spese afferenti agli appalti di lavori, servizi o
forniture sugli stanziamenti previsti per i medesimi; il
comma 5-bis rafforza tale previsione e individua come
dirimente, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici
dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della
relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto
(Sezione regionale di controllo per l’Umbria,
parere 05.02.2018 n. 14).
Con
deliberazione 26.04.2018 n. 6 la Sezione delle
Autonomie ha chiarito che “Anche se l’allocazione contabile
degli incentivi di natura tecnica nell’ambito del “medesimo
capitolo di spesa” previsto per i singoli lavori, servizi o
forniture potrebbe non mutarne la natura di spesa corrente
-trattandosi, in senso oggettivo, di emolumenti di tipo
accessorio spettanti al personale- la contabilizzazione
prescritta ora dal legislatore sembra consentire di desumere
l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e
dalla spesa per il trattamento accessorio.”
Tanto premesso, è possibile procedere all’esame dei quesiti
posti dall’Ente locale.
In relazione a quello sub 1), viene in rilievo l’art. 106
del d.lgs. 50/2016 (rubricato “Modifica di contratti durante
il periodo di efficacia”), che compendia in unico contesto
normativo la disciplina in tema di modifiche contrattuali.
In sintesi, l’art. 106 (comma 1) contempla la possibilità di
modificare i contratti di appalto senza l'espletamento di
una nuova procedura di affidamento nelle seguenti ipotesi:
a) modifiche contrattuali, a prescindere dal loro valore monetario,
previste nei documenti di gara iniziali;
b) modifiche resesi necessarie, non incluse nell’appalto iniziale,
in relazione a lavori, servizi o forniture supplementari,
qualora un cambiamento del contraente risulti impraticabile
per motivi tecnico-economici e comporti notevoli disguidi o
una consistente duplicazione di costi;
c) modifiche imposte da circostanze impreviste e imprevedibili per
l’amministrazione aggiudicatrice o per l’ente aggiudicatore
(tra cui la sopravvenienza di nuove disposizioni legislative
o regolamentari o provvedimenti di autorità od enti preposti
alla tutela di interessi rilevanti), che assumono la
denominazione di varianti in corso d'opera;
d) sostituzione dell’aggiudicatario iniziale con un nuovo
contraente, in presenza di determinate circostanze;
e) modifiche non sostanziali ai sensi del comma 4 del medesimo
articolo.
La lettura congiunta degli artt. 106 e 113 del d.lgs.
50/2016 consente di concludere nel senso della non
incompatibilità tra le due disposizioni.
È vero, infatti, che la legge-delega per il riordino della
disciplina in materia di contratti pubblici (l. 28/1/2016,
n. 11) ha previsto che “al fine di incentivare l'efficienza
e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e
dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal
progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera,
è destinata una somma non superiore al 2 per cento
dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche
svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei
tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi
alla progettazione” (art, 1, comma rr).
Tale circostanza non sembra, tuttavia, ostativa in senso
assoluto al riconoscimento degli incentivi nel caso di
modifiche contrattuali.
L’analisi delle norme succedutesi nel tempo (art. 18 della
l. n. 109/1994; art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n.
163/2006, poi confluito nell’art. 93, commi 7-bis e ss. del
medesimo decreto legislativo per effetto delle innovazioni
di cui al d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni
dalla l. n. 114/2014; da ultimo art. 113 del d.lgs. 50/2016)
restituisce un progressivo mutamento della posizione del
legislatore rispetto alla materia degli incentivi
nell’ambito degli appalti pubblici: all’originaria volontà
di spostare all’interno degli uffici attività di
progettazione e capacità professionali di elevato profilo si
è infatti affiancata e sostituita quella di accrescere
efficienza ed efficacia di attività tipiche
dell’amministrazione (Sezione regionale di controllo per la
Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186).
In tale contesto, con riferimento al previgente quadro
normativo che circoscriveva l’operatività degli incentivi
agli appalti di lavori, la Corte dei conti ha ritenuto
erogabile l’incentivo “qualora nel corso dell'esecuzione di
un'opera pubblica o lavoro si renda necessario redigere, da
parte del personale dipendente dall’Ente, una perizia di
variante e suppletiva con incremento dell'importo dei lavori
affidati, rientrante negli ambiti consentiti dalla norma
vigente, con esclusione delle varianti determinate da errori
di progettazione, con la specificazione che l’incentivo
stesso deve essere correlato all’importo della perizia di
variante” (Sezione regionale di controllo per il Piemonte,
parere 21.05.2014 n. 97).
In altri termini, se l’incentivo è ispirato a una logica di
premialità dell’efficienza non sembrano ricorrere ostacoli
alla sua erogazione in assenza di difformità da tale
parametro, come nel caso delle circostanze impreviste e
imprevedibili di cui alle varianti in corso d’opera o delle
prestazioni supplementari.
In tali evenienze l’incentivo andrà calcolato con
riferimento al nuovo importo a base di gara, alla stregua di
un esito interpretativo che sembra trovare conferma nel
recente regolamento incentivi approvato dalla Conferenza
delle Regioni e delle Province autonome nella seduta del 26
luglio u.s. (art. 9, comma 10: “Nel caso di varianti in
corso d’opera in aumento o interventi supplementari,
l’importo del fondo gravante sul singolo lavoro, servizio o
fornitura viene ricalcolato sulla base del nuovo importo”).
Venendo al quesito sub 2), la formulazione delle
disposizioni non sembra precludere, a determinate
condizioni, la possibilità di prevedere l’incentivo a favore
del responsabile unico del procedimento in caso di
affidamento all’esterno, mediante procedure comparative, del
collaudatore dei lavori o di altra figura tecnica
riguardante i lavori per cui la normativa consente
l’incentivo medesimo, ove il citato affidamento sia stato
determinato dalla non reperibilità di apposita
professionalità nell’ambito dell’organizzazione dell’Ente.
Come chiarito della Sezione delle Autonomie, la finalità
della disciplina è quella di “erogare emolumenti economici
accessori a favore del personale interno alle Pubbliche
amministrazioni per attività, tecniche e amministrative,
nelle procedure di programmazione, aggiudicazione,
esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli
appalti di lavori, servizi o forniture”; il fondo previsto
dall’art. 113 “può essere finalizzato a premiare
esclusivamente le funzioni, amministrative e tecniche,
svolte dai dipendenti interni”; “tali compensi non sono
rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma
mirati a coloro che svolgono particolari funzioni
(“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro
collaboratori" (deliberazione
26.04.2018 n. 6).
Il presupposto indefettibile ai fini dell’erogazione
dell’incentivo in esame deve allora essere rinvenuto
nell’effettivo espletamento, in tutto o in parte, di una o
più attività afferenti alla gestione degli appalti pubblici;
conseguentemente, deve ritenersi legittimo il riconoscimento
dell’emolumento anche in ipotesi di affidamento all’esterno
di una delle attività tassativamente elencate, purché venga
remunerata solo l’attività di supporto a quest’ultima
effettivamente svolta dai dipendenti dell’ente.
Infine, con riferimento al quesito sub 3), l’art. 113 più
volte citato non sembra contenere alcuna disposizione nel
senso della necessaria previsione di un valore minimo
d’importo a base di gara per l’applicazione degli incentivi
de quibus.
È vero, come più volte osservato, che la finalità delle
disposizioni in esame è quella -in linea con la legislazione
degli ultimi anni– di incentivare l'efficienza e l'efficacia
amministrative, mediante l’erogazione di emolumenti
economici accessori a favore del personale interno alle
Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e
amministrative, nelle procedure di programmazione,
aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di
conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture; ma
tale finalità deve trovare un adeguato bilanciamento con
altri valori ordinamentali, tra cui quelli della sana
gestione finanziaria e del rispetto dei pertinenti vincoli
di bilancio, che potrebbero in ipotesi risultare
negativamente incisi dalla previsione obbligatoria di un
valore minimo di importo a base di gara.
L’unica “necessità” prevista dal legislatore è quella di una
diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate
in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello
svolgimento di attività tecniche e amministrative
analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di
specifiche procedure; ne consegue il carattere meramente
facoltativo di un eventuale valore minimo di importo a base
di gara ai fini di che trattasi (Corte dei Conti, Sez.
controllo Puglia,
parere 12.12.2018 n.
162). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Per l’erogazione e la ripartizione degli
incentivi per funzioni tecniche, l’ente Regione
rimane libero, nell’esercizio della propria attività
discrezionale oltre che del proprio potere
regolamentare, quanto alle valutazioni pertinenti la
stipulazione di un accordo con le Organizzazioni
sindacali e con le RSU in relazione alla definizione
del riparto delle risorse accantonate all’epoca
dell’approvazione dei lavori e delle opere pubbliche
in funzione dell’incentivazione delle funzioni
tecniche svolte da dipendenti regionali dopo
l’entrata in vigore –26.08.2014– della novella di
cui al d.l. n. 90/2014, come convertito dalla legge
n. 114/2014, e relative a bandi pubblicati prima
dell’entrata in vigore del d.lgs n. 50/2016.
Per l’utilizzo del fondo salariale accessorio da
destinarsi al pagamento degli incentivi per funzioni
tecniche, la Sezione si è pienamente uniformata
all’orientamento espresso dalla Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6,
secondo la quale, posto che il legislatore, con
norma innovativa contenuta nella legge di bilancio
per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi
gravano su risorse autonome e predeterminate del
bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art.
113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse
ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi
accessori al personale, gli incentivi per le
funzioni tecniche devono ritenersi non soggetti al
vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
---------------
Con la nota in epigrafe il Presidente della Regione
Piemonte ha formulato una richiesta di parere in
relazione alla disciplina applicabile agli incentivi
in favore dei dipendenti tecnici delle
amministrazioni pubbliche a seguito delle modifiche
introdotte dagli artt. 13 e 13-bis del d.l. n.
90/2014, convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114,
e
successivamente dall’entrata in vigore dell’art. 113 d.lgs. 50/2016 e dall’abrogazione della pregressa
disciplina.
La richiesta in esame è preceduta:
1) dalla precisazione secondo cui la Regione Piemonte, dopo
l’entrata in vigore dell’art. 13-bis, comma 1, del
decreto legge 24.06.2014, n. 90, come convertito
nella legge 11.08.2014, n. 114 –che ha inserito i
commi da 7-bis a 7-quinquies all’art. 93 del d.lgs.
163/2006 dettando una nuova disciplina
dell’incentivazione delle funzioni tecniche dei
dipendenti delle p.a.– non ha disciplinato i criteri
di riparto delle risorse destinate alla predetta
incentivazione allo svolgimento delle dette funzioni
dei dipendenti regionali;
2) dalla ulteriore precisazione secondo cui la Regione Piemonte ha
comunque accantonato somme da destinare
all’incentivazione dello svolgimento di funzioni
tecniche da parte dei dipendenti con l’approvazione
dei quadri economici di plurimi interventi di lavori
ed opere pubbliche, nel periodo di tempo antecedente
all’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, con
riferimento a prestazioni rese dopo l’entrata in
vigore dei commi da 7-bis a 7-quinquies all’art. 93
del d.lgs. 163/2006 e relative a bandi pubblicati
prima dell’entrata in vigore del citato d.lgs.
50/2016;
3) dalla conclusiva precisazione secondo cui le prestazioni
consistenti nell’esercizio di funzioni tecniche
–compiute dopo l’entrata in vigore del d.l. 90/2014,
convertito nella legge 114/2014 ed inerenti a bandi
pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs.
50/2016– sono state effettivamente svolte dai
dipendenti regionali incaricati.
Tutto ciò precisato e premesso, è stato chiesto un
parere riguardo:
1) alla stipulazione di un accordo tra la Regione Piemonte e le
Organizzazioni sindacali e le RSU con ad oggetto la
definizione delle regole di riparto delle risorse
–già accantonate al momento dell’approvazione dei
lavori e delle opere pubbliche e dei relativi quadri
economici e tuttora presenti nel bilancio regionale–
destinate all’incentivazione delle funzioni tecniche
svolte da dipendenti regionali dopo l’entrata in
vigore (26.08.2014) dei commi da 7-bis a 7-quinquies
dell’art. 93 del d.lgs. 163/2006, come inseriti
dall’art. 13-bis del d.l. 90/2014, convertito dalla
legge 114/2014, e relative a bandi pubblicati prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016 (riparto
comunque da disciplinare nell’accordo Regione
–Organizzazioni sindacali– RSU nel rispetto delle
disposizioni normative applicabili al momento del
compimento delle attività incentivabili, e per tutte
le attività compiute dopo il 26.08.2014 riferite a
bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016);
2) all’utilizzo di risorse rientranti nel fondo salario accessorio
del personale di categoria, per il pagamento di
incentivi alle funzioni tecniche, considerato che
nel contratto decentrato, sottoscritto il
22.12.2017, è stata prevista, tra gli impieghi di
detto Fondo, anche la destinazione agli incentivi
tecnici di cui sopra.
In buona sostanza, con l’ultimo quesito si chiede se
le risorse, da destinare agli incentivi delle
funzioni tecniche, debbano o meno essere comprese
nel fondo per il trattamento accessorio del
personale di categoria, così come disposto nel
contratto decentrato sottoscritto il 22.12.2017.
...
Preliminarmente, la Sezione ritiene di ribadire
quanto già esplicitato attraverso il
parere 09.10.2017 n. 177,
adottata in occasione dello scrutinio di quesiti
formulati sempre dalla Regione Piemonte in relazione
alla disciplina applicabile agli incentivi in favore
dei dipendenti tecnici delle amministrazioni
pubbliche a seguito delle modifiche introdotte dagli
artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 90/2014, convertito
dalla legge 11.08.2014, n. 114 e successivamente
dall’entrata in vigore dell’art. 113 d.lgs. 50/2016
e dall’abrogazione della pregressa disciplina, vale
a dire che la funzione consultiva è diretta a
fornire un ausilio all’Ente richiedente per le
determinazioni che lo stesso è tenuto ad assumere
nell’esercizio delle proprie funzioni, restando
ferma la discrezionalità dell’Amministrazione in
sede di esercizio delle prerogative gestorie.
Sempre preliminarmente, giova rammentare che sulla
materia degli incentivi tecnici il d.l. n. 90/2014
(come convertito dalla legge n. 114/2014) ha
modificato la disciplina di cui al d.lgs. n.
163/2006, prevedendo la costituzione di un unico
fondo per la progettazione e l’innovazione, nel
quale far confluire risorse in misura non superiore
al due per cento degli importi posti a base di gara
di un’opera o di un lavoro, da destinare per l’80%
ai dipendenti che avessero svolto funzioni tecniche,
con esclusione dei dirigenti, e per il 20%
all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie
(nuova formulazione dell’art. 93, commi 7-bis, 7-ter
e 7-quater del d.lgs. 163/2006).
Più in particolare, come ricordato dal comune
istante nella nota richiamata in premessa, l’art. 13
del decreto legge sopra citato ha abrogato l’art.
92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante
la previgente disciplina relativa agli incentivi
spettanti a dipendenti delle amministrazioni
aggiudicatrici per le attività di progettazione
(comma 5) e pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto
in sede di conversione e in vigore dal 19.08.2014,
ha poi dettato una nuova normativa in materia,
confluita nell’art. 93, del codice dei contratti
pubblici, ai commi da 7-bis a 7-quinquies.
La novella, in buona sostanza, ha confermato la
possibilità di remunerare i dipendenti incaricati
dello svolgimento di determinate attività secondo i
modi e criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e recepiti in un regolamento dell’ente.
Ciò che, anche ai fini della presente pronuncia in
ordine al primo quesito formulato, occorre
evidenziare è il fatto che la novella del 2014 ha
demandato ad un regolamento, da adottarsi dalle
singole amministrazioni, il compito di fissare, nei
limiti di legge, la percentuale effettiva di risorse
da far confluire nel fondo e di determinare le
modalità e i criteri di ripartizione delle stesse,
per ciascuna opera o lavoro, fra le varie figure
tecniche coinvolte (responsabile del procedimento,
incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori).
La Sezione prende atto che la Regione Piemonte, dopo
l’entrata in vigore della disciplina normativa del
2014 -disciplina come noto successivamente abrogata
dal nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n.
50/2016) che con l’art. 113 ha dettato la vigente
disciplina degli incentivi per funzioni tecniche–
pur accantonando le somme da destinare
all’incentivazione dello svolgimento di funzioni
tecniche da parte dei dipendenti, nel periodo di
tempo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs.
50/2016, con riferimento a prestazioni rese dopo
l’entrata in vigore dei commi da 7-bis a 7-quinquies
all’art. 93 del d.lgs. 163/2006 (e relative a bandi
pubblicati prima dell’entrata in vigore del citato
d.lgs. 50/2016), non ha disciplinato i criteri di
riparto delle risorse destinate alla predetta
incentivazione allo svolgimento delle funzioni dei
dipendenti regionali.
Ciò nonostante, questa Sezione ritiene di dover
ribadire l’orientamento già espresso, a fronte di
richiesta in subiecta materia, con il
parere 09.10.2017 n. 177, secondo il
quale “…il diritto all’incentivo deve essere
corrisposto sulla base della normativa vigente al
momento in cui questo è sorto, ossia al compimento
delle attività incentivate senza che possa essere
modificato da disposizioni di legge successive che
ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità”.
In effetti, la Regione, in precedenza, tra l’altro
aveva chiesto se fosse possibile “disciplinare
-anche dopo l'abrogazione dell'art. 93, commi da
7-bis a 7-quinquies, del d.lgs. 163/2006, e s.m.i e
delle precedenti disposizioni riguardanti
l'incentivazione allo svolgimento di funzioni
tecniche- le modalità ed i criteri di riparto tra i
dipendenti aventi diritto delle risorse già
accantonate prima dell'entrata in vigore dei citati
commi da 7-bis a 7-quinquies per attività
incentivabili svolte nel periodo di vigenza delle
disposizioni dettate dagli stessi commi da 7-bis a
7-quinquies dell'art. 93 del d.lgs. 163/2006 e
s.m.i.”
Al riguardo, la Sezione aveva rilevato che è ammessa
la possibilità di “…disciplinare con regolamento
la distribuzione di risorse, che siano state già
accantonate, anche in favore di soggetti che abbiano
svolto l’attività incentivabile prima dell’adozione
del relativo Regolamento. In particolare, quanto ad
attività incentivabili svolte nel periodo di vigenza
della disciplina introdotta nel 2014, …ed a seguito
della disciplina introdotta nel 2014, a differenza
della disciplina pregressa, posto che
l’accantonamento non è più legato alla singola opera
o lavoro, ma confluisce in un unico fondo, di cui
solo l’ottanta per cento dell’ammontare complessivo
è destinato agli incentivi in favore dei dipendenti
tecnici, sussiste una difformità fra i criteri in
base ai quali la Regione avrebbe accantonato le
risorse (ante 2014) ed i criteri di accantonamento
delle risorse vigenti al momento di effettivo
svolgimento dell’attività incentivabile (post 2014),
che si riverbera inevitabilmente sulla base di
calcolo del diritto all’incentivo del dipendente
pubblico: di modo che, da una parte, è escluso che
l’ente possa con regolamento incidere
retroattivamente sulle modalità di accantonamento
delle risorse, e, dall’altra, deve parimenti
escludersi che lo stesso possa oggi disciplinare la
distribuzione di risorse accantonate secondo criteri
non uniformi a quelli in vigore al momento di
svolgimento dell’attività incentivabile”.
Sul punto, la Sezione, in accordo con l’indirizzo
espresso dalla Corte di Cassazione (ex multis,
Cass., Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004),
secondo cui il diritto all’incentivo costituisce “un
vero e proprio diritto soggettivo di natura
retributiva che inerisce al rapporto di lavoro in
corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo per
l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle
condizioni e dai presupposti per rendere concreta
l’erogazione del compenso”, è dell’avviso che
dal compimento dell’attività nasca il diritto al
compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive
che non hanno alcuna efficacia retroattiva.
Ne discende che la natura retributiva del diritto
all’incentivo in parola, che matura con il
compimento dell’attività richiesta senza poter
subire modifiche in conseguenza di leggi
sopravvenute prive di efficacia retroattiva, porta a
ritenere che le attività compiute prima dell’entrata
in vigore della riforma di cui sopra possano essere
remunerate con gli incentivi fissati secondo le
modalità e i criteri definiti nell’ambito del previgente quadro normativo anche se la liquidazione
avvenga in data successiva.
Con le predette precisazioni in ordine alla
possibilità di erogazione e ripartizione
dell’incentivo, l’ente rimane per il resto libero
nell’esercizio della propria attività discrezionale
oltre che del proprio potere regolamentare quanto
alle valutazioni pertinenti la stipulazione di un
accordo con le Organizzazioni sindacali e le RSU in
relazione alla definizione del riparto delle risorse
accantonate all’epoca dell’approvazione dei lavori e
delle opere pubbliche in funzione
dell’incentivazione delle funzioni tecniche svolte
da dipendenti regionali dopo l’entrata in vigore
–26.08.2014– della novella di cui al d.l. n.
90/2014, come convertito dalla legge n. 114/2014, e
relative a bandi pubblicati prima dell’entrata in
vigore del d.lgs. n. 50/2016.
Quanto al secondo quesito, formulato con la
presente richiesta di parere, in base al quale si
chiede di stabilire se gli incentivi per funzioni
tecniche, a seguito dell’accordo confluito nel
contratto decentrato stipulato nel 2017, vale a dire
in costanza della disciplina normativa di cui al
d.lgs. n. 50/2016, debbano essere sostenuti o meno
con ricorso a risorse rientranti nel trattamento
salariale accessorio del personale di categoria, la
Sezione osserva, preliminarmente, che modalità e
criteri di ripartizione del fondo incentivante sono
previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti. Detto regolamento è lo
strumento utile al fine di verificare che gli
incentivi non vengano distribuiti a pioggia ma
realizzando una finalità realmente incentivante che
tenga conto delle attività concretamente svolte:
tanto è vero che, sempre ai sensi del terzo comma,
la corresponsione dell'incentivo “è disposta dal
dirigente o dal responsabile del servizio preposto
alla struttura competente, previo accertamento delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Ebbene, secondo la giurisprudenza contabile, (v.,
ex multis, Sez. Controllo Lombardia,
parere 07.11.2017 n. 305 e
parere 21.03.2018 n. 93), posto che “la
disciplina sugli incentivi tecnici prevista dal
citato art. 113, comma 2, del nuovo codice dei
contratti pubblici si applica alle procedure bandite
successivamente all’entrata in vigore dello stesso,
come fatto palese dall’art. 216, comma 1, l’adozione
del regolamento di cui al successivo comma 3 rimane
una condizione essenziale ai fini del legittimo
riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo. Ciò, evidentemente, perché
esso è destinato ad individuare le modalità ed i
criteri della ripartizione, oltre alla percentuale,
che comunque non può superare il tetto massimo
fissato dalla legge” (Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353).
Ciò premesso, la Sezione rileva che la legge di
bilancio 2018 (legge 27.12.2017, n. 205), con il
comma 526 dell’articolo 1, ha aggiunto all’articolo
113 del d.lgs. n. 75 del 2016, il comma 5-bis, il
cui testo è il seguente: “Gli incentivi di cui al
presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di
spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture”.
In tal modo il legislatore è intervenuto sulla
questione della rilevanza degli incentivi tecnici ai
fini del rispetto del tetto di spesa per il
trattamento accessorio, escludendoli dal computo
rilevante ai fini dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs.
n. 75 del 2017 (vale a dire, che “...l'ammontare
complessivo delle risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio del personale di ciascuna
delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo
1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2016.”).
Il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come
gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa
relativo al trattamento accessorio (sottostando ai
limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma
fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto.
Del resto, sia il comma 1 che il comma 2 dell’art.
113 citato, già disponevano che tutte le spese
afferenti gli appalti di lavori, servizi o
forniture, debbano trovare imputazione sugli
stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il
novellato comma 5-bis rafforza tale intendimento
–incentivi tecnici collocati al di fuori del tetto
di spesa del trattamento accessorio- ed individua
come determinante, ai fini dell’esclusione degli
incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati,
l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di
spesa previsto per l’appalto.
Tutto ciò premesso, in data 10.04.2018, la Sezione
delle Autonomie, con
deliberazione 26.04.2018 n. 6, rivisitato
il nuovo assetto normativo, ha reso
l’interpretazione di cui in appresso: “…Proprio
alla luce dei suesposti orientamenti, va considerato
che, sul piano logico, l’ultimo intervento
normativo, pur mancando delle caratteristiche
proprie delle norme di interpretazione autentica
(tra cui la retroattività), non può che trovare la
propria ratio nell’intento di dirimere
definitivamente la questione della sottoposizione ai
limiti relativi alla spesa di personale delle
erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in
quanto vengono prescritte allocazioni contabili che
possono apparire non compatibili con la natura delle
spese da sostenere. La ratio legis è quella di
stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo
ed attività compensate in termini di prestazioni
sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di
attività tecniche e amministrative analiticamente
indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche
procedure. L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con
riferimento all’importo a base di gara commisurato
al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello
predeterminato per la loro allocazione e
determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a
spesa di personale. Sulla questione è anche
rilevante considerare che la norma contiene un
sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli
incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti
finanziari che ne impediscono l’incontrollata
espansione: uno di carattere generale (il tetto
massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e
l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al
50% del trattamento economico complessivo per gli
incentivi spettante al singolo dipendente). Oltre
alla esplicita afferenza della spesa per gli
incentivi tecnici al medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavori, servizi e forniture è
da rilevare che tali compensi non sono rivolti
indiscriminatamente al personale dell’ente, ma
mirati a coloro che svolgono particolari funzioni
(“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e
ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC
Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333)”.
Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di
possibili destinatari, accomunati dall’essere
incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti
nell’ambito di attività espressamente e
tassativamente previste dalla legge (in senso
conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione degli
incentivi l’ente deve munirsi di un apposito
regolamento, essendo questa la condizione essenziale
ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto
delle risorse accantonate sul fondo (in termini: SRC
Veneto
parere 07.09.2016 n. 353)
e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamente
le condizioni alle quali gli incentivi possono
essere erogate. Il comma 3 dell’art. 113 citato,
infatti, fa obbligo all'amministrazione
aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie
connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di
“eventuali incrementi dei tempi o dei costi”.
Una condizione, dunque, che collega necessariamente
l’erogazione dell’incentivo al completamento
dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del
servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi
ed ai tempi prestabiliti. Se tale risulta, dunque,
il quadro della materia, come configurato a seguito
delle ultime modifiche normative intervenute,
occorre prendere atto che l’allocazione in bilancio
degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha
l’effetto di conformare in modo sostanziale la
natura giuridica di tale posta, in quanto
finalizzata a considerare globalmente la spesa
complessiva per lavori, servizi o forniture,
ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le
risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici.
Questi ultimi risultano previsti da una disposizione
di legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del
2016), valevole per i dipendenti di tutte le
amministrazioni pubbliche, a differenza degli
emolumenti accessori aventi fonte nei contratti
collettivi nazionali di comparto.
In altre parole, con un intervento volto a tipizzare
espressamente l’allocazione in bilancio degli
incentivi per le funzioni tecniche, si deve ritenere
che il legislatore (che, in tal modo, ha reso “ordinamentale”
il disposto di cui all’art. 113 citato) abbia voluto
dare maggiore risalto alla finalizzazione economica
degli interventi cui accedono tali risorse,
nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero
conseguire sul piano della gestione contabile. Pur
permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche
modalità operative di contabilizzazione, la novella
impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di
opere, vada assunto nel titolo II della spesa,
mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere
iscritto nel titolo I, ma con qualificazione
coerente con quella del tipo di appalti di
riferimento.
Pertanto, il legislatore, con norma innovativa
contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha
stabilito che i predetti incentivi gravano su
risorse autonome e predeterminate del bilancio
(indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del
d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse
ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi
accessori al personale.
Ad avviso, quindi, della Sezione delle Autonomie, “…gli
incentivi per le funzioni tecniche devono ritenersi
non soggetti al vincolo posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del
d.lgs. n. 75 del 2017”.
Tale principio di diritto, enunciato dalla Sezione
delle Autonomie nell’esercizio della funzione nomofilattica di cui è investita per legge,
deve
ritenersi vincolante per le Sezioni regionali di
controllo chiamate a rendere pareri sulla medesima
questione, escludendo l’insorgenza di contrasti
interpretativi in materia.
Questa Sezione, pertanto, nel dare risposta al
quesito formulato con la presente richiesta di
parere, non può che attenersi al predetto principio
di diritto, confermando, in tema di incentivi per
funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, l’indirizzo
già ampiamente rappresentato nei recenti
parere 23.05.2018 n. 54 e
parere 23.05.2018 n. 56 (Corte dei Conti, Sez. controllo
Piemonte,
parere 09.12.2018 n. 135). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Richiesta di parere articolata in due quesiti: l’uno relativo alla
possibilità di conferire a tecnici esterni all’ente incarichi di supporto
alla progettazione definitiva, laddove quest’ultima venga affidata a
personale interno; l’altro, relativo alla disciplina degli incentivi
tecnici di cui all’art. 113, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 50 del
2016, anche con riferimento alle opere finanziate con fondi europei.
Nessuna figura di “supporto” o consulenza specialistica è prevista
con riferimento all’attività di progettazione e ciò in forza del principio
generale -alla base della regolamentazione del Codice degli appalti- secondo
cui la responsabilità della progettazione deve potersi ricondurre ad un
unico centro decisionale, ossia il progettista, individuato quale tecnico
qualificato e dotato della professionalità necessaria per l’espletamento del
servizio richiesto.
In tal senso si è espressa anche l’ANAC nelle linee guida sui servizi di
ingegneria e architettura emanate in data 07.07.2017, laddove ha ribadito
che
la “consulenza” di ausilio alla progettazione di opere pubbliche
continua a non essere contemplata dal Codice che, invero, prevede siffatta
attività di supporto solamente in ausilio del R.U.P. (art. 31 l. cit., commi
6-11), specialmente in quei casi in cui la figura dirigenziale incaricata di
detta responsabilità non disponga delle adeguate competenze tecniche.
Il “supporto alla progettazione”, invece, è costituito da un insieme
di attività meramente strumentali alla progettazione (indagini geologiche,
geotecniche e sismiche, sondaggi, rilievi, misurazioni e picchettazioni,
predisposizione di elaborati specialistici e di dettaglio, redazione grafica
di elaborati progettuali) che devono ricondursi ai compiti e alla
responsabilità del progettista tanto nell’ipotesi di tecnico esterno
all’ente che di dipendente incaricato della progettazione.
In ordine alla specifica problematica sollevata dal sindaco del comune di
Ganci, relativa alla eventualità che il comune non disponga di adeguate
attrezzature tecniche in grado da consentire al tecnico qualificato di poter
espletare l’incarico di progettista, il Collegio osserva che
è compito
dell’Ente dotare il proprio ufficio tecnico di tutto quanto necessario per
lo svolgimento delle normali funzioni istituzionali dei tecnici in servizio,
all’uopo utilizzando anche la quota del 20 per cento del fondo per gli
incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 4, del citato Codice, destinato
proprio “all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso
di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica
informativa per l’edilizia e le infrastrutture (…)”.
Pertanto, alla luce del vigente quadro normativo,
la Sezione ritiene che l’attività di consulenza o supporto
alla progettazione debba ritenersi preclusa alle amministrazioni pubbliche.
---------------
Gli incentivi
disciplinati dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 nel testo
modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su
risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli
sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non
sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del
decreto legislativo n. 75 del 2017.
---------------
In relazione ai lavori finanziati con risorse comunitarie, la Sezione non ha
motivo di discostarsi dal seguente principio di diritto: “I compensi
corrisposti a valere sui fondi strutturali e di investimento europei (SIE)
in conformità con l’art. 15 del CCNL 01.04.1999 e con le norme del diritto
nazionale e dell'Unione europea, per l’attuazione di progetti di
valorizzazione della produttività individuale del personale regionale
addetto alla gestione e al controllo dei fondi comunitari, selezionati
dall’Autorità di gestione nel contesto degli accordi di partenariato al fine
di migliorare la capacità di amministrazione e di utilizzazione dei predetti
fondi, ai sensi degli artt. 5 e 59 del Reg. (UE) n. 1303/2013, non rientrano
nell’ambito di applicazione dell’art. 23, comma 2, del decreto legislativo
25.05.2017, n. 75, a condizione che siano congruamente predeterminati nel
loro ammontare e siano diretti ad incentivare l’impiego pertinente,
effettivo e comprovabile di specifiche unità lavorative in mansioni
suppletive rispetto all’attività istituzionale di competenza”. “Trattandosi
di gestione vincolata, i compensi diretti ad incentivare la produttività ed
il miglioramento dei servizi saranno riconosciuti nella misura
dell’effettivo concorso dei Fondi SIE”.
Ne consegue, pertanto, l’esclusione dal limite del fondo per il trattamento
accessorio del personale anche con riferimento agli incentivi finanziati con
risorse comunitarie, fermo restando il divieto espressamente previsto
dall’art. 113, comma 4, relativo alla quota del venti per cento del fondo di
cui al comma 2, “destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per
il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di
modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di
implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della
capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare
riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i
controlli.(…)”
In tal caso, infatti, viene meno la correlazione tra risorsa comunitaria e
vincolo di destinazione richiesta dalla disciplina dei fondi europei.
---------------
Con la nota in epigrafe, il sindaco del comune di Gangi (PA) ha chiesto un
parere articolato in due quesiti:
●
l’uno relativo alla possibilità di
conferire a tecnici esterni all’ente incarichi di supporto alla
progettazione definitiva, laddove quest’ultima venga affidata a personale
interno;
●
l’altro, relativo alla disciplina degli incentivi tecnici di cui
all’art. 113, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 50 del 2016, anche con
riferimento alle opere finanziate con fondi europei.
...
In ordine al primo quesito, la Sezione di controllo osserva che
l’art. 23 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, che reca la disciplina
dei diversi livelli di progettazione e dei compiti del progettista, al comma
5, n. 3, recita: “Nella seconda fase di elaborazione, ovvero nell'unica
fase, qualora non sia redatto in due fasi, il progettista incaricato
sviluppa, nel rispetto dei contenuti del documento di indirizzo alla
progettazione e secondo le modalità indicate dal decreto di cui al comma 3,
tutte le indagini e gli studi necessari per la definizione degli aspetti di
cui al comma 1, nonché elaborati grafici per l'individuazione delle
caratteristiche dimensionali, volumetriche, tipologiche, funzionali e
tecnologiche dei lavori da realizzare e le relative stime economiche, ivi
compresa la scelta in merito alla possibile suddivisione in lotti
funzionali. Il progetto di fattibilità deve consentire, ove necessario,
l'avvio della procedura espropriativa”.
Nessuna figura di “supporto” o consulenza specialistica è prevista
con riferimento all’attività di progettazione e ciò in forza del principio
generale -alla base della regolamentazione del Codice degli appalti- secondo
cui la responsabilità della progettazione deve potersi ricondurre ad un
unico centro decisionale, ossia il progettista, individuato quale tecnico
qualificato e dotato della professionalità necessaria per l’espletamento del
servizio richiesto.
In tal senso si è espressa anche l’ANAC nelle linee guida sui servizi di
ingegneria e architettura emanate in data 07.07.2017, laddove ha ribadito
che
la “consulenza” di ausilio alla progettazione di opere pubbliche
continua a non essere contemplata dal Codice che, invero, prevede siffatta
attività di supporto solamente in ausilio del R.U.P. (art. 31 l. cit., commi
6-11), specialmente in quei casi in cui la figura dirigenziale incaricata di
detta responsabilità non disponga delle adeguate competenze tecniche.
Il “supporto alla progettazione”, invece, è costituito da un insieme
di attività meramente strumentali alla progettazione (indagini geologiche,
geotecniche e sismiche, sondaggi, rilievi, misurazioni e picchettazioni,
predisposizione di elaborati specialistici e di dettaglio, redazione grafica
di elaborati progettuali) che devono ricondursi ai compiti e alla
responsabilità del progettista tanto nell’ipotesi di tecnico esterno
all’ente che di dipendente incaricato della progettazione.
In ordine alla specifica problematica sollevata dal sindaco del comune di
Ganci, relativa alla eventualità che il comune non disponga di adeguate
attrezzature tecniche in grado da consentire al tecnico qualificato di poter
espletare l’incarico di progettista, il Collegio osserva che
è compito
dell’Ente dotare il proprio ufficio tecnico di tutto quanto necessario per
lo svolgimento delle normali funzioni istituzionali dei tecnici in servizio,
all’uopo utilizzando anche la quota del 20 per cento del fondo per gli
incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 4, del citato Codice, destinato
proprio “all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso
di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica
informativa per l’edilizia e le infrastrutture (…)”.
Pertanto, alla luce del vigente quadro normativo,
la Sezione ritiene che
l’attività di consulenza o supporto alla progettazione debba ritenersi
preclusa alle amministrazioni pubbliche e, in tal senso, esprime parere
negativo in ordine al primo dei quesiti proposti.
Il secondo quesito attiene alla contabilizzazione degli oneri finanziari per
gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113 l. cit., alla luce della
novella normativa recata dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del
2017, che vi ha introdotto il comma 5-bis; in particolare, si chiede se
dette spese possano essere escluse dal tetto di spesa previsto per i
compensi del personale previsti dall’art. 23, comma 2, del decreto
legislativo n. 75 del 2017 e se detta disciplina possa essere applicata
anche alle opere finanziate con fondi europei.
Il Collegio precisa che la pronuncia sulla richiesta di parere, avanzata dal
sindaco in data 14.02.2018, all’adunanza del 13.03.2018 è stata rinviata
all’esito della questione di massima sollevata dalla sezione regionale di
controllo per la Regione Puglia con
parere 09.02.2018 n. 18
e dalla sezione regionale di controllo per la Lombardia con
deliberazione 16.02.2018 n. 40,
a seguito dell’entrata in vigore della disposizione di cui all’art. 1, comma
526, della legge 27.12.2017, n. 205 che, innovando rispetto alla previgente
disciplina, ha previsto che tali incentivi “fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
La Sezione delle autonomie, adita in sede nomofilattica ai sensi dell’art.
6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito, con
modificazioni, dalla legge 07.12.2012, n. 213, con
deliberazione 26.04.2018 n. 6
ha enunciato il seguente principio di diritto: “Gli incentivi
disciplinati dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 nel testo
modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su
risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli
sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non
sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del
decreto legislativo n. 75 del 2017”.
Il Collegio, pertanto, con riferimento al secondo quesito, richiama la sopra
citata deliberazione.
In relazione ai lavori finanziati con risorse comunitarie, la Sezione non ha
motivo di discostarsi dall’orientamento espresso dalla Sezione delle
autonomie con
deliberazione 25.07.2017 n. 20,
che ha enunciato il seguente principio di diritto: “I compensi
corrisposti a valere sui fondi strutturali e di investimento europei (SIE)
in conformità con l’art. 15 del CCNL 01.04.1999 e con le norme del diritto
nazionale e dell'Unione europea, per l’attuazione di progetti di
valorizzazione della produttività individuale del personale regionale
addetto alla gestione e al controllo dei fondi comunitari, selezionati
dall’Autorità di gestione nel contesto degli accordi di partenariato al fine
di migliorare la capacità di amministrazione e di utilizzazione dei predetti
fondi, ai sensi degli artt. 5 e 59 del Reg. (UE) n. 1303/2013, non rientrano
nell’ambito di applicazione dell’art. 23, comma 2, del decreto legislativo
25.05.2017, n. 75, a condizione che siano congruamente predeterminati nel
loro ammontare e siano diretti ad incentivare l’impiego pertinente,
effettivo e comprovabile di specifiche unità lavorative in mansioni
suppletive rispetto all’attività istituzionale di competenza”. “Trattandosi
di gestione vincolata, i compensi diretti ad incentivare la produttività ed
il miglioramento dei servizi saranno riconosciuti nella misura
dell’effettivo concorso dei Fondi SIE”.
Ne consegue, pertanto, l’esclusione dal limite del fondo per il trattamento
accessorio del personale anche con riferimento agli incentivi finanziati con
risorse comunitarie, fermo restando il divieto espressamente previsto
dall’art. 113, comma 4, relativo alla quota del venti per cento del fondo di
cui al comma 2, “destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per
il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di
modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di
implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della
capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare
riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i
controlli.(…)”
In tal caso, infatti, viene meno la correlazione tra risorsa comunitaria e
vincolo di destinazione richiesta dalla disciplina dei fondi europei
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere
23.10.2018 n. 181). |
...nonché qualche spunto interessante circa la
corretta redazione del regolamento comunale
disciplinante l'incentivo: |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
OGGETTO: Ministero della giustizia - Ufficio legislativo.
Schema di regolamento concernente norme per la ripartizione
degli incentivi per funzioni tecniche ai sensi dell'art. 113
del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Consiglio
di Stato, Sez. consultiva,
parere 11.10.2018 n. 2324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Premesso:
Con nota n. prot. n. 7598 del 04.09.2018 il Ministero
della Giustizia ha chiesto il parere del Consiglio di Stato
sullo schema di regolamento, in oggetto indicato, da
adottarsi in attuazione dell’articolo 113, comma 3, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante il “Codice
dei contratti pubblici”.
Riferisce il Ministero proponente che lo schema di decreto
reca, per il Ministero della giustizia, il regolamento
concernente la ripartizione dell'incentivo per le funzioni
tecniche svolte dai dipendenti pubblici per le attività di
programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività
tecnico-burocratiche di cui all'articolo 113, comma 2, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Evidenza il
Ministero riferente che la disposizione anzidetta introduce
delle rilevanti novità rispetto alla previgente normativa,
in quanto il compenso incentivante riguarda l'espletamento
di attività non più legate alla progettazione, come avveniva
nel vigore dell'abrogato decreto legislativo 12.04.2006
n. 163 (articoli 92 e 93), ed è espressamente riconosciuto
in relazione, oltre che alle opere ed ai lavori, anche ai
contratti di servizi e forniture.
L’Amministrazione
sottolinea altresì la ulteriore novità procedurale contenuta
nella norma primaria del 2016, rispetto a quella del 2006,
poiché la norma del previgente codice dei contratti pubblici
(art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006) attribuiva al
regolamento una funzione di recepimento dei criteri e delle
modalità di riparto definiti in sede di contrattazione
collettiva (“... le modalità e i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione”), mentre la nuova norma
assegna al regolamento una funzione antecedente di indirizzo
della fonte contrattuale, che si colloca, nel sistema
odierno, “a valle” e non più “a monte” del regolamento
(l’art. 113, comma 3, del codice del 2016 prevede difatti
che la ripartizione avviene “con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale, sulla base di apposito regolamento adottato
dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”).
Lo schema di regolamento consta di dieci articoli.
L'articolo 1 contiene le definizioni dei termini più
ricorrenti nel provvedimento e ne definisce l'ambito di
applicazione, prevedendo, in particolare, al comma 4, la
costituzione, a valere sugli stanziamenti previsti per i
singoli appalti di lavori, servizi e forniture, nell'ambito
dei rispettivi quadri economici, di un apposito fondo, la
cui misura è determinata dai successivi articoli 5, comma 1,
e 6, comma 2, che non può in ogni caso superare il limite
del due per cento degli importi posti a base di gara.
L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del Fondo è
ripartito tra il personale del Ministero della giustizia,
che, per ciascuna opera o lavoro, servizio o fornitura, è
incaricato e svolge effettivamente le funzioni tecniche per
le attività, anche in quota parte, elencate in maniera
specifica nell'articolo 113, comma 2, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50.
Il comma 5 stabilisce che
le attività incentivabili sono esclusivamente quelle
stabilite dalla norma di rango primario (le attività di
programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione e controllo
delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti
pubblici, di responsabile unico del procedimento, di
direzione dei lavori ovvero di direzione dell'esecuzione dei
contratti di servizi e forniture, di collaudo tecnico
amministrativo o di certificato di regolare esecuzione, di
verifica di conformità nei contratti di servizi e forniture,
di collaudo statico).
Il restante 20 per cento del Fondo è
invece destinato all'amministrazione in conformità a quanto
previsto dall'articolo 113 del decreto legislativo predetto,
comma 4, a norma del quale le anzidette residuali risorse,
ad esclusione di quelle derivanti da finanziamenti europei o
da altri finanziamenti a destinazione vincolata, possono
essere destinate all'acquisto, da parte dell'ente, di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione o essere in parte utilizzate per l'attivazione
presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini
formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della
legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di
dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei
contratti pubblici.
Il precedente comma 4 prevede inoltre
che, nel caso in cui le risorse del Fondo derivino da
finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata, sia esclusa, come stabilito già
dalla norma primaria, la destinazione del venti per cento ad
impieghi dell’amministrazione e che in tal caso l’ammontare
complessivo del fondo debba essere conseguentemente ridotto
per corrispondere all’ottanta per cento attribuibile come
incentivo si dipendenti.
L'articolo 2 individua i destinatari dell'incentivo,
riconosciuto non solo ai dipendenti che svolgono le funzioni
tecniche per le attività in precedenza indicate, ma anche ai
dipendenti che collaborano direttamente al loro svolgimento.
E' in ogni caso escluso dalla ripartizione il personale con
qualifica dirigenziale. I dipendenti sono individuati con
provvedimento del Direttore generale o del dirigente
preposto all'ufficio, i quali, oltre a designare il/i
responsabile/i delle attività di cui all'articolo 1, comma
5, dello schema di regolamento in esame, individuano anche i
relativi collaboratori.
Per la nomina del RUP, del direttore
dei lavori e del direttore dell'esecuzione del contratto si
applicano le disposizioni dettate all'uopo dal decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, in particolare gli
articoli 31 e 101, che disciplinano modalità e tempi di
nomina delle anzidette figure.
L'articolo 3 prevede le ipotesi di riduzione delle
risorse finanziarie destinate alla ripartizione degli
incentivi, legate agli incrementi, non giustificati, dei
costi e dei tempi previsti dalla normativa vigente, dai
contratti, dai provvedimenti emessi da dirigente della
struttura nel conferimento degli incarichi per l'esecuzione
delle attività oggetto di incentivo nonché dai provvedimenti
emessi dal responsabile del procedimento.
In particolare i
commi 3 e 4 indicano i criteri e le percentuali di riduzione
rispettivamente per l'aumento ingiustificato dei costi e dei
tempi, con esclusione delle ipotesi di incremento previste
dagli articoli 106, comma 1, lettere a), b), c) ed e) e 107
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Analogamente
non sono considerati i ritardi imputabili alla ditta
soggetta a penale per ritardo. Il comma 5 prevede infine che
l'importo corrispondente alle riduzioni di cui ai precedenti
commi 3 e 4 incrementa la quota del fondo destinato
all'amministrazione ai sensi dell'articolo 1, comma 6.
L'articolo 4 detta i criteri di liquidazione degli
incentivi, stabilendo che la relativa corresponsione è
disposta dal Direttore generale competente o dal dirigente
eventualmente delegato a seguito di accertamento e riscontro
positivo delle specifiche attività svolte dal soggetto
avente diritto. Ai fini del relativo accertamento è previsto
che siano tenute in considerazione la documentazione e la
relazione prodotte dal responsabile del procedimento, il
quale, tra i diversi compiti affidatigli, ha anche quello di
curare il corretto e razionale svolgimento delle procedure
ai sensi dell'articolo 31, comma 4, lettera c), del decreto
legislativo n. 50 anzidetto.
Gli articoli 5 e 6 introducono una serie di
disposizioni in tema di misura del Fondo, la cui percentuale
è stabilita in relazione agli importi dei lavori o degli
appalti di servizi e forniture nonché in tema di
ripartizione delle risorse destinate agli incentivi per
funzioni tecniche, con indicazione delle percentuali da
attribuire tra i dipendenti in relazione all'attività o alle
attività dagli stessi svolta/e.
L'articolo 7 contiene una previsione diretta a
fornire al Direttore generale o al dirigente preposto
all'ufficio criteri di massima per procedere alla
ripartizione e alla suddivisione di ciascuna delle quote
indicate negli articoli 5, comma 3 e 6, comma 4, ove nella
ripartizione siano coinvolti più soggetti: in tal caso la
ripartizione è effettuata sulla base del livello di
responsabilità professionale connessa alla specifica
prestazione svolta e al contributo apportato dai dipendenti
coinvolti.
L'articolo 8, al comma 1, stabilisce i tempi, in
relazione a ciascuna attività, in cui scatta il diritto al
compenso incentivante. Il comma 2 fa salvo, nelle ipotesi di
riduzione delle risorse finanziarie di cui all'articolo 1,
comma 5, il diritto dell'amministrazione di effettuare un
conguaglio e ripetere, a fine lavori, le somme che sono
state corrisposte in eccedenza a titolo di incentivo per
funzioni tecniche, ben potendo alcune somme essere erogate
ben prima della fine dei lavori come stabilito dal comma
precedente per le attività di cui alle lettere a) e c).
L'articolo 9 contiene una disposizione transitoria
che, nel richiamare l'articolo 216 del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50, stabilisce che le disposizioni del
regolamento, quando sono rispettate le condizioni di cui
all'articolo 113 del medesimo decreto legislativo, si
applicano alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi
o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente sono stati pubblicati successivamente alla data
di entrata in vigore dell'anzidetto decreto, nonché in caso
di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle
procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data
suddetta, non sono ancora stati inviati gli inviti a
presentare le offerte.
La norma transitoria è quindi
finalizzata a consentire l'applicabilità, da parte
dell'amministrazione, del regolamento alle ipotesi previste
dall'articolo 216 del decreto legislativo n. 50 nel rispetto
delle condizioni sancite dall'articolo 113 del medesimo
decreto, vale a dire a consentire l'erogazione del compenso
in relazione ad attività incentivabili svolte prima
dell'emanazione del regolamento e ricandenti nell'ambito
temporale dell'articolo 216 a condizione che il Fondo sia
già stato costituito e le relative risorse siano già state
accantonate.
L'articolo 10 reca la norma sull'entrata in vigore
del decreto, fissata al trentesimo giorno successivo alla
sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Considerato:
1. Il Ministero della Giustizia sottopone al parere di
questo Consiglio lo schema di regolamento diretto a
disciplinare la ripartizione degli incentivi per funzioni
tecniche ai sensi dell'articolo 113 del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50.
Si tratta di uno dei primi casi applicativi dell’art. 113
del nuovo codice dei contratti pubblici del 2016, come
modificato nel 2017 (constano, allo stato, quali unici
precedenti, il regolamento adottato dalla Regione siciliana
recante “Norme per la ripartizione degli incentivi da
corrispondere al personale dell'Amministrazione regionale ai
sensi dell'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016,
n. 50, recepito nella Regione Siciliana con legge regionale
12.07.2011, n. 12, come modificata dall'art. 24 della
legge regionale 17.05.2016, n. 8”, su cui il CGARS si è
espresso con
parere n. 121/2018 reso nell’adunanza del 13.03.2018, spedito in data 16.03.2018, nonché
l’ordinanza n. 57 del 04.07.2018 del Commissario
straordinario per la ricostruzione delle zone colpite dal
sisma del 2016, pubblicato nella G.U. n. 172 del 26.07.2018, che poggia però su una diversa e autonoma base
giuridica, costituita dall’art. 2-bis del decreto-legge n.
148 del 2017, convertito, con modificazioni, nella legge n.
172 del 2017).
Lo schema di regolamento in esame, dunque,
pur nella sua complessiva semplicità e sostanziale aderenza
al dato normativo primario, riveste indubbiamente un
considerevole rilievo, potendo costituire un primo esempio
in vista della prossima adozione di analoghi atti da parte
degli altri Ministeri e delle altre amministrazioni aggiudicatrici.
Considerazioni generali.
2. Sotto un primo profilo di carattere generale deve
osservarsi che, pur nelle evidenti e già sopra rilevate
novità del nuovo quadro normativo, rispetto a quello del
previgente codice di settore del 2006 (artt. 92, comma 5, e
93, commi 7 ss., del d.lgs. n. 163 del 2006) -novità cui
deve aggiungersi, oltre a quelle segnalate dal Ministero
riferente, anche l’esclusione dei dirigenti dal beneficio
del riparto, in ragione del principio di onnicomprensività
della retribuzione composita loro riservata-, l’istituto
della remunerazione incentivante del personale dipendente
della stazione appaltante per le attività tecniche afferenti
alla programmazione, alla progettazione, alla gestione delle
procedure selettive e alla realizzazione e collaudo
dell’opera, dei lavori e, nei casi previsti, anche degli
appalti di servizi e di forniture, non risulta radicalmente
mutato nelle sue linee portanti e nelle sue precipue
finalità, sicché resta utile un attento raffronto con la
normativa regolamentare previgente (nel caso del Ministero
della Giustizia il d.m. 09.07.2008, n. 139, che aveva
abrogato il precedente d.m. 20.04.2000, n. 134, recante
il Regolamento recante norme per la ripartizione
dell'incentivo economico di cui al comma 1 dell'articolo 18
della L. n. 109/1994 e successive modifiche ed
integrazioni), rispetto alla quale sarebbe stato opportuno
poter disporre di un’approfondita V.I.R. (valutazione
dell’impatto della regolazione), così da poter trarre spunto
dalle criticità pregresse incontrate nell’applicazione della
normativa previgente per affinamenti, miglioramenti,
indicazioni anche innovative da inserire nel nuovo testo
regolamentare.
Se è vero che –in attuazione del criterio di
delega contenuto nella lettera rr) dell’art. 1 della legge
28.01.2016, n. 11– si è esclusa l'applicazione degli
incentivi alla progettazione, è vero che, nell’impostazione
complessiva, l’istituto ha conservato le sue caratteristica
essenziali.
A tale riguardo deve osservarsi che non si
rinviene nella documentazione trasmessa (relazione
illustrativa, relazione tecnica, AIR, ATN) un tale raffronto
tra il regime anteriore e quello che verrà introdotto con il
nuovo regolamento: sarebbe stato viceversa utile poter
comprendere quali fossero state le eventualità criticità e
lacune registrate nella pluriennale applicazione del regime
odierno, basato sul codice del 2006, e se e in che misura la
nuova disciplina se ne sia fatta carico e, se si, in quale
modo intenderebbe farvi fronte.
Occorre pertanto che
l’Amministrazione provveda a integrare sotto l’evidenziato
profilo la documentazione qui trasmessa a corredo dello
schema di regolamento.
3. Sempre sul piano di una prima osservazione di carattere
generale, si deve rilevare che lo schema proposto si
sostanzia in larga parte di riproposizioni, spesso
letterali, di disposizioni già contenute nella norma
primaria.
Al riguardo questa Sezione ha in più occasioni
criticato tale modus procedendi, evidenziando, tra
l’altro, il rischio di incertezze applicative nel caso in
cui la riproduzione testuale presenti anche lievi differenze
rispetto al testo di rango legislativo, nonché di potenziale
confusione nell’individuazione della disposizione
applicabile nel caso in cui successive modifiche della norma
primaria determinino un disallineamento dei testi.
D’altro
canto non può non osservarsi, nel contempo, che, nel caso in
esame, l’atto regolamentare previsto dalla norma primaria
risulta “costretto” tra, da un lato, disposizioni del
decreto legislativo già di per se stesse molto analitiche e
in parte autoapplicative e, dall’altro lato, il rinvio che
la stessa norma di livello primario opera “a valle” alla
specificazione delle modalità e dei criteri di riparto da
concordarsi nella sede (naturale, in materia di trattamento
economico del personale) della contrattazione collettiva di
settore.
Conseguentemente, una rigida applicazione del
principio di disfavore per la ripetizione, nel testo
regolamentare, di disposizioni già contenute nel testo di
rango primario rischierebbe, nel caso concreto qui in esame,
di “prosciugare” eccessivamente l’area di possibile
svolgimento del testo regolamentare, che rischierebbe di
risolversi in un mero rinvio alla contrattazione collettiva.
D’altro canto è pur vero che anche gli atti fonte che
innovano l’ordinamento giuridico, sia pure di livello
secondario, come i regolamenti, costituiscono dei testi
giuridici, che devono come tali tendenzialmente possedere
una loro propria compiutezza e complessiva “leggibilità”, al
fine di una agevole comprensione ed efficace applicazione in
sede amministrativa: a tal fine può presentare una sua
utilità l’intrinseca completezza del testo regolamentare
come strumento unitario e autosufficiente di guida
all’operatore pratico.
In quest’ottica può rivelarsi in
definitiva utile inglobare nel testo regolamentare termini,
nozioni, definizioni e disposizioni già contenuti nella
norma di rango primario, ma è bene che ciò avvenga con
formule lessicali che privilegino il rinvio esplicito alla
legge o all’atto di livello legislativo ed evitino ogni
ambiguità riguardo alla corretta gerarchia delle fonti.
4. Riprendendo l’osservazione già anticipata supra,
la novità procedurale che caratterizza la norma del 2016
rispetto a quella del 2006, consistente nell’inversione del
rapporto con la fonte di contrattazione collettiva, che, nel
quadro normativo vigente, segue il regolamento come suo
sviluppo specificativo di dettaglio anziché precederlo,
imporrebbe un maggiore dettaglio precisante riguardo
all’adempimento “Sentite le organizzazioni sindacali di
settore” solo genericamente richiamato nella premessa.
Sotto
un diverso, ma connesso profilo, il testo regolamentare
proposto non sembra lasciare adeguato spazio, “a valle”,
alla contrattazione sindacale, in particolare lì dove, ad
esempio, negli articoli 5, 6 e 7, in tema di criteri di
calcolo e di ripartizione del compenso ai soggetti aventi
diritto, introduce disposizioni molto analitiche e ne
demanda l’attuazione al dirigente competente per l’appalto,
non prefigurando spazi di intervento per la contrattazione
collettiva, che, invece, proprio in questo segmento della
disciplina potrebbe rinvenire un suo spazio appropriato di
esplicazione.
Alla pag. 5 dell’A.I.R., l’Amministrazione
riferisce, nella sezione 5, che «Occorrerà poi adottare
apposite determinazioni per specificare quanto disposto
dalle nuove disposizioni del regolamento e dunque per
definire concretamente modalità di accertamento per la
liquidazione dell’incentivo, il criterio di calcolo e
ripartizione dello stesso, la manutenzione del
riconoscimento del diritto al compenso».
Sembra, in realtà,
che i richiamati articoli da 5 a 7 del presente schema di
regolamento esauriscano gli spazi di disciplina dei profili
ora detti, lasciando a livello applicativo margini di
intervento di tipo meramente provvedimentale, demandato
dunque agli atti dirigenziali di gestione del singolo
affare, senza consentire aspetti di possibile intervento
della contrattazione collettiva.
5. Non sembra, infine, adeguatamente trattato –né
nell’articolato, né nelle relazioni a corredo dello schema
di decreto– il tema posto dal penultimo periodo del comma 2
dell’art. 113 del decreto legislativo, riguardo ai casi in
cui l’amministrazione costituisca o si avvalga di una
centrale di committenza, ipotesi nella quale evidentemente
occorre prevedere una disciplina particolare, che tenga
conto del ruolo della centrale di committenza e dei suoi
dipendenti.
Occorrerà a tal riguardo che, almeno nella relazione
illustrativa e in quella tecnica, si dia conto di eventuali
rapporti in corso con centrali di committenza per attività
di programmazione, progettazione, gestione delle gare e per
altre attività tecniche ausiliare in materia di forniture di
lavori, beni, servizi, che possano incidere sulla disciplina
oggetto del presente regolamento.
Osservazioni relative all’articolato.
6. Premesse.
Non si comprende il richiamo, nel secondo “visto”, della
legge 15.12.1990, n. 395, recante "Ordinamento del
Corpo di polizia penitenziaria”: tale legge non risulta
altrove richiamata nel testo dell’articolato e non si
evince, dunque, la ragione di tale richiamo, che andrebbe
conseguentemente espunto.
L’Amministrazione ha probabilmente
qui riprodotto il primo “visto” del d.m. n. 139 del 1998,
che era riferito all’art. 35 (Edilizia penitenziaria.
Personale e relative attribuzioni) della legge n. 359 del
1990, che interveniva sulla dotazione organica del
Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per far
fronte alle esigenze di edilizia penitenziaria, per lo
svolgimento di compiti inerenti le attività tecniche e
amministrative di cui trattasi.
La norma del 1990, tuttavia,
non reca specifiche previsioni in tema di attribuzione e
riparto di incentivi, sicché non risulta necessario il suo
richiamo, se non sotto il profilo puramente descrittivo, al
fine di sottolineare la centralità dell’amministrazione
penitenziaria nell’ambito del campo applicativo, per il
Ministero della giustizia, degli istituti disciplinati dallo
schema di decreto proposto. Ove l’Amministrazione dovesse
comunque ritenere utile, in continuità del testo del 1998,
mantenere questo richiamo, allora sarebbe preferibile
riferirlo puntualmente al citato art. 35.
I “visti” quarto e sesto riguardano, rispettivamente, la
legge di delega posta a base del codice dei contratti
pubblici del 2016 e il decreto legislativo correttivo e
integrativo del 2017. Tali richiami appaiono inutili, in
quanto assorbiti nel richiamo del solo codice dei contratti
pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, attuativo della
delega e da intendersi “nel testo vigente”, ossia
comprensivo delle modifiche successivamente intervenute
(resta possibile, anche se non necessario, il ricorso alla
formula standardizzata “e successive modificazioni”). Come
già anticipato nel paragrafo relativo alle “osservazioni
generali”, andrebbe integrato e precisato il richiamo
“Sentite le organizzazioni sindacali di settore”.
7. Articolo 1.
7.1 Comma 2. Definizioni. Come anticipato nella parte
generale di questo parere, occorre prestare la massima
attenzione nell’introdurre nel testo regolamentare mere
riproduzioni della norma di rango primario.
Conseguentemente, l’utilità perseguita dall’introduzione di
tali definizioni, utilità sicuramente apprezzabile sul piano
dell’autosufficienza e della completezza del testo
regolamentare, deve conseguirsi, ove possibile, mediante un
richiamo diretto della norma primaria.
Nel caso in esame,
dunque, parrebbe possibile e preferibile sostituire
all’elenco delle definizioni una disposizione di carattere
generale del seguente tenore: “Ai fini del presente
regolamento trovano applicazione le definizioni contenute
nel decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”.
Questa
formulazione più sintetica sembra essere anche più
esaustiva, poiché consente di chiarire che tutti gli
istituti (nella loro definizione e nel loro regime
giuridico) propri del codice dei contratti pubblici trovano
la loro fonte di disciplina in tale ultimo atto normativo,
chiarendo, dunque, che il presente regolamento si inscrive
logicamente e giuridicamente in quel sistema normativo, cui
opera un costante rinvio anche dinamico.
La soluzione qui
suggerita consente, ad esempio, di risolvere un dubbio
applicativo che potrebbe altrimenti incontrarsi già nel
successivo comma 3 dell’art. 1, dove si disciplina, con il
criterio della prevalenza, il caso degli appalti misti: è
chiaro, con la formulazione qui proposta, che la nozione di
contratto misto e il criterio di definizione in concreto
della prevalenza devono essere ricercati nel codice dei
contratti pubblici e non altrove.
La diversa esigenza, avuta
di mira, ad esempio, dalla lettera a) del comma 2 in esame,
non già di introdurre una “definizione”, ma di consentire
nel prosieguo del testo l’uso di locuzioni abbreviate per
motivi di concisione, può essere soddisfatta con la formula
tradizionale: “d’ora in avanti «decreto legislativo»”.
Andrà
conseguentemente espunto dalla rubrica il termine
“definizioni”.
7.2. Quanto all’ambito di applicazione, qui da intendersi in
senso “oggettivo”, ossia relativo alla tipologia di
contratti e di appalti in relazione ai quali verrebbe a
operare l’incentivo di cui trattasi, occorre evidenziare che
il CGARS, nel già menzionato
parere 16.03.2018 n. 121,
traendo spunto dalla previsione contenuta nel testo
regolamentare proposto dalla Regione siciliana di esclusione
dei lavori di manutenzione dall’ambito applicativo
dell’incentivo, ha richiamato un orientamento (non costante)
della Corte dei conti (Corte
conti, sez. contr. Veneto,
parere 12.05.2017 n. 338; Corte
conti, sez. contr. Marche,
parere 27.04.2017 n. 52; Corte
conti, sez. contr. Umbria,
parere 26.04.2017 n. 51; Corte
conti, sez. contr. Puglia,
parere 24.01.2017 n. 5)
nel senso della negazione dell’incentivo
anche nei casi di manutenzione straordinaria e ha lasciato
dunque alla valutazione regionale la scelta se estendere
l’esclusione anche a tale tipologia di lavori o se tacere
del tutto sul punto, così rinviando all’assestamento della
giurisprudenza e delle pronunce degli Organi di controllo
contabile.
Il regolamento all’odierno esame di questo
Consiglio, nell’operare un rinvio, per la definizione di
“lavori”, alle attività come definite dalla lettera nn) del
comma 1 dell’art. 3 del codice dei contratti, mostra di
voler invece senz’altro includere, nell’ambito applicativo
dell’incentivo, anche i meri lavori di manutenzione.
Ora,
se
è vero che i lavori di manutenzione, anche ordinaria,
rientrano nella suddetta nozione di “lavori” contenuta
nell’art. 3 del codice di settore, sicché non sussisterebbe
un impedimento formale nella lettera della legge a tale
inclusione, è altrettanto vero che i lavori (puntuali) di
manutenzione ordinaria (che non si collochino entro un più
ampio quadro di global service e di facility management) non
sembrano giustificare “attività tecniche” del tipo preso in
considerazione dall’art. 113 del codice dei contratti tali
da consentire l’applicazione degli incentivi.
Occorre dunque
che l’Amministrazione fornisca, nel rispondere al presente
parere interlocutorio, adeguate precisazioni al riguardo.
7.3. Comma 3. Rispetto al testo proposto –“disposizioni
relative all’oggetto principale cui è destinato l’appalto”-, appare da preferire, anche perché più chiara e precisa,
la formulazione adoperata al riguardo dal codice dei
contratti pubblici, nell’art. 28, comma 1: “disposizioni
(relative) al tipo di appalto che caratterizza l'oggetto
principale del contratto in questione”.
7.4. Comma 4. Non risulta perspicua la disposizione
contenuta nel secondo periodo: “Nel caso in cui le risorse
del Fondo derivano da finanziamenti europei o da altri
finanziamenti a destinazione vincolata, il Fondo medesimo è
ridotto ad una misura pari all'80% di quanto stabilito dai
precedenti articoli 5, comma 1, e 6, comma 2, ed è
integralmente destinato a soddisfare le esigenze di cui al
quinto comma”.
Si intendeva evidentemente dare attuazione
alla previsione all’esclusione, prevista dal comma dell’art.
113 del decreto legislativo, dell’impiego del restante 20
per cento del fondo per acquisti e servizi
dell’amministrazione, come definiti dal medesimo 4, nel caso
in cui si tratti di risorse derivanti da finanziamenti
europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata.
In tal caso, evidentemente, l’Amministrazione ritiene che il
fondo non debba essere distribuito tra il personale
dipendente nel suo ammontare totale (cento per cento), ma
debba subire una decurtazione pari al venti per cento non
assegnabile agli impieghi diretti dell’amministrazione.
Sembra dunque preferibile, a tal fine, per una maggiore
chiarezza del testo, collocare tale previsione non già
nell’articolo 1 sull’ambito applicativo, ma nell’art. 5,
riguardante la “Misura del fondo”, dove potrebbe essere
utilmente collocata in un apposito comma inserito dopo il
comma 1, del seguente tenore: “Nel caso in cui le risorse
derivino da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata, il Fondo, come costituito ai sensi
dell’articolo 1, comma 4, è ridotto del venti per cento ed è
integralmente destinato a soddisfare le esigenze di cui al
comma 5 del predetto articolo 1” (in tal modo si supera
anche l’erroneo richiamo ai “precedenti articoli 5, comma 1,
e 6, comma 2”, che sono evidentemente “successivi”).
Andrà
conseguentemente soppresso il secondo periodo del comma 4
dell’art. 1.
8. Articolo 2.
8.1. Comma 1. Si suggerisce di evitare l’uso dell’ausiliare
“possono” (percepire): trattandosi di diritti soggettivi dei
dipendenti legati esclusivamente all’accertamento vincolato
della sussistenza dei presupposti di legge e di regolamento,
senza spazio per valutazioni discrezionali
dell’Amministrazione, risulta preferibile l’uso della
locuzione “Percepiscono”.
8.2. Comma 2. Il comma in esame, così come formulato e
collocato nel contesto complessivo del regolamento, sembra
“ridurre” il diritto dei collaboratori ad un rango
“subordinato” o “accessorio”, in qualche modo “minore”, il
che non pare giustificabile, in considerazione della pari
tutela del diritto soggettivo pure spettante a tali
dipendenti, nella previsione stessa della norma primaria. Si
suggerisce, pertanto, di eliminare l’avverbio “anche”.
8.3. Comma 3. Valuti l’amministrazione l’opportunità di
specificare meglio il criterio di individuazione del
Direttore generale (o del dirigente preposto all'ufficio)
cui compete l’individuazione dei dipendenti destinatari
dell’incentivo, eventualmente legandolo alla competenza ad
adottare la delibera a contrattare e alla gestione del
connesso centro di responsabilità amministrativa e di spesa.
8.4. Comma 4. Per migliore sintesi nella formulazione del
testo, appare preferibile “spostare” questa disposizione
all’interno del comma 1 dell’art. 2, inserendovi l’inciso
“ad eccezione dei dirigenti”.
9. Articolo 3.
9.1. Comma 1. Il comma 1 –che è riferito all’appostazione
contabile delle risorse finanziarie destinate agli incentivi
e non alla riduzione di esse, che è invece l’oggetto
dell’art. 3 in esame– sembra da collocare più coerentemente
nel comma 4 dell’art. 1, dove si definisce il modo di
costituzione del fondo e la sua consistenza.
Conseguentemente occorre espungere dal testo del comma 2 il
participio “anzidette”.
9.2. Nel complesso dell’art. 3 in esame, nei commi 2 e 4, le
riduzioni delle risorse finanziarie del fondo per incrementi
di costi e di tempi operano, nella formulazione del testo
dei commi in esame, se i detti incrementi siano
“ingiustificati”. Tale generale previsione, che introduce
evidentemente una discrezionalità valutativa in capo
all’amministrazione, non risulta presente nel testo della
norma primaria (art. 113, comma 3, terzo periodo), che fa
riferimento esclusivamente a “eventuali incrementi dei tempi
o dei costi non conformi alle norme del presente decreto”.
Orbene, mentre non v’è dubbio sul fatto che rientrano tra i
tempi e i costi “conformi al presente decreto” (ossia al
decreto legislativo n. 50 del 2016) anche quelli stabiliti
“dai contratti, dai provvedimenti emessi dal dirigente della
struttura nel conferimento degli incarichi per l'esecuzione
delle attività di cui successivi articoli 5 e 6 e dai
provvedimenti emessi dal responsabile del procedimento”,
come esplicitato dal comma 2 dello schema di regolamento,
l’aggiunta dell’aggettivo qualificativo “non giustificati”
appare ridondante e apre la strada a una possibile
interpretazione ampliativa, tale da consentire
all’amministrazione la discrezionale valutazione, caso per
caso, al di là dei casi di ritardi nei tempi e di incrementi
nei costi ammessi dal decreto legislativo, anche altre
ipotesi “atipiche”.
Inoltre, tale sintetica formulazione non
consente di risolvere e di chiarire adeguatamente un
presupposto indefettibile della riducibilità dell’incentivo,
ossia la imputabilità degli incrementi almeno a titolo di
colpa ai dipendenti preposti alle attività tecniche.
L’esigenza che tutti questi aspetti siano adeguatamente
puntualizzati e definiti potrebbe utilmente essere
soddisfatta aprendo, in questa materia, un apposito spazio
alla contrattazione collettiva, cui andrebbe demandata la
definizione di criteri e modalità di accertamento di
siffatti presupposti, la cui variabilità ed eterogeneità mal
si presta, probabilmente, a una definizione in astratto e in
generale nella sede regolamentare, la quale dovrebbe
limitarsi a enunciare il criterio giuridico dell’addebitabilità
dei ritardi e degli incrementi dei costi, almeno a titolo di
colpa, al non regolare svolgimento di quelle attività
tecniche cui si ricollega l’attribuzione degli incentivi
della cui riduzione si tratta.
La fonte sindacale ben
potrebbe, tra l’altro, prevedere anche momenti concertativi
o di arbitraggio volti a dirimere eventuali controversie su
tali profili.
9.3. Comma 3. Secondo periodo. La disposizione per cui
“Nell'incremento dei costi non sono considerate le varianti
ai sensi dell'articolo 106, comma 1, lettere a), b), c), d)
ed e), del decreto legislativo” appare anch’essa ridondante
e, nell’introdurre una non utile specificazione ed esplicita
menzione di alcuni (soltanto) dei casi di possibile
incremento (dei tempi e dei costi) “conformi” al decreto
legislativo, potrebbe indurre un’interpretazione errata nel
senso di escludere altri casi, non menzionati nel
regolamento, ma pure “conformi” al decreto legislativo.
L’art. 106 del codice dei contratti pubblici reca una
complessa ed esaustiva disciplina della “Modifica di
contratti durante il periodo di efficacia”, prevedendo
analiticamente i diversi casi ammessi di modifica del
contratto e di varianti, anche in corso d’opera. Non può
escludersi che altre ipotesi di “modifica” (incrementale)
dei tempi di esecuzione e dei costi complessivi siano
disciplinate e ammesse dal codice del 2016 (e siano, dunque,
ad esso “conformi”).
Rispetto a questa complessa disciplina
–alla stregua della quale occorrerà valutare la conformità
o la non conformità degli incrementi di tempo e di costo
rispetto al decreto legislativo- appare preferibile, nel
caso in cui l’amministrazione intenda espressamente
escludere talune di tali fattispecie dal novero di quelle
“conformi” (e, dunque, non implicanti riduzioni sugli
incentivi), optare per una redazione del testo regolamentare
“in negativo”, che, cioè, fermo il rinvio alla disciplina
generale del codice di settore, eccettui motivatamente solo
talune ipotesi, sempre che tale eccezione risulti
adeguatamente motivata secondo criteri di razionalità,
proporzionalità e ragionevolezza.
9.4. Comma 5. La previsione del comma 5, in base alla quale
l'importo corrispondente alle riduzioni di cui ai commi 3 e
4 incrementa la quota del fondo (venti per cento) destinata
a usi dell’amministrazione non sembra trovare una base
autorizzativa idonea nella norma primaria. In mancanza di
una norma di rango primario che disponga in tal senso si
ritiene che tali riduzioni debbano andare in economia e non
possano essere destinate a incrementate altre voci di spesa.
10. Articolo 4.
10.1. Comma 1. Al secondo rigo va espunto, in quanto
inutile, l’avverbio “eventualmente” riferito alla delega del
direttore generale: è implicito che la delega è solo
eventuale.
10.2. Comma 3. Valuti l’amministrazione l’opportunità di
esplicitare l’effettuazione di adeguate misure di controllo
a campione sulle autocertificazioni del personale relative
al rispetto del limite dell’importo complessivo annuo lordo
degli incentivi percepiti nel corso dell'anno anche da altre
amministrazioni non superiore al 50 per cento del
trattamento economico. Appare poi utile aggiungere un
periodo diretto a recepire la nota giurisprudenza della
Corte dei conti (Sezione delle Autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6) in tema di non assoggettabilità di tali emolumenti al
tetto imposto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del
2017.
10.3. Comma 5. Valgono per questa previsione le osservazioni
già svolte supra a proposito del comma 5 dell’articolo 3
circa la mancanza di autorizzazione di legge allo storno,
qui previsto, a favore della quota del venti per cento
dell’amministrazione, delle quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, in
quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione, ovvero svolte da personale escluso
dall'incentivo ovvero relative ad attività per cui non è
intervenuto accertamento positivo ai sensi del comma 1,
nonché le quote eccedenti i limiti fissati dalla normativa
vigente in materia di trattamento economico.
11. Articoli 5, 6, 7.
11.1. Riguardo alla “misura del Fondo”, pur trattandosi, nel
limite del due per cento stabilito dalla legge, di scelta di
merito rimessa alla valutazione dell’Amministrazione, appare
necessario che siano meglio esplicitati e motivati, nelle
relazioni a corredo del provvedimento, i criteri seguiti
nella determinazione delle diverse misure prescelte in
rapporto agli importi dei lavori (e dei servizi e
forniture), avendo cura anche di chiarire se vi sono stati
scostamenti sostanziali rispetto al sistema previgente e se
tali misure siano congrue anche alla stregua di un comune
parametro di riferimento, che può utilmente orientare la
scelta dell’Amministrazione, costituito dalle quote
percentuali generalmente ammesse a fini analoghi nella
disciplina europea dei finanziamenti o co-finanziamenti
dell’Unione.
Si rammenta poi quanto indicato sub par. 7 a proposito
dell’art. 1, comma 4, dove si è suggerito di collocare la
previsione ivi contenuta e relativa al caso in cui siano
coinvolti fondi vincolati, nel secondo periodo del detto
comma 4 in un apposito comma seguente il comma 1 dell’art.
5.
I successivi commi stabiliscono le quote percentuali di
riparto del fondo tra i dipendenti che ne hanno diritto,
indicando, per ciascuna tipologia di attività, una
percentuale del fondo. La norma reca poi anche una quota di
riserva per i collaboratori. Nell’art. 7 si demanda, quindi,
al dirigente competente la ripartizione della percentuale
del fondo corrispondente a ciascuna categoria di attività
tra i soggetti aventi diritto che a quella tipologia di
attività hanno partecipato.
In tal modo non residua alcuno
spazio di determinazione delle modalità e dei criteri di
riparto del Fondo per la sede della contrattazione
decentrata integrativa del personale, che pure costituisce,
come chiarito nella premessa generale, l’atto-fonte proprio
indicato dalla norma primaria (comma 3 dell’art. 113) per la
articolazione di dettaglio di tali criteri e modalità “sulla
base di apposito regolamento”.
Il regolamento, dunque, in
linea, del resto, con la sua natura di atto-fonte
introduttivo di norme giuridiche e non di mere regole
tecniche di calcolo, dovrebbe limitarsi a stabilire il
criterio generale di indirizzo e orientamento per la
successiva articolazione di dettaglio delle modalità e dei
criteri al livello della contrattazione collettiva.
La
Sezione comprende le ragioni pratiche, verosimilmente
condivise dalla stessa rappresentanza sindacale (ma sul
punto le relazioni illustrative non forniscono elementi di
conoscenza utili), che consiglierebbero l’esaustività della
disciplina regolamentare, per evitare, a livello
applicativo, incertezze operative, eterogeneità di
comportamenti, possibili disparità di trattamento, eventuali
contenziosi.
È altresì noto che il modo di procedere dello
schema di regolamento qui in esame ripercorre il modello dei
precedenti regolamenti assunti sotto il previgente regime
giuridico. Nondimeno non può giudicarsi legittima una scelta
interpretativa che sostanzialmente vanifica e abroga la
scelta del legislatore del 2016, scelta chiara, ancorché per
certi versi opinabile o non condivisibile, di superare il
precedente modello, che faceva rifluire nel regolamento la
disciplina completa dell’istituto in recepimento della
contrattazione, e che impone un nuovo modello, per cui il
regolamento precede la contrattazione e la orienta.
Una
soluzione alla problematica qui segnalata potrebbe
consistere nell’eliminare l’elenco tipologico delle
categorie di attività, con annessa quota percentuale,
sostituendo tali previsioni di dettaglio con un enunciato
normativo di carattere generale, volto a stabilire il
criterio della rispondenza delle quote percentuali rispetto
al ruolo e alla rilevanza, nonché alla difficoltà
tecnico-amministrativa di ciascuna delle categorie
tipologiche, anche in relazione alle specificità del singolo
appalto, mantenendo un complessivo equilibrio di
proporzionalità nella suddivisione in quote.
La norma
regolamentare, quindi, potrebbe procedimentalizzare in
qualche modo la successiva specificazione di dettaglio a
livello di contrattazione decentrata, anche prevedendo, come
già suggerito a proposito dell’art. 3, in tema di riduzione
del fondo, luoghi e momenti di concertazione e di
arbitraggio consensuale di eventuali controversie.
In questo
quadro il potere del dirigente di suddivisione di ciascuna
quota tra i soggetti aventi diritto potrebbe essere
conservato, ma come atto sostanzialmente vincolato
all’applicazione dei criteri dettagliati in sede
contrattuale, non esclusa, al limite, una residua area di
valutazione discrezionale sul “contributo in concreto
apportato dai dipendenti coinvolti nella ripartizione”.
11.2. Più nel dettaglio, si deve segnalare il dubbio sulla
possibilità –ammessa nella attuale formulazione della
lettera g) del comma 3 dell’art. 5– di riconoscere
l’incentivo anche per il caso di certificazione di regolare
esecuzione, in luogo del collaudo tecnico-amministrativo.
Tale possibilità è stata revocata in dubbio nel già
ricordato
parere 16.03.2018 n. 121
del CGARS, relativo allo
schema di regolamento regionale, nei seguenti termini (par.
17.8): “Il comma 13 prevede l’incentivo, oltre che in caso
di collaudo o verifica di conformità, anche nel caso in cui
sia previsto in sostituzione il certificato di regolare
esecuzione. Si osserva che l’art. 113 del codice è di
stretta interpretazione e contempla tra le attività
incentivate solo il collaudo e la verifica di conformità, e
non anche i casi di modalità semplificate, vale a dire il
certificato di regolare esecuzione. Tale ultima attività non
forma oggetto di incentivazione e, pertanto, il comma 13
deve essere espunto”.
11.3. Si segnala, in ogni caso, anche in vista della
definizione degli accordi sindacali integrativi decentrati,
che la lettera h) dell’elenco del comma 3 dell’art. 5 e la
lettera g) del comma 4 dell’art. 6 appaiono “spurie”, sul
piano logico, rispetto all’elenco in cui si inseriscono,
poiché seguono un criterio “soggettivo” (la considerazione
dei soggetti coinvolti, i collaboratori) in luogo del
criterio “oggettivo” di riparto del fondo in quote
percentuali relative alle singole tipologie di attività
tecniche.
Sarebbe pertanto più corretto collocare questa
previsione in una disposizione a sé stante (un autonomo
comma o un autonomo periodo), anziché in un’ulteriore classe
tipologica che si aggiunge a quelle (riferite in realtà
all’oggetto, ossia al tipo di attività svolta) elencate nei
commi 3 e 4 in esame (la previsione potrebbe essere del
seguente tenore: “Ai dipendenti che collaborano direttamente
nello svolgimento delle funzioni di cui al comma 3, esclusi
quelli specificamente rientranti nell'ufficio di direzione
dei lavori, spetta una quota non superiore al X% -eventualmente 10%- di quella prevista per la relativa
tipologia di attività tra quelle indicate nel predetto comma
3. L'importo percepito dal singolo collaboratore non può
essere superiore al 70% dell'importo percepito dal
responsabile delle attività di cui alle lettere
precedenti”).
Questa diversa formulazione appare anche più
efficace sul piano dell’applicazione pratica, poiché essa
implica non già una riserva percentuale sull’intero fondo
(dieci per cento, nel testo proposto) in favore dei
collaboratori, indipendentemente del settore di attività in
cui hanno operato, ma consente più razionalmente una riserva
(se del caso, nella stessa percentuale del dieci per cento)
a favore dei collaboratori all’interno di ciascuna voce
percentuale di attività, tra quelle elencate nel comma 3.
12. Articolo 9.
Suscita perplessità la scelta, non adeguatamente motivata
nelle relazioni illustrativa e tecnica, di anticipare
l’applicabilità della nuova disciplina recata dal
regolamento in esame già agli appalti banditi dopo l’entrata
in vigore del codice dei contratti pubblici, ossia a
procedure nate (in sostanza) nella seconda metà del 2016. Si
introduce una sorta di retroattività della nuova disciplina,
che non trova in realtà riscontro nel pure invocato articolo
216 del decreto legislativo, che ha invece previsto una
generale continuità applicativa degli atti regolamentari
adottati in base al d.lgs. n. 163 del 2006.
L’amministrazione giustifica questa scelta sostenendo che
essa mira «a consentire l'erogazione del compenso in
relazione ad attività incentivabili svolte prima
dell'emanazione del regolamento e ricadenti nell'ambito
temporale dell'articolo 216 a condizione che il Fondo sia
già stato costituito e le relative risorse siano già state
accantonate».
La Sezione ben conosce l’ampio dibattito che
si è innestato, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice,
sul tema se fosse o meno possibile applicare il nuovo regime
alle procedure di appalto avviate dopo l’entrata in vigore
del codice stesso, pur in mancanza dei (non ancora adottati)
regolamento e accordi sindacali in sede decentrata (cfr.
Corte conti, sez. contr. Piemonte,
parere 09.10.2017 n. 177:
“in materia d'incentivi per funzioni svolte dai dipendenti
tecnici … i regolamenti attuativi adottati dall'ente non
possono avere effetti retroattivi e la loro adozione è
necessaria per distribuire gli incentivi fra i dipendenti
tecnici. Se, tuttavia, l'ente ha provveduto ad accantonare
le risorse economiche sulla base della norma di legge, è
possibile con regolamento disciplinare la distribuzione
delle risorse anche in relazione ad attività incentivabili
svolte prima dell'emanazione del regolamento purché sussista
uniformità fra la disciplina normativa circa
l'accantonamento e quella sulla distribuzione delle
risorse”; l’ANAC, per parte sua, con il
comunicato del Presidente 06.09.2017, recante “Chiarimenti in
ordine all’applicabilità delle disposizioni normative in
materia di incentivi per le funzioni tecniche”, sembra
consentire che: “… le disposizioni di cui all’art. 113 del
nuovo codice dei contratti si applicano alle attività
incentivate svolte successivamente all’entrata in vigore del
Codice”, anche se sulla base di contratti banditi secondo la previgente disciplina).
In linea con quanto suggerito nel
ripetuto
parere 16.03.2018 n. 121
del CGARS, si ritiene
conclusivamente che occorrerà integrare l’art. 9 nei
seguenti termini: “Il presente regolamento trova
applicazione per le attività riferibili a contratti le cui
procedure di affidamento sono state avviate successivamente
alla data di entrata in vigore del codice dei contratti
pubblici, anche se avviate prima dell’entrata in vigore del
presente regolamento, a condizione che le stazioni
appaltanti abbiano già provveduto ad accantonare le risorse
economiche nel rispetto dell’art. 113 del decreto
legislativo”.
12. Articolo 10.
12.1. La previsione dell’entrata in vigore del regolamento
il trentesimo giorno successivo alla sua pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale deroga inammissibilmente, in mancanza di
idonea autorizzazione in tal senso nella norma primaria, al
disposto dell’art. 10 delle preleggi, che definisce l’inizio
dell'obbligatorietà delle leggi e dei regolamenti (Le leggi
e i regolamenti divengono obbligatori nel decimoquinto
giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo
che sia altrimenti disposto, dove tale ultimo inciso -salvo
che sia altrimenti disposto– è interpretato di regola nel
senso che tale diversa disposizione spetta a una fonte di
pari forza innovativa dell’ordinamento giuridico: si vedano
anche le analoghe considerazioni contenute nel par. 24.3 del
parere 16.03.2018 n. 121
del CGARS).
12.2. Manca, infine, la –forse necessaria– previsione di
espressa abrogazione del previgente d.m. 20.04.2000, n.
134, recante il Regolamento recante norme per la
ripartizione dell'incentivo economico di cui al comma 1
dell'articolo 18 della L. n. 109/1994 e successive modifiche
ed integrazioni (da notare che l’ora richiamato regolamento
del 2008 conteneva, invece, correttamente, nell’art. 8, la
previsione di abrogazione dell’antecedente decreto del
Ministro della giustizia 20.04.2000, n. 134, pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 25.05.2000).
13. In conclusione,
considerata la particolare rilevanza
delle tematiche sollevate dallo schema di regolamento in
esame, anche per le considerazioni svolte in premessa, viste
le plurime integrazioni e modificazioni richieste, sia nel
testo dell’articolato, sia riguardo alle relazioni
amministrative e tecniche esplicative a corredo del
documento, la Sezione ritiene di esprimersi in questa sede
in via interlocutoria, riservandosi una finale e conclusiva
valutazione sulla base di testi adeguatamente riformulati
alla luce delle indicazioni contenute nel presente parere.
P.Q.M.
Pronunciando in via interlocutoria, rinvia al Ministero
della giustizia per delle le integrazioni richieste e per
l’acquisizione dei documenti e chiarimenti sopra specificati (Consiglio
di Stato, Sez. consultiva,
parere 11.10.2018 n. 2324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
OGGETTO: Assessorato regionale delle infrastrutture e
della mobilità - Schema di “Regolamento recante norme per la
ripartizione degli incentivi da corrispondere al personale
dell'Amministrazione regionale ai sensi dell'art. 113 del
decreto legislativo 18.07.2016, n. 50, recepito nella
Regione Siciliana con legge regionale 12.07.2011, n. 12,
come modificata dall'art. 24 della legge regionale
17.05.2016, n. 8” (CGARS,
parere 16.03.2018 n. 121 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Premesso e considerato
Gli atti trasmessi
1. Insieme alla sopra citata nota dell’Assessore delle
infrastrutture e della mobilità (nel prosieguo: Assessore) è
pervenuta alla sezione la seguente documentazione:
- la nota intitolata “Promemoria per l’On. Assessore” (d’ora in
poi: Promemoria);
- la nota n. 58324 del 03.12.2014 della Segreteria Generale
della Presidenza della Regione Siciliana;
- il verbale di contrattazione sindacale del 25.09.2017;
- lo schema di regolamento, nella versione già modificata a seguito
della contrattazione decentrata integrativa tenutasi in data
25.09.2017;
- e, infine, lo schema di decreto presidenziale di emanazione del
regolamento.
Successivamente è stato trasmesso il parere, prot. n.
2025/328.04, del 26.01.2018, reso dall’Ufficio
legislativo e legale (di seguito: ULL).
2. Nel promemoria, che può essere considerato alla stregua
di una relazione di accompagnamento allo schema di decreto,
si riferisce, tra l’altro, quanto segue.
Con l'art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. 18.04.2016, n.
50 sono state fissate le modalità di costituzione e gestione
del "fondo risorse finanziarie" per le funzioni tecniche
svolte dai dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici
esclusivamente per lo svolgimento delle attività elencate
nel comma 2 del medesimo articolo.
Già con la predetta nota n. 58324 del 03.12.2014, con
riferimento al precedente assetto normativo di cui al d.lgs.
12.04.2006, n. 163, la Segreteria Generale della
Presidenza della Regione aveva suggerito la predisposizione
di un atto regolamentare unico per tutta l'Amministrazione
regionale, i cui criteri potessero costituire linee guida
per gli enti di cui all'art. 2 della l.r. 12.07.2011, n.
12 presenti nel territorio della Regione stessa.
Stante la natura del provvedimento, esso dovrebbe rivestire
la forma di un regolamento regionale.
L’attività istruttoria compiuta
3. Lo schema di regolamento è stato predisposto sulla
falsariga del precedente regolamento adottato ai sensi
dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, emanato con decreto
presidenziale 05.12.2016, n. 3, pubblicato nella G.U.R.S. n. 8 del 24.02.2017, ed è stato sottoposto al
parere delle Organizzazioni sindacali, come previsto dal
comma 3 dell'art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
nella riunione del 25.09.2017.
Su detto schema di regolamento è stato acquisito il parere
di competenza dell'ULL. L’ULL ha indicato alcune
integrazioni o rettifiche da apportare al testo, recepite
nella versione inviata a questo Consiglio.
Il contenuto dello schema di regolamento
4. Lo schema di regolamento si compone di 10 articoli, così
rispettivamente rubricati: art. 1 (Ambito d'applicazione e
definizione), art. 2 (Destinazione delle somme per gli
incentivi), art. 3 (Costituzione e quantificazione delle
somme degli incentivi per attività tecniche), art. 4
(Ulteriori spese tecniche da prevedere nei quadri
economici), art. 5 (Personale partecipante alla ripartizione
delle somme per gli incentivi - Procedure), art. 6 (Onorari,
distribuzione e ripartizione delle somme per gli incentivi),
art. 7 (Sostituzione delle figure professionali e
amministrative), art. 8 (Termine per le prestazioni), art. 9
(Penalità), art. 10 (Disposizioni transitorie e finali).
Completano il regolamento due allegati, “A” e “B”, dedicati
rispettivamente agli appalti di lavori e a quelli di servizi
e forniture.
Il quadro normativo di riferimento
5. Come sopra riferito, lo schema di regolamento è stato
predisposto sulla base dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (d’ora innanzi anche: codice dei contratti
pubblici o codice), rubricato “Incentivi per funzioni
tecniche”, come corretto dal Comunicato del 15.07.2016,
pubblicato nella G.U.R.I. 15.07.2016, n. 164 e,
successivamente, modificato, nella parte qui d’interesse,
dall'art. 76, comma 1, lett. a), b) e c), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (c.d. “correttivo”).
I primi tre commi del sunnominato art. 113 dispongono: “1.
Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei
lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza,
ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche
di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle
ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza
e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in
fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto
legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni
professionali e specialistiche necessari per la redazione di
un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di
lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della
spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le
amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito
fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture,
posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di
programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti
pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da
parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali
sono in essere contratti o convenzioni che prevedono
modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche
svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o
si avvalgono di una centrale di committenza possono
destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale
centrale. La disposizione di cui al presente comma si
applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso
in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione.
L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore
stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non
conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.”.
6. L’art. 24 della l.r. 17.05.2016, n. 8 (Disposizioni
per favorire l'economia. Norme in materia di personale.
Disposizioni varie.), rubricato “Modifiche alla legge
regionale 12.07.2011, n. 12 per effetto dell'entrata in
vigore del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”, ha,
per l’appunto, modificato la l.r. n. 12/2011 (Disciplina dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
Recepimento del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e
successive modifiche ed integrazioni e del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 e successive modifiche ed integrazioni.
Disposizioni in materia di organizzazione
dell'Amministrazione regionale. Norme in materia di
assegnazione di alloggi. Disposizioni per il ricovero di
animali.).
Il suddetto art. 24, al comma 1, ha disposto che il comma 1
dell'art. 1 della l.r. n. 12/2011 fosse sostituito, a
decorrere dal 24.05.2016 (ai sensi di quanto stabilito
dall'art. 32, comma 1, della medesima legge), dal seguente:
"1. A decorrere dall'entrata in vigore del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, si applicano nel
territorio della Regione le disposizioni in esso contenute e
le successive modifiche ed integrazioni nonché i relativi
provvedimenti di attuazione, fatte comunque salve le diverse
disposizioni introdotte dalla presente legge." E, al comma
4, che: “Tutti i riferimenti al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive modifiche ed integrazioni,
contenuti nella legge regionale n. 12/2011 e nel D.P.Reg. 31.01.2012, n. 13, si intendono riferiti alle omologhe
disposizioni previste dal decreto legislativo n. 50/2016 e
dai relativi provvedimenti di attuazione.”.
A seguito della riportata novella l’art. 1 della l.r. n.
12/2011, quindi, attualmente prevede: “1. A decorrere
dall'entrata in vigore del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, si applicano nel territorio della Regione le
disposizioni in esso contenute e le successive modifiche ed
integrazioni nonché i relativi provvedimenti di attuazione,
fatte comunque salve le diverse disposizioni introdotte
dalla presente legge.
2. I riferimenti al "Bollettino Ufficiale della Regione" e
alla "Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana"
contenuti nel decreto legislativo n. 163/2006 devono
intendersi riferiti alla "Gazzetta Ufficiale della Regione
siciliana"; nel caso di riferimenti ad organi ed istituzioni
statali deve farsi riferimento ai corrispondenti organi ed
istituzioni regionali.
3. Sono fatti salvi l'articolo 3 della legge regionale 21.08.2007, n. 20, e l'articolo 7 della legge regionale
03.08.2010, n. 16.”.
7. Deve ritenersi che le riferite fonti regionali abbiano
effettuato un pieno rinvio mobile alla disciplina statale
contenuta nel d.lgs. n. 50/2016 e alle successive modifiche
ed integrazioni di esso, nonché ai relativi provvedimenti di
attuazione, fatte salve solo le diverse disposizioni
introdotte dalla l.r. n. 12/2011, la quale, tuttavia, non
contiene norme derogatorie al predetto art. 113 del codice.
Tale ultima disposizione deve dunque considerarsi il
parametro legislativo di riferimento dello schema di
regolamento in esame.
Evidenzia e rafforza il rinvio mobile alla disciplina
statale il comma 4 dell’art. 1 dello schema in esame,
secondo cui ogni richiamo al codice e successive modifiche e
integrazioni si debba intendere implicitamente esteso alle
correlate linee guida emanate dall'Autorità Nazionale
Anticorruzione ed ai decreti ministeriali di attuazione.
8. Giova aggiungere, per completezza del quadro normativo,
che sull’oggetto dello schema fu adottato in pregresso, come
già anticipato, il d.P.Reg. 05.12.2016, n. 3, recante
il “Regolamento recante norme per la ripartizione degli
incentivi di cui all'art. 93, commi 7-bis e 7-ter, del
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recepito nella
Regione siciliana con legge regionale 12.07.2011, n.
12”, in relazione al cui schema questa Sezione rese,
nell’adunanza del 07.07.2015, il
parere
02.09.2015 n. 770.
Osservazioni di carattere generale
9. Il Collegio ritiene che l’atto di cui allo schema in
esame presenti tutti requisiti, formali e sostanziali, di un
atto regolamentare.
Sul piano formale, è esplicita la lettera del comma 3
dell’art. 113 del codice che rinvia a un “regolamento”.
Sul versante sostanziale non è dubbio che il futuro
provvedimento, una volta entrato in vigore, sarà provvisto
del carattere dell’innovatività, sarà cioè idoneo a
modificare l’ordinamento giuridico, attraverso
l’introduzione di norme generali e astratte, in grado di
creare obblighi in capo alle amministrazioni e correlative
situazioni giuridiche soggettive di pretesa nella sfera
giuridica dei destinatari delle incentivazioni. Da ciò
consegue, pertanto, sul crinale procedimentale, che il
provvedimento dovrà essere adottato dal Presidente della
Regione Siciliana, previa deliberazione della Giunta, a
seguito del parere obbligatorio (il presente) di questo
Consiglio, per esser poi sottoposto al controllo della Corte
dei conti, siccome previsto dall'art. 2, comma 1, lett. a),
n. 1), del d.lgs. 06.05.1948, n. 655 (Istituzione di
Sezioni della Corte dei conti per la Regione siciliana),
come sostituito dall'art. 2 del d.lgs. 18.06.1999, n.
200, secondo cui la sezione regionale di controllo della
Corte dei conti, esercita, tra l’altro il controllo di
legittimità sui regolamenti emanati dal governo regionale.
10. Con riferimento alla documentazione istruttoria
pervenuta si registra la mancanza della una relazione
tecnico-finanziaria, della relazione di analisi di impatto
della regolamentazione (AIR) e della relazione di analisi
tecnico-normativa (ATN).
Dalla prima, nel caso di specie, può prescindersi dal
momento che gli effetti economici, finanziari e contabili
del provvedimento sono stati considerati e valutati ex ante
dalla norma di rango primario attuata, dal momento che
l’art. 113, commi 1 e 2, codice, ha stabilito che gli
incentivi per le funzioni tecniche siano destinati a valere
sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori,
servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o
nei bilanci delle stazioni appaltanti.
Sennonché, in linea generale, il vaglio consultivo,
preventivo e obbligatorio, di questo Consiglio si estende a
ogni aspetto della legittimità di uno schema di regolamento
e, quindi, ferme restando le specifiche competenze della
Corte dei conti, l’amministrazione richiedente il parere
deve rappresentare anche le conseguenze
economico-finanziarie di ogni intervento regolatorio, onde
consentire alla Sezione una valutazione completa in
relazione a ogni profilo di rilievo, anche tenuto conto di
quanto stabilito dall’art. 97 Cost.
Altrettanto importanti sono le relazioni AIR e ATN: la prima
-oltre a dar conto dell’istruttoria compiuta, anche tramite
lo strumento delle consultazioni pubbliche- è diretta a
stimare gli effetti attesi e gli obiettivi perseguiti con un
atto normativo, una volta scartata la c.d. “opzione zero”;
la seconda è volta ad offrire una panoramica di contesto
costituzionale, unionale, normativo e giurisprudenziale. La
fondamentale importanza dell’AIR, ai fini di un esercizio
consapevole ed efficace della potestà normativa, è stata
ampiamente approfondita nel parere della Sezione consultiva
per gli atti normativi del Consiglio di Stato n. 1458/2017 e
a quel parere si rinvia; l’ATN, di specifica utilità per
l’esame delle questioni giuridiche intercettate dai nuovi
interventi normativi e in grado di concorrere all’incremento
del complessivo grado di certezza del diritto, assumerebbe
un particolare valore nell’ambito dell’ordinamento giuridico
siciliano, stante la peculiare e vasta autonomia che lo
Statuto riconosce al Legislatore e al Regolatore regionali.
Si esprime, dunque, in questa sede l’auspicio che, in
futuro, la Presidenza della Regione Siciliana e gli
Assessorati proponenti, anche eventualmente avvalendosi
dell’ULL, corredino le richieste di parere con le relazioni
sunnominate, riservandosi la Sezione l’esercizio della
potestà di interruzione del termine per l’espressione del
parere nelle ipotesi in cui la mancata allegazione di dette
relazioni dovesse dar luogo a gravi lacune istruttorie degli
schemi trasmessi per il parere.
11. Con riferimento all’istruttoria compiuta, si osserva in
via generale che nell’ambito applicativo del futuro
regolamento risultano inclusi anche gli appalti relativi a
beni culturali, nonché gli appalti di servizi e forniture,
ossia l’atto normativo sembra destinato a trovare
applicazione anche ad appalti rientranti nella competenza di
Assessorati diversi da quello delle infrastrutture. Non è
dato comprendere, tuttavia, sulla base della documentazione
pervenuta (e anche a cagione della mancanza delle relazione
AIR; v. supra) se nel corso dell’istruttoria siano stati
coinvolti tutti gli Assessorati che potrebbero svolgere
compiti di stazione appaltante e il cui personale svolga
funzioni tecniche incentivate ai sensi del ridetto art. 113
del codice.
Nemmeno consta se vi sia stato l’interessamento della
centrale unica di committenza regionale e dell’ufficio
regionale di gara, il cui apporto istruttorio acquista
rilevanza in considerazione delle regole di partecipazione
all’incentivo di cui all’art. 113 del codice dei dipendenti
delle centrali di committenza cui si rivolga una stazione
appaltante.
La Sezione auspica, dunque, il coinvolgimento di detti
Organi qualora sia mancato.
12. Più nello specifico, quale ulteriore osservazione di
carattere generale, si segnala che la disciplina
dell’incentivo dell’art. 113 del codice non è riferita solo
agli appalti, ma più in generale ai contratti aventi ad
oggetto lavori, servizi, forniture. Nell’ambito dello schema
di regolamento, però, talora si fa riferimento ai contratti
(v. l’art. 1, comma 2), più spesso ai soli appalti (v.
l’art. 2, ultimo inciso; l’art. 3, commi 1 e 3; art. 10,
comma 1). Per esigenze di uniformità e di coerenza con la
fonte statale, occorre allora sostituire nell’intero testo
le parole “appalti” e “appalto” con “contratti” e
“contratto”.
13. Si rileva poi che gli allegati A e B, pur assolvendo a
un’importante funzione al fine della distribuzione delle
somme destinate agli incentivi, sono pressoché completamente
ignorati dal testo regolamentare, fatta eccezione per una
fugace menzione nel comma 3 dell’art. 6 (nella versione
dello schema pervenuta alla Sezione). Ritiene, invece, il
Collegio che essi meritino dignità normativa, in quanto essi
integrano il disposto su richiamato e perché conferiscono
compiutezza regolatoria alla disciplina. Si suggerisce,
pertanto, di inserire nell’articolato una previsione che
chiarisca che gli allegati sono parte integrante del
regolamento.
14. Quale ultima osservazione di carattere generale, il
Collegio rileva che l’art. 14, lett. p) e q), dello Statuto
d’autonomia ha attribuito alla potestà legislativa esclusiva
della Regione Siciliana le materie dell’ordinamento degli
uffici e degli enti regionali e dello stato giuridico ed
economico degli impiegati e funzionari della Regione. Tale
richiamo si rende necessario onde chiarire che le previsioni
estranee al perimetro contenutistico dello schema di
regolamento, siccome delimitato dall’art. 113 del codice
(v., infra, gli artt. 4, 5 e, in parte, 7 del testo inviato
dall’Assessore), e talune soluzioni imposte dal medesimo
dettato della fonte primaria dell’art. 113 del codice (non
tutte riconducibili alla materia concorrenza e ordinamento
civile, e almeno in parte riconducibili alla materia del
trattamento economico dei pubblici impiegati: v., ad
esempio, infra, in tema di collaborazioni o il tema
dell’ambito soggettivo dell’art. 113 del codice, da cui sono
esclusi i dirigenti e i progettisti) potranno essere
eventualmente recuperate o riesaminate nell’ambito di un
rinnovato esercizio di potestà normativa regionale, fatto
salvo il rispetto delle competenze legislative esclusive
spettanti allo Stato.
Osservazioni sui singoli articoli dello schema di
regolamento
Art. 1
15. L’art. 1 individua la base legislativa (ossia il già
citato art. 113, commi 2 e 3, del codice) e indica l’oggetto
del regolamento nella fissazione delle modalità e dei
criteri di ripartizione delle quote parti delle risorse
finanziarie del fondo di cui al comma 2 dell'art. 113 del
codice, previste dal comma 3 del medesimo articolo,
prevedendo che esso si applichi al personale non
dirigenziale in servizio presso l'Amministrazione regionale
e, in conformità del comma 2 dell’art. 113 sunnominato, per
le funzioni tecniche svolte dai dipendenti della stessa
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
Al fine di scongiurare il rischio di una elusione della
normativa regolamentare il comma 3 dell’articolo in esame
prevede, come già stabiliva l’art. 1, comma 3, del
sunnominato d.P.Reg. n. 3/2016, che ogni autorizzazione
eventualmente rilasciata al personale regionale al fine di
rendere prestazioni su incarico di altre stazioni appaltanti
o enti pubblici deve essere subordinata all’applicazione dei
criteri che saranno stabiliti dal futuro regolamento.
15.1. Dal punto di vista redazionale, considerato il
contenuto della disposizione, appare preferibile eliminare
dalla rubrica le parole “e definizione”.
15.2. Posto che l’art. 1 è dedicato alla perimetrazione
dell’ambito di applicazione del regolamento, si ravvisa la
necessità logica di ricondurre alla previsione alcune
disposizioni ora inserite in altri articoli e, segnatamente,
negli artt. 3 e 10 dello schema in oggetto.
15.3. Anzitutto, nel comma 1, va precisato l’ambito di
applicazione come ora definito nell’art. 10, comma 1, dello
schema (che, al contempo, delinea l’ambito di applicazione e
il regime transitorio), prevedendo che il regolamento
riguarda i contratti nei settori ordinari e dei beni
culturali. Conseguentemente, in conformità all’osservazione
di carattere generale sopra svolta, la parola “appalti”,
attualmente contenuta nel comma 1 dell’art. 10 e da spostare
nel comma 1 dell’art. 1, va sostituita con “contratti”. Per
l’effetto nell’art. 1, comma 1, vanno aggiunte infine, dopo
le parole “2016, n. 8”, le parole “e disciplina i contratti
relativi a lavori, servizi e forniture, nei settori
ordinari, ivi inclusi quelli relativi ai beni culturali,
affidati dalla Regione Siciliana”.
15.4. Tenuto conto poi del paradigma legislativo
rappresentato dall’art. 113 del codice, occorre inserire,
alla fine del comma 2 dell’art. 1 dello schema di
regolamento, l’ultimo periodo del suddetto art. 113, comma
2, secondo cui: “La disposizione del presente comma si
applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso
in cui è nominato il direttore dell’esecuzione.”. Per
l’effetto, devono essere espunte dall’art. 3, comma 10, del
medesimo schema le parole: “e, per gli appalti di servizi o
forniture, solo nel caso in cui sia nominato il direttore
dell’esecuzione”.
15.5. Ancora, sempre allo scopo di concentrare nell’art. 1
tutte le disposizioni relative alla definizione dell’ambito
applicativo del futuro regolamento, debbono essere inseriti,
rispettivamente come commi 4 e 5 (con la conseguenza che
l’attuale comma 4 diverrà il comma 6), il comma 2 dell’art.
10 (“Il presente regolamento non si applica qualora siano in
essere contratti o convenzioni che prevedono modalità
diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte
dai dipendenti”) e il secondo periodo dell’attuale comma 4
del medesimo art. 10, che ora recita: “I criteri individuati
costituiscono linee guida per gli enti di cui all’art. 2
della legge regionale 12.07.2011, n. 12 e successive
modifiche e integrazioni”.
15.6. A quest’ultimo proposito, va, nondimeno, osservato che
il periodo dovrà essere così riformulato: “I criteri
individuati nel presente regolamento costituiscono linee
guida per le amministrazioni aggiudicatrici aventi sede
nella Regione Siciliana”. Ed invero, questa Sezione ha già
osservato, nel
parere
24.10.2017 n. 885 (reso nell’adunanza del 17.10.2017 su un quesito in ordine al pagamento
dell’incentivo di progettazione di cui all’art. 92, commi 5
e 6, del d.lgs. n. 163/2006), che il regolamento
disciplinante l’incentivo di progettazione va “adottato da
ciascuna amministrazione-stazione appaltante, recependo
gli accordi raggiunti in sede di contrattazione collettiva
decentrata per ciascuna amministrazione” ed esso “si applica
al solo personale dipendente dalla amministrazione–stazione appaltante che lo adotta”; pertanto il regolamento,
di cui allo schema in esame, potrà valere, per le
amministrazioni diverse dalla Regione, come linee-guida (non
vincolanti), e in tal senso la previsione regolamentare
proposta va condivisa.
15.7. Tuttavia si rivela erroneo il rinvio generalizzato a
tutti gli enti di cui all’art. 2 della l.r. n. 12/2011,
ancorché tal genere di rimando sia contenuto anche nel
vigente regolamento, ossia nell’ultimo periodo del comma 3
dell’art. 10 del d.P.Reg. 05.12.2016, n. 3. Infatti
l’art. 2 della l.r. n. 11/2012, nell’individuare le stazioni
appaltanti, fa riferimento anche agli enti privati che
fruiscono di finanziamento pubblico. Sennonché l’art. 113
del codice non si applica ai soggetti privati che fruiscono
di finanziamento pubblico: questi, invero, sono sottoposti
al rispetto delle regole di evidenza pubblica, ma non alle
disposizioni sull’incentivazione del personale pubblico (v.,
sul punto, l’art. 1, comma 3, del codice).
Da ciò consegue
che la proposta riformulazione del periodo normativo in
parola è corretta sul piano del rapporto tra le fonti
normative e, al contempo, consente di perseguire l’obiettivo
avuto di mira, volto ad attribuire al regolamento –che
risulta applicabile in via diretta solo al personale
dipendente dalla Regione– anche il valore di linee guida
per le altre stazioni appaltanti pubbliche siciliane. Si
osserva che, nella riformulazione proposta, si menzionano
solo le amministrazioni aggiudicatrici e non anche gli enti
aggiudicatori, in quanto l’art. 113 non si applica nei
settori speciali (non essendo richiamato dall’art. 114,
comma 8, del codice).
Art. 2
16. L’art. 2 dello schema individua il personale al quale
destinare gli incentivi e le attività incentivate. In
particolare, è usata, nel secondo periodo (che dovrebbe
esser trasformato in un comma 2), la locuzione “Le somme
sono ripartite tra le figure professionali incaricate dello
svolgimento delle seguenti attività”, cui segue una
elencazione tendenzialmente, ma non esattamente (v. infra),
coincidente con le attività di cui all’art. 113, comma 2,
del codice.
16.1. Si osserva, tuttavia, che l’art. 113 del codice,
rubricato non a caso “(i)ncentivi per funzioni tecniche”,
prevede, al comma 2, che l’incentivo spetta, per l’appunto,
per lo svolgimento di “funzioni tecniche”.
Si deve perciò escludere che l’incentivo possa essere
attribuito, con l’eccezione delle collaborazioni
(v. infra), a dipendenti
che svolgano compiti di tipo amministrativo e non tecnico.
Occorre perciò modificare l’incipit del secondo periodo,
futuro comma 2, dell’articolo in esame, come segue: “Le
somme sono ripartite tra i dipendenti che svolgono funzioni
tecniche esclusivamente nell’ambito delle seguenti
attività”.
16.2. Si è poi accennato alla circostanza che l’elencazione
delle attività beneficiate non coincide esattamente con
quella contenuta nell’art. 113, comma 2, del codice. Più in
dettaglio, onde evitare incertezze esegetiche, è opportuno
riformulare il richiamo al “collaudo statico” nei termini,
restrittivi, stabiliti dal predetto comma 2 dell’art. 113
del codice e dallo stesso art. 1, comma 2, dello schema di
regolamento (in fine).
16.3. Inoltre, tra le attività incentivate il regolamento,
nel periodo in esame, include anche la “collaborazione alle
attività di responsabile del procedimento e di direzione
dell’appalto”. La previsione è corretta, giacché
l’incentivazione dei collaboratori è contemplata anche
dall’art. 113, comma 3, del codice, ma va estesa, in
coerenza con il citato art. 113, comma 3, ai collaboratori
di tutti i soggetti che svolgano funzioni tecniche, senza
distinzione, dunque tra collaborazione tecnica e
amministrativa, mentre ora essa è circoscritta ai
collaboratori solo del responsabile del procedimento e del
direttore dell’appalto.
Si propone pertanto la seguente riformulazione: “-
collaborazione alle attività del responsabile del
procedimento e degli altri soggetti che svolgono le funzioni
tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del codice dei
contratti pubblici.”.
16.4. Sul piano formale si suggerisce di sostituire i
trattini dell’elenco di attività con le lettere
dell’alfabeto.
Art. 3
17. L’art. 3 contiene le norme:
(i) sulla costituzione del
fondo su cui far confluire le risorse finanziarie (non
superiori al 2 per cento degli importi posti a base di gara,
compresi gli oneri per la sicurezza),
(ii) sulle regole da
seguire in caso di contratti misti, sulle percentuali
graduate in base all’entità, rispettivamente, dei lavori e
dei servizi e forniture da affidare,
(iii) sulla modalità di
applicazione, per scaglioni, delle scale di percentuali,
(iv)
sulle condizioni per l’erogazione degli incentivi e,
(v)
infine, sull’individuazione dei soggetti che partecipano
alla ripartizione del fondo.
17.1. Come già osservato in via generale, ogni riferimento
agli “appalti” (nei commi 1, 3, 5 e 10), va sostituito con
il riferimento ai “contratti”, con la conseguenza che
divengono superflue, e quindi vanno eliminate nel comma 1,
le parole: “come definiti alle lettere ll), ss), tt)
dell’art. 3 del Codice dei contratti pubblici”.
17.2. Sempre nel comma 1, non è chiaro perché venga operato
il rinvio ai soli commi 5 e 6 (che riguardano i lavori) e
non anche ai successivi commi 7 e 8 del medesimo art. 3 (che
concernono i servizi e le forniture): bisogna, allora,
integrare il rinvio con l’aggiunta anche dei commi 7 e 8.
17.3. Ancora nel comma 1, al fine di quantificare la base di
calcolo dell’incentivo (l’importo a base di gara), si
intende che l’importo a base di gara computato secondo i
criteri di cui all’art. 35 del codice e dunque al netto
dell’IVA. A tal fine nel comma 1 le parole “degli importi
posti a base di gara, compresi gli oneri di sicurezza” vanno
sostituite con le parole “degli importi posti a base di
gara, al netto dell’IVA, e compresi gli oneri di sicurezza”.
17.3. Il comma 3 indica i criteri di quantificazione e
attribuzione dell’incentivo in caso di appalti misti. In
primo luogo va ribadito che si deve far riferimento ai
contratti, dal momento che il codice contempla diverse
ipotesi di negozi misti (v., ad esempio, gli artt. 28, 160 e
169). Contrasta poi con il principio di gerarchia delle
fonti l’introduzione, nel comma 3 dell’articolo in esame, di
una definizione di appalti misti differente da quella
dettata dal succitato art. 28 del codice, recepito in
Sicilia in virtù del sopra richiamato art. 24 della l.r. n.
8/2016, giacché la l.r. n. 12/2011 non reca alcuna diversa
disciplina dei contratti misti. D’altra parte nemmeno si
presenta immediatamente percepibile il significato giuridico
della locuzione, contenuta nel comma 3, secondo cui
“l’incentivo di cui al comma 2 è corrisposto facendo
riferimento ai corrispondenti importi appositamente
specificati nel progetto”.
Dal momento che, sul piano logico, occorre anzitutto
stabilire come si quantificano le somme da destinare al
fondo in caso di contratti misti, e che, solo dopo, si può
stabilire come si corrispondano le somme qualora il
beneficiario svolga attività riconducibili solo a lavori,
servizi, o forniture, o a tutte le tipologie, si propone di
riformulare il comma 3, come segue: “In caso di contratti
misti, le risorse da destinare al fondo di cui al comma 1
sono quantificate secondo i criteri di cui ai commi 5, 6, 7
e 8 facendo riferimento agli importi indicati a base di gara
distintamente per i lavori, i servizi, le forniture; in
difetto di indicazione distinta, il contratto si qualifica
secondo l’oggetto principale ai sensi dell’art. 28, comma 1,
del codice dei contratti pubblici, ai fini dell’applicazione
dei commi 5 e 6 ovvero dei commi 7 e 8 del presente
articolo; le somme da destinare agli incentivi ai sensi dei
commi 6 e 8 sono corrisposte sulla base dell’attività
effettivamente svolta dal soggetto incentivato e, in caso di
attività non scindibili riconducibili sia ai lavori sia ai
servizi sia alle forniture, secondo l’oggetto principale
dell’attività svolta”.
17.4. In relazione al comma 5, si osserva che il regolamento
esclude dall’incentivazione gli interventi di manutenzione
ordinaria. Tuttavia, secondo una consistente giurisprudenza
della Corte dei conti relativa anche alla disciplina
dell’art. 113 del codice, sono esclusi dall’incentivazione
anche gli interventi di manutenzione straordinaria (Corte
conti, sez. contr. Veneto,
parere 12.05.2017 n. 338; Corte
conti, sez. contr. Marche,
parere 27.04.2017 n. 52; Corte
conti, sez. contr. Umbria,
parere 26.04.2017 n. 51; Corte
conti, sez. contr. Puglia,
parere 24.01.2017 n. 5).
Non si può, però, ritenere che il riferito orientamento sia
consolidato, atteso che nel parere reso dall’ULL, versato in
atti è richiamata anche giurisprudenza contabile di segno
contrario.
Sono allora percorribili due alternative soluzioni
regolamentari:
a) potrebbe difatti estendersi l’esclusione dall’incentivo
anche alla manutenzione straordinaria, in ossequio alla
giurisprudenza della Corte dei conti, sicché il primo
periodo del comma 5 dovrebbe essere così riformulato: “Sono
esclusi dalla corresponsione dell’incentivo i contratti di
lavori relativi ad interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria come definiti dalle lettere oo-quater) e
oo-quinquies) dell’art. 3 del codice dei contratti
pubblici”); oppure,
b) in attesa del consolidamento della giurisprudenza,
potrebbe scegliersi di non disciplinare lo specifico
profilo, rimettendolo all’applicazione pratica, con la
consequenziale eliminazione del primo periodo del comma 5.
La scelta tra le due riferite opzioni è riservata al
Regolatore regionale.
17.5. Per ragioni di corretta definizione delle soglie
occorre:
- nel comma 7, n. 1), sostituire le parole: “e sino alle
soglie”, con le parole: “e inferiori alle soglie”;
- nel comma 7, n. 2), sostituire la parola “superiori” con
le parole “pari o superiori”;
- nel comma 8, lett. a), sostituire le parole: “e sino alle
soglie”, con le parole “e inferiori alle soglie”;
- nel comma 8, lett. b), sostituire la parola “superiori”
con le parole “pari o superiori”.
17.6. In relazione al comma 10, si rinvia a quanto osservato
in relazione all’art. 1 e, quindi, vanno eliminate le
parole: “e, per gli appalti di servizi o forniture, solo nel
caso in cui sia nominato il direttore dell’esecuzione”.
17.7. Nel comma 12, per le ragioni già esposte in relazione
all’art. 2 dello schema, occorre sostituire, nelle lett. a)
e d), le parole: “al quale è stata affidata formalmente
l’attività” con le parole: “al quale sono state formalmente
affidate funzioni tecniche inerenti l’attività”.
17.8. Il comma 13 prevede l’incentivo, oltre che in caso di
collaudo o verifica di conformità, anche nel caso in cui sia
previsto in sostituzione il certificato di regolare
esecuzione. Si osserva che l’art. 113 del codice è di
stretta interpretazione e contempla tra le attività
incentivate solo il collaudo e la verifica di conformità, e
non anche i casi di modalità semplificate, vale a dire il
certificato di regolare esecuzione. Tale ultima attività non
forma oggetto di incentivazione e, pertanto, il comma 13
deve essere espunto.
Art. 4
18. L’art. 4, ricalca in parte il precedente regolamento
regionale n. 3/2016, e indica le ulteriori spese tecniche da
prevedere nei quadri economici di ciascun intervento (tra
cui, le polizze assicurative per la copertura dei rischi di
natura professionale a favore dei dipendenti incaricati
della progettazione, gli oneri inerenti all'assolvimento
delle attività tecniche correlate all'appalto quali ad
esempio il rimborso delle spese sostenute per le trasferte
anticipate dalla struttura di appartenenza, le spese di
copia, di bollo) e il relativo criterio di imputazione.
18.1. La materia disciplinata, testé sinteticamente
tratteggiata, esula, tuttavia, dai confini dell’alveo
regolamentare tracciati dall’art. 113, comma 3, del codice,
sicché la disposizione deve essere espunta dallo schema.
Art. 5
19. Analogamente va soppresso anche l’art. 5 dello schema
che reca un’articolata disciplina volta alla individuazione
delle figure professionali e alle modalità di conferimento
degli incarichi, nonché alla costituzione di un nucleo
tecnico di progettazione e alla nomina del direttore dei
lavori o del direttore dell'esecuzione, del coordinatore
della sicurezza nella fase di esecuzione e dei relativi
collaboratori tecnici ed amministrativi, nonché del
collaudatore tecnico amministrativo e statico, ovvero del
tecnico incaricato della verifica di conformità.
Si tratta
all’evidenza di profili del tutto estranei alle previsioni
di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 113 del codice (v., in tal
senso, il già ricordato
parere
02.09.2015 n. 770 di questa Sezione).
Art. 6
20. L’art. 6 dello schema -che a seguito delle eliminazioni
dei precedenti artt. 4 e 5 diverrà l’art. 4- disciplina le
procedure, le modalità e le tempistiche procedimentali e le
condizioni per il pagamento degli incentivi; detta altresì
le regole da seguire per i casi di perizie di varianti, di
parti affidate a soggetti diversi dai dipendenti alle parti
non eseguite e, infine, fissa l’ammontare massimo di
incentivi percepibili dal singolo dipendente nella misura
del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo
lordo.
20.1. Della previsione è dubbia l’utilità del comma 1, dal
momento che ribadisce quanto già disposto dal comma 1 del
precedente art. 3.
20.2. Nel comma 3, dopo la parola “allegati”, inserire le
parole: “A e B”.
20.3. Nel comma 5 è preferibile, sul piano redazionale,
sostituire le lettere dell’alfabeto ai trattini, ma
soprattutto occorre estendere ogni previsione, in
corrispondenza di ciascun trattino, anche ai collaboratori
di ciascuna figura professionale distintamente considerata
(v., supra, le osservazioni a proposito dell’art. 2).
Art. 7
21. L’art. 7, destinato a diventare l’art. 5 del futuro
regolamento, è pressoché integralmente dedicato a
disciplinare i casi di sostituzione del responsabile del
procedimento e delle altre figure professionali; il comma 3
tratta invece degli effetti della sostituzione sul regime di
responsabilità delle predette figure professionali.
21.1. In entrambi i casi si è al cospetto di previsioni
estranee al contenuto del regolamento, siccome stabilito
dall’art. 113 del codice. Sia il primo periodo del comma 1,
sia il comma 2 sia il comma 3, pertanto, possono essere
eliminati.
21.2. Va, invece, conservato, seppur previa riformulazione,
il secondo periodo del comma 1, che potrebbe esser riscritto
come segue: “In tutti i casi di sostituzione del
responsabile del procedimento e degli altri dipendenti
svolgenti le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2,
del codice dei contratti pubblici, e relativi collaboratori,
ai soggetti sostituiti spetta l’incentivo per le sole
attività effettivamente svolte, e certificate dal
responsabile del procedimento subentrante, nel caso di
sostituzione del responsabile del procedimento, o dal
responsabile del procedimento negli altri casi, con le
modalità di cui all’articolo 4. Resta ferma l’applicazione
dell’art. 7” (nota: art. 9 dello schema che diverrà 7 se
verranno accolte le indicazioni di soppressione di alcuni
articoli dello schema).
Art. 8
22. L’art. 8, ossia il futuro art. 6, contiene la disciplina
dei termini entro i quali devono essere eseguite le
prestazioni, eventualmente suddivisi in relazione ai singoli
livelli di progetto, con previsioni specifiche per i termini
della direzione dei lavori e dell'esecuzione, nonché per
quelli del collaudo e della verifica di conformità.
Al riguardo la Sezione non ha alcun rilievo da formulare.
Art. 9
23. L’art. 9, che diverrà l’art. 7, disciplina le ipotesi in
cui dovranno essere applicate delle penalità al personale
che beneficia delle incentivazioni e stabilisce anche la
relativa misura. Si tratta dei casi di:
a) varianti in corso
d’opere per errori od omissioni di progettazione (comma 1);
b) ritardi negli affidamenti o aumenti di costo dovuti alla
fase di predisposizione e controllo delle procedure di gara
(comma 2);
c) ritardi in sede di esecuzione di lavori (comma
3).
Il comma 4 contiene una norme sulla giustificazione dei
ritardi.
23.1. Sul piano redazionale, per esigenze di omogeneità e di
coerenza, si consiglia di utilizzare sempre la locuzione
“per cento” in luogo del segno “%”. A parte ciò, non è dato
comprendere perché il comma 2 si riferisca ai soli
affidamenti dei lavori, mentre il comma 3 anche a quelli
relativi ai servizi e alle forniture. Per uniformare i due
commi si propone, quindi, di inserire, nel comma 2, dopo le
parole: “di lavori”, le parole: “, servizi e forniture”.
23.2. Il comma 4 si riferisce poi esclusivamente alle
giustificazioni dei ritardi e non di altre cause, sicché
l’incipit del comma deve essere riscritto nei seguenti
termini: “Le penalità previste per il ritardo”, in luogo
delle parole: “(l)e suddette penali”.
Art. 10
24. L’art. 10 dello schema, ossia il futuro art. 8, è
rubricato “disposizioni transitorie e finali”.
24.1. In realtà, contiene anche una norma sull’entrata in
vigore del regolamento e, ad avviso della Sezione, dovrebbe
contenere anche una norma di abrogazione del precedente
regolamento, di cui al d.P.Reg. n. 3/2016. Conseguentemente,
la rubrica dell’articolo va modificata in “Disposizioni
transitorie e finali, abrogazioni, entrata in vigore”.
24.2. Alla luce delle osservazioni svolte in relazione
all’art. 1 vanno apportate alla disposizione le seguenti
modifiche:
- dal comma 1, vanno espunte le parole “nell’ambito degli
appalti nei settori ordinari e nel settore dei beni
culturali”;
- va eliminato l’intero comma 2;
- dal comma 4, va soppresso l’ultimo periodo.
24.3. Nel comma 1 desta comunque, almeno in parte,
perplessità il regime transitorio, dal momento che viene
attribuita efficacia retroattiva al futuro regolamento: si
prevede, difatti, che le previsioni trovano applicazione
anche ai contratti relativi a procedure di affidamento
indette prima della entrata in vigore del regolamento,
purché successive alla data di entrata in vigore del codice
dei contratti pubblici.
La soluzione delineata potrebbe attagliarsi, a certe
condizioni, a una norma di rango primario, ma non anche a
una previsione regolamentare che non può derogare, salvi
casi eccezionali (che nella fattispecie non ricorrono) al
disposto del primo comma dell’art. 11 disp. prel. c.c..
Al riguardo, tuttavia, va rilevato che la Corte dei conti
(Corte conti, sez. contr. Piemonte,
parere 09.10.2017 n. 177)
ha già avuto modo di chiarire che “in materia d'incentivi
per funzioni svolte dai dipendenti tecnici (…) i regolamenti
attuativi adottati dall'ente non possono avere effetti
retroattivi e la loro adozione è necessaria per distribuire
gli incentivi fra i dipendenti tecnici. Se, tuttavia, l'ente
ha provveduto ad accantonare le risorse economiche sulla
base della norma di legge, è possibile con regolamento
disciplinare la distribuzione delle risorse anche in
relazione ad attività incentivabili svolte prima
dell'emanazione del regolamento purché sussista uniformità
fra la disciplina normativa circa l'accantonamento e quella
sulla distribuzione delle risorse”.
Le riferite considerazioni della Magistratura contabile
offrono lo spunto per riformulare il comma 1 dell’articolo
in esame nei seguenti termini: “Il presente regolamento
trova applicazione per le attività riferibili a contratti le
cui procedure di affidamento sono state avviate
successivamente alla data di entrata in vigore del codice
dei contratti pubblici, anche se avviate prima dell’entrata
in vigore del presente regolamento, a condizione che le
stazioni appaltanti abbiano già provveduto ad accantonare le
risorse economiche nel rispetto dell’art. 113 del codice dei
contratti pubblici. Restano incentivabili secondo la previgente disciplina, recata dal d.lgs. n. 12.04.2006,
n. 163, come recepito nella Regione siciliana con legge
regionale 12.07.2011, n. 12, e dal d.P.Reg. 05.12.2016, n.
3, le attività riferite a contratti i cui
bandi siano stati pubblicati o, nelle procedure senza bando,
i cui inviti sono stati diramati prima dell’entrata in
vigore del codice dei contratti pubblici, anche se ancora in
corso di svolgimento.”.
A questo proposito il Collegio non ignora che il Presidente
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha diramato il
comunicato del Presidente 06.09.2017, recante “Chiarimenti in ordine
all’applicabilità delle disposizioni normative in materia di
incentivi per le funzioni tecniche”, nel quale si trova, tra
l’altro, scritto che: “… le disposizioni di cui all’art. 113
del nuovo codice dei contratti si applicano alle attività
incentivate svolte successivamente all’entrata in vigore del
Codice”, anche se sulla base di contratti banditi secondo la previgente disciplina.
La soluzione adottata dallo schema di regolamento, e
approvata dalla Sezione con il correttivo di cui sopra, si
scosta, dunque, dal richiamato comunicato. Sennonché si
osserva che, per un verso, il conflitto è, in parte,
apparente, posto che il riferito passaggio del comunicato
deve esser letto nella prospettiva del contrasto della
prassi delle varie forme di “anticipazione” dell’incentivo
(prassi che lo schema di regolamento in esame scongiura con
la previsione contenuta nel comma 5 dell’art. 6), cui è
dedicata l’ultima parte del comunicato medesimo.
Per altro verso, il Collegio ritiene, secondo quanto già
statuito dal Consiglio di Stato, sezione affari normativi,
che i comunicati dell’ANAC, seppur autorevoli in ragione
della loro provenienza soggettiva, consistano comunque in
mere interpretazioni del dato positivo prive di qualunque
effetto vincolante (Cons. St., sez. affari normativi, comm.
spec.,
parere 22.12.2017 n. 2698).
Nel caso di specie, il codice non prevede in relazione
all’art. 113 un regime transitorio specifico, sicché non può
che valere la regola transitoria generale dettata dall’art.
216, comma 1, a tenore del quale le disposizioni del codice
si applicano alle procedure i cui bandi siano pubblicati, o
inviti diramati, dopo l’entrata in vigore del codice
medesimo. Regola transitoria da coniugare con la portata non
retroattiva del regolamento di attuazione del citato art.
113.
24.4. In relazione all’attuale comma 3, che diverrà il comma
2 a seguito della su indicate modificazioni, le parole: “al
dirigente organicamente superiore” devono essere sostituite
dalle seguenti: “All’Assessore di riferimento o, per gli
enti diversi dalla Regione, all’organo di vertice”. Sul
punto la Sezione ha già avuto modo di precisare, nel citato
parere
02.09.2015 n. 770, che la relazione annuale doveva essere
presentata all’organo politico, come infatti ora prevede
l’art. 10, comma 2, d.P.Reg. n. 3/2016. Occorre infatti un
controllo di tipo “politico” sulla corretta applicazione del
regolamento e sulle sue eventuali criticità, al fine di
possibili ed eventuali modifiche.
24.5. Bisogna poi inserire nella disposizione un ulteriore
comma, ossia un comma 3, recante le abrogazioni, formulato
come segue: “Dalla data di entrata in vigore del presente
regolamento è abrogato il d.P.Reg. 05.12.2016, n. 3,
fatta salva la sua perdurante applicazione nei casi di cui
al comma 1”.
24.6. Infine il comma 4, nella parte residua, laddove
prevede la immediata entrata in vigore del regolamento, va
soppresso, difettando una norma primaria che consenta di
derogare nel caso di specie all’ordinaria vacatio legis di
15 giorni, prevista dall’art. 10 disp. prel. c.c., che
costituisce un principio generale per le leggi e, a fortiori,
per i regolamenti, a garanzia della conoscibilità degli atti
normativi da parte delle amministrazioni, cittadini e
imprese, e della disponibilità di uno spazio sufficiente di
adattamento alle nuove regole (v., tra gli altri, il parere
di questa Sezione n. 74/2017). La soppressione del comma 4 è
soluzione equivalente, ancorché preferibile per esigenze di
sinteticità dell’articolato, alla riformulazione del
medesimo comma nei seguenti termini: “Il presente
regolamento entra in vigore il quindicesimo giorno
successivo a quello della sua pubblicazione”.
Gli allegati
25. Per quanto riguarda gli allegati, in conseguenza dei
rilievi sopra svolti, si suggerisce di inserire sotto
ciascun titolo (“Allegato A” e “Allegato B”) le parole:
“(art. 4, comma 3)”.
Inoltre nell’ultimo rigo della prima colonna di ciascuna
tabella, dopo le parole: “Collaboratore alla attività del
direttore dei lavori” (nell’allegato A) e “Collaboratore
alla attività del direttore dell’esecuzione” (nell’allegato
B), le parole: “o di altra figura professionale che svolga
funzioni tecniche”.
P.Q.M.
Con le osservazioni di cui alla su estesa motivazione, è il
parere favorevole della Sezione (CGARS,
parere 16.03.2018 n. 121 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
E' dopo fiumi di
parole scritte, in un senso o nell'altro, adesso
(dal 19.04.2019 - cfr.
D.L. 18.04.2019 n. 32)
si ritorna "ancora una
volta" con l'incentivo alla progettazione interna:
FOLLIA ALLO STATO PURO!!
Epperò, si vocifera in queste ore
che starebbero
ripensandoci... |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Sblocca
Cantieri e Codice dei contratti: dietrofront su Appalto integrato e
Incentivi alla progettazione per i tecnici della P.A.?
(16.05.2019 - link a www.lavoripubblici.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Decreto-legge
Sblocca cantieri, marcia indietro su appalto integrato e incentivo 2%.
Dietrofront anche sulla norma che introduce una causa di esclusione dagli
appalti pubblici per le imprese non in regola con gli obblighi di pagamento
di imposte e contributi non definitivamente accertati (16.05.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Appalti,
niente gare fino a 1 mln. Estese le procedure negoziate. Stop incentivi ai
progettisti. A un convegno Ance, il relatore del dl Sblocca cantieri
Santillo annuncia le novità.
Alzare a un milione la soglia per la procedura negoziata, limitare la
responsabilità per danno erariale dei funzionari pubblici; ripristinare il
tetto per il prezzo nell'offerta economicamente più vantaggiosa; portare al
40% il limite del subappalto; togliere l'incentivo del 2% a favore dei
tecnici delle pubbliche amministrazioni per la fase progettuale; norma
«salva imprese» legata al ribasso ma inserita nelle somme a disposizione
della stazione appaltante.
Sono questi i punti sui quali, Agostino Santillo, relatore del disegno di
legge di conversione del decreto Sblocca cantieri (dl 32/2019) ha anticipato
che si interverrà con emendamenti ad hoc in commissione, per arrivare
all'esame in aula martedì 28 maggio, quindi dopo le votazioni per le
elezioni europee di domenica 26.
L'annuncio è stato dato durante il convegno organizzato ieri dall'Ance,
l'Associazione nazionale costruttori edili, dal titolo «Sblocca cantieri:
quali risorse e quali regole» cui hanno partecipato, fra gli altri,
oltre al presidente dei costruttori Gabriele Buia e al vice presidente
Edoardo Bianchi, anche il vice ministro per l'economia Laura Castelli.
Dopo avere precisato che, con il decreto 32 «si è inteso toccare le corde
giuste per riavviare le procedure e in particolare l'affidamento dei lavori
perché è li che bisogna intervenire immediatamente con un cambio di
paradigma», è proprio sulla parte procedurale, oggetto di serrato
confronto con la Lega, che il relatore ha annunciato una prima modifica. «Ci
sono tante proposte che condividiamo perché la nostra posizione non è rigida
e possiamo ragionare su alcuni temi con le altre forze politiche», ha
osservato Santillo. Un passaggio apprezzato anche dal capogruppo Pd in
commissione, Salvatore Margiotta, che ha poi posto l'accento sulla necessità
di una accurata disciplina della fase transitoria del provvedimento.
Fra le novità annunciate da Santillo, in primo luogo è stata richiamata la
revisione della soglie per le procedure negoziate (nel decreto 32 ammessa
fino a 200 mila, mentre oltre tale importo scatta la procedura aperta). In
questo caso la soglia può essere rivisitata verso l'alto, a un milione (si
veda ItaliaOggi del 10 maggio) purché dalla soglia massima fino a 5,2
milioni la procedura sia sempre aperta con esclusione automatica delle
offerte anomale. «Poi vedremo se l'esperienza ci darà ragione e vedremo
sarà il caso di alzare il tetto oltre la soglia di un milione», ha
aggiunto.
Un secondo punto sul quale viene recepita l'esigenza di intervenire è quella
della responsabilità per danno erariale in capo ai funzionari pubblici, su
cui, ha anticipato il senatore M5S, «stiamo preparando un emendamento in
commissione».
Altro punto oggetto di intervento, è quello relativo alla la soglia del
subappalto, portata nel testo dal 30% al 50%; in particolare la nuova
soglia, ha spiegato, «potrebbe essere spostata verso il basso, ad esempio
al 40%», così come proposto in un emendamento presentato dei
Cinquestelle, «ma in ogni caso dobbiamo evitare che facciano lavori
soggetti che non hanno la formazione adatta come imprese di costruzioni».
Sulla norma che ripristina l'incentivo del 2% a favore dei tecnici della
p.a. per la progettazione, Santillo ha annunciato di raccogliere «l'appello
che è stato formulato per non fare rientrare nell'incentivo del 2% anche la
progettazione perché questo secondo noi non aiuta la specializzazione
progettuale del mercato esterno alla p.a. e soprattutto fa sì che chi
progetta debba anche controllare l'esecuzione di quanto progettato e questo
potrebbe determinare un agevole conflitto di interessi».
Sull'appalto integrato il relatore ha precisato che si sta «ragionando
anche sulla possibilità o meno di estendere l'utilizzo dell'appalto
integrato fino al 2020 che a volte può essere la manna scesa dal cielo ma
altre volte ne farei a meno». Ad essere modificate, secondo Santillo,
sarà inoltre la norma che esclude le imprese per irregolarità fiscale e
contributiva non ancora accertata. Il comma, ha spiegato, sarà eliminato.
Si stanno infine «facendo dei ragionamenti sul ripristino della soglia
del 30% per il prezzo nell'offerta economicamente più vantaggiosa». «Noi
siamo a favore», ha spiegato. Sulla norma «salva pmi» in caso di
fallimento dell'impresa, Santillo ha concluso che il governo «non vuole
che questi costi ricadano sull'appaltatore e quindi la quota percentuale
sarà legata al ribasso dell'aggiudicatario, ma sarà fatta ricadere nel
quadro economico come somma a disposizione della stazione appaltante e non
dell'impresa aggiudicataria»
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2019). |
INCARICHI
PROGETTUALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Compenso
anticipato per i professionisti
Anticipazione del 20% del valore del contratto anche per i professionisti e
le società che operano nell'ambito degli appalti di servizi e di forniture;
pagamento diretto del progettista negli appalti integrati; reintroduzione
dell'incentivo del 2% a favore dei tecnici delle pubbliche amministrazioni.
Sono questi alcuni dei punti di maggiore interesse per professionisti, studi
e società che operano nell'ambito dei servizi tecnici legati alla
realizzazione di opere pubbliche, contenuti nel
D.L. 18.04.2019 n. 32.
In primo luogo si interviene sul contenuto dei livelli di progettazione con
il rinvio al regolamento unico della disciplina dei contenuti della
progettazione nei tre livelli progettuali (in luogo di uno specifico decreto
ministeriale previsto dal testo previgente), nonché del contenuto minimo del
quadro esigenziale che devono predisporre le stazioni appaltanti.
Viene eliminato anche il rinvio a un regolamento ministeriale per la
cosiddetta progettazione semplificata prevista fino a 2,5 milioni: adesso è
una norma ad hoc e stabile che si prescinde dalla redazione del
progetto esecutiva per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria
che non prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle
opere o degli impianti. Si potranno quindi affidare i contratti sulla base
del progetto definitivo, a condizione che lo stesso abbia un contenuto
informativo minimo, indicato dalla norma, consentendo quindi di eseguire i
lavori senza redigere e/o approvare il progetto esecutivo.
Di immediato interesse per tutti gli operatori economici dei servizi e delle
forniture è poi l'introduzione dell'anticipazione contrattuale del 20% sul
valore del contratto (oggi contemplata soltanto per i lavori). Nell'ambito
della riapertura della «finestra» per potere affidare appalti
integrati (possibili bandi fino al 2021 per progetti approvati entro fine
2020), rappresentano comunque un elemento positivo due disposizioni di
interesse per i progettisti: la prima è l'obbligo per le stazioni appaltanti
di indicare le modalità per il pagamento diretto del progettista di cui si
avvale l'impresa che partecipa ad una gara per l'affidamento di un appalto
integrato.
La seconda riguarda la previsione della dimostrazione, da parte delle
imprese di costruzione, dei requisiti progettuali per partecipare ad appalti
integrati e, in assenza di tale dimostrazione, l'obbligo di avvalersi o di
associare un progettista che ne sia in possesso.
Potrebbe invece risultare negativo sotto il profilo di una possibile
riduzione della domanda di ingegneria la reintroduzione dell'incentivo del
2% a favore dei tecnici delle amministrazioni per la fase di progettazione,
eliminato per questa attività dal 2016. Viene inoltre prevista la
possibilità per gli affidatari di incarichi di progettazione, per progetti
posti a base di gara di concessioni, di essere anche affidatari della
concessione di lavori pubblici a condizione che il concedente adotti misure
adeguate per garantire che la concorrenza non sia falsata dalla loro
partecipazione.
Di interesse per i progettisti anche l'eliminazione dell'obbligo di indicare
la terna dei subappaltatori, un onere eccessivo per l'entità degli incarichi
e per la presenza di una disciplina già molto stringente per il subappalto
di progettazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: SBLOCCA-CANTIERI/
Ancora una volta indefinita la decorrenza dei nuovi incentivi.
Per i premi ai tecnici da rifare integrativo e regolamento.
Dal 19 aprile i tecnici pubblici festeggiano il ritorno dei "loro"
incentivi. Con l'entrata in vigore del decreto sblocca-cantieri è stato
rimodificato il Codice degli appalti, inserendo nuovamente i progettisti fra
i destinatari dei premi collegati alle funzioni tecniche.
La telenovela dei compensi registra un'altra puntata. Come si ricorderà,
con l'approvazione del Dlgs 50/2016 erano stati messi alla porta una serie
di soggetti che, storicamente, annoveravano nella loro busta paga compensi i
quali, nel corso del tempo, hanno modificato la loro denominazione
(incentivi Merloni, «per la progettazione»), ma non la loro sostanza: ai
dipendenti pubblici che progettavano spettava anche una quota di
retribuzione legata all' opera da realizzare. Con il nuovo Codice degli
appalti si sposta l'attenzione sulle fasi di programmazione e controllo
della spesa e, quindi, anche gli incentivi vanno a premiare i soggetti che
gestiscono queste funzioni.
Ovviamente i tecnici mal digeriscono il cambio di rotta e, alla prima
occasione utile, con un colpo di coda, spazzano via i supervisori di budget
e consuntivi e li sostituiscono con i progettisti.
Fin qui la storia. Ma ora, in pratica, cosa succede? Sicuramente i tecnici
non possono presentarsi alla cassa per la riscossione già da domani. Lo
stesso Dlgs 50/2016 disegna un iter ben preciso che gli enti devono
rispettare per poter liquidare i compensi. Innanzitutto devono riprendere in
mano i propri regolamenti e adeguarli alla nuova norma. L' operazione deve
però essere preceduta da una sessione di contrattazione decentrata
integrativa, dove vanno stabiliti le modalità e i criteri di ripartizione
degli incentivi. Al regolamento, oltre a recepire quanto deciso nell'integrativo, spetta una funzione importante: decidere la percentuale da
applicare all' importo dei lavori, servizi e forniture posti a base di gara
per ottenere il fondo che va a finanziare, per l'80%, i compensi in
questione. Percentuale che non può essere superiore al 2%.
E come tutte le modifiche che si rispettino, l'intervento normativo non è
accompagnato da una norma transitoria, che regolamenti il passaggio dalla
vecchia disciplina a quella nuova. Quindi? Sicuramente basta attendere
qualche mese e potremmo trovare fiumi di pareri da parte delle sezioni
regionali della Corte dei Conti le quali, chiamate a rispondere ai quesiti
delle amministrazioni, forniscono indirizzi purtroppo non sempre univoci.
Come spartiacque si può infatti pensare all' espletamento delle gare di
appalto, considerato che sono il perno su cui poggia l'incentivo, oppure al
momento in cui viene svolta l'attività compensata dall' incentivo. Anche a
questo proposito, nel tempo, i magistrati contabili hanno abbracciato tesi
differenziate.
Su una linea sembrano ormai concordi i vari interpreti istituzionali: la
liquidazione degli incentivi non può avvenire in assenza del regolamento;
ma, una volta approvato l' atto, si può procedere al pagamento anche di
quelle somme accantonate in precedenza, in quanto si riferiscono a gare o
attività svolte dopo l' entrata in vigore della norma e prima dell'approvazione del regolamento (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2019). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Progettazione,
torna l' incentivo per i tecnici Pa. Architetti e ingegneri: forte impatto
sul mercato dei bandi per i progettisti.
Ripristinato l'incentivo per le attività legate alla progettazione, svolte
dai dipendenti della pubblica amministrazione.
Il decreto 32/2019, lo sblocca cantieri, abbandona la filosofia del Codice
appalti in vigore, che riservava ai tecnici della Pa, nella sostanza, solo
compiti di programmazione e controllo delle opere pubbliche. Tornando a
dargli un ruolo primario anche sul fronte della redazione degli elaborati.
La novità, di grande impatto per il mercato, ritocca l'articolo 113 del
Codice appalti, riportando in vita l'accantonamento «in misura non
superiore al 2 per cento» (modulato sugli importi stanziati per lavori,
servizi e forniture) per le attività «di progettazione, di coordinamento
della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica
preventiva della progettazione». Questo denaro viene ripartito tra i
soggetti che svolgono funzioni tecniche nelle diverse amministrazioni.
Nella precedente versione l'incentivo esisteva, in misura esattamente
identica, ma era riservato ad altri compiti: programmazione della spesa per
investimenti, controllo delle procedure di gara, esecuzione dei contratti.
In sostanza, la nuova versione spinge gli uffici pubblici ad utilizzare in
misura maggiore le proprie strutture per la progettazione, anziché bandire
gare per coinvolgere professionisti esterni.
Evidente, allora, che la novità non piaccia a tutte quelle categorie
abituate a partecipare agli appalti pubblici per la progettazione. Lo spiega
Rino La Mendola, vicepresidente del Consiglio nazionale degli architetti:
«Siamo perplessi per questa modifica. Pensiamo che sia i dipendenti pubblici
che i liberi professionisti debbano essere valorizzati nel loro ruolo,
riservando ai dipendenti pubblici soprattutto l'attività di controllo. E c'
è anche da considerare che questo intervento fa il paio con le novità sulla
centrale di progettazione: c' è una chiara volontà da parte del Governo di
statalizzare la progettazione».
Una posizione condivisa in pieno da Michele Lapenna, componente del
Consiglio nazionale degli ingegneri: «Sarebbe stato meglio tenere una
distinzione netta tra uffici tecnici e progettisti privati. Detto questo,
comunque, per noi è fondamentale tutelare la qualità della progettazione.
Per questo chiederemo che i tecnici interni dimostrino gli stessi requisiti
che vengono richiesti oggi ai professionisti». Probabile, sul fronte del
mercato, che queste novità abbiano un forte impatto, limitando le risorse
che vengono messe a disposizione dei progettisti esterni: «È evidente
-conclude Lapenna- che si tratta di un rischio molto concreto»
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.04.2019). |
INCENTIVI
PROGETTAZIONE:
Tornano gli incentivi per la progettazione.
Il decreto sblocca-cantieri si traduce anche nel provvedimento
sblocca-incentivi per i dipendenti pubblici, mandando in soffitta i compensi
per le funzioni tecniche per fare largo ai vecchi e, forse, mai tramontati
incentivi per la progettazione.
La lista dei beneficiari
Con un colpo di mano quasi preannunciato, viste le pressioni della categoria
per riprendersi il maltolto, la norma modifica il comma 2 dell'articolo 113
del codice degli appalti, andando a riscrivere parte dell'elenco dei
beneficiari dei compensi per le funzioni tecniche.
Al posto dei dipendenti
che svolgono le attività di programmazione della spesa per investimenti, di
valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, sono inseriti i
lavoratori ai quali è affidata l'attività di progettazione, di coordinamento
della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica
preventiva della progettazione. Sono salvi, in continuità con il passato, il Rup, la direzione dei lavori, la direzione dell'esecuzione, il collaudo
tecnico amministrativo, la verifica di conformità e il collaudo statico.
Si tratta, come detto, di una marcia indietro rispetto alla novità
introdotta con il Dlgs 50/2016, dove l'obiettivo era quello di compensare i
soggetti che avevano il compito di tenere sotto controllo la spesa, facendo
rientrare nell'alveo sia la fase di programmazione che quella di scelta del
contraente. Sostanzialmente, vengono, di nuovo, esclusi dagli incentivi quei
dipendenti che non sono tecnici e che svolgono le attività amministrative
strettamente connesse ai lavori, ai servizi e alle forniture.
Rientrano in gioco gli architetti, gli ingegneri e i geometri delle
pubbliche amministrazioni a cui saranno affidate le progettazioni, con la
fine di discussioni spesso spiacevoli per l'attribuzione di compiti non più,
a loro dire, equamente remunerati.
Problemi applicativi
Come ogni modifica che si rispetti, anche in questo caso ripartiranno i
problemi applicativi. In primis, in mancanza di una norma transitoria, dovrà
essere chiarito quando applicare la vecchia disposizione e quando la nuova
previsione. Si farà riferimento all'espletamento dell'attività compensata
oppure al bando di gara? E per le attività ovvero le procedure attualmente
in corso?
E ancora. Per poter applicare la norma appena approvata è necessario che le
amministrazioni provvedano a definire le modalità e i criteri di riparto
delle risorse a disposizione in sede di contrattazione decentrata e ad
adottare il regolamento. Percorso alquanto impegnativo se si pensa che, a
oggi, alcune amministrazioni non hanno ancora regolamenti adeguati alla
prima versione del Dlgs 50/2016.
Concludendo, possiamo dire che, per il momento, nella partita fra tecnici e
amministrativi, si affermano i primi, i quali, però, dovranno pazientare un
po' per godere dei frutti della vittoria in quanto, prima, vanno sistemate
le carte
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019). |
|
Il
20 maggio 2019 si avvicina:
l’adeguamento alla nuova disciplina in materia di
posizioni organizzative. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D.
Pusceddu,
E dopo il 20 maggio come vengono retribuite le Posizioni Organizzative?
(16.05.2019 - link a www.fpcgilbergamo.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
termine del 20 maggio entro il quale incaricare le posizioni organizzative
non è vincolante
(15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Enti
senza dirigenti, incarichi fino a 5 anni.
Incarichi fino a cinque anni per le posizioni organizzative nei comuni senza
dirigenza. Mancano pochi giorni alla data del 20 maggio 2019, entro la quale
occorre riattribuire gli incarichi di posizione organizzativa, a seguito
dell'adeguamento della connessa disciplina alle regole contenute nel Ccnl
21/05/2018. Sulla durata degli incarichi, come anche sui criteri per la loro
assegnazione, proprio il Ccnl induce a un equivoco.
L'articolo 14, comma 1, dispone che «gli incarichi relativi all'area delle
posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo
non superiore a tre anni, previa determinazione di criteri generali da parte
degli enti». Questa disposizione induce molti a ritenere conseguentemente
che la durata degli incarichi sia stata ridotta dai 5 anni espressamente
previsti dal precedente Ccnl 31/03/1999, al più breve triennio.
Tuttavia, questa chiave di lettura non appare soddisfacente. L'articolo 14
del Ccnl 21/05/2018 contiene una regolamentazione degli incarichi delle
posizioni organizzative riferita con ogni evidenza agli enti nei quali sono
presenti i dirigenti. Non a caso il comma uno precisa che gli incarichi «sono
conferiti dai dirigenti». Negli enti privi di dirigenza, dunque, la
disciplina non può che essere differente. E la conferma si trova nella
disposizione contenuta nell'articolo 17, comma 1, sempre del Ccnl 21/05/2018:
«negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili
delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono
titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13».
Come si nota, mentre negli enti in cui siano presenti qualifiche
dirigenziali l'articolo 14 attribuisce ai dirigenti il compito di conferire
gli incarichi, nel caso di enti senza qualifiche dirigenziali il Ccnl dedica
una previsione speciale e precisa, quella dell'articolo 17, comma 1. Che è
da considerarsi esclusiva; negli enti senza dirigenti, dunque, non si
applicano le previsioni dei primi due commi dell'articolo 14, ma il diverso
meccanismo stabilito dal comma 1 dell'articolo 17.
Si tratta di un automatismo: l'articolo 17, semplificando, dispone che i
funzionari ai quali i sindaci abbiano attribuito le funzioni dirigenziali ai
sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000 e che in conseguenza di
ciò siano stati nominati come responsabili dei servizi ai sensi
dell'articolo 50, comma 10, sempre del dlgs 267/2000, sono necessariamente
posizioni organizzative. Quindi, negli enti privi di dirigenti non occorre
nessun atto di assegnazione dell'incarico nell'area delle posizioni
organizzative, essendo detto incarico connesso al precedente provvedimento
amministrativo di competenza sindacale di nomina come responsabile di
servizio, al vertice di una struttura amministrativa.
Così stando le cose, poiché negli enti privi di dirigenza non si applica
l'articolo 14, comma 1, del Ccnl 21/05/2018, allora non si può considerare
operante nemmeno il limite temporale di tre anni ivi previsto.
A ben vedere, in questa tipologia di enti, l'incarico nell'area delle
posizioni organizzative non può che avere la identica durata dell'incarico
di funzioni dirigenziali e di preposizione al vertice di una struttura
gestionale. Se, quindi, un sindaco incarichi un funzionario di funzioni
dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Tuel e lo preponga ad
una struttura di vertice per una durata anche superiore ai tre anni, non si
può non concludere che il funzionario resta incaricato come posizione
organizzativa per tutta la durata dell'efficacia degli atti adottati dal
sindaco ai sensi degli articoli 109, comma 2, e 50, comma 10, del Tuel:
norme, queste, che per altro non contengono alcun termine specifico di
durata degli incarichi; solo il comma 1 dell'articolo 109, applicabile per
analogia, precisa che detti incarichi debbano essere a tempo determinato.
Una durata massima di 5 anni degli incarichi di funzioni dirigenziali la si
può desumere sempre per analogia, riferendosi alle previsioni dell'articolo
19, comma 2, del dlgs 165/2001
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
conferimento degli incarichi di posizione organizzativa.
Nei giorni scorsi Anci ha diffuso il
proprio quaderno operativo (Istruzioni tecniche, linee guida,
note e modulistica) sul «Regolamento sugli incarichi di posizione
organizzativa. Aggiornamento al CCNL 21/05/2018. Criteri generali di
conferimento e sistema di graduazione della retribuzione di posizione».
L'occasione si presta ad alcune riflessioni.
Il contratto del comparto Funzioni locali per il periodo 2016-2018
introduce, tra le altre, una novità particolarmente significativa: la
possibilità di attribuire alle posizioni organizzative deleghe delle
funzioni dirigenziali che comportino anche la firma di provvedimenti finali
aventi rilevanza esterna. Si viene, così, a delineare una figura intermedia
tra il dirigente e il funzionario, dotata di un elevato grado di autonomia
gestionale e organizzativa o preposta ad attività ad alto contenuto
professionale, comprese quelle per le quali è richiesta l'iscrizione ad un
albo professionale oppure un'elevata competenza specialistica (conseguita
attraverso titoli universitari o pregresse esperienze professionali, in
posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale). Questa
figura, così ridefinita e innovata rispetto al passato, rappresenta un
importante punto di raccordo tra le decisioni politico-amministrative e la
gestione operativa dell'ente, in quanto finalizzata a garantire e monitorare
direttamente lo svolgimento dei processi esecutivi.
Il nuovo contratto collettivo offre, quindi, ai Comuni, una maggiore
autonomia organizzativa e, nell'esercizio della potestà regolamentare,
permette di incentivare e premiare le posizioni organizzative.
In questa prospettiva vanno lette, quindi, le disposizioni che prevedono la
possibilità di riservare una quota non inferiore al 15% delle risorse
stanziate, a favore di queste figure, per la retribuzione di risultato. È,
inoltre, introdotta la possibilità di conferire incarichi a interim alle
figure che siano già titolari di posizione organizzativa per ricoprire
funzioni di altra posizione organizzativa, prevedendo una ulteriore
incentivazione economica, sempre a titolo di retribuzione di risultato.
Il quadro sulla natura «semi-dirigenziale», che questa figura ha
assunto con la novità contrattuale descritta, si completa con la previsione
secondo cui le risorse per la sua remunerazione sono ricavate dal fondo per
il trattamento economico accessorio del personale del comparto e che sono
stanziate in bilancio.
Per gli enti i tempi sono ormai brevi per adeguarsi a questa nuova realtà
contrattuale. Il contratto impone infatti che i nuovi regolamenti contenenti
la disciplina relativa ai criteri per il conferimento degli incarichi, alla
graduazione della retribuzione di posizione e ai criteri per l'attribuzione
della retribuzione di risultato siano adottati entro il 20 maggio. E gli
incarichi di posizioni organizzative già conferiti sulla base del previgente
contratto? È logico presumere che decadano a tale data.
È quindi in atto una piccola rivoluzione: si tratta, infatti, di figure che
devono perdere il loro carattere di «fiduciarietà». Devono essere
attribuite dal dirigente (dal sindaco solo in quei Comuni in cui non vi sono
dirigenti) a funzionari di categoria D (alla categoria C ove la predetta
categoria sia mancante) secondo criteri oggettivi e trasparenti, oltre che
opportunamente graduati. Su quest'aspetto interviene egregiamente l'Anci che
suggerisce dei «criteri generali per il conferimento degli incarichi di
P.O. e per la graduazione della loro retribuzione», definendo una
metodologia che è in grado di esprimere la coerenza tra la rilevanza del
ruolo assegnato alla posizione e la relativa retribuzione. Nelle note dell'Anci,
il criterio della cosiddetta «trasversalità» è interpretato come
finalizzato a valorizzare la complessità e la misura dei rapporti interni ed
esterni che la posizione organizzativa incaricata dovrà gestire nello
svolgimento dei propri compiti tecnici.
La «complessità operativa e organizzativa» è interpretata con riferimento
non solo alla composizione numerica dell'unità organizzativa, cui è preposta
la figura in esame, ma anche all'inquadramento contrattuale della stessa. In
parole semplici, il livello di complessità si presume maggiore ove l'unità
sia composta da dipendenti di categoria D. Il parametro potrebbe essere
legato anche «alla graduazione della struttura dirigenziale ove la PO è
incardinata, ove, ad esempio, si ritenga non affidabile il solo riferimento
al personale assegnato». Ma si guarda anche al numero e alla difficoltà
(soprattutto in termini di tempistica e di attività istruttoria) dei
passaggi per arrivare al risultato finale del procedimento affidato alla
posizione organizzativa.
Riguardo al «rischio contenzioso», l'Anci non può che rinviare, del
tutto correttamente, al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione
e della Trasparenza. In particolare, «viene valutata l'intensità e la
rilevanza dell'incidenza del prodotto finale nei confronti del destinatario
in relazione agli interessi coinvolti». Mentre la responsabilità finanziaria
non può che essere rapportata al budget assegnato, «a livello di entrata
e di spesa».
Diversamente graduata è, logicamente, la strategicità a seconda che l'ente
disponga o meno di figure dirigenziali. Nel primo caso, infatti, è valutata
la significatività delle deleghe dirigenziali; nel secondo, invece, a essere
valutato è il peso delle funzioni conferite rispetto all'attuazione del
programma di mandato del Sindaco. La previsione dell'area delle posizioni
organizzative come delineata dal nuovo contratto del comparto funzioni
locali 2016-2018 presuppone, in sostanza, un'equilibrata differenziazione
del peso e quindi anche dei valori economici delle diverse posizioni,
ricercando soluzioni che sfruttino appieno l'ampio ventaglio reso
disponibile dalle nuove previsioni anche al fine di offrire serie
prospettive di miglioramento di carriera e di apprezzamento economico al
personale. Sarà quindi necessaria l'adozione di nuovi regolamenti, tesi allo
sviluppo delle potenzialità organizzative e gestionali dei singoli che
potranno essere premiate mediante il progressivo affidamento di incarichi
sempre più importanti e maggiormente remunerati.
È necessario quindi, a tal fine, adottare un sistema flessibile volto a
privilegiare un'esatta corrispondenza del punteggio agli elementi
qualitativi e quantitativi che caratterizzano la singola posizione
organizzativa, e che tenga conto delle peculiarità organizzative e
gestionali del singolo ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Doppi criteri con dirigenti o senza. La pesatura dei settori
determina la retribuzione aggiuntiva al tabellare.
Regole per conferire e revocare gli incarichi di posizione organizzativa e
criteri per graduare le aree.
Sono questi i due aspetti per i quali l’Anci, nel
nuovo Quaderno sul tema,
propone soluzioni operative per un facile utilizzo da parte degli enti
locali. D’altronde la scadenza è alle porte: entro il 20 maggio vanno
adottati i nuovi sistemi, pena il divieto di confermare, prorogare o
attribuire nuovi incarichi.
Il contratto nazionale 21.05.2018 ha riscritto le regole dell’istituto e
quindi, come anche già contenuto in alcuni recenti pareri dell’Aran sono tre
gli adempimenti urgenti: revisione dell’assetto organizzativo, approvazione
dei criteri di nomina e revoca e definizione dei parametri di graduazione
dei settori.
Il primo aspetto va da sé. Ciascun ente deve individuare dove
sono collocate le posizioni organizzative nella propria struttura, tenendo
conto delle uniche due possibilità di incarichi: di direzione di aree o di
alta professionalità.
Dopo queste precisazioni, l’Anci si concentra sul secondo aspetto. Nella
proposta del regolamento contenuto nel Quaderno, si trovano quindi alcuni
punti essenziali tra cui: la durata (che non può essere superiore ai tre
anni), i requisiti che devono avere i soggetti che verranno nominati e le
procedure di individuazione dei dipendenti più idonei a ricoprire gli
incarichi.
A questo proposito, va ricordata la forte differenza tra enti con
la dirigenza, nei quali sono appunto i dirigenti a nominare le posizioni
organizzative attraverso anche un avviso esplorativo, rispetto a quanto
invece previsto dall’articolo 17, comma 1, del contratto nazionale del 21.05.2018, ovvero che negli enti privi di posizioni dirigenziali i
responsabili delle strutture apicali sono posizioni organizzative.
Terzo elemento chiave: i criteri per graduare le aree. L’azione serve per
pesare i settori anche per corrispondere la retribuzione di posizione che va
dai 5mila ai 16mila euro per i dipendenti di categoria D e dai 3mila ai
9.500 per i dipendenti di categoria C. Su questo aspetto l’Associazione dei
Comuni fornisce esempi concreti sia di graduazione sia di raccordo tra
quanto pesato e retribuzioni.
I criteri che vengono proposti sono la complessità relazione e la
complessità operativa e organizzativa a cui si aggiunge la verifica delle
attività soggette a rischio-contenzioso e la responsabilità finanziaria.
Ulteriore differenza tra piccoli e grandi enti: laddove non c’è la dirigenza
l’Anci propone come ulteriore elemento la strategicità, mentre negli enti
con le posizioni dirigenziali il criterio aggiuntivo, obbligatorio per
contratto nazionale, è quello della delega delle funzioni dirigenziali. Il
Nucleo o l’Oiv, quindi, pesano le varie aree. A questo punto è necessario
correlare i punteggi con le retribuzioni da corrispondere.
Nel Quaderno operativo si trovano interessanti soluzioni che, partendo dal
garantire il minimo previsto contrattualmente (5mila euro), con valori
proporzionali di pesatura quantificano il valore finale della retribuzione
di posizione. La retribuzione di risultato, invece, andrà contrattata
all’interno del decentrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovi
incarichi, tempi stretti per le regole di nomina e revoca.
Dall’Anci il Quaderno operativo con le istruzioni e gli schemi di delibera.
Disciplina da approvare entro il 20 maggio dopo il confronto con i
sindacati.
Stringono i tempi per aggiornare le regole sulle nuove posizioni
organizzative. Sul tema arrivano le istruzioni dell’Anci, con un
nuovo
Quaderno operativo pubblicato questa mattina.
Il contratto nazionale del 21.05.2018 ha totalmente rivisto le modalità di
affidamento degli incarichi e le regole per la graduazione delle aree. Lo
strumento dell’Associazione porta con sé, quindi, molto interesse tenuto
conto che le posizioni organizzative in essere verranno meno il 20 maggio
prossimo.
Nel documento si parte proprio da questa scadenza e viene da subito
ricordato che il contratto ha previsto delle precise relazioni sindacali che
devono partire al più presto. Per determinare i criteri di nomina e di
revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree
è infatti necessario avviare il confronto con i sindacati. La procedura
prevede che vi sia un’informazione preventiva alle organizzazioni sindacali
e che queste abbiano cinque giorni di tempo per avviare il confronto. Il
tutto deve però chiudersi entro trenta giorni. Agenda alla mano, quindi, per
essere pronti con tutto al 20 maggio gli enti devono accelerare i tempi
inviando ai sindacati i criteri generali per la costruzione dei sistemi
proprio in questi giorni.
L’Anci ricorda poi che ci sono altri importanti passaggi da fare ai tavoli
con le rappresentanze sindacali. In sede di contrattazione integrativa, ad
esempio, saranno da contrattare i criteri per l’erogazione della
retribuzione di risultato, mentre vengono ulteriormente precisate le
dinamiche sulle risorse stanziate per l’istituto nel delicato rapporto con
il fondo del trattamento accessorio. Infatti, se l’ente stanzia per le
posizioni organizzative somme equivalenti a quelle del 2017 non ci sono
problemi. Se però l’ente dovesse stanziare più somme, e queste comportano la
riduzione del fondo per rispettare il tetto dell’anno 2016 previsto
dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, si deve per forza passare dalla
contrattazione. Nel caso contrario, invece, cioè stanziando meno risorse per
le posizioni organizzative, si creerebbe la possibilità di aumentare il
fondo; azione che però deve transitare dal confronto.
Gli enti senza la dirigenza hanno però beneficiato di un’ulteriore
possibilità: scomputare dalle capacità assunzionali eventuali incrementi di
valore degli importi dovuti al fatto che il valore massimo della
retribuzione di posizione è salito con il nuovo contratto nazionale a 16mila
euro. La soluzione è prevista all’articolo 11-bis del Dl 135/2018 e l’Anci
si è impegnata di chiedere che la norma diventi applicabile anche negli enti
con la dirigenza.
Il documento dell’Associazione propone quindi due strumenti operativi. Da
una parte si trova una bozza di deliberazione di Giunta per l’approvazione
dei criteri e dall’altra un vero e proprio regolamento, ovviamente
adattabile da parte di ciascun ente, che si suddivide in due ulteriori sotto
sezioni: i criteri per la nomina e la revoca delle posizioni organizzative e
quelli per la graduazione delle aree. Secondo l’Anci, è opportuno porre
quest’ultima azione in capo a un soggetto terzo: il nucleo o l’organismo
indipendente di valutazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative: la durata dell'incarico non deve coincidere con quella del
mandato del sindaco (13.03.2019
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni
sindacali e indennità, doppio nodo per gli incarichi di posizione
organizzativa.
Due nodi assai intricati nella
disciplina degli incarichi di posizione organizzativa sono costituiti dalle
relazioni sindacali e dal tetto massimo delle risorse che possono essere
destinate al finanziamento delle indennità di posizione e di risultato.
Relazioni sindacali
Nelle relazioni sindacali sommiamo il confronto, la contrattazione e la
potestà per gli enti di deliberare senza il rispetto di particolari vincoli.
Il confronto deve essere effettuato, previa informazione preventiva e tanto
su richiesta dei soggetti sindacali quanto per iniziativa diretta dell'ente,
sui criteri di conferimento, revoca e graduazione di questi incarichi.
Esso è inoltre necessario per verificare le modalità di implementazione del
fondo per la contrattazione decentrata nel caso in cui l'ente decida di
tagliare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni
organizzative e si ricorda che è questa la forma di relazione sindacale
prevista per i criteri generali di valutazione delle performance, compresa
quella delle posizioni organizzative.
La contrattazione decentrata è necessaria per decidere i criteri generali
per la determinazione della indennità di risultato e per stabilire una
eventuale correlazione tra questa indennità e l'erogazione di incentivi
previsti da specifiche disposizioni di legge, quindi ad esempio per
prevedere una diminuzione dell'indennità nel caso in cui i compensi per i
contenziosi condotti con successo dagli avvocati dell'ente o quelli per le
funzioni tecniche superino soglie prefissate. Spetta invece alle
amministrazioni decidere, senza che siano richieste particolari forme di
relazione sindacale, la quota del fondo da riservare al finanziamento
dell'indennità di risultato, garantendo comunque che essa non scenda al di
sotto del 15%.
Nell'applicazione di questa previsione contrattuale in alcune
amministrazioni si sta scegliendo di abbassare questo compenso rispetto al
25% della indennità di posizione, che sulla base del contratto 31.03.1999,
era la precedente soglia massima, così da potere utilizzare queste risorse
per aumentare la indennità di posizione e/o per aumentare il numero di
questi incarichi.
Il tetto delle risorse
Non meno intricato è il nodo del tetto delle risorse che le amministrazioni
possono destinare al finanziamento delle posizioni organizzative. Il
contratto prende atto che l'articolo 23 del Dlgs 75/2017 stabilisce che le
risorse del salario accessorio non devono superare quelle del 2016, vincolo
che si applica non solo al fondo per la contrattazione decentrata, ma anche
ai compensi per i titolari di posizioni organizzativa.
Per il finanziamento di queste risorse è previsto che negli enti con la
dirigenza lo stesso sia a carico del bilancio dell'ente, come avviene da
sempre negli enti senza la dirigenza, con contestuale taglio di queste somme
dalla parte stabile del fondo. Una disposizione che vuole rendere più
flessibili gli spazi di autonomia organizzativa, consentendo alle
amministrazioni di deliberare senza doversi preoccupare di acquisire il
consenso sindacale per il finanziamento degli eventuali oneri aggiuntivi.
Possibilità che è vanificata dal tetto delle risorse per il salario
accessorio, fatta salva che si arrivi la possibilità –di scuola nella gran
parte delle realtà- che i soggetti sindacali accettino una decurtazione del
fondo per il salario accessorio per finanziare aumenti per le posizioni
organizzative.
Le novità del Dl semplificazioni
Con l'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018, Dl semplificazione, come
risulta dopo la conversione, è consentito ai Comuni senza dirigenti di
aumentare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni
organizzative diminuendo nella stessa misura le capacità assunzionali a
tempo indeterminato, cioè quelle dell'anno e i resti del triennio
precedente, capacità che peraltro molto spesso non sono interamente
utilizzate.
Il testo accoglie in modo assai parziale la richiesta dell'Anci, visto che
questa possibilità è preclusa agli enti con i dirigenti, cioè a quelli che
hanno una dimensione maggiore
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, si parte dal confronto sindacale ma la
decisione è dell'Ente.
Le amministrazioni devono ridefinire l’assetto delle
posizioni organizzative e devono farlo entro il 20 maggio prossimo, pena
l’impossibilità di procedere al conferimento dei relativi incarichi. Ciò
deve avvenire agendo su due aspetti entrambi oggetto di confronto sindacale:
la definizione dei criteri generali per il conferimento e per la revoca e la
definizione dei criteri per la graduazione ai fini dell’attribuzione della
indennità di posizione.
Si tratta di materie che le amministrazioni possono disciplinare
autonomamente in quanto decorso il termine di 30 giorni dal momento
dell’avvio del confronto sindacale le materie rientrano nella piena
disponibilità delle amministrazioni.
Il confronto, che deve essere richiesto entro 5 giorni dall’informativa o
proposto dall’Ente, non implica che le parti debbano raggiungere un accordo
ma rappresenta una modalità relazionale attraverso la quale le parti
esprimono le proprie valutazioni e consentono loro di partecipare alla
definizione delle misure che l’ente intende adottare; il confronto si
conclude con la redazione di una sintesi delle posizioni emerse che vengono
offerte alle Amministrazioni cui compete la decisione finale.
Istituzioni delle posizioni organizzative
L’istituzione delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a
posizioni di lavoro che presentino le seguenti caratteristiche:
a) deve trattarsi di funzioni di direzioni di unità organizzative
che presentino particolare complessità;
b) le funzioni di direzioni devono caratterizzarsi per l’elevato
grado di autonomia gestionale e organizzativa.
In alternativa l’istituzione di posizioni organizzative può riguardare
attività ad alto contenuto professionale per le quali è richiesta una
elevata competenza specialistica (maturata o mediante titoli di livello
universitario o attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali,
in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale), che
deve essere verificata in sede di conferimento attraverso l’esame del
curriculum.
Non è pertanto possibile prevedere l’istituzione di posizioni organizzative
al di fuori delle caratteristiche sopra enunciate e, quindi, le
amministrazioni non possono limitarsi alla mera individuazione ma devono
specificamene motivare la presenza, rispetto alle posizioni individuate e
indipendentemente dalla persona cui l’incarico verrà conferito, di tali
caratteristiche. L’assenza di un idoneo apparato motivazionale che consenta
di ricondurre le posizioni istituite alla caratteristiche previste dall’art.
13 del Ccnl funzioni locali espone gli atti di macro organizzazione al
rischio di declaratoria di illegittimità.
Criteri generali per il conferimento degli incarichi
L’amministrazione deve, quindi, disciplinare le regole per il conferimento
degli incarichi di posizione organizzativa che, nei comuni con dirigenti
sono conferiti da quest’ultimi, i quali devono attenersi ai criteri generali
definiti dall’Ente.
Il criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione
organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità
professionale e l’esperienza acquisita e dall’altro considerare la natura e
la caratteristica dei programmi da realizzare.
Tra i criteri da utilizzare per il conferimento dell’incarico
l’Amministrazione deve tenere in adeguata considerazione anche gli esiti
delle valutazioni individuali in attuazione dell’art. 3, comma 5, e
dell’art. 25, comma 2, del Dlgs 150/2009.
Nei comuni senza dirigenza le posizioni organizzative sono conferite ai
responsabili delle strutture apicali e le disposizioni contrattuali devono
essere lette unitamente alla previsione di sui all’art. 50, comma 10, Dlgs
267/2000 secondo il quale la nomina dei responsabili degli uffici e dei
servizi è affidata alla competenza del Sindaco e al successivo art. 109,
comma 2, del medesimo Decreto secondo il quale ai responsabili dei servizi
vengono affidate le funzioni tipicamente dirigenziali previste dall’articolo
107, commi 2 e 3.
La graduazione della posizioni
La graduazione delle posizioni è fondamentalmente finalizzata a definire
l’entità della retribuzione di posizione nei limiti minimi e massimi
previsti dall’articolo 15 del Ccnl funzioni locali.
Il valore medio delle retribuzioni di posizione è legato all’entità delle
risorse complessivamente disponibili per retribuzione di posizione e di
risultato che non deve superare l’importo destinato a tale finalità nel 2016
e di questo importo il valore complessivo massimo destinato alla
retribuzione di posizione non può superare l’80%; l’altro elemento che
incide sul valore medio è il numero di posizioni istituite. Il valore
complessivo 2016 può essere superato previa riduzione del fondo risorse
decentrate e solo previa contrattazione decentrata.
Ai fini della graduazione gli aspetti che devono essere considerati sono i
seguenti: a) la complessità organizzativa; b) la rilevanza delle
responsabilità amministrative e gestionali; rispetto questi macrocriteri
l’amministrazione definisce i criteri di dettaglio e le metriche di
valutazione pervenendo ad una graduatoria.
Il valore della retribuzione di posizione dipenderà dal numero di
graduazioni che si intendono attivare e dal numero di posizioni che si
intendono istituire; una eccessiva frammentazione delle graduazioni in
presenza di un numero ridotto di posizioni rischia di rendere poco gestibile
il sistema delle graduazioni. Per cui è corretto che all’aumentare del
posizioni istituite possa aumentare il numero delle graduazioni; il
trade-off tra questi due elementi (numero di posizioni e numero delle
graduazioni) deve essere risolto con criteri di ragionevolezza e tenendo ben
presente l’applicabilità in concreto dei criteri, che devono essere
predeterminati e indipendenti dal dipendente al quale sarà conferito
l’incarico.
A tale proposito i criteri utilizzati per declinare i macro fattori previsti
dal Ccnl devono essere tali da essere concretamente applicabili in relazione
alle caratteristiche e alle responsabilità connesse a ciascuna posizione
istituita. Per esempio, in relazione alla complessità organizzativa possono
essere parametri significativi il numero dei servizi e uffici che rientrano
nella direzione della posizione nonché il numero dei dipendenti. Con
riferimento alla rilevanza può essere utile il riferimento alla
significatività dei processi presidiati e al livello di rischio definito
nell’ambito del Piano triennale di prevenzione delle corruzione.
Occorre prestare attenzione nel valutare la rilevanza all’utilizzo di
criteri di incerta applicazione; a titolo di esempio stabilire come uno dei
criteri per valutare la rilevanza il numero dei pareri può rendere incerta
l’applicazione per quelle posizioni in cui l’entità effettiva dei pareri non
è predeterminabile o comunque dipende da specifiche situazioni di contesto
che possono cambiare da un anno all’altro (mentre la graduazione deve avere
una sua stabilità e robustezza).
Negli enti con dirigenza, nell’ambito dei criteri per la graduazione,
l’articolo 15 del Ccnl richiede di considerare anche l’ampiezza e il
contenuto delle eventuali funzioni delegate con attribuzioni di poteri di
firma di provvedimenti finali a rilevanza esterna; tuttavia tali ultimi
aspetti attengono a misure che dipendono dallo stile organizzativo e
manageriale del dirigente che conferisce gli incarichi e non sono
predeterminabili in quanto ciò significherebbe imporre al dirigente, per
specifiche posizioni organizzative, una sorta di “obbligo” di delega,
quando previsto in sede di graduazione, che nel nostro assetto normativo non
è configurabile e comunque lederebbe l’autonomia organizzativa, gestionale e
manageriale del dirigente medesimo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, il tempo stringe per gli Enti Locali alle prese con le
delibere.
Rimangono appena otto o nove settimane alle amministrazioni locali e
regionali per adottare i criteri di istituzione, conferimento, revoca e
graduazione della retribuzione per le posizioni organizzative.
La mancata adozione di queste disposizioni regolamentari entro il 21 maggio,
cioè entro un anno dall'entrata in vigore del contratto del personale delle
funzioni locali per il triennio 2016/2018, stipulato il 21.05.2018,
determina infatti la decadenza delle posizioni organizzative. Come chiarito
dall'Aran, anche se la loro scadenza "naturale" fissata dalle
amministrazioni fosse successiva.
Ma si deve aggiungere che, per non rischiare di superare il termine nelle
more dello svolgimento delle relazioni sindacali, le bozze di deliberazione
devono essere trasmesse ai soggetti sindacali entro la metà del mese di
aprile.
Informazione preventiva dei soggetti sindacali
Cominciamo proprio da questo aspetto: i criteri di conferimento, revoca e
graduazione delle posizioni organizzative, che l'ente adotta con una
deliberazione della giunta avente natura regolamentare, sono oggetto di
informazione preventiva e, a richiesta dei soggetti sindacali, di confronto.
Ricordiamo che il confronto deve essere chiesto dai rappresentanti dei
lavoratori (oltre che potere essere avviato direttamente da parte degli
enti) entro 5 giorni dalla ricezione della informazione e che esso, in
assenza di una intesa, inibisce all'ente la possibilità di deliberare prima
di un mese dal suo avvio: per cui prudenzialmente, salvo che i suoi
contenuti siano stati preventivamente concordati, si deve considerare che si
può arrivare a 40 giorni circa dalla comunicazione iniziale per potere
assumere la deliberazione.
Istituzione
Sulla base del nuovo contratto le amministrazioni devono decidere quali e
quante posizioni organizzative istituire, scegliendo in questo ambito tra
quelle preposte alla direzione di unità organizzative e le alte
professionalità, senza poterne più istituire per gli uffici di staff.
Devono inoltre disciplinare i criteri di conferimento sulla base dei
principi dettati dal nuovo contratto nazionale e che continuano a essere gli
stessi fissati nel 1999: «le funzioni ed attività da svolgere, la natura
e caratteristiche dei programmi da realizzare, i requisiti culturali
posseduti, le attitudini e la capacità professionale».
Criteri che lasciano ampi spazi di discrezionalità ma che non consentono
scelte di tipo esclusivamente fiduciario. In questo ambito occorre anche
disciplinare le procedure -ad esempio se le scelte sono precedute da un
avviso e dalla presentazione di candidature-e la durata –che per gli enti
con dirigenti non può essere superiore a 3 anni.
Revoca
Le amministrazioni devono disciplinare le procedure di revoca, intendendo
come tale solo quella anticipata, essendo possibile la mancata conferma alla
scadenza e il conferimento ad altro dipendente. La revoca in tutti gli enti
può essere disposta sulla base del contratto per mutamenti organizzativi e/o
per una valutazione negativa; si deve aggiungere che, sulla base delle
previsioni della legge 190/2012 (anticorruzione), può essere disposta in
caso di rotazione straordinaria, cioè a seguito di procedimenti penali e
che, sulla scorta del Dlgs 267/2000, ma solamente negli enti senza
dirigenti, può essere motivata dalla inosservanza delle direttive impartite
dall'organo di governo.
Graduazione degli incarichi
Gli enti devono disciplinare i criteri di graduazione degli incarichi di
posizione organizzativa nella forcella compresa tra 5.000 e 16.000 euro.
Occorre chiarire che non è obbligatorio per le amministrazioni fissare la
misura considerando che il tetto debba necessariamente essere fissato in
16.000 euro: questa è la soglia massima, per cui le amministrazioni possono
anche scegliere una cifra più bassa.
Il contratto prevede 2 criteri per tutti gli enti, la rilevanza delle
responsabilità e la complessità; per gli enti con la dirigenza ne viene
aggiunto un terzo: l'ampiezza e il contenuto dei compiti delegati, con la
connessa attribuzione della titolarità ad assumere atti a rilevanza esterna
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, aumenti di stipendio fino ai nuovi tetti
contrattuali solo negli Enti senza dirigenti.
Ha resistito alla falcidia degli emendamenti in fase di conversione del
decreto semplificazioni il possibile incremento della remunerazione delle
posizioni organizzative, ma solo per gli enti privi di dirigenza. Il
finanziamento degli aumenti, decisi in via autonoma da questi enti, dovrà
avvenire all'interno delle risorse previste dal contratto nazionale
(articolo 15, commi 2 e 3, del contratto 21.05.2018), ma dovrà essere
coperto, se sussiste la capacità di spesa in bilancio, con una riduzione per
equivalente della capacità assunzionale.
Le indicazioni dell'emendamento approvato
L'emendamento ha accolto la richiesta elaborata dall'Anci, limitandone
l'applicazione ai soli enti privi di dirigenti, in considerazione delle
maggiori responsabilità connesse agli incaricati di posizione organizzativa,
dove il sindaco attribuisce a questo personale anche le funzioni
dirigenziali (articolo 107 del testo unico degli enti locali). Non sono
state, invece, considerate sufficienti le indicazioni strategiche contenute
nel contratto del 21.05.2018 che ha previsto in modo innovativo, ai
titolari di posizione organizzativa negli enti con dirigenza, il possibile
conferimento di deleghe dirigenziali.
I limiti all'incremento economico
La possibilità riconosciuta agli enti privi di dirigenti, tuttavia, rimane
condizionata a una serie di verifiche di neutralità finanziaria della spesa.
Il primo limite è dato dall'obbligatoria, correlata e identica riduzione
delle capacità assunzionali, ossia riducendo il ricorso alle assunzioni
esterne (concorsi, scorrimento di graduatorie, passaggio da tempo parziale a
tempo pieno e mobilità non neutre). Si ricorda che le capacità assunzionali
per l'anno 2019 sono pari al 100% del valore economico delle cessazioni
avvenute nell'anno 2018, alle quali andranno aggiunti gli eventuali resti
assunzionali non utilizzati nel triennio precedente, pari agli importi delle
cessazioni, degli anni 2017, 2016 e 2015, non utilizzate.
Altro limite è rappresentato dalla spesa complessiva del personale che non
potrà essere superiore alla spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013
(comma 557-quater dell'articolo 1 della legge 296/2006) ovvero, per gli enti
con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno
2008 (comma 562 della legge finanziaria 2007).
La terza e ultima condizione, essendo la maggiore spesa corrente finanziata
dal bilancio, riguarda pur sempre il mantenimento degli equilibri di parte
corrente.
Qualora queste condizioni fossero rispettate, allora i maggiori importi
erogati ai titolari di posizioni organizzative (nel limite massimo di 16.000
euro per il personale di categoria D e 9.500 per quello di categoria C),
rispetto a quelli corrisposti alla data di entrata in vigore della legge di
conversione, non sarà soggetta al limite stabilito dall'articolo 23, comma
2, del Dlgs 75/2017 che prevede di non superare i valori del salario
accessorio stanziati nell'anno 2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.02.2019). |
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OKKIO:
la sanatoria
edilizia non sana (anche) la violazione della
normativa antisismica!!
A questo
punto, però, sorge spontaneo un interrogativo:
quanti tecnici comunali, quando
denunciano/relazionano un abuso edilizio alla competente Procura
della Repubblica per violazione dell'art. 31, 33 o
34 DPR n. 380/2001, denunciano/relazionano anche l'(eventuale) violazione
dell'art. 64, 65, 90, 93 o 94 del
medesimo DPR?? |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire in sanatoria e normativa antisismica: nuovo intervento della
Cassazione.
Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria
comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e
sulle opere di conglomerato cementizio.
Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione con la
sentenza 07.05.2019 n. 19221
con la quale ha rigettato il ricorso presentato avverso una sentenza di
primo grado che aveva condannato il ricorrente per il reato di abuso
edilizio previsto dagli articoli 64, 65, 71, 72, 93 e 95 del DPR n. 380/2001
(c.d. Testo Unico Edilizia).
In particolare, il Tribunale di primo grado aveva condannato l'attuale
ricorrente per i suddetti reati, dichiarando di non doversi procedere per il
reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), del Testo Unico Edilizia perché
estinto per il rilascio del permesso a costruire in sanatoria. In appello,
il ricorrente ha fatto presente che il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria da parte dell'Amministrazione ai sensi dell'art. 36 del DPR n.
380/2001 implicherebbe l'estinzione di tutti i reati essendo stata
verificata la doppia conformità urbanistica.
Gli ermellini, rigettando il ricorso, hanno confermato che sull'argomento
esiste ormai una pacifica giurisprudenza che in tema di reati edilizi
afferma che il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi
dell'art. 36 del Testo Unico Edilizia comporta l'estinzione dei reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di
quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato
cementizio. Nel caso in esame, il Tribunale si è attenuto al principio ora
evocato, correttamente limitando gli effetti del rilascio del permesso in
sanatoria al solo reato edilizio, con esclusione degli ulteriori reati di
cui agli artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95 del DPR n. 380/2001 (commento tratto
da www.lavoripubblici.it).
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SENTENZA
5. Ciò premesso, il ricorso è inammissibile.
Invero, per pacifica giurisprudenza, in tema di reati edilizi, il
conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di
quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato
cementizio (Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017 - dep. 07/08/2017, Rizzo, Rv.
270792; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014 - dep. 22/10/2014, Conforti, Rv.
261099).
Nel caso in esame, il Tribunale si è attenuto al principio ora evocato,
correttamente limitando gli effetti del rilascio del permesso in sanatoria
al solo reato edilizio, con esclusione degli ulteriori reati di cui agli
artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95 d.P.R. n. 380 del 2001
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2019 n. 19221). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di una veranda - Natura tecnico-giuridico di
nuovo locale autonomamente utilizzabile - Esclusione del
carattere di precarietà - Permesso di costruire - Natura
precaria o permanente dell'intervento - Costruzioni
realizzate in zona sismica - Disciplina sismica -
Applicazione - Artt. 44, c. 1, lett. c), 83, 93, 94, 95,
d.P.R. n. 380/2001.
In materia edilizia, una veranda è da
considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale
autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del
carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non
a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua
successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così
il godimento dell'immobile. Inoltre, le disposizioni
previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si
applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica,
anche alle opere edili con struttura in legno, a prescindere
dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché
dalla natura precaria o permanente dell'intervento
(Sez. 3, n. 4567 del 10/10/2017 - dep. 31/01/2018, Airo'
Farulla; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015 - dep. 11/12/2015,
Baio) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.05.2019 n. 18000
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le
disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona
sismica,
anche alle opere edili con struttura in legno, a prescindere dai materiali
utilizzati
e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente
dell'intervento.
---------------
4.
Il terzo motivo è infondato.
4.1. Va premesso che le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona
sismica,
anche alle opere edili con struttura in legno, a prescindere dai materiali
utilizzati
e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente
dell'intervento (Sez. 3, n. 4567 del 10/10/2017 - dep. 31/01/2018, Airo'
Farulla,
Rv. 273068; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015 - dep. 11/12/2015, Baio, Rv.
266033).
4.2. Ciò chiarito, la Corte territoriale ha puntualmente confutato, con
apprezzamento fattuale logicamente motivato, la valutazione espressa dal
primo
giudice, che aveva escluso la concreta offensività del fatto, correttamente
evidenziando le caratteristiche strutturali e dimensionali della veranda
coperta,
costituita da cinque ritti in legno, con copertura a falde composta da
assoni e
travi di legno, sormontate da tavolato e regolato, con superficie
residenziale di
55 mq. e con un'altezza media di 3,30 m. e volume di 180 mc.; da tali
elementi
la Corte territoriale, con apprezzamento fattuale non manifestamente
illogico, ha
desunto che l'opera costituisce un serio pericolo per l'incolumità pubblica,
essendo stata realizzata senza ottemperare alle prescrizioni previste in
materia
antisismica.
4.3. Non pertinente appare il richiamo all'art. 131-bis cod. pen., il quale,
prevedendo una causa di esclusione di punibilità, presuppone la sussistenza
di
un fatto tipico e offensivo, ancorché di un'offensività minima, valutata
secondo i
parametri previsti dalla norma, così impedendo la punibilità di fatti tipici
così
esiguamente lesivi del bene giuridico tutelato da non risultare meritevoli
di pena.
Si osserva, infine, che l'imputata, nella memoria difensiva, alle cui
argomentazioni e richieste si era riportato il difensore in sede di
discussione, non
aveva richiesto, pur in via gradata, l'applicazione dell'art. 131-bis cod. pen., la
cui applicabilità nel caso concreto, in ogni caso è stata -sia pure
implicitamente- esclusa, dalla Corte territoriale, laddove ha ravvisato la non
trascurabile
offensività della condotta in considerazione delle caratteristiche
strutturali e dimensionali dell'opera in esame (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.05.2019 n.
18000). |
EDILIZIA PRIVATA:
Antisismica, violare è un reato.
Non è rilevante la mancata pericolosità dell’edificio. Linea dura della Cassazione: da ogni modifica discende la responsabilità
penale.
Costruire in zone antisismiche in violazione delle disposizioni
di legge configura un reato indipendentemente dalla pericolosità
dell'edificio realizzato.
Per la Corte di Cassazione - Sez.
III penale (sentenza
08.02.2019 n. 6243) da ogni modifica ad una costruzione compiuta in zona
sismica contrariamente alle prescrizioni, discende la responsabilità penale.
All'imputato veniva contestata la violazione degli articoli 44, lett. c), dpr
380/2001 (capo A), 93-95, dpr 380/2001 (capo B) e 181, dlgs 42/2004 (secondo
capo A) per avere compiuto opere di muratura aventi ad oggetto una
costruzione sita in zona sismica. All'assoluzione in primo grado conseguiva
una condanna in appello.
Il procedimento proseguiva per cassazione ove
l'imputato a propria discolpa deduceva tra i motivi di ricorso, anche
l'assenza di uno dei requisiti richiesti dalla normativa per la configurabilità
del reato: la costruzione anche a seguito delle opere realizzate non
presentava il carattere della pericolosità richiesto per la punibilità della
condotta.
Il procedimento, dopo avere esaurito il proprio corso veniva deciso dagli
ermellini. I quali escludono che tra i requisiti richiesti dalla normativa,
rientri anche quello della pericolosità della costruzione a seguito delle
opere compiute. Osservano infatti che il bene tutelato viene ad ogni modo
leso indipendentemente dalle caratteristiche assunte dalla costruzione a
seguito dei lavori effettuati.
Ad avviso dei giudici la funzione della normativa nel settore antisismico è
costituita dalla tutela dell'attività di controllo della pubblica
amministrazione circa l'esecuzione delle opere in tali settori del
territorio, garantendo con la previsione di apposite figure di reato e delle
relative sanzioni l'adempimento degli obblighi di legge e delle prescrizioni
impartite dall'amministrazione durante il compimento delle costruzioni (articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).
---------------
MASSIMA
1. Il secondo motivo del ricorso della Lo. e il primo motivo
del ricorso di In. possono essere trattati congiuntamente, concernendo
entrambi, in termini sovrapponibili, il giudizio sulla configurabilità dei
reati contestati, che invero, a differenza di quanto dedotto, non presenta
vizi rilevabili in questa sede.
La sentenza impugnata, infatti, ha innanzitutto operato un'adeguata
ricostruzione della vicenda oggetto di impugnazione, pervenendo a coerenti
conclusioni giuridiche, all'esito di un percorso motivazionale non illogico
e ben più esaustivo della scarna esposizione della sentenza assolutoria di
primo grado.
I giudici di appello hanno invero rimarcato come il Tribunale abbia
indebitamente ridimensionato la rilevanza urbanistica delle opere
contestate, con particolare riferimento alla realizzazione in muratura della
tamponatura perimetrale della veranda di circa 27 metri quadri e
all'edificazione della tettoia di 48 metri quadri.
Tali opere non potevano ritenersi regolarmente assentite né dalla d.i.a.
presentata il 18.04.2013, né dal nulla osta rilasciato dalla Soprintendenza
il 18.07.2012, né dalla precedente concessione edilizia in sanatoria, avendo
entrambe le opere caratteristiche strutturalmente ben diverse rispetto a
quelle riportate nei progetti assentiti, posto che, quanto alla
veranda-cucina, era prevista sia la perimetrazione in legno e non in
muratura, come in realtà accertato, sia una diversa e minore altezza (di
circa 20 cm.) della linea di gronda rispetto a quella rilevata in sede di
sopralluogo, mentre, per quanto concerne la tettoia di 48 mq., la stessa,
per come verificato dalla P.G., era a falda inclinata e aveva un'altezza di
2,45 metri alla gronda e di 2,70 metri al colmo, mentre negli elaborati
progettuali era prevista una struttura piana con altezza di 2,25 metri.
Alla stregua di tali elementi, desunti da una rilettura più attenta delle
acquisizioni probatorie, soprattutto di natura documentale, la Corte dì
appello ha dunque ritenuto configurabili tutte e tre le fattispecie
contestate, richiamando, quanto ai reati di cui agli art. 44 del d.P.R. n.
380 del 2001 e 181 del d.lgs. 42 del 2004, oltre alla pacifica circostanza
della costruzione delle opere in area vincolata dal punto di vista
paesaggistico, la costante affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n.
42330 del 26/06/2013, Rv. 257290 e Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Rv.
247628), secondo cui assume rilievo penale la realizzazione, senza il
preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura
che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la
mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce
parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata, a nulla rilevando
che si trattasse di strutture aperte all'esterno.
In ordine poi alla contravvenzione di cui all'art. 93-95 del d.P.R. 380 del
2001, i giudici di appello hanno rimarcato la natura meramente assertiva
della motivazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui ha
ritenuto che le riscontrate variazioni rispetto agli elaborati progettuali,
per la loro entità, non abbiano comportato alcun "disequilibrio
nell'economia complessiva dell'impianto architettonico, statico e
paesaggistico della costruzione nel suo complesso", mentre in realtà,
come sostenuto anche dal funzionario del Genio civile di Agrigento Gi.Ca.,
la preventiva autorizzazione del predetto Ufficio sarebbe stata necessaria,
ricadendo in area sismica le tettoie realizzate, peraltro dotate di
dimensioni e caratteristiche strutturali non proprio trascurabili e dunque
potenzialmente idonee a mettere in pericolo la pubblica incolumità.
Peraltro, come ricordato dalla Corte territoriale e come ribadito più volte
dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007,
Rv. 238007),
in tema di costruzioni in zone sismiche, ai fini della
configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica
(art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni
realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto la normativa è
finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A.
sulle attività edificatorie nelle zone sismiche.
Ribadita la configurabilità delle fattispecie contestate, risulta altresì
immune da censure il giudizio di ascrivibilità delle stesse agli odierni
imputati, alla luce delle rispettive qualità di proprietaria e committente
delle opere (la Lo.) e di progettista e direttore dei lavori (In.), avendo
quest'ultimo curato, in prossimità dell'accertamento dei reati, anche l'iter
procedimentale dei lavori, rivelatosi tuttavia inadeguato rispetto alle
attività edilizie in concreto realizzate.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata, in quanto saldamente
ancorata alle fonti dimostrative acquisite e sorretta da argomentazioni
prive di profili di irrazionalità, si sottrae alle doglianze difensive, che
invero, oltre ad articolarsi in considerazioni prevalentemente fattuali
(scontando peraltro i ricorsi evidenti limiti di autosufficienza), appaiono
fondate su una non consentita lettura alternativa, e comunque frammentaria,
dell'intero materiale probatorio raccolto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza
08.02.2019 n. 6243. |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la uniforme giurisprudenza di questa Corte, deve escludersi l'efficacia
estintiva del permesso di costruire in sanatoria per le opere realizzate in
violazione della disciplina antisismica.
E tale esclusione riguarda anche la disciplina delle opere in cemento
armato.
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3. Del tutto errata risulta, al contrario, l'affermazione, contenuta nel
motivo di ricorso in esame, secondo la quale la sanatoria conseguita
dall'imputato avrebbe comportato anche l'estinzione della violazione della
disciplina antisismica.
Va detto, peraltro, che anche sul punto la sentenza impugnata offre una
confusa descrizione della sequenza procedimentale che avrebbe preceduto il
rilascio del titolo abilitativo sanante, facendo peraltro riferimento a
titoli diversi (concessione, autorizzazione, denuncia attività), ad attività
di demolizione di opere in difformità e ad altra procedura di sanatoria
pendente per l'abuso di cui al capo a) punto 5 per il quale è intervenuta
comunque l'assoluzione.
Ciò nonostante, va comunque osservato che, secondo la uniforme
giurisprudenza di questa Corte, deve escludersi l'efficacia estintiva del
permesso di costruire in sanatoria per le opere realizzate in violazione
della disciplina antisismica.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è uniforme (v., ex pl., Sez. 3,
n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino, Rv. 246462; Sez. 3, n. 19256 del
13/04/2005, Cupelli, Rv. 231850; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep. 1998),
Agnesse, Rv. 209571) e le esclusioni individuate dalla condivisibile lettura
della norma in esame, hanno superato anche il vaglio della Corte
Costituzionale (Corte Cost. sent. 149 del 30.04.1999).
Va per inciso rilevato che tali esclusioni riguardano anche la disciplina
delle opere in cemento armato, la sanabilità delle quali il Tribunale ha
invece erroneamente ammesso (v. Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna A, Rv.
22143901: Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997 (dep. 1998), Casà G, Rv. 20966201 ed
altre prec. conf.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.08.2017 n. 38953). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Blonda, Il
rilascio della c.d. concessione in sanatoria estingue anche i reati
antisismici? Ecco cosa comporta costruire un immobile in violazione delle
norme antisismiche
(06.11.2014 - link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanatoria disciplinata dall'art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 concerne
soltanto i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, nella
cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle
zone sismiche, che ha una oggettività diversa da quella attinente l'assetto
del territorio sotto il profilo edilizio.
---------------
2. Non può nutrirsi alcun dubbio sul fatto che la sanatoria disciplinata
dall'art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 concerne soltanto i reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, nella cui nozione non
rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche,
che ha una oggettività diversa da quella attinente l'assetto del territorio
sotto il profilo edilizio (Sez. 3, n. 2114 del 26/11/2002 - 17/01/2003,
Frascani, Rv. 223145); pertanto nessun rilievo può assumere la concessione
in sanatoria richiamata dal ricorrente
(Corte di Cassazione, Sez. feriale penale,
sentenza 22.10.2014 n. 44015). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
rilascio della concessione in sanatoria determina la estinzione dei soli
reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e non
riguarda gli altri reati concernenti aspetti delle costruzioni aventi una
oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela
urbanistica del territorio (nel caso di specie la violazione della normativa
antisismica).
---------------
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 25/10/2013, ha dichiarato non
doversi procedere nei confronti di Fr.Pa.Sa. e An.Sa., in ordine al reato di
cui agli artt. 110 cod. pen., 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, nonché di
violazione della normativa antisismica, per intervenuto rilascio di
concessione edilizia in sanatoria. Avverso detta pronuncia ha proposto
ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di
Palermo, eccependo violazione di legge, in quanto il decidente ha errato nel
considerare che la sanatoria ottenuta dai prevenuti potesse avere incidenza
anche sui reati ex artt. 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e va accolto.
Deve, infatti, osservarsi che l'art. 95, d.P.R. 380/2001, sanziona la
violazione delle norme tutte dettate per le costruzioni in zone sismiche,
previste nel medesimo testo unico ovvero nei decreti interministeriali cui
rinviano gli artt. 52 e 83, citato decreto.
Le contravvenzioni de quibus possono concorrere con le fattispecie di
cui all'art. 44 del citato t.u., tuttavia ad esse non è applicabile la
disciplina relativa alla richiesta di sanatoria ex art. 45, essendo questa
riferita alle sole norme che regolano l'assetto del territorio sotto il
profilo edilizio.
Conseguentemente, il rilascio della concessione in sanatoria determina la
estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti e non riguarda gli altri reati concernenti aspetti
delle costruzioni aventi una oggettività giuridica diversa rispetto a quella
della mera tutela urbanistica del territorio (ex multis Cass.
12/05/2005, n. 21978).
La sentenza impugnata va, quindi, annullata con rinvio, affinché il giudice
ad quem proceda in ordine ai reati di cui ai 2) e 3) della
imputazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.10.2014 n. 42550). |
IN EVIDENZA |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Revoca
quasi impossibile per il ragioniere capo.
I nuovi principi contabili hanno inciso in modo significativo sul ruolo del
responsabile dei servizi finanziari, tanto che l'Osservatorio sulla finanza
locale e la contabilità degli enti locali, ha emanato l'atto di
orientamento 26.10.2018 teso a evitare strumentali rotazioni degli incarichi o revoche
anticipate in considerazione del delicato ruolo attribuitogli
dall'ordinamento.
Le indicazioni del decreto del 2012
Si ricorda come le iniziali indicazioni del Dl 174/2012 prevedevano che
«L'incarico di responsabile del servizio finanziario di cui all'articolo
153, comma 4, può essere revocato esclusivamente in caso di gravi
irregolarità riscontrate nell'esercizio delle funzioni assegnate. La revoca
é disposta con Ordinanza del legale rappresentante dell'Ente, previo parere
obbligatorio del Ministero dell'interno e del Ministero dell'economia e
delle finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato».
La norma, tuttavia, è stata successivamente espunta in sede di conversione
dalla legge 213/2012, mentre sono restate intatte le ulteriori funzioni che
attribuiscono al responsabile finanziario il controllo sugli equilibri di
bilancio e dei vincoli di finanza pubblica, disponendo, altresì, che
nell'esercizio di queste funzioni il responsabile del servizio finanziario
agisce «in autonomia», segnalando, fra l'altro, eventuali squilibri anche
alla Corte dei conti.
Precisa l'Osservatorio come, la Consulta (sentenza n. 184/2016) abbia avuto
modo di esaltare la regola che la copertura economica di spese ed equilibri
di bilancio sono due facce della stessa medaglia dal momento che
l'equilibrio presuppone che ogni intervento programmato sia sorretto dalla
previa individuazione delle risorse.
Pertanto, nel ruolo affidato al
responsabile del servizio finanziario è di primaria importanza la
realizzazione di questi obiettivi con la conseguenza della tendenziale
stabilità nel tempo della figura del responsabile finanziario.
Sulla rotazione degli incarichi
Una volta chiarita la necessaria stabilità del ruolo del responsabile dei
servizi finanziari è necessario trovare un coordinamento con le disposizioni
dei piani anticorruzione che indicano come necessaria la rotazione degli
incarichi dirigenziali. In questo caso una rotazione del ruolo del
responsabile finanziario non potrà che essere attentamente valutata
dall'ente tenendo conto obbligatoriamente dell'infungibilità di questa
figura dirigenziale, con alcune precisazioni.
La prima precisazione riguarda la verifica che la rotazione non comprometta
il buon andamento e la continuità dell'azione amministrativa e cioè che non
siano in alcun modo compromesse le funzioni di conservazione e salvaguardia
degli equilibri di bilancio. In altri termini le motivazioni di una
rotazione dell'incarico dovranno essere indirizzate sulle necessarie
competenze professionali del nuovo responsabile necessarie per lo
svolgimento delle attribuzioni del servizio finanziario.
La seconda precisazione riguarda la sostanziale infungibilità della
posizione del responsabile finanziario con obbligo di soprassedere
dall'attuare la misura di prevenzione della corruzione qualora non sia in
grado di garantire il conferimento dell'incarico a soggetti dotati delle
competenze necessarie per assicurare la continuità dell'azione
amministrativa.
Sulla revoca degli incarichi
Al fine di stabilire ed evitare che l'ente possa attuare forme
discriminatorie di risoluzione anticipata degli incarichi dei responsabili
degli uffici finanziari, l'Osservatorio fa proprie le prime indicazioni del
Dl 174/2012 ma, in considerazione della sua espunzione in sede di
conversione in legge, mediante specifico inserimento nel regolamento di
contabilità.
In altri termini, il regolamento di contabilità potrà prevedere
che la revoca sindacale dell'incarico di responsabile finanziario, attesa
l'assoluta prevalenza delle sue attribuzioni alla tutela di profili ordinamentali,
potrà essere limitata ai casi di gravi e riscontrate irregolarità contabili
e subordinata all'acquisizione di un parere obbligatorio e vincolante del
Consiglio dell'ente, da comunicare entro 30 giorni dall'adozione alla
competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.11.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti
locali, ragionieri stabili. Rotazione e revoca solo in caso di gravi
irregolarità. L’Osservatorio per la finanza e la contabilità: valutare
attentamente l’avvicendamento.
Rotazione e revoca cum grano salis per i ragionieri di
comuni, province e città metropolitane. Le due misure, che di fatto
determinano (sia pure per ragioni diverse) la sostituzione del responsabile
del servizio finanziario, devono essere attentamente soppesate e motivate al
fine di non pregiudicare il buon andamento e la continuità dell'azione
amministrativa.
Possono essere sintetizzate in
questi termini le
indicazioni 26.10.2018 fornite dall'Osservatorio per la finanza e la
contabilità degli enti locali, che ha dedicato all'argomento un
atto di orientamento finalizzato a incentivare comportamenti omogenei
nell'adozione di provvedimenti organizzativi che incidano su tale cruciale
figura. Quest'ultima svolge, infatti, funzioni di primaria importanza ai
fini della salvaguardia degli equilibri finanziari e contabili delle
amministrazioni, sia per i compiti di verifica della veridicità delle
previsioni, sia per quelli di vigilanza sulla legittimità degli atti di
gestione.
Logico corollario di tale specifica responsabilità non può che essere, in
via di principio, la tendenziale stabilità nel tempo della stessa figura.
Basti pensare che il dl 174/2012 aveva subordinato la revoca del ragioniere
al parere obbligatorio del ministero dell'interno e della Ragioneria
generale dello stato. Tale norma è stata poi stralciata, ma l'esigenza
rimane ferma.
L'Osservatorio, quindi, suggerisce di disciplinare a livello regolamentare
il procedimento, consentendone l'avvio solo per «casi di gravi e
riscontrate irregolarità contabili» e prevedendo l'acquisizione di un
parere obbligatorio e vincolante del consiglio dell'ente, da comunicare
entro 30 giorni alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
Analogamente, la rotazione per finalità di prevenzione della corruzione
dovrà essere disposta solo in modo da non compromettere il regolare
svolgimento delle suddette funzioni.
Tale garanzia non dovrà esaurirsi in una mera clausola di stile
motivazionale, ma dovrà indicare le concrete misure che la inverano, tra le
quali, di primaria importanza, la sussistenza reale delle competenze
professionali del nuovo responsabile. In mancanza, gli enti potranno
soprassedere e optare per misure anticorruttive alternative (articolo ItaliaOggi del 14.11.2018). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Cassazione: le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale ma in
modo lineare. Ai Comuni è sì consentito stabilire negli strumenti
urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.
Le distanze tra edifici non si misurano in modo
radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo
lineare. Lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è di impedire la
formazione di intercapedini nocive.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella
sentenza 16.04.2019 n. 10580.
In questa recente sentenza viene richiamato un consolidato orientamento
della Cassazione, secondo cui "le distanze tra edifici
non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle
vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall'art.
873 c.c. è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché
la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due
fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si
fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle
avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto"
(così Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).
Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell'art. 873 c.p.c.,
stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il
metodo di calcolo lineare (commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
I primi tre motivi, tra loro strettamente connessi, sono fondati.
Il giudice d'appello ha osservato che "oggetto di censura è unicamente la
modalità radiale di misurazione" cui sono quindi limitati "l'esame e
la decisione del gravame", che, in forza del richiamo operato dagli artt.
872 e 873 c.c., i regolamenti edilizi e i piani regolatori generali hanno
valore di legge e possono sempre stabilire una distanza maggiore, il che può
indifferentemente avvenire sia in virtù della espressa indicazione di una
maggiore misura dello spazio che come effetto di una particolare misurazione
da essi imposta, così che -conclude il giudice- è legittimo il metodo
radiale stabilito dall'art. 18 delle norme di attuazione del piano
regolatore del Comune di Lierna e bene ha fatto il giudice di primo grado ha
ritenere violata la distanza minima.
L'iter argomentativo del giudice si pone in contrasto con il consolidato
orientamento di questa Corte, secondo cui "le distanze
tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze
rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite
imposto dall'art. 873 c.c. è quello di impedire la formazione di
intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se
non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla
linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che,
supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino
almeno in un punto" (così
Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).
Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell'art.
873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non
alterare il metodo di calcolo lineare.
---------------
Al riguardo, si legga anche:
● F. Ressa,
Come misurare la distanza tra edifici? Lo ha chiarito la Cassazione
(09.05.2019 - link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di limitazioni
legali della proprietà, l'art. 873 cod. civ., avendo la finalità di impedire
intercapedini dannose, prevede che le norme sulle distanze legali si
applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano, sicché la loro
misurazione deve essere effettuata in modo lineare, e non in modo radiale
(ossia "a raggio") come invece previsto in materia di vedute.
La norma dell'art. 873 cod. civ., pertanto, non trova applicazione se non
nel caso in cui i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla
linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che,
supponendo di farli avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino
almeno in un punto.
---------------
2. — Entrambe le censure non possono trovare accoglimento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di
discostarsi, in tema di limitazioni legali della proprietà, l'art. 873 cod.
civ., avendo la finalità di impedire intercapedini dannose, prevede che le
norme sulle distanze legali si applicano soltanto agli edifici che si
fronteggiano, sicché la loro misurazione deve essere effettuata in modo
lineare, e non in modo radiale (ossia "a raggio") come invece
previsto in materia di vedute (Sez. 2, Sentenza n. 7285 del 07/04/2005, Rv.
580948; Sez. 2, Sentenza n. 4639 del 24/05/1997, Rv. 504678; Sez. 2,
Sentenza n. 7048 del 25/06/1993, Rv. 482917); la norma dell'art. 873 cod.
civ., pertanto, non trova applicazione se non nel caso in cui i due
fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si
fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farli
avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto (Sez.
2, Sentenza n. 2548 del 25/07/1972, Rv. 360058).
Nella specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tale
principio. Essa, infatti, tenendo conto del fatto che il confine tra il
fondo degli attori e quello dei convenuti è obliquo, ha verificato —sulla
base degli elaborati del C.T.U.— che la proiezione lineare del fabbricato
dei convenuti non si interseca affatto col fabbricato degli attori, in tal
modo pervenendo a conclusioni coincidenti con quelle del consulente tecnico
d'ufficio (p. 4 della sentenza impugnata). Dal che esattamente la Corte
territoriale ha concluso che le norme sulle distanze legali non fossero
state violate
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 11.05.2016 n. 9649). |
IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Bonifiche rafforzate per impianti che sorgono in contesti
residenziali. Un parere del Consiglio di Stato impone obiettivi parametrati
alla funzione urbanistica.
Per stabilire gli obiettivi di bonifica di un sito non basta capire il suo
concreto utilizzo; occorre anche calarlo nel contesto urbano. Per cui se un
distributore di carburante sorge in un ambito residenziale i parametri
ambientali di bonifica dovrebbero essere più stringenti e rafforzati.
Questo il principio espresso dal Consiglio di Stato -Sez. I- nel
parere 15.04.2019 n. 1156 reso su un ricorso straordinario al
Presidente della repubblica.
In sintesi, i giudici amministrativi, pur riconoscendo che il quadro
legislativo di riferimento è di difficile interpretazione, riferendosi
appunto a una pompa di benzina giungono a ritenere che i principi di
precauzione e azione preventiva impongano di definire gli interventi di
bonifica non solo con riferimento al concreto utilizzo del sito
(produttivo), ma anche con riferimento al contesto urbano in cui il sito si
colloca (residenziale).
Il Dlgs 152/2006 definisce due soglie di verifica per la potenziale
contaminazione di un sito:
●
una parametrata alla destinazione residenziale e verde pubblico/privato;
●
l’altra a quella industriale e commerciale.
Anche gli obiettivi di bonifica di un sito contaminato sono diversificati:
più cautelativi nel primo caso, più tolleranti nel secondo.
Ma le destinazioni urbanistiche sono molto più variegate di quelle definite
dalla normativa ambientale (servizi, terziario, ricettivo) e, in molti casi,
il Piano regolatore generale consente di insediare in un’area diverse
funzioni e destinazioni, introducendo spesso anche il più moderno concetto
di «indifferenziazione funzionale», ossia la possibilità di
diversificare senza particolari limitazioni l’uso degli immobili.
In via estensiva si pone, così, il tema interpretativo di stabilire quali
siano le tabelle ambientali di riferimento e se debba prevalere l’uso
teorico del sito per come previsto nello strumento urbanistico generale,
ovvero quello concreto sancito dai titoli edilizi.
La poca giurisprudenza sul punto (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 25.02.2014 n. 255, che risulta appellata) ha sempre
privilegiato l’uso teorico futuro per parametrare gli obiettivi di bonifica.
Ora il Consiglio di Stato pare andare oltre, stabilendo che debba essere
considerato anche il contesto urbanistico circostante.
Se il caso dei distributori di carburante rappresenta un tema peculiare
(peraltro oggetto di diverse linee guida specifiche), l’argomento in sé
riveste attualità in quanto molti sono i casi di bonifiche di siti
industriali in contesti urbanizzati o con nuove funzioni teoricamente
ammesse.
Tuttavia, la scelta non può essere unicamente basata sul principio di
precauzione e prevenzione, ma deve anche muovere da situazioni oggettive,
quali quella di sostenibilità economica degli interventi di bonifica e della
volontà degli operatori rispetto all’effettivo uso (attuale o futuro) del
sito. Porre obiettivi sempre più cautelativi non sempre equivale ad una
maggior tutela dell’ambiente e della salute.
In assenza di adeguate risorse economiche (private e pubbliche) per la
bonifica, si ottiene un risultato contrario: più siti contaminati e meno
bonificati. Forse allora il vero obiettivo di sostenibilità ambientale
imporrebbe un uso più razionale del territorio che consideri lo stato di
contaminazione come base di partenza per valutare gli scenari di riutilizzo
del sito e del contesto urbano circostante
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2019).
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SENTENZA
2. La questione centrale attorno alla quale ruota la soluzione della
controversia in esame si riassume nella domanda se nell'analisi di rischio
di un distributore di carburanti la destinazione d’uso del sito, rispetto
alla quale la normativa vigente differenzia i valori delle concentrazioni
soglia di contaminazione (CSC) da prendere a riferimento, sia quella
prevista nella strumentazione urbanistica o quella effettivamente in atto.
3. Giova premettere che l’art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede, al
comma 4, in linea generale, che “Sulla base delle risultanze della
caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio
sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio
(CSR)”, e che, tra gli allegati al titolo V della parte IV, l’allegato 5
-Concentrazione soglia di contaminazione nel suolo, nel sottosuolo e nelle
acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti–
distingue i valori dei composti inorganici (espressi in termini di
concentrazione soglia di contaminazione nel suolo e nel sottosuolo) in
riferimento alla specifica destinazione d'uso dei siti da bonificare (siti
ad uso verde pubblico e privato e residenziale nella colonna “A” e siti ad
uso commerciale e industriale in quella “B”).
4. Sostiene la parte ricorrente che, trattandosi di un impianto distributore
di carburanti non in dismissione, ma ancora in funzione, i valori delle CSC
debbano essere quelli (meno severi) propri dell’uso in atto del sito, inteso
come area di sedime dell’impianto, da considerare in sé come commerciale e
industriale, e non (come invece preteso dall’amministrazione) quelli (più
impegnativi) propri della destinazione d’uso residenziale della zona nella
quale l’impianto ricade, così come definita nello strumento urbanistico.
5. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, cui
deve ascriversi una speciale competenza istituzionale nell’interpretazione e
nell’applicazione della normativa di settore, in particolar modo nel quadro
del (così detto) “codice” dell’ambiente, di cui al più volte citato
d.lgs. n. 152 del 2006, una volta chiarito che non può trovare applicazione
nel caso di specie, ratione temporis, la sopravvenuta disciplina
speciale introdotta con il d.m. 12.02.2015, n. 31 (Regolamento recante
criteri semplificati per la caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica
dei punti vendita carburanti, ai sensi dell'articolo 252, comma 4, del
decreto legislativo 03.04.2006, n. 152), ha ritenuto “non condivisibile
l'osservazione della parte ricorrente secondo la quale ciò che rileva è la
destinazione effettiva dell'area che, nel caso di specie, è commerciale, in
deroga, quindi, al certificato di destinazione d'uso dell'area (che è di
tipo residenziale)”, con l’ulteriore rilievo per cui “l'appendice V
dei criteri ISPRA richiamata dalla parte ricorrente ... fa esclusivo
riferimento all'utilizzo effettivo del sito, riguardo al modello concettuale
per l'analisi di rischio (ad es. per la valutazione dei bersagli), mentre il
confronto con le CSC di riferimento è relativo al certificato di
destinazione d'uso, come già esposto”.
6. Tra le due tesi che si contendono il campo la Sezione giudica più
convincente quella sostenuta dal competente Ministero e dall’amministrazione
intimata.
Pur a fronte di un dato testuale del decreto legislativo di settore poco
perspicuo (sia nella parte dell’articolato, sia in quella degli allegati), e
non chiarito dai decreti attuativi, né dalla linee guida dell’ISPRA
(inidonee a modificare la norma giuridica in quanto mere regole tecniche),
criteri interpretativi sistematici e finalistici inducono a ritenere
che gli obiettivi di “promozione dei livelli di qualità della vita umana,
da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle
condizioni dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e razionale delle risorse
naturali” (art. 2, comma 1,
del decreto legislativo n. 152 del 2006) e “della
precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria
alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina
paga"” (art. 3-ter stesso
decreto) siano più adeguatamente conseguiti e soddisfatti
commisurando gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza e
bonifica dei punti vendita carburanti al livello di tutela ambientale
richiesto, alla stregua della pertinente strumentazione urbanistica, per
l’area a destinazione residenziale all’interno della quale si colloca
l’impianto, piuttosto che al livello (meno protettivo) richiesto ove si
consideri isolatamente l’impianto (e il suo mero sedime), come sito ad uso (fattualmente)
commerciale e industriale.
7. Conclusivamente, il ricorso deve giudicarsi infondato e andrà come tale
respinto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Bonifiche - Ordinanze comunali - Società responsabile incorporata per
fusione - Obblighi - Società incorporata - Subentra - Acque emunte -
Equiparazione tout court con le acque reflue industriali - Esclusione.
Così come l'ordine di bonifica può essere legittimamente
rivolto all'autore dell'inquinamento anche per condotte anteriori al Dlgs
22/1997, allo stesso modo il medesimo ordine può essere rivolto al suo
successore universale.
Quest’ultimo subentra in tutti gli obblighi della società incorporata e
quindi anche negli obblighi di facere, connessi alla posizione di garanzia
assunta dall'autore dell'inquinamento a causa della sua pregressa condotta
commissiva.
In capo alla società che succede a un’altra a seguito di incorporazione per
fusione è quindi riscontrabile un obbligo di bonifica e ripristino
ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla
società incorporata, se non si fosse estinta.
Visto che le norme penali che sanzionano il mancato adempimento degli
obblighi di bonifica (e non l'inquinamento prodotto in epoca precedente)
collegano la pena alla mancata realizzazione della bonifica, differenziare
la posizione di responsabilità dell'autore materiale dell'inquinamento da
quella del suo successore universale non ha senso.
---------------
2. Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Con le censure contenute nel primo dei primi e dei secondi motivi aggiunti,
sopra rubricati come sesto e sedicesimo motivo, la parte ricorrente lamenta
che nessun ordine di bonifica può esserle rivolto in quanto l’inquinamento
risale alle lavorazioni svolte da Cl. Spa precedentemente al suo subentro
nella proprietà dei terreni, e che pertanto, in quanto proprietaria
incolpevole, non può essere obbligata alla bonifica.
Le conclusioni cui giunge la parte ricorrente non possono essere condivise,
perché in realtà la problematica che attiene alla possibilità o meno di
coinvolgere nella procedura di bonifica il proprietario che non ha causato
la contaminazione, è estranea alla controversia in esame.
Infatti, e ciò è dirimente, la ricorrente So.it. per il gas Spa, come
eccepito dalla Regione Veneto e dal Comune di Venezia, ha incorporato per
fusione la Società Cl. Spa con atto del 24.12.1970 ed è a tale titolo che è
subentrata nella proprietà del terreno oggetto della procedura di bonifica.
La ricorrente sostiene che sarebbe inconferente il richiamo
all’incorporazione per fusione, perché questa non dà luogo ad una continuità
dei rapporti giuridici per fusioni avvenute prima dell’entrata in vigore (il
01.01.2004) del Dlgs. 24.12.2003, n. 6, che ha modificato l’art.
2504-bis c.c. nel testo ad oggi vigente, che ha sancito la prosecuzione dei
relativi rapporti giuridici, e che in ogni caso l’incorporazione per fusione
non costituisce titolo di responsabilità della società incorporante quando
l’inquinamento sia stato cagionato antecedentemente all’entrata in vigore
della normativa in materia di bonifica di cui al Dlgs. 05.02.1997, n.
22, e la società subentrante non abbia proseguito l’attività della società
incorporata.
A sostegno di tali conclusioni la parte ricorrente cita alcune pronunce
giurisprudenziali (Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 19.04.2007, n. 1913
confermata in appello con sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V,
05.12.2008, n. 6055).
Il Collegio ritiene di non poter condividere questo ordine di idee.
Infatti quanto al primo rilievo, va osservato che anche nel regime
precedente alla modifica dell'art. 2504-bis c.c. ad opera del Dlgs.
17.01.2003 n. 6, la fusione di una società determinava una situazione
giuridica corrispondente alla successione universale con la contestuale
sostituzione nella titolarità di tutti i rapporti giuridici attivi e passivi
(ex pluribus cfr. Cass. Sez. lav., 22.03.2010, n. 6845; Cass. Sez.
Un., 28.12.2007, n. 27183; Cass. Sez. 3, 13.03.2009, n. 6167; Cass.
06.05.2005, n. 9432; Cass. 25.11.2004, n. 22236; Cass. 03.08.2005, n. 16194;
Cass. 24.06.2005, n. 13695), come si evince dalla precedente formulazione
dell'art. 2504-bis c.c., comma 1, la quale statuiva che "la società che
risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli
obblighi delle società estinte" (è proprio il riferimento testuale alle
"società estinte" che ha indotto giurisprudenza e dottrina a ritenere che si
tratti di successione a titolo universale).
Quanto al secondo rilievo, va osservato, aderendo alle conclusioni cui è
giunta altra e più persuasiva giurisprudenza (cfr. con riguardo ad una
fattispecie di fusione Tar Toscana, Sez. II, 01.04.2011, n. 573), che
l’inquinamento è una situazione permanente, in quanto perdura fino a quando
non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati
entro limiti accettabili, con la conseguenza che le disposizioni di cui al Dlgs.
05.02.1997, n. 22, vanno applicate a qualunque sito risulti
inquinato a prescindere dal momento nel quale possa essere avvenuto il fatto
o i fatti generatori della contaminazione.
Infatti, secondo la ricostruzione effettuata dalla giurisprudenza
amministrativa, anche le norme di carattere penale che sanzionano il mancato
adempimento degli obblighi di bonifica, collegano la pena non al momento in
cui viene cagionato l’inquinamento o il relativo pericolo, ma alla mancata
realizzazione della bonifica, che è l’attività necessaria a far cessare gli
effetti di una condotta omissiva a carattere permanente (cfr. ex pluribus
Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.10.2007, n. 5283; Tar Lombardia,
Brescia, Sez. I, 21.01.2013, n. 50), e la sanzione colpisce non
l’inquinamento prodotto in epoca precedente, ma la mancata eliminazione
degli effetti che permangono nonostante il decorso del tempo (alle medesime
conclusioni giunge quell’orientamento della giurisprudenza penale secondo il
quale l’art. 51-bis del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, si configura quale
reato omissivo di pericolo presunto, che si consuma ove il soggetto non
proceda ad adempiere l’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentali
normativamente definite: cfr. Cass. pen., Sez. III, 28.04.2000, n. 1783;
va dato atto che un diverso orientamento è stato espresso da Cass. civ. 21.10.2011, n. 21887).
Poste tali premesse, deve pertanto concludersi che la Società ricorrente,
essendo succeduta a titolo universale alla Società Cl. Spa a seguito della
sua incorporazione per fusione, è subentrata in tutti gli obblighi a questa
spettanti e quindi anche negli obblighi di facere che sono connessi
alla posizione di garanzia dalla stessa assunta a causa della sua pregressa
condotta commissiva, con la conseguenza che è pertanto riscontrabile in capo
ad essa un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto
corrispondente a quello che sarebbe spettato alla Società incorporata se non
si fosse estinta.
Infatti, seguendo la teoria dell'illecito permanente sulla quale concorda la
giurisprudenza, rispetto agli inquinamenti che, come nel caso di specie, si
siano verificati ed esauriti prima dell’entrata in vigore del Dlgs.
05.02.1997, n. 22, non ha senso differenziare la posizione dell'autore
materiale dell'inquinamento, sulla cui responsabilità concorda la
giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.10.2007, n. 5283), da
quella del suo successore universale.
Altrimenti opinando, dato che rispetto alla normativa sopravvenuta
successivamente all’evento generatore dell’inquinamento l’autore materiale
dello stesso ed il suo successore versano entrambi nell’identica condizione
(in ambedue i casi l’inquinamento è stato realizzato ed è cessato in data
antecedente al Dlgs. 05.02.1997, n. 22), in nome della preoccupazione di non
rendere di fatto retroattive le disposizioni di cui al Dlgs. 05.02.1997, n.
22, si giungerebbe all’assurda conclusione di dover lasciare senza rimedio
tutte le contaminazioni storiche che necessitano maggiormente di interventi
di bonifica a causa del carattere diffuso ed esteso delle aree inquinate e
della pericolosità degli inquinanti presenti, quando invece, secondo una
corretta ricostruzione, non si pone il problema di riconoscere o meno alle
norme sopravvenute una portata retroattiva, ma di applicarle ratione
temporis alle situazioni che necessitino di interventi volti ad evitare
pregiudizi ambientali derivanti da una condotta omissiva a carattere
permanente che solo la bonifica può rimuovere.
Pertanto, così come l’ordine di bonifica può essere legittimamente rivolto
all’autore dell’inquinamento per condotte che sono state poste in essere e
sono cessate prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, allo
stesso modo il medesimo ordine può essere rivolto al suo successore
universale che sia subentrato a tutti gli obblighi a questo spettanti, e
quindi anche agli obblighi di facere connessi alla posizione di
garanzia assunta dall’autore dell’inquinamento a causa della sua pregressa
condotta commissiva.
3. Con un ulteriore gruppo di censure contenute nei motivi sopra
rubricati come settimo, ottavo, nono, decimo, diciassettesimo, diciottesimo,
diciannovesimo e ventesimo, la Società ricorrente sostiene sotto diversi
profili che è illegittima la pretesa del Ministero di indicare come
obiettivo della bonifica dei suoli il rispetto dei limiti di cui alla
colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25.10.1999, n. 471, per le
aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché i limiti
previsti per le destinazioni d’uso produttive di cui alla colonna B.
Al fine di comprendere meglio il senso delle censure, va premesso che
originariamente l’area è stata oggetto di usi industriali, mentre il piano
regolatore vigente prevede una destinazione prevalentemente di tipo verde
urbano e residenziale, subordinando gli interventi alla redazione di un
piano attuativo di iniziativa privata, ed è per questo motivo che le
Amministrazioni hanno chiesto l’applicazione dei limiti di accettabilità
della contaminazione previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato e
residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso
produttive.
3.1 In merito a tale statuizione la ricorrente sostiene in primo luogo che
l’art. 17 del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, laddove demanda all’adozione di un
apposito decreto ministeriale la definizione dei limiti di accettabilità
della contaminazione dei suoli “in relazione alla specifica destinazione
d’uso dei siti”, alla luce del comma 13 del medesimo articolo che
afferma l’obbligo per l’interessato di procedere a bonifica nel caso in cui
il mutamento di destinazione d’uso comporti l’applicazione di limiti di
accettabilità di contaminazione più restrittivi, debba essere interpretato
nel senso che i limiti sono solo quelli della destinazione d’uso in atto, e
non di quella vigente nei piani urbanistici, e che l’obbligo di bonifica
riguarda solo i soggetti che abbiano un interesse attuale ad avvalersi
dell’aumento di valore conseguente al mutamento di destinazione d’uso.
Con una seconda censura la parte ricorrente afferma che dovrebbe essere
valorizzata la destinazione d’uso di fatto dell’immobile, e cita in
proposito della giurisprudenza (cfr. Tar Umbria, 08.04.2004, n. 168) che ha
affermato che la tipologia di bonifica da effettuare va individuata non con
riferimento alla destinazione urbanistica, ma con riferimento alle
caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto.
Tali doglianze si rivelano infondate, in quanto la nozione di “destinazione
d’uso” alla quale si richiama anche l’art. 17 del Dlgs. 05.02.1997, n.
22, è quella tipicamente impressa, quale effetto conformativo, dalle
previsioni dello strumento urbanistico (cfr. l’art. 7 della legge
17.08.1942, n. 1150), e la normativa è chiara nell’imporre il rispetto dei
limiti previsti dalla destinazione d’uso prevista dagli strumenti
urbanistici vigenti, come si evince indirettamente dalla circostanza che
viene prevista la necessità di variare gli strumenti urbanistici qualora la
destinazione da questi prevista imponga il rispetto di limiti di
accettabilità che non possono essere raggiunti neppure con l’applicazione
delle migliori tecnologie (infatti l’art. 17, comma 6, del Dlgs. 05.02.2006,
n. 22, prevede che “qualora la destinazione d'uso prevista dagli
strumenti urbanistici in vigore imponga il rispetto di limiti di
accettabilità di contaminazione che non possono essere raggiunti neppure con
l'applicazione delle migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili,
l'autorizzazione di cui al comma 4 può prescrivere l'adozione di misure di
sicurezza volte ad impedire danni derivanti dall'inquinamento residuo, da
attuarsi in via prioritaria con l'impiego di tecniche e di ingegneria
ambientale, nonché limitazioni temporanee o permanenti all'utilizzo
dell'area bonificata rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici
vigenti, ovvero particolari modalità per l'utilizzo dell'area medesima. Tali
prescrizioni comportano, ove occorra, variazione degli strumenti urbanistici
e dei piani territoriali”).
Va soggiunto che la giurisprudenza citata dalla ricorrente (cfr. Tar Umbria,
08.04.2004, n. 168) è del tutto inconferente, perché riguarda la diversa e
specifica questione dell’individuazione dei limiti di accettabilità dei
terreni ad uso agricolo che, in assenza di una definizione normativa, è
affidata all’interprete, e che la giurisprudenza ha inteso risolvere facendo
riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà
fatta in concreto, concludendo per l’applicabilità alle aree agricole dei
limiti più cautelativi riferiti alle destinazioni a verde urbano, pubblico o
privato.
3.2 La ricorrente prosegue sostenendo che non può farsi riferimento ai
limiti di accettabilità previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato
e residenziale previsto dalla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del
DM 25.10.1999, n. 471, perché tale destinazione pur essendo prevista
dal piano regolatore vigente, non è ancora attuale essendo subordinata alla
formazione di un piano urbanistico attuativo di iniziativa privata.
Anche tale doglianza deve essere respinta, perché la normativa del Dlgs.
05.02.1997, n. 22, sopra citata fa riferimento alla destinazione d’uso
prevista dal piano regolatore, al quale va direttamente ascritto l’effetto
conformativo nell’uso dei suoli, mentre il piano attuativo ha solamente lo
scopo di determinare nel dettaglio e in concreto l'organizzazione
urbanistica, infrastrutturale ed architettonica degli insediamenti quale è
prevista dal piano regolatore, senza poter modificare quest’ultimo.
Le previsioni del piano regolatore hanno pertanto valore prescrittivo
immediatamente efficace, anche se per la realizzazione degli interventi è
prevista la necessità della previa formazione di un piano attuativo, che ha
il solo effetto di subordinare alla sua approvazione l’ottenimento dei
titoli abilitativi necessari.
3.3 Con un’ulteriore doglianza la parte ricorrente lamenta
l’inesigibilità della prescrizione di raggiungere i limiti accettabili di
contaminazione riferiti alle destinazioni a verde urbano, pubblico o
privato, perché vi sono alcune contraddizioni tra le previsioni di piano e
il certificato urbanistico.
La doglianza deve essere respinta, in quanto vengono dedotte solamente
alcune incongruenze del certificato urbanistico che non richiama con
completezza tutte le norme tecniche di attuazione applicabili all’area.
Tuttavia tali incongruenze sono prive di rilievo al fine di individuare
l’esatta destinazione urbanistica chiaramente indicata nel piano regolatore.
3.4 Nella memoria di replica depositata in giudizio in prossimità della
pubblica udienza e nella trattazione orale, in via subordinata alle censure
appena esaminate, la parte ricorrente eccepisce l’illegittimità
costituzionale dell’art. 17 del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, dell’art. 240,
lett. b), c), d), e) e f), dell’art. 242 del Dlgs. 06.04.2006, n. 152, e
dell’allegato 5, al titolo V, parte quarta, del medesimo, per contrasto con
gli artt. 3 e 97 Cost. per manifesta irragionevolezza, ritenendo
incostituzionale la previsione di imporre il rispetto dei limiti di
accettabilità stabiliti per la destinazione d’uso prevista dal piano
regolatore vigente, anziché i diversi limiti stabiliti per la destinazione
d’uso legittimamente in atto.
La questione è manifestamente infondata, in quanto non vi è alcuna
irragionevolezza nel prevedere che, nel momento in cui viene effettuata la
bonifica di un’area inquinata, debbano essere osservati i limiti di
accettabilità propri della destinazione d’uso di futura realizzazione
prevista dai piani regolatori vigenti, in quanto sarebbe all’opposto
un’irragionevole ed ingiustificata dissipazione di risorse pubbliche e
private lo svolgimento di una prima bonifica volta a raggiungere i parametri
meno cautelativi della destinazione d’uso di fatto in atto al momento della
bonifica, con la certezza di doverla in seguito ripetere per attuare le
previsioni urbanistiche.
Conclusivamente devono pertanto essere respinte tutte le doglianze con le
quali la parte ricorrente lamenta l’illegittimità della prescrizione di
rispettare i limiti di cui alla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1
del DM 25.10.1999, n. 471, per le aree ad uso verde pubblico, privato e
residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive
di cui alla colonna B.
4. Con il motivo sopra rubricato come undicesimo la Società ricorrente
sostiene l’illegittimità della prescrizione di presentare un progetto
preliminare di bonifica, perché un tale adempimento non è previsto dal Dlgs.
03.04.2006, n. 152, che articola la procedura nelle fasi della
caratterizzazione, dell’individuazione delle CSR e del progetto di bonifica,
a differenza del DM 25.10.1999, n. 471 che contemplava anche la
redazione di un progetto preliminare.
La doglianza deve essere respinta, perché tale prescrizione si limita ad
evidenziare l’opportunità di esaminare già dal primo livello di definizione
del progetto di bonifica, fin da quando è nella fase di progettazione
preliminare, le soluzioni adottate e da adottare, e un tale adempimento
costituisce una mera articolazione delle normali attività di progettazione
da avviare a seguito dell’esame dei risultati della caratterizzazione e
prima della redazione del progetto definitivo di bonifica, e non comporta
pertanto alcuna violazione delle disposizioni che disciplinano la procedura
di bonifica mediante l’introduzione di una nuova fase non prevista dalla
legge.
Peraltro il comma 7 dell’art. 242 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, prevede
espressamente, per gli interventi di bonifica o di messa in sicurezza che
presentino particolari complessità (a causa della natura della
contaminazione, degli interventi, delle dotazioni impiantistiche necessarie
o dell'estensione dell'area interessata dagli interventi medesimi), che il
progetto possa essere articolato per fasi progettuali.
La censura pertanto deve essere respinta.
5. Con il motivo sopra rubricato come dodicesimo la ricorrente contesta
l’idoneità e l’onerosità dell’adozione degli interventi di abbattimento
della contaminazione dei metalli da realizzare in situ di air sparging e
soil vapor extraction, l’illegittimità della prescrizione di prevedere un
piano di monitoraggio qualora i valori di contaminazione residui comportino
rischi per la salute a causa del superamento dei livelli di rischio
tollerabile per le sostanze cancerogene e non cancerogene, e contesta
altresì l’individuazione del valore di rischio tollerabile per le sostanze
cancerogene, in 10-6 per il rischio individuale e del 10-5 per il rischio
cumulato, in contrasto con l’allegato 1 alla parte IV, del titolo V del Dlgs.
03.04.2006, n. 152, che pone 1x10-5 come valore di rischio incrementale
accettabile nel corso della vita come obiettivo di bonifica.
Con il motivo sopra rubricato come quattordicesimo la ricorrente lamenta
inoltre la contraddittorietà insita nel prescrivere trattamenti in situ
impedendo però la fuoriuscita di metaboliti, perché il trattamento in
situ comporta la fuoriuscita dei metaboliti.
Rispetto a queste censure va in primo luogo evidenziato che tali
prescrizioni costituiscono l’esito di valutazioni tecnico-discrezionali
espresse dagli organi pubblici preposti alla tutela igienico-sanitaria ed
ambientale, e in quanto tali non possono essere contraddette con il semplice
richiamo a valutazioni tecniche di parte di segno contrario salvo che, a
carico delle prime, non vengano evidenziati vizi di logicità,
contraddittorietà o incompletezze per quanto concerne l'individuazione degli
elementi di fatto rilevanti o la scelta delle regole tecniche di riferimento
o la loro applicazione.
Orbene, le doglianze proposte, poiché contestano genericamente l’idoneità
delle modalità tecniche prescritte per realizzare la bonifica, devono
pertanto essere respinte.
Peraltro, va anche osservato che, come si evince dalla lettura del verbale
della conferenza di servizi, l’indicazione dell’utilizzo di tali modalità
tecniche non è immotivata, in quanto giustificata dai positivi risultati
raggiunti mediante queste soluzioni tecniche da aziende operanti nel sito di
interesse nazionale di Porto Marghera, in aree con caratteristiche di
contaminazione analoghe a quelle dell’area della parte ricorrente, e ciò
contraddice sia la lamentata inidoneità delle soluzioni tecniche prescritte,
sia l’asserita eccessiva onerosità delle medesime.
Quanto all’ultimo punto contestato nell’ambito del dodicesimo motivo, va
osservato che, contrariamente a quanto dedotto, i livelli di rischio
tollerabile per le sostanze cancerogene prescritti appaiono in linea con
quelli previsti dall’allegato 1 alla parte IV, del titolo V del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, nel testo modificato dal Dlgs. 16.01.2008, n. 4
(ove si legge che “si propone 1x10-6 come valore di rischio incrementale
accettabile per la singola sostanza cancerogena e 1x10'5 come valore di
rischio incrementale accettabile cumulato per tutte le sostanze cancerogene")
cosicché anche sotto questo profilo non è ravvisabile alcuna illegittimità.
Quanto all’ulteriore censura contenuta nel quattordicesimo motivo con la
quale la ricorrente deduce l’irragionevolezza delle prescrizioni di svolgere
trattamenti in situ impedendo la fuoriuscita di metaboliti, va invece
rilevato che la conferenza di servizi ha analizzato le problematiche
conseguenti all’utilizzo di tale tipo di trattamenti, ritenendole superabili
sul piano tecnico, come dimostra l’espresso riferimento alla necessità di
adottare e comunicare agli enti di controllo preposti le cautele necessarie
ad evitare la creazione di correnti vaganti indotte e la realizzazione di
condizioni che impediscano la migrazione di metaboliti ed altri possibili
effetti di contaminazione secondaria.
Sono pertanto da respingere i rilievi formulati con le censure contenute nel
dodicesimo e quattordicesimo motivo.
6. Con le censure di cui al tredicesimo motivo la ricorrente contesta
il mancato svolgimento dell’analisi di rischio sito specifica per le acque
di falda e l’imposizione di limiti immotivatamente cautelativi di
contaminazione, senza considerare che gli interventi previsti dal progetto
di bonifica sono da soli sufficienti a scongiurare pericoli di
contaminazione delle aree esterne.
Anche tali doglianze non possono essere accolte in primo luogo perché sono
formulate in modo ipotetico e contraddittorio, laddove la ricorrente ammette
espressamente che all’esito del calcolo effettuato in relazione alle
condizioni sito specifiche, la concentrazione soglia di rischio possa
coincidere con la concentrazione soglia di contaminazione, in secondo luogo
perché le relative prescrizioni, frutto dell’ampia discrezionalità tecnica
di cui è titolare l’Amministrazione in materia, sono sufficientemente
motivate, e la ricorrente non allega elementi atti a dimostrare l’erroneità
o la non attendibilità delle valutazioni tecniche effettuate.
Infatti a pag. 117 del verbale della conferenza di servizi istruttoria, cui
rinvia il verbale della conferenza di servizi decisoria, sono contenute le
seguenti indicazioni “non si condivide pertanto l’applicazione dell’analisi
di rischio per la definizione degli obiettivi di bonifica sito-specifici per
la falda (CSR), che devono essere invece determinati sulla base del limite
tecnologico di abbattimento dei contaminanti; l’applicazione dell’analisi di
rischio sanitario ambientale (rischio per l’uomo) per il calcolo degli
obiettivi di bonifica relativi alle acque sotterranee potrebbe risultare in
contrasto con il perseguimento degli obiettivi di qualità stabiliti dalla
Direttiva 2000/60, in quanto l’assunzione di CSR per le acque sotterranee
superiori ai valori di CSC potrebbe comportare l’ammissione di aree con
acque di qualità non conforme con il principio di multifunzionalità, anche
al di fuori del sito contaminato”, e si demanda agli enti di controllo
locali competenti per i piani di tutela delle acque l’adozione di eventuali
approcci alternativi.
Orbene, tali prescrizioni non solo sono motivate, ma sul piano tecnico in
realtà sono la riproduzione delle conclusioni contenute nel manuale
predisposto da Apat recante “Criteri metodologici per l’applicazione
dell’analisi assoluta di rischio ai siti contaminati” del giugno 2005 (cfr.
pag. 131 della revisione 2 del marzo 2008), il che, in mancanza di una prova
contraria che la parte ricorrente non allega, costituisce una sufficiente
garanzia circa la loro attendibilità.
Quanto alla dedotta mancanza di pericolo della dispersione degli inquinanti
dovuta alla presenza degli interventi di marginamento e retromarginamento,
va osservato che questa allo stato è ancora ipotetica dato che non sono
stati ancora completati i marginamenti della macroisola, e neppure quando il
marginamento risulterà completato potrà scongiurarsi con sicurezza il
pericolo di una residuale migrazione degli inquinanti.
Anche le censure di cui al tredicesimo motivo devono pertanto essere
respinte.
7. Con le censure sopra rubricate come quindicesimo e
venticinquesimo motivo la ricorrente lamenta il difetto di istruttoria e
la carenza di motivazione relativamente alla prescrizione di gestire come
rifiuti liquidi le acque contaminate di falda, anziché consentire il loro
scarico in acque superficiali assoggettandole alla disciplina degli scarichi
industriali, come prevede espressamente l’art. 243 del Dlgs. 03.04.2006, n.
152.
La doglianza deve essere respinta
La norma da ultimo citata nel testo vigente al momento dell’adozione degli
atti impugnati, prevedeva che “le acque di falda emunte dalle falde
sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono
essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli
produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di
emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al
presente decreto”.
Il Collegio non ignora che, basandosi su tale disposizione, sono state
emesse alcune pronunce, sul cui richiamo sono imperniate le difese della
parte ricorrente, secondo le quali la ratio legis è nel senso di porre una
disciplina speciale per la gestione delle acque di falda emunte nelle
operazioni di messa in sicurezza e di bonifica, riconducibile alla normativa
sugli scarichi idrici e non a quella sui rifiuti, con la conseguente non
applicabilità, per tali acque, della disciplina sui rifiuti (cfr. Tar
Campania, Napoli, Sez. V, 21.03.2012, n. 1398; Tar Sicilia, Catania, 29.01.2008, n. 207; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 23.07.2008, n.
1068; Tar Friuli Venezia Giulia, 26.05.2008, n. 301).
Tuttavia appare più persuasivo e meritevole di condivisione il diverso e più
recente orientamento giurisprudenziale (cfr. Tar Sicilia, Catania, sez. I,
11.09.2012, n. 2117; Tar Toscana, Sez. II, 06.10.2011, n. 1452;
id. 19.05.2010, n. 1523; Tar Sardegna Sez. II, 21.04.2009, n. 549;
TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 20.03.2009, n. 540) che ha chiarito che le
acque emunte di regola devono essere ricondotte all’interno della categoria
dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la
norma di cui all’art. 243 citato consenta una equiparazione tout court tra le
acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti
inquinati e le acque reflue industriali.
Infatti il predetto art. 243, limitandosi a consentire la possibilità di
autorizzare lo scarico nelle acque di superficie delle acque emunte dalle
falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica o messa in
sicurezza di un sito, a condizione che siano rispettati gli stessi limiti di
emissione delle acque reflue industriali, non è idoneo ad incidere sulla
specialità e tassatività della disciplina, di diretta derivazione
comunitaria, sui rifiuti, che esclude espressamente l'assimilabilità delle
acque emunte in falda a quelle reflue industriali, alla luce dei codici CER
contenuti nella decisione della Commissione Europea 03.05.2000, n. 532 -
00/532/CE ( codici CER 19.03.07 e 19.03.08, che individuano le acque di
falda emunte nell'ambito di attività di disinquinamento quali rifiuti
liquidi ).
In proposito va sottolineato che in tal senso si è espressa anche la recente
sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.12.2013, n. 5857, la quale
ha affermato che “è quindi da disattendere l'assunto della società
appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell'art. 243 d.lgs.
152/2006, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento
della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario,
l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non
tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in
essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come
emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto.
L’allegato D alla parte quarta del medesima d.lgs, nell’elencare i rifiuti
conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e
all'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti
pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 03.05.2000 e alla direttiva del Ministero dell'ambiente
09.04.2002, ha infatti
espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i <<rifiuti liquidi acquosi
e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque
di falda>>.
Anche per tale ragione, quindi, risulta smentita l’aprioristica
omologazione, dedotta dalla società appellante, dei reflui derivanti da
operazioni di bonifica alle acque reflue industriali, come definite
chiaramente dall’art. 74, comma 1, lett. h), del d.lgs. citato (con ciò
dovendosi discostare dalle conclusioni alle quali era pervenuto questo
Consiglio di Stato nella sentenza di questa stessa sezione 08.09.2009,
n. 5256)”.
Nel caso di specie, come risulta dal documento preparatorio alla conferenza
di servizi del 06.10.2010, le acque contengono elevati livelli di
contaminazione atteso che, relativamente alla falda del riporto, vi sono
superamenti da alluminio, arsenico, ferro, manganese, mercurio, nichel,
piombo, solfati, benzo(a)antracene, benzo(b)fluoroantene, naftalene;
relativamente alla prima falda vi sono superamenti da alluminio, arsenico,
ferro (con valori fino a 28 volte la CSC), nichel, manganese (con valori
fino a oltre 13 volte la CSC), piombo, solfati, benzo(a)antracene, naftalene;
antimonio, BTEX, alifatici, clorurati cancerogeni (prevalentemente cloruro
di vinile) e non cancerogeni, IPA come sommatoria, PCB e idrocarburi totali;
per alcune sostanze cancerogene molto tossiche e persistenti sono stati
riscontrati superamenti oltre 10 volte, e il ricorrente non adduce che le
modalità di gestione delle acque nel caso di specie abbiano effettivamente
le caratteristiche dello scarico industriale (che richiede, oltre al
rispetto dei limiti previsti per gli scarichi industriali, un collegamento
diretto tra la fonte di produzione ed il corpo recettore, senza soluzione di
continuità, anziché di uno iato materiale e temporale tra la fase di
emungimento e quella di trattamento).
Ciò premesso va allora evidenziato che la prescrizione di trattare come
rifiuti le acque della falda emunte, in assenza della prova da parte della
ricorrente della sussistenza di tutti i requisiti per invocare la più
favorevole disciplina di cui all’art. 243 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152,
si sottrae alle censure proposte.
10. Con il ventitreesimo motivo la ricorrente afferma che è
illegittima la prescrizione di includere nell’intervento di cinturazione
fisica ulteriori aree, oltre a quella centrale che è la maggiormente
inquinata, in quanto le aree esterne a questa sono contaminate in misura
inferiore, e perché in tal modo il Ministero cerca di ovviare alla mancata
realizzazione degli interventi di marginamento e retromarginamento che si è
impegnato a realizzare in base alla transazione del 19 marzo–19.04.2006.
Tali doglianze devono essere respinte.
Infatti la prima prescrizione di estendere l’area della cinturazione fisica
non reca nemmeno una lesione attuale, ma solo futura ed eventuale, dato che
la conferenza di servizi si è limitata a richiedere di includere nella
cinturazione solo le ulteriori aree che dovessero risultare sede di
contaminazione.
E’ evidente che in caso di riscontro di livelli di contaminazione non
accettabili l’obbligo di bonificare le predette aree deriverebbe
direttamente dalla legge, e non costituirebbe un’imposizione della
conferenza di servizi.
Inoltre va osservato che la tesi secondo la quale gli interventi di
marginamento e retromarginamento e di cinturazione fisica sarebbero tra loro
alternativi, e che pertanto l’Amministrazione mediante l’imposizione della
cinturazione mirerebbe a sottrarsi dall’esecuzione degli interventi alla
stessa spettanti, non è condivisibile.
Infatti dalla documentazione versata in atti risulta che il marginamento si
prefigge lo scopo di evitare la migrazione della contaminazione verso le
matrici ambientali esterne all’area attraverso la falda, mentre gli
interventi di cinturazione sono volti a perseguire l’obiettivo di bonificare
il suolo per renderlo fruibile, ove possibile, secondo le destinazioni
previste dal piano regolatore vigente.
Anche le cesure di cui al ventitreesimo motivo devono pertanto essere
respinte
(TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 25.02.2014 n. 255
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Inerzia della Pa, senza il sostituto niente indennizzo per
il ritardo.
Per l'indennizzo da ritardo, dovuto a inerzia sul procedimento
amministrativo -diverso dal danno da ritardo che impone la ricorrenza
degli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale- serve
(articolo 28 della legge 98/2013) l'immediata attivazione del funzionario
sostituto da parte dell'interessato entro 20 giorni dalla scadenza del
termine per l'emanazione del provvedimento espresso a pena di decadenza.
---------------
Rilevato che:
- parte ricorrente ha presentato istanza rivolta
all’Amministrazione resistente al fine di ottenere la cittadinanza italiana,
ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 91/1992;
- essendo l’amministrazione rimasta inerte, parte ricorrente ha
proposto ricorso avverso il silenzio illegittimamente serbato;
Considerato che in corso di causa l’amministrazione ha rappresentato di aver
predisposto e inviato alla firma degli organi competenti il richiesto
decreto di conferimento della cittadinanza;
Ritenuto, pertanto, di dover dichiarare la cessazione della materia del
contendere, ai sensi dell’art. 34, comma 5, c.p.a.;
Ritenuto non sussistere i presupposti di legge per la liquidazione
dell’indennizzo da ritardo di cui all’art.
28, d.l. 21.06.2013, n. 69, in quanto:
- ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo, pur
non essendo richiesta la dimostrazione degli elementi costitutivi della
responsabilità extracontrattuale (prova del danno, del comportamento
colposo dell'amministrazione, del nesso di causalità), tuttavia, una volta
scaduti i termini per la conclusione del procedimento, l’istante, entro la
scadenza perentoria dei successivi 20 giorni, deve ricorrere all’autorità
titolare del potere sostitutivo di cui all'art. 2, comma 9-bis, della legge
n. 241/1990, richiedendo l’emanazione del provvedimento non adottato (cfr.:
Tar Sardegna, sez. I, 12.05.2016, n. 428);
- l’art. 28, comma 2, d.l. n. 69/2013, richiede espressamente,
quale condizione per avanzare domanda di indennizzo da ritardo, l’immediata
sollecitazione di tale potere sostitutivo;
Ritenuto di respingere la domanda di indennizzo avanzata da parte ricorrente
in quanto non risulta essere stato attivato, nella specie, il potere
sostitutivo ai sensi della sopra richiamata norma
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 15.03.2019 n. 3515
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi,
le risorse vanno nella contrattazione decentrata e a preventivo.
La Corte di Appello di Catanzaro, Sez. lavoro, con sentenza 14.02.2019 n. 1972, si è occupata delle conseguenze della
richiesta di liquidazione degli incentivi legati ad un progetto obiettivo in
assenza della copertura finanziaria.
Nel confermare la sentenza di primo grado vengono evidenziate e confermate
alcune regole che presiedono alla corretta attivazione dei progetti
obiettivo, con l’utilizzo delle risorse previste dall’articolo 15 del Ccnl
01.04.1999, che meritano di essere commentate anche alla luce del nuovo Ccnl
delle funzioni locali del 21.05.2018.
La sentenza risulta particolarmente interessante in quanto si occupa, anche
solo incidentalmente, ma in modo efficace, della sostanziale differenza tra
il lavoro straordinario, che è fondamentalmente legato alla quantità della
prestazione lavorativa, e gli incentivi, inclusi quelli connessi ai progetti
obiettivo, che, invece, concernono la qualità della prestazione e sono
inscindibilmente legati al conseguimento dei risultati, preventivamente
definiti attraverso opportuni indicatori.
La pronuncia del Giudice di appello
Il giudice di appello ha constatato che le risorse necessarie per finanziare
lo specifico progetto obiettivo non erano presenti e, comunque, i ricorrenti
non sono riusciti a dimostrarne la loro preventiva definizione attraverso il
fondo risorse accessorie e la contrattazione decentrata e, quindi, il
progetto incentivante non trovava copertura nell’ambito dei principi sanciti
dagli artt. 40 e 45 , Dlgs 165/2001, in base ai quali “gli oneri di tutti i
trattamenti economici accessori del personale devono trovare integrale
copertura nelle generali risorse destinate al finanziamento della
contrattazione integrativa”, anzi proprio consci di tale specifica
situazione interdittiva i ricorrenti azionavano in subordine una richiesta
di indebito arricchimento ex art. 2041 Cc che, comunque, veniva rigettata,
sia perché improponibile -in quanto esisteva una causa connessa ad un
rapporto contrattuale (lo svolgimento del lavoro straordinario) che,
tuttavia, non veniva attivata- sia perché i dipendenti non hanno fornito
prova della perdita patrimoniale subita; relativamente a tale ultimo
aspetto, infatti, risulta insufficiente l’aver dimostrato di aver conseguito
gli obiettivi del progetto e, quindi, aver generato una utilità per l’ente.
Peraltro già il giudice di primo grado aveva eccepito, in tema di
ingiustificato arricchimento, che i ricorrenti non avevano dimostrato
l’attività svolta al di fuori dell’orario di lavoro e la estraneità rispetto
alle mansioni proprie dei ricorrenti (che, evidentemente, l’avrebbero
attratto nella causa del contratto a titolo di prestazione straordinaria
solo nella ipotesi di svolgimento della prestazione lavorativa al di fuori
dell’orario di lavoro); tutto ciò, peraltro, si collega perfettamente alla
vigenza del principio della onnicomprensività del trattamento retributivo
del dipendente pubblico che “lasciano emergere la chiara mancanza dei fatti
costitutivi della domanda”.
L’ente si è opposto dimostrando che la contrattazione decentrata per l’anno
di riferimento (il 2013) non prevedeva, in alcun modo, risorse variabili
destinate a finanziare lo specifico progetto obiettivo, circostanza che i
ricorrenti non sono stati in grado di contestare ed il tentativo di
dimostrare che, comunque, le risorse erano previste nella contrattazione
decentrata relativa all’anno successivo (il 2014) “è del tutto inconferente
perché è pacifico dagli stessi atti a firma del dirigente (…) che si
trattava di un progetto” incentivante sviluppatosi dal mese di aprile al
mese dicembre del 2013.
Inoltre, già il giudice di primo grado aveva ritenuto ininfluente il
riferimento alle indicazioni metodologiche formulate dall’Organismo
Indipendente di Valutazione, al fine di poter correttamente svolgere il
compito di validazione dei risultati, affidatogli dall’ordinamento interno;
l’Oiv, infatti, si era limitato a stabilire che il progetto doveva essere
preventivamente approvato e dovevano essere indicati preventivamente i
risultati ai fini dell’erogazione dell’incentivo; ma tali affermazioni non
inficiano minimamente l’esigenza che le risorse siano preventivamente
individuate in modo certo e nel rispetto dei vincoli finanziari vigenti.
D’altra parte proprio l’Oiv aveva avuto modo di precisare, richiamando un
noto e consolidato orientamento dell’Aran, che comunque al “fine
dell’erogazione delle relative spettanze, l’iter dovrà essere completato con
la verifica, a cura degli uffici competenti, (…) degli aspetti di natura finanziario-contabile, con particolare riferimento ai seguenti elementi:
1. risorse quantificate secondo criteri trasparenti e ragionevoli,
analiticamente illustrati nella relazione da allegare al contratto
decentrato;
2. risorse previste nel bilancio annuale;
3. quantificazione delle spettanze in ragione della verifica dei risultati
del progetto”.
Gli orientamenti Aran
Nel precedente assetto contrattuale, proprio per perimetrare correttamente
tali istituti incentivanti, l’Aran era intervenuto con il parere n. 499-15L
per indicare le condizioni necessarie per la corretta applicazione
dell’istituto ed aveva avuto modo di pronunciarsi su tali tipologie di
progetti e sulle risorse variabili che li finanziano, ex art. 15, comma 5,
del Ccnl 01.04.1999. In particolare venivano evidenziate alcune specificità,
tra le quali:
1. l'incremento delle risorse deve essere comunque correlato ad uno o più
obiettivi di miglioramento della performance organizzativa o di attivazione
di nuovi processi, relativi ad uno o più servizi, individuati dall'ente nel
piano della performance o in altri analoghi strumenti di pianificazione
della gestione;
2. deve trattarsi, comunque, di obiettivi che richiedano il concreto,
diretto e prevalente apporto del personale dell'ente;
3. la quantificazione dell'incremento deve essere correlata alla rilevanza
dei risultati attesi nonché al maggiore impegno richiesto al personale
coinvolto;
4. le risorse possono essere rese disponibili solo a consuntivo e sono
erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli
obiettivi di performance organizzativa ai quali l'incremento è stato
correlato, come risultante dalla relazione sulla performance o da altro
analogo strumento di rendicontazione adottato dall'ente.
5. quanto sopra detto non vale, tuttavia, ad escludere che gli obiettivi di
performance organizzativa, individuati per giustificare l'incremento,
possano essere anche "obiettivi di mantenimento" di risultati positivi già
conseguiti l'anno precedente, fermo restando, in ogni caso, il rispetto
delle condizioni sopra evidenziate, con particolare riferimento alla
necessità che, anche per il perseguimento dell'obiettivo di mantenimento,
continui ad essere richiesto un maggiore, prevalente e concreto impegno del
personale dell'ente alla cui incentivazione le risorse sono destinate, oltre
ad essere necessario uno specifico apparato motivazionale in grado di
spiegare, in relazione alle condizioni di contesto, le ragioni di misure di
incentivazione allo scopo di mantenere i livelli di servizio già raggiunti.
L’autorizzazione del dirigente
Un ultimo aspetto, di non secondaria importanza, è il fatto che il progetto
sia stato autorizzato dal dirigente dell’unità operativa di appartenenza dei
ricorrenti; a tal proposito l’autorizzazione del dirigente, a parte
eventuali profili di responsabilità non oggetto del giudizio, come quelle di
natura disciplinare o patrimoniale, non può in alcun modo sanare
l’inesistenza della provvista e non è neppure in grado di caratterizzare
come incentivanti attività che, comunque, rientrino nell’ambito delle
prestazioni esigibili dall’amministrazione e per le quali i ricorrenti non
azionavano la richiesta di remunerazione a titolo di lavoro straordinario,
se non in primo grado, ma senza aver dimostrato lo svolgimento della
prestazione al di fuori dell’ordinario orario di lavoro.
Il Ccnl Funzioni locali
Il Ccnl Funzioni locali 21.05.2018, in attesa di nuovi orientamenti dell’Aran,
pone gli enti di fronte al dilemma circa la possibilità di attivare i
cosiddetti “progetti-obiettivo” che nel Ccnl 01.04.1999 potevano essere
finanziati con il ricorso a risorse variabili ex art. 15, comma 5, del
richiamato Ccnl.
Il tema è di estrema attualità ed alcuni aspetti essenziali
di quanto appena esposto tornano utili per definire un corretto
inquadramento nell’ambito del più recente Ccnl delle funzioni locali
sottoscritto il 21.05.2018, nel rispetto delle prerogative
dell’amministrazione in materia di disciplina del sistema di misurazione e
valutazione della performance, prerogative previste dall’art. 7, Dlgs
150/2009, e dei confini di operatività dei due modelli di relazioni
sindacali che, in materia, hanno rilievo: il confronto e la contrattazione
integrativa; di questi aspetti sono certamente di rilievo la connessione con
la performance organizzativa, con il piano della performance e con la
relazione sulla performance; aspetti già trattati in un apposito contributo
sulle pagine di questa rivista.
Infine, è utile segnalare come anche le linee guida n. 1/2017 (“Linee
guida per il Piano della performance”) del Dipartimento della Funzione
Pubblica specificano che, tra le tipologie di unità di riferimento della
rilevazione della performance organizzativa, rientrano anche quelle “iniziative,
che possono essere identificate come progetti e sono caratterizzate da un
inizio e una fine (a differenza delle attività ricorrenti)”, che “promuovono
innovazioni rilevanti, che potranno modificare e migliorare nel tempo il
portafoglio delle attività ricorrenti e ripetute e rivestono, quindi, una
rilevanza strategica”
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Attivo
l'indice dei domicili digitali, Pubbliche Amministrazioni sempre più
trasparenti.
La transizione al digitale della pubblica amministrazione fa un altro passo
avanti con l'entrata in vigore (da ieri) dell'indice dei domicili digitali
delle Pa e dei gestori di pubblici servizi.
Gestito dall'Agid, che guida l'innovazione nella Pa secondo un
cronoprogramma definito, l'Ipa è in sostanza un elenco pubblico nel quale
sono registrati i domicili digitali che amministrazioni, gestori di servizi
pubblici e privati devono utilizzare per inviare comunicazioni e scambiarsi
informazioni e documenti tutto in maniera legale.
I domicili digitali, come intuibile, sono gli indirizzi elettronici
associati agli enti e alle relative articolazioni organizzative.
L'Ipa e le linee guida
L'indice è stato sviluppato seguendo il percorso tracciato dall'Agid nelle
relative linee guida adottate, in base all'articolo 71 del Cad, con la
determinazione 04.04.2019 n. 97/2019
(e relative "LINEE
GUIDA DELL’INDICE DEI DOMICILI DIGITALI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E
DEI GESTORI DI PUBBLICI SERVIZI - Versione 1.0 del 27.02.2019") e messa
in rete lunedì scorso nel sito dell'Agenzia.
Devono iscriversi le Pa e i gestori di pubblici servizi, tutti i soggetti
inclusi nell'elenco Istat articolo 1 della 196/2009, cioè rientranti
nell'«armonizzazione contabile», e che non sono compresi tra le Pa articolo
1, comma 2, del Dlgs 165/2001, cioè il raggruppamento di enti cui fa
riferimento la legislazione sul pubblico impiego.
L'iscrizione va ottenuta con un'istanza di accreditamento, al buon esito
della quale segue l'assegnazione del codice Ipa da parte del gestore (l'Agid),
che non è modificabile.
I domicili digitali vanno costantemente aggiornati se cambiano informazioni
e dati che lo formano e cioé quelli che caratterizzano l'ente, quelli
relativi al registro di protocollo e infine quelli relativi ai diversi
uffici. L'istanza di cancellazione dall'elenco dovrà essere presentata dai
soggetti che non hanno più titolo per essere inlusi in esso.
La fatturazione elettronica
Una delle funzioni più delicate cui deve assolvere l'Ipa è quella di
archivio nel quale cercare per individuare i codici degli uffici di
fatturazione elettronica delle amministrazioni e delle società in conto
economico consolidato (Scec).
Su www.indicepa.gov.it si trovano tutti i dati e le informazioni necessari,
che nell'ottica della trasparenza possono essere consultati e riutilizzati
in formato «open data» tramite interfaccia web, nonché, registrandosi al
portale, anche tramite interfaccia applicativa o protocollo LDAP.
Tre sono macrolivelli nei quali sono strutturati i contenuti dell'Ipa:
1) informazioni di sintesi sull'ente (denominazione, uguale a
quella registrata nell'Anagrafe tributaria, associata al codice fiscale
indicato, codice fiscale, indirizzo della sede principale, nome del
rappresentante legale e nome del referente Ipa e relativo codice fiscale,
indirizzo pec primario;
2) informazioni dettagliate sulla struttura organizzativa e
gerarchica e sui singoli uffici - unità organizzative (denominazione,
indirizzo, codice identificativo, nominativo del responsabile, data di
istituzione e di eventuale cessazione);
3) informazioni sugli uffici di protocollo - aree organizzative
omogenee (codice ufficio, che è definito dall'ente, codice univoco ufficio,
assegnato dal sistema e univoco in Ipa, denominazione, Aoo di riferimento,
che è unica tranne che per gli Scec, nome del responsabile, l’indirizzo,
relazione gerarchica con altra unità organizzativa.
La verifica dei dati
Ogni ente accreditato è responsabile della veridicità e della completezza
dei dati presenti in Ipa. L'Agid effettua il monitoraggio della qualità dei
dati con controlli sistematici e a campione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019). |
dite la
vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
URBANISTICA: R.
Cartasegna,
La redazione del Piano Regolatore Generale Comunale tra disciplina del
commercio e libera concorrenza (13.05.2019). |
UTILITA' |
VARI:
BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle Entrate,
maggio 2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle
Entrate, marzo 2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia
delle Entrate, marzo 2019). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PATRIMONIO:
G.U. 17.05.2019 n. 114 "Dispositivi stradali di sicurezza per i
motociclisti (DSM)" (Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti,
decreto 01.04.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2019, "Criteri per
l’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di
altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati" (deliberazione
G.R. 15.05.2019 n. 1620). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 11.05.2019 n. 109 "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi
derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea
2018"
(Legge
03.05.2019 n. 37).
---------------
Di interesse, si legga:
●
Art. 5. Disposizioni in materia di pagamenti nelle transazioni commerciali -
Procedura di infrazione n. 2017/2090 |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI:
G.U. 30.04.2019 n. 100 "Misure urgenti di crescita economica e per la
risoluzione di specifiche situazioni di crisi"
(D.L.
30.04.2019 n. 34).
---------------
Di interesse, si leggano:
● Art. 3. Maggiorazione deducibilità IMU dalle
imposte sui redditi
● Art. 7. Incentivi per la valorizzazione
edilizia
● Art. 8. Sisma bonus
● Art. 10. Modifiche alla disciplina degli
incentivi per gli interventi di efficienza energetica e rischio sismico
● Art. 30. Contributi ai comuni per interventi
di efficientamento energetico e sviluppo territoriale sostenibile
---------------
Al riguardo si leggano anche:
●
Rigenerazione urbana, recepite le proposte dell'Ance nel decreto-legge
Crescita - Il DL n. 34/2019 accoglie alcune delle misure
auspicate da tempo dai costruttori edili per incentivare processi complessi
di rigenerazione urbana, basati su interventi di vera e propria sostituzione
edilizia (06.05.2019 - link a www.casaeclima.com).
●
Pubblicato il decreto crescita: analisi delle misure tributarie
(30.04.2019 - link a www.fiscooggi.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
G.U. 27.04.2019 n. 98 "Adozione delle Linee guida dell’Indice dei
domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici
servizi"
(Agenzia per l’Italia Digitale,
avviso). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 17 del 24.04.2019, "Regolamento regionale
22.03.2019 - n. 5 «Regolamento regionale concernente i criteri organizzativi
generali, le caratteristiche dei veicoli, delle uniformi, degli strumenti di
autotutela, dei simboli distintivi di grado e delle tessere personali di
riconoscimento in dotazione ai corpi e ai servizi della polizia locale in
attuazione dell’articolo 24, comma 1, della legge regionale 01.04.2015, n. 6
«Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di
politiche integrate di sicurezza urbana», pubblicato sul BURL n. 13 suppl.
del 26.03.2019" (avviso
di rettifica). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 17 del 24.04.2019 "Disposizioni
sull’applicazione dei principi di invarianza idraulica ed idrologica.
Modifiche al regolamento regionale 23.11.2017, n. 7 (Regolamento recante
criteri e metodi per il rispetto del principio dell’invarianza idraulica ed
idrologica ai sensi dell’articolo 58-bis della legge regionale 11.03.2005,
n. 12 “Legge per il governo del territorio”)" (regolamento
regionale 19.04.2019 n. 8). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 23.04.2019 n. 95 "Modifiche al decreto 03.08.2015, recante
l’approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi
dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139"
(Ministero dell'Interno,
decreto 12.04.2019).
---------------
Al riguardo, si legga anche:
●
Modifiche al Codice di prevenzione incendi in G.U.: tolto il doppio binario
per le ex attività non normate - Per 41 attività soggette (ex non
normate) contenute nell'Allegato 1 del DPR 151/2011, la Regola Tecnica
Orizzontale (RTO) del Codice diventerà l'unico riferimento progettuale
(06.05.2019 - link a www.casaeclima.com). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D.
Pusceddu,
E dopo il 20 maggio come vengono retribuite le Posizioni Organizzative?
(16.05.2019 - link a www.fpcgilbergamo.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
termine del 20 maggio entro il quale incaricare le posizioni organizzative
non è vincolante
(15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.
Severini,
L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio
(13.05.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: R.
Cartasegna,
La redazione del Piano Regolatore Generale Comunale tra disciplina del
commercio e libera concorrenza (13.05.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Ressa,
Come misurare la distanza tra edifici? Lo ha chiarito la Cassazione
(09.05.2019 - link a http://biblus.acca.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: M.
T. Desideri,
Mancata
promozione del procedimento disciplinare e responsabilità dirigenziale
(09.05.2019 - link a www.filodirito.com). |
APPALTI: Decreto
Sblocca-cantieri: soppresso il rito super accelerato - Una norma
del DL n. 32/2019 modifica l'art. 120 del Codice del processo amministrativo
che disciplina il rito applicabile ai giudizi inerenti alle procedure di
affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture
(03.05.2019 - link a www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: M.
Ricci,
IL POTERE DI ORDINANZA NELLA GESTIONE DELLE EMERGENZE AMBIENTALI
(maggio 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
INDICE: 1. L’amministrazione dell’emergenza; 2. Il potere della
pubblica amministrazione di adottare ordinanze contingibili e urgenti; 3. Il
potere di ordinanza della pubblica amministrazione e le emergenze
ambientali; 3.1.1. Il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti in
materia di rifiuti disciplinato dal Codice dell’ambiente; 3.1.2. I poteri di
ordinanza previsti dal TUEL ed esercitabili anche in materia ambientale;
3.1.3. Il potere di ordinanza secondo il modello della protezione civile;
3.1.4. Gli ulteriori poteri di ordinanza per le emergenze ambientali; 4.
Conclusioni. |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Modifiche
al Codice Appalti con lo Sblocca-cantieri: l'analisi di Confindustria.
Secondo Confindustria alcune modifiche sono positive, altre sono
condivisibili ma potrebbero essere ulteriormente rafforzate, altre invece
sono negative
(30.04.2019 - link a www.casaeclima.com). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative: la durata dell'incarico non deve coincidere con quella del
mandato del sindaco (13.03.2019
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Blonda, Il
rilascio della c.d. concessione in sanatoria estingue anche i reati
antisismici? Ecco cosa comporta costruire un immobile in violazione delle
norme antisismiche
(06.11.2014 - link a www.condominioweb.com). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Criteri di aggiudicazione e verifica dell’anomalia nei lavori
pubblici. Modifiche introdotte dal decreto “sblocca cantieri”
(ANCE di Bergamo,
circolare 10.05.2019 n. 121). |
EDILIZIA PRIVATA: Prima
nota di lettura al DL 30.04.2019 n. 34 - Misure urgenti di crescita
economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi - Norme di
interesse per gli enti locali (ANCI-IFEL, 09.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Oggetto:
Istanza di interpello ai sensi dell’articolo 9 del d.lgs. n. 124/2004.
Autorizzazione amministrativa ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge
n. 300/1970 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 08.05.2019 n. 3/2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
pubblicazione del DM 12.04.2019: modifiche al Codice di prevenzione incendi (DM
03.08.2015) con eliminazione del doppio binario per le ex attività non
normate
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 03.05.2019 n. 378). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Prima
nota DL “Sblocca Cantieri” - D.L. 18.04.2019 n. 32
(ANCI, maggio 2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Pubblicato il cosiddetto decreto “sblocca cantieri”.
Prime sommarie informazioni in tema di lavori pubblici (ANCE di Bergamo,
circolare 23.04.2019 n. 110). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: IL
DECRETO “SBLOCCA CANTIERI” (DL n. 32 del 18.04.2019) - LE MISURE DI
INTERESSE PER IL SETTORE DELLE COSTRUZIONI (ANCE, 19.04.2019). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: DL
Sblocca Cantieri - I principali contenuti del provvedimento (CONFINDUSTRIA,
19.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Interpello ai sensi dell’articolo 9 del d.lgs. n. 124/2004. Riposi
giornalieri ex articolo 39 del d.lgs. n. 151/2001 e diritto alla pausa
pranzo e alla fruibilità del servizio mensa (Ministero del Lavoro e
delle Politiche Sociali,
interpello 16.04.2019 n. 2/2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: OGGETTO:
Adozione delle Linee Guida dell’Indice dei domicili digitali delle pubbliche
amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi (IPA)
(AGID,
determinazione 04.04.2019 n. 97/2019 con le relative "LINEE
GUIDA DELL’INDICE DEI DOMICILI DIGITALI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E
DEI GESTORI DI PUBBLICI SERVIZI - Versione 1.0 del 27.02.2019"). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
D.M. 37/2008 – installazione di impianti tecnologici – abilitazioni piene
e/o limitate (Ministero dello Sviluppo Economico,
circolare 13.03.2019 n. 3717/C). |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuove discipline per la polizia locale /
Nell’ambito della specifica finalità di cui all’art. 56-quater, comma 1,
lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (“erogazione di
incentivi monetari collegati a obiettivi di potenziamento dei servizi di
controllo finalizzati alla sicurezza urbana e stradale), è possibile
finanziare, con quota parte delle risorse derivanti dai proventi delle
violazioni stradali, di cui all’art. 208, commi 4, lett. c), e 5, del D.Lgs.
n. 285/1992, l’indennità di servizio esterno di cui all’art. 56-quinquies,
del medesimo CCNL del 21.05.2018?.
Tra le altre diverse finalità ivi indicate, l’art. 56-quater, lett. c), del
CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali, destina quota parte dei proventi
delle violazioni stradali, di cui all’art. 208, commi 4, lett. c), e 5, del
D.Lgs. n. 285/1992 anche all’“erogazione di incentivi monetari collegati
a obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla
sicurezza urbana e stradale.”.
Si tratta di una indicazione ampia e generale. Pertanto, in tale ambito, ad
avviso della scrivente Agenzia, le risorse di cui si tratta possono essere
utilizzate anche per il finanziamento dell’indennità di servizio esterno, in
quanto anche questo compenso, per le nuove e maggiori prestazioni cui si
collega (implementazione dei servizi esterni di vigilanza), si può
configurare come strettamente funzionale al conseguimento di quegli
obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla
sicurezza urbana e stradale.” (orientamento
applicativo 08.05.2019 CFL 53 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Indennità
di condizioni lavoro, continuità dell'attività «rimandata» alla
contrattazione integrativa.
Per il riconoscimento dell'indennità di condizioni lavoro introdotta
dall'articolo 70-bis del contratto 21 maggio 2018 è auspicabile, ma non
obbligatorio, che le attività che la legittimano (attività disagiate o
rischiose o che implicano il maneggio di valori) siano svolte dal personale
in maniera «continuativa».
Nel caso di personale part-time l'importo, definito in sede di
contrattazione integrativa, deve essere riproporzionato, anche nel caso in
cui l'azione determini un importo inferiore al valore minimo previsto dal
contratto nazionale.
Questi i chiarimenti forniti l'Aran con il
parere
18.04.2019 n. 3072 di prot..
Il presupposto della continuità
L'articolo 70-bis del nuovo contratto, sulla spinta dell'atto di indirizzo
del Comitato di settore e per semplificare le voci del trattamento
accessorio, ha introdotto l'indennità di condizioni lavoro che accorpa le
precedenti indennità di rischio, disagio e maneggio valori, fermi restando,
comunque, i presupposti che giustificavano l'erogazione dei compensi.
Le vecchie disposizioni contrattuali legavano, in qualche modo, il
riconoscimento delle indennità al presupposto della «continuità»
dell'attività prestata dal dipendente escludendo, come peraltro affermato in
più occasioni dalla stessa Aran, l'erogazione nel caso di attività svolte
dal dipendente in modo non continuativo o saltuario o sporadico.
Un ente, nel rilevare che nell'articolo 70-bis non vi è alcun riferimento al
presupposto della continuità della prestazione ma semplicemente allo
«svolgimento di attività», chiede all'Aran se la nuova indennità debba
essere riconosciuta solo al personale che svolge attività disagiate o
rischiose o che implicano il maneggio di valori in maniera continuativa o,
possa essere riconosciuta anche a coloro che svolgono queste attività in
maniera occasionale.
Per l'Agenzia l'assenza nel nuovo contratto di una espressa indicazione in
tal senso non impedisce, nell'ambito del contratto collettivo integrativo,
di limitare il riconoscimento dell'indennità condizioni di lavoro solo alle
ipotesi di lavoratori che svolgono in maniera continuativa le attività
richieste. La previsione, si legge nel parere, eviterebbe erogazioni
eccessivamente generalizzate e parcellizzate che porterebbero di fatto a
rischi di concreto e insostenibile impoverimento dei fondi delle risorse
decentrate.
Dunque è in sede di contrattazione integrativa che si dovrà giocare questa
delicata partita.
Il riproporzionamento
L'indennità, che può variare entro i valori minimi e massimi giornalieri da
1 a 10 euro, deve essere riproporzionata in relazione al tempo di lavoro
previsto nell'ambito del rapporto di lavoro a tempo parziale. Ma cosa accade
se dal riproporzionamento dell'indennità giornaliera si determina un importo
inferiore al valore minimo previsto dal contratto nazionale? Deve essere,
comunque, sempre garantito il riconoscimento di almeno 1 euro?
Per l'Agenzia non ci sono dubbi: i valori minimi e massimi previsti per
l'indennità in questione si riferiscono all'ipotesi ordinaria del rapporto
di lavoro a tempo pieno. Pertanto, il riproporzionamento riguarda anche il
valore minimo anche nel caso in cui lo portasse alla determinazione di un
importo inferiore ad 1 euro
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente
firma definitiva del contratto integrativo se manca l'ok della giunta.
Nel caso in cui la giunta comunale non si ritenga soddisfatta dell'accordo
raggiunto in sede di contrattazione integrativa -che ci sia o meno l'atto
di indirizzo preventivo al Presidente della delegazione di parte pubblica-
la preintesa raggiunta dalle parti non potrà essere sottoscritta in via
definitiva, anche con parere positivo rilasciato dall'organo di revisione
contabile.
Queste sono le ferme indicazioni contenute nell'orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 52.
Il caso
Il Presidente di parte pubblica, nominato dalla giunta comunale per
contrattare con le organizzazioni sindacali, dopo aver sottoscritto la
preintesa con un parere positivo del collegio dei revisori dei conti, si è
visto rifiutare dall'organo esecutivo l'ipotesi del contratto sottoscritta
avevndo la giunta ritenuto non soddisfacenti gli accordi raggiunti.
La
domanda posta ai tecnici dell'Aran riguarda le conseguenze del rifiuto e la
sorte dell'ipotesi del contratto decentrato stipulato.
La risposta dell'Aran
Secondo l'Aran, il diniego dell'organo esecutivo -che è parte essenziale e
fondamentale per la definitiva sottoscrizione del contratto integrativo-
alla sottoscrizione definitiva blocca irrimediabilmente la conclusione della
procedura. Infatti, a prescindere da un preventivo atto di indirizzo
iniziale formulato al Presidente della delegazione di parte pubblica,
l'autorizzazione alla sottoscrizione definitiva del contratto integrativo
può essere data solo dalla giunta comunale.
Con questo atto, quindi,
l'organo di vertice esprime le valutazioni di competenza in ordine alla
conformità dei contenuti contrattuali anche agli obiettivi e ai programmi
generali dell'ente, alla convergenza con le linee di politica sindacale e
del personale perseguite dall'ente, all'utilizzo efficiente, efficace ed
economico delle risorse disponibili, all'adeguamento del contratto
integrativo alla soluzione di problemi organizzativi e funzionali dell'ente,
alla coerenza dei costi del contratto integrativo con i vincoli di bilancio
e con le altre norme contrattuali in materia di quantificazione delle
risorse, al rispetto delle disposizioni inderogabili che incidono sulla
misura e sulla corresponsione dei trattamenti accessori.
La corte dei conti (si veda Il quotidiano degli enti locali e della Pa del
28.08.2017) aveva già giudicato la preintesa priva di effetti giuridici
con la conseguenza che qualsiasi altro adempimento, in sostituzione della
sottoscrizione definitiva, non è sufficiente per il determinarsi degli
effetti giuridici del contratto. L'attribuzione di compensi, quindi, in
assenza della sottoscrizione definitiva non potrà che avvenire in violazione
di legge (articolo 40, commi 3 e 3-bis, Dlgs 165/2001) con conseguenti
responsabilità da parte di chi queste risorse abbia corrisposto. In altri
termini, è solo con la sottoscrizione definitiva che il contratto
integrativo diventa giuridicamente efficace e può essere applicato a tutti
gli istituti normativi ed economici disciplinati.
In conclusione, pur in presenza di parere favorevole reso dell'organo di
controllo, la mancanza dell'autorizzazione definitiva da parte dell'organo
di vertice impedisce la sottoscrizione definitiva del contratto integrativo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Relazioni sindacali / In mancanza di un
preventivo atto di indirizzo dell’organo di governo dell’ente e, pure in
presenza di una certificazione positiva degli oneri contrattuali da parte
del soggetto istituzionalmente preposto al controllo, può il suddetto organo
di governo non approvare l’ipotesi di accordo e non autorizzare il
presidente della delegazione trattante di parte pubblica alla sottoscrizione
definitiva del contratto integrativo?
Relativamente alla particolare problematica prospettata, si ritiene utile
precisare quanto segue.
L’autorizzazione alla sottoscrizione da parte dell’organo di vertice del
contratto integrativo, sulla base delle vigenti regole contrattuali e legali
in materia, è un elemento essenziale della procedura negoziale decentrata.
Essa, infatti, a prescindere dalla circostanza che sia intervenuto o meno,
all’inizio della procedure, uno specifico atto di indirizzo da parte dello
stesso, rappresenta l’atto con il quale l’organo di vertice esprime le
valutazioni di competenza in ordine alla conformità dei contenuti
contrattuali anche agli obiettivi ed ai programmi generali dell’ente, alla
convergenza con le linee di politica sindacale e del personale perseguite
dall’ente, all’utilizzo efficiente, efficace ed economico delle risorse
disponibili, all’adeguamento del contratto integrativo alla soluzione di
problemi organizzativi e funzionali dell’ente, alla coerenza dei costi del
contratto integrativo con i vincoli di bilancio e con le altre norme
contrattuali in materia di quantificazione delle risorse, al rispetto delle
disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e sulla corresponsione
dei trattamenti accessori. Pertanto, pur in presenza di parere favorevole
reso dell’organo di controllo, la mancanza di tale atto dell’organo di
vertice impedisce la sottoscrizione definitiva del contratto integrativo (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 52 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuove discipline per la polizia locale / Ai fini
dell’erogazione dell’indennità di servizio esterno, di cui all’art.
56-quinquies, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, il presupposto
del “servizio esterno” deve essere inteso in senso restrittivo, solo cioè
come servizio “su strada” oppure in senso più ampio, come “servizio esterno
di vigilanza sul territorio”, con riferimento cioè a tutte le molteplici
funzioni della polizia locale sul territorio?
Poiché la clausola contrattuale, ai fini del riconoscimento dell’indennità,
fa riferimento alla prestazione giornaliera ordinaria resa in servizi
esterni di vigilanza “in via continuativa”, la stessa può essere corrisposta
al personale che, in base alla programmazione dei turni di servizio, è
assegnato al servizio esterno solo per alcuni giorni nel mese?
Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile
precisare quanto segue:
1) sulla base delle disposizioni espressamente stabilite nell’art.
56-quinquies del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, il
riconoscimento della indennità ivi prevista può essere garantito solo a quel
personale della polizia locale che, continuativamente, e, quindi, in maniera
non saltuaria o occasionale, sulla base dell’organizzazione del lavoro
adottata, renda effettivamente la propria prestazione lavorativa ordinaria
in servizi di vigilanza esterni sul territorio, fuori degli uffici,
nell’ambito non solo della vigilanza stradale ma di tutte le altre
molteplici funzioni della polizia locale;
2) nei casi particolari in cui, per particolari esigenze
organizzative dell’ente, o, in quelli di fruizione da parte del dipendente
di specifici permessi ad ore, previsti sia dalla legge che dalla
contrattazione collettiva, la prestazione lavorativa nei servizi esterni non
copra la durata della giornata lavorativa, l’indennità sarà necessariamente
riproporzionata tenendo conto solo delle ore effettivamente rese nei servizi
esterni. La disciplina contrattuale, infatti, ai fini del riconoscimento
dell’indennità fa riferimento “all’effettivo svolgimento del servizio
esterno”.
Ugualmente, per le medesime motivazioni, l’indennità di cui tratta non potrà
essere erogata nei casi di assenze per l’intera giornata lavorativa,
qualunque sia la motivazione della stessa (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 51 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuovo fondo risorse decentrate / Nel caso di
cessazione dei contratti di somministrazione posti in essere dall’ente, il
fondo dell’art. 67 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, deve
essere decurtato delle risorse che vi sono confluite, a seguito
dell’applicazione dell’art. 52, comma 5, del medesimo CCNL del 21.05.2018,
secondo il quale, per il finanziamento del trattamento accessorio del
personale somministrato, è previsto uno specifico stanziamento di spesa a
carico del bilancio dell’ente nell’ambito del progetto di attivazione dei
contratti di somministrazione a tempo determinato?
L’art. 52, comma 5, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
espressamente dispone: “I lavoratori somministrati, qualora
contribuiscano al raggiungimento di obiettivi di performance o svolgano
attività per le quali sono previste specifiche indennità, hanno titolo a
partecipare all’erogazione dei connessi trattamenti accessori, secondo i
criteri definiti in contrattazione integrativa. I relativi oneri sono a
carico dello stanziamento di spesa per il progetto di attivazione dei
contratti di somministrazione a tempo determinato, nel rispetto dei vincoli
finanziari previsti dalle vigenti disposizioni di legge in materia.”
Pertanto, in virtù di tale clausola contrattuale, è prevista una particolare
ed autonoma modalità di finanziamento del trattamento economico accessorio
del personale in servizio presso l’ente sulla base di un contratto di
somministrazione a termine mediante uno specifico stanziamento, a carico del
bilancio, nell’ambito del progetto che ne è alla base e per tutta la durata
dello stesso.
Tali risorse confluiscono nel fondo e sono disponibili in sede di
contrattazione integrativa ma solo, come detto, con la specifica finalità di
consentire l’erogazione dei trattamenti economici accessori ai lavoratori
somministrati, nel rispetto delle regole negoziali in materia valevoli perla
generalità del rimanente personale e, quindi, proprio per tale
finalizzazione, solo per il periodo in cui il personale di cui si tratta
presta servizio presso l’ente.
Ciò comporta, che una volta esaurito il progetto, con il conseguente venire
meno dei contratti di somministrazioni posti in essere nell’ambito dello
stesso, il fondo deve essere necessariamente ridotte delle risorse che vi
erano confluite, ai sensi del citato art. 52, comma 5, del CCNL del
21.05.2018.
Mancherebbe, infatti, ogni giustificazione al loro ulteriore mantenimento
nel fondo, essendo venuta meno la ragione giustificativa dell’inserimento
nello stesso di tali risorse (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 50 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative, nuova valutazione.
Retribuzione di risultato non più compresa tra una percentuale minima ed una
massima della retribuzione di posizione per i funzionari incaricati come
posizioni organizzative.
A conferma della radicale modifica del sistema di
valutazione delle posizioni organizzative, determinata dal Ccnl 21/05/2018,
giunge il parere dell'Aran (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 49).
Pur dedicato al tema dell'eventuale maggiorazione del risultato per i
funzionari incaricati come posizione organizzativa a scavalco tra due enti,
il parere afferma, condivisibilmente, che a seguito della nuova disciplina
contrattuale «deve ritenersi integralmente e definitivamente disapplicata la
precedente disciplina della retribuzione di risultato delle posizioni
organizzative contenuta nell'art. 10, comma 3, del Ccnl del 31.03.1999, che
rappresentava la cornice di riferimento anche del sopra citato art. 14,
comma 5, del Ccnl del 21/5/2004».
Secondo le previsioni del superato
articolo 10, comma 3, del Ccnl 31/12/1999, «l'importo della retribuzione di
risultato varia da un minimo del 10% ad un massimo del 25% della
retribuzione di posizione attribuita»; il tetto poteva ascendere al 30%
proprio nel caso degli incarichi a scavalco tra più enti. Il Ccnl 21/5/2018
non ha riprodotto questa disposizione. Il che è chiara indicazione
dell'intenzione delle parti negoziali di modificare alla radice il sistema
di premialità per le posizioni organizzative.
Al posto della vecchia
disciplina, l'articolo 15, comma 4, del nuovo Ccnl stabilisce: «Gli enti
definiscono i criteri per la determinazione e per l'erogazione annuale della
retribuzione di risultato delle posizioni organizzative, destinando a tale
particolare voce retributiva una quota non inferiore al 15% delle risorse
complessivamente finalizzate alla erogazione della retribuzione di posizione
e di risultato di tutte le posizioni organizzative previste dal proprio
ordinamento».
Dunque, non esiste più alcuna norma contrattuale che
garantisca un risultato minimo o comunque limiti il massimo in percentuale
rispetto alla retribuzione di posizione. Gli enti dovranno conglobare in un
unico capitolo di bilancio i finanziamenti destinati, fino al 2017, al
pagamento delle retribuzioni di posizione e risultato; di questa somma,
almeno il 15% dovrà essere destinata alla retribuzione di posizione.
Il
sistema di valutazione dovrà essere rivisto: nella sostanza, i punteggi
ottenuti da ciascun funzionario incaricato come posizione organizzativa,
ottenuti secondo criteri valutativi che sono oggetto di contrattazione,
determineranno quanto di quel sotto-capitolo di almeno il 15 della spesa
complessiva sarà assegnato a ciascuno. Più alto sarà il punteggio, maggiore
sarà il premio spettante, a prescindere dalla retribuzione di posizione
attribuita.
L'eliminazione della forcella 10-25% rispetto alla retribuzione di
posizione, disposta dal contratto nazionale impedisce agli enti di
reintrodurla, anche in modo solo parziale col contratto decentrato o col
sistema di valutazione
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova disciplina delle posizioni organizzative /
Nel caso di utilizzo di un dipendente a tempo parziale, già titolare
di una posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza ed al quale sia
conferito un altro incarico di posizione organizzativa dall’ente che si
avvale delle sue prestazioni, ai sensi dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004,
trova ancora applicazione la disciplina del comma 5 del suddetto art. 14
(“….Per la eventuale retribuzione di risultato l’importo può variare da un
minimo del 10% fino ad un massimo del 30% della retribuzione di posizione in
godimento. ….)?
In ordine a tale particolare
problematica, si ritiene utile precisare quanto segue:
- anche la disciplina dell’art. 14, comma 5, del CCNL del
22.01.2004, nella parte relativa alla quantificazione della retribuzione di
risultato, nel caso di incarico di posizione organizzativa conferito al
medesimo dipendente presso l’ente di appartenenza e presso altro ente che lo
utilizzi a tempo parziale o nell’ambito dei servizi in convenzione (da un
minimo del 10% ad un massimo del 30% della retribuzione di posizione in
godimento), non è più applicabile a seguito dell’introduzione delle nuove
disposizioni in materia di retribuzione di risultato delle posizioni
organizzative contenute nell’art. 15, comma 4, del CCNL delle Funzioni
Locali del 21.05.2018;
- infatti, nell’ambito della nuova disciplina, analogamente a
quanto avviene per la retribuzione di risultato della dirigenza, è previsto
solo che al finanziamento della retribuzione di risultato deve essere
destinata una quota non inferiore al 15% del complessivo ammontare delle
risorse finalizzate all’erogazione della retribuzione di posizione e di
risultato di tutte le posizione organizzative previste dall’ordinamento
dell’ente.
Gli enti definiscono, poi, autonomamente, in sede di contrattazione
integrativa, i criteri generali per la determinazione della retribuzione di
risultato delle diverse posizioni organizzative, nell’ambito delle risorse a
tal fine effettivamente disponibili. A seguito di tale nuova
regolamentazione, deve ritenersi integralmente e definitivamente
disapplicata la precedente disciplina della retribuzione di risultato delle
posizioni organizzative contenuta nell’art. 10, comma 3, del CCNL del
31.03.1999, che rappresentava la cornice di riferimento anche del sopra
citato art. 14, comma 5, del CCNL del 21.05.2004;
- pertanto, anche nel caso in esame la disciplina applicabile deve
essere individuata nelle previsioni dell’art. 15, comma 4, del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018 (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 49 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Indennità condizioni di lavoro / Ai fini
dell’applicazione dell’art. 70-bis del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018, concernente l’indennità per particolari condizioni di lavoro,
l’importo massimo di € 10 mensili è stabilito per ciascuna delle fattispecie
considerate (attività disagiate o comportanti esposizione a rischi esposte a
rischio o implicanti il maneggio valori) e, quindi, può essere determinato
fino ad un massimo di € 30 mensili oppure esso è unico e complessivo per
tutte le stesse (massimo € 10 mensili)?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile
precisare quanto segue.
Con l'art. 70-bis del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, in coerenza
con una specifica indicazione dell’atto di indirizzo del Comitato di settore
ed al fine di introdurre una semplificazione delle voci del trattamento
accessorio del personale, è stata prevista una nuova ed unica voce
indennitaria, denominata “Indennità condizioni di lavoro", che
accorpa le precedenti indennità di rischio, disagio e maneggio valori, fermo
restando, comunque, i presupposti fattuali che giustificavano l’erogazione
di tali compensi.
Infatti, essa vale a remunerare, pur sempre, lo svolgimento, da parte dei
lavoratori, di attività disagiate o rischiose in quanto pericolose o dannose
per la salute o implicanti il maneggio di valori.
La nuova indennità è commisurata ai giorni di effettivo svolgimento delle
attività legittimanti ed il suo ammontare è determinato in sede di
contrattazione integrativa, sulla base di specifici criteri individuati
direttamente dal CCNL, e cioè:
a) l’effettiva sussistenza ed incidenza di ciascuna delle
condizioni legittimanti sulle attività svolte dal dipendente;
b) le caratteristiche istituzionali, dimensionali, sociali e
ambientali degli enti interessati e degli specifici settori di attività.
Quanto sopra detto, pertanto, evidenzia, che, come sottolineato nella stessa
formulazione della clausola contrattuale, si tratta di una unica indennità,
che vale a remunerare, anche complessivamente, tutte le diverse fattispecie
ivi considerate, nell’ambito di un importo massimo di € 10 giornalieri.
La circostanza che venga in considerazione solo una o più delle condizioni
legittimanti, come evidenziato alla precedente lett. a), può valere solo a
determinare il concreto ammontare dell’indennità di cui si tratta
all’interno del tetto massimo di € 10.
Così, ad esempio, l’indennità potrebbe essere riconosciuta in un importo più
elevato a favore del lavoratore che, addetto al maneggio valori, si trovi ad
operare anche in una situazione di disagio, rispetto ad altro lavoratore
che, invece, renda solo la propria prestazione in una condizione di disagio.
Si esclude, pertanto, che, per ogni fattispecie, possa essere riconosciuta
l’indennità in uno specifico importo di €10, per cui nel caso di
concomitanza delle stesse, con riferimento ad un unico lavoratore, possa
essere previsto anche un ammontare massimo di € 30 giornalieri (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 48 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova disciplina delle posizioni organizzative /
Un ente Parco può utilizzare a tempo parziale un lavoratore
dipendente da altro ente, ai sensi dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004 e
conferire allo stesso un incarico di posizione organizzativa, con le
modalità definite dall’art. 17, comma 6, del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene necessario
preliminarmente evidenziare che un ente di tale tipologia ente non possa
avvalersi della disciplina dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004 in materia
di personale utilizzato a tempo parziale e servizi in convenzione.
Infatti, per espressa previsione delle parti negoziali (come si evince dalla
formulazione della clausola negoziale: “1. Al fine di soddisfare la
migliore realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una
economica gestione delle risorse, gli enti locali possono utilizzare..”),
possono avvalersi di questa disciplina esclusivamente “gli enti locali”.
Per l’esatta definizione degli enti rientranti in tale nozione occorre fare
riferimento all’art. 2 del D.Lgs. n. 267/2000.
Conseguentemente, mentre un Comune può indubbiamente avvalersi del personale
di un Parco, utilizzando le possibilità previste dall’art. 14 del CCNL del
22.01.2004, nel rispetto delle condizioni e dei limiti ivi previsti, un
Parco non può, invece, utilizzare personale di un Comune facendo riferimento
alla medesima disciplina contrattuale.
Per soddisfare le proprie esigenze organizzative ed operative, l’ente,
potrebbe, eventualmente, valutare l’opportunità di fare ricorso ad una delle
diverse forme di assegnazione temporanea previste dalla vigente normativa
(ad esempio, il comando).
Esclusa la possibilità del ricorso al citato art. 14 del CCNL del 22.01.2004
nella fattispecie prospettata, non si pone neppure il problema della
possibile applicazione dell’art. 17, comma 6, del CCNL delle Funzioni Locali
del 21.05.2018 (possibilità di maggiorare la retribuzione di posizione di
una posizione organizzativa conferita ad un lavoratore utilizzato a tempo
parziale e titolare di altro incarico di posizione organizzativa presso
l’ente di appartenenza sino ad un massimo del 30% del valore della stessa) (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 47 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuovo fondo risorse decentrate / Un ente ammesso
alla procedura di riequilibrio finanziario, ai sensi dell’art. 243-bis, del
D.Lgs. n. 267/2000, può inserire le risorse variabili di cui all’art. 67,
comma 3, lett. e), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (risparmi
accertati a consuntivo derivanti dall’applicazione della disciplina del
lavoro straordinario relativi all’anno precedente)?
E’ possibile riportare nel Fondo per le risorse decentrate dell’anno
successivo le economie derivanti dal non integrale utilizzo delle risorse
stabili degli anni precedenti?
Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene opportuno
precisare quanto segue.
La fattispecie concernente la possibilità di incrementare le risorse
variabili da parte degli enti che versino in condizioni di deficitarietà
strutturale o che abbiano avviato procedure di riequilibrio finanziario
trova una sua specifica regolamentazione nell’art. 67, comma 6, terzo
periodo, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo il quale: “Gli
enti che versino in condizioni di deficitarietà strutturale o che abbiano
avviato procedure di riequilibrio finanziario, come definite e disciplinate
da disposizioni di legge o attuative di queste ultime, in vigore per le
diverse tipologie di enti del comparto, ferma l’impossibilità di procedere
ad incrementi delle complessive risorse di cui al periodo precedente, sono
comunque tenuti ad applicare tutte le misure di riequilibrio previste dalle
suddette disposizioni, anche in ordine alla riduzione o totale eliminazione
delle risorse stesse.”.
Si tratta di una disciplina completamente diversa e distinta da quella
dettata del precedente periodo 2 del citato comma 6 dell’art. 67, che,
prende in considerazione solo la specifica situazione degli enti che si
trovino in condizioni di dissesto.
Questi enti, infatti, non possono procedere ad alcuno stanziamento di
risorse variabili, fatte salve le sole quote di risorse previste dal comma
3, lett. c), del medesimo l’art. 67, destinate a finanziare compensi da
corrispondere obbligatoriamente sulla base delle disposizioni legislative
ivi richiamate.
Gli enti, invece, considerati dall’art. 67, comma 6, terzo periodo, come si
evince dalla lettura della clausola contrattuale, si trovano nella
condizione di poter procedere allo stanziamento di risorse variabili (ivi
comprese quelle della lett. e), del comma 3, del medesimo art. 67), ma il
relativo importo non può, comunque, essere incrementato e superare,
conseguentemente, quello delle risorse di cui si tratta, sempre di natura
variabile, complessivamente già previste nell’anno precedente.
In tale limite dell’anno precedente, comunque, non rientrano quelle risorse
il cui stanziamento è consentito anche agli enti in stato di dissesto e cioè
quelle previste dal comma 3, lett. c), del medesimo l’art. 67, dato che la
clausola del terzo periodo fa riferimento alle “complessive risorse di
cui al periodo precedente”.
Se queste risorse sono consentite, in deroga, agli enti in dissesto non
possono che ritenersi, in deroga al vincolo del limite anche per gli enti in
condizioni di deficitarietà strutturale o che abbiano avviato procedure di
riequilibrio finanziario.
Non rientrano nel regime dell’art. 67, comma 6, del CCNL del 21.05.2018,
inoltre, le risorse di cui all’art. 68, comma 1, ultimo periodo, del CCNL
del 21.05.2018, secondo il quale: “Sono infine rese disponibili eventuali
risorse residue di cui all’art. 67, commi 1 e 2, non integralmente
utilizzate in anni precedenti, nel rispetto delle disposizioni in materia
contabile.”.
Infatti, si tratta delle risorse stabili che, non utilizzate in un anno,
qualunque sia la motivazione del mancato utilizzo, si traducono in un
incremento, una tantum, delle risorse variabili dell’anno successivo.
In proposito, si ricorda che, nella vigenza del precedente art. 17, comma 5,
del CCNL dell’01.04.1999, che conteneva un’analoga previsione, il Ministero
dell’Economia e delle Finanze nelle sue circolari e nelle sue note
esplicative ha avuto modo di evidenziare che le risorse stabili destinate
alla contrattazione integrativa, definitivamente non utilizzate nell’anno
precedente, costituiscono un mero trasferimento temporale di spesa,
nell’anno successivo, di somme già in precedenza certificate e che si
tratta, comunque, di risorse variabili.
Si ricorda, infine, che, come precisato sempre dalla medesima disciplina
contrattuale, resta, comunque, fermo l’obbligo per questa tipologia di enti
di applicare, sempre, tutte le misure di riequilibrio previste dalle vigenti
disposizioni di legge in materia, anche in ordine alla riduzione o totale
eliminazione delle risorse stesse, procedendo, cioè, ove si renda necessario
in applicazione delle suddette norme, anche alla riduzione o alla totale
soppressione delle risorse di cui si tratta (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 46 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuovo fondo risorse decentrate / Ai fini della
corretta applicazione dell’art. 67, comma 2, lett. a), del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018, nella nozione di “…unità di personale
destinatarie del presente CCNL in servizio alla data del 31.12.2015…”,
utilizzata dalle parti negoziali, per consentire la determinazione
dell’ammontare delle risorse previste dalla suddetta clausola contrattuale,
si può ricomprendere anche il personale con contratto a tempo determinato in
servizio a quella data?
Si può tenere conto anche del personale in servizio con contratto di
somministrazione? Nel caso di personale in servizio al 31.12.2015 con
rapporto di lavoro a tempo parziale, il valore di € 83,20 deve essere
riproporzionato?
Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile
precisare quanto segue:
a) in base all’art. 67, comma 2, lett. a), del CCNL delle Funzioni
Locali del 21.05.2018, l’incremento delle risorse decentrate stabili, pari
all’importo di € 83,20, deve essere disposto “per le unità di personale
destinatarie del presente CCNL (ndr. CCNL del 21.05.2018) in servizio alla
data del 31.12.2015….”.
Sulla base di tale ampia indicazione e del riferimento alle “unità di
personale destinatarie del presente CCNL”, si ritiene che l’incremento
debba essere effettuato computando anche le unità di personale assunto a
tempo tempo determinato ed in servizio alla data del 31.12.2015, dato che
anche i lavoratori a tempo determinato rientrano tra di destinatari e delle
disposizioni del CCNL del 21.05.2018, come espressamente disposto dall’art.
1, comma 1, del suddetto CCNL concernente il campo di applicazione;
b) non si ritiene, invece, che possano essere computati i
lavoratori in servizio con contratto si somministrazione sia per la mancanza
di una indicazione espressa in tal senso nella clausola contrattuale, sia
per le particolari modalità di finanziamento del trattamento economico
accessorio del suddetto personale nell’ambito del progetto e per tutta la
durata dello stesso;
c) l’importo annuo di € 83,20 dovrebbe essere computato per intero,
anche in caso di presenza in servizio presso l’ente, alla data del
31.12.2015, di personale con rapporto di lavoro a tempo parziale. Infatti,
il suddetto personale, nel rispetto delle norme contrattuali e legali in
materia, può sempre richiedere la trasformazione del rapporto da tempo
parziale a tempo pieno (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 45 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Specifica prestazione,
indennità aggiuntive ok. I
chiarimenti in un recente parere emesso dall’Aran.
Ad
alcune posizioni lavorative è consentito percepire indennità aggiuntive,
strettamente connesse ad una specifica prestazione, che trovano in apposite
disposizioni di legge la fonte che abilita all'erogazione (a titolo di
esempio i compensi per incentivi tecnici, previsti dalla normativa sugli
appalti).
Tali posizioni costituiscono un indubbio vantaggio rispetto alla
generalità degli altri dipendenti che, non avendo queste tipologie di
incarichi, non possono accedere alla relativa incentivazione; per attenuare
la suddetta posizione di vantaggio è prevista, tra le materie oggetto di
contrattazione decentrata (art. 7, comma 4, lettera j) e per i titolari di
posizione organizzativa, la definizione dei criteri per correlare tali
compensi con la retribuzione di risultato.
Una volta determinata l'entità
della retribuzione di risultato, spettante in base all'esito della
valutazione individuale, si può procedere alla riduzione, secondo i criteri
determinati in sede di contrattazione decentrata, per esempio, fino ad una
percentuale massima della medesima retribuzione.
Si deve ritenere, infatti,
che l'effetto compensatorio della riduzione della retribuzione di risultato
non debba arrivare fino al punto di eliminare ogni diritto, sia perché si
tratta di un istituto accessorio di natura incentivante esplicitamente
previsto dal Ccnl e sia perché la retribuzione di risultato è strettamente
correlata alla performance individuale.
Con
un recente parere l'Aran (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 44) si è espressa
nel senso che tale correlazione può riguardare anche il personale non
titolare di posizione organizzativa, qualora ciò sia stabilito in sede di
contrattazione decentrata alla quale è consentito, appunto, definire la
correlazione, e quindi il rapporto anche quantitativo, tra compensi connessi
alla performance (individuale e collettiva) e l'entità dei compensi previsti
da specifiche norme di legge.
Ciò potrà avvenire utilizzando la riserva di
regolazione in materia di trattamenti economici, riconosciuta dalla legge
alla contrattazione. L'art. 7, comma 4, lett. b), del Ccnl delle Funzioni
locali affida alla contrattazione integrativa proprio «i criteri per
l'attribuzione dei premi correlati alla performance», tra cui possono ben
rientrare le regole per correggere il vantaggio derivante da specifici
compiti. In sostanza, l'Aran ritiene che pur riferendosi la previsione di
cui all'art. 7, comma 4, lett. j), del Ccnl al solo rapporto tra i compensi
dell'art. 18, comma 11, lett. h) e la retribuzione di risultato dei titolari
di posizione organizzativa, sia comunque consentita l'applicazione, con
carattere di generalità, anche al personale non titolare di posizione
organizzativa, ove esso sia condiviso dalle parti in sede decentrata.
D'altra parte l'espresso riferimento dell'art. 18 alle sole posizioni
organizzative dipende probabilmente dal fatto che tale norma prevede la
possibilità di erogare compensi aggiuntivi ai titolari posizione
organizzative in deroga al principio generale sancito dall'art. 15 del
medesimo contratto secondo il quale la retribuzione di posizione e di
risultato «assorbe tutte le competenze accessorie» (articolo ItaliaOggi del 26.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Premialità / L’art. 7, comma 3, lett. J), del
CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 prevede, tra le materie di
contrattazione integrativa, anche la definizione della la correlazione tra i
compensi aggiuntivi per le posizioni organizzative (es: incentivi per
funzioni tecniche) e la retribuzione di risultato.
In mancanza di una espressa indicazione in tal senso è possibile negoziare
in sede decentrata anche la correlazione tra incentivi (es: incentivi per
funzioni tecniche) e performance individuale/collettiva?
Relativamente alla particolare problematica prospettata, si ritiene che,
stante la riserva di regolazione in materia di trattamenti economici
riconosciuta dalla legge alla contrattazione collettiva, non sembrano
sussistere impedimenti a che, in sede di contrattazione integrativa, ai
sensi dell’art. 7, comma 4, lett. b), del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018, possano essere stabilite comunque regole per definire la
correlazione e, quindi il rapporto anche quantitativo, tra compensi connessi
alla performance (individuale e collettiva) e l’entità dei compensi previsti
a favore di particolari categorie di personale, da specifiche norme di
legge, anche al fine di evitare situazioni di indubbio ed ingiustificato
vantaggio a favore dei dipendenti operanti presso determinati servizi.
In sostanza, si ritiene che il principio, esplicitato dall’art. 7, comma 4,
lett. j), del CCNL del 21.05.2018, con espresso riferimento al solo rapporto
tra i compensi dell’art. 18, comma 11, lett. h), del medesimo CCNL del
21.05.2018 e la retribuzione di risultato dei titolari di posizione
organizzativa, possa essere, comunque, applicato, con carattere di
generalità, anche al rapporto tra incentivi connessi alla performance e
l’ammontare di alcune specifiche tipologie di altri trattamenti economici
accessori previsti da norme di legge anche per il personale non titolare di
posizione organizzativa, ove esso sia condiviso dalle parti in sede
decentrata (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 44 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Responsabilità disciplinare / L’art. 3, comma 6,
del CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali dell’11.04.2008, per il caso
della sanzione della sospensione dal servizio con privazione della
retribuzione da 11 giorni a 6 mesi, prevedeva, per il periodo della
sospensione, la corresponsione al lavoratore di una indennità pari al 50%
della retribuzione indicata all'art. 52, comma 2, lettera b), del CCNL
14.09.2000 (poi art. 10, comma 2, del CCNL del 09.05.2006).
La nuova disciplina di tale sanzione contenuta nell’art. 59, comma 8, del
CCNL delle Funzioni Locali non prevede più tale indennità.
Alla luce di quanto sopra detto, nel caso in cui venga irrogata, oggi, la
sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della
retribuzione di cui si tratta per un fatto commesso nel 2009 (procedimento
avviato nella vigenza del CCNL del 2008), si può ancora applicare il citato
art. 3, comma 6, del CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali, vigente al
tempo della avvio del procedimento, con il riconoscimento dell’indennità, o
si deve fare riferimento alla nuova disciplina che la esclude?
L’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che la nuova disciplina della
sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino
a 6 mesi, senza corresponsione di alcun assegno alimentare, ai sensi
dell’art 59, comma 8, del CCNL del 21.05.2018, possa trovare applicazione
solo per le infrazioni commesse successivamente all’entrata in vigore del
nuovo codice disciplinare.
Infatti, si tratta di una indicazione pienamente conforme alle previsioni
dall’art. 59, comma 12, del medesimo CCNL del 21.05.2018, relativamente alla
fase di prima applicazione della nuova disciplina contrattuale,
espressamente dispone: “…..il codice disciplinare deve essere
obbligatoriamente reso pubblico nelle forme di cui al comma 11, entro 15
giorni dalla data di stipulazione del CCNL e si applica dal quindicesimo
giorno successivo a quello della sua applicazione.” (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 43 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di classificazione /
A quale modello di relazioni sindacali deve essere ricondotta la
materia della eventuale integrazione della disciplina della valutazione
della performance individuale con i criteri dell’esperienza maturata negli
ambiti professionali di riferimento e delle competenze acquisite e
certificate a seguito di processi formativi?
Nel merito del quesito formulato, relativamente alla particolare
problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:
a) spetta alla contrattazione integrativa, ai sensi dell’art. 7,
comma 4, lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, la scelta
in ordine all’introduzione o meno , tra i criteri per l’attribuzione della
progressione economica, anche di quelli “dell’esperienza professionale
maturata negli ambiti professionali di riferimento, nonché delle competenze
acquisite e certificate a seguito di processi formativi” (art. 16, comma
3, del CCNL del 21.05.2018);.
b) la materia, invece, dei criteri generali dei sistemi di
valutazione non forma oggetto di contrattazione integrativa, ma solo di
confronto, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. b), del CCNL del 21.05.2018
(orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 42b - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Relazioni sindacali / A
quale modello di relazioni sindacali deve essere ricondotta la materia della
eventuale integrazione della disciplina della valutazione della performance
individuale con i criteri dell’esperienza maturata negli ambiti
professionali di riferimento e delle competenze acquisite e certificate a
seguito di processi formativi?
Nel merito del quesito formulato, relativamente alla particolare
problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:
a) spetta alla contrattazione integrativa, ai sensi dell’art. 7,
comma 4, lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, la scelta
in ordine all’introduzione o meno , tra i criteri per l’attribuzione della
progressione economica, anche di quelli “dell’esperienza professionale
maturata negli ambiti professionali di riferimento, nonché delle competenze
acquisite e certificate a seguito di processi formativi” (art. 16, comma
3, del CCNL del 21.05.2018);.
b) la materia, invece, dei criteri generali dei sistemi di
valutazione non forma oggetto di contrattazione integrativa, ma solo di
confronto, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. b), del CCNL del 21.05.2018
(orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 42a - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuove discipline per la polizia locale / Nell’ambito
della specifica finalità di cui all’art. 56-quater, comma 1, lett. c), del
CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (“erogazione di incentivi monetari
collegati a obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati
alla sicurezza urbana e stradale), è possibile finanziare, con quota parte
delle risorse derivanti dai proventi delle violazioni stradali, di cui
all’art. 208, commi 4, lett. c), e 5, del D.Lgs. n. 285/1992, l’indennità di
servizio esterno di cui all’art. 56-quinquies, del medesimo CCNL del
21.05.2018?
Tra le altre diverse finalità ivi indicate, l’art. 56-quater, lett. c), del
CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali, destina quota parte dei proventi
delle violazioni stradali, di cui all’art. 208, commi 4, lett. c), e 5, del
D.Lgs. n. 285/1992 anche all’“erogazione di incentivi monetari collegati
a obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla
sicurezza urbana e stradale.”. Si tratta di una indicazione ampia e
generale.
Pertanto, in tale ambito, ad avviso della scrivente Agenzia, le risorse di
cui si tratta possono essere utilizzate anche per il finanziamento
dell’indennità di servizio esterno, in quanto anche questo compenso, per le
nuove e maggiori prestazioni cui si collega (implementazione dei servizi
esterni di vigilanza), si può configurare come strettamente funzionale al
conseguimento di quegli obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo
finalizzati alla sicurezza urbana e stradale” (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 41 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative in più enti, maggiorazione del 30% a carico dell'utilizzatore.
L'onere della maggiorazione della retribuzione di posizione fino a un
massimo del 30 per cento, prevista dall'articolo 17, comma 6, del contratto
21.05.2018, nell'ipotesi di conferimento di incarico di posizione
organizzativa a personale utilizzato a tempo parziale presso altro ente o
presso servizi in convenzione o unioni di Comuni, è a carico degli enti
utilizzatori.
Lo ha chiarito l'Aran con l'orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 40.
Si tratta di un'ipotesi piuttosto frequente in amministrazioni locali di
piccola dimensione, in cui un ente si avvale del personale a tempo parziale
incardinato presso un altro ente o presso servizi in convenzione,
incaricandolo di posizione organizzativa.
La disciplina contrattuale
Il contratto nazionale chiarisce le modalità con cui avviene la regolazione
dei rapporti, stabilendo puntualmente:
a) da una parte, che l'ente di provenienza continua a corrispondere le
retribuzioni di posizione e di risultato secondo i criteri nello stesso
stabiliti, riproporzionate in base alla intervenuta riduzione della
prestazione lavorativa;
b) dall'altra parte, che l'ente, l'unione (posto che la disciplina interessi
anche le unioni dei comuni) o il servizio in convenzione presso il quale è
stato disposto l'utilizzo a tempo parziale corrispondono, con onere a
proprio carico, le retribuzioni di posizione e di risultato in base alla
graduazione della posizione attribuita e dei criteri presso gli stessi
stabiliti, ovviamente in modo riproporzionato.
Peraltro, è anche stabilito, con una disposizione che ha determinato talune
incertezze applicative, come, al fine di compensare la maggiore gravosità
della prestazione svolta in diverse sedi di lavoro, sia possibile
corrispondere una maggiorazione della retribuzione di posizione attribuita
di importo non superiore al 30 per cento.
Il chiarimento
I punti dubbi essenzialmente due: rispettivamente, sulla base di
commisurazione di questa maggiorazione (se è limitata alla quota a carico
dell'ente utilizzatore oppure all'intero importo della posizione) nonché
all'imputazione della spesa (se integralmente a carico dell'ente
utilizzatore o pro quota a entrambi).
L'Aran è intervenuta, dunque, chiarendo, alla luce della disciplina
contrattuale (la quale prevede espressamente che «…i soggetti di cui al
precedente alinea possono altresì corrispondere con oneri a proprio
carico…)» che solo l'ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio in
convenzione e l'unione di Comuni, che si avvalgono del lavoratore di altro
ente, si assumono l'onere della maggiorazione fino al 30 per cento della
retribuzione di posizione prevista dalla disciplina contrattuale.
È rilevante, infine, sottolineare che in un altro orientamento applicativo
(CFL49) l'Aran ha chiarito che, invece, non è più applicabile la disciplina
dell'articolo 14, comma 5, del contratto del 22.01.2004 che prevedeva la
possibilità, nel caso di incarico di posizione organizzativa conferito al
medesimo dipendente presso l'ente di appartenenza e presso altro ente che lo
utilizzi a tempo parziale o nell'ambito dei servizi in convenzione, di
elevare al 30 per cento la retribuzione di risultato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova disciplina delle posizioni organizzative /
L’art. 17, comma 6, delle Funzioni Locali del 21.05.2018 disciplina
l’utilizzo in convenzione delle posizioni organizzative, prevedendo la
possibilità di maggiorare la retribuzione di posizione sino ad un massimo
del 30% del valore della stessa.
L’onere di tale maggiorazione compete all’ente che utilizza il lavoratore in
convenzione?
Nell’ambito delle disposizioni particolari sulle posizioni organizzative
sono state dettate, anche alcune previsioni concernenti le specifiche
ipotesi di conferimento della titolarità di posizione organizzativa ad un
dipendente utilizzato a tempo parziale presso altro ente o in un servizio
convenzione o presso una unione di comuni e già titolare di altra posizione
organizzativa presso l’ente di appartenenza (art. 17, commi 6 e 7, del CCNL
delle Funzioni Locali del 22.01.2004), ai sensi degli art. 14 e 13 del CCNL
del Comparto Regioni – Autonomie Locali del 22.01.2004 .
Sulla base della nuova disciplina, al fine di compensare la maggiore
gravosità della prestazione svolta dall’unico lavoratore titolare di
incarico di posizione organizzativa presso due diversi enti, i soggetti di
cui sopra si è detto (l’ente utilizzatore a tempo parziale, il sevizio in
convenzione e l’unione di comuni) possono riconoscere una maggiorazione
della retribuzione di posizione relativa alla posizione organizzativa
attribuita al suddetto lavoratore presso gli stessi, determinata in base ai
criteri di graduazione dagli stessi adottati, di importo non superiore al
30% della stessa.
La disciplina contrattuale (art. 17, comma 6, comma 6, ultimo alinea), poi,
prevede espressamente anche che “…i soggetti di cui al precedente alinea
possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico……)".
Quindi, solo l’ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio in
convenzione e l’unione di comuni, che si avvalgono del lavoratore di altro
ente, si assumono l’onere della maggiorazione fino al 30% della retribuzione
di posizione prevista dalla disciplina contrattuale.
Si ricorda, peraltro, che l’importo della retribuzione di posizione,
determinato tenendo conto anche della eventuale maggiorazione dell’art. 17,
comma 6, ultimo alinea, del CCNL del 21.05.2018, deve essere comunque
riproporzionato in relazione alla durata prevista della prestazione
lavorativa presso l’ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio in
convenzione e l’unione di comuni (orientamento
applicativo 03.04.2019 CFL 40 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
flessibilità oraria fa perdere l'indennità al personale in turnazione.
La flessibilità oraria, in entrata e in uscita, non è consentita al
personale in turnazione, pena la perdita dell'indennità contrattuale, mentre
una differenza oraria sovrapponibile è ammessa esclusivamente per il tempo
necessario al cambio di turno.
Al contrario, in caso di impedimento
(malattia, ferie, permessi), l'attribuzione della indennità è dovuta al
personale che nella giornata abbia correttamente effettuato la propria
turnazione (antimeridiana o pomeridiana). Viene confermato, infine, il solo
pagamento della maggiorazione, prevista per la turnazione, in presenza del
servizio reso nella giornata festiva infrasettimanale.
Sono questi gli indirizzi confermati dall'Aran, nel
parere
20.03.2019 n. 2222 di prot..
La flessibilità oraria
Il contratto del 21.05.2018 ha previsto, in modo non dissimile dai
contratti precedenti, che è oggetto di contrattazione integrativa la
definizione dei criteri per l'individuazione di fasce temporali di
flessibilità oraria in entrata e in uscita, al fine di conseguire una
maggiore conciliazione tra vita lavorativa e familiare.
Flessibilità oraria
che, tuttavia, non si concilia con le regole contrattuali della turnazione,
pena la sovrapposizione delle attività in turno. Infatti, se il primo
lavoratore, utilizzando la flessibilità oraria in ingresso, inizia la
prestazione, ad esempio, alle 8,15, anziché alle 7,30 come stabilito per il
suo turno, il servizio non è comunque reso per 45 minuti, in conflitto con
le finalità del turno che è quella di garantire la continuità del servizio
per almeno 10 ore continuative.
Analogo effetto interruttivo si
determinerebbe nel caso in cui il lavoratore preso in considerazione, sempre
in virtù della flessibilità oraria, anticipasse l'uscita alle 12,30
(rispetto alla prevista cessazione della prestazione alle ore 13,30), a
nulla rilevando che il medesimo lavoratore recuperi, secondo le regole
generali, il tempo fruito in flessibilità, in quanto questo si collocherebbe
sempre e necessariamente al di fuori delle fasce della turnazione.
L'Aran ha precisato che l'unica flessibilità possibile è quella stabilita
dall'articolo 23, comma 3, lettera b), secondo cui «l'adozione dei turni può
anche prevedere una parziale e limitata sovrapposizione tra il personale
subentrante e quello del turno precedente, con durata limitata alle esigenze
dello scambio delle consegne».
Turnazione e assenze
Nel caso in cui una volta stabilita la rotazione tra due dipendenti, tra
orario antimeridiano e pomeridiano, uno dei due si dovesse assentarsi per
qualsiasi motivo (malattia, ferie, permesso o altro), questa situazione non
modifica la condizione di turnista dell'altro lavoratore, il quale usufruirà
dell'indennità per la turnazione effettuata anche in assenza di un servizio
continuativo per un minimo di 10 ore previsto dal contratto (articolo 23 del
contratto 21.05.2018).
Turnazione e festivo infrasettimanale
I tecnici dell'Aran confermano che, anche con il nuovo contratto stipulato,
nulla è modificato in merito al servizio prestato dal personale turnista
nella festività infrasettimanale. Così se il turno è articolato su cinque o
sei giorni settimanali, esso ricomprende anche le eventuali festività
ricadenti in detto periodo che dovranno essere considerate lavorative con
diritto alla sola maggiorazione prevista nell'indennità di turno
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Deroghe
possibili alla flessibilità oraria, l'Aran conferma.
Il contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto delle funzioni
locali del 21 maggio 2018, con l'articolo 27, in un'ottica di potenziamento
delle misure di conciliazione vita-lavoro, ha previsto la possibilità di
rendere maggiormente flessibile la prestazione lavorativa del dipendente
favorendone il giusto equilibrio tra esigenze personali e impegni di lavoro.
Si tratta di una novità assoluta per gli enti locali e, come tutte le
novità, solleva diversi dubbi per chi concretamente deve darne applicazione.
È l'Aran, dopo un primo chiarimento (si veda l'orientamento applicativo
Cfl35), che fornisce, con il
parere 14.03.2019 n.
2096 di prot., ulteriori utili e importanti indicazioni
sull'istituto.
Le possibili deroghe
Il comma 3 dell'articolo in questione dispone espressamente che l'eventuale
debito derivante dalla disciplina dell'orario di lavoro flessibile «deve
essere recuperato nell'ambito del mese di maturazione dello stesso, secondo
le modalità e i tempi concordati con il dirigente». Per l'Aran la portata
della disposizione non ha carattere assoluto ma può, entro certi limiti,
essere derogata.
Così nel caso dell'eventuale sopraggiungere di un
impedimento, oggettivo e imprevisto, che non consente al lavoratore il
recupero orario entro il mese di maturazione (che è da intendersi come mese
di calendario) del debito orario o, anche nell'ipotesi, ugualmente avente
carattere di eccezionalità, della fruizione della flessibilità oraria
proprio nell'ultimo giorno del mese, è possibile far slittare il termine del
recupero al mese successivo a quello di maturazione.
Viene però individuata un'altra ipotesi di deroga: quella legata a esigenze
di carattere organizzativo dell'ente stesso. Tuttavia, avverte l'Agenzia,
occorre procedere con una certa prudenza nei comportamenti derogatori del
datore di lavoro pubblico per evitare che gli stessi finiscano per ampliarsi
e assumere carattere di regola generale. Si tratta di un'importante apertura
che consente agli enti di evitare inutili irrigidimenti di una norma
contrattuale che rappresenta, forse, più di altre un concreto strumento per
conciliare le esigenze delle persone, le esigenze organizzative dell'ente e
i bisogni dell'utenza.
Le ipotesi che giustificano il riconoscimento
Un'altra importante indicazione fornita dall'Aran con il parere n. 2096/2019
è quella per cui non è possibile estendere la portata della clausola
contrattuale alle fattispecie non espressamente indicate al comma 4 (ovvero
dipendenti che beneficiano delle tutele connesse alla maternità o paternità,
assistono portatori di handicap, siano inseriti in progetti terapeutici, si
trovano in situazioni di necessità connesse alla frequenza dei propri figli
di asilo nido, scuole materne e scuole primarie o che siano impegnate in
attività di volontariato).
Questo chiarimento in realtà spiazza molti enti locali che, avvalendosi
dello schema di contratto contenuto nel quaderno Anci dello scorso 14.09.2018 (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa
dell'08.10.2018), in sede di contrattazione integrativa hanno provveduto a
disciplinare, o stanno valutando di farlo, ulteriori casistiche delle
situazioni che possono dare luogo alla concessione dell'orario flessibile
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anche
il part-time aumenta il fondo.
Pian piano il contratto nazionale delle funzioni locali
togle i veli e mostra la sua effettiva portata. In questo contesto, un ruolo
chiave è ricoperto dall’Aran che in questi giorni risponde a tempo pieno ai
quesiti delle amministrazioni locali.
Questa volta, l’importante chiarimento riguarda le modalità applicative
dell’articolo 67, comma 2, lettera a), del contratto del 21.05.2018. La
disposizione stabilisce che dal 31.12.2018 e a valere dall’anno 2019 il
fondo per le risorse decentrate sia incrementato di un importo pari a 83,2
euro per ogni unità di personale presente al 31.12.2015, destinataria dello
stesso contratto. I dubbi applicativi, sorti immediatamente dalla lettura
del testo definitivo del contratto, erano stati accantonati, vista la
decorrenza al 2019. Oggi i problemi non sono più rinviabili ed ecco
l’intervento dell’Aran.
Il chiarimento dell'Aran.
Un Comune si interroga su come si devono quantificare i soggetti da
considerare «unità di personale» destinatarie del contratto.
Un primo chiarimento era già intervenuto con il
parere 06.09.2018 n. 15354 di prot. dell'Aran, dove dal calcolo
erano stati esclusi il personale in comando, distacco, assegnazione
temporanea, utilizzo a tempo parziale e istituti analoghi.
Quale motivazione, l’Agenzia scriveva che in caso contrario si sarebbe
arrivati a incrementare le risorse del fondo in maniera stabile e
permanente, a fronte di personale solo temporaneamente utilizzato dall’ente.
Ovviamente questi soggetti sono computati dall’ente dal quale dipendono
giuridicamente. Così si evita il doppio conteggio.
Sorgeva allora spontanea la domanda posta ora dal Comune: se questo è il
perimetro entro il quale muoversi, nelle «unità di personale» vanno
computati i dipendenti al 31.12.2015 con contratto a tempo determinato? E il
personale a part-time deve essere conteggiato in relazione all’impegno
lavorativo oppure per intero? L’Aran risponde a questi dubbi con il
parere 27.02.2019 n. 1650 di prot..
Viene affermato che, come soggetti destinatari del contratto nazionale,
anche i dipendenti a termine, se presenti alla fine del 2015, sono da
considerarsi ai fini dell’incremento del fondo.
L’Agenzia chiarisce anche che sono da conteggiare i soggetti con contratto
di lavoro subordinato in base al comma 557 della legge 311/2004, vale a dire
i rapporti che possono essere stipulati dagli enti locali con meno di 5mila
abitanti con dipendenti di altre pubbliche amministrazioni, anche se questi
ultimi mantengono un contratto di lavoro a tempo pieno.
Posizione poco lineare
La posizione dell’Aran non sembra molto lineare: nel parere del settembre
2018 si affermava che non è possibile considerare il dipendente in comando
in quanto utilizzato solo temporaneamente, mentre oggi sostiene che va
conteggiato il personale a termine; a settembre si affermava che il
lavoratore in comando non va conteggiato perché già considerato dall’ente da
cui dipende giuridicamente; oggi si sostiene che si computano anche i
dipendenti a termine previsti dal comma 557 della legge 311/2004,
sicuramente già computati dall’ente da cui dipendono a tempo pieno.
In relazione ai lavoratori part-time, l’Aran sostiene che sono da
considerare per intero. La motivazione consiste nella possibilità dei
dipendenti con contratto di lavoro a tempo parziale di richiedere sempre la
trasformazione a tempo pieno. Anche in questo caso la motivazione lascia un
po’ perplessi
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni
in D3 se avviate prima del nuovo contratto. L'Aran spiega il regime transitorio.
Le assunzioni nella categoria D3 avviate con la comunicazione prevista
dall'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001 prima dello scorso 21 maggio devono
essere completate con l'inquadramento in quella posizione, così come gli
scorrimenti avviati prima di quella data.
Con l'orientamento
applicativo 21.02.2019 CFL 39 abbiamo una attenta risposta ai numerosi
dubbi esistenti sulla fase di prima applicazione delle disposizioni del
contratto del triennio 2016/2018 che dispongono il superamento della
distinzione tra posizioni giuridiche 1 e 3 quali inquadramenti iniziali
nella categoria D, disponendo che tutti i nuovi inquadramenti vanno
effettuati nella posizione giuridica ed economica 1.
La stessa norma
stabilisce che rimangono inquadrati nella categoria D3, a esaurimento,
quelli che lo sono già e che devono essere inquadrati in quella posizione i
vincitori delle «procedure concorsuali in corso» alla data del 21.05.2018, cioè alla entrata in vigore della norma contrattuale. La logica
ispiratrice della scelta contrattuale viene riassunta nella necessità di
dare corso al contemperamento delle esigenze, per molti aspetti tra loro
contrastanti, della «semplificazione del sistema di classificazione» nella
categoria D e della salvaguardia della «validità della graduatoria
concorsuale».
Le nuove assunzioni
In primo luogo il parere prende in esame le regole da applicare per le nuove
assunzioni, sia tramite concorsi sia attraverso lo scorrimento delle
graduatorie. Se l'ente alla data della entrata in vigore del contratto ha
effettuato la comunicazione prevista dall'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001,
cioè quella finalizzata all'eventuale assegnazione di personale pubblico in
disponibilità, si deve considerare comunque rientrante «nella deroga»,
quindi il o i vincitori vanno assunti in D3.
Si deve invece ricordare che,
per la deliberazione della sezione regionale di controllo della Corte dei
conti della Basilicata n. 36/2018 (si veda il Quotidiano degli enti locali e
della Pa del 10.10.2018), la procedura concorsuale si può considerare
in corso solamente se alla data del 21.05.2018 era stato pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale il bando di concorso. Quindi una lettura ben più
restrittiva di quella fornita dall'Aran.
Il parere ci offre delle indicazioni anche sulla fattispecie della
assunzione tramite scorrimento delle graduatorie: se il provvedimento con
cui viene data concreta attuazione alla previsione contenuta nel programma
annuale e triennale del fabbisogno del personale è stato adottato prima del
21.05.2018, l'assunzione dovrà essere effettuata nella categoria D3,
mentre se questo atto è stato adottato successivamente si deve
necessariamente dare corso all'inquadramento nella categoria D1, non essendo
ostativa a tale conclusione l'attingimento da una graduatoria per D3.
Procedure di mobilità
In secondo luogo, il parere prende in esame la fattispecie relativa
all'avvio di procedure di mobilità. Ci viene in premessa ricordato che in
questo caso siamo in presenza di una prosecuzione del rapporto esistente con
la sola modifica del datore di lavoro e che non si può in alcun modo parlare
di una nuova assunzione. La conseguenza è la seguente: opera «la clausola di
salvaguardia» prevista dal contratto per i dipendenti in servizio.
In altri
termini, la modifica del rapporto di lavoro non può determinare un venir
meno della disposizione che consente ai dipendenti in servizio che restano
nello stesso ente di continuare a essere inquadrati ad personam e a
esaurimento nella posizione giuridica ed economica D3. Per cui, il
dipendente deve essere inquadrato in D3 se il bando di mobilità volontaria è
stato pubblicato prima della data di entrata in vigore del nuovo contratto.
I bandi di mobilità pubblicati dopo il 21.05.2018 non possono che consentire
la partecipazione sia dei D1 che dei D3, scattando per questi ultimi la
«clausola di salvaguardia», per cui non vengono "retrocessi" a D1.
Dobbiamo infine segnalare che in questi casi occorre garantire che i profili
richiesti siano gli stessi o quanto meno compatibili
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.03.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di classificazione / Quali sono gli
effetti e le modalità applicative dell’art. 12, comma 9, del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018, concernente il regime transitorio della
nuova disciplina relativa ai profili della categoria D?
Con l’art. 12, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, è
stata disposta, all’interno della categoria D, la soppressione di quei
profili per i quali precedentemente, veniva riconosciuto un trattamento
stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3 e per i
quali, conseguentemente, era previsto uno specifico punto di accesso
dall’esterno, pure nella unicità della categoria D.
Conseguentemente, dalla data del 22.05.2018, all’interno della dotazione
organica esistono solo profili ai quali viene riconosciuto il trattamento
stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D1.
Pertanto, gli enti, per il futuro, nella categoria D, possono assumere
dipendenti solo per i profili con posizione economica D1.
Viene, comunque, salvaguardata la posizione dei lavoratori attualmente già
inquadrati in tali profili D3, prevedendosi, per essi, la conservazione del
profilo posseduto e la posizione economica acquisita nell’ambito della
categoria D.
Viene disposta anche un’ulteriore clausola di salvaguardia. L’art. 12, comma
9, del CCNL del 21.05.2018, infatti stabilisce che: “9. Nel caso in cui,
alla data di entrata in vigore del presente CCNL siano tuttora in corso
procedure concorsuali per l’assunzione di personale nei profili
professionali con accesso nella posizione economica D3, secondo il
previgente sistema di classificazione, il primo inquadramento avviene nei
suddetti profili della categoria D.”.
Il problema che si è posto è quello di dare alla suddetta clausola
contrattuale, in sede interpretativa, un contenuto specifico e concreto,
coerente con la ratio della soppressione dei profili con trattamento
stipendiale corrispondente alla categoria D3, per evitare applicazioni ampie
e generalizzate, al di là della volontà delle parti contrattuali.
Il punto nodale è quello della determinazione della indicazione di “procedure
concorsuali in corso”.
Si tratta di una indicazione di per sé ampia e generale.
Pertanto, può essere utile esaminare le diverse fattispecie che,
praticamente, possono presentarsi e valutare la riconducibilità o meno delle
stesse all’interno della garanzia contrattuale.
Assunzioni
a) sulla base della programmazione dei fabbisogni, l’ente, ha
adottato la determinazione di procedere all’assunzione di personale con
profili della categoria D, con posizione economica in D3, ed in attuazione
della stessa ha inviato la comunicazione prevista dall’art. 34, comma 6, del
D.Lgs. n. 165/2001, ai fini della ricollocazione della mobilità obbligatoria,
prima del 21.05.2018. Poiché tale comunicazione, sulla base della vigente
legislazione, non solo si configura come un necessario passaggio prodromico
alla successiva pubblicazione del bando (per l’avvio formale del concorso
pubblico in senso proprio) e, quindi, ritenuta pur sempre rientrante nella
procedura intesa in senso ampio, ma potrebbe pure portare, al tempo stesso,
direttamente alla copertura del posti di cui si tratta tramite mobilità, si
ritiene che tale fattispecie rientri comunque nella deroga;
b) sulla base della programmazione dei fabbisogni, l’ente decide di
procedere all’assunzione di personale con profili della categoria D, con
posizione economica in D3, tramite scorrimento di graduatorie già formate
prima del 21.05.2018. In questo caso, si ritiene che, se l’ente abbia
formalmente adottato il provvedimento per dare effettivo corso
all’attuazione dello scorrimento della graduatoria, sulla base della vigente
legislazione, prima del 21.05.2018, anche se l’assunzione avviene a tale
data, troverà applicazione la previsione del sopra citato comma 9. Ove tale
provvedimento formale sia intervenuto successivamente alla data del
21.05.2018, l’ente procede allo scorrimento della graduatoria ma
l’assunzione avverrà nella posizione economica D1, secondo le previsioni 12
del CCNL del 21.05.2018.
Dopo l’entrata in vigore del CCNL, invece, a seguito della nuova disciplina
concernente i profili della categoria D, gli enti non potranno più procedere
all’avvio di procedure concorsuali, nei termini sopra individuati, aventi ad
oggetto la copertura di posti relativi a profili della categoria D, con
posizione economica D3.
Dopo il 21.05.2018, anche per la copertura di posti concernenti profili per
i quali prima era previsto nella categoria D, il trattamento stipendiale
corrispondente alla posizione economica D3 e l’accesso diretto in tale
posizioni, quindi, i dipendenti della categoria D, potranno essere assunti,
solo nella posizione economica D1 di tale categoria.
Ove l’ente, anche in questi casi, decida di avvalersi dello scorrimento di
graduatorie già esistenti ed ancora vigenti presso lo stesso o anche altri
enti, in applicazione delle vigenti disposizioni di legge, relative a
precedenti concorsi banditi per la copertura di posti concernenti profili
della categoria D, con trattamento stipendiale pari alla posizione economica
D3, i soggetti selezionati saranno inquadrati nei corrispondenti profili ora
collocati tra quelli con trattamento stipendiale pari alla posizione
economica D1.
Viene salvaguardata, quindi, la validità della graduatoria concorsuale, nel
rispetto però del nuovo assetto ordinamentale degli enti, conseguente alla
soppressione dei profili della categoria D, posizione economica D3,
finalizzata alla semplificazione del sistema di classificazione.
Inoltre, in proposito, si può anche evidenziare, che si tratta di personale
che è certamente inserito in graduatorie ancora valide, ma comunque non era
vincitore di concorso e neppure poteva considerarsi già dipendente
dell’ente.
Allo stesso viene conservata la possibilità di accesso agli impieghi, nel
profilo per il quale era stato bandito il concorso (avvocato, ingegnere,
ecc.), ma tenendo conto della nuova collocazione, giuridica e normativa
degli stessi, nell’ambito del sistema di classificazione derivante dal CCNL
del 21.05.2018.
Mobilità
Preliminarmente, occorre ricordare che, con la mobilità volontaria, di cui
all’art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001, il rapporto di lavoro del personale
trasferito non si estingue ma, più semplicemente, prosegue con il nuovo ente
con le medesime caratteristiche e con gli identici contenuti che aveva
presso il precedente datore di lavoro pubblico.
Conseguentemente, in questa fattispecie occorre considerare che il
dipendente in mobilità è già in possesso del profilo della categoria D, con
trattamento stipendiale corrispondente alla posizione economica D3, e che,
quindi, presso l’amministrazione di appartenenza, si è già collocato
nell’ambito della clausola di salvaguardia della situazione soggettiva
prevista dal CCNL.
Pertanto, se prima del 21.05.2018 è stato già pubblicato un bando di
mobilità per profili di categoria D, con trattamento stipendiale iniziale
corrispondente alla posizione economica D3, il dipendente trasferito
certamente continua a godere della garanzia della conservazione del profilo
e della posizione economica già acquisita (art. 12, commi 5 e 9).
Dopo la data del 21.05.2018, i bandi di mobilità per la copertura di posti
vacanti della categoria D potranno riguardare solo la “generica”
categoria D, anche ove si trattasse di posti relativi a profilli per i quali
precedentemente era previsto l’accesso diretto dall’esterno nella posizione
economica D3.
Ai suddetti bandi di mobilità, per la copertura di posti della categoria D,
per i profili di cui si tratta, potranno partecipare dipendenti di altre
amministrazioni, in possesso di profili con trattamento economico
stipendiale, indistintamente, pari sia a D1 sia a D3.
Ove nella procedura di mobilità, risulti selezionato un dipendente ancora in
possesso di profilo di categoria D, con trattamento stipendiale iniziale
corrispondente alla posizione economica D3, allo stesso sarà applicata la
garanzia contrattuale.
In questi casi, l’eventuale possesso di un profilo della categoria D, con
trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3,
come prescritto espressamente anche dall’art. 12, comma 6, del CCNL del
21.05.2018, rileva esclusivamente per la parte della posizione economica da
imputare al fondo delle risorse decentrate e per la determinazione delle
risorse da recuperare alle risorse stabili in caso di cessazione, a
qualunque titolo, del rapporto di lavoro (orientamento
applicativo 21.02.2019 CFL 39 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni economiche create dal contratto 2018 senza elemento perequativo.
L’agenzia negoziale nega la possibilità di applicare l’aumento temporaneo.
Il paradosso delle promozioni che tagliano la busta
paga.
Al personale che acquisisce le posizioni economiche orizzontali (A.6, B.8, C.6
e D.7) introdotte dal nuovo contratto nazionale delle Funzioni locali non
spetta l’elemento perequativo in quanto la disciplina contrattuale non ha
definito gli importi per queste posizioni. Nemmeno è possibile conservare la
voce retributiva nell’importo in godimento nella posizione economica
precedentemente posseduta.
Si possono riassumere così i chiarimenti del
parere Aran
11.01.2019 n. 261 di prot..
L’elemento perequativo per il comparto funzioni locali è stata disciplinato
dall’articolo 66 del contratto del 21.05.2018; i valori, che variano in
relazione alla posizione economiche posseduta dal dipendente, sono indicate
nella tabella D allegata al contratto.
Un ente locale si è posto alcuni dubbi:
- la mancata previsione nella tabella
D del riconoscimento dell’elemento perequativo alle nuove posizioni
economiche orizzontali (A.6, B.8, C.6 e D.7) farebbe venir meno gli intenti
di sterilizzazione della perdita del bonus degli 80 euro, visto che per
alcune di queste posizioni non si raggiungono i limiti massimi di reddito
previsti per beneficiare del bonus?
- È possibile preservare, a fronte di un
vuoto della disciplina contrattuale, quanto meno l’importo dell’elemento
perequativo in godimento nella posizione economica precedentemente posseduta
(ovvero nella misura riconosciuta dal contratto per le posizioni A.5, B.7, C.5
e D.6)?
Per l’Aran non ci sono dubbi. Il vuoto della norma contrattuale non consente
di riconoscere l’elemento perequativo in capo ai dipendenti che conseguono
le nuove posizioni economiche introdotte dal contratto nazionale delle
funzioni locali del 21.05.2018.
Allo stesso modo, a fronte dell’assenza di una disposizione contrattuale in
tal senso, non è consentito conservare in capo ai dipendenti interessati
l’importo che percepivano nella posizione economica precedentemente
posseduta.
Non è chiaro se la mancata previsione l’elemento perequativo per le nuove
posizioni economiche orizzontali sia una dimenticanza o il frutto di una
decisione meditata.
Ma è certo che si sono create situazioni curiose: ad esempio un dipendente
che passa da A.5 a A.6 avrà un aumento del tabellare mensile pari a 26,66
euro, ma dall’altra non percepirà mensilmente l’elemento perequativo che è
pari 26 euro. Un passaggio che di fatto porta nelle tasche del dipendente
solo 0,66 euro al mese.
Va ricordato che con il comma 440, lettera b), della legge di bilancio 2019
l’elemento perequativo, che sulla base della norma contrattuale doveva
essere corrisposto fino al 31 dicembre scorso, continua a sopravvivere fino
alla data di definitiva sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali di
lavoro relativi al triennio 2019-2021.
La legge di bilancio 2019 precisa che questa voce retributiva continua ad
essere erogata secondo le misure, le modalità e i criteri previsti nei
contratto nazionale del triennio 2016-2018
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
fondo decentrato conferma tutte le indennità.
Anche se il nuovo contratto nazionale non lo prevede espressamente,
l’utilizzo del fondo decentrato può continuare con le vecchie modalità.
Così si è espressa l’Aran nel
parere 02.01.2019 n. 16.
Un Comune ha interrogato l’Agenzia sul finanziamento della maggiorazione
oraria ai dipendenti in caso di lavoro ordinario festivo o notturno in
assenza di turno. Il caso è regolato dall’articolo 24, comma 5, del
contratto del 14.09.2000; e il contratto del 01.04.1999, all’articolo 17,
comma 2, lettera d), indicava il finanziamento a carico del fondo
decentrato.
Nel contratto firmato l’anno scorso, l’istituto non viene ripreso. Sulla sua
applicazione successiva non ci sono dubbi in quanto l’articolo 2, comma 8,
del contratto dispone l’ultrattività delle clausole non disapplicate, se
compatibili. Il problema si è posto sul finanziamento, perché l’articolo 68
del nuovo contratto, nell’elencare le voci coperte dal fondo decentrato, non
dispone nulla sulla maggiorazione oraria. L’Aran afferma però che, anche
dopo il contratto «nulla è cambiato in ordine al finanziamento».
Ma se questo è il principio, c’è un’altra serie di indennità che i
precedenti contratti ponevano a carico delle risorse per il salario
accessorio e che non vengono ripresi dal nuovo contratto. L’articolo 68,
nell’elencare le voci di stipendio che rappresentano gli utilizzi del fondo
per le risorse decentrate, cita le progressioni economiche, l’indennità di
comparto e altre indennità, ma si dimentica di alcune fattispecie.
Tra queste gli oneri per il reinquadramento del personale dalla ex prima e
seconda qualifica funzionale nella ex terza qualifica funzionale, ora
categoria A (articolo 7, comma 3 del contratto del 31.03.1999) e il
reinquadramento del personale dell’area della vigilanza dalla ex quinta
qualifica funzionale alla ex sesta qualifica funzionale, ora categoria C. La
copertura di questi oneri era prevista a carico del fondo dal comma 7 dello
stesso articolo.
E nemmeno si fa menzione dell’incremento dell’indennità per maestre di
scuola materna, assistenti di cattedra e docenti delle scuole secondarie
dipendenti dagli enti locali, previsto dall’articolo 6 del contratto
2000/2001. Il caso è ancora più anomalo, in quanto il contratto del
21.05.2018 richiama lo stesso incremento previsto per le educatrici di asilo
nido sempre dall’articolo 6 e dimentica, al contrario, le maestre e i
formatori appena elencati.
Visto quanto affermato dall’Aran per la maggiorazione oraria, sembra che
tutto quanto trovava copertura nel fondo decentrato in base ai vecchi
contratti continui a essere finanziato dal fondo. Affermando il contrario,
si arriverebbe alla conclusione che gli istituti non citati andrebbero
corrisposti con risorse a carico del bilancio, e alla fine la spesa verrebbe
duplicata (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa
del 21.01.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Ria
e assegni, le istruzioni Aran sull’incremento del fondo per le risorse
decentrate.
Il nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto funzioni
locali con l'articolo 67 ha riscritto il sistema di costituzione dei fondi
per la contrattazione decentrata, allo scopo di consentire il superamento di
alcuni eccessivi tecnicismi gestionali.
L'occasione è stata utile per rivedere, in maniera uniforme e omogenea, le
regole che disciplinano il sistema di finanziamento del fondo derivante
dalle economie che conseguono a seguito della cessazione dal servizio di
personale titolare della retribuzione individuale di anzianità (Ria) e di
assegni ad personam in godimento all'atto della cessazione.
È l'Aran, con
parere 23.11.2018 n. 17741 di prot., a illustrare le motivazioni
alla base della nuova disciplina contrattuale e a spiegare come
correttamente effettuare l’imputazione delle voci nel nuovo fondo per le
risorse decentrate.
La vecchia disciplina e le sue criticità
L'articolo 4, comma 2, del contratto del 05.10.2001, a suo tempo aveva
previsto che, annualmente, gli enti potessero incrementare le risorse
decentrate stabili con le economie generate a seguito della cessazione dal
servizio di personale titolare della retribuzione individuale di anzianità
(Ria) e di assegni ad personam in godimento all'atto della
cessazione.
In applicazione di questa regola il meccanismo utilizzato dagli enti era il
seguente. In caso di cessazione del rapporto di lavoro in corso di anno,
veniva portato subito tra le risorse stabili dello stesso anno quelle della
Ria del dipendente interessato, pro rata, tenendo conto cioè solo di quelle
effettivamente resesi disponibili calcolate dal mese della cessazione,
ricomprendendo anche il rateo della tredicesima mensilità (così ad esempio
per un dipendente con una Ria annuale pari a 195 euro che cessava dal 1/7
dell'anno, veniva inserito nel fondo un importo pari ai 6/13 dell'ammontare
annuo).
Dall'anno successivo, veniva invece riportato tra le risorse stabili per la
contrattazione di tale anno l'intero ammontare della Ria, completando così
il recupero della voce retributiva dei cessati dal lavoro già parzialmente
operato l'anno precedente (nell'esempio sopra illustrato 195 euro ovvero 15
euro per 13 mensilità).
Questo modo di operare, spiega l'Aran, ha generato nel tempo alcuni problemi
applicativi. Come ad esempio poteva risultare particolarmente eccessiva una
ipotesi di riapertura della contrattazione integrativa nei casi in cui ci si
trovava di fronte a un recupero delle quote annuali nell'anno di cessazione
di importi modestissimi oppure nella situazione in cui la cessazione si
fosse verificata verso la fine dell'anno, cioè a contrattazione chiusa.
La nuova disciplina e le indicazioni di calcolo
Il nuovo contratto ha rimodulato l'acquisizione delle economie, innovando le
relative modalità d'implementazione rispetto al sistema costitutivo
precedente.
Il nuovo sistema è ora disciplinato dall'articolo 67 con due diverse
disposizioni: una con riferimento alla parte stabile (comma 2, lettera c) e
l'altra con riferimento alla parte variabile (comma 3, lettera d).
Con la prima disposizione viene disciplinata una regola sostanzialmente
coincidente con quanto precedentemente disciplinato dall'articolo 4, comma
2, del contratto del 05.10.2001 e cioè nell'anno successivo alla cessazione
del rapporto di lavoro, le risorse variabili venivano implementate
dell'intero ammontare della Ria del personale cessato.
Diversa dal passato è, invece, la soluzione adottata per le quote mensili di
Ria che si sono rese disponibili nel caso di cessazione del rapporto in
corso anno.
L'articolo 67, comma 3, lettera d) del nuovo contratto, spiega l'Aran,
consente di superare le difficoltà evidenziate. Il nuovo sistema, che si
collega in qualche modo alla precedente disciplina contenuta nell'articolo
17, comma 5, del contratto del 01.04.1999 (secondo la quale le risorse
stabili non utilizzate in un anno potevano essere riportate come risorse una
tantum tra le risorse variabili dell'anno successivo), ha previsto che
risorse decentrate variabili possono essere incrementante «degli importi
una tantum corrispondenti alla frazione di RIA di cui al comma 2, lett. b),
calcolati in misura pari alle mensilità residue dopo la cessazione,
computandosi a tal fine, oltre ai ratei di tredicesima mensilità, le
frazioni di mese superiori a quindici giorni; l'importo confluisce nel Fondo
dell'anno successivo alla cessazione dal servizio».
In sintesi il meccanismo di incremento del fondo delle risorse decentrate è
il seguente:
• nelle risorse di parte stabile confluisce un importo pari
all'ammontare annuo della Ria, comprensivo della tredicesima mensilità, del
lavoratore cessato nell'anno precedente;
• nelle risorse di parte variabile confluisce, invece, un importo,
una tantum, pari alle quote di Ria dei mesi successivi alla cessazione del
rapporto di lavoro del dipendente nell'anno precedente.
Naturalmente, come ben ricorda anche l'Aran, l’incremento potrà avvenire
solo se viene rispettato il limite di finanza pubblica posto dall'articolo
23, comma 2, del Dlgs 75/2017 (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa
del 30.11.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
sindacati chiedono all'Aran l'interpretazione autentica su progressioni
orizzontali, servizi esterni e fondo.
Indennità di servizio esterno, progressioni orizzontali e costituzione del
fondo.
Sono questi i tre argomenti per i quali alcune importanti sigle
sindacali hanno chiesto l'attivazione della procedura di interpretazione
autentica regolata dall'articolo 2, comma 7, del contratto 21.05.2018 delle
Funzioni Locali. Non sembrano, infatti, essere piaciute le interpretazioni
fornite in questi ultimi mesi dall'Agenzia per la rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni sulle modalità di applicative di alcune
clausole contrattuali.
Indennità di servizio esterno
L'Aran, con
parere
16.11.2018 n. 17583 di prot. (si veda Il Quotidiano degli enti locali e
della Pa del 3 dicembre), ha affermato che l'indennità stabilita
dall'articolo 56-quinques del nuovo contratto deve essere riconosciuta solo
al personale della polizia locale che, continuativamente, e quindi, in
maniera non saltuaria o occasionale, svolge effettivamente la propria
prestazione lavorativa ordinaria in servizi esterni di vigilanza «in strada»
e, nel caso in cui la prestazione lavorativa nei servizi esterni non copra
la durata giornaliera lavorativa, l'indennità deve essere riproporzionata.
Per le organizzazioni sindacali, l'orientamento interpretativo fornito dall'Aran
diverge dalla disciplina contrattuale in quanto, questa lettura, riduce
l'ambito applicativo della disposizione a un'unica fattispecie cioè quella
del servizio di vigilanza «in strada», escludendo le altre tipologie di
servizio esterno di vigilanza.
Viene, inoltre, evidenziato come anche l'indicazione fornita dall'Agenzia
sul riproporzionamento dell'indennità in esame nel caso in cui il servizio
non copra la durata dell'intera giornata lavorativa è in contrasto con il
disposto contrattuale il quale prevede, invece, una semplice «commisurazione
in base alle giornate di effettivo svolgimento». Tutto ciò sta generato
incertezza nella sottoscrizione degli accordi integrativi.
Consolidamento delle risorse per l'alta professionalità
L'Aran, con l'orientamento applicativo CFL7 e CFL15 (si veda Il Quotidiano
degli enti locali e della Pa dell’11 ottobre), ha cercato di fornire delle
indicazioni circa la portata dell'articolo 67, comma 1, del nuovo contratto
nel parte in cui viene previsto che nell'unico importo consolidato (Iuc)
delle risorse stabili confluisce anche l'importo annuale delle risorse di
cui all'articolo 32, comma 7, del contratto 22.01.2004 (pari allo 0,20%
del monte salari dell'anno 2001, esclusa la quota relativa alla dirigenza),
espressamente e tassativamente destinate alle «alte professionalità».
Per le sigle sindacali gli orientamenti applicativi forniti dall'Aran
risultano controversi sia nell'ipotesi del mancato stanziamento delle
risorse sia nella disciplina delle modalità di utilizzo delle risorse
accantonate in applicazione dell'articolo 32, comma 7, del contratto 22.01.2004, ove le stesse non siano state impiegate per il finanziamento
dell'istituzione delle alte professionalità. L’incertezza, viene
sottolineato nella nota inviata all'Aran, ha generato evidenti difficoltà
operative.
I criteri per le progressioni economiche
Viene, infine, evidenziata la necessità di giungere a un'interpretazione
autentica sulla portata applicativa della disciplina delle progressioni
economiche disciplinate all'articolo 16, comma 3, del nuovo contratto.
In particolare, la parte in cui è previsto che oltre che alle risultanze
della valutazione della performance individuale del triennio che precede
l'anno in cui si attiva l'istituto, si possa “eventualmente” tenere conto,
tra gli altri criteri, dell'esperienza maturata negli ambiti professionali
di riferimento nonché delle competenze acquisite e certificate a seguito del
processi formativi.
L'interpretazione autentica potrebbe evitare il diffondersi di
un'interpretazione della norma che porterebbe a ritenere la previsione di
tali criteri aggiuntivi rispetto agli esiti della valutazione della
performance, come facoltà rimessa in via unilaterale ad autonome
determinazioni degli enti.
Conclusioni
Chissà se l'Aran raccoglierà l'invito delle sigle sindacali. In circa
ventitré anni di contrattazione, le interpretazioni autentiche alle clausole
contrattuali si possono davvero contare sul palmo di una mano. L'Aran ha
sempre ritenuto (parere RAL736) che l'interpretazione autentica trova
applicazione solo in presenza di un reale conflitto sulla interpretazione
delle clausole contrattuali, che è cosa ben diversa dell'esistenza di
semplici difficoltà di lettura e dubbi interpretativi, presupponendo
l'esistenza di un vero e proprio contenzioso generalizzato nel comparto, con
ricorso anche ad azioni e ad eventuali azioni giudiziarie
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.12.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Indennità
di servizio esterno solo per mansioni continuative e ore effettivamente
prestate.
La contrattazione integrativa può disciplinare l'indennità di servizio
esterno solo se sussistono i presupposti previsti dalla clausola
contrattuale. L'indennità, che può variare entro i valori minimi e massimi
giornalieri da 1 a 10 euro, deve essere riconosciuta solo a quel personale
della polizia locale che, continuativamente, e quindi, in maniera non
saltuaria o occasionale, svolge effettivamente la propria prestazione
lavorativa ordinaria in servizi esterni di vigilanza in strada. Nel caso in
cui la prestazione lavorativa nei servizi esterni non copra la durata
giornaliera lavorativa, l'indennità deve essere riproporzionata.
Si possono così riassumere i principali chiarimenti contenuti nel
parere dell'Aran
16.11.2018 n. 17583 di prot.
I servizi esterni di vigilanza
L'articolo 56-quinques del nuovo contratto, in linea con l'atto di indirizzo
del comitato di settore del 5 ottobre 2017, ha introdotto un nuovo
trattamento economico accessorio, assolutamente inedito nell'ordinamento
degli enti locali, volto a incentivare esclusivamente il personale della
polizia locale che, in via continuativa, svolge effettivamente la propria
prestazione lavorativa in servizi in vigilanza esterna, cioè in attività non
in ufficio.
L'Aran precisa che per servizi esterni di vigilanza, ai fini
dell'applicazione della norma contrattuale in questione, devono intendersi i
«servizi di vigilanza in strada». Dunque, non rientrerebbero nella nozione
di servizio esterno i servizi non svolti in strada quale, ad esempio, il
caso dell'agente di polizia locale addetto all'ufficio verbali o che svolge
il proprio servizio presso uffici di altri enti o, ancora, nel caso di
convocazione dello stesso presso sedi giudiziarie per citazione a teste
nell'interesse dell'amministrazione.
Come conseguenza, non sussiste alcun automatismo al riconoscimento
dell'indennità in capo al dipendente per il semplice fatto di far parte del
personale di polizia locale.
È in sede di contrattazione integrativa, sottolinea l'Aran, che si dovranno
concretamente definire le regole per la corresponsione dell'indennità di
servizio esterno, le quali dovranno conformarsi con i presupposti fissati
dall'articolo 56-quinques.
La continuità del servizio
L'Agenzia fornisce poi un chiarimento circa l'inciso «... in via
continuativa …» utilizzato nell'articolo 56-quinquies, comma 1, del nuovo
contratto. L'indennità in questione può essere riconosciuta solo a quel
personale della polizia locale che, continuativamente, e, quindi, in maniera
non saltuaria o occasionale, sulla base dell'organizzazione del lavoro
adottata, renda effettivamente la propria prestazione lavorativa ordinaria
(non, dunque, in straordinario) in servizi esterni di vigilanza in strada.
Pertanto, la “continuità” nello svolgimento di servizi esterni di vigilanza
in strada deve intendersi come un'attività che costituisce la normale
mansione del dipendente.
La misura dell'indennità nel caso di prestazione ridotta
Come deve essere corrisposta l'indennità dell'articolo 56-quinquies nei casi
in cui, per particolari esigenze organizzative dell'ente, o, in quelli di
fruizione da parte del dipendente di specifici permessi ad ore (previsti sia
dalla legge che dalla contrattazione collettiva), la prestazione lavorativa
nei servizi esterni non copra la durata della giornata lavorativa? A questa
domanda l'Aran fornisce un importante chiarimento.
Poiché il comma 2 dell'articolo 56-quinquies fa espressamente riferimento,
ai fini del riconoscimento dell'indennità, «all'effettivo svolgimento del
servizio esterno», essa deve necessariamente essere riproporzionata
tenendo conto solo delle ore effettivamente rese nei servizi esterni
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.12.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
mobilità dei dipendenti già inquadrati opera la garanzia contrattuale.
I dipendenti già inquadrati in categoria D3 nelle amministrazioni regionali
e locali possono stare tranquilli. Oltre a mantenere il profilo e la
posizione in godimento, potranno partecipare senza dubbio alle procedure di
mobilità svolte dagli altri enti anche se i posti saranno di categoria
generica D.
Lo afferma l'Aran nel
parere 21.11.2018 n. 17688 di
prot. già esaminato sul Quotidiano degli enti locali e della Pa per
altri aspetti procedurali.
La nuova impostazione
Che l'articolo 12 del contratto 21.05.2018 abbia soppresso la
possibilità di accesso dall'esterno con profili di inquadramento in D3 è
cosa nota. Ciò che non è chiaro è come il principio sia applicabile alle
procedure di mobilità. Detto con una domanda: poiché i nuovi avvisi di
mobilità potranno essere solo per la generica categoria D, potranno
partecipare agli stessi i dipendenti che sono attualmente inquadrati in D3?
La risposta, tenendo conto delle regole del pubblico impiego e della tutela
dei lavoratori non poteva che essere positiva, ma il chiarimento dell'Aran
aiuta a stare più sereni sulla questione.
La garanzia contrattuale
L'Agenzia ricorda innanzitutto che con la mobilità il rapporto di lavoro del
personale trasferito non si estingue, ma prosegue con il nuovo ente con le
medesime caratteristiche e contenuti precedenti.
Nel nostro caso il
dipendente è già in possesso del profilo della categoria D, con trattamento
stipendiale di D3 e, quindi, il lavoratore si è già collocato nell'ente di
appartenenza nell'ambito della clausola di salvaguardia della situazione
soggettiva prevista dal contratto. Se al 22.05.2018 era già in corso una
procedura di mobilità con accesso in D3, questa potrà essere portata a
termine e il dipendente avrà le medesime garanzie già acquisite. E questa è
la situazione più semplice.
Dopo quella data, gli avvisi di mobilità potranno riguardare solo ed
esclusivamente la generica categoria D, anche se in precedenza gli
inquadramenti avvenivano direttamente con accessi in D3.
A questi bandi di categoria D, potranno partecipare dipendenti di altre
amministrazioni in possesso di profili con trattamento economico
stipendiale, indistintamente, pari sia a D1 sia a D3. Se il vincitore della
procedura sarà un dipendente precedentemente inquadrato in D3, allo stesso
sarà applicata la garanzia contrattuale.
In questo caso, quindi, l'eventuale possesso dell'inquadramento in D3,
rileva esclusivamente per la parte della posizione economica (orizzontale)
da imputare al fondo delle risorse decentrate per la determinazione delle
risorse da recuperare alle risorse stabili in caso di cessazione, a
qualunque titolo, dal rapporto di lavoro
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.11.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, taglio delle risorse recuperabile l’anno dopo senza relazioni
sindacali.
Se l'amministrazione riduce temporaneamente le somme a disposizione per le
posizioni organizzative, l'anno successivo può tornare al valore iniziale
senza nessuna ulteriore relazione sindacale.
È questa la sintesi
dell'orientamento
applicativo 08.11.2018 CFL 38, pubblicato sul sito dell'Aran.
Fondo delle risorse decentrate e posizione organizzativa
Il rapporto esistente tra il fondo delle risorse decentrate e quanto
destinato ai dipendenti incaricati di posizione organizzativa è sicuramente
una delle criticità principali dell'applicazione del contratto 21.05.2018. Da quest'anno, tutti gli enti, sia quelli con la dirigenza sia quelli
senza, avranno le somme per le posizioni organizzative imputate a bilancio e
quindi non scaricate tra gli utilizzi del fondo (articolo 67 del contratto
nazionale).
Uno degli errori più frequenti è connotare questo importo come un “fondo”; a
ben vedere si tratta di meri stanziamenti di bilancio per i quali non ci
sarebbero particolari limitazioni se non quelle per il contenimento della
spesa di personale complessiva.
Gli equilibri si fanno, invece, delicati nella vigenza dell'articolo 23,
comma 2, del Dlgs 75/2017 che impone a tutte le amministrazioni pubbliche di
mantenere il trattamento accessorio complessivo di ciascun anno al di sotto
del rispettivo importo dell'anno 2016. Poiché nel calcolo degli aggregati è
necessario conteggiare sia il valore del fondo delle risorse decentrate sia
quello delle somme delle posizioni organizzative, il contratto ha previsto
delle precise relazioni sindacali.
Il caso esaminato
Il caso sottoposto all'Aran riguarda la possibilità di stanziare meno somme
per le posizioni organizzative creandosi quindi uno spazio all'interno del
limite per poter aumentare il fondo dei dipendenti. L’azione rappresenta una
facoltà e non un obbligo da esercitarsi attraverso l'istituto del confronto
e, in ogni caso, è necessario far ricadere l’incremento all'interno di una
delle casistiche stabilite dall'articolo 67. Ecco quindi la questione: se un
ente un anno decide di operare in questa direzione, nell'esercizio
successivo può stanziare per le posizioni organizzative la medesima somma di
partenza?
L'orientamento applicativo CFL 38 dà una risposta decisamente positiva
precisando si deve passare dalla contrattazione integrativa solo
nell'ipotesi di incremento delle risorse destinate al finanziamento delle
posizioni organizzative che vada al di là dell'ammontare complessivo di
quelle che, secondo l'articolo 15, comma 5, e dell'articolo 67, comma 1, del
contratto del 21.05.2018, sono state originariamente stornate dal fondo
nell'anno 2018 (anno di partenza del nuovo fondo in base all’articolo 67 del
contratto del 21.05.2018) e sono state vincolate al finanziamento della
retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.11.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Premi
di produttività, dall’Aran via libera agli effetti retroattivi
dell’integrativo.
La stipula del contratto nell'anno successivo non impedisce, secondo l'Aran
(orientamento applicativo
30.10.2018 CFL 37), la possibilità di corrispondere i compensi per la
performance dell'anno precedente (si veda il quotidiano degli enti locali e
della Pa del 31 ottobre),
avvicinandosi alla posizione dei giudici contabili
friulani (si veda Il quotidiano degli enti locali e della Pa del 6 giugno).
L’apertura corrisponde, in modo non diverso, a quella recentemente operata
dai giudici contabili sugli incentivi per funzioni tecniche (si veda Il
quotidiano degli enti locali e della Pa del 2 agosto), i quali pur negato
l'operatività della retroattività dei criteri sulla distribuzione delle
risorse per performance in caso di sottoscrizione del contratto nell'anno
successivo (Corte dei conti del Veneto con la delibera n. 263/2016), hanno,
invece, ritenuto ammissibile il sorgere del diritto soggettivo del
dipendente sull'erogazione degli incentivi tecnici solo a seguito della
contrattazione dei criteri in sede decentrata anche se sottoscritta in anni
successivi rispetto alle attività rese (Corte dei conti Veneto,
deliberazione n. 246/2018).
La questione controversa
Sulla possibilità che un contratto decentrato potesse spiegare effetti
retroattivi sulla distribuzione della produttività al personale dipendente,
si sono riscontrate posizioni diverse nella magistratura contabile. Da un
lato, infatti, è stata sostenuta l'inibizione all'ente di erogare la
produttività ad anno concluso, in quanto la definizione dei criteri
contrattati avrebbe dovuto essere definita dalla contrattazione prima della
formale attribuzione degli obiettivi ai dipendenti, con conseguente
impossibilità di poter impegnare nell'anno gli importi per mancata
sottoscrizione del contratto.
A una visione diversa è, invece, giunta la Corte friulana la quale,
prendendo atto che la costituzione del fondo rappresenta la certezza delle
risorse che potranno essere distribuite, ha precisato che, in presenza della
sottoscrizione del contratto nell'anno successivo, ben avrebbe potuto l'ente
assegnare ai propri dipendenti gli obiettivi, secondo le regole contenute
nel sistema di misurazione e valutazione e del piano della performance, per
poi procedere alla erogazione delle risorse per la produttività individuale
e organizzativa.
D'altra parte, questa interpretazione può essere considerata coerente con i
principi della contabilità armonizzata nella parte in cui dispongono che
«Alla fine dell'esercizio, nelle more della sottoscrizione della
contrattazione integrativa, sulla base della formale delibera di
costituzione del fondo, vista la certificazione dei revisori, le risorse
destinate al finanziamento del fondo risultano definitivamente vincolate.
Non potendo assumere l'impegno, le correlate economie di spesa confluiscono
nella quota vincolata del risultato di amministrazione, immediatamente
utilizzabili secondo la disciplina generale, anche nel corso dell'esercizio
provvisorio».
Le condizioni richieste dalla normativa
I tecnici dell'Aran hanno abbandonato la precedente posizione restrittiva
dei magistrati contabili e accolto le recenti indicazioni del Collegio
friulano, confermando i seguenti paletti per una possibile erogazione della
performance in presenza di una sottoscrizione tardiva del contratto
decentrato. La prima condizione è data dalla preventiva costituzione del
fondo delle risorse decentrate a opera del dirigente.
La seconda condizione è che si sia in presenza di una tempestiva
assegnazione degli obiettivi individuali e/o organizzativi cui il personale
dipendente «abbia potuto dispiegare consapevolmente e proficuamente le
proprie energie lavorative a fronte dell'attività incentivata e
nell'interesse finale dell'ente».
L'ultima condizione riguarda la certificazione del fondo da parte dei
revisori dei conti effettuata, in questo caso, sulla sola costituzione del
fondo che abilita l'ente a far confluire le risorse decentrate disponibili
nella parte vincolata dell'avanzo di amministrazione per poter poi essere
distribuite al personale una volata sottoscritto il contratto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.11.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi
di performance, ok dell’Aran nel contratto integrativo dell'anno successivo.
L'Aran, finalmente, sbroglia la matassa sulla possibilità di riconoscere gli
incentivi di performance ai propri dipendenti con un contratto integrativo
stipulato l'anno successivo.
Con l'orientamento applicativo
30.10.2018 CFL 37, l'Agenzia
ripercorre le diverse posizioni sull'argomento giungendo alla conclusione
che queste somme possono di fatto essere erogate, ma solamente in presenza
di obiettivi formalmente assegnati per il raggiungimento dei quali i
lavoratori hanno proficuamente speso le loro energie.
Sulla questione, da tempo, si sono accavallati gli istituti della
contrattazione con i principi contabili tanto da rendere certamente più
difficile la possibilità di stipula in anni successivi di decentrati che
fissano modalità di erogazione riferite all'esercizio precedente. A
stigmatizzare il comportamento ci ha pensato la Corte dei conti del Veneto
con la delibera n. 263/2016 insinuando il dubbio di legittimità dei
contratti. Va però evidenziato che la questione posta riguardava un ente che
non aveva neppure proceduto a costituire il fondo nell'anno di riferimento,
che come noto è il presupposto della successiva fase della contrattazione
integrativa.
In linea con la decisione della Corte dei conti del Friuli
Venezia Giulia
Nel parere dell'Aran, però, viene richiamata anche un'altra delibera di
sezione regionale. Si tratta della n. 29/2018 della Corte dei conti del
Friuli Venezia Giulia(nel documento Aran si fa erroneamente riferimento alla
n. 20/2018), con la quale la Sezione ha ritenuto che in presenza di tutti
gli elementi relativi alla valutazione (obiettivi e “pagelle”) e dei criteri
già stabiliti, fosse possibile procedere al riconoscimento della
produttività anche con un contratto stipulato l'anno successivo. Il motivo
risiede nelle logiche della contrattazione integrativa che si basa su regole
vigenti nel tempo e ultraattive per le quali l'accordo annuale si limita
semplicemente a individuare i criteri di riparto tra le varie modalità di
utilizzo.
Non si può quindi tralasciare il punto chiave ovvero la considerazione che i
contratti integrativi rimangono validi fino alla loro successiva modifica o
integrazione. Pertanto fino a quando gli stessi non vengono o disapplicati o
modificati dalle parti, continuano ad avere efficacia.
Quindi se i criteri per erogare i compensi della performance sono stati già
contattati in anni precedenti gli stessi continuano a poter essere
utilizzati anche se di fatto non viene stipulato il contratto integrativo
entro il 31 dicembre. L'attenzione si sposta quindi sulle regole che a monte
guidano i processi della misurazione e della valutazione della performance.
L'ente deve avere predeterminato gli obiettivi che devono essere esposti con
i relativi indicatori che permetteranno di valutare a consuntivo il reale
raggiungimento.
Gli ulteriori presupposti
L'Aran conclude infine ricordando che devono necessariamente sussistere
anche gli ulteriori presupposti fissati dalle norme contabili ovverosia, la
previa costituzione del fondo nel corso dell'esercizio e la intervenuta
emissione della certificazione dell'organo di revisione: solo in questo modo
le risorse non impegnate nell'anno di riferimento potranno confluire nella
parte vincolata dell'avanzo di amministrazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Relazioni sindacali / Un ente che non ha
sottoscritto il contratto integrativo relativo all’anno 2017, può prevedere,
nel contratto integrativo firmato oltre l’anno di competenza, i criteri per
la distribuzione del compensi relativi alla performance per il suddetto
2017?
Relativamente al problema della eventuale retroattività del contratto
integrativo, si ritiene opportuno evidenziare che, in diverse occasioni, in
passato, la Corte dei Conti ha ritenuto che l’erogazione di compensi per
produttività, in riferimento ad anni ormai decorsi, non fosse lecita per la
mancanza delle condizioni oggettive che legittimano, a monte, tali
emolumenti.
Tuttavia, si deve sottolineare che di recente, la Corte dei Conti, Sezione
di controllo della regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, con la
deliberazione n. FVG/20/2018/Par ha fornito ulteriori elementi che
consentono di affrontare la problematica posta in modo parzialmente diverso.
Tale pronuncia affronta il caso in cui, pur in presenza di un contratto
integrativo sottoscritto l’anno successivo, sussistano tutti i requisiti
sostanziali per l’erogazione dei compensi correlati alla performance: oltre
a un’adeguata, formale e definitiva costituzione del Fondo entro l’anno,
certificato dall’Organo di revisione, anche una tempestiva assegnazione
degli obiettivi (individuali e/o collettivi) in modo che il personale
dipendente “abbia potuto dispiegare consapevolmente e proficuamente le
proprie energie lavorative a fronte dell’attività incentivata e
nell’interesse finale dell’ente”.
Sussistendo tali requisiti sostanziali ed avendo la contrattazione
integrativa - ancorché definitasi nell’anno successivo - operato nei limiti
del suo ambito di riferimento, senza avere alcuna parte nell’individuazione
degli obiettivi, nella determinazione del loro valore e del personale da
coinvolgere, nella fissazione dei criteri di valutazione, le somme destinate
ad incentivare la produttività possono comunque essere erogate.
Per operare in tal senso, devono necessariamente sussistere anche gli
ulteriori presupposti fissati dalle norme contabili affinché le risorse non
impegnate nell’anno di riferimento possano confluire nella parte vincolata
dell’avanzo di amministrazione (ovverosia, la previa costituzione del Fondo
nel corso dell’esercizio e la intervenuta emissione della certificazione
dell’organo di revisione) (orientamento applicativo
30.10.2018 CFL 37 -
link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO
IMPIEGO: Fuori
dalla contrattazione integrativa la pausa di 30 minuti obbligatoria per chi
lavora più di sei ore.
In tutte le amministrazioni pubbliche i dipendenti che hanno un orario di
lavoro giornaliero superiore a 6 ore devono godere di una pausa minima di 30
minuti, fatte salve le prestazioni che per vincolo legislativo non possono
essere interrotte e, negli enti locali, l'applicazione della possibilità
offerta dall'articolo 13 del contratto 09.05.2006 per i dipendenti in
turno indicati espressamente.
In questa direzione vanno le indicazioni dell'Aran,
sia quelle che sono state fornite come risposta a quesiti posti
sull'applicazione del nuovo contratto del personale delle funzioni centrali,
sia quelle che sono state indicate in risposta alle richieste della
Conferenza dei Presidenti delle Regioni.
Come funziona
Le norme che stabiliscono il vincolo della pausa minima di 30 minuti quando
l'orario di lavoro eccede le 6 ore sono dettate in applicazione
dell'articolo 8 del Dlgs 66/2003 che ha introdotto l'obbligo in questi casi
di una pausa di almeno 10 minuti (in gergo chiamata pausa caffè) che la
contrattazione collettiva ha adesso ampliato a 30.
Non è necessaria una pausa ulteriore se è già prevista la sosta per la
fruizione della mensa o del buono pasto: in questi casi la sosta di almeno
30 minuti (e di non oltre 120) è disposta direttamente come condizione per
potere consumare il pasto. Il nuovo vincolo si applica in primo luogo se la
durata dell'orario di lavoro eccede le 6 ore, a partire dalla eventuale
scelta di avere una durata della prestazione giornaliera di 7 ore e 12
minuti, come avviene in molti enti in cui si lavora 5 giorni la settimana.
Esso si applica anche se l'orario di lavoro non è superiore alle 6 ore, ma
la durata diviene più lunga per lo svolgimento di prestazioni di lavoro
straordinario e/o per il recupero di debiti orari maturati.
La fruizione della pausa deve essere intesa come un diritto indisponibile e
le amministrazioni hanno inoltre e comunque l'obbligo di dare corso alla
concreta applicazione di questo istituto. La materia è peraltro sottratta
alla contrattazione collettiva decentrata integrativa, che quindi non può
intervenire a modificare le regole dettate dal contratto, quindi a prevedere
ad esempio un allungamento dell'arco temporale in cui matura il vincolo
della pausa.
Possibili deroghe
In tutte le amministrazioni pubbliche si può dare corso a una deroga dal
rispetto di questo vincolo solamente in presenza di «attività obbligatorie
per legge». Negli enti locali, con particolare riferimento ai Comuni, questa
disposizione non si applica nel caso in cui nell'ente operi l'articolo 13
del contratto 09.05.2006.
Esso consente alla contrattazione decentrata, con riferimento al personale
in turno che opera nelle attività di protezione civile e di vigilanza,
nonché negli asili nido, scuole materne e biblioteche, in presenza della
«esigenza di garantire il regolare svolgimento delle attività e la
continuità della erogazione dei servizi e anche della impossibilità di
introdurre modificazioni nell'organizzazione del lavoro» di disporre la
pausa per la fruizione del buono pasto anche all'inizio o alla fine del
turno. Per cui, anche in questi limitati casi non opera l'obbligo della
pausa di 30 minuti quando l'orario supera le 6 ore.
Collocazione della pausa
Un ulteriore e importante chiarimento fornito dall'Aran è che questa pausa
non deve necessariamente essere collocata dopo le 6 ore di lavoro effettivo:
ciò che importa è che il dipendente la utilizzi. Si deve peraltro ricordare
che il contratto del personale delle funzioni locali, analogamente agli
altri, stabilisce che «la durata della pausa e la sua collocazione
temporale» devono essere definite, indicando quali sono i fattori da
assumere a base della scelta: la disponibilità di servizi di ristoro, la
dislocazione delle sedi dell'ente, la dimensione del centro urbano
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni
orizzontali, il nuovo contratto supera le vecchie regole su tempi e
contenuti.
L'istituto delle progressioni orizzontali risulta totalmente innovato ed
esaustivamente disciplinato dall'articolo 16 del contratto 21.05.2018.
Pertanto, non si possono più ritenere validi i criteri determinati dai
contratti precedenti e neppure gli orientamenti applicativi rilasciati dall'Aran
in questi quasi vent'anni.
È la stessa Agenzia a ricordarlo nel
parere 10.10.2018 n. 16270 di prot. rilasciato recentemente a un
ente locale.
Uno degli elementi chiave dell'istituto è la fissazione, con passaggio in
contrattazione decentrata, dei criteri per il riconoscimento degli scatti
tabellari previsti all'interno delle categorie dei dipendenti. Queste regole
presentavano due aspetti fondamentali nella loro formulazione. Il primo
riguardava la tempistica, il secondo il contenuto.
La tempistica
Dal primo punto di vista, gli orientamenti ricordavano che è un principio
generale del nostro ordinamento che il lavoratore debba sempre sapere in
ogni momento della prestazione, come orientare la propria attività al fine
del raggiungimento degli obiettivi. In altre parole, il dipendente deve
sempre essere a conoscenza prima del lavoro che svolge con quali strumenti
verrà valutato e a quale risultato porterà la successiva valutazione.
Per questo motivo, in passato, era evidente che non era possibile introdurre
criteri per le progressioni orizzontali a consuntivo, quando la prestazione
era già stata resa. Compito dell'ente e dei sindacati era quello di fissare
i criteri preventivamente.
Come la mettiamo, però, a questo punto con la nuova regola che decorre da
maggio 2018? Si può superare il precetto della conoscenza a monte dei
criteri di valutazione?
L'Aran, nel parere in esame, ritiene di sì. Anche perché, a ben vedere i
nuovi parametri di riferimento sono molto semplici, dovendosi basare su
valutazioni già avvenute nel triennio precedente. Dati che di anno in anno
si consolidano come in una banca dati oggettiva. Insomma, la regola finora
inossidabile della preventiva consapevolezza appare giustamente superata.
Il contenuto dei criteri
Rimane poi la questione del contenuto dei criteri. Dal contratto emerge un
dato certo: non si può prescindere dalle valutazioni della performance
individuale ottenute dal dipendente nel triennio precedente. La norma, così
come confermata dall'Aran, permette altresì di introdurre due ulteriori
elementi per lo svolgimento della selezione delle progressioni orizzontali.
Da una parte l'ente può valutare di attribuire appositi punteggi
all'esperienza professionale, dall'altra di valorizzare anche le competenze
acquisite dai lavoratori anche a seguito di percorsi formativi. L'Agenzia
sottolinea che questo non è un obbligo, ma solo una possibilità da attuare a
seguito di attenta ponderazione da parte dell'amministrazione e delle parti
sindacali.
Nell’ambito del sistema dell'ente, quindi, potrà essere identificato questo
ulteriore “peso” del fattore esperienza e/o del fattore competenza,
tenuto conto che, sulla base del tenore letterale della norma l'elemento
imprescindibile e prevalente non può che essere quello della valutazione
della performance individuale (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa
del 19.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo
contratto inapplicabile per l’Ente che non ha ancora definito il fondo
accessorio del 2016 e 2017.
L'ente locale che deve ancora contrattare la destinazione del fondo del
trattamento accessorio degli anni 2016 e 2017 non potrà prevedere le
indennità e i compensi del contratto per le funzioni locali del 21.05.2018.
Si può così riassumere l'orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 13 rilasciato
dall'Aran.
Nonostante gli occhi di tutti siano puntati sulla contrattazione integrativa
dell'anno in corso, vi sono diverse amministrazioni ancora alle prese con la
chiusura degli esercizi precedenti. Il problema sta nel fatto che a maggio
l'uscita del contratto nazionale ha modificato diversi istituti contrattuali
e, quindi, è sorto il dubbio su come poter chiudere il passato sapendo che
sono cambiati gli importi e le tipologie delle varie indennità.
Anche
perché, come noto, l'articolo 40, comma 3-quinquies, del decreto legislativo
165/2001 prevede che le clausole contrattuali integrative differenti da
quelle del contratto sono nulle e non possono essere applicate. Ecco quindi
il dilemma: la stipula degli accordi annuali per gli anni 2016 e 2017
effettuata in vigenza di un nuovo contratto quali elementi deve prevedere?
Le indicazioni dell’Aran
L'Aran è decisa nell'affermare che i nuovi istituti del trattamento
economico accessorio previsti dal contratto del 21.05.2018, possono
essere applicati solo in sede di stipula del contratto integrativo dell'ente
concernente il periodo temporale successivo al contratto (anno 2018 e
successivi). In aggiunta viene precisato che non si ritiene possibile, in
sede di contrattazione integrativa, far retroagire e applicare compensi
accessori con riferimento a periodi temporali nei quali gli stessi non erano
già previsti e disciplinati dal contratto, soprattutto con riferimento alle
condizioni per la loro erogazione.
L’orientamento della Corte dei conti
Il parere permette, pealtro, di soffermarsi su un altro aspetto importante
sul quale vi è stato un acceso dibattito con soluzione apparentemente
diversa anche all'interno delle sezioni regionali della Corte dei Conti
ovvero sulla possibilità di stipulare un contratto integrativo in anni
successivi per disciplinare l'erogazione di somme riferite a competenza di
fondi di anni precedenti.
Ai magistrati del Veneto era stato posto il caso di un ente che non aveva
neppure costituito il fondo di un determinato esercizio e la risposta
contenuta nella deliberazione n. 263/2016 metteva in dubbia possibilità tale
erogazione, rifacendosi soprattutto ai principi contabili.
Di differente avviso, invece, la sezione regionale del Friuli Venezia Giulia
che, nella deliberazione n. 29/2018, esaminando la situazione di un ente che
il fondo lo aveva almeno costituito, ha ritenuto che in presenza di tutti
gli elementi relativi alla valutazione (obiettivi e “pagelle”) e dei
criteri già stabiliti, fosse possibile procedere al riconoscimento della
produttività anche con un contratto stipulato l'anno successivo. Queste,
peraltro, sono le logiche della contrattazione integrativa che si basa su
regole vigenti nel tempo e ultra attive per le quali l'accordo annuale si
limita semplicemente a individuare i criteri di riparto tra le varie
modalità di utilizzo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Premi
illegittimi se la firma arriva l’anno successivo. Senza il decentrato non
basta il rispetto del ciclo delle performance.
La firma del contratto decentrato dopo la scadenza dell’anno di riferimento
non può legittimare il pagamento del premio legato alla performance anche se
ne sia stato rispettato il ciclo.
Su questa posizione si attesta l’Aran, con il parere n. 15542/2018 di
prot..
L’amministrazione che ha posto il quesito ha evidenziato che procederà al
perfezionamento dell’integrativo quest’anno, ma il periodo di riferimento
abbraccia il 2016 e il 2017. Negli stessi anni sono stati individuati
obiettivi con i relativi indicatori, che sono stati assegnati ai
responsabili di servizio e, alla fine di ciascun anno, ne è stato valutato
il grado di raggiungimento.
In altre parole, il ciclo delle performance
risulta pienamente attuato, così come dispone il sistema di valutazione
adottato dall’ente. Ciò nonostante l’Agenzia, richiamando la posizione della
Corte dei Conti, si è espressa sostenendo che un contratto decentrato
firmato l’anno successivo a quello di riferimento rende illecita la
distribuzione di compensi per la produttività «per la mancanza delle
condizioni oggettive che legittimano, a monte, tali emolumenti».
Sul punto, la posizione delle sezioni regionali della Corte dei Conti non è
del tutto univoca. Nella stessa direzione dell’Aran si è espressa la Corte
dei Conti per il Veneto, con la deliberazione n. 263/2016.
Esaminando le
diverse fattispecie in cui si può trovare l’amministrazione alla fine
dell’anno di riferimento, sulla costituzione del fondo per le risorse
decentrate e sulla sottoscrizione del contratto, i magistrati contabili ne
analizzano le ripercussioni sul bilancio dell’ente. Nell’ipotesi in cui, al
31 dicembre, sia stato formalmente costituito il fondo ma non sottoscritto
il contratto integrativo, la Corte dei Conti per il Veneto afferma che è
possibile riportare l’ammontare del fondo all’anno successivo quale
risultato di amministrazione vincolato.
Ma, nel contempo, sostiene che il
riconoscimento di trattamenti economici in mancanza di contratti decentrati
sottoscritti in epoca anteriore al periodo di riferimento potrebbe
determinare responsabilità erariale a carico del dirigente che sottoscrive
l’atto di liquidazione delle somme, in quanto il contratto decentrato non
sarebbe altro che una sanatoria di comportamenti già adottati.
Di segno diametralmente opposto è la posizione assunta dalla Corte dei Conti
per il Friuli Venezia Giulia, con la deliberazione n. 29 del 24.05.2018.
In quella pronuncia vengono individuati tre presupposti: la costituzione del
fondo per le risorse decentrate, la certificazione di detto fondo da parte
dell’organo di revisione e la tempestiva assegnazione degli obiettivi ai
dipendenti, in modo da permettere loro di indirizzare la propria attività
verso i predetti obiettivi, nell’interesse finale dell’ente.
Sussistendo
questi presupposti si potrebbe procedere alla corresponsione del trattamento
economico legato alla performance anche in caso di tardiva sottoscrizione
del contratto collettivo decentrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuove
indennità al via solo dopo la firma dell’accordo. Il triennio da
disciplinare è il 2016/2018 ma le regole non possono essere retroattive.
Le novità contenute nel contratto nazionale delle Funzioni locali sul
trattamento economico accessorio possono essere disciplinate solo a partire
dall’integrativo relativo al 2018.
A questa conclusione giunge l’Aran in risposta a un’amministrazione comunale
che, per evidenti problemi nelle relazioni sindacali, alla data della
stipula del nuovo contratto nazionale non aveva ancora sottoscritto gli
integrativi 2016 e 2017. Al contrario, l’evolversi della situazione faceva
ora ben sperare nella sottoscrizione di un accordo che, quindi, si
collocherebbe dopo il 21 maggio scorso.
All’ente è sorto il dubbio di dover disciplinare quegli istituti che, per
espressa previsione contrattuale, trovano «applicazione a far data dal primo
contratto integrativo successivo alla stipulazione del presente contratto
nazionale». Ne sono esempi l’indennità di servizio esterno prevista per la
polizia locale o l’indennità condizioni di lavoro, che ha sostituito le
vecchie indennità di rischio, di disagio e di maneggio valori.
L’Aran, con il parere n. 15538/2018 di prot., ha evidenziato che i nuovi istituti
economici previsti dal contratto nazionale possono essere applicati, in
presenza dei presupposti che ne legittimano la corresponsione, solo dai
decentrati stipulati per gli anni 2018 e successivi.
L’Agenzia osserva che, in caso contrario, si sostanzierebbe una sorta di
retroattività del contratto nazionale, applicando nel 2016 e nel 2017 voci
del trattamento economico accessorio che non erano previste dal contratto in
vigore all’epoca. Altro ostacolo consiste nel dover verificare, a
posteriori, la sussistenza delle condizioni che ne consentono l’erogazione.
Dubbi interpretativi rimangono sia sulla possibilità di far retroagire
l’integrativo per l’anno 2018 al periodo ante sottoscrizione del contratto
nazionale sia sulla facoltà dell’ente di posticipare gli effetti del
decentrato al 2019. Sull’argomento l’Aran non si è ancora espressa.
L’ente ha poi interrogato l’Agenzia sull’iter per l’approvazione del
decentrato, chiedendo se debba applicarsi quanto previsto dal contratto del
1999 o dalla nuova intesa nazionale. L’Aran sottolinea che si tratta di un
falso problema in quanto nelle due procedure «non sussistono sostanziali
differenze». Sul punto, però, sorgono alcune perplessità. In primo luogo, i
tempi sono diversi: in passato non veniva fissato un termine; oggi, in
materia di trattamento economico, viene fissata una durata minima della
sessione contrattuale in 45 giorni prorogabili per altri 45.
Ma l’aspetto
più innovativo che il nuovo contratto nazionale ha introdotto sull’argomento
riguarda l’applicazione provvisoria delle clausole contrattuali oggetto del
mancato accordo. L’attuale disciplina è molto più vincolante: tale
applicazione è consentita solo quando il protrarsi della trattativa comporta
un oggettivo pregiudizio nel regolare funzionamento della macchina
amministrativa (articolo Il Sole
24 Ore del 24.09.2018). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Per
le posizioni organizzative tagliola generalizzata al 20.05.2019 - Caos negli
Enti senza dirigenti.
Ancora un intervento dell'Aran sulla scadenza che riguarda le posizioni
organizzative, prevista dall'articolo 13, comma 3, del contratto 21.05.2018, per precisare come non sia possibile alcuna deroga al termine del 20.05.2019 neppure in presenza di un incarico che stia per concludersi di
li a poco in assenza della definizione dei nuovi criteri e modalità
disciplinati dall'articolo 14.
Il mancato adeguamento alle disposizioni
contrattuali, per qualsiasi motivazione, creerà sicuramente problemi
operativi agli enti privi di dirigenza dove le posizioni organizzative
coincidono con i titolari di incarichi dirigenziali, così come previsto
dall'articolo 109, comma 2, del Tuel.
La stessa Autorità Anticorruzione, con l’orientamento n. 59/2014, ha avuto
modo di evidenziare come l'incarico di posizione organizzativa di
responsabile dei servizi e degli uffici, cui sia stato attribuito
l'esercizio delle funzioni previste dall'articolo 107 del Dlgs 267/2000,
negli enti privi di dirigenza, sono qualificabili come incarichi
dirigenziali.
Le indicazioni dell'Aran
Alla domanda posta da un Comune, nelle more della definizione delle
procedure del nuovo assetto delle posizioni organizzative, se sia possibile
stabilire anche una data successiva a quella del 20.05.2019, la risposta
dell'Aran, nell'orientamento
applicativo 08.10.2018 CFL 7, è negativa.
Spiegano
i tecnici dell'Agenzia come le disposizioni contrattuali prevedano
espressamente la definizione da parte degli enti locali di un nuovo assetto
delle posizioni organizzative, con obbligo di modificare i precedenti
contenuti, procedendo a una nuova graduazione delle posizioni sulla base
anche dei nuovi criteri previsti dalle parti negoziali.
Gli enti dovranno, pertanto, definire anche una diversa disciplina delle
modalità di determinazione della retribuzione di posizione e di risultato,
nonché dovranno determinare i nuovi criteri generali per conferimento e
revoca degli incarichi. Le disposizioni contrattuali stabiliscono in modo
espresso che ciò debba avvenire entro un anno dalla sottoscrizione del
contratto del 21.05.2018.
Pertanto, gli incarichi di posizione
organizzativa conferiti, secondo l'articolo 8 del contratto del 31.03.1999 e all'articolo 10 del contratto del 22.01.2004, ancora in atto,
anche se con scadenza successiva al 20.05.2019, compresi anche quelli
eventualmente attribuiti dopo il 21.05.2018, nel regime transitorio,
scadranno inesorabilmente entro il 20.05.2019.
Il mancato adeguamento e le funzioni dirigenziali
Le disposizioni legislative prevedono, all'articolo 109, comma 2, del Tuel,
che: «Nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di
cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo
97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di
provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei
servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga
a ogni diversa disposizione».
L'articolo 17 del contratto 21.05.2018 prevede espressamente che “negli
enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle
strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono
titolari delle posizioni organizzative», in modo non diverso dal precedente
contratto collettivo. Il mancato adeguamento delle posizioni organizzative
entro la data del 20.05.2019, porrà un serio problema in termini di
automatica decadenza di tutte le funzioni apicali, dovendo l'ente locale
sopperire a questo deficit.
Una soluzione transitoria potrebbe essere quella di assegnare al segretario
comunale tutte le funzioni di titolarità degli uffici apicali fino a
completamento della nuova regolamentazione. Si ricorda, infine, come siano
soggetti a contrattazione integrativa esclusivamente la correlazione tra
eventuali altri compensi dovuti ai titolari di posizione organizzativa e la
retribuzione di risultato, essendo quest'ultima anch'essa soggetta
contrattazione nella parte relativa alla definizione dei criteri generali
per la sua determinazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.09.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aumento
del fondo delle risorse decentrate con effetto dal 2019. Le istruzioni dell’Aran.
L'incremento del fondo delle risorse decentrate di 83,20 euro per dipendente
presente al 31.12.2015 avrà effetto solo dal 2019. In caso di comando
è l'ente titolare del rapporto di lavoro a effettuare l'integrazione. In
caso di Unione di comuni, l'importo va trasferito al pari del trasferimento
delle funzioni.
Si possono così riassumere i principali chiarimenti
contenuti nel
parere
06.09.2018 n. 15354 di prot. dell'Aran.
Se da una parte si è ancora in attesa di conoscere la decisione della Corte
dei conti, sezioni Autonomie, che risolverà il caos che si è creato a
livello territoriale sull'inserimento o meno nel tetto al fondo per le
risorse decentrate degli aumenti decisi a livello nazionale con l'articolo
67, comma 2, lettera a), del contratto 21.05.2018 (si veda Il Quotidiano
degli enti locali e della Pa del 31 luglio), dall'altra parte l'Aran con il
parere in commento spiega come applicare la norma che prevede che
l'incremento è pari ad «un importo, su base annua, pari a euro 83,20 per le
unità di personale destinatarie del presente CCNL in servizio alla del
31.12.2015, a decorrere dal 31.12.2018 e a valere dall'anno 2019».
Prima di tutto, l'Agenzia precisa che l'inciso usato dalla disposizione
contrattuale «a decorrere dal 31.12.2018 e a valere dall'anno 2019» deve
essere inteso nel senso che l'incremento delle risorse stabili è applicato e
calcolato con decorrenza dal 31.12.2018 ma le relative risorse possono
essere utilizzate solo dall'anno 2019. Il chiarimento permette di fugare
ogni dubbio per quegli enti che pensavano di incrementare il fondo del 2018
di importo pro-quota pari ad 1/365mo del totale a regime.
Il comando
L'Aran prende poi in esame la procedura da adottare in caso di comando: le
caratteristiche specifiche dell'istituto (nel quale datore di lavoro in
senso proprio, cioè il titolare del rapporto di lavoro con il dipendente, e
è resta sempre il Comune di appartenenza) e delle risorse stabili del fondo
per le risorse decentrate (che hanno la caratteristica della certezza, della
stabilità e continuità nel tempo) non consentono di computare, ai fini
dell'applicazione dell'incremento dell'articolo 67, comma 2, lettera a), del
contratto 21.05.2018, anche il personale utilizzato temporaneamente
dell'ente in posizione di comando e in servizio alla data del 31.12.2015.
Pertanto, l'incremento in parte stabile potrà essere effettuato solo
dall'ente di effettiva appartenenza. In alcun modo, ammonisce l'Aran, può
essere consentito un doppio incremento e cioè di uno presso l'ente di
appartenenza e l'altro presso l'ente che si avvale del personale in comando.
Le indicazioni fornite valgono non solo per l'istituto del comando ma anche
per gli altri istituti assimilabili (distacco, assegnazione temporanea,
utilizzo a tempo parziale eccetera).
L’Unione di Comuni
Altro chiarimento che viene fornito dall'Agenzia è come comportarsi nel caso
in cui un ente al 31.12.2015 faceva parte di un Unione di Comuni che
successivamente si è sciolta (prima dell'entrata in vigore del nuovo
contratto) e che di conseguenza il personale è rientrato nell'organico
dell'ente.
Nel caso di specie, secondo criteri di logica e ragionevolezza,
anche questo personale deve essere computato ai fini dell'incremento
previsto dall'articolo 67, comma 2, lettera a), del contratto 21.05.2018.
Infatti, una diversa interpretazione penalizzerebbe l'ente che non potrebbe
disporre di maggiori risorse, pure essendosi incrementato il numero dei
propri dipendenti in servizio, a seguito del rientro in sede di quelli
precedentemente transitati presso l'Unione.
Nel caso, invece, in cui l'ente abbia aderito a un Unione dei Comuni dopo il
31.12.2015, trasferendo il proprio personale, lo stesso deve procedere
all'applicazione dell'incremento previsto dell'articolo 67, comma 2, lettera
a), del contratto 21.05.2018 computando anche il personale in questione,
trasferendo, poi, il relativo importo all'Unione, ai sensi dell'articolo
70-sexies del contratto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.09.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Sull’incremento
dello 0,2% del fondo per alte professionalità via libera alla rettifica dei
vecchi errori.
L'incremento dello 0,20% del monte salari dell'anno 2001 potrà essere
inserito nella costituzione del fondo delle risorse decentrate dell'anno
2018 solo dagli enti che lo avevano già stanziato negli anni precedenti.
Nulla vieta, però, che in caso di errore l'ente posso andare a rettificare
la posta ma a condizione di rispettare tutte le regole e i vincoli
finanziari.
Ad affermare tutto questo è l'Aran nel
parere 23.08.2018 n. 15118 di prot., che presenta, comunque, non
pochi profili di criticità.
La storia
Il contratto Funzioni locali del 21.05.2018 ha riesumato un incremento del
fondo delle risorse decentrate, di parte stabile, che ormai da quindici anni
crea grandi difficoltà agli operatori. Si tratta dello 0,20% del monte
salari dell'anno 2001, che era stato introdotto dall'articolo 32, comma 7,
del contratto 22.01.2004, per tutti gli enti (con o senza dirigenti), che
rispettavano un determinato parametro finanziario.
Come indicato dall'Aran nella relazione illustrativa di quel contratto,
queste ulteriori risorse erano destinate a integrare le somme per la
retribuzione di posizione e di risultato delle alte professionalità; il
contratto, quindi, non solo vincolava l'utilizzazione delle somme (alle alte
professionalità), ma prescriveva anche la loro allocazione, nella parte
stabile del fondo delle risorse decentrate.
Di conseguenza gli incrementi derivanti dallo 0,20%, negli enti con
dirigenza, confluivano nello specifico «fondo per la retribuzione di
posizione e di risultato» disciplinato dall'articolo 17, comma 2,
lettera c), del contratto del 01.04.1999.
Ben presto, però, sono iniziati i dubbi interpretativi in quanto non tutti
gli enti avevano istituito le alte professionalità: come andava quindi
gestito l'incremento dell'0,20%?
L'Aran, nell'orientamento applicativo RAL297, aveva affermato che nel caso
in cui l'ente non intendesse istituire posizioni di responsabilità di alta
professionalità, e di conseguenza, non affidasse i relativi incarichi, le
risorse dello 0,20% non avrebbero potuto essere destinate ad altre finalità.
Veniva, quindi, suggerito di calcolare e accantonare le risorse in
questione, dall'anno 2003 compreso, convinti che il prossimo rinnovo
contrattuale per il biennio 2004/2005, avrebbe fornito utili chiarimenti
sullo specifico problema.
La stessa cosa era stata, poi, confermata, per gli enti senza la dirigenza,
nell'art. 7, comma 1, lettera e) del CCNL 31.07.2009.
Il CCNL 21.05.2018
L'art. 67, comma 1, del CCNL 21.05.2018, prevede che confluisca nell'unico
importo consolidato del nuovo fondo delle risorse decentrate, la quota di
tale 0,20%. Un ente che in passato non aveva mai stanziato la somma –pur
essendone obbligato, come abbiamo visto– ha, quindi, chiesto all'ARAN come
comportarsi.
L'Agenzia, nel parere in esame, ha risposto che se tali risorse non erano
mai state stanziate dal comune, ora non potrà di certo inserirle nella parte
stabile del fondo. Questa affermazione contiene, però, un'evidente
contraddizione. Se, infatti, un ente aveva già stanziato tali somme, le
stesse sono già confluite negli importi del 2004 e quindi già consolidati
nell'unico importo del 2017; a questo punto, a cosa serve la disposizione
contrattuale che prevede l'aggiunta dello 0,20%?
Sembra palesemente inutile, ma se è stata inserita, forse un senso dovrà pur
averlo. Si spera, pertanto, che l'Agenzia possa proporre un Orientamento
Applicativo più chiaro su questo punto.
In ogni caso, l'Aran, non esclude anche che l'ente possa andare a
rideterminare i fondi degli anni precedenti qualora ci si accorga di un
errore sulla costituzione. Come sempre, però, si dovrà acquisire il parere
dell'organo di revisione e procedere con la rettifica del conto annuale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa
del 05.09.2018). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Pausa
di 30 minuti obbligatoria per chi lavora più di 6 ore senza deroghe nei
contratti di secondo livello.
In tutti gli enti, se l'orario di lavoro, per qualunque ragione, supera le 6
ore occorre effettuare una pausa di almeno 30 minuti. Le uniche deroghe sono
quelle previste dalla contrattazione decentrata in applicazione delle
previsioni dettate dal contratto 09.05.2006, all’articolo 13. Ai
contratti di secondo livello non è consentito di introdurre forme di deroga
a questo vincolo.
Possono essere così sintetizzate le considerazioni che in
modo molto secco l'Aran ha fornito nella
risposta 26.07.2018 n. 14280 di prot., spiegando le
previsioni contenute nell'articolo 26 del contratto 21.05.2018.
L'effetto di questa interpretazione è molto importante, in quanto determina
di fatto in molte amministrazioni un allungamento del tempo che i dipendenti
«trascorrono» nell'ente o nelle sue vicinanze, anche se in pausa, spesso di
20 minuti e talvolta anche di 30.
La disposizione contrattuale impone l'obbligo della pausa di almeno 30
minuti nel momento in cui l'orario supera le 6 ore giornaliere. Si deve
evidenziare che il vincolo matura non solo nel caso in cui nominalmente
l'orario eccede questo arco temporale ma anche nell’ipotesi in cui si
pervenga a questo risultato utilizzando altri istituti quali lo
straordinario o la necessità di dovere recuperare debiti orari che sono
maturati nel mese.
Spesso la pausa è assorbita da quella che è prevista per
la fruizione della mensa o per la utilizzazione del buono pasto: ricordiamo
che le disposizioni del contratto 14.09.2000 impongono in questo caso
una pausa di almeno 30 minuti e non superiore alle 2 ore.
Le nuove disposizioni
Nei casi in cui invece questo istituto non opera occorre dare applicazione
alle nuove disposizioni. Esse integrano quanto dettato dall'articolo 8 del
Dlgs 66/2003 che è la disposizione con cui il nostro paese ha recepito la
direttiva comunitaria su orario, pause e ferie. La norma rimette la
disciplina delle pause alla contrattazione, stabilendo che in assenza della
stessa, spetti comunque il diritto a un riposo di almeno 10 minuti,
cosiddetta pausa caffè, nel caso in cui l'orario superi le 6 ore
giornaliere.
Occorre chiarire subito che siamo in presenza di un diritto indisponibile,
sia da parte dei singoli dipendenti che da parte della contrattazione
decentrata: si deve pervenire a questa conclusione in ragione delle finalità
di garantire una soglia minima di tempo dedicato al recupero delle energie
psico-fisiche.
In questa direzione vanno anche le previsioni dell'articolo 22, comma 7,
dello stesso contratto che espressamente così recita: «deve essere previsto
un intervallo per pausa, non inferiore a 30 minuti». Il che vuol dire che il
dipendente deve annotare l'uscita e deve successivamente annotare il
rientro, per cui il periodo della sua «permanenza» presso l'ente di fatto si
allunga di 20 minuti se nell'ente si applicava la cosiddetta pausa caffè
prevista dal Dlgs 66/2003 e di 30 se questo istituto non era applicato.
L'unica deroga
L'Aran è molto netta nell'evidenziare che la contrattazione collettiva
decentrata integrativa non può intervenire nella materia: siamo infatti in
presenza di un tema che è precluso alla contrattazione di secondo livello.
L'unica deroga è costituita dall'applicazione dell'articolo 13 del contratto
09.05.2006. Esso stabilisce che un limitato gruppo di dipendenti possa
essere autorizzato dal contratto decentrato a fruire della pausa per la
consumazione del buono pasto all'inizio o alla fine dell'orario di lavoro.
Ciò è consentito in presenza della necessità di garantire il regolare
svolgimento dei servizi e in assenza della possibilità di introdurre
modifiche al modello organizzativo. E, inoltre, è consentito solamente per
le aree di vigilanza e/o per quella educativa o scolastica, nonché per le
biblioteche
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.09.2018). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni inclusive.
Può considerarsi aderente al dettato legislativo un regolamento del
consiglio comunale in base al quale il rispetto del criterio della
rappresentanza proporzionale dei gruppi presenti in consiglio presso le
commissioni consiliari sia riferito al «numero complessivo dei componenti le
commissioni»?
In base a quanto disposto dall'art. 38, comma 6, del decreto legislativo n.
267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una
facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito
regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò
significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più
possibile rispecchiate anche nelle commissioni in modo che in ciascuna di
esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Poiché il legislatore non precisa come debba essere applicato il surriferito
criterio di proporzionalità, spetta al regolamento, cui sono demandate la
determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina
dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i
meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo l'univoco e consolidato indirizzo giurisprudenziale formatosi, il
criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata, in ogni
commissione, la presenza di ciascun gruppo presente in consiglio in modo
che, se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere
presente in tutte le commissioni costituite (si veda Tar Lombardia, Brescia,
04.07.1992, n. 796; Tar Lombardia Milano, 03.05.1996, n. 567), assicurando
una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun
gruppo consiliare.
Pertanto il dettato legislativo, che prevede il rispetto del criterio
proporzionale nella composizione delle commissioni consiliare, dovrebbe
essere riferito ad ogni commissione costituita e non all'insieme delle
commissioni stesse (articolo ItaliaOggi del 17.05.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Calcolo
congedo parentale.
Domanda
Come va calcolato il congedo parentale quando vi sono dei giorni festivi nel
periodo di riferimento? E quando invece viene chiesto un solo giorno della
settimana?
Risposta
L’art. 43, comma 5, del CCNL del 21.05.2018, prevede che i periodi di
assenza di congedo parentale, nel caso di fruizione continuativa,
comprendono anche gli eventuali giorni festivi che ricadano all’interno
degli stessi. Tale modalità di computo trova applicazione anche nel caso di
fruizione frazionata, ove i diversi periodi di assenza non siano
intervallati dal ritorno al lavoro del lavoratore o della lavoratrice.
Nel caso in cui la lavoratrice usufruisca per l’intero mese di congedo
parentale, il computo dei giorni di congedo parentale deve tenere conto
delle domeniche nella modalità sopra indicata, mancando la ripresa in
servizio.
Non avendo specificato il mese di riferimento non è possibile confermare il
numero dei giorni. Il conteggio va fatto calendario alla mano.
Nel caso in cui la dipendente usufruisca del congedo tutte le settimane per
il solo giorno lavorativo del sabato, il computo tiene conto dei soli sabati
ricadenti in quel mese, escludendole domeniche, in quanto rinvenibile la
ripresa in servizio tra i sue periodi di congedo parentale richiesti.
In pratica tra un sabato e quello successivo la lavoratrice deve rientrare
in servizio affinché il conteggio tenga conto della sola giornata del
sabato.
Per ogni ulteriore dettaglio si rimanda al messaggio INPS n. 28379 del
25.10.2006.
La frazionabilità va intesa nel senso che tra un periodo (anche solo di un
giorno per volta) e l’altro di congedo parentale deve essere effettuata una
ripresa effettiva del lavoro (a questo fine le ferie non sono utili INPDAP
circ. n. 24 del 29/05/2000, Dipartimento FP circ. n. 14/00 del 16/11/2000,
INPS circ. n. 109 del 06/06/2000) (16.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: Utilizzabilità
esclusione automatica offerte anomale.
Domanda
Dal 19.04.2019 la possibilità di escludere “automaticamente” in
ambito sotto soglia comunitario risulta non più “libera” (decisa a
discrezione della stazione appaltante) ma condizionata all’aspetto
dell’interesse “transfrontaliero” dell’appalto.
E’ possibile avere un primo chiarimento sulla dinamica applicativa delle
nuove disposizioni?
Risposta
Il nuovo decreto-legge n. 32/2019 (c.d. Sblocca Cantieri), come noto,
introduce –secondo il legislatore– alcune semplificazioni in tema di
procedimento d’appalto in attesa di una riforma organica (con un nuovo
regolamento attuativo).
Tra queste, limitandosi a quanto esposto nel quesito, l’articolo 1, comma 1,
lettera t), punto 4 del decreto legge –in vigore dal 19 aprile– introduce
una condizione nuova quale pregiudiziale per poter operare –nel solo ambito
sotto soglia comunitario e nel caso in cui il criterio sia quello del minor
prezzo– l’esclusione automatica delle offerte anomale.
La nuova norma –comma 8 dell’articolo 97 del codice dei contratti– precisa
che “Per lavori, servizi e forniture, quando il criterio di
aggiudicazione è quello del prezzo più basso e comunque per importi
inferiori alle soglie di cui all’articolo 35, e che non presentano carattere
transfrontaliero, la stazione appaltante prevede nel bando l’esclusione
automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di
ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi del
comma 2 e commi 2-bis e 2-ter. Comunque l’esclusione automatica non opera
quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci”.
Ferme restando le condizioni legittimanti della prerogativa (si deve
trattare di appalti entro la soglia di cui all’articolo 35 del codice, con
specifica previsione nel bando di gara, aggiudicazione con il criterio del
minor prezzo, almeno 10 imprese ammesse alla procedura, anomalia ai sensi
dei nuovi commi dell’articolo 97 del codice dei contratti), l’applicazione
non è più discrezionale ma occorre certificare già in fase di determinazione
a contrattare (e negli atti di gara), a cura del RUP, che l’appalto non
riveste alcun interesse sovranazionale.
Sulla questione è, in tempi recentissimi, intervenuto il Consiglio di Stato
(con il parere 1312/2019 espresso sul nuovo schema di linee guida n. 4
trasmesso dall’ANAC).
L’autorità anticorruzione ha infatti rilevato la particolarità del nostro
Paese in cui si prevede(va) l’esclusione automatica a prescindere dal
riferimento all’interesse comunitario. Il pregresso comma 8 dell’articolo 97
non conteneva in effetti nessun riferimento all’interesse transfrontaliero.
Ed il Consiglio di Stato, nel parere, effettivamente rammenta che in via
generale le direttive comunitarie in tema di appalti si applicano soltanto
ai contratti il cui valore supera la soglia prevista espressamente nelle
direttive stesse (Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00,
Vestergaard).
Pertanto, almeno teoricamente gli Stati membri non sono tenuti a rispettare
le disposizioni contenute nelle direttive per gli appalti il cui valore non
raggiunge la soglia fissata da queste ultime (v., in tal senso, Corte di
Giustizia, sentenza 21.02.2008, causa C-412/04, punto 65).
Ma ciò, anche sulla base di indicazioni comunitarie, non significa che
appalti di importo contenuto (sotto soglia) sia ex se “esclusi
dall’ambito di applicazione del diritto comunitario (ancora Corte di
Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, punto 19)”.
Le stazioni appaltanti, in ogni caso (anche in appalti sotto la soglia
comunitaria) –conformemente alla giurisprudenza costante della Corte di
Giustizia-, risultano “tenute a rispettare le norme fondamentali e i
principi generali del Trattato FUE e, in particolare, il principio di parità
di trattamento e il principio di non discriminazione in base alla
nazionalità (Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, punti
20 e 21; Corte di Giustizia, sentenza 20.10.2005, causa C-264/03, punto 32;
Corte di Giustizia, 14.06.2007, causa C-6/05, punto 33) nonché l’obbligo di
trasparenza che ne deriva” e quindi, verificare se l’interesse
sovranazionale potenzialmente esista o meno.
Il Consiglio di Stato –sempre grazie alle indicazioni della Corte di
Giustizia– rileva che il dato indicatore, per chiarire se esista o meno un
interesse transfrontaliero, del valore dell’appalto non assurge ad unico
riferimento occorre infatti considerare tale importo –soprattutto se di una
certa consistenza– “in combinazione con il luogo di esecuzione dei lavori
o, ancora, nelle caratteristiche tecniche dell’appalto e nelle
caratteristiche specifiche dei prodotti in causa. A tal riguardo, si può
altresì tenere conto dell’esistenza di denunce presentate da operatori
ubicati in altri Stati membri, purché sia accertato che queste ultime sono
reali e non fittizie” (Corte di Giustizia, 06.10.2016, n. 318)”.
Dalla giurisprudenza (Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. I-bis, ordinanza n.
4562/2018) emerge, infatti, che l’obbligo di tale verifica (se esista o meno
interesse transfrontaliero) deve ritenersi esclusa solo nel caso in cui
l’appalto ha una base d’asta sopra la soglia comunitaria e le direttive (e
quindi il codice dei contratti) si applicano integralmente.
In caso di appalti sottosoglia, per cui non insistono indicazioni precise,
sulla base di quanto sopra riportatato sarà compito del RUP –nel caso ci si
avvalga delle prerogativa dell’esclusione automatica– giustificare la
carenza di tale interesse, vuoi perché si tratta di interventi locali (e
localizzati) es. per lavori o servizi, o forniture di tipo standardizzato e
similari, sempre tenendo a mente l’importo a base d’asta (che dovrà
risultare comunque contenuto) (15.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Le
categorie di atti per i quali non valgono i cinque anni di pubblicazione.
Domanda
Quali sono le categorie di atti e documenti che vanno mantenuti in
pubblicazione per tre anni, anziché i cinque previsti dal decreto
trasparenza?
Risposta
L’articolo 8, comma 3, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd Decreto
Trasparenza), prevede che i dati, le informazioni e i documenti oggetto di
pubblicazione obbligatoria siano pubblicati per un periodo di cinque anni,
decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre
l’obbligo di pubblicazione. Il medesimo comma 3, specifica che sono fatti
salvi i diversi termini previsti dalla normativa per il trattamento dei dati
personali e di quanto previsto dagli articoli 14, comma 2, e 15, comma 4,
del medesimo d.lgs..
Alla luce di quanto sopra, è possibile rispondere al quesito formulato nel
modo seguente:
a) i dati, documenti e dichiarazioni relativi agli organi di
governo (nei comuni: sindaco, assessori e consiglieri comunali) vanno
pubblicati entro tre mesi dall’elezione o dalla nomina e conservati per tre
anni dopo la cessazione dalla carica;
b) i dati, documenti e dichiarazioni relativi al Commissario
straordinario ogni qualvolta il decreto di scioglimento gli attribuisca i
poteri del Sindaco e/o della Giunta e del Consiglio (FAQ ANAC > Trasparenza
5.6);
c) i dati relativi al segretario comunale ed ai dirigenti (art. 14,
comma 1-bis) vanno pubblicati entro tre mesi dalla nomina e conservati per
tre anni dopo la cessazione dall’incarico;
d) i dati dei titolari di posizione organizzativa con delega
dirigenziale o P.O. nei comuni senza dirigenti (art. 14, comma 1-quinquies)
vanno pubblicati entro tre mesi dalla nomina e conservati per tre anni dopo
la cessazione dall’incarico;
e) i dati e documenti dei titolari di incarichi di collaborazione o
consulenza (art. 15, comma 4) vanno pubblicati entro tre mesi dal
conferimento dell’incarico e per i tre anni successivi alla cessazione
dell’incarico. Si ricorda che nella categoria dei Collaboratori e consulenti
devono figurare anche i dati e documenti dei componenti del Collegio dei
revisori (FAQ ANAC, Trasparenza > 6.11);
f) in analogia a quanto sopra, si ritiene che anche i dati dei
componenti dell’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) o del Nucleo di
Valutazione (articolo 10, comma 8, lettera c), vadano conservati per i tre
anni successivi alla cessazione dell’incarico, nella sezione Amministrazione
Trasparente > Personale > OIV;
g) i dati e documenti concernenti incarichi nelle società
controllate (art. 15-bis) vanno pubblicati entro trenta giorni dal
conferimento di incarichi di collaborazione, di consulenza o di incarichi
professionali, inclusi quelli arbitrali, e per i due anni successivi alla
loro cessazione.
In aggiunta a quanto sopra, va specificato che:
1. per gli incarichi politici (art. 15, commi 1 e 2) le
informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la
dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado
(comuni sopra 15.000 abitanti o forme aggregative di comuni che, nel totale,
sommano più di 15.000 abitanti), non vengono pubblicate per tre anni dalla
cessazione, ma solamente fino alla durata dell’incarico o del mandato;
2. si ritiene che trascorso un triennio dalla cessazione
dell’incarico dirigenziale, cessi anche l’obbligo di pubblicare la
dichiarazione di inconferibilità e di incompatibilità, rilasciata dai
medesimi soggetti, ai sensi del d.lgs. 39/2013 e pubblicata dalle
amministrazioni, per effetto dell’art. 20, del citato decreto n. 39 del
2013;
3. trascorsi i termini di cui sopra, tutti i dati e documenti
restano accessibili con l’istituto dell’accesso civico generalizzato (cd.
FOIA), ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del d.lgs. 33 del 2013;
4. l’ANAC, come previsto dall’art. 8, comma 3-bis, del decreto
Trasparenza, sulla base di una valutazione del rischio corruttivo, delle
esigenze di semplificazione e delle richieste di accesso, potrà determinare,
anche su proposta del Garante privacy, i casi in cui la durata della
pubblicazione del dato e del documento può essere inferiore ai termini
stabiliti (14.05.2019
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EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi di ricostruzione dei fabbricati.
DOMANDA:
In relazione al DPR n. 380/2001 e la L.R. lombarda n. 12/2005 si chiede se
in un intervento di demolizione e ricostruzione con piccole modifiche ad un
muro perimetrale, con l'inserimento di abbaini e di alcuni nuovi balconi, di
un fabbricato residenziale, tale fabbricato può essere nuovamente realizzato
mantenendo la stessa altezza (8,13 mt.) e gli stessi piani (piano terra,
primo e sottotetto), realizzando anche un piano seminterrato per realizzare
autorimesse, o deve rispettare quanto previsto dalla norme di attuazione del
vigente PGT che prevede per la zona 2 piani fuori terra e seminterrato ed
altezza massima di mt. 7,00?
Devono essere rispettate le distanze dai confini?
Per il pagamento del contributo di costruzione viene considerata nuova
costruzione (oneri pieni) o ristrutturazione (oneri abbattuti del 50%)?
Per essere considerata ristrutturazione devono essere mantenuti almeno i
muri perimetrali (almeno 1,5 mt.)?
RISPOSTA:
La questione principale sottesa al quesito concerne la possibilità e le
modalità con cui provvedere ad un intervento di demolizione e ricostruzione,
con piccole modifiche ad un muro perimetrale e con l’inserimento di abbaini
e di alcuni nuovi balconi, di un fabbricato residenziale.
In particolare, con riferimento all’altezza e ai piani, codesto Comune
chiede se il fabbricato in oggetto possa essere nuovamente realizzato
mantenendo la stessa altezza (8,13 mt) e gli stessi piani (piano terra,
primo e sottotetto), realizzando anche un piano seminterrato per
autorimesse, oppure se la costruzione debba rispettare quanto previsto dalle
norme di attuazione del vigente PGT che prevede per la zona in oggetto due
piani fuori terra e seminterrato e un’altezza massima di 7 metri. Il dubbio
è altresì se debbano essere rispettate le distanze dai confini e se, in
generale, si tratti di una nuova costruzione o ristrutturazione.
Ebbene, al fine di tentare di fornire una soluzione rispetto al quesito
posto, occorre, anzitutto, fare riferimento agli interventi normativi
successivi al 2013 e alla giurisprudenza amministrativa formatasi, al
momento, sul tema in oggetto. In particolare, com’è noto, l’art. 3 del
D.P.R. 380/2001 contiene l’attuale distinzione tra “interventi di
ricostruzione edilizia” e “interventi di nuova costruzione”.
In particolare, si legge alla lettera d) della suddetta disposizione, che: “nell'ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di
quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino
di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente
consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono
interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima”.
L’articolo 27 della legge regionale n. 12 del 2005 e la circolare n. 10 del
2010 sono sostanzialmente riepilogativi della normativa nazionale.
D’altra parte, come specificato da quest’ultima, la declaratoria degli
interventi edilizi dettata all’art. 27 della l.r. n. 12/2005 è da
considerarsi superata, dovendosi ormai fare riferimento alle definizioni di
cui all’art. 3 del d.P.R. 380/2001, in quanto disposizioni espressamente
qualificate dalla Corte costituzionale come «principi fondamentali della
materia» di potestà legislativa concorrente «governo del territorio».
Si segnala sul tema l’importante sentenza n. 4728 del 2017 con la quale il
Consiglio di Stato, oltre ad effettuare una interessante ricostruzione della
successione delle leggi nel tempo, dà varie indicazioni interpretative.
Anzitutto, con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd.
ricostruttiva, precisa che l’unico limite ora previsto è quello della
identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, salve “innovazioni
necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica” , e ad
eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004, per i
quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello
preesistente”.
Afferma, poi, che il nuovo manufatto, se può sottrarsi ai limiti,
precedentemente previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma,
non di meno, anche in tali casi, è certamente tenuto al rispetto del limite
delle distanze dal confine e/o da altri fabbricati, nel rispetto sia delle
norme del codice civile sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e
dalla pianificazione urbanistica.
Il Collegio, quindi, nell’ambito della suddetta sentenza, conclude sul tema
delle distanze che: “In sostanza:
- nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una
ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area
di sedime e di sagoma, esso –proprio perché “coincidente” per tali profili
con il manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle
distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto
che già non rispettava dette distanze (e magari preesisteva anche alla
stessa loro previsione normativa).
Come questa Sezione ha avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV,
14.09.2017 n. 4337), “la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda
“nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o
sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522)
“costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali,
in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse”.
- invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il
rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, come pure
consentito dalle norme innanzi indicate, occorrerà comunque il rispetto
delle distanze prescritte, proprio perché esso –quanto alla sua collocazione
fisica– rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare
–indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o
nuova costruzione– le norme sulle distanze”.
D’altra parte, come si è affermato spesso anche con riferimento alla
normativa precedente, è con riferimento alla ipotesi di ristrutturazione “ricostruttiva”
che è richiesta identità di volumetria e di sagoma (Cons. Stato, sez. IV,
07.04.2015 n. 1763; 09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970), affermandosi
altresì che, in difetto, si configura una nuova costruzione, con la
conseguente applicabilità anche delle norme sulle distanze (Cons. Stato,
sez. IV, 30.05.2013 n. 2972; 12.02.2013 n. 844).
Con riferimento al caso oggetto della sentenza, insomma, il Consiglio di
Stato affermava che, anche a voler parlare di ristrutturazione edilizia, “le
opere in edifici preesistenti costituenti modifiche di sagoma, ampliamenti e
sopraelevazioni siano soggette al rispetto delle distanze legali”.
Con riferimento segnatamente al caso di specie, dunque, si ritiene che
l’edificio potrebbe essere ricostruito con le medesime fattezze di quello
demolito. La costruzione, però, verrà qualificata come ristrutturazione nel
caso in cui l’amministrazione accerti che la stessa abbia la medesima
volumetria della precedente. In caso contrario, e ci sono fondati motivi per
ritenere che si tratti del caso oggetto del quesito anche alla luce di
quanto disposto dall’art. 10 del D.P.R. 380/2001 e considerato che eventuali
nuovi balconi comporterebbero un aumento di volumetria, l’edificio si
configurerà come una nuova costruzione soggetta al rispetto anche
dell’attuale PGT e ai conseguenti relativi oneri pieni.
Con riferimento al tema delle distanze, come chiarito dal Consiglio di
Stato, indipendentemente dalla qualificazione della costruzione, andranno
approfonditi dall’amministrazione gli aspetti concernenti la collocazione
fisica della stessa ma ci sono fondati motivi per ritenere, alla luce di
tutto quanto sopra esposto, che la costruzione sia soggetta al rispetto
delle distanze (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Il consiglio? È un
diritto. I motivi della convocazione sono insindacabili. Legittimo chiedere
la riunione per esaminare mozioni e interrogazioni.
Si può chiedere la convocazione del consiglio
comunale ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000
per poter esaminare atti di sindacato ispettivo?
Un quinto dei consiglieri comunali di minoranza di un ente ha depositato una
mozione ed una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione
ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
In base al regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto
che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente
dovranno essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della
convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro
presentazione.
La medesima fonte normativa prevede che la convocazione richiesta ex citato
art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento
indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di
deliberazione».
Ad avviso del sindaco, in base al combinato disposto delle norme
regolamentari su richiamate, sarebbe escluso che la richiesta di
convocazione formulata da un quinto dei consiglieri possa avere ad oggetto
atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere,
indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione».
Il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge
con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine
delle competenze mediante intervento sostitutivo del prefetto in caso di
mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente
breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere dei
consiglieri di chiedere la convocazione del consiglio medesimo» come «diritto»
dal legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar
Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124).
La questione sulla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a
chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, si è orientata nel
senso che al presidente del consiglio spetti solo la verifica formale della
richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne
l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso
di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei
consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la
verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti
legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso
consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso
potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996,
Tar Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Si soggiunge che il Tar Sardegna, con la sentenza n. 718 del 2003, ha
respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma
5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice
amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il
consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39
del Tuel n. 267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea
decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del
giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne
debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce,
sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1,
04.02.2004,n. 124).
Va peraltro rilevato che l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria
e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di
presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di
sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative
risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Con riguardo a quest'ultimo ambito, occorre osservare che, qualora
l'intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in
merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato
ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio
comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che,
pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42,
attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di
deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la
trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2,
dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva
adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, si ritiene, pertanto, che il prefetto sia
tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del
decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere
alla convocazione del richiesto consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del
10.05.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Il
datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla manutenzione
e pulitura di parchi e giardini?
Domanda
Il datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla
manutenzione e pulitura di parchi e giardini?
Risposta
La materia non riceve disciplina nella fonte contrattuale, pertanto è
necessario ricorrere alla prevalente giurisprudenza che offre uno strumento
di guida, soprattutto quando si muove uniformemente, come nel caso
specifico.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 29964/2017
conferma un principio ormai consolidato, secondo il quale il datore di
lavoro dell’Ente Locale non è tenuto a far lavare le tute quando non siano
“dispositivi di protezione individuale” ma servano, semplicemente, ad
evitare l’usura degli abiti civili.
La vicenda ha riguardato gli addetti ai servizi di manutenzione e pulitura
di parchi e giardini di un Comune, convocato in giudizio. La pretesa era
quella di vedersi riconosciuto il diritto all’indennità per il lavaggio
delle tute adoperate per lo svolgimento del lavoro.
Il giudice di primo grado e la Corte d’Appello respingono le richieste in
ragione della natura della divisa, non riconducibile ad un dispositivo di
protezione individuale (Dpi) così come declinato all’art. 74 del d.lgs. n.
81/2008.
La disposizione di legge stabilisce che per “dispositivo di protezione
individuale” debba intendersi qualsiasi attrezzatura destinata ad essere
indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più
rischi suscettibili di minacciare la sicurezza o la salute durante il
lavoro.
La norma esclude espressamente da tale categoria gli indumenti di lavoro
ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la
sicurezza e la salute del lavoratore.
La Corte ha in questo caso escluso l’assimilazione tra le tute fornite dal
Comune ai dipendenti e i Dpi, negando ogni nesso con la tutela della salute
e dell’igiene dei lavoratori.
In definitiva, le tute sono estranee al tema della salute e hanno come unica
funzione quella di preservare gli abiti civili dall’usura dovuta allo
svolgimento dell’attività.
L’obbligo di lavaggio sussiste solo ove finalizzato alla tutela della salute
e sicurezza del lavoratore (09.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: Criteri
di aggiudicazione nel nuovo Decreto cd Sblocca Cantieri.
Domanda
Il decreto c.d. “Sblocca Cantieri” ha previsto il criterio del prezzo
più basso come regola rispetto a quella dell’offerta economicamente più
vantaggiosa. Come cambia la scelta dei criteri di aggiudicazione nel sotto
soglia?
Risposta
Il decreto-legge 32 del 18.04.2019 entrato in vigore il giorno successivo,
ha interessato numerosi istituti e articoli del codice, ed in particolare
con riferimento al quesito in premessa l’art. 36, con l’introduzione del
comma 9-bis, e l’art. 97, con la modifica al comma 8. Il co. 9-bis recita “Fatto
salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le stazioni appaltanti
procedono all’aggiudicazione dei contratti di cui al presente articolo sulla
base del criterio del minor prezzo ovvero, previa motivazione, sulla base
del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”, mentre il
nuovo comma 8 dell’art. 97 “Per lavori, servizi e forniture, quando il
criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e comunque per
importi inferiori [alle soglie di cui all’articolo 35, la stazione
appaltante può prevedere] alle soglie di cui all’articolo 35, e che non
presentano carattere transfrontaliero, la stazione appaltante prevede nel
bando l’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una
percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata
ai sensi del comma 2 e commi 2-bis e 2-ter. [In tal caso non si applicano i
commi 4, 5 e 6. Comunque la facoltà di esclusione automatica non è
esercitabile quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci].
Comunque l’esclusione automatica non opera quando il numero delle offerte
ammesse è inferiore a dieci”. Disposizioni che vanno coordinate con
l’art. 95, cc. 3 e 4, del codice.
Da una prima lettura a caldo delle sopra citate disposizioni è possibile
ritenere che:
• Per le procedure infra 40.000, indipendentemente dalla natura
delle prestazioni (servizi sociali, ristorazione, alta intensità di
manodopera, servizi di ingegneria, ecc.), si applica il criterio del minor
prezzo.
• Per le procedure di importo pari o superiore a 40.000 euro e
inferiore alla soglia comunitaria il criterio ordinario diventa quello del
minor prezzo, con esclusione:
– dei servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e
scolastica, servizi ad alta intensità di manodopera, come definiti dall’art.
50, co. 1 del codice (art. 95, co. 3, lett. a) aggiudicati esclusivamente
sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa);
– dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura
tecnica e intellettuale (art. 95, co. 3, lett. b) aggiudicati esclusivamente
sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa);
– dei servizi e forniture caratterizzati da notevole contenuto tecnologico o
che hanno un carattere innovativo (art. 95, co. 3, lett. b-bis) aggiudicati
esclusivamente sulla base del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa).
• Per le procedure sotto-soglia comunitaria diverse da quelle
elencate all’art. 95, co. 3, del codice, e comunque per le procedure infra
40.000 euro, il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, è
possibile solo previa motivazione nella determinazione a contrattare;
• Il criterio del minor prezzo può essere comunque utilizzato per
servizi e forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni
sono definite dal mercato (art. 95, co. 4, lett. b).
• Per le procedure sotto-soglia comunitaria che non presentano
carattere transfrontaliero (manca la definizione di interesse
transfrontaliero) di lavori, servizi e forniture con il criterio del prezzo
più basso l’inserimento della clausola di l’esclusione automatica
dell’offerta diventa obbligatoria. L’esclusione automatica non opera quando
il numero delle offerte ammesse è inferiore a 10.
Di rilievo anche la modifica al comma 10-bis dell’art. 95, dove viene
eliminato il tetto massimo per il punteggio economico in origine fissato in
30 punti su 100 (08.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Concessione
di contributi e relativi obblighi.
Domanda
In qualità di responsabile dell’ufficio Servizi sociali del comune, chiedo
che vengano indicati quali sono i provvedimenti che NON rientrano nella
categoria degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi,
ausili finanziari e vantaggi economici?
Risposta
Il riferimento normativo per la pubblicazione obbligatoria degli atti con
cui una pubblica amministrazione eroga contributi, sovvenzioni, sussidi e
vantaggi economici, superiori a 1.000 euro nell’anno solare, è contenuto
negli articoli 26 e 27 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.
Il comma 1, del citato art. 26, fa esplicito riferimento all’articolo 12,
della legge 07.08.1990, n. 241, secondo il quale:
La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e
l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle
amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti,
dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1
deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al
medesimo comma 1.
In base a tale norma, risalente a quasi trent’anni fa, ogni ente locale, nel
corso degli anni, ha dovuto disciplinare l’erogazione dei contributi,
secondo specifiche norme regolamentari, la cui assenza –è bene specificarlo–
impedirebbe al comune di erogare somme a titolo di contribuzione, per
qualunque genere.
Venendo al cuore del quesito posto, possiamo dire che rientrano, certamente,
tra la categoria dei contributi quelli erogati per finalità di carattere
sociale (salute o situazione di disagio socio-economico). Quelli erogati per
finalità culturali e turistiche; attività promozionali; svolgimento di
eventi e manifestazioni; attività sportive e di pubblica istruzione, più
eventuali altre categorie sempre disciplinate nell’apposito regolamento
comunale.
A titolo non esaustivo possiamo ricomprendere, invece, nella categoria degli
atti che NON rientrano tra gli obblighi degli articoli 26 e 27, del d.lgs.
33 del 2013:
• i compensi dovuti dalle amministrazioni, dagli enti e dalle
società alle imprese e ai professionisti privati come corrispettivo per lo
svolgimento di prestazioni professionali e per l’esecuzione di opere, lavori
pubblici, servizi e forniture;
• i rimborsi e le indennità corrisposti ai soggetti impegnati in
tirocini formativi e di orientamento;
• l’attribuzione da parte di un’amministrazione ad altra
amministrazione di quote di tributi;
• il trasferimento di risorse da un’amministrazione ad un’altra,
anche in seguito alla devoluzione di funzioni e competenze;
• i rimborsi a favore di soggetti pubblici e privati di somme
erroneamente o indebitamente versate al bilancio dell’amministrazione;
• gli indennizzi corrisposti dall’amministrazione a privati a
titolo di risarcimento per pregiudizi subiti;
• gli atti di ammissione al godimento di un servizio a domanda
individuale a tariffe ridotte o agevolate (07.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI: I
controlli ministeriali sul corretto utilizzo da parte dei comuni delle somme
attribuite a titolo di 5 per mille.
Domanda
Nei giorni scorsi ho visto che sul sito del Ministero dell’Interno, sezione
Finanza Locale – Spettanze, è stato comunicato l’ammontare del 5 per mille
del gettito Irpef per l’anno di imposta 2017 a favore del mio comune.
Vi chiedo: il Ministero effettua controlli sul loro corretto utilizzo? E se
sì, con quali modalità e tempi?
Risposta
Al quesito del lettore va risposto in modo affermativo. Le modalità e i
tempi dei controlli effettuati dal Ministero dell’Interno sul corretto
utilizzo delle somme percepite dai comuni a titolo di 5 per mille del
gettito Irpef sono stati definiti con circolare F.L. n. 17 del 15/10/2018
inviata dal Ministero stesso a tutte le prefetture-UTG.
La circolare fornisce loro le istruzioni per l’esercizio dei poteri
ispettivi previsti dalla normativa che disciplina l’attribuzione del 5 per
mille dell’IRPEF ai soli comuni che ricevono contributi inferiori a €
20.000,00. Restano esclusi i comuni che ricevono contributi superiori a tale
importo i quali sono già obbligati a trasmettere il rendiconto e la
relazione illustrativa al Ministero stesso con procedura telematica.
La circolare infatti richiama il decreto direttoriale n. 0101025 del
24/09/2018 che all’art. 1 dispone che a decorre dall’esercizio 2019, gli UTG
effettuino annualmente appropriati controlli sulla regolarità della
rendicontazione delle spese finanziate con tali contributi, nonché sui
relativi obblighi di pubblicazione, come stabiliti con D.P.C.M del
23/04/2010, poi integrato dal D.P.C.M. del 07/07/2016 per i soli comuni che
hanno ricevuto, a titolo di 5 per mille, contributi inferiori ad €
20.000,00. Detti comuni sono tenuti a redigere il rendiconto e la relazione
illustrativa utilizzando modelli cartacei da conservare agli atti per non
meno di dieci anni.
Il successivo art. 2 del decreto prevede che tale controllo sia eseguito
almeno sul 15 per cento dei comuni interessati ai contributi, come
risultanti dagli elenchi pubblicati periodicamente dal Ministero stesso sul
proprio sito web – Dait finanza locale. La relazione finale inerente l’esito
del controllo svolto dalla prefettura sarà inviata, tramite pec, al
Ministero dell’Interno – Direzione Centrale della Finanza Locale. I comuni
da controllare saranno individuati in base a sorteggio svolto presso le
singole prefetture-UTG. La percentuale minima di cui sopra si intende
riferita a tutti i comuni della provincia che abbiano percepito somme nel
corso dello stesso anno.
La circolare prosegue poi ricordando che le somme erogate a titolo di 5 per
mille dell’IRPEF devono essere utilizzate entro un anno dalla data di
ricezione delle stesse da parte dei comuni interessati, il quale decorre,
convenzionalmente, dal secondo mese dall’avvenuta erogazione dell’importo da
parte del Ministero. Il controllo potrà essere eseguito pertanto dopo il
quattordicesimo mese. Le prefetture dovranno fare riferimento unicamente
agli elenchi dei pagamenti pubblicati sul sito web della Direzione Centrale
della Finanza locale del Ministero, con riguardo alla data di effettiva
erogazione delle somme.
Il controllo riguarderà due aspetti:
a) il rendiconto, che deve essere redatto entro un anno dalla
ricezione delle somme secondo i modelli ministeriali pubblicati con
circolare FL 13/2015, come modificati con circolare F.L. 10/2018,
debitamente compilato e sottoscritto dai responsabili del servizio
finanziario, dei servizi sociali e dall’organo di revisione
economico-finanziario, nonché ogni altro elemento che le prefetture
ritengano utile ai fini della verifica sull’utilizzo delle somme (quali ad
es: eventuali contratti stipulati o accordi raggiunti con cooperative o
associazioni, fatture dei fornitori, mandati di pagamento, ecc.).
b) l’avvenuta pubblicazione sul sito web del comune beneficiario,
da effettuarsi entro trenta giorni dalla scadenza del termine più sopra
indicato, degli importi percepiti e del rendiconto, così come previsto
dall’articolo 8 del d.lgs. n. 111 del 03/07/2017.
La circolare prosegue precisando che i controlli vanno eseguiti sulle somme
percepite dai comuni secondo il principio di cassa, a decorrere
dall’esercizio 2016, indipendentemente dagli anni d’imposta a cui si
riferiscono. Le prefetture ne hanno già comunicato gli esiti al Ministero
entro il 31 marzo scorso (per l’anno 2016); lo faranno entro il 30.06.2019
per l’anno 2017 e, per gli anni successivi, entro il 31 marzo di due anni
dopo (ad es: per il 2018 entro il 31.03.2020; per il 2019 entro il
31.03.2021 e così via).
Infine l’eventuale comunicazione al Ministero della mancata o parziale
utilizzazione delle risorse, oppure dell’utilizzo per finalità diverse da
quelle previste dalla richiamata circolare del F.L. 10/2018, comporterà, per
il comune inadempiente, il recupero da parte del Ministero stesso delle
somme attribuite per la parte non utilizzata ovvero utilizzata per finalità
diverse dagli scopi per i quali sono attribuiti i fondi del 5 per mille
dell’IRPEF (06.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Inconferibilità di incarichi a componenti di organi politici di livello
locale.
Sussisterebbe la causa di inconferibilità di cui
all’art. 7, co. 2, lett. c), del D.Lgs. 39/2013 nei confronti di un
amministratore locale che venisse nominato dal sindaco quale componente del
consiglio di amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona.
Tale inconferibilità riguarda non solo coloro che hanno ricoperto la carica
politica nei due anni precedenti l’eventuale conferimento dell’incarico, ma
altresì coloro che la ricoprono attualmente.
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità che il sindaco nomini
un proprio consigliere comunale quale componente del consiglio di
amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP), avente
sede nel Comune medesimo, atteso che quest’ultimo concluderà a breve il
proprio mandato elettivo [1].
La normativa che si ritiene debba essere presa in considerazione è il
decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante “Disposizioni in materia di
inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma
dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”, in
particolare, per quel che rileva in questa sede, l’articolo 7, comma 2,
lett. c), secondo cui: “A coloro che nei due anni precedenti siano stati
componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della
forma associativa tra comuni che conferisce l'incarico, […] non possono
essere conferiti:
a) omissis;
b) omissis;
c) gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello
provinciale o comunale;
d) omissis”.
In via preliminare si rileva che l’azienda pubblica di servizi alla persona
rientra tra gli “enti pubblici di livello provinciale o comunale”. A
sostegno di un tanto depongono le seguenti argomentazioni espresse in un
parere reso da questo Ufficio [2]
e che, di seguito, si riportano succintamente.
La definizione di «enti pubblici» è rinvenibile all’articolo 1, comma
1, lettera b), del D.Lgs. 39/2013 che li qualifica come «enti di diritto
pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque
denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione
che conferisce l’incarico, ovvero i cui amministratori siano da questa
nominati».
Si ritiene che l’Azienda pubblica di servizi alla persona rientri in tale
qualificazione in quanto ente dotato di personalità giuridica di diritto
pubblico ai sensi dell’articolo 3 della legge regionale 11.12.2003, n. 19,
il cui statuto disciplina modalità e criteri di elezione o nomina degli
organi di amministrazione da parte degli enti locali o di altri soggetti
(articolo 4, commi 1 e 2, della legge regionale 19/2003). Nel caso in esame,
in base allo statuto dell’ASP i componenti del consiglio di amministrazione
sono nominati dal sindaco del Comune in cui ha sede l’Azienda
[3]: ne deriva la
connotazione “locale” dell’ente.
Si consideri, altresì, che la norma citata si applica anche con riferimento
agli amministratori che attualmente ricoprono la carica politica, e non solo
a quelli che l’hanno ricoperta in passato (due anni prima)
[4].
Alla luce delle considerazioni sopra espresse, e nel ribadire che il
conferimento dell’incarico di amministratore dell’ASP compete al sindaco del
Comune in cui l’amministratore locale svolge il proprio mandato elettivo,
segue l’inconferibilità allo stesso dell’incarico di componente del
consiglio di amministrazione dell’Azienda pubblica di servizi alla persona
in riferimento.
Peraltro il fatto che l’attuale amministratore locale cesserà dalle proprie
funzioni il prossimo mese di maggio non altera le conclusioni cui sopra si è
addivenuti atteso che la causa di inconferibilità in argomento, come già
rilevato, riguarda non solo coloro che attualmente ricoprono la carica
politica ma altresì coloro che l’hanno ricoperta nei due anni precedenti
l’eventuale conferimento dell’incarico.
Per completezza espositiva si segnala, inoltre, la norma di cui all’articolo
7, comma 1, della legge regionale 19/2003 nella parte in cui prevede che: “La
carica di amministratore di un’azienda è incompatibile con la carica di: a)
amministratore di comune […] dove insiste l’azienda”.
Segue che per il periodo di tempo in cui l’amministratore dell’Azienda
pubblica di servizi alla persona fosse, altresì, amministratore locale
sussisterebbe nei suoi confronti anche la causa di incompatibilità prevista
dall’indicata legge regionale.
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[1] Il Comune sentito anche per le vie brevi specifica che il consigliere
comunale cesserà dalle sue funzioni il prossimo mese di maggio e non si è
ricandidato.
[2] Parere prot. n. 16597 del 28.05.2013.
[3] L’articolo 6 dello statuto dell’ASP recita: “Il consiglio di
amministrazione è formato da cinque componenti, ivi compreso il presidente,
nominati dal Sindaco del Comune di […], di cui uno in rappresentanza degli
eredi della donatrice […]”. Si precisa che l’articolo individua nel sindaco
del comune in cui l’Azienda ha la propria sede legale il soggetto deputato
alla nomina dei componenti del consiglio di amministrazione dell’Azienda.
[4] Si veda, al riguardo, l’orientamento n. 11/2015 espresso dall’ANAC
secondo cui: “Le situazioni di inconferibilità previste nell’art. 7 del
d.lgs. 39/2013, nei confronti di coloro che nell’anno o nei due anni
precedenti hanno ricoperto le cariche politiche e gli incarichi ivi
indicati, vanno equiparate, ai fini del d.lgs. 39/2013, a coloro che
attualmente ricoprono tali ruoli” (03.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Stop ai consiglieri politici. La figura
non è compatibile con il Tuel. Le norme sul riparto delle attribuzioni non
possono essere derogate
Il sindaco può nominare i cosiddetti consiglieri
politici?
L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere
politico»; i consiglieri, gli assessori e il sindaco, quali organi di
governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge.
Si evidenzia che, nel sistema posto dal legislatore costituzionale, art.
117, lettera p), lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di «organi
di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane»,
mentre all'ente locale è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa,
organizzativa ed amministrativa nel rispetto, però, dei principi fissati dal
decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del suddetto Tuel, lo statuto stabilisce le norme
fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli
organi.
È prevista, inoltre, la possibilità di istituire uffici di supporto agli
organi di direzione politica ai sensi dell'art. 90 del citato decreto
legislativo che al primo comma demanda al regolamento degli uffici e dei
servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle
dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per
l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla
legge.
Con riferimento a tale istituto, va ricordato che la giurisprudenza
contabile ha evidenziato il carattere necessariamente oneroso del rapporto
con i soggetti incaricati di funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania
n. 155/2014/Par).
Per quanto concerne la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni
ai consiglieri, tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma
10, per l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e
nelle frazioni, e ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni
alle assemblee consortili.
Tutto ciò premesso, considerato che, nell'ambito dei principi fissati con
legge dello Stato, l'ente può integrare, nei termini su indicati, le norme
che stabiliscono il riparto delle attribuzioni, ma non può derogarle,
l'individuazione della figura del «consigliere politico» non appare
compatibile con l'ordinamento degli enti locali (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo
graduatorie triennio 2010-2013.
Domanda
È possibile avviare il reclutamento degli idonei che figurano nelle
graduatorie approvate dal 2010 al 2013 pubblicando nel sito web dell’ente un
avviso per manifestazione di interesse rivolto in generale a tutti coloro
che sono collocati in tali graduatorie, per poi trasmettere l’invito a
partecipare ai corsi di formazione previsti dall’art. 1, comma 362, della l.
145/2018 solamente a coloro che avranno manifestato il loro interesse?
Risposta
Come noto, la legge di bilancio per l’anno 2019 ha prorogato fino al
30.09.2019 la validità delle graduatorie approvate dal 01.01.2010 al
31.12.2013, ma ne ha subordinato l’utilizzo ai seguenti adempimenti:
1) frequenza obbligatoria, da parte degli idonei, di corsi di
formazione e aggiornamento organizzati da ciascuna amministrazione, nel
rispetto dei princìpi di trasparenza, pubblicità ed economicità e
utilizzando le risorse disponibili a legislazione vigente;
2) superamento, da parte degli idonei, di un apposito
esame-colloquio diretto a verificarne la perdurante idoneità.
Naturalmente, anche in questi casi devono essere rispettati i principi
generali in materia di graduatorie concorsuali, tra i quali, in particolare,
l’obbligo di interpellare individualmente tutti gli idonei, nell’ordine in
cui sono collocati in graduatoria. Una volta che l’ente, sulla base del
piano dei fabbisogni di personale, abbia deciso di reclutare personale
mediante scorrimento di graduatoria concorsuale, è quindi necessario
procedere come segue:
• in primo luogo deve essere individuata la graduatoria da
scorrere, secondo le consuete regole: coincidenza di categoria, profilo,
requisiti di accesso e articolazione oraria a tempo pieno/parziale dei posti
oggetto del concorso rispetto al posto/ai posti da coprire, precedenza alle
graduatorie efficaci dell’ente, per poi valutare accordi con altri enti
titolari di graduatorie (applicando gli eventuali criteri di scelta che
l’ente si è dato autonomamente), precedenza alle graduatorie più datate
rispetto a quelle più recenti;
• nel caso in cui si tratti di graduatoria di altro ente, dovrà
essere stipulato il relativo accordo/convenzione;
• dopo avere individuato la graduatoria oggetto di scorrimento e
una volta data evidenza pubblica a tale decisione con il provvedimento che
dà avvio alla procedura, l’ente deve sempre interpellare individualmente
tutti gli idonei non ancora chiamati.
Nel caso particolare in cui sia stato deciso lo scorrimento di una
graduatoria approvata dal 2010 al 2013, sarà necessario:
• trasmettere a ciascuno degli idonei (con modalità che consentano
di provarne la ricezione) un invito a manifestare l’interesse
all’assunzione, invito che dovrà anche illustrare le successive fasi della
procedura e le relative modalità di notificazione;
• una volta ricevute le manifestazioni di interesse, organizzare il
corso di formazione e aggiornamento;
• pubblicare, nel sito web dell’ente (Amministrazione Trasparente,
sezione dedicata al personale) un avviso contenente:
• le date, gli orari, i contenuti e le modalità di frequenza al
corso di formazione e aggiornamento;
• la disciplina delle assenze rispetto al calendario del corso:
casistica, modalità di giustificazione, numero di assenze oltre il quale è
prevista la non ammissione all’esame finale;
• le modalità di svolgimento dell’esame-colloquio finale.
• In adempimento agli obblighi di trasparenza, l’invito e l’avviso
dovranno infine riportare:
• le principali informazioni riguardanti l’”offerta assunzionale”:
numero di posti per i quali la graduatoria viene scorsa, unità organizzative
di assegnazione, eventuali altri dettagli sulle figure che si intendono
reclutare (mansioni, sede di prima assegnazione, articolazione prevista
dell’orario di lavoro, ecc.);
• le conseguenze della mancata partecipazione alla procedura per
quanto riguarda la posizione giuridica degli idonei.
Lo scorrimento della graduatoria consisterà nella chiamata di coloro che
avranno regolarmente frequentato il corso di formazione e superato l’esame
finale, nell’ordine in cui figurano nella graduatoria, fino ad esaurimento
dei posti disponibili (o per l’unico posto da coprire).
Se si tratta di graduatoria di altro ente, occorrerà informare l’ente
titolare circa gli esiti dello scorrimento (02.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI - TRIBUTI: Compensazione
fra debiti per prestazioni rese a favore del comune e crediti tributari.
Domanda
Il mio ufficio ragioneria deve pagare la fattura di una ditta fornitrice per
una prestazione resa a favore del comune. La ditta, tuttavia, è destinataria
di un avviso di accertamento IMU già notificato dall’ufficio tributi e
divenuto definitivo, ad oggi ancora impagato.
E’ possibile procedere alla loro compensazione?
Risposta
Il quesito del lettore propone un caso non certo infrequente per gli enti
locali, in cui il comune si trova ad essere contemporaneamente debitore e
creditore verso il medesimo soggetto. Come noto gli uffici ragioneria, prima
di procedere all’emissione dei mandati di pagamento di importo superiore a
cinquemila euro già devono procedere alle verifiche previste dall’art.
48-bis del dPR 602/1973.
Quest’ultimo infatti stabilisce che le amministrazioni pubbliche di cui all’
articolo 1, comma 2, del dlgs. 30.03.2001, n. 165, e le società a prevalente
partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il
pagamento di un importo superiore a cinquemila euro, verifichino, anche in
via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento
derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare
complessivo pari almeno a tale importo. In caso affermativo, non procedono
al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione
competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di
riscossione delle somme iscritte a ruolo.
Nell’ipotesi prospettata dal lettore, dove il comune stesso è soggetto
creditore, si ritiene che debba trovare applicazione, per analogia, l’art.
23 del dlgs. 472/1997. Questo, al comma 1, prevede infatti che “Nei casi
in cui l’autore della violazione o i soggetti obbligati in solido, vantano
un credito nei confronti dell’amministrazione finanziaria, il pagamento può
essere sospeso se è stato notificato atto di contestazione o di irrogazione
della sanzione o provvedimento con il quale vengono accertati maggiori
tributi, ancorché non definitivi. La sospensione opera nei limiti di tutti
gli importi dovuti in base all’atto o alla decisione della commissione
tributaria ovvero dalla decisione di altro organo”. Il successivo comma
2 stabilisce che “In presenza di provvedimento definitivo, l’ufficio
competente per il rimborso pronuncia la compensazione del debito.”.
Si ritiene che detta procedura (ovvero la compensazione fra il debito del
comune con la ditta per la prestazione resa, ed il credito tributario
vantato dal comune stesso verso quest’ultima) non sia una semplice facoltà,
bensì un vero e proprio obbligo. La tesi è altresì confermata anche
dall’art. 8, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, di cui
alla L. 212/2000, laddove si stabilisce che “L’obbligazione
tributaria può essere estinta anche per compensazione”.
Si ritiene infine opportuno che tale previsione trovi adeguata conferma
anche all’interno del regolamento comunale delle entrate tributarie
dell’ente stesso, con la previsione di un articolo ad hoc.
Dal punto di vista contabile, infine, la compensazione dovrà essere
rispettosa del principio di bilancio dell’integrità, come previsto dall’art.
162, comma 4, del TUEL. Sarà necessario pertanto che l’ufficio ragioneria
emetta l’ordinativo di pagamento a valere sul relativo capitolo di spesa e
l’ordinativo di incasso sul corrispondente capitolo di entrata. L’operazione
non darà luogo ad alcun movimento monetario in caso di compensazione
integrale.
Viceversa, in caso di compensazione parziale, ovvero nell’ipotesi in cui
l’importo del debito dell’ente sia superiore all’importo del credito
tributario vantato, il movimento monetario in uscita riguarderà la sola
differenza a debito dell’ente (29.04.2019
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URBANISTICA: Obblighi
di pubblicazione atti di pianificazione e governo del territorio.
Domanda
Da poco tempo ho assunto l’incarico di posizione organizzativa del settore
urbanistica del mio comune (ente senza dirigenti). Vorrei capire meglio
quali sono gli obblighi di pubblicazione in materia di Pianificazione
urbanistica e governo del territorio. Potete aiutarmi?
Risposta
Gli obblighi di pubblicità e trasparenza, in materia di attività di
pianificazione e governo del territorio sono disciplinati dall’articolo 39,
del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33. L’articolo si compone di quattro
commi.
Il primo comma, prevede che le pubbliche amministrazioni debbano pubblicare
gli atti di governo del territorio, quali, tra gli altri:
a) i piani territoriali;
b) i piani di coordinamento;
c) i piani paesistici;
d) gli strumenti urbanistici, generali e di attuazione, nonché le
loro varianti.
Per effetto dell’art. 43, comma 1, lettera f), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97,
che ha abrogato la lettera b), del comma 1, del d.lgs. 33/2013, non sono più
oggetto di pubblicazione obbligatoria gli schemi di provvedimento, prima che
siano portati all’approvazione, nonché le delibere di adozione o
approvazione e i relativi allegati tecnici.
Il comma 2, della norma in visore, stabilisce che la documentazione relativa
a ciascun procedimento di presentazione e approvazione delle proposte di
trasformazione urbanistica d’iniziativa privata o pubblica in variante allo
strumento urbanistico generale comunque denominato vigente, nonché delle
proposte di trasformazione urbanistica d’iniziativa privata o pubblica in
attuazione dello strumento urbanistico generale vigente, che comportino
premialità edificatorie a fronte dell’impegno dei privati alla realizzazione
di opere di urbanizzazione extra oneri o della cessione di aree o volumetrie
per finalità di pubblico interesse, è pubblicata in una sezione apposita nel
sito del comune interessato, continuamente aggiornata.
Il comma 3, prevede che la pubblicità degli atti di cui al comma 1, è
condizione per l’acquisizione dell’efficacia degli atti stessi. Il comma 4,
recita, infine, che restano ferme le discipline di dettaglio, previste dalla
vigente legislazione statale e regionale, qualora impongano ulteriori
obblighi.
Sul tema degli obblighi di trasparenza è intervenuta anche l’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC), da ultimo, con la delibera n. 1310 del
28.12.2016, al Paragrafo 8.3. L’ANAC ha chiarito che tra gli atti di governo
del territorio che le amministrazioni sono tenute a pubblicare, ai sensi
dell’art. 39, del d.lgs. n. 33/2013, rientrano anche il Documento
programmatico preliminare contenente gli obiettivi e i criteri per la
redazione del Piano urbanistico generale, nonché i Piani delle attività
estrattive (altrimenti detti Piani cave e torbiere).
L’Autorità, inoltre, ha sottolineato che la pubblicità dei suddetti atti è
condizione per l’acquisizione di efficacia degli stessi, secondo quanto
previsto dal comma 3, del medesimo art. 39.
Da ultimo, si ricorda che:
a) tutte le pubblicazioni vanno previste nella sezione del sito web
del comune denominata Amministrazione trasparente> Pianificazione e governo
del territorio, con aggiornamento tempestivo degli atti da pubblicare;
b) l’obbligo riguarda anche gli atti di pianificazione urbanistica,
approvati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 33 del 2013 (20 aprile
2013), che producono effetti anche dopo tale data (28.04.2019
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ok ai consigli urgenti. Per gli atti
soggetti a termine perentorio. Quando è possibile
riunire l' assemblea dopo la convocazione dei comizi.
E' possibile, dopo la convocazione dei comizi elettorali, dare seguito alla
richiesta di convocazione del consiglio comunale ai sensi dell' art. 39,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?
Ai sensi dell' art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un
periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la
pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare
gli atti urgenti e improrogabili. La previsione legislativa in esame trae la
propria ratio ispiratrice nella necessità di evitare che il consiglio
comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori
adottando atti aventi natura cosiddetta «propagandistica», tali da alterare
la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni
amministrative.
È stato precisato in giurisprudenza che la preclusione disposta dalla citata
norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il consiglio
comunale è chiamato ad operare in pieno esercizio di discrezionalità e senza
interferenze con i diritti fondamentali dell' individuo riconosciuti e
protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l'organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni
vincolate nell'an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano
diritti primari dell'individuo, l'esercizio del potere non può essere
rinviato (Tar Puglia n. 382/2004).
È stato precisato, inoltre, che il carattere di atti urgenti e improrogabili
possa essere riconosciuto agli atti «per i quali è previsto un termine
perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere di
emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la
funzione per la quale devono essere formati o hanno un' utilità di gran
lunga inferiore» (Tar Veneto n. 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto della urgenza e improrogabilità,
è stato osservato che lo stesso «costituisce apprezzamento di merito
insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il
limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale,
ovvero della palese irrazionalità od illogicità della motivazione addotta»
(sentenza Tar Friuli-Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello
dal Consiglio di stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare di questo ministero n. 2 del 07.12.2006,
va rilevato che l'esistenza dei presupposti di urgenza ed improrogabilità
deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne
assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio
interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della
fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante
danno per l'amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel
provvedere.
Pertanto, la richiesta di convocazione d'urgenza del consiglio comunale ai
sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, dovrà
essere valutata alla luce dei criteri ermeneutici sopraindicati (articolo ItaliaOggi del 26.04.2019). |
LAVORI
PUBBLICI: L’affidamento
dei “micro” lavori pubblici tra legge di bilancio e nuovo decreto-legge
32/2019.
Domanda
Vorremmo avere alcuni chiarimenti sull’affidamento degli appalti di lavori
entro i 150mila euro secondo la recente disposizione contenuta nella legge
di bilancio per il 2019 che, espressamente, non esige una procedura
negoziata ma solamente una consultazione tra tre operatori.
E’ possibile
comprendere che differenza esiste tra le due ipotesi?
Risposta
È bene da subito premettere che a far data dal 19.04.2019 l’ipotesi
declinata nel comma 912, art. 1, della legge 145/2018 non è più utilizzabile
da parte del RUP.
Infatti, con l’articolo 1 del recentissimo decreto legge 32/2019 c.d.
Sblocca Cantieri (pubblicato in G.U. il 18.04.2019 n. 92) il comma in
parola è stato abrogato.
Si ricorderà, infatti, che la “durata” della disposizione era prevista fino
all’adozione di una “complessiva revisione del codice dei contratti” – ed al
massimo sarebbe stata utilizzabile fino al 31/12/2019.
Ora, come detto, tale prerogativa è venuta meno. E’ utile comunque
evidenziare che la “semplificazione” ulteriore prevista dalla norma, ovvero
la sola consultazione dei tre operatori senza che si parlasse di procedura
negoziata, era da ritenersi solo “equivoca” in quanto il RUP avrebbe dovuto
comunque avviare almeno un procedimento informale pubblicizzando un avviso a
manifestare interesse e/o utilizzare un già prediposto albo con invito –e
attivazione di una micro competizione– tra, almeno, tre operatori.
Come detto il nuovo decreto legge ha abrogato la previsione prevedendo al
contempo una nuova norma –che in questo caso interessa il micro-affidamento
dei lavori pubblici– innestandola direttamente alla lettera b) del comma 2,
dell’articolo 36.
In questo senso, nel decreto legge 32/2019 si legge che nell’articolo 36 del
codice dei contratti al comma 2, lettera b), le parole “e inferiore a
150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all’articolo 35 per le
forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa consultazione,
ove esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori” sono
sostituite dalle seguenti: “e inferiore a 200.000 euro per i lavori, (…),
mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno
tre operatori economici per i lavori".
Per effetto della modifica appena riportata, limitandoci ai soli lavori
–visto il tema del quesito– la lettera b) dal 19 aprile dispone che gli
“affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 200.000
euro per i lavori” possono avvenire “mediante procedura negoziata previa
consultazione, ove esistenti, di almeno tre operatori economici per i
lavori, (…) L’avviso sui risultati della procedura di affidamento, contiene
l’indicazione anche dei soggetti invitati”.
Come si può notare, nell’odierna disposizione il legislatore è tornato
sull’espressione di procedura negoziata imponendo, quindi, una
formalizzazione delle procedure nell’ambito dei 200mila euro per lavori
pubblici.
Procedura che, ora, può riguardare solo (almeno) 3 operatori e non più 10
come previsto ante decreto legge.
Per il procedimento, evidentemente, rimangono valide le indicazioni fornite
dall’ANAC con le linee guida n. 4, pertanto l’individuazione degli operatori
deve avvenire in modo serio, oggettivo e trasparente.
Nel caso in cui il RUP disponga di un albo di operatori, da questo si potrà
attingere attraverso scorrimento (con obbligatoria applicazione della
rotazione) e successiva richiesta di preventivo.
L’alternativa è data dalla formale indagine di mercato per il tramite di un
avviso pubblico (24.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Dichiarazione
di inconferibilità e incompatibilità.
Domanda
In presenza di affidamento di un incarico, ai sensi dell’art. 110 del TUEL
267/2000, quando è necessario acquisire la dichiarazione prevista dal d.lgs.
39/2013?
Risposta
Nell’ambito delle strategie per prevenire la corruzione nella pubblica
amministrazione, uno dei provvedimenti attuativi della legge Severino (legge
06.11.2012, n. 190) è il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, recante “Disposizioni
in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a
norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”.
Per gli enti locali, le disposizioni normative contenute nel d.lgs. 39/2013
si applicano, solamente, al segretario comunale e ai dirigenti. Negli enti
locali, privi di figure dirigenziali, la norma si applica anche alle
posizioni organizzative [1]
a cui vengono attribuite le funzioni dirigenziali, a mente degli articoli
50, comma 10; 107 e 109, comma 2, del TUEL 18.08.2000, n. 267.
Delimitato l’ambito applicativo della norma, va chiarito che la questione
della dichiarazione sull’insussistenza della cause di inconferibilità e
incompatibilità trova la sua disciplina nell’articolo
20, del d.lgs. 39/2013, laddove si prevede che:
a) all’atto del conferimento dell’incarico –quindi prima che esso
abbia inizio– l’interessato presenta una dichiarazione sulla insussistenza
di una delle cause di inconferibilità del decreto (comma 1);
b) nel corso dell’incarico l’interessato presenta annualmente una
dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilità di
cui al presente decreto (comma 2);
c) le dichiarazioni di cui sopra sono pubblicate nel sito web
dell’ente che ha conferito l’incarico (comma 3),
nella sezione
Amministrazione trasparente > Personale;
d) la dichiarazione sulla insussistenza delle cause di inconferibilità è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico
(comma 4).
Per gli incarichi dirigenziali presenti in un ente locale le situazioni in
cui non è possibile conferire l’incarico (inconferibilità, appunto) sono
essenzialmente tre, disciplinate rispettivamente:
– nell'articolo 3, comma 1;
– nell'articolo 4 comma 1;
– nell'articolo 7, comma 2, del decreto.
Nel primo caso (art.
3, comma 1) si tratta di soggetti condannati, anche con sentenza non
passata in giudicato, per uno dei reati previsti dal
capo I del titolo II
del libro secondo del codice penale, anche nel caso di applicazione della
pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale
(c.d. patteggiamento).
Nel secondo caso (art.
4, comma 1) riguarda soggetti che, nei due anni precedenti, abbiano
svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o
finanziati dall’amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero abbiano
svolto in proprio attività professionali, se queste sono regolate,
finanziate o comunque retribuite dall’amministrazione o ente che conferisce
l’incarico.
L’ultimo caso (art.
7, comma 2), riguarda:
a) i soggetti che nei due anni precedenti siano stati componenti
della Giunta o del Consiglio della provincia, del comune o della forma
associativa tra comuni che conferisce l’incarico (le inconferibilità di cui
al presente articolo non si applicano ai dipendenti della stessa
amministrazione che, all’atto di assunzione della carica politica, erano
titolari di incarichi);
b) i soggetti che nell’anno precedente abbiano fatto parte della
Giunta o del Consiglio di una provincia, di un comune con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la
medesima popolazione, nella stessa regione dell’amministrazione locale che
conferisce l’incarico, nonché a coloro che siano stati presidente o
amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da
parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione.
All’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), in virtù dell’art.
16 del decreto, spetta il compito di vigilare sul rispetto, da
parte delle amministrazioni pubbliche delle disposizioni di cui al d.lgs.
39/2013, anche con l’esercizio di poteri ispettivi e di accertamento di
singole fattispecie di conferimento degli incarichi. In questi anni l’ANAC,
in più circostanze, ha avuto modo di intervenire, con propri atti, sulla
delicata materia del conferimento di incarichi in presenza di situazioni
conclamate o a rischio di inconferibilità o incompatibilità.
Le principali disposizioni dell’ANAC –per coloro che intendessero
approfondire la questione– sono:
– Orientamento n. 4/2014;
– Orientamento n. 99/2014;
– Delibera n. 1001 del 21.09.2016;
– Delibera n. 613 del 31.05.2016;
– PNA 2016, approvato con delibera n. 831 del 03.08.2016, paragrafo
3.7;
– Delibera n. 833 del 03.08.2016;
– Delibera n. 925 del 13.09.2017;
– Delibera n. 207 del 13.03.2019.
Premesso quanto sopra, la risposta al quesito è la seguente:
- la dichiarazione prevista dall’art.
20, comma 1, del d.lgs. 39/2013, relativa all’insussistenza di
cause di inconferibilità dell’incarico di:
– segretario comunale;
– dirigente di ente locale;
– posizione organizzativa, in enti senza la dirigenza;
– incarico ex art. 110 TUEL 267/2000 (enti con o senza dirigenti);
deve essere acquisita prima del conferimento dell’incarico e pubblicata, in
modo tempestivo, nel sito web dell’ente che conferisce l’incarico.
In
assenza della dichiarazione di cui al
comma 1, dell’art. 20, d.lgs. 39/2013, l’atto di nomina non
acquisisce efficacia, con tutte le negative conseguenza che ne consegue.
---------------
[1] Cfr.
art. 2, comma 2, d.lgs. 39/2013 (23.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
segnaletica nelle aree private.
DOMANDA:
L’art. 38/10 C.d.S. prevede che "Nelle aree private non aperte all’uso
pubblico l’utilizzo e la posa in opera della segnaletica, ove adottata,
devono essere conformi a quelli prescritti dal regolamento" e la violazione
a tale obbligo viene sanzionata dall’art. 38/13 C.d.S.. L’art. 75/2 ultima
parte dispone “…su tali strade (tutte quelle indicate nella prima parte), se
non aperte all'uso pubblico, i segnali sono facoltativi, ma se usati, devono
essere conformi a quelli regolamentari.”.
Si chiede se per l'apposizione
della suddetta segnaletica in area privata non aperta all'uso pubblico
quando la stessa preveda obblighi, divieto o limitazioni alla circolazione
stradale è necessaria/possibile la adozione di ordinanza ex art. 7 C.d.S. e
se per la violazione ai precetti contenuti nei segnali apposti possano
essere adottati provvedimenti sanzionatori.
La domanda viene posta in quanto
vengono ricevute richieste in tal senso da parte di soggetti privati.
Da un
esame di alcune disposizioni del Codice della Strada sembra che la risposta
debba essere negativa per le due ipotesi, in quanto l’art. 11/1, lett. a), del
C.d.S. indica quale servizio di polizia stradale la prevenzione e
l’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, l’art.
3/1, n. 9, C.d.S. definisce la circolazione come il movimento, la fermata e la
sosta dei pedoni, dei veicoli e degli animali sulla strada e l’art. 2/1
C.d.S. si definisce la strada l’area ad uso pubblico destinata alla
circolazione.
Infine in merito alla violazione all'art. 38/10 C.d.S.
costituisce illecito sanzionabile il comportamento che vede la collocazione
in aree private non aperte all'uso pubblico di cartelli in materiale
plastico, normalmente acquistabili in ferramenta; riportanti il segnale di
divieto di sosta accompagnato da scritte varie tipo “AREA PRIVATA – DIVIETO
DI SOSTA”?
RISPOSTA:
La circolazione in area privata non aperta all'uso pubblico è disciplinata
dal proprietario dell'area. Non si applicano le norme del Codice della
Strada ad eccezione di quelle che espressamente lo prevedano (per es. art.
38, comma 10 del Codice e art. 75, comma 2 del Regolamento di esecuzione).
Infatti, l'art. 2, comma 1, C.d.S., prevede che "Ai fini dell'applicazione
delle norme del presente codice si definisce "strada" l'area ad uso pubblico
destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali."
Pertanto, il Comune non può regolamentare con propria ordinanza la
circolazione nelle aree private ad uso esclusivamente privato. La
segnaletica "eventualmente apposta" (v. art 75, c. 2, Reg., che ne prevede la
facoltatività) deve essere conforme a quella prescritta nel Regolamento di
esecuzione del codice della strada (art. 38, comma 10, C.d.S.).
La ratio di tale norma è quella di evitare di ingenerare confusione
nella mente degli utenti di tali aree mentre rimane fermo il fatto che non
si applicano le disposizioni previste dal codice per la circolazione sulle
strade ad uso pubblico.
In merito all'ultimo quesito, l'art. 38, comma 13, C.d.S. sanziona "i
soggetti diversi dagli enti proprietari che violano le disposizioni di cui
ai commi 7, 8, 9 e 10" e quindi anche la posa in opera della segnaletica
non conforme a quella prescritta dal regolamento
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: I
permessi orari per motivi personali o familiari.
DOMANDA:
La nuova enunciazione dell’art. 32 CCNL 2018, che subordina l'autorizzazione
di permessi retribuiti alla indicazione di particolari motivi personali o
familiari, ha convinto molti dipendenti che tale giustificativo sia di fatto
il riconoscimento di ulteriori tre giorni di ferie.
Pervengono pertanto
richieste di fruizione di tali permessi o con indicazioni generiche “per
motivi personali” o con le più originali motivazioni. L’unico passaggio
previsto nell'art. 32 per negare il permesso è l’inciso “compatibilmente con
le esigenze di servizio” con una formulazione che sembra invertire l’onere
della giustificazione.
Non è il dipendente a dover giustificare l’assenza,
ma il datore di lavoro a dover giustificare quali esigenze di servizio
impediscano il riconoscimento del diritto all'assenza.
Onde evitare
confusione si chiede se sia possibile all’ente disciplinare la materia,
magari dopo un confronto ex art. 5 CCNL con le organizzazioni sindacali,
individuando le fattispecie/motivazioni per le quali verrà autorizzato il
permesso ed escludendo tutte le altre (prevedendo ovviamente qualche margine
di discrezionalità per casi non previsti) sulla base che il riconoscimento
del permesso è comunque subordinato al bilanciamento di interessi ed anche
la semplice presenza in servizio è da considerarsi una "esigenza di
servizio" prevalente su altre motivazioni.
RISPOSTA:
Si riportano, sul punto, le osservazioni formulate dall’Aran con parere
CFL27 del 30 ottobre scorso. La formulazione dell’art. 32 del CCNL Funzioni
Locali 21.05.2018 in materia di permessi retribuiti non prevede più la
necessità di documentare i motivi e le ragioni per le quali viene richiesto
il permesso, anche se la motivazione, che consente di ricondurre tale tutela
alle esigenze personali e familiari dell’interessato, va, comunque, indicata
nella richiesta avanzata dal dipendente, in quanto la stessa resta il
presupposto legittimante per la concessione del permesso.
Ove la suddetta
richiesta non appaia del tutto motivata o adeguatamente giustificata, a
seguito della comparazione degli interessi coinvolti (interesse del
lavoratore evidenziato nella domanda alla fruizione dei permessi e ragioni
organizzative e di servizio), il datore di lavoro potrà far valere la
prevalenza delle esigenze di servizio, negando la concessione del permessi.
L’ente, tuttavia, non è chiamato in alcun modo a valutare nel merito la giustificatezza o meno della ragione addotta, ma solo la sussistenza di
ragioni organizzative od operative che impediscano la concessione del
permesso.
Quello che emerge dal parere dall’Aran è che -anche nell'ambito
della nuova disciplina dell’istituto- il lavoratore non è titolare di un
diritto soggettivo perfetto alla fruizione dei permessi ed il datore di
lavoro pubblico non è in nessun caso obbligato a concedere gli stessi. Quest’ultimo,
ben può, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, anche
negarne la fruizione, ma solo in presenza di ragioni organizzative od
operative che ne impediscano la concessione.
Al fine di evitare comportamenti e risposte difformi a fronte di richieste
analoghe, è possibile, e anche opportuno, regolamentare -non le fattispecie
per le quali verrebbe autorizzato il permesso, perché in questo caso si
andrebbe a limitare l’ambito della norma contrattuale- bensì le ragioni
organizzative in cui tale permesso può essere negato
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Lo statuto vince sempre. In caso di
contrasto con il regolamento. Gli atti del consiglio comunale restano
efficaci fino all’annullamento.
Può produrre effetti un regolamento sul
funzionamento del consiglio adottato in contrasto con lo statuto comunale?
Che ne è degli atti adottati in coerenza con tale regolamento?
Il caso riguarda un regolamento comunale che, nel fissare il quorum
strutturale per la validità delle sedute a quattro componenti, avrebbe
contraddetto l'art. 21 dello statuto recante «deliberazione degli organi
collegiali». Ai sensi della citata disposizione è previsto, infatti, che
«gli organi collegiali deliberano validamente con l'intervento della metà
dei componenti assegnati».
Il contrasto tra le due fonti normative determinerebbe l'inidoneità della
fonte subordinata, il regolamento del consiglio, a produrre effetti
giuridici. Inoltre, l'illegittimità della norma regolamentare renderebbe
invalide le deliberazioni consiliari eventualmente approvate in contrasto
con la disciplina statutaria vigente.
Per quanto riguarda l'asserito contrasto tra la normativa statutaria e
quella regolamentare, si rileva che in base al principio di gerarchia delle
fonti e in conformità all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000 che
disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi
fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia,
Brescia, n. 2625 del 28.18.2009) dovrebbe prevalere la normativa statutaria.
Nel caso in questione, tuttavia, da un'attenta lettura delle norme
sembrerebbe che l'art. 21 dello statuto detta la disciplina generale per le
deliberazioni «degli organi collegiali» tout court, mentre
l'art. 31 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale rechi la
specifica disciplina del quorum strutturale del consiglio.
In ordine alla validità degli atti adottati dal consiglio comunale in
difformità alle previsioni statutarie in materia di quorum strutturale e,
pertanto, potenzialmente annullabili, si osserva che tali atti conservano la
loro efficacia fino all'eventuale annullamento (articolo ItaliaOggi del 19.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
risposta a quesito su classificazione di "abbaino"
(Regione Emilia Romagna,
nota
18.04.2019 n. 392864 di prot.). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Elezioni, consigli limitati
Da quando decorre il termine previsto dall'art. 38, comma 5, del dlgs n.
267/2000 per la limitazione del potere dei consigli alla adozione dei soli
«atti urgenti e improrogabili»?
Ai sensi dell'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000, i consigli comunali
durano in carica per un periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi,
limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili.
L'art. 38 citato va coordinato in combinato disposto con l'art. 18, comma 1,
del dpr n. 570 del 1960, il quale prevede che il sindaco è tenuto, con la
pubblicazione di un manifesto da effettuarsi 45 giorni prima della data
delle elezioni, a comunicare agli elettori, in quanto soggetti destinatari,
il dispositivo del decreto prefettizio di indizione dei comizi elettorali
con la data fissata per le elezioni.
Al fine di individuare la decorrenza dell'operatività della disciplina
recata dall'art. 38, comma 5, del Tuel, dovrà farsi riferimento in via
esclusiva alla data di pubblicazione del manifesto elettorale previsto
dall'art. 18, comma 1, del dpr n. 570/1960 citato.
Da tale data, pertanto, i consigli comunali saranno tenuti a limitare la
propria attività alla adozione degli «atti urgenti e improrogabili»
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Trasparenza sulle liti. I consiglieri
possono accedere agli atti. Le vertenze che
riguardano l’ente non possono essere coperte da segreto.
Il consigliere comunale può accedere alla copia di una lettera inviata dal
servizio legale interno concernente una diffida ricevuta dall'ente?
L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito
dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo
sull'ente, nell'interesse della collettività; si tratta, all'evidenza, di un
diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al
cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10 Tuel) o, più in
generale, nei confronti della p.a., disciplinato dalla legge n. 241/1990 (cfr.
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014).
Il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le
informazioni utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna
limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il
consigliere è vincolato al segreto d'ufficio; gli unici limiti all'esercizio
del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un
verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor
aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che
ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso,
che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero
meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali
caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al
diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Peraltro, in fattispecie analoga, il Consiglio di stato, sez. V, con
decisione 04/05/2004, n. 2716, riguardo alla normativa prevista dal dpcm n.
200 del 26.01.1996, recante il regolamento per la categoria di documenti
dell'Avvocatura dello stato sottratti al diritto di accesso, ha rilevato che
le limitazioni ivi previste «non possono applicarsi, in via analogica, ai
consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti del massimo
organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti
concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché ai pareri
legali richiesti dall'amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e
poter intervenire al riguardo».
Anche il Tar Lombardia–Milano – con
sentenza n. 2363 del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei
consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune in quanto «non è in
dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di
riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti,
essendo il consigliere tenuto al segreto d'ufficio (v. anche Cons. stato,
sez. V, 05.09.2014, n. 4525)».
Pertanto, anche in presenza di una norma regolamentare che limita l'accesso
agli atti amministrativi relativi a procedimenti «conclusi», la richiesta
appare ammissibile, stante, peraltro, l'obbligo di riservatezza a cui è
tenuto il consigliere comunale
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Incarichi ai consiglieri. Ma senza poteri di
gestione o decisionali.
Affidabili studi e collaborazioni. Preclusi gli atti a rilevanza esterna.
Sono
legittimi gli atti di conferimento di incarichi di studio e approfondimento
ai consiglieri comunali?
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6
del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe
interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la
funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare,
quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi
su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame
e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione
spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua
attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale
quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti
dalle leggi e dallo statuto. Una ristrettissima serie delle funzioni
sindacali può essere delegabile ai consiglieri in virtù di specifiche
previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art.
54 nella sua attività di Ufficiale di governo).
Va osservato, ancora, che il Tar Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una
norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali
in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati
compiti di amministrazione attiva, tali da comportare «l'inammissibile
confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di
controllato». Il Consiglio di stato, con parere n. 4883/2011 (4992/2012) in
data 17.10.2012, ha ritenuto, invece, fondato un ricorso straordinario al
presidente della repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel
prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione
attiva, determinava «una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di
interesse».
La normativa statutaria dell'ente locale, nel disciplinare la materia de
qua, potrebbe prevedere disposizioni che stabiliscano il riparto di
attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando ma non
derogando alle vigenti norme di legge. I provvedimenti in questione non
devono comportare la possibilità di adozione di atti a rilevanza esterna o
di atti di gestione spettanti agli organi burocratici o agli assessori.
Parimenti, i consiglieri comunali incaricati non dovranno avere poteri
decisionali di alcun tipo diversi o ulteriori rispetto a quelli che derivano
dallo status di consigliere (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: risposta a quesito sulla rimozione spontanea di abuso edilizio
(Regione Emilia Romagna,
nota
22.01.2019 n. 87281 di prot.). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Fondo accessorio, dal Mef l’elenco puntuale delle voci che
derogano ai tetti.
Il Ministero dell'Economia e delle finanze ha pubblicato il
parere 18.12.2018 n. 257831 di prot., per un
ente locale, nel quale sono riepilogate tutte le risorse accessorie poste in
deroga ai limiti stabiliti dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
Queste indicazioni sono, infatti, fondamentali per i responsabili della
costituzione dei fondi decentrati, ai fini di una corretta iscrizione nel
fondi delle risorse accessorie, sia del personale del comparto sia
dirigenziali, con la sola necessità di alcune integrazioni dovute a
interventi successivi (decreto semplificazioni, legge di bilancio 2019 e
Sezione delle Autonomie).
Le risorse escluse secondo il Mef
Fino a oggi, anche a fronte di un giurisprudenza contabile non sempre
unitaria, la maggiore preoccupazione, da parte dei responsabili della
costituzione dei fondi delle risorse decentrate, riguarda i possibili
rilievi degli ispettori del Mef in caso di verifica sulla correttezza
allocazione delle risorse finanziarie tra le componenti escluse dai limiti
legislativi. Pertanto, le indicazioni fornite in questo parere da parte
dello stesso ministero preposto a controllare le risorse che possono essere
legittimamente iscritte nei fondi senza incorrere nel divieto di crescita
stabilito dal Dlgs 75/2017, rappresentano una sicurezza ponendo i
responsabili fuori da possibili rischi di danno erariale.
Il parere distingue le risorse escluse -prima delle disposizioni della
legge di bilancio e del decreto semplificazioni- partendo dalle indicazioni
contenute nella relazione illustrativa e tecnica al Dlgs 75/2017, nella
giurisprudenza contabile prevalente e in specifiche disposizioni di legge.
Le risorse escluse previste nella relazione tecnica
Secondo il Mef, nella relazione illustrativa e tecnica al Dlgs 75/2017 -rafforzata anche da pareri prevalenti della giurisprudenza contabile- sono
state indicate una serie di deroghe ai limiti di crescita del salario
accessorio rispetto a quello stanziato nell'anno 2016.
Derogano al principio del contenimento del salario accessorio le risorse non
utilizzate del fondo dell'anno precedente (si tratta delle risorse fisse);
le economie riferite alle prestazioni di lavoro straordinario dell'anno
precedente; i compensi professionali dei legali interni in presenza di
sentenze favorevoli derivanti da condanna alle spese della controparte
(resterebbero, invece, soggette ai limiti le spese compensate); i compensi
Istat riferiti al censimento della popolazione residente; le
sponsorizzazioni, accordi di collaborazione e conto terzi per le attività
non ordinariamente rese, con la sola eccezione della Corte ligure che nella
delibera n. 105/2018 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del
19.07.2018) ha espresso un orientamento favorevole limitatamente ai
rapporti con soggetti privati; i fondi di derivazione comunitaria.
Le risorse escluse secondo la giurisprudenza contabile
La giurisprudenza contabile ha, inoltre, indicato altre ulteriori risorse
non soggette ai limiti di crescita del salario accessorio. Rientrano nella
deroga i piani di razionalizzazione e riqualificazione della spesa (articolo
16, commi 4 e 5, del Dlgs 98/2011); i proventi del codice della strada
limitatamente alla quota «eccedente le riscossioni dell'esercizio precedente
per la parte eventualmente confluita, in aumento nel Fondo delle risorse
decentrate e destinata all'incentivazione di specifiche unità di personale
di polizia locale effettivamente impegnate, nell'ambito dei suddetti
progetti, in mansioni suppletive rispetto agli ordinari carichi di lavoro»
(si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 11 aprile).
Le risorse escluse da specifiche disposizioni legislative
Il legislatore, infine, è intervenuto in modo puntuale prevedendo ulteriori
risorse escluse in presenza delle indicazioni previste dalla normativa. Si
tratta delle prestazioni del personale di polizia locale con oneri conto
terzi (articolo 22, comma 3-bis, del Dl 50/2017); l'armonizzazione del
trattamento accessorio del personale dei centri per l'impiego (articolo 1,
comma 799, della legge 205/2017); l'armonizzazione del trattamento
accessorio del personale delle città metropolitane e delle province
trasferito ad altre pubbliche amministrazioni (articolo 1, comma 800, della
legge 205/2017); le risorse dei rinnovi contrattuali destinate ai fondi per
il trattamento economico accessorio del personale (articolo 11, comma 1,
legge 12/2019); gli incentivi tributari (articolo 1, comma 1091, legge
145/2018)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.04.2019). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: I
dirigenti finiscono sotto tutela. I segretari avocheranno gli atti in caso
di inadempimento. Palazzo Vidoni ha dato l’ok
all’atto di indirizzo per il Ccnl nonostante una norma controversa.
I
segretari comunali potranno avocare gli atti dei dirigenti in caso
inadempimento.
La Funzione pubblica ha dato il suo benestare all'atto di
indirizzo rivolto all'Aran per l'avvio del Ccnl dell'area dirigenza del
comparto Funzioni locali, nonostante la controversa disposizione secondo cui
il contratto dovrebbe attribuire e disciplinare per i segretari comunali un
potere di «avocazione» degli atti dei dirigenti, in caso di inadempimento.
L'indicazione è in contrasto con l'articolo 40, comma 1, del dlgs 165/2001
che fa espresso divieto alla contrattazione collettiva di curarsi di materie
«afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2,
16 e 17»: è evidente che introdurre un potere di avocazione implica proprio
ingerirsi nelle prerogative dirigenziali esplicitamente vietate. Se i
segretari comunali adottassero atti nell'esercizio di un potere di
avocazione, i loro provvedimenti risulterebbero tutti a fondato rischio di
nullità per assoluta carenza di potere. In ogni caso, anche fosse legittima
la clausola contrattuale, la previsione si rivelerebbe una pericolosa arma a
doppio taglio. Nei comuni in particolare vi sono due evidenti rischi
operativi.
Il primo deriva da un legame troppo stretto tra politica ed
apparato dei dirigenti o funzionari responsabili di servizio, che tende a
tenere isolato il segretario comunale. In questo caso, il potere di
avocazione si rivela estremamente rischioso: un tacito accordo tra organi
politici e funzionari potrebbe indurre questi ultimi a non adottare gli atti
più delicati, scaricando indirettamente sul segretario comunale l'onere di
avocarli.
All'opposto, si riscontra non di rado un rapporto non troppo
coordinato tra politica ed apparato; in questi casi il segretario comunale
può fare da filtro e non di rado gli organi di governo si affidano al ruolo
del segretario (ma anche del direttore generale, nei comuni con oltre 100
mila abitanti) per una direzione amministrativa fortemente orientata sulle
esigenze politiche, più che su quelle amministrative.
Il potere di
avocazione del segretario, specie se allettato con la remunerazione
aggiuntiva di direttore generale o comunque con la «personale adesione» alla
parte politica (considerata, incredibilmente, ammissibile dalla sentenza
23/2019 della Consulta) potrebbe essere utilizzato, allora, nel caso di
contrasti tra politica e gestione come strumento per un'ingerenza fortissima
della prima, mediante il segretario comunale, chiamato alla bisogna ad
avocare le decisioni sulle quali non vi sia concordia.
Il contratto collettivo, insomma, si presta a creare molti problemi, senza
per altro alcuna ragione pratica. Il potere di avocazione si collega ad un
rapporto di gerarchia, che però tra segretario comunale da un lato e
dirigenti o funzionari apicali è inesistente, come accertato più volte dalla
Cassazione.
Ma, nei fatti, la norma contrattuale sarebbe anche inutile. La legge,
infatti, disciplina già un rimedio all'inerzia di dirigenti o funzionari: è
l'articolo 2, comma 9-bis, della legge 241/1990, ai sensi del quale «l'organo
di governo individua, nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione,
il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia.
Nell'ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera
attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto
all'ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente» (articolo ItaliaOggi del 17.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale,
il tetto di spesa non è abolito.
Il tetto della spesa di personale pari alla media del triennio 2011-2013 non
è abolito dall'articolo 33 del decreto Crescita (D.L.
30.04.2019 n. 34).
La norma
modifica in modo rilevante il sistema di computo della capacità di spesa
delle regioni e dei comuni (non sono citate province, città metropolitane e
unioni di comuni), passando dal calcolo di una certa percentuale (nel 2019
sarebbe stato il 100%) del costo della cessazione dell'anno precedente, più
resti assunzionali del quinquennio prima, ad una verifica della
sostenibilità finanziaria.
Gli enti possono assumere, infatti, liberamente se la spesa complessiva per
tutto il personale dipendente risulti non superiore a valori soglia distinti
per fasce demografiche riferiti al rapporto tra la spesa del personale e i
primi tre titoli delle entrate del rendiconto dell'anno precedente a quello
in cui viene prevista l'assunzione, considerate al netto del fondo crediti
dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
Alcuni stanno
ponendo il dubbio se queste possibilità di assunzione connesse ad indici di
efficienza finanziaria possano avere l'effetto di scardinare la disposizione
contenuta nell'articolo 1, comma 557-quater, della legge 296/2006, che
impone alle amministrazioni locali di contenere le spese di personale con
riferimento al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in
vigore della presente disposizione, cioè il 2011-2013.
Sebbene in teoria una maggiore libertà di assunzioni, che per gli enti
virtuosi con rapporto spesa di personale-entrate inferiori ai valori soglia
potrà anche risultare potenzialmente superiore al 100% del turnover, possa
lasciar pensare ad un superamento del tetto di spesa di personale, a ben
vedere, in assenza di un'abolizione espressa di tale tetto, non pare possano
evidenziarsi elementi sufficienti per rilevare la sua abolizione tacita.
In
primo luogo, si deve osservare che il tetto di spesa, anche fosse abolito,
lo sarebbe solo per regioni e comuni, non per gli altri enti locali: quindi
non è possibile parlare di abolizione in toto dell'articolo 1, comma
557-quater della legge finanziaria 20017. In secondo luogo, tale ultima
disposizione è chiaramente una previsione di sana e corretta gestione mirata
alla salvaguardia della finanza pubblica: non si deve dimenticare che la
spesa del personale nel suo complesso costituisce circa il 20% del totale
della spesa pubblica.
Quindi, anche sul piano del rispetto dei valori
costituzionali, l'esistenza di una norma che ponga alle amministrazioni
locali un valore massimo di spesa del personale, pur in una logica espansiva
delle assunzioni, appare del tutto possibile e coerente. Viene, quindi, a
mancare l'elemento giuridico fondamentale per rilevare l'abolizione tacita
di una norma: la sua totale ed irrimediabile incompatibilità con una
previsione successiva.
Inoltre, si deve anche rilevare che l'articolo 33 del decreto crescita parla
espressamente del totale complessivo della spesa del «personale dipendente».
Ma, il tetto di spesa di personale da considerare ai fini dell'articolo 1,
comma 557-quater, è leggermente più ampio: infatti, deve comprendere anche
spese non connesse al rapporto di lavoro di dipendenti dell'ente.
Ricordiamo
le spese per collaborazione coordinata e continuativa, contratti di
somministrazione, eventuali compensi corrisposti ai lavoratori socialmente
utili, per il personale di altri enti che operi in convenzione, per
personale utilizzato, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in
strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti
capo all'ente (compresi i consorzi, le comunità montane e le unioni di
comuni), le somme rimborsate ad altre amministrazioni per il personale in
posizione di comando, gli oneri per i segretari anche a scavalco.
Quindi, la spesa di personale considerata dall'articolo 1, comma 557-quater,
della legge 296/2006 è maggiore della spesa di personale calcolata ai sensi
dell'articolo 33 del decreto crescita, il quale non incide, dunque sul sotto
insieme della spesa non connessa ai rapporti di lavoro dei dipendenti. Al
limite, le maggiori capacità assunzionali degli enti virtuosi potranno
risultare utili per ridefinire la spesa, aumentando quella del personale
dipendente e riducendo la rimanente spesa, ben potendo il tutto restare
all'interno del parametro della media 2011-2013.
Non si vede per quale ragione, quindi, il decreto crescita possa essere
considerato capace di portare allo sforamento di un limite di spesa posto a
garanzia degli equilibri dei conti pubblici.
È vero che gli enti incrementando le entrate potrebbero tenere fermo o
migliorare il rapporto tra spesa di personale ed entrate stesse, il che
potrebbe in teoria consentire lo sforamento della spesa. Ma anche in questo
caso, ragioni tutela della finanza pubblica sconsigliano comunque un
incremento complessivo della spesa di personale nel comparto pubblico nel
suo complesso, per quanto finanziabile con un incremento delle tasse, che
per altro potrebbe avere influenze negative sui consumi e quindi sulle
politiche economiche del governo
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2019). |
APPALTI:
Appalti, pagamenti in 30 giorni. Penali per ritardi nei lavori
proporzionate al contratto. Lo prevede la legge
europea 2018 (37/2019) appena pubblicata in Gazzetta Ufficiale.
Nei contratti di appalto pagamenti da effettuare entro 30 giorni.
Obbligo di emissione del certificato di pagamento entro sette giorni
dall'adozione dello stato di avanzamento dei lavori. Tempi stretti di
versamento anche nella fase di collaudo. Penali per il ritardo
nell'esecuzione da parte dell'appaltatore commisurate ai giorni di ritardo e
proporzionali all'importo del contratto.
Lo prevede l'articolo 5 della
Legge
03.05.2019 n. 37 (la cosiddetta legge europea 2018) recante disposizioni per
l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia
all'Unione europea, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 109
dell'11.05.2019. La norma sostituisce integralmente l'articolo 113-bis del
codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n.
50, provvedimento già oggetto di profondi rimaneggiamenti nel 2017 (primo
decreto correttivo) e adesso con il decreto legge n. 32, il cosiddetto
«Sblocca cantieri» che questa settimana dovrebbe essere approvato in
commissione al Senato.
La disposizione novellata dall'articolo 5 della legge
37/2019 introduce alcune novità sia per i pagamenti in acconto (i cosiddetti Sal, stato avanzamento lavori) durante l'esecuzione dei lavori, sia sul
saldo finale (dopo il collaudo) e ponendo l'accento sulla fase di emissione
del certificato di pagamento. Fino ad oggi il limite massimo per l'emissione
dei certificati di pagamento da parte del Responsabile del procedimento (Rup)
sulla base del Sal rilasciato dal direttore dei lavori è stabilito in 30
giorni.
Con la modifica al codice contenuta nella legge 37 viene stabilita
la regola generale dell'emissione contestuale «rispetto all'emissione di
ogni stato di avanzamento dei lavori». Quindi si passa dai 30 ai sette
giorni. Non solo: la nuova versione dell'articolo 113-bis stabilisce che
l'emissione del certificato di pagamento deve essere effettuata
contestualmente all'emissione del Sal e comunque entro un termine massimo di
7 giorni.
L'impresa potrà quindi emettere la propria fattura con tre
settimane di anticipo rispetto ad oggi anche se per il saldo della fattura
rimangono i consueti problemi visto che la disciplina generale (europea e
nazionale) risulta largamente inapplicata dalle amministrazioni pubbliche: a
fronte di un termine di 30 giorni per il pagamento, nella normalità dei casi
passano anche molti mesi dopo l'emissione della fattura prima che l'impresa
riceva il pagamento. La regola infatti sarebbe quella del pagamento degli
acconti entro 30 giorni «salvo che sia espressamente concordato nel
contratto un diverso termine, comunque non superiore a 60 giorni e purché
ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o
da talune sue caratteristiche».
L'articolo 5 si occupa anche della fase di collaudo per la quale si prevede
la stessa procedura: per il pagamento a valle del collaudo: la norma prevede
che all' esito positivo del collaudo o della verifica di conformità, e
comunque entro un termine non superiore a sette giorni dagli stessi, il
responsabile unico del procedimento rilasci il certificato di pagamento ai
fini dell'emissione della fattura da parte dell'appaltatore.
La norma lascia
poi fermo quanto previsto all'articolo 4, comma 6, del decreto legislativo 09.10.2002, n. 231; si tratta della norma che stabilisce che quando è
prevista una procedura diretta ad accertare la conformità della merce o dei
servizi al contratto essa non può avere una durata superiore a 30 giorni
dalla data della consegna della merce o della prestazione del servizio,
salvo che sia diversamente ed espressamente concordato dalle parti e
previsto nella documentazione di gara e purché ciò non sia gravemente iniquo
per il creditore. Questa disposizione, peraltro, prevede che l'accordo deve
essere provato per iscritto.
Altra materia trattata nella legge europea è quella relativa alle penali per
il ritardo nell'esecuzione delle prestazioni contrattuali da parte
dell'appaltatore, che devono essere commisurate ai giorni di ritardo e
proporzionali rispetto all'importo del contratto o alle prestazioni del
contratto. Da questo punto di vista e per quanto concerne l'ammontare delle
penali la legge 37 appena pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, non contiene
novità: le penali saranno calcolate in misura giornaliera compresa tra lo
0,3 per mille e l'1 per mille dell'ammontare netto contrattuale, da
determinare in relazione all'entità delle conseguenze legate al ritardo, e
non possono comunque superare, complessivamente, il 10% dell'importo netto
del contratto (articolo ItaliaOggi del 14.05.2019). |
APPALTI: Beni
e servizi, p.a. meno green. Minor prezzo criterio principe per la scelta dei
fornitori. Il dl Sblocca cantieri modifica le regole per la stipula dei
contratti pubblici sotto soglia.
Dallo scorso 19.04.2019 le pubbliche amministrazioni
che procedono alla stipula di contratti di importi inferiori alle cosiddette
«soglie di rilevanza comunitaria» per acquisire beni e servizi devono
utilizzare nella scelta degli operatori economici cui rivolgersi il criterio
del minor prezzo, potendo ricorrere a quello dell'offerta economicamente più
vantaggiosa (anche dal punto di vista ambientale) solo per espresso obbligo
di legge o scelta motivata.
A ribaltare la gerarchia delle regole di
aggiudicazione dei contratti pubblici è il
D.L. 18.04.2019 n. 32
(meglio noto come «Sblocca cantieri», pubblicato sulla G.U. del giorno
stesso in vigore da quello successivo) attraverso la diretta modifica del dlgs 50/2016 (Codice dei contratti pubblici).
Contratti «sotto soglia», vince il minor prezzo.
Il dl 32/2019, il cui disegno di legge di conferma è già in corsa al
parlamento, ha riformulato gli articoli 36 e 95 del dlgs 50/2016 mutando
radicalmente le regole che le pubbliche amministrazioni devono seguire per
individuare le imprese con cui stipulare i contratti ex articolo 35 del dlgs
50/2016, sostanzialmente coincidenti con quelli inferiori al netto dell'Iva:
ai 5 milioni di euro, se aventi ad oggetto lavori di costruzione,
demolizione, ristrutturazione e simili; a soglie specifiche poste nel range
100-750 mila euro (secondo le declinazioni del citato articolo), se aventi
come controprestazione l'acquisizione di altri servizi o di beni.
In base alle nuove regole in vigore dal 19.04.2019, le p.a. devono (ex neo
comma 9-bis, articolo 36, dlgs 50/2016) procedere «di default»
all'aggiudicazione dei contratti sotto soglia Ue scegliendo l'operatore
economico di riferimento sulla base del criterio minor prezzo, salvo due
casi: negozi relativi a servizi o forniture da attribuirsi per legge in base
al diverso criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (come più
avanti specificati); al di fuori dell'ipotesi precedente, propria decisione
(obbligatoriamente) «motivata» di utilizzare comunque il suddetto criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
I contratti che devono essere affidati in base all'offerta economicamente
più vantaggiosa sono (ex commi 3 e 4, articolo 95, dlgs 50/2016) quelli che
soddisfano contemporaneamente due condizioni: non riguardano servizi e
forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono
definite dal mercato; hanno ad oggetto servizi sociali di ristorazione,
ospedaliera, assistenziale e scolastica, servizi ad alta intensità di
manodopera (salvi quelli sotto i 40 mila euro oggetto di affidamento
diretto), servizi di ingegneria, architettura e altri servizi di natura
tecnica ed intellettuale di importo pari o superiore a 40 mila euro; servizi
e le forniture di importo pari o superiore a 40 mila euro caratterizzati da
notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo.
Ma perde l'ambiente.
In conseguenza del rovesciamento dei criteri operata dal Legislatore del
decreto «Sblocca cantieri» a perdere peso nei contratti «sotto soglia» sono,
come accennato, anche gli standard ambientali previsti dal dlgs 50/2016.
Ricordiamo infatti in che in base all'articolo 95 e seguenti del Codice dei
contratti pubblici l'«offerta economicamente più vantaggiosa» è quella
individuata sulla base del «miglior rapporto qualità/prezzo» oppure
dell'elemento prezzo o costo, secondo un criterio di comparazione
costo/efficacia quale il «costo del ciclo di vita» che comprende, ai sensi
dello stesso Codice, gli aspetti di impatto ambientale dei beni e servizi da
acquisire (tra cui: consumi energetici e di altre risorse; gestione dei
rifiuti prodotti; emissioni di sostanze inquinanti; cambiamenti climatici).
Sempre in base al dlgs 50/2016, strumenti per la valutazione di tali
eco-prestazioni sono i criteri ambientali minimi (c.d. «Cam») stabiliti
mediante dm Minambiente per singole categorie di beni e servizi, ad oggi ben
18 e coprenti oltre 20 categorie tra beni e servizi, quali: lavori di
costruzione, manutenzione, ristrutturazione edili; gestione rifiuti urbani e
verde pubblico; prodotti per igiene; pulizia di edifici; veicoli adibiti a
trasporto su strada; servizi energetici; arredi per ufficio e
apparecchiature informatiche; carta; trattamenti fitosanitari; arredi per
interni; servizi di sanificazione; arredo urbano.
Tutti criteri ambientali
la cui incidenza operativa, con l'allargamento dei contratti pubblici da
aggiudicarsi in base al «minor prezzo», risulta alla luce del dl «Sblocca
cantieri» ora fortemente ridotta (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La mobilità non è più neutrale. Consuma il plafond assunzionale
al pari dei concorsi. Con il dl Crescita le immissioni in ruolo degli enti
locali non sono soggette a vincoli specifici.
Col nuovo sistema di computo delle
capacità degli enti locali di assumere nuovo personale va in pensione il
concetto di neutralità delle assunzioni mediante mobilità.
Nell'ordinamento antecedente l'articolo 33 del dl 34/2019, le assunzioni
sono state consentite entro una certa percentuale del costo delle cessazioni
dell'anno precedente: un turnover finanziario, più che per «teste». Nel 2019
era andato a regime la percentuale del 100% del costo delle cessazioni
dell'anno precedente. Ma, agli enti è sempre stato possibile assumere non
solo mediante concorsi, immettendo nuovo personale nel complesso della p.a.,
bensì anche attraverso mobilità, cioè per trasferimento di lavoratori già
dipendenti pubblici da un ente all'altro.
Questi trasferimenti potevano avvenire anche oltre i vincoli alle
assunzioni, perché non consumavano spazi assunzionali ed erano ovviamente
possibili entro il tetto alla spesa complessiva di personale corrispondente
alla media del triennio 2011-2013 ed erano considerati neutrali dal punto di
vista della spesa pubblica (in quanto il costo del singolo dipendente viene
semplicemente spostato da un bilancio all'altro, senza creazione di nuova
spesa), purché entrambi gli enti fossero soggetti appunto a tetti alle
assunzioni.
Per gli enti locali e le regioni col
D.L.
30.04.2019 n. 34 le cose cambiano. Le
assunzioni non sono più soggette a un vincolo specifico: a ben vedere gli
enti sono lasciati liberi di effettuare discrezionalmente tutta la spesa che
ritengono di investire in nuove assunzioni, consentita dal meccanismo
dell'articolo 39: cioè quel margine di spesa permesso se il singolo ente
dimostri un rapporto tra totale della spesa di personale al lordo degli
oneri, da un lato, e primi tre titoli dell'entrata al lordo del fondo
crediti di dubbia esigibilità, dall'altro, inferiore ai valori-soglia che
saranno definiti da un decreto della Funzione pubblica.
Le assunzioni saranno ammesse entro la differenza in valori finanziari
derivante dalla differenza tra rapporto-valore soglia e rapporto specifico
dell'ente.
La norma, quindi, consente di evidenziare una capacità di spesa complessiva
per nuove assunzioni, che a questo punto non differenzia tra assunzioni per
concorso o per mobilità. Di fatto, entrambe finiscono per consumare il
plafond che si crea se il rapporto del singolo ente risulti inferiore al
valore-soglia: l'assunzione mediante mobilità, infatti, comunque incrementa
la spesa di personale, sempre che non si siano verificati contestualmente
fenomeni simmetrici di riduzione, come pensionamenti o mobilità in uscita o
altre modalità di cessazione di rapporti di lavoro.
A meglio leggere la norma, la sensazione che la mobilità «neutra» non
possa essere più utilizzata come strumento per assumere oltre o, meglio,
accanto ai tetti di spesa secondo le vecchie regole, è rafforzata se si
guarda alle conseguenze previste per gli enti che avranno un rapporto tra
spesa complessiva di personale e primi tre titoli dell'entrata al netto del
fondo crediti di dubbia esigibilità negativo. La norma, infatti, impone a
questi enti due comportamenti. Il primo è la graduale riduzione annuale del
rapporto fino al conseguimento nell'anno 2025 del valore soglia fissato «anche
applicando un turnover inferiore al 100%». Il secondo è l'obbligo
decorrente dal 2025 in capo a chi non avrà conseguito il valore soglia di
applicare «un turnover pari al 30%» fino al conseguimento del
predetto valore soglia.
Come si nota, la norma non parla di una percentuale del costo delle
cessazioni dell'anno o di anni precedenti, ma in modo molto secco consente
(meglio, consiglia) fino al 2025 di effettuare assunzioni entro un turnover
inferiore al 100%; dal 2015 impone un turnover non superiore al 30%.
Poiché la norma parla di turn-over, senza riferire la percentuale al costo
delle cessazioni, appare corretto intendere questo vincolo come riferito
proprio al tasso di sostituzione del personale che cessi dal servizio. È
evidente che per gli enti non virtuosi anche l'assunzione per mobilità, pur
neutra per la finanza pubblica complessiva, se copre il turn-over al 100% o
oltre il 30% consentito, non è ammissibile, perché comunque non abbassa il
costo complessivo del personale, obiettivo conseguibile solo se l'ente non
virtuoso sostituisca molto meno personale di quello che cessi dal servizio,
oppure, o anche congiuntamente, incrementi le entrate dei primi tre titoli,
per conseguire il valore limite previsto dai decreti di Palazzo Vidoni
(articolo ItaliaOggi del
10.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Telecamere,
serve l’ok. Non c’è silenzio-assenso per l’installazione. Interpello del
Ministero del lavoro. Autorizzazione sempre necessaria.
Non c'è silenzio-assenso sulle richieste di autorizzazione all'installazione
d'impianti audiovisivi sui posti di lavoro. Occorre sempre l'emanazione di
un provvedimento espresso, per via della diseguaglianza di posizione tra
imprenditore e lavoratori.
Lo
precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello
08.05.2019 n. 3/2019, rispondendo al consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.
I consulenti hanno chiesto di sapere se opera il silenzio-assenso con
riferimento alle richieste di autorizzazione all'installazione degli
impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo ex art. 4, comma 1,
legge n. 300/1970, sulla base della legge n. 241/1990 laddove dispone che il
silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento dell'istanza.
Il ministero ricorda, innanzitutto, che le norme dell'art. 4 sono
finalizzate a contemperare le esigenze del datore di lavoro con la tutela
della dignità e riservatezza del lavoratore sul luogo di lavoro. Più in
particolare, con tali norme si vuole evitare che l'attività lavorativa
risulti impropriamente e ingiustificatamente caratterizzata da un controllo
continuo e anelastico, tale da eliminare ogni profilo di autonomia e
riservatezza della persona nello svolgimento della prestazione di lavoro.
La
norma dunque affida, in primis, a un accordo tra la parte datoriale e le
rappresentanze sindacali la possibilità d'impiego degli impianti ed altri
strumenti che consentano anche il controllo dell'attività dei lavoratori; in
mancanza di accordo, l'installazione è subordinata all'autorizzazione da
parte dell'Ispettorato del lavoro al quale il datore deve formulare
esplicita richiesta.
Da ciò scaturisce, spiega il ministero, che per effetto
dell'art. 4 citato non è data possibilità di installare e utilizzare gli
impianti di controllo in assenza di un atto espresso di autorizzazione, sia
esso di carattere negoziale (cioè l'accordo sindacale) oppure amministrativo
(il provvedimento dell'ispettorato).
Tale interpretazione, aggiunge il
ministero, è condivisa anche dalla giurisprudenza, la quale ha da ultimo
affermato che «la diseguaglianza di fatto e quindi l'indiscutibile e
maggiore forza economico-sociale dell'imprenditore, rispetto a quella del
lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa
sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita
dall'autorizzazione della direzione territoriale del lavoro» (Cassazione,
sentenza n. 22148/2017), in continuità con un orientamento interpretativo
consolidato in materia
(articolo ItaliaOggi del 09.05.2019). |
APPALTI: Gare,
requisiti a lunga scadenza. Estesa da 10 a 15 anni la validità delle
qualifiche. Le novità più rilevanti per le imprese di costruzioni contenute
nel dl Sblocca cantieri.
Qualificazione delle imprese più facile con
l'estensione da 10 a 15 anni dell'arco della validità dei requisiti.
È una delle principali novità contenute nel
D.L. 18.04.2019 n. 32,
il cosiddetto «Sblocca cantieri», ora all'esame delle commissioni
lavori pubblici e ambiente e territorio del senato. Il decreto, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 92 del 18/04/2019, prevede inoltre le Soa
(Società organismi di attestazione) qualificate come incaricati di funzioni
pubblicistiche e responsabili davanti alla Corte dei conti; la riapertura
degli affidamenti di progettazione esecutiva e costruzione; l'innalzamento
del limite per il subappalto dal 30 al 50%; l'eliminazione dell'obbligo
della terna dei subappaltatori; l'affidamento di lavori entro 200 mila euro
con procedura negoziata senza bando e invito a tre imprese.
Per le imprese di costruzioni rileva, soprattutto, la materia della
disciplina dei requisiti speciali di partecipazione per i lavori (capacità
professionale, economico-finanziaria e tecnico-professionale dei
concorrenti), prima demandata a un decreto del ministro delle infrastrutture
e dei trasporti da adottare, su proposta dell'Anac, entro un anno dalla data
di entrata in vigore del codice. Ora, con il decreto 32, viene rimessa al
regolamento di attuazione di cui all'articolo 216, comma 27-octies, che
sostituirà per determinate materie quanto già uscito in questi tre anni.
Ma la parte più significativa riguarda il sistema unico di qualificazione
degli esecutori di lavori pubblici, in relazione al quale viene aggiunta la
previsione che gli organismi di diritto privato incaricati dell'attestazione
delle imprese, le cosiddette Soa, svolgono funzioni di natura pubblicistica,
anche agli effetti della normativa in materia di responsabilità dinanzi la
Corte dei conti. Si tratta in questo caso della riproduzione di quanto era
precedentemente previsto dal codice in vigore prima della riforma del 2016
(art. 40 del dlgs 163/2006).
Per le imprese di costruzioni, anche in relazione agli effetti
particolarmente negativi dell'andamento del settore negli ultimi anni che,
in alcune categorie di lavori, ha reso particolarmente problematico
attestare l'effettuazione di lavori e quindi mantenere la qualificazione, il
decreto amplia l'ambito temporale rilevante ai fini della prova del possesso
dei requisiti di capacità economica e finanziaria, tecnica e professionale,
portandolo a quindici anni antecedenti rispetto al decennio previsto dal
codice del 2016.
Dal punto di vista delle procedure assume particolare interesse per le
imprese la previsione di una «finestra» per potere fare ricorso
all'affidamento di contratti di progettazione esecutiva e costruzione
(appalti integrati): le amministrazioni, per progetti approvati entro fine
dicembre 2020, potranno appaltare (fino alla fine del 2021) i lavori ponendo
a base di gara il progetto definitivo; a tutela dei progettisti è stata
inserita la disposizione che impone alle stazioni appaltanti di indicare le
modalità per l'obbligo di indicare le modalità per il pagamento diretto del
progettista di cui si avvale l'impresa negli appalti integrati.
Per gli affidamenti di lavori, forniture e servizi (a eccezione di quelli ad
alta intensità di manodopera, dei servizi di ingegneria e architettura e
quelli ad alto contenuto tecnologico o innovativo) di importo inferiore alla
soglia europea (5,2 per lavori, 221 mila per servizi e forniture)
l'affidamento sarà effettuato al prezzo più basso e solo con adeguata
motivazione si ricorrerà al criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa.
Le modifiche procedurali di interesse per le imprese riguardano anche la
scelta di innalzare a 200 mila euro (da 150 mila euro) il tetto per gli
affidamenti di lavori con procedura negoziata senza bando di gara e invito a
tre offerenti. Oltre i 200 mila euro si affiderà invece direttamente con
procedura aperta e con esclusione automatica delle offerte anomale (devono
però essere almeno 10 offerte valide).
Rilevanti le modifiche in tema di subappalto: si innalza dal 30 al 50%
dell'importo complessivo del contratto il tetto per ricorrere al subappalto
e si rimette alla stazione appaltante l'indicazione del ricorso al
subappalto nel bando di gara. Si sopprime la previsione (di cui alla lettera
a) del comma 4 dell'articolo 105 vigente) per cui non può procedersi a
subappalto qualora l'affidatario del subappalto abbia partecipato alla
procedura per l'affidamento dell'appalto.
Il decreto legge stabilisce inoltre che il subappaltatore, qualificato nella
relativa categoria, deve essere altresì in possesso dei requisiti morali di
cui all'articolo 80 del codice. Il provvedimento elimina inoltre la norma
che subordinava la possibilità di subappalto a che il concorrente dimostri
l'assenza in capo ai subappaltatori dei motivi di esclusione di cui
all'articolo 80.
Infine si abroga la disposizione (di cui al comma 6 dell'articolo 105) che
prevedeva l'obbligatoria indicazione della terna di subappaltatori in sede
di offerta, per appalti di lavori, servizi e forniture di importo pari o
superiore alle soglie comunitarie, o, indipendentemente dall'importo a base
di gara, che riguardassero le attività maggiormente esposte a rischio di
infiltrazione mafiosa (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
La pausa pranzo non è per tutti. Diritto incompatibile con un
orario inferiore alle 6 ore. Lo ha precisato il ministero del lavoro.
Principio valido anche per buoni pasto e mensa.
Resta a bocca asciutta il dipendente che lavora meno
di sei ore a giorno. In tal caso, infatti, non ha diritto alla pausa pranzo
o al servizio mensa aziendale. Per questa ragione non ha diritto né alle
pause pranzo né ai buoni-pasto neppure le lavoratrici in allattamento che,
godendo dei relativi riposi giornalieri, lavorano meno di sei ore al giorno.
A precisarlo è stato il ministero del
lavoro nell'interpello 16.04.2019 n. 2/2019 (si
veda ItaliaOggi del 17 aprile).
La pausa sul lavoro.
La questione riguarda il diritto alla pausa pranzo, e alla conseguente
attribuzione del buono pasto o alla fruizione del servizio mensa, da parte
delle lavoratrici che, fruendo dei riposi giornalieri per allattamento (due
ovvero un'ora giornaliera, anche cumulabili, a seconda che l'orario di
lavoro sia o meno superiore a sei ore), sono presenti al lavoro per cinque
ore e 12 minuti, cioè per una durata inferiore a sei ore giornaliere, limite
eccedendo il quale scatta il diritto all'intervallo mensa.
L'Ispra (istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale) ha
chiesto al ministero di sapere se, in questi casi, si deve procedere alla
decurtazione dei 30 minuti della pausa pranzo e se, per altro verso, la
lavoratrice ha facoltà di rinunciare alla pausa pranzo e/o al buono pasto,
per non vedere decurtare le ore considerate come lavoro effettivo.
La disciplina sulle «pause» di lavoro, e, in particolare, sulla pausa
pranzo, è prevista all'art. 8 del dlgs n. 66/2003. La norma, in via di
principio, stabilisce che qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il
limite di sei ore, il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per
pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti
collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e
dell'eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro
monotono e ripetitivo.
In difetto di disciplina collettiva, che preveda un intervallo a
qualsivoglia titolo attribuito, aggiunge sempre l'art. 8, al lavoratore deve
essere comunque concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l'inizio
e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a
dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche
del processo lavorativo.
I due istituti (riposi per allattamento e pausa pranzo), ha spiegato il
ministero, hanno scopi distinti: il primo è volto a favorire la
conciliazione tra la vita professionale e vita familiare; il secondo è
finalizzato al recupero delle energie e all'eventuale consumazione del pasto
con la relativa norma che non sembra lasciare dubbi circa il riferimento ad
attività lavorativa effettivamente prestata. Ciò premesso, secondo il
ministero è da escludere che una presenza effettiva della lavoratrice nella
sede di lavoro per cinque ore e 12 minuti dia diritto alla pausa. Pertanto,
non si deve procedere alla decurtazione dei 30 minuti dal totale delle ore
effettivamente lavorate dalla lavoratrice.
La mensa? È
retribuzione in natura. Il servizio mensa è uno degli esempi di retribuzione
in natura. In mancanza di una definizione di legge, per retribuzione in
natura (numerosi sono i casi) s'intende l'insieme delle prestazioni di beni
o servizi, di una determinata utilità, a favore del lavoratore o dei suoi
familiari.
I casi più frequenti sono, come detto, il servizio mensa, l'alloggio per i
portieri o i domestici, il vitto e il vestiario, l'uso del riscaldamento. In
altre ipotesi, soprattutto con riferimento a soggetti che svolgono mansioni
dirigenziali, la retribuzione in natura può consistere nell'utilizzo di beni
o di servizi specifici (l'auto, per esempio) che vengono chiamati
normalmente «fringe benefits».
Il problema che si pone riguardo alla retribuzione in natura è quello della
sua quantificazione ai fini dell'incidenza su altri istituti retributivi,
per esempio sul tfr (trattamento fine rapporto lavoro) e della
determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi
previdenziali da versare all'Inps.
Nello specifico della mensa, essa consiste nel mettere a disposizione dei
dipendenti il servizio pasti durante l'intervallo di lavoro realizzato
mediante:
• una mensa aziendale interna con gestione propria o affidata in
appalto ad apposita ditta;
• una mensa esterna presso apposite strutture;
• attribuzione di buoni pasto di un determinato valore, da
utilizzare in esercizi e negozi convenzionati.
In alcuni casi, in mancanza del servizio, il datore di lavoro è tenuto a
concedere l'indennità sostitutiva, cioè una quantificazione monetaria, che
può essere corrisposta anche in presenza del servizio mensa qualora il
lavoratore non lo utilizzi.
I buoni pasto, che possono essere utilizzati anche quando l'orario di lavoro
non prevede una pausa per il pasto (dm n. 122/2017); sono incedibili;
possono essere cumulati per essere usati contemporaneamente fino al limite
di otto; non possono essere commercializzati o convertiti in denaro; sono
utilizzabili soltanto dal titolare esclusivamente per l'intero valore
facciale.
La somministrazione del pasto o le prestazioni sostitutive del servizio
mensa sono soggette al regime di imponibilità indicato in tabella
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Comuni, assunzioni più libere.
Premiati i virtuosi. Turnover sganciato dalle cessazioni. Il
decreto Crescita lega i reclutamenti al peso della spesa per stipendi sulle
entrate correnti.
Per
regioni e comuni virtuosi future assunzioni più libere.
La novità è prevista
nel decreto crescita (D.L.
30.04.2019 n. 34) che punta a sganciare i nuovi
reclutamenti dalle cessazioni, misurando l'ampiezza del turnover in base al
peso della spesa per il pagamento degli stipendi sulle entrate correnti.
In
pratica, si potrà assumere a tempo indeterminato sino ad una spesa
complessiva (al lordo degli oneri riflessi a carico dell'amministrazione)
non superiore ad un valore soglia definito come percentuale, differenziata
per fascia demografica, delle entrate relative ai primi tre titoli del
rendiconto dell'anno precedente, al netto del fondo crediti dubbia
esigibilità.
Quindi, dopo oltre un decennio di vincoli parametrati sui risparmi derivanti
dalle cessazioni di personale intervenute negli esercizi precedenti (con un
complesso meccanismo di recupero dei «resti» non utilizzati), il legislatore
cambia rotta: il budget assunzionale dipenderà esclusivamente dalla
sostenibilità delle uscite, misurata in relazione alla capacità finanziaria
ordinaria. Chi spende meno in rapporto a quanto incassa potrà assumere di
più, chi spende di più (sempre in rapporto alle entrate) avrà margini
inferiori.
Sarà un decreto della Funzione pubblica, da adottare di concerto con il Mef
e il Viminale e previa intesa in Conferenza, ad individuare le fasce
demografiche e i relativi valori soglia per fascia demografica. Gli enti che
avranno un rapporto fra la spesa di personale e le entrate correnti sopra
soglia dovranno avviare un percorso di graduale riduzione fino al
conseguimento del predetto valore soglia, anche applicando un turn-over
inferiore al 100%.
Peraltro, il decreto attuativo potrà anche individuare le percentuali
massime annuali di incremento del personale in servizio per coloro che si
collocano al di sotto del predetto valore soglia. Il che lascia comunque
aperta la possibilità di far rientrare dalla finestra le vecchie regole
appena uscite dalla porta. Le nuove assunzioni, inoltre, saranno consentite
a condizione che vi sia coerenza con i piani triennali dei fabbisogni di
personale e fermo restando il rispetto pluriennale dell'equilibrio di
bilancio asseverato dall'organo di revisione.
La norma precisa, infine, che «il limite al trattamento accessorio del
personale di cui all'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 27.05.2017, n. 75 è adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l'invarianza
del valore medio pro capite, riferito all'anno 2018, del fondo per la
contrattazione integrativa nonché delle risorse per remunerare gli incarichi
di posizione organizzativa, prendendo a riferimento come base di calcolo il
personale in servizio al 31.12.2018».
Ciò significa che gli enti cui sarà permesso di assumere più personale di
quello cessato in precedenza, potranno incrementare il fondo rispetto
all'omologa voce di spesa del 2016, mentre gli altri, cui verrà chiesto di
contenere la spesa, potrebbero invece vedersi costretti a tagliarlo (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
APPALTI: Contratti, meno vincoli per la p.a..
Aggiudicazioni sottosoglia Ue con il massimo ribasso. Novità dello «Sblocca
cantieri»: centrale unica non obbligatoria, ritorno a progettazioni
incentivate.
Niente
obbligo di centralizzazione della domanda per comuni non capoluogo di
provincia; ritorno alla progettazione interna «incentivata», ma anche
semplificata; più spazio per gli affidamenti con procedura negoziata;
aggiudicazione dei contratti sotto soglia Ue con il prezzo più basso.
Sono
queste alcune delle principali scelte, destinate alle pubbliche
amministrazioni, operate dal
D.L. 18.04.2019 n. 32 («Sblocca
cantieri») che ha iniziato questa settimana il suo iter parlamentare al
senato, con l'obiettivo di avviare l'esame dei singoli articoli dopo il 7
maggio e nell'auspicio di giungere in aula il 17 maggio. Poi il testo, dopo
le elezioni europee, passerà alla camera (il provvedimento dovrà comunque
essere convertito entro il 17 giugno).
Un primo intervento importante sul fronte delle pubbliche amministrazioni
riguarda il tema generale della qualificazione delle stazioni appaltanti e
della riduzione del loro numero (si puntava all'epoca a una sforbiciata di
circa il 70%). Su questo, prima del decreto 32 i comuni non capoluogo di
provincia dovevano affidare contratti o ricorrendo centrali di committenza
(stazione unica appaltante o centrali di unioni di comuni) o soggetti
aggregatori qualificati.
Con il decreto «Sblocca cantieri» l'obbligo diventa una facoltà perché al
posto della parola «procede» si scrive «può procedere direttamente e
autonomamente oppure…».
Sempre guardando al mondo delle amministrazioni rileva la scelta di
intervenire a favore dei tecnici interni alle stazioni appaltanti che fra i
loro compiti hanno anche la progettazione (cosiddetta progettazione
interna), ma che dal 2016 fino al 18.04.2019 non potevano più contare
sull'incentivo (una quota del 2% del valore dell'opera) previsto dall'art.
113 del codice dei contratti pubblici.
Tutto cambia con il decreto «Sblocca cantieri»: si torna alla progettazione
«incentivata». Non solo, si aggiunge anche la progettazione cosiddetta
«semplificata»: per le manutenzioni ordinarie e per quelle straordinarie (ad
eccezione degli interventi che prevedano il rinnovo o la sostituzione di
parti strutturali) si potrà anche prescindere dalla predisposizione del
progetto esecutivo.
Andando avanti, si passa poi alla fase di aggiudicazione dei contratti dove
si prevede l'innalzamento da 150 mila a 200 mila della soglia per gli
affidamenti di lavori con procedura negoziata senza bando e invito di tre
operatori economici, contratti di piccolo importo guarda caso proprio di
interesse dei comuni non capoluogo di provincia. Oltre i 200 mila euro,
invece, si utilizzerà direttamente la procedura aperta con applicazione
dell'esclusione automatica delle offerte anomale. Sì perché, in altra
disposizione, si inserisce la regola generale (sotto soglia Ue) che si deve
aggiudicare al prezzo più basso, tranne che (motivando) si scelga il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Rimangono fuori da quest'obbligo i servizi sociali e di ristorazione, quelli
di ingegneria e architettura e quelli ad alta intensità di manodopera sempre
da affidare misurando il rapporto qualità-prezzo. Dovrebbe semplificare
anche l'inversione procedimentale della verifica dei requisiti (prima si
esaminano le offerte e poi si guardano i requisiti).
Infine, altro punto sensibile nel mondo delle pubbliche amministrazioni, il
decreto riapre alla possibile nomina dei commissari di gara, anche solo
parzialmente, da parte della stazione appaltante in caso di indisponibilità
o di disponibilità insufficiente di esperti iscritti nella sezione ordinaria
dell'Albo Anac
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
APPALTI: Mercato elettronico, aumentano le incertezze sui requisiti degli operatori.
Il decreto sblocca cantieri aumenta le incertezze sui requisiti generali che
deve possedere l'operatore economico aggiudicatario o affidatario di
contratti attraverso i mercati elettronici.
I commi 6-bis e 6-ter inseriti nell'art. 36 dal
D.L. 18.04.2019 n. 32 non hanno creato
un sistema solido per garantire che la p.a. contratti solo con imprese in
regola con la rilevante quantità di requisiti di carattere generale, imposti
dall' art. 80 del codice stesso.
Il nuovo comma 6-bis stabilisce che «ai fini dell'ammissione e della
permanenza degli operatori economici nei mercati elettronici di cui al comma
6, il soggetto responsabile dell'ammissione verifica l'assenza dei motivi di
esclusione di cui all' art. 80 su un campione significativo di operatori
economici».
Da un lato, quindi, Consip e soggetti competenti a gestire i
mercati elettronici regionali o i soggetti aggregatori sono sollevati dal
compito di verificare il possesso dei requisiti nei confronti degli
operatori ammessi, tramite i vari bandi di selezione generale, a presentare
offerte ai fini degli ordini diretti o ad accreditarsi per le procedure di
selezione. Infatti, solo un campione di tali operatori economici sarà
soggetto ai controlli.
È evidente che l'intento della norma consiste nel semplificare le
operazioni, anche dal lato delle imprese, puntando sempre di più sul valore
delle dichiarazioni sostitutive.
La scelta operata non porrebbe alcun problema, se fosse corroborata
dall'attribuzione alle amministrazioni appaltanti del compito di effettuare
a valle delle procedure selettive le verifiche quanto meno sui soggetti
selezionati o aggiudicatari a seguito di gara.
Sta di fatto, però, che il comma 6-ter dispone: «Nelle procedure di
affidamento effettuate nell'ambito dei mercati elettronici di cui al comma
6, la stazione appaltante verifica esclusivamente il possesso da parte
dell'aggiudicatario dei requisiti economici e finanziari e tecnico
professionali».
Vi è quindi un'ulteriore semplificazione: l'utilizzo dei mercati elettronici
consente, sì, di limitare le verifiche ai soli aggiudicatari; però, come
indica la norma piuttosto perentoriamente, dette verifiche si limitano ai
requisiti previsti dall'art 83 senza estendersi a quelli generali previsti
dall' art. 80 del codice.
Sembra evidente che la semplificazione perseguita dal legislatore col
combinato disposto dei commi 6-bis e 6-ter dell'art. 36 rischi la creazione
di forti vuoti: parecchi operatori economici potrebbero contrattare con la
pubblica amministrazione senza mai una verifica preventiva sui loro
requisiti generali.
Una situazione che genera ovvi rischi di qualità, ma
anche evidenti sperequazioni tra imprese: infatti, queste restano soggette a
controlli capillari nei casi di procedure ordinarie o comunque al di fuori
dei mercati elettronici; operatori economici che intendano restare più
nell'ombra potrebbero limitarsi ad accreditarsi esclusivamente in questi
mercati ed aspirare a non entrare mai a far parte del campione, evitando
comunque il fastidio dei controlli anche nel caso dell'aggiudicazione.
Il problema della verifica dei requisiti è divenuto molto grave perché non
ha mai visto la nascita l'unico modo per semplificare davvero il sistema: la
Banca dati nazionale degli operatori economici, prevista dall' art. 81,
comma 1, del codice, ma attesa almeno dal 2012.
La banca dati dovrebbe contenere «la documentazione comprovante il possesso
dei requisiti di carattere generale, tecnico-professionale ed economico e
finanziario, per la partecipazione alle procedure» di gara «e per il
controllo in fase di esecuzione del contratto della permanenza dei suddetti
requisiti». Se funzionasse davvero, i controlli risulterebbero estremamente
semplici: basterebbe che ogni stazione appaltante potesse accedere per
controllare il possesso dei requisiti.
Il comma 6-bis inserito nell'art. 36, sul tema si limita a stabilire che i
soggetti titolari dei mercati elettronici effettueranno le loro verifiche (a
campione o estese a tutti?) dalla data di entrata in vigore del decreto di
cui all'art. 81, comma 2, del codice. Ma non aggiunge altro, come se, una
volta vigente il sistema centralizzato, avessero senso ancora controlli solo
a campione.
C'è infine il problema di coordinare questa disciplina con il nuovo comma 5,
ultimo periodo, dell'art. 36, ai sensi del quale «resta salva, dopo
l'aggiudicazione, la verifica sul possesso dei requisiti richiesti ai fini
della stipula del contratto». Norma che chiede, come appare ovvio, il
controllo dei requisiti per l'aggiudicatario.
Non si capisce, però, se sia un obbligo valevole solo per le procedure sotto
soglia non svolte mediante mercati elettronici, oppure un principio generale
da rispettare per qualsiasi procedura di individuazione del contraente
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettisti, la paga è certa.
La stazione garantirà il pagamento al tecnico. Lo sbloccacantieri arriva in Senato. Termine emendamenti il 7 maggio.
Pagamenti più sicuri per i progettisti che partecipano a gare
pubbliche. Le stazioni appaltanti, infatti, dovranno indicare nei documenti
di gara le modalità per la «corresponsione diretta» della quota del compenso
destinato agli oneri di progettazione. Il rapporto economico, quindi, non
sarà più tra progettista e impresa ma direttamente tra professionista e
stazione appaltante.
È quanto
prevede un articolo del cosiddetto «decreto sbloccacantieri» (D.L. 18.04.2019 n. 32),
il cui testo è stato incardinato ieri in commissione lavori pubblici del
Senato. Il termine finale per la presentazione degli emendamenti è stato
fissato alle ore 18 del prossimo 7 maggio.
Il decreto opera una serie di modifiche al codice degli appalti (decreto
50/2016), cambiandone circa un terzo degli articoli (si veda ItaliaOggi del
20.04.2019). Tra le novità, spicca la nuova forma di tutela per i
compensi dei progettisti, con l'aggiunta del comma 1-quater all'articolo 59,
in cui si afferma che nel caso l'operatore economico si avvalga di uno o più
progettisti, la stazione appaltante dovrà indicare nei documenti di gara le
modalità per la corresponsione «diretta» del compenso.
In sostanza, non si
interviene sul livello dei compensi (la cui definizione rimane di competenza
dell'operatore economico, ovvero dell'impresa che partecipa alla gara) ma,
piuttosto, sulla certezza che gli stessi vengano elargiti al progettista:
infatti, i soldi non passeranno più dalle imprese ma direttamente dalle
stazioni appaltanti. In questo modo dovrebbe essere scongiurato il rischio
che l'impresa, una volta terminato il lavoro, non corrisponda il compenso
dovuto al professionista.
Una disposizione di tenore simile era già presente
nella vecchia versione del codice degli appalti, ma era prevista come
opportunità: da oggi, se il testo rimarrà lo stesso dopo il passaggio
parlamentare, diventerà un obbligo. Previste misure anche per i tecnici
delle pubbliche amministrazioni: verrà ripristinato l'incentivo del 2% per
la fase di progettazione.
La reintroduzione dell'incentivo ha suscitato una
serie di reazioni negative tra i professionisti tecnici, in particolare tra
ingegneri ed architetti: «Queste misure rappresentano un duro colpo e un
attacco alla dignità degli architetti e ingegneri liberi professionisti», ha
dichiarato il presidente di Inarcassa Egidio Comodo. «La reintroduzione
dell'incentivo del 2% rischia di avvantaggiare i soli dipendenti pubblici e
svilire il ruolo dei liberi professionisti».
Ma l'approvazione dello sbloccacantieri ha portato ad altre critiche, in particolare per una norma
(art. 1, num. 4, lettera n) che recita: «un operatore economico può essere
escluso dalla partecipazione di una procedura d'appalto se la stazione
appaltante è a conoscenza e può adeguatamente dimostrare che lo stesso non
ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o
dei contributi previdenziali non definitivamente accertati».
Sono proprio
queste ultime parole ad aver alimentato le polemiche, in quanto sarebbe
prevista una esclusione di professionisti e imprese che non abbiano ricevuto
una sentenza definitiva di non regolarità fiscale, previdenziale e
contributiva. Se l'impostazione della norma non verrà modificata in
Parlamento, c'è il rischio concreto che vengano escluse dagli appalti
pubblici imprese verso le quali aleggiano dei semplici sospetti di mancati
pagamenti non ancora definitivamente accertati dall'Agenzia delle entrate
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sfalci
urbani, deroghe ridotte. Fuori dal regime dei rifiuti solo se residui non
pericolosi. La legge europea 2018 limita l’esonero dal Codice ambientale a
potature dei comuni.
Sfalci e potature prodotti dalla manutenzione del
verde urbano gestibili fuori dal regime dei rifiuti solo se provenienti da
aree pubbliche appartenenti a enti comunali.
Con la legge europea 2018, approvata in via
definitiva dal parlamento il 16 aprile scorso, il legislatore nazionale ha
ristretto il novero dei residui verdi che non soggiacciono alle stringenti
regole sui rifiuti nel tentativo di riparare lo scollamento prodotto dalla
legge 154/2016 tra norme nazionali e direttiva 2008/98/Ce e ottenere la
chiusura della relativa procedura di verifica di compatibilità avviata dall'
Ue nel 2017.
Le nuove disposizioni.
La legge europea 2018 (annuale strumento, insieme alla «legge di
delegazione», per adeguare l'Ordinamento interno alle novità Ue) modifica
l'articolo 185 del dlgs 152/2006 in materia di esclusioni dal campo di
applicazione delle norme sui rifiuti eliminando in toto le deroghe
(introdotte dalla legge del 2016) a favore dei residui da attività agricole
e agro-industriali e riducendo, nei termini accennati, quella per gli sfalci
del verde urbano.
In base al nuovo articolo 185 del Codice ambientale l'esclusione dalla
disciplina sui rifiuti dettata dalla Parte IV del dlgs 152/2006 riguarderà
in futuro solo i seguenti residui verdi: «la paglia e altro materiale
agricolo o forestale naturale non pericoloso quali, a titolo esemplificativo
e non esaustivo, gli sfalci e le potature effettuati nell' ambito delle
buone pratiche colturali, nonché gli sfalci e le potature derivanti dalla
manutenzione del verde pubblico dei comuni, utilizzati in agricoltura, nella
silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di
fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi
o metodi che non danneggiano l' ambiente né mettono in pericolo la salute
umana».
Cosa cambia. La
novità nodale riguarda la riduzione delle categorie «nominali» di residui
che potranno, una volta in vigore le nuove disposizioni, godere di una
esclusione dalla disciplina sui rifiuti.
Tale riduzione avviene con tre
interventi sostanziali: in primo luogo la legge Ue 2018 ripristina un regime
generale di deroga per il solo «materiale agricolo o forestale naturale non
pericoloso»; in secondo luogo cancella la maxi specifica esclusione prevista
dall'uscente articolo 185 del dlgs 152/2006 per la «paglia, gli sfalci e le
potature provenienti dalle attività di cui all'articolo 184, comma 2,
lettera e), e comma 3, lettera a)» dello stesso dlgs 152/2006» (ossia,
quella a favore di: residui vegetali da giardini, parchi, aree cimiteriali;
rifiuti derivanti da attività agricole e agro-industriali); in terzo luogo,
introduce al posto della citata maxi specifica esclusione una mini deroga
«nominale» al regime dei rifiuti, limitata questa volta a «gli sfalci e le
potature derivanti dalla manutenzione del verde pubblico dei comuni».
Per la
sua particolare collocazione sistematica all' interno dell' articolo 185 del dlgs 152/2006 (si veda la tabella riportata in pagina), la nuova mini deroga
nominativa a favore di sfalci e potature del verde pubblico appare essere
ancora più stretta del mero dato testuale.
Poiché, infatti, detti residui da
manutenzione del verde pubblico dei comuni vengono indicati dalla nuova
formula legislativa come un sottoinsieme («esemplificativo») dell'insieme
«materiale naturale non pericoloso» gestibile fuori dal regime dei rifiuti,
per poter godere di tale regola devono rispettarne le caratteristiche
qualitative prima ancora che di provenienza. Da ciò sembrerebbe dunque
derivare il delicato onere, per gli operatori intenzionati ad agire fuori
dalla disciplina sui rifiuti, di accertare la natura non pericolosa dei
materiali in questione.
Sul punto appare opportuno ricordare che La Corte di
giustizia Ue con la recente sentenza 28.03.2019 (cause riunite C-487/17 e
C-489-17 ha ricordato che in base al principio di precauzione ambientale di
matrice comunitaria se dopo una valutazione «quanto più possibile completa»
ci si trovi nell' impossibilità di determinare la presenza di sostanze
pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che un residuo può
presentare, questo devono senz' altro essere classificato come rifiuto
pericoloso.
Ulteriore novità introdotta dalla legge Ue 2018 è la precisazione che gli
sfalci e le potature devono essere «effettuati nell' ambito delle buone
pratiche colturali».
La compatibilità con il diritto Ue.
La riformulazione dell' articolo 185 del Codice ambientale è stata
effettuata per rispondere ai rilievi sollevati dall'Ue (Caso Eu-Pilot
9180/17/ENVI) sulla non conformità della normativa nazionale a quanto
previsto dalla direttiva 2008/98/Ce sui rifiuti.
Sebbene in misura attenuata rispetto alla precedente formulazione, anche il
tenore del nuovo articolo 185 del dlgs 152/2006 appare però (come
emergerebbe anche dalla documentazione dei lavori parlamentari) non essere
pienamente allineato con le norme comunitarie di riferimento.
L'articolo 2 della direttiva 2008/98/Ce, infatti, anche nel testo risultante
dalla riformulazione effettuatane a opera dell'omonimo provvedimento
2018/851/Ue (facente parte del cd.
«pacchetto economia circolare», in vigore dal 04.07.2018) riserva l'espressa escludibilità dal regime dei rifiuti ai soli residui verdi
coincidenti con «paglia e altro materiale agricolo o forestale naturale non
pericoloso utilizzati nell' attività agricola, nella selvicoltura o per la
produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non
danneggiano l' ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Da un confronto con il testo della direttiva, il nuovo testo dell'
articolo 185 appare essere disallineato almeno sotto due profili: in primis,
laddove conserva una (mini) deroga a favore di sfalci e potature derivanti
dalla manutenzione del verde pubblico dei comuni (che oltre a non essere
contemplati tra le esclusioni ex articolo 2 della direttiva 2008/98/Ce sono
invece ricompresi nella definizione di «rifiuti organici» ex successivo
articolo 3); in secundis per il (continuare a) prevedere la
possibilità di gestire gli scarti vegetali fuori dal regime dei rifiuti
anche ove siano portati al di fuori del luogo di produzione o oggetto di
cessione a terzi (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Appalti, niente tagliola.
Ricorsi al Tar anche post aggiudicazione. Il
dl Sbloccacantieri cancella la disposizione del Codice contratti.
Stop
alla tagliola ai ricorsi amministrativi negli appalti. Dal 19 aprile scorso,
data di entrata in vigore del
D.L. 18.04.2019 n. 32 (il cosiddetto Sbloccacantieri), risulta semplificata la procedura per presentare ricorsi
al tribunale amministrativo regionale in materia di appalti.
Il decreto,
infatti, ha eliminato il meccanismo introdotto nel 2016 dal Codice dei
contratti pubblici (dlgs 50/2016) che aveva come obiettivo la riduzione del
contenzioso negli appalti. Parliamo del rito super-accelerato, che prevedeva
un vero e proprio sbarramento alle contestazioni attinenti ai requisiti di
partecipazione alla gara.
In sintesi, attraverso tale procedimento, si
stabiliva che l'ammissione di un concorrente alla gara andasse impugnata al Tar immediatamente, senza la possibilità di attendere l'esito della
procedura. In caso di mancato ricorso contro le ammissioni, si determinava
la cristallizzazione della rosa dei concorrenti, venendo meno la possibilità
di contestazioni successive alla comunicazione dell'aggiudicazione.
Il rito super-accelerato, previsto dagli articoli 29 e 204 del dlgs 50/2016 e
dall'art. 120, commi 2-bis e 6-bis, del Codice sul processo amministrativo,
recepiva l'obiettivo della legge delega 11/2016 (articolo 1, comma 1, lett.
bbb) di razionalizzare il processo in materia di appalti attraverso una
«preclusione della contestazione di vizi attinenti alla fase di esclusione
dalla gara o ammissione alla gara nel successivo svolgimento della procedura
di gara».
L'introduzione del rito super-accelerato aveva fatto sorgere un'accesa
discussione tra gli addetti del settore. Le critiche maggiori hanno
riguardato il superamento del consolidato principio secondo cui, per poter
ricorrere alla magistratura amministrativa, è necessario avere un interesse
diretto, concreto e attuale. Presupposto che mancherebbe durante la fase
delle ammissioni, in quanto, non essendo ancora stata stilata la
graduatoria, l'eventuale accoglimento del ricorso non determinerebbe
l'aggiudicazione della gara in favore del ricorrente.
Tali questioni sono
approdate anche nella aule dei tribunali amministrativi, nonché innanzi la
Corte costituzionale e la Corte di giustizia dell'Unione europea. In
particolare il Tar Puglia-Bari nel 2018 (con ordinanze n. 903 e 109) ha
rimesso per ben due volte la questione, tuttora pendente, innanzi alla
Consulta per possibile violazione, tra l'altro, degli articoli 3, 24 e 111
della Costituzione. Il Tar Piemonte, invece, con ordinanza n. 88/2018, ha
sollevato la questione innanzi alla Corte di giustizia Ue.
Quest'ultima, con
la recente ordinanza del 14/02/2019 (causa C-54/18), si è pronunciata
ritenendo compatibile l'istituto con il diritto europeo. In particolare, il
giudice europeo, ha ritenuto prevalenti le esigenze di rapida definizione
delle procedure rispetto alle possibili limitazioni all'esercizio del
diritto di difesa. Ciò a patto che il termine per contestare le ammissioni
venga fatto decorrere dal giorno in cui il concorrente sia messo in
condizione di conoscere la documentazione presentata in gara agli altri
concorrenti, tramite accesso agli atti.
La decisione di abrogare il rito super-accelerato determina un positivo
impatto sull'attività delle imprese. Queste avranno a disposizione maggiori
strumenti per contestare l'esito delle procedure di gara. Soprattutto sarà
possibile attenderne l'esito per valutare, in base alla propria posizione in
graduatoria, se il ricorso possa determinare chance di aggiudicazione. In
tale modo, si potranno anche evitare inutili contenziosi posti in essere in
via preliminare al solo scopo di ridurre il numero dei potenziali avversari
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2019). |
APPALTI: Appalti,
obbligatorio motivare la scelta delle procedure sotto soglia.
Obbligatorio motivare la scelta di utilizzare le procedure sotto soglia e la
scelta degli operatori economici da invitare.
Molte amministrazioni avevano
sperato che il
D.L. 18.04.2019 n. 32, cosiddetto «Sblocca cantieri» rendesse realmente
più lineare l'utilizzo delle cosiddette «procedure semplificate» regolate
dall'articolo 36 del codice dei contratti, ma sono rimaste deluse. Il testo
modificato dell'articolo 36 si limita solo a ridurre le soglie delle
procedure semplificate e consente di invitare solo tre operatori economici
per gli appalti di lavori di importo compreso tra i 40 mila e i 200 mila
euro (le aziende da invitare per forniture e servizi comprese tra 40 mila
euro e la soglia comunitaria restano 5); ma, lascia totalmente in piedi
tutti i problemi operativi connessi alle procedure sotto soglia.
Per un
verso, il dl 32/2019, pur ispirato al divieto posto dalla normativa europea
di introdurre nella normativa nazionale norme ulteriori che aggravino il
peso della regolazione (divieto di gold plating) ha mantenuto il deleterio
«principio di rotazione». Un rompicapo, mai risolto dalle Linee Guida Anac,
sulla portata del quale la giurisprudenza è divisa da anni e che,
interpretato come impedimento dell'affidatario di una selezione di mercato
(il principio appare senza dubbio applicabile nel caso di affidatario senza
alcuna selezione), pare in chiarissimo contrasto con la tutela della
concorrenza e dell'apertura dei mercati.
Per altro verso, prime
indiscrezioni sul contenuto dello «Sblocca cantieri» avevano illuso che nel
caso di affidamenti diretti o di affidamenti a un limitato numero di
operatori economici, come nell'ipotesi prevista dall'articolo 36, comma 2,
lettera b), sarebbe stato eliminato l'obbligo di motivare la scelta del così
ridotto lotto di aziende da invitare. Così non è stato. Cambiano solo in
parte le soglie per gli affidamenti semplificati dei lavori, ma non cambia
per nulla l'impianto complessivo.
Dunque, gli enti, ai sensi del comma 1
dell'articolo 36, che consente di procedere con gli affidamenti sotto soglia
in alternativa alle procedure ordinarie, dovranno continuare in primo luogo
a spiegare perché utilizzano la procedura «semplificata» invece di quella
ordinaria. Soprattutto, dovranno continuare a corroborare le determinazioni
a contrattare della necessaria ed approfondita motivazione che sta alla base
della scelta dei tre imprenditori da invitare alla selezione nel caso di
appalti di lavori, e dei cinque nel caso di forniture e servizi. Sempre con
l'ostacolo della rotazione. Quindi, continua l'onere di selezionare le ditte
da invitare a seguito delle indagini di mercato o della costituzione
dell'elenco degli operatori economici, come previsto dalle Linee Guida Anac,
che restano in vigore finché non siano riviste dal regolamento di attuazione
del codice, la cui emanazione dovrebbe intervenire entro i prossimi sei
mesi.
Poiché proprio l'onere di motivare la scelta delle aziende da
invitare, nonché le complesse procedure connesse all'indagine di mercato e
alla gestione dell'elenco dei fornitori erano, insieme col principio di
rotazione, i veri e propri ostacoli procedurali (confermati dall'ondivaga
giurisprudenza su questi temi) nella sostanza il dl 32/2019 con riferimento
alle procedure sotto soglia «semplificate» non ha semplificato assolutamente
nulla. L'unico elemento di riduzione dei pesanti oneri amministrativi si
riscontra nel nuovo comma 5 dell'articolo 36, che consente la cosiddetta
«inversione procedimentale» in fase di apertura delle buste.
La norma permette alle stazioni appaltanti di esaminare le offerte
economiche prima di verificare la documentazione relativa al possesso dei
requisiti di carattere generale e di quelli di idoneità e di capacità degli
offerenti, purché l'esercizio di detta facoltà sia previsto nel bando di
gara o nell'avviso con cui si indice la procedura e purché si verifichino
sempre le condizioni di ammissibilità del miglior offerente e di un campione
predeterminato degli altri operatori economici.
Di fatto serve a poco nel caso delle procedure di cui all'articolo 36, comma
2, lettera b), poiché invitare solo tre operatori per i lavori e cinque per
forniture e servizi non costituisce un grave problema operativo
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2019). |
APPALTI: Opere pubbliche, la Ue
accelera sui pagamenti. Stato di avanzamento lavori da saldare in 7 giorni
alle imprese.
Entro sette giorni dall'adozione dello stato di avanzamento lavori (Sal)
deve essere emesso il certificato di pagamento.
Lo stabilisce la legge di
delegazione europea, approvata in via definitiva, che corregge l'articolo
113-bis del codice dei contratti pubblici rendendo più rapido l'iter di
pagamento delle imprese affidatarie di appalti pubblici da parte delle
stazioni appaltanti. La disposizione introduce alcune novità sia per i
pagamenti in acconto (i Sal durante l'esecuzione dei lavori) sia sul saldo
finale (dopo il collaudo) e si focalizza sull'emissione del certificato di
pagamento.
Ad oggi, il tempo limite per l'emissione dei certificati di pagamento da
parte del responsabile del procedimento (Rup) sulla base del Sal rilasciato
dal direttore dei lavori è stabilito in 30 giorni. Con la modifica al codice
contenuta nella Legge europea viene stabilita la regola generale
dell'emissione contestuale «rispetto all'emissione di ogni stato di
avanzamento dei lavori», introducendo come limite massimo «un termine non
superiore a sette giorni» contro gli attuali trenta.
Con il nuovo 113-bis si stabilisce che l'emissione del certificato di
pagamento deve essere contestuale all'emissione del Sal (stato avanzamento
lavori) e comunque entro un termine massimo di sette giorni.
Il primo effetto è quindi quello di ridurre termine, inizialmente fissato
dal codice in un mese, di 23 giorni. L'impresa potrà quindi emettere la
propria fattura con tre settimane di anticipo rispetto ad oggi anche se per
il saldo della fattura rimangono i consueti problemi, visto che la
disciplina generale (europea e nazionale) risulta largamente inapplicata
dalle amministrazioni pubbliche: il pagamento effettivo dei compensi
contrattuali dovrebbe arrivare entro i successivi 30 giorni, ma la normalità
dei casi vede imprese che ricevono i pagamenti molti mesi dopo l'emissione
della fattura. La regola sarebbe quella del pagamento degli acconti entro
trenta giorni «salvo che sia espressamente concordato nel contratto un
diverso termine, comunque non superiore a 60 giorni e purché ciò sia
oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da
talune sue caratteristiche».
Stessa regola per il pagamento a valle del collaudo: la norma prevede che
all'esito positivo del collaudo o della verifica di conformità, e comunque
entro un termine non superiore a sette giorni dagli stessi, il responsabile
unico del procedimento rilasci il certificato di pagamento ai fini
dell'emissione della fattura da parte dell'appaltatore. Rimane, però, il
problema del momento dal quale decorrono i sette giorni perché (per gli
acconti) il momento dell'«adozione di ogni stato di avanzamento dei lavori»
è comunque sempre rimesso alla stazione appaltante. E di questa
discrezionalità le stazioni appaltanti fanno grande uso cosicché la norma,
sia pure corretta, risulta nella sostanza elusa.
Peraltro va ricordato che la Commissione europea, con riguardo alla eccepita
legittimità di clausole contrattuali sui pagamenti previste da alcuni atti
di gara emessi da Anas e Rfi, ha ribadito, prima delle recenti modifiche,
che i pagamenti degli stati di avanzamento lavori devono comunque avvenire
entro 30 giorni dalla data di emissione del Sal
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2019). |
APPALTI: Appalti, più flessibilità per i centri minori.
Più flessibilità sugli affidamenti diretti, consentendo per i lavori sotto i
40 mila euro la deroga ai principi di libera concorrenza, non
discriminazione e proporzionalità. Rendere facoltativi la previsione dei
criteri minimi ambientali e dell'appalto digitale nei contratti di lavori e
servizi sotto i 209 mila euro. Unificazione delle funzioni di Rup
(Responsabile unico del procedimento) e responsabile dei servizi nei comuni
sotto i 5 mila abitanti. Discrezionalità della scelta dei legali sulla base
di un elenco predisposto dagli enti. Superamento del principio di rotazione
negli affidamenti sotto soglia in modo da mettere al riparo i sindaci dei
piccoli comuni dalla spada di Damocle dell'imputazione per abuso d'ufficio o
turbativa d'asta che rischia di scattare ogni qual volta un ente si affida
per piccoli lavori a ditte di fiducia. Centrali uniche di committenza solo
per i lavori a partire da 209 mila euro.
Sono alcune delle tante
osservazioni tecniche sull'applicazione del Codice appalti illustrate dall'Anpci
lo scorso 9 aprile in audizione dinanzi alla Commissione lavori pubblici del
senato che ha avviato un'indagine conoscitiva sul dlgs n. 50/2016.
A
illustrare le problematiche che i piccoli comuni vivono ogni giorno e che
necessitano di snellimento, adeguamento e rimodulazione è stato l'ingegner
Roberto Sella, sindaco di Lozzolo (Vc) e referente Anpci per la provincia di
Vercelli. Il messaggio che l'Anpci ha voluto lanciare nell'audizione è che
c'è bisogno di semplicità normativa e applicativa sia per le esigenze
quotidiane dei piccoli comuni che per i lavori più grandi. Le proposte dell'Anpci
hanno suscitato un vivace dibattito in commissione.
Il senatore Agostino
Santillo (M5S) ha condiviso quanto esposto da Anpci in materia di rotazione
dei lavori, pur ribadendo la necessità che nei comuni più grandi essa
continui a essere applicata per evitare che i lavori vengano assegnati
sempre alle stesse imprese. Il senatore Emanuele Dessì (M5S) ha rimarcato la
necessità di dotarsi di un sistema semplice ed efficace per controllare le
aziende, affinché non siano solo delle «scatole vuote», e le ditte
subappaltatrici.
Infine è intervenuta la senatrice Simona Pergreffi (Lega)
che ha condiviso la necessità di rapporti fiduciari soprattutto per i lavori
ordinari e le prestazioni di servizi a cui ogni giorno il comune deve
provvedere, cosa che cozza con il principio della rotazione. Anche l'Asmel,
l'Associazione per la modernizzazione e la sussidiarietà degli enti locali,
ha partecipato al ciclo di audizioni sul codice appalti.
Il segretario
generale dell'associazione, Francesco Pinto, ha consegnato al presidente
della ottava commissione, Mauro Coltorti, una proposta concreta per evitare
di continuare a procedere con misure tampone in attesa del varo del Codice.
La proposta Asmel prevede il mantenimento dell'attuale Codice, ma depurato
da tutte quelle norme inserite in violazione del divieto di «gold plating»,
ossia quelle norme irragionevolmente dettagliate che rinviano ad atti
successivi, legislativi e para legislativi.
Al loro posto, Asmel propone il
ripristino del vecchio Regolamento, il dlgs 207/2010, opportunamente
aggiornato. Asmel ha affidato il lavoro di «ripulitura» del Codice allo
studio legale internazionale Nctm. «Abbiamo così predisposto un contenitore
normativo che potrà essere integrato con le diverse opzioni di modifica che
governo e parlamento intendessero inserire nel percorso di trasformazione»,
ha dichiarato Pinto
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2019). |
VARI: La
class action cambia pelle. Per ottenere i risarcimenti occorre un doppio
passaggio. Molte le modifiche apportate dalla legge
approvata in via definitiva dal parlamento.
Nuova
class action: doppio passaggio per ottenere i risarcimenti. Procedure
automatizzate per l'adesione alla classe. «Quota lite» per gli avvocati che
rappresentano la classe. Sono numerose le modifiche apportate all'istituto
della class action dalla legge approvata in via definitiva dal senato il 3
aprile e ora in attesa di pubblicazione in G.U.
Le novità però avranno una gestazione lenta, visto che entreranno in vigore
dopo 12 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta e varranno per i danni commessi
successivamente. Entro tale termine, il ministero della giustizia dovrà
approvare una serie di provvedimenti per: a) disciplinare le attività che
dovranno essere compiute tramite il portale telematico; b) individuare i
requisiti per l'iscrizione nell'elenco delle organizzazioni e associazioni
legittimate all'azione di classe, nonché determinare il contributo dovuto ai
fini dell'iscrizione e del mantenimento della stessa.
Le principali novità.
Innanzitutto la trasmigrazione della disciplina dal codice del consumo (dlgs
206/2005) al codice di procedura civile, con l'inserimento di un nuovo
titolo nel Libro IV sui Procedimenti speciali. La nuova collocazione
consegue al carattere «generalista» della nuova class action, sia sotto il
profilo oggettivo che soggettivo. L'istituto non è più infatti collegato
alla materia del «consumo», piuttosto a tutte le circostanze a seguito delle
quali dall'attività di aziende private e enti gestori di servizi pubblici o
di pubblica utilità sia derivata una lesione a diritti individuali omogenei
(i cosiddetti mass torts).
Non vi è più dunque la limitazione soggettiva del dover essere «un
consumatore», e oggettiva, potendo l'azione di classe riguardare qualsiasi
situazione soggettiva maturata a fronte di condotte lesive delle aziende.
Il nuovo procedimento.
Il nuovo titolo del Libro IV è intitolata ai Procedimenti collettivi. In
particolare l'azione di classe si svolgerà in due step. Il primo,
finalizzato alla ordinanza di ammissibilità della class action, viene
introdotto con ricorso e segue esclusivamente il rito sommario ordinario nel
tribunale delle imprese del distretto dove ha sede l'azienda resistente. Le
cause di inammissibilità replicano le attuali. Ammessa l'azione di classe e
pubblicata l'ordinanza nel portale del ministero della giustizia (a fine di
pubblicità legale), entro 60 giorni sarà possibile presentare altre azioni
di classe basate sugli stessi presupposti.
Nuove modalità di adesione alla classe.
Dopo l'ammissione della class action ha inizio la procedura «progressiva»,
con le nuove modalità di adesione, che potrà avvenire immediatamente dopo la
ordinanza di ammissibilità (tra i 60 e i 150 giorni); o anche dopo la
sentenza (tra i 60 e 150 giorni).
Nel procedimento, l'acquisizione delle prove penalizzerà con una sanzione
amministrativa pecuniaria sia la parte che rifiuta senza giustificato motivo
di esibire le prove, sia alla parte o al terzo che distrugge prove rilevanti
ai fini del giudizio; la sanzione è devoluta alla Cassa delle ammende.
La sentenza che accoglie l'azione di classe, adottata dal tribunale delle
imprese, ha carattere «dichiarativo» sull'accertamento della responsabilità,
stabilisce le caratteristiche dei diritti individuali che possono far parte
della classe, quale documentazione le parti sono tenute a produrre, sui
diritti al risarcimento o alla restituzione, nomina il giudice delegato e il
rappresentante comune degli aderenti (con stessi requisiti del curatore
fallimentare).
La stessa sentenza provvede sulle domande risarcitorie e
restitutorie, ma solo se esse sono proposte da soggetti diversi da
associazioni organizzazioni. Infatti per queste ultime, la nuova disciplina
rimanda al giudice delegato. Sarà quest'ultimo ad accogliere le adesioni e a
condannare al pagamento delle somme dovute ad ogni aderente, con un decreto
che è titolo esecutivo. La procedura di adesione è informatizzata: la
domanda di adesione va inviata mediante posta elettronica certificata (Pec)
o servizio elettronico di recapito certificato qualificato (Serc) e non
richiede l'assistenza del difensore;
Accordi transattivi.
È una ulteriore novità, per favorire conciliazioni tra le parti prima della
sentenza. La prima proposta può essere formulata dal tribunale prima della
discussione orale della causa. Dopo la sentenza che accoglie l'azione, il
rappresentante comune degli aderenti può stipulare con l'impresa o con
l'ente gestore di servizi pubblici o di pubblica utilità un analogo schema
di accordo di natura transattiva.
La quota lite per l'avvocato che rappresenta gli aderenti. Viene
disciplinato il compenso derivante dalla cd. quota lite, cioè una somma che,
a seguito del decreto del giudice delegato, il resistente deve corrispondere
al rappresentante comune degli aderenti e al difensore del ricorrente. Si
tratta di un compenso ulteriore, quindi, rispetto alla somma che il
resistente dovrà pagare a ciascun aderente come risarcimento. Tale somma
costituisce una percentuale dell'importo complessivo che il resistente dovrà
pagare, calcolata in base al numero dei componenti la classe in misura
inversamente proporzionale (la percentuale scende all'aumentare del numero
dei componenti), sulla base di sette scaglioni. Tali percentuali possono
essere modificate con decreto del ministro della giustizia.
L'azione inibitoria.
In base alla riforma, con l'azione inibitoria collettiva «chiunque abbia
interesse» (nonché le organizzazioni e alle associazioni iscritte
nell'elenco del ministero della giustizia) può chiedere al giudice di
ordinare a imprese o enti gestori di servizi di pubblica utilità: la
cessazione di un comportamento lesivo di una pluralità di individui ed enti
commesso nello svolgimento delle rispettive attività; o il divieto di
reiterare una condotta commissiva o omissiva.
---------------
Le associazioni di categoria temono l'inefficacia delle
norme.
Buone intenzioni ma norme poco efficaci, quando non dannose. Potremmo
sintetizzare così le osservazioni che alcune associazioni di categoria hanno
indirizzato alle nuove norme in materia di class action, nei documenti
depositati in Parlamento durante il dibattito parlamentare. Preoccupa
soprattutto il doppio step, «merito» affidato al tribunale delle imprese e
«risarcimento» affidato al giudice delegato che, nonostante i tempi
tassativi previsti per la procedura, si annuncia farraginoso e time spending.
Consiglio nazionale dei consumatori e utenti. Pur apprezzando i
significativi miglioramenti, il Cncu ha evidenziato che sotto diversi
aspetti alcune norme segnano un «grave arretramento» della disciplina
attuale sia in termini di legittimazione ad agire sia con riguardo alle
azioni inibitorie e risarcitorie.
AltroConsumo. Pur
apprezzando le finalità di ampliamento dell'azionabilità di classe,
l'associazione di consumatori, ha evidenziato criticità nella natura
puramente dichiarativa della sentenza di accoglimento, «inappropriata e
peggiorativa»; e nel rinvio obbligatorio della condanna a favore degli
aderenti a una fase successiva alla sentenza, eccessivamente e inutilmente
complessa, lunga e costosa.
Ha rilevato inoltre la farraginosità dei passaggi della fase post-sentenza e
delle relative adesioni, per le quali il ddl prevede meccanismi
eccessivamente complessi (sostanzialmente mutuati dal processo
fallimentare), destinati a divenire ostacoli insuperabili per l'adesione
degli interessati, oltre che richiedere tempi lunghi e incerti di
definizione.
Confindustria.
Molto critica sulla estensione della disciplina a tutte le ipotesi di
illecito extracontrattuale, che «rischia di vanificare le finalità di
economia processuale dello strumento, nonché l'effettività dello stesso» e
sulla previsione di una fase per l'adesione successiva alla sentenza di
accoglimento, «uno dei punti più critici». Non piace il «poderoso incentivo
all'azione di classe» tramite la cosiddetta quota lite, numerose previsioni
di carattere processuale e la mancata previsione di rimedi per eventuali
danni di immagine dell'impresa resistente in caso di rigetto della domanda.
Confcommercio.
Rileva positivamente che la conseguenza immediata dell'ampliamento del campo
d'applicazione dell'istituto, sul piano soggettivo, consiste nell'estensione
anche alle imprese della possibilità di esercitare un'azione di classe che
la disciplina attualmente vigente invece esclude.
Ma lamenta l'esclusione
della possibilità di intentare azioni collettive di tipo risarcitorio anche
nei confronti della Pa che costituirebbe un importante strumento offerto a
cittadini ed imprese per stimolare comportamenti efficienti e virtuosi delle
amministrazioni pubbliche ed un efficace deterrente per contrastare
comportamenti contrari al buon funzionamento.
Denuncia il permanere nel
testo di forti elementi di criticità che potrebbero penalizzare
eccessivamente l'attività d'impresa e, al contempo, incentivare il numero di
contenziosi meramente speculativi, incrementando il carico già eccessivo dei
procedimenti pendenti dinnanzi ai tribunali italiani le cui attività
verrebbero ulteriormente ingolfate (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.04.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Valutazione, arbitrati per le liti.
La conciliazione non si configura come ricorso gerarchico. Non si applicano
le regole di revisione dei provvedimenti di stampo pubblicistico.
Alla
conciliazione a tutela del lavoratore pubblico che non concorda sulla
valutazione ricevuta ai fini della produttività non si applicano le regole
di revisione dei provvedimenti di stampo pubblicistico, ma quelle di
disciplina del rapporto di lavoro.
L'articolo 7, comma 2-bis, del dlgs
150/2009 come novellato (forse non del tutto opportunamente) dall'articolo 5
del dlgs 74/2017, stabilisce che nei sistemi di valutazione sono previste,
altresì, «le procedure di conciliazione, a garanzia dei valutati, relative
all'applicazione del sistema di misurazione e valutazione della
performance».
Molte amministrazioni ritengono che la procedura di
conciliazione possa, nella sostanza, coincidere con un procedimento volto ad
ottenere un riesame di un soggetto diverso dal valutatore, dotato del potere
quindi di rivedere l'esito della valutazione. Nella gran parte dei casi, il
procedimento viene configurato come una sorta di ricorso gerarchico.
Si tratta di un errore di configurazione della procedura e dei diritti in
gioco. La valutazione espressa nei confronti dei dipendenti non è un
provvedimento amministrativo, bensì un atto di natura privatistica di
gestione del rapporto di lavoro, che come tale è adottato dai dirigenti (o,
nei comuni che ne sono privi, dai funzionari posti ai vertici delle
strutture), nell'esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, ai sensi
dell'articolo 5, comma 2, del dlgs 165/2001.
Non emergono, quindi,
possibilità di ricorso gerarchico di carattere amministrativo, trattandosi,
invece, di tutela di diritti soggettivi. La combinazione, poi, degli
articoli 7, 8 e 9, del dlgs 150/2009 assegna in via esclusiva agli organismi
indipendenti di valutazione o nuclei di valutazione la pronuncia sugli
obiettivi organizzativi e sul risultato dei dirigenti; a questi ultimi (o ai
funzionari apicali) la valutazione dei risultati individuali del personale
non avente qualifica dirigenziale.
Se la conciliazione, allora, non può consistere in un ricorso gerarchico,
essa altro non può essere se non una procedura conciliativa ed arbitrale, di
natura speciale, regolabile per analogia con le disposizioni degli articoli
da 410 a 412-quater del codice di procedura civile. In effetti, poiché la
valutazione è un atto del datore di lavoro, adottato come presupposto per
quantificare un eventuale premio di produttività, il lavoratore può sempre
tutelarsi rivolgendosi al giudice del lavoro.
I sistemi di valutazione potrebbero anche non specificare procedure
conciliative, limitandosi a richiamare le norme di conciliazione del codice
di procedura di civile, nel caso di potenziale contrasto tra valutatore e
valutato. Qualora, invece, si intendesse regolare la «conciliazione», di
fatto si introdurrebbe una disciplina conciliativa, analoga a quella
prevista dall'articolo 412-quater del codice di procedura civile.
Il sistema
di valutazione deve disciplinare il modo per costituire un collegio di
conciliazione e arbitrato irrituale, composto da un rappresentante del
lavoratore, un rappresentante del datore di lavoro (che potrebbe comunque
coincidere col medesimo valutatore) e da un terzo membro, in funzione di
presidente, scelto di comune accordo dalle parti. Questo collegio è chiamato
a promuovere la conciliazione tra le parti, in assenza della quale resta
comunque la facoltà di ciascuna delle parti di adire l'autorità giudiziaria
e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato previste
dalla legge.
Laddove il sistema di valutazione regolasse il collegio di conciliazione nel
rispetto pieno dell'articolo 412-quater del codice di procedura civile, nel
caso di mancata conciliazione detto organo potrebbe spingersi fino alla
decisione della controversia: in questo caso l'arbitro della parte datoriale
non può coincidere col valutatore, né può essere l'Oiv o un suo componente
o, nei comuni, il segretario generale; lo stesso, a maggior ragione, vale
per il presidente, in quanto occorre garantire la terzietà maggiore
possibile dei componenti del collegio.
Se, invece, l'organo di conciliazione
richiami solo per analogia l'articolo 412-quater, non potrà spingersi fino
alla decisione della «controversia», ma eventualmente invitare il valutatore
a meglio motivare la propria decisione, qualora non intenda conciliare. In
ogni caso il lavoratore potrà comunque decidere di tutelarsi direttamente
davanti al giudice o attivare le procedure conciliative previste dal codice
di procedura civile (articolo ItaliaOggi del 12.04.2019). |
ENTI LOCALI: Spese ordinarie,
fondi limitati. Non sono finanziabili con gli avanzi.
L'avanzo
non può (più) finanziare spese ordinarie.
Tale possibilità, un tempo
ammessa, anche se solo in assestamento, è venuta dopo la riforma contabile
imposta dal dlgs 118/2011. Per le altre tipologie ammesse, inoltre, vale uno
stringente ordine di priorità, per cui l'ente può destinare l'avanzo a spese
di investimento o a spese correnti non permanenti solo in mancanza acclarata
di debiti fuori bilancio e di criticità sugli equilibri.
Resta salva la facoltà di impiegare l'eventuale quota del risultato di
amministrazione «svincolata», in occasione dell'approvazione del rendiconto,
sulla base della determinazione dell'ammontare definitivo della quota del
risultato di amministrazione accantonata per il Fcde, per finanziare lo
stanziamento riguardante il medesimo fondo nel bilancio di previsione.
L'avanzo di amministrazione non vincolato non può essere utilizzato dagli
enti che si trovino in una delle situazioni previste dagli artt. 195 e 222
del Tuel, ossia a quelli che utilizzano entrate a specifica destinazione o
che fanno ricorso ad anticipazioni di tesoreria.
A livello procedurale, a rendiconto approvato, è sempre necessaria la
deliberazione consiliare, fatta eccezione per la quota vincolata su economie
di spesa derivanti da stanziamenti dell'esercizio precedente, per cui basta
una determinazione del responsabile del servizio finanziario o (se previsto
dal regolamento di contabilità) dal responsabile della spesa.
Nessun problema, invece, per gli equilibri di competenza: dopo la
cancellazione del pareggio di bilancio, disposta dalla legge 145 in
attuazione delle sentenze n. 247/2017 e 101/2018 della Corte costituzionale,
l'avanzo è sempre rilevante e non necessita di essere nuovamente «coperto».
Ciò, secondo le recenti stime dell'Ufficio parlamentare di bilancio,
garantisce un potenziale incremento degli investimenti dell'ordine di circa
4 miliardi di euro (articolo ItaliaOggi del 12.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità bloccata per 5 anni.
I dipendenti neoassunti non possono cambiare sede. Lo
prevede la legge di conversione del decretone su Reddito di cittadinanza e
Quota 100.
Mobilità
bloccata per cinque anni negli enti locali, per i dipendenti neoassunti. La
legge 26/2019, di conversione del dl 4/2019 (su reddito di cittadinanza e
quota 100) introduce una novità rilevante per la gestione del personale alle
dipendenze di regioni ed enti locali.
L'articolo 14-bis della legge 26/2019, infatti, inserisce nel corpo
dell'articolo 3 del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, un nuovo comma
5-septies, ai sensi del quale «i vincitori dei concorsi banditi dalle
regioni e dagli enti locali, anche se sprovvisti di articolazione
territoriale, sono tenuti a permanere nella sede di prima destinazione per
un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce
norma non derogabile dai contratti collettivi».
È piuttosto evidente la stretta somiglianza di questa disposizione con
quella contenuta, da ben prima, nel comma 5-bis, dell'articolo 35 del dlgs
165/2001: «I vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima
destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente
disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi».
Entrambe le previsioni sono finalizzate a consentire ai dipendenti neo
assunti di trasferirsi volontariamente presso un altro ente, anche di
comparto diverso, solo dopo aver prestato servizio nella prima sede di
destinazione per almeno 5 anni.
Perché, allora, una disposizione come quella contenuta nella legge 26/2019?
Non si tratta, a ben vedere, di una semplice replica di quanto già da tempo
previsto nel testo unico sul pubblico impiego. Sta di fatto che l'articolo
35, comma 5-bis, del dlgs 165/2001 è stato considerato, da gran parte della
dottrina e soprattutto dagli operatori concreti, come una disposizione
valevole solo per le amministrazioni dello Stato o, comunque, organizzate
con uffici distribuiti su territori ampi. I comuni, in particolare, si sono
sempre ritenuti non soggetti a tale previsione, dal momento che tecnicamente
non era possibile identificare una «sede di prima destinazione»
geograficamente autonoma rispetto ad altre.
La legge 26/2019 estende espressamente il divieto di trasferimento
volontario presso altre amministrazioni prima di 5 anni dall'assunzione
anche alle amministrazioni locali sprovviste «di articolazione
territoriale», proprio allo scopo di privare di effetto l'interpretazione
restrittiva che fin qui di fatto aveva vanificato la portata dell'articolo
35, comma 5-bis, del dlgs 165/2001 negli enti locali.
Tuttavia, lo scopo appare anche un altro. È noto che il disegno di legge
delega per la riforma della pubblica amministrazione, approvato dal
consiglio dei ministri poco tempo fa, intende riproporre un'idea, molte
volte già espressa in precedenza e sempre naufragata: abolire il nulla osta
alla mobilità volontaria dei dipendenti. Il che consentirebbe, quindi, ai
dipendenti pubblici di trasferirsi da un'amministrazione all'altra, senza
dipendere dal consenso alla mobilità del datore di lavoro.
Ovviamente, simile disposizione avrebbe la controindicazione di rendere poco
controllabile la dotazione organica operante negli enti. L'articolo 14-bis
della legge 26/2019, allora, introducendo l'obbligo di permanenza per cinque
anni nella prima sede di destinazione intende porre un argine al rischio di
una serie incontrollabile di mobilità.
C'è da osservare che la norma introdotta dall'articolo 14-bis della legge
26/2019 non è, però, di interpretazione autentica e, quindi, non ha
efficacia retroattiva; pertanto, è corretto concludere che l'obbligo di
permanenza per almeno cinque anni valga solo per i dipendenti che saranno
assunti dopo la sua entrata in vigore.
Gli altri dipendenti, la stragrande maggioranza dei quali ha oltre cinque
anni, se davvero si esercitasse la delega tendente ad abolire il nulla osta,
potrebbe di conseguenza avere un domani mano libera nel trasferirsi dove
ritenuto più opportuno.
Se davvero, dunque, il Legislatore ritiene che l'obbligo della permanenza di
cinque anni nella sede costituisca un limite alle mobilità, una volta
liberalizzate, è da evidenziare che ha sottostimato le conseguenze di simile
decisione. La parte preponderante del personale degli enti locali potrebbe
decidere di andare in mobilità verso altre amministrazioni, in una girandola
incontrollabile che per altro vanificherebbe del tutto le regole sulla
programmazione dei fabbisogni, che diverrebbe poco più che carta straccia.
Un ripensamento maggiormente meditato dell'intenzione manifestata di
eliminare il nulla osta è quanto mai necessario
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019). |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA: Risultato
di amministrazione, la corretta allocazione degli oneri di urbanizzazione.
Nell'ambito delle operazioni di scomposizione del risultato di
amministrazione 2018 gli enti si trovano di fronte a un nodo da sciogliere:
in quale voce dell'avanzo allocare gli eventuali proventi che derivano dal
rilascio dei permessi di costruire e relative sanzioni non utilizzati.
Avanzo vincolato o avanzo destinato?
Il comma 460 della legge 232/2016
Innovando la precedente disciplina, il
comma 460 dell'articolo 1 della legge
232/2016 ha previsto che «A decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei
titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui
al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono
destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla
manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei
centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di
rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive,
all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso
pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di
attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per
opere pubbliche».
La finalizzazione di queste entrate a un elenco
predefinito di spese (siano esse correnti o di investimento) pare avere
mutato la natura dei proventi, in precedenza genericamente destinabili a
tutte le spese in conto capitale e come tali collocati tra i fondi destinati
del risultato di amministrazione.
La Faq n. 28/2018 di Arconet
Secondo la Commissione Arconet (Faq n. 28/2018), «l'art. 1, comma 460, della
legge 11.12.2016 n. 232 individua un insieme di possibili
destinazioni, la cui scelta è rimessa alla discrezionalità dell'ente. Si
ritiene pertanto che tale elenco, previsto dalla legge, non rappresenti un
vincolo di destinazione specifico ma una generica destinazione ad una
categoria di spese».
Ne consegue che, secondo l'interpretazione fornita da Arconet, i proventi dell'attività edilizia non devono essere considerati
vincolati di cassa, in quanto l'elencazione delle spese contenute nel comma
460 non è idoneo ad imporre un vincolo puntuale di destinazione, lasciando
l'ente libero di decidere nell'ambito di una pluralità di spese comunque
perimetrate dal legislatore.
Già la Corte dei conti – Sezione Autonomie, con
deliberazione n. 31/2015 aveva precisato che il vincolo di cassa sussiste
unicamente laddove vi sia un vincolo irreversibile di destinazione a
garanzia del raggiungimento della finalità pubblica programmata, con
finanziamento della spesa da parte di un soggetto terzo o tramite
indebitamento.
Quale natura assegnare agli oneri di urbanizzazione?
Acclarato, sulla scorta dei chiarimenti di Arconet, che i proventi
dell'attività edilizia non sono vincolati di cassa, occorre stabilire se per
questi oneri sussista comunque un vincolo di competenza e come tali debbano
essere allocati tra i fondi vincolati da leggi e principi contabili del
risultato di amministrazione oppure tra i fondi destinati.
A favore della
prima soluzione depone la considerazione secondo cui il comma 460 della
legge 232/2016 ha sottratto tali entrate dalla loro generica destinazione
per spese di investimento, imponendo che siano utilizzate per una categoria
più ristretta di spese che abbraccia non sono le spese in conto capitale ma
anche le spese correnti.
Va rilevato, a onor del vero, che questa categoria
di entrate rappresenta una via intermedia tra i fondi vincolati a spese ben
individuate (spese finanziate da mutuo o da contributo), per le quali i
principi contabili hanno introdotto percorsi privilegiati di utilizzo e i
fondi destinati a spese generiche di investimento, il cui impiego viene
assimilato ai fondi liberi, stante anche l'assenza di un obbligo di rendicontazione.
Allocare tali entrate nei fondi destinati del risultato di amministrazione,
però, risulterebbe non conforme al disposto normativo, nella misura in cui
gli enti diventerebbero liberi di utilizzarle per tutto il genus degli
investimenti (anche autovetture o computer, non ammessi dal comma 460) e,
inoltre, non potrebbero essere utilizzati per finanziare le spese correnti
come la manutenzione ordinaria delle urbanizzazioni primarie e secondarie.
Nei fondi vincolati quindi dovranno confluire non solo i proventi accertati
nel 2018 e non utilizzati, ma anche i proventi che residuano dalle gestioni
precedenti. Il comma 460 infatti non esalta il momento dell'accertamento
dell'entrata quanto piuttosto la sua destinazione, con ciò attraendo nella
nuova disciplina anche tutte le somme non spese alla data del 31.12.2017.
Si auspica, quindi, che per tutti i casi in cui la legge vincola l'utilizzo
di entrate a spese generiche il legislatore chiarisca se l'ente potrà
utilizzarli alla stregua delle quote di mutuo o di contributo confluite in
avanzo, stante l'assenza di scadenze o di rendicontazioni che non ne
giustificano l'utilizzo tempestivo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.03.2019). |
URBANISTICA: Urbanistica,
utopia liberalizzazioni.
È dal 2011 (Dl Salva Italia) che il legislatore italiano ha espressamente
codificato l'obbligo di abrogazione o non applicazione delle norme sia di
legge che di regolamenti locali che vietano o limitano la libertà di
apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio. Fanno eccezione solo
le dimostrate esigenze di tutela della salute o dell'ambiente o dei beni
culturali. Gli enti locali e le regioni avevano 90 giorni di tempo per
adeguare le loro normative a questo principio che trae origine dalla
Direttiva Bolkestein recepita nel 2010. E nel 2012 questa esigenza di
liberalizzazione è stata estesa a tutte le iniziative economiche.
Nel rispetto dell'art. 41 della Costituzione l'art. 1 della legge 27/2012 ha
espressamente abrogato tutte le norme che pongono limiti numerici,
autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso
dell'amministrazione o pongono divieti o restrizioni per avviare un'attività
economica. Tutte le disposizioni di pianificazione e programmazione
territoriale che pongono limiti, o ritardi, programmi e controlli non
ragionevoli o comunque non proporzionati rispetto ad eventuali e particolari
finalità pubbliche, sono abrogate, per cui per legge non possono essere
applicate.
Ma è costante, invece, il mantenimento di tali norme negli atti
programmatori della disciplina urbanistica locale se non addirittura in
norme regionali, per cui ogni volta l'operatore deve misurarsi con l'ente
locale e richiamare questa liberalizzazione se non addirittura fare
intervenire il giudice amministrativo, che si è già pronunciato più volte,
ribadendo la necessità di rispettare tali principi.
Il ritardo che troppo spesso le amministrazioni locali determinano a causa
di questi ostacoli normativi in contrasto con la legge creano certamente un
danno economico all'operatore privato (sia industriale che commerciale),
poiché i divieti abrogati riguardano tutto il panorama riferito alla libertà
di iniziativa economica.
È diritto, pertanto, del privato ingiustamente penalizzato chiedere al
giudice anche il risarcimento del danno, poiché l'amministrazione locale che
ritarda o impedisce nuove aperture di attività, se non lo giustifica entro i
pochi stretti limiti indicati dalle normative che hanno sancito la
liberalizzazione, viola la legge per cui il privato ha la possibilità di
ottenere il conseguente risarcimento
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019). |
ENTI LOCALI: Bilancio,
parere dei revisori obbligatorio anche per le variazioni urgenti.
Secondo i
principi di revisione e controllo degli organi di revisione degli
enti locali licenziati definitivamente dal Cndcec il 22 febbraio scorso (si
veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 28 febbraio, del
1° marzo, del 4 marzo e del 5 marzo), gli enti locali devono acquisire
preventivamente il parere dell'organo di revisione sulla proposta di
deliberazione della giunta comunale di variazione d'urgenza al bilancio di
previsione.
Le variazioni d'urgenza al bilancio
L'articolo 175, comma 4 del Tuel attribuisce alla giunta comunale, in via
del tutto eccezionale, la facoltà di approvare variazioni d'urgenza al
bilancio di previsione che normalmente ricadono nella competenza dell'organo
consiliare, il quale è chiamato a ratificare la variazione entro 60 giorni e
comunque entro il 31 dicembre dell'esercizio. Con l'avvento
dell'armonizzazione contabile l'esercizio del potere surrogatorio da parte
della giunta deve essere debitamente motivato, al fine di scongiurare un
indebito svuotamento delle funzioni poste in capo al consiglio.
Le ragioni d'urgenza che rendono necessario procedere senza indugio, quindi,
devono essere evidenziate nella delibera e sono decisive per garantire
legittimità alla variazione. Mentre non vi sono dubbi sulla necessità di
acquisire il parere dell'organo di revisione sulla variazione di bilancio
(articolo 239, comma 1, lettera b.2, del Tuel) rimane incerto il momento in
cui occorre acquisire il parere sulle variazioni d'urgenza: se sulla
proposta di giunta ovvero sulla proposta consiliare di ratifica. In assenza
di una espressa previsione normativa, sul punto si registrano posizioni
divergenti.
Secondo la Corte dei conti Abruzzo (delibera n. 347/2010) tale parere deve
essere espresso sulla delibera di giunta in ragione del «concomitante
interesse pubblico alla corretta e completa istruttoria del percorso
formativo della proposta deliberativa che il predisponente (assessore e/o
sindaco) sottopone all'attenzione della Giunta comunale».
Di avviso
contrario il ministero dell'Interno che, con la risoluzione n. 6741/1995, ha
invece ritenuto che il parere possa essere acquisito sulla proposta
consiliare di ratifica della variazione, in considerazione sia delle ragioni
d'urgenza della variazione che del fatto che l'organo di revisione opera a
supporto dell'attività del Consiglio. La prassi più diffusa tra gli enti è
quella che di acquisire il parere sulla proposta di consiglio, in quanto i
tempi per la sua acquisizione contrastano con l'urgenza della decisione.
La posizione del Cndcec
Confermando la posizione già espressa con i precedenti principi di revisione
del 2016, il documento n. 2 dedicato alle funzioni dell'organo di revisione:
attività di collaborazione, pareri obbligatori e vigilanza prevede che il
parere dell'organo di revisione sia espresso obbligatoriamente sulla
proposta di variazione al bilancio adottata dalla giunta per motivi
d'urgenza.
L'anticipo del vaglio di legittimità da parte dei revisori appare
funzionale a verificare la sussistenza delle ragioni d'urgenza che rendono
necessario il ricorso al potere surrogatorio e ad accertare il rispetto
degli equilibri finanziari nonché la rispondenza della variazione
all'ordinamento contabile. Verifiche che, se poste a valle della variazione
(quando questa viene sottoposta a ratifica da parte del Consiglio),
finirebbero per essere attenuate dal fatto che eventuali rilievi non
potrebbero che condurre una mancata ratifica dell'atto ma non alla sua
modifica, con tutte le conseguenze del caso.
D'altro canto, l'obbligo di
acquisire il parere dell'organo di revisione mal si concilia con l'urgenza
della variazione. Risulterà quindi opportuno concordare con l'organo di
revisione i tempi per il rilascio del parere, affiché questo venga espresso
con immediatezza. La tempistica potrà essere disciplinata nel regolamento di
contabilità ovvero nel disciplinare di incarico. Solo in questo modo sarà
possibile ottemperare alle prescrizioni dei principi di revisione e nel
contempo conciliare le esigenze di funzionalità dell'ente.
Riaccertamento parziale
Sempre in tema di variazioni, vale la pena evidenziare come i principi di
revisione attribuiscano alla competenza del responsabile finanziario il
riaccertamento parziale dei residui anche in esercizio provvisorio. Il punto
9.2 del principio contabile allegato 4/2 al Dlgs 118/2011 in proposito si
presta ad una duplice interpretazione, rendendo plausibile anche la lettura
che attribuisce la competenza del riaccertamento parziale in esercizio
provvisorio alla giunta comunale.
In entrambi i casi è necessario acquisire il parere preventivo dell'organo
di revisione economico finanziario
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.03.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Case in costruzione, più tutele.
Preliminare per atto pubblico o scrittura autenticata.
Il Codice della crisi introduce garanzie per gli acquirenti delle future
unità immobiliari.
Maggiori tutele per gli acquisti degli immobili «su carta».
Con la
pubblicazione in G.U. (So) n. 38 del 14 febbraio del dlgs n. 14 del
12.01.2019, recante il c.d. «Codice della crisi d'impresa e
dell'insolvenza», sono operative alcune modifiche apportate dagli articoli
385 e seguenti al dlgs n. 122/2005, con il quale erano state introdotte una
serie di garanzie a beneficio degli acquirenti di unità immobiliari ancora
da costruire.
Le novità saranno applicabili ai contratti relativi a immobili da costruire
per i quali il titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato
successivamente al 16.03.2019, data di entrata in vigore del dlgs n.
14/2019.
Inoltre, con appositi decreti da adottarsi entro 90 giorni da tale
data, dovranno essere definiti i modelli standard di fideiussione e polizza
assicurativa decennale (fino a quel momento il contenuto di detti atti dovrà
essere determinato contrattualmente dalle parti nel rispetto di quanto
previsto dalle nuove disposizioni di legge). Ma vediamo di capire meglio
cosa cambierà.
Il contenuto del contratto preliminare. Il contratto preliminare con cui una
persona fisica si impegna ad acquistare la proprietà o altro diritto reale
su un immobile in costruzione dovrà essere stipulato per atto pubblico o
scrittura privata autenticata. Si tratta di una delle più importanti novità
introdotte dal dlgs n. 14/2019 a tutela dell'acquirente, diventando così
necessario operare la redazione del contratto dinanzi a un notaio che potrà
quindi esercitare un doveroso controllo in merito alla sussistenza della
fideiussione e della polizza assicurativa decennale, come si dirà a breve.
Per il resto, il contenuto minimo del preliminare, dovrà comprendere le
indicazioni previste agli articoli 2659, primo comma, n. 1), e 2826 del
codice civile, la descrizione dell'immobile e di tutte le sue pertinenze di
uso esclusivo, gli estremi di eventuali atti d'obbligo e convenzioni
urbanistiche stipulati per l'ottenimento dei titoli abilitativi alla
costruzione e l'elencazione dei vincoli previsti, le caratteristiche
tecniche della costruzione, con particolare riferimento alla struttura
portante, alle fondazioni, alle tamponature, ai solai, alla copertura, agli
infissi e agli impianti, i termini massimi di esecuzione della costruzione,
anche eventualmente correlati alle varie fasi di lavorazione, l'indicazione
del prezzo complessivo da corrispondersi in denaro o il valore di ogni altro
eventuale corrispettivo, i termini e le modalità per il suo pagamento, la
specificazione dell'importo di eventuali somme a titolo di caparra (le
modalità di corresponsione del prezzo devono essere rappresentate da
bonifici bancari o versamenti diretti su conti correnti bancari o postali
indicati dalla parte venditrice e alla stessa intestati o da altre forme che
siano comunque in grado di assicurare la prova certa dell'avvenuto
pagamento), gli estremi della fideiussione e l'attestazione della sua
conformità al modello che sarà individuato con un futuro decreto
ministeriale, l'eventuale esistenza di ipoteche o trascrizioni
pregiudizievoli di qualsiasi tipo sull'immobile con la specificazione del
relativo ammontare, del soggetto a cui favore risultano e del titolo dal
quale derivano, nonché la pattuizione espressa degli obblighi del
costruttore a esse connessi e, in particolare, se tali obblighi debbano
essere adempiuti prima o dopo la stipula del contratto definitivo di
vendita, gli estremi del permesso di costruire o della sua richiesta se non
ancora rilasciato, nonché di ogni altro titolo, denuncia o provvedimento
abilitativo alla costruzione, l'eventuale indicazione dell'esistenza di
imprese appaltatrici, con la specificazione dei relativi dati
identificativi.
La fideiussione. L'obbligo del rilascio di una fideiussione a carico
dell'impresa costruttrice (art. 3 dlgs 122/05) è finalizzato a garantire la
restituzione all'acquirente delle somme versate (generalmente in acconto) e
dei relativi interessi legali maturati nel caso in cui si verifichi una
situazione di crisi a carico della stessa, ovvero in ipotesi di trascrizione
del pignoramento relativo all'immobile oggetto del contratto, di
pubblicazione della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento
di liquidazione coatta amministrativa, di presentazione della domanda di
ammissione alla procedura di concordato preventivo o di pubblicazione della
sentenza che dichiara lo stato di insolvenza o, se anteriore, del decreto
che dispone la liquidazione coatta amministrativa o l'amministrazione
straordinaria.
La fideiussione, che in precedenza poteva essere rilasciata anche da
intermediari finanziari iscritti nell'elenco di cui all'art. 107 Tub, potrà
ora provenire solo da banche e assicurazioni. Inoltre la stessa garantirà
l'acquirente, oltre che nelle ipotesi indicate in precedenza, anche ove
l'impresa costruttrice sia stata inadempiente all'ulteriore obbligo di
rilascio della polizza assicurativa decennale sull'immobile prevista
dall'art. 4 del dlgs n. 122/2005.
In relazione a questa eventualità è stato
specificamente previsto che la fideiussione potrà essere escussa a decorrere
dalla data dell'attestazione del notaio di non aver ricevuto per la data
dell'atto di trasferimento della proprietà la polizza assicurativa in
questione e a condizione che l'acquirente abbia espresso al costruttore la
volontà di recedere dal contratto. Il ministero della giustizia è stato poi
onerato ad adottare un decreto, di concerto con il ministero dell'economia e
delle finanze ed entro 90 giorni dall'entrata in vigore del decreto
legislativo, per determinare il modello standard di fideiussione da
utilizzare ai fini di cui sopra.
L'assicurazione sull'immobile. L'art. 4 del dlgs n. 122/2005 prevede per il
costruttore l'obbligo di consegnare all'acquirente all'atto del
trasferimento della proprietà una polizza assicurativa indennitaria
decennale e con effetto dalla data di ultimazione dei lavori a copertura dei
danni materiali e diretti all'immobile, compresi i danni ai terzi, ai quali
sia tenuto ai sensi dell'art. 1669 c.c., derivanti da rovina totale o
parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere, per vizio del
suolo o per difetto della costruzione, e comunque manifestatisi
successivamente alla stipula del contratto definitivo di compravendita o di
assegnazione (in caso di cooperative edilizie).
Il dlgs n. 14/2019 interviene sulla disposizione in questione sancendo in
primo luogo la nullità dell'atto di trasferimento della proprietà in caso di
mancata consegna della predetta polizza assicurativa.
Trattasi di una nullità relativa c.d. di protezione, nel senso che può
essere azionata soltanto dall'acquirente, nel cui interesse detta sanzione è
disposta. Sarà quindi quest'ultimo, in caso di assenza della polizza, a
decidere se porre nel nulla il contratto, con conseguente diritto alla
restituzione delle somme versate a titolo di prezzo. Anche in questo caso,
con decreto del ministro dello sviluppo economico, da adottarsi entro 90
giorni dalla data di entrata in vigore del dlgs n. 14/2019, di concerto con
il ministero della giustizia e con il ministero dell'economia e delle
finanze, saranno definiti il contenuto e le caratteristiche minime della
polizza assicurativa e il relativo modello standard.
Vengono quindi aggiunti due ulteriori commi al predetto art. 4 del dlgs n.
122/2005, rispettivamente i commi 1-ter e 1-quater. Nel primo di essi è
previsto che in caso di inadempimento dell'obbligo di consegna
dell'assicurazione al momento del trasferimento della proprietà
dell'immobile l'acquirente che abbia comunicato al costruttore la volontà di
recedere dal contratto possa escutere la fideiussione.
Nell'ulteriore comma aggiunto è invece stabilito che nell'atto di
trasferimento della proprietà debbano essere indicati gli estremi
identificativi della polizza assicurativa e della sua conformità al
contenuto minimo che, come detto, sarà stabilito con decreto ministeriale.
Soltanto a questa condizione, come previsto dal nuovo comma 7 dell'art. 3
del dlgs n. 122/2005, l'efficacia della fideiussione si intenderà cessata
nel momenti in cui il fideiussore riceverà dal costruttore o da un altro dei
contraenti copia dell'atto di trasferimento della proprietà o di altro
diritto reale di godimento sull'immobile o dell'atto definitivo di
assegnazione (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Mud 2019, più dati alle Cciaa.
Per presentare la dichiarazione c’è tempo fino al 22/6. Pubblicato in G.U.
il modello unico annuale per le eco-informazioni di enti e imprese.
Più
tempo a enti e imprese per presentare alle Camere di commercio la
dichiarazione ambientale Mud 2019, che potrà essere inoltrata fino al 22
giugno in luogo della rituale e più stretta scadenza del 30 aprile, ma con
l'obbligo di fornire rispetto alla scorsa edizione maggiori informazioni sui
rifiuti prodotti o gestiti nel 2018.
A far slittare, ex lege istitutiva
70/1994, i termini per la dichiarazione verde è la pubblicazione avvenuta
solo lo scorso 22.02.2019 (dunque ad anno nuovo già iniziato) del
decreto recante neo modulistica e istruzioni che produttori/gestori di
rifiuti nonché fabbricanti di alcuni beni a potenziale impatto ambientale
devono utilizzare per denunciare residui/materiali generati o trattati
nell'anno precedente. Ad imporre invece la maggiore analiticità dei dati da
comunicare alle Cciaa è il tenore dello stesso nuovo decreto, il dpcm 24.12.2018, recante in attuazione della legge del 1994 l'«Approvazione
del modello unico di dichiarazione ambientale (Mud) per l'anno 2019».
Termini di presentazione. La legge 70/1994 fissa il termine di presentazione
del Mud nel 30 aprile di ogni anno. In base alla stessa legge, eventuali
modifiche al modello unico in vigore possono essere introdotte anche nello
stesso anno della sua presentazione, ma solo mediante decreto da pubblicarsi
in G.U. entro il 1° marzo e con l'effetto di spostare in avanti la dead-line
dell'adempimento di 120 giorni a decorrere da tale pubblicazione. Essendo il
dpcm 24.12.2018 stato pubblicato sul Supplemento ordinario n. 8 alla
G.U. 22.02.2019 n. 45 il termine finale di presentazione è dunque ex lege posticipato al 22.06.2019.
Soggetti obbligati. Il novero dei soggetti tenuti ad effettuare il Mud è
plasmato dal nuovo Dpcm 24.12.2018 sulle sei sezioni che scandiscono
il modello unico di dichiarazione, ossia: «comunicazione rifiuti», «veicoli
fuori uso», «imballaggi», «Raee», «rifiuti urbani», «Aee» (si veda la
tabella riportata in questa pagina).
Obbligati alla comunicazione rifiuti sono in primo luogo i produttori e i
gestori di rifiuti individuati dall'articolo 189, comma 3, del dlgs 152/2006,
che il nuovo dpcm 24.12.2018 conferma doversi applicare nella sua
versione precedente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010 (essendo
queste ultime state abrogate dal dl 135/2018, si veda ItaliaOggi Sette
dell'11/02/2019).
Alla comunicazione rifiuti sono altresì tenuti gli impianti portuali di
raccolta ed i gestori del servizio di raccolta dei rifiuti prodotti dalle
navi individuati dal dlgs 182/2003.
Sono invece esentati dalla comunicazione rifiuti le imprese agricole e gli
operatori del settore servizi alla persona (tra cui parrucchieri e tatuatori)
identificati dai codici Ateco contemplati dall'articolo 69 della legge
221/2015.
Tenuti alla comunicazione veicoli fuori uso sono i soggetti che gestiscono i
rifiuti dei mezzi di trasporto che rientrano nel campo di applicazione del
dlgs 209/2003, mentre i residui degli analoghi beni rientranti nel dlgs
152/2006 devono essere dichiarati nella summenzionata comunicazione rifiuti.
La comunicazione imballaggi interessa il relativo sistema consortile e i
gestori di impianti di rifiuti di imballaggio individuati dal dlgs 152/2006.
La comunicazione Raee è invece appannaggio degli impianti di trattamento
rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche individuati dal dlgs
49/2014, mentre i tecno-residui da tale decreto non contemplati devono esse
oggetto della comunicazione rifiuti ex dlgs 152/2006.
La comunicazione rifiuti urbani, assimilati e raccolti in convenzione
riguarda i soggetti istituzionali responsabili ex articolo 189, comma 5, del dlgs 152/2006 del servizio di gestione integrata rifiuti.
Obbligati alla comunicazione Aee sono infine i produttori e venditori di
apparecchiature elettriche ed elettroniche con proprio marchio, nonché i
rivenditori con proprio marchio di apparecchiature altrui individuati dal
dlgs 49/2014.
Novità 2019. Il Mud 2019 impone una maggiore analiticità delle informazioni
da comunicare. A livello generale, tutti i gestori di rifiuti dovranno
sempre indicare la specifica tipologia di trattamento cui sono stati
sottoposti i rifiuti ricevuti dall'estero.
A livello particolare, invece, nella comunicazione rifiuti sono inoltre
richieste: a recuperatori e smaltitori di alcuni rifiuti (tra cui quelli da
trattamento meccanico di altri residui, compost fuori specifica) la relativa
dichiarazione di origine (urbana o non); ai gestori di rifiuti di pile e
accumulatori, l'indicazione della derivazione da beni portabili o meno.
Nella comunicazione imballaggi, gli impianti interessati dovranno (tra le
altre) indicare in via separata le quantità di rifiuti prodotte da beni
rispettivamente mono e multi-materiale.
Nella comunicazione Raee trovano collocazione le due nuove categorie
dedicate a pannelli fotovoltaici e lampade a scarica, per le quali occorrerà
indicare le informazioni richieste.
Nella comunicazione rifiuti urbani nuove informazioni sono richieste in
relazione ai rifiuti avviati ai diversi tipi di compostaggio.
Una stretta arriva infine per la comunicazione rifiuti in semplificata: la
modalità che consente ai piccoli produttori di rifiuti di inviare a mezzo
posta elettronica certificata un documento «pdf» del Modello, in luogo della
trasmissione telematica previa interlocuzione con il relativo portale web,
non potrà essere utilizzata da chi ha spedito oltre confine i residui
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019). |
ENTI LOCALI: Eventi
privati, costi-sicurezza dei Comuni sempre a carico degli organizzatori.
Le istruzioni dell'Anci sul regolamento necessario ad
attuare la norma. Vanno applicate le tariffe del lavoro ordinario o extra e
regolati esenzioni e sconti.
I
costi aggiuntivi che i Comuni devono sostenere per garantire la presenza di
vigili alle manifestazioni di privati devono sempre essere posti a carico
dei soggetti organizzatori; questi oneri devono essere quantificati sulla
base delle tariffe di lavoro ordinario o straordinario, a seconda
dell’impegno richiesto.
È
necessario che le amministrazioni municipali provvedano preventivamente a
disciplinare l'ambito di applicazione, i casi di esenzione o riduzione del
corrispettivo, le modalità di quantificazione degli oneri, le regole
procedurali.
Lo spiega l'Anci in un
nuovo Quaderno con le
istruzioni operative per attuare la norma introdotta dall'articolo 22 del Dl
50/2017. Nelle indicazioni dell' Anci, la competenza alla approvazione del
regolamento è della giunta. Oltre all'approvazione del regolamento,
condizione per l'erogazione di questo compenso è l'adozione di una
disciplina nell'ambito del contratto collettivo decentrato integrativo.
Le amministrazioni locali devono procedere alla quantificazione presuntiva
dei costi che derivano dall' assegnazione del proprio personale di vigilanza
allo svolgimento delle attività necessarie per le manifestazioni organizzate
da privati.
A questo fine è necessario che il comando di polizia locale proceda alla
definizione di un progetto ad hoc, in cui quantificare i costi aggiuntivi
che l'ente è chiamato a sostenere.
Per il personale questi costi aggiuntivi vanno determinati sulla base del
costo orario globale, per come evidenziato dalla deliberazione della sezione
regionale di controllo della Corte dei Conti dell' Emilia Romagna 123 del 15.10.2018.
A questi costi vanno aggiunti quelli necessari per sostenere gli altri oneri
che il Comune è chiamato a sopportare, dalle spese di carburante degli
automezzi da utilizzare, ai costi organizzativi. Il regolamento targato Anci
evidenzia l'opportunità che i privati forniscano adeguate garanzie al
Comune sull' effettivo pagamento di quanto stabilito dall'ente, o versando
un acconto o attraverso una cauzione.
Al termine della manifestazione, il comando della polizia municipale
quantificherà gli oneri effettivamente sostenuti dall'ente e li comunicherà
al privato, assegnandogli un termine per versamento.
Ai vigili che sono impegnati al di là del proprio orario di lavoro, sulla
scorta delle previsioni dell' articolo 56-ter del contratto nazionale del
21.05.2018, spetta un compenso che deve essere calcolato con le tariffe del
lavoro straordinario, comprese le maggiorazioni per il lavoro notturno o
quello festivo oppure per il notturno festivo. Mentre nel caso di
svolgimento di queste attività nell'ambito del normale orario di lavoro non
devono essere versati compensi aggiuntivi ai vigili.
Le ore aggiuntive non entrano nel tetto del fondo per il lavoro
straordinario, e si deve ritenere che vadano anche al di fuori del tetto
delle risorse per il salario accessorio in quanto finanziate interamente da
privati e perché questi compensi possono essere erogati solamente ai vigili
e non a tutto il personale.
Occorre ricordare inoltre che anche i vigili che sono titolari di posizione
organizzativa hanno diritto, per esplicita previsione contrattuale, ricevere
questi compensi in deroga al principio dell' onnicomprensività delle
indennità di posizione e di risultato. I vigili possono, nell'ambito di
queste manifestazioni, essere impegnati esclusivamente per le attività
connesse alla sicurezza e alla polizia stradale
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.02.2019). |
TRIBUTI: Comodato formato extralarge.
Agevolazione Imu e Tasi per l'immobile estesa al coniuge.
Lo prevede la legge di Bilancio in caso di decesso del
comodatario e se ci sono figli.
Benefici
fiscali anche per il coniuge del comodatario. La manovra di bilancio,
infatti, per l'immobile concesso in comodato gratuito, estende
l'agevolazione Imu e Tasi al coniuge del comodatario in caso di morte dello
stesso, ma solo se vi è la presenza di figli minori.
La novità è contenuta
nell'articolo 1, comma 1092, della legge di bilancio 2019. In esso viene
richiamata la norma che disciplina l'Imu, la quale riconosce per gli
immobili dati in comodato la riduzione al 50% della base imponibile.
Il
trattamento agevolato si applica anche alla Tasi, considerato che per i due
tributi l'imponibile si calcola nello stesso modo. Il legislatore ha
integrato la disposizione contenuta nell'articolo 13 del dl 201/20011,
estendendo l'agevolazione al coniuge del comodatario qualora vi sia la
presenza di figli minori.
Regole e adempimenti per fruire del beneficio.
L'articolo 13 sopra citato, per gli immobili concessi in comodato dal
titolare ai parenti in linea retta entro il primo grado, utilizzati come
abitazione principale, prevede una riduzione della base imponibile al 50%.
Sono escluse le unità immobiliari classificate nelle categorie catastali
A/1, A/8 e A/9.
È richiesto che il contratto sia registrato e che il
comodante, oltre all'immobile adibito a propria abitazione principale,
possieda un solo immobile in Italia, risieda anagraficamente e dimori
abitualmente nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in
comodato. Occorre, inoltre, che il titolare attesti il possesso dei
requisiti nel modello di dichiarazione da inviare al comune. Del resto, la
dichiarazione deve essere sempre presentata per gli immobili relativamente
ai quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini della
determinazione dell'imposta dovuta e del soggetto obbligato al pagamento.
Per esempio, anche gli enti non commerciali che sono stati esonerati fino al
2011 dall'obbligo di presentare la dichiarazione Ici, sono invece tenuti a
denunciare ai comuni gli immobili posseduti per l'Imu. Non è più applicabile
l'articolo 10 della normativa Ici (decreto legislativo 504/1992), che
escludeva dall'obbligo dichiarativo gli immobili esenti.
Dichiarazione: obbligati ed esonerati.
Bisogna ricordare che c'è un termine unico per le dichiarazioni Imu, Tasi e
Tari. Devono infatti essere presentate entro il 30 giugno dell'anno
successivo alla data di inizio del possesso o della detenzione di locali e
aree. Nel caso di occupazione in comune di un immobile, la dichiarazione può
essere presentata solo da uno degli obbligati.
Per la Tari restano ferme le
superfici già dichiarate per Tarsu, Tia1, Tia2 e Tares. All'imposta sui
servizi indivisibili, invece, si applicano le stesse regole stabilite per
l'imposta municipale. Anche per la Tasi, dunque, la dichiarazione non va
presentata se gli elementi rilevanti sono acquisibili attraverso la
consultazione della banca dati catastale o gli enti sono già in possesso
delle informazioni necessarie per verificare il corretto adempimento
dell'obbligazione tributaria.
Per la dichiarazione Tasi può essere
utilizzato lo stesso modello già approvato per l'Imu. Il dipartimento delle
finanze del Ministero dell'economia, con la circolare 2/2015, ha sostenuto
che per l'imposta sui servizi non serve un modello di dichiarazione ad hoc e
che i comuni in molti casi già dispongono delle informazioni necessarie per
effettuare i controlli e gli accertamenti sui due tributi, nonostante siano
diversi i soggetti passivi, vale a dire proprietari, inquilini, comodatari.
Le dichiarazioni sono ultrattive e producono effetti anche per gli anni
successivi se i contribuenti non devono denunciare modifiche intervenute
sulla loro posizione soggettiva, anche per quanto concerne il diritto a
fruire delle agevolazioni fiscali.
In questi termini si è espresso il
dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia (risoluzione 3/2018)
in merito all'esenzione dall'imposta municipale sui terreni, che spetta a
coltivatori diretti e imprenditori agricoli in presenza dei requisiti di
legge. Una volta stabilito, come evidenziato dal Ministero, che la
dichiarazione deve essere ripresentata solo in presenza di variazioni, va
sottolineato che l'adempimento va posto in essere nel caso in cui
l'interessato intenda fruire di esenzioni o riduzioni d'imposta. Ecco perché
la dichiarazione va presentata per avere diritto alla riduzione della base
imponibile Imu e Tasi al 50% per i fabbricati concessi in comodato. Sono
tenuti a osservare l'obbligo di presentare la dichiarazione i titolari di
fabbricati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, coloro che
possiedono immobili di interesse storico o artistico.
Inoltre, vanno
denunciati tutti i casi in cui l'amministrazione comunale non possiede le
notizie utili per verificare la correttezza dell'operato dei contribuenti.
Tra i casi più significativi, l'adempimento è richiesto quando: l'immobile
ha formato oggetto di locazione finanziaria o di un atto di concessione
amministrativa su aree demaniali; l'immobile viene concesso in locazione
finanziaria, un terreno agricolo diventa area edificabile o, viceversa,
l'area diviene edificabile in seguito alla demolizione di un fabbricato.
Obblighi dichiarativi e interpretazioni dei giudici.
I giudici tributari vanno in ordine sparso sul riconoscimento dei benefici
per le imposte locali, in caso di mancata comunicazione all'amministrazione
comunale delle informazioni necessarie.
La commissione tributaria regionale
di Palermo, sezione XIV, con la sentenza 2804 del 09.07.2018, in
controtendenza rispetto ad altri giudici di merito, ha stabilito che il
contribuente non ha diritto a fruire delle agevolazioni se non dichiara al
comune che l'immobile è stato concesso in comodato gratuito al figlio.
Il
mancato adempimento dell'obbligo imposto dal regolamento comunale esclude
che il contribuente possa averne diritto. È necessario che il contribuente
informi il comune che l'immobile è stato dato in comodato al figlio. Per i
giudici d'appello, «sulla scorta del regolamento comunale la contribuente
era tenuta a comunicare la concessione dell'immobile in comodato gratuito al
figlio, non risultando che l'ente fosse a conoscenza di tale circostanza».
In senso contrario, invece, si è espressa la commissione tributaria
provinciale di Reggio Emilia (sentenza 93/2018), che ha ritenuto irrilevante
l'omessa dichiarazione per l'immobile affittato a canone concordato. In
particolare, ha precisato che i rapporti tra amministrazione finanziaria e
contribuenti devono essere improntati al principio della collaborazione e
della buona fede.
Ha affermato che non può essere negata l'aliquota ridotta Imu per un immobile affittato a canone concordato solo perché l'interessato
non ha inviato all'amministrazione un'apposita comunicazione con gli estremi
del contratto, prevista dal regolamento comunale, entro il termine fissato.
Com'è noto, la legge prevede uno sconto Imu del 25% per gli immobili locati
a canone concertato.
Per il giudice tributario, l'omessa dichiarazione non
può far venir meno il diritto alla riduzione dell'aliquota, in quanto gli
atti erano stati regolarmente registrati presso l'Agenzia delle entrate e
l'amministrazione ne era a conoscenza, poiché le informazioni sul patrimonio
immobiliare sono acquisibili dalla banca dati catastale.
Lo stesso principio
dovrebbe valere per gli immobili dati in uso gratuito, la cui destinazione
di fatto potrebbe essere accertata attraverso la residenza anagrafica. Anche
se, ex lege, normalmente è imposto di presentare la dichiarazione qualora si
vanti il diritto a fruire di un trattamento agevolato.
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Mef: conta la data di conclusione.
Secondo il Ministero dell'economia e delle finanze (nota 8876/2016), per il
contratto di comodato d'uso verbale non conta la data di registrazione, ma
quella di conclusione del contratto stesso per poter fruire delle
agevolazioni fiscali. La riduzione al 50% della base imponibile Imu e Tasi
in caso di concessione in comodato di un immobile a un parente in linea
retta entro il primo grado, che lo utilizzi come abitazione principale,
decorre dalla conclusione del contratto, a prescindere dalla data di
registrazione del contratto verbale.
Ha inoltre precisato che non c'è un
termine per la registrazione del contratto di comodato verbale. L'obbligo di
registrazione del contratto per avere diritto alla riduzione del tributo, in
effetti, è un adempimento che risulta eccessivo. Sarebbe stato sufficiente
richiedere una scrittura privata autenticata, per assicurare la certezza
della data di decorrenza del contratto e, per l'effetto, dell'agevolazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.01.2019). |
URBANISTICA: Edilizia,
convenzioni svincolate. Ampliata la platea dei soggetti legittimati agli
accordi. Il Consiglio nazionale del notariato prende
in esame le novità retroattive del dl 119/2018.
Colpo
di spugna sull'edilizia convenzionata. Con la conversione in legge del dl n.
119/2018, collegato fiscale alla legge di bilancio, sono state introdotte
con efficacia retroattiva una serie di modifiche alla disciplina delle
convenzioni in diritto di superficie e di proprietà stipulate dai privati
con i comuni.
Viene infatti ampliata la platea dei soggetti che possono
ricorrere a tale strumento e, soprattutto, viene per così dire sgonfiato il
contenzioso in essere per le pretese risarcitorie avanzate da quanti abbiano
acquistato detti immobili a prezzo di mercato, invece che a quello
calmierato imposto dalla legge.
Basterà che il vecchio proprietario stipuli
con il comune una convenzione per la rimozione dei vincoli legali per
azzerare qualsiasi pretesa degli acquirenti alla restituzione del maggior
prezzo. Le novità in questione sono state approfondite in un recente studio
del Consiglio nazionale del notariato.
L'ambito di applicazione della nuova normativa. L'art. 25-undecies della
legge n. 136/2018, entrata in vigore il 19.12.2018, di conversione del
dl n. 119/2018, contenente disposizioni urgenti in materia fiscale e
finanziaria, ha apportato una serie di modifiche all'art. 31, commi 49-bis e
seguenti, della legge n. 448/1998, relativi alle convenzioni in diritto di
superficie e in diritto di proprietà, stipulate in base all'art. 35 della
legge n. 865/1971.
Come anticipato viene quindi ampliata la platea dei soggetti che possono
ricorrere alla stipulazione delle convenzioni (per atto pubblico e, ora,
anche con scrittura privata autenticata), per la rimozione dei vincoli sul
prezzo massimo di cessione degli immobili.
I soggetti legittimati sono ora
le persone fisiche che vi abbiano interesse, anche se non più titolari di
diritti reali sul bene immobile (la precedente disposizione parlava dei
singoli proprietari dell'unità immobiliare). Ne consegue che l'eliminazione
del vincolo, purché siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo
trasferimento, può essere ottenuta anche dal soggetto che non sia più
proprietario dell'alloggio.
Deve però trattarsi di una persona fisica
(quindi sono escluse le società) che, in passato, sia stata titolare di
diritti reali sul bene. Il Notariato ritiene che la richiesta possa
provenire anche dal soggetto che, pur non essendo l'ultimo venditore, si
collochi comunque all'interno della catena dei trasferimenti immobiliari,
anche a seguito di vicende successorie.
Dal punto di vista oggettivo, come spiegato dal Notariato, la predetta
disciplina retroattiva si applica indistintamente a tutte le convenzioni
stipulate in passato. Il dubbio maggiore riguarderebbe infatti le
convenzioni in diritto di proprietà stipulate dopo il 01.01.1997, per
le quali il vincolo alla circolazione dell'alloggio sarebbe quello previsto
dalla c.d. legge Bucalossi, nel testo attualmente previsto dalla legge n.
865/71, come modificato dalla legge n. 662/96.
Dopo questa legge, infatti,
il costruttore che intenda stipulare con il comune una convenzione in
diritto di proprietà, deve utilizzare uno schema nel quale è richiesto di
indicare il prezzo massimo di cessione degli alloggi realizzati. La sanzione
prevista nell'ultimo comma di questa norma è la nullità della pattuizione
stipulata in misura eccedente il prezzo massimo.
Ora, il limite temporale del 15.03.1992 indicato nel vecchio comma 49-bis
della legge n. 448/1998, aveva fatto sorgere il dubbio se per le convenzioni
in proprietà stipulate dopo il primo gennaio 1997 fosse possibile la
rimozione del vincolo sul prezzo massimo di cessione. Secondo il Notariato,
con l'eliminazione del predetto limite temporale, il legislatore sembra aver
dato un segnale a favore dell'estensione della facoltà di rimozione del
vincolo sul prezzo massimo di cessione anche per quest'ultimo tipo di
convenzioni.
Se si aderisce a questa interpretazione, a seguito della
modifica del comma 49-bis, il comma 49-ter della legge n. 448/1998 assume un
nuovo e più ampio significato, potendo ora essere utilizzato per rimuovere i
limiti sul prezzo di cessione contenuti nelle convenzioni di cui all'art. 18
del Testo unico dell'edilizia nate come tali e nelle convenzioni in
proprietà stipulate nella forma della convenzione ex art. 18 T.U. edilizia
dopo l'01.01.1997.
Gli effetti pratici.
La rimozione dei vincoli da parte del venditore,
rendendo il bene liberamente alienabile a prezzi di mercato, porta quindi a
escludere la sussistenza di un danno in capo al nuovo proprietario per
l'eventuale differenza di prezzo. Lo scopo della norma è quindi quello di
prevenire le pretese restitutorie degli acquirenti nei confronti dei
venditori ai quali sia stato corrisposto un prezzo superiore a quello
vincolato.
La nuova disciplina, applicandosi anche agli atti traslativi
stipulati prima dell'entrata in vigore della legge n. 136/2018, avvenuta lo
scorso 19.12.2018, è indubbiamente retroattiva. L'intento è quindi
quello, da una parte, di produrre un effetto deflattivo sui giudizi in corso
e, dall'altra, prevenire nuove richieste restitutorie da parte degli
acquirenti.
Il Notariato ha comunque evidenziato l'infelice formulazione del nuovo comma
49-quater aggiunto all'art. 31 della legge n. 448/98, giudicandolo di oscuro
significato. Sia per la parte in cui si accenna alla rimozione di qualsiasi
vincolo di natura soggettiva che deriverebbe dal venir meno del vincolo sul
prezzo massimo di cessione. Sia per quella in cui si sancisce che
l'efficacia della differenza di prezzo pagata in eccedenza dal compratore,
non produrrebbe effetti fino al momento in cui non fosse stata attivata la
procedura per la rimozione del vincolo sul prezzo.
La norma, secondo il
centro studio del Consiglio nazionale del notariato, sembra in ogni caso
avere più una portata processuale che sostanziale, prevedendo che la stipula
della convenzione di rimozione dei vincoli (anche successiva alla vendita)
determini l'estinzione di ogni pretesa risarcitoria della differenza di
prezzo pagata in eccedenza.
Per i giudizi in itinere è infatti prevedibile che la disposizione
conseguirà l'obiettivo deflattivo avuto di mira dal legislatore in quanto, a
seguito della stipula della convenzione di rimozione dei vincoli, il giudice
chiamato a decidere sulla ripetizione del maggior prezzo versato dovrà, nel
caso anche d'ufficio, accertare con sentenza la cessazione della materia del
contendere, pur non potendosi escludere l'insorgenza delle problematiche
interpretative e applicative normalmente connesse con l'introduzione di
norme retroattive destinate a incidere su atti e rapporti in corso.
Con
riguardo, invece, all'ipotesi in cui alla data di entrata in vigore della
legge (ovvero il 19.12.2018) il compratore, attuale proprietario, non
abbia avviato alcuna azione giudiziaria, secondo il Notariato il venditore
potrà precludere l'azione di risarcimento mediante la stipula con il comune
del negozio di rimozione dei vincoli. Naturalmente il compratore potrà
stipulare egli stesso la convenzione in parola. In questo caso, però, a meno
di accordi con il venditore, sarà più difficile recuperare gli oneri
sostenuti per l'atto stipulato con l'ente locale.
Da ultimo si sottolinea come in base al comma 49-bis della predetta
disposizione, la nuova disciplina potrà avere completa attuazione solo a
seguito dell'emanazione del decreto del ministro dell'economia e delle
finanze, previa intesa in sede di conferenza unificata, che dovrà stabilire
la percentuale per la determinazione del corrispettivo da pagare al comune
per la rimozione del vincolo sul prezzo, oltre ai criteri e le modalità per
la concessione da parte dei comuni di dilazioni di pagamento del
corrispettivo.
Non si pongono problemi, invece, per le procedure di
rimozione dei vincoli avviate secondo la vecchia disciplina, per le quali
l'istanza al comune di determinazione del corrispettivo sia stata già
presentata alla data del 19.12.2018 (articolo ItaliaOggi Sette del 21.01.2019). |
LAVORI
PUBBLICI: Progetti
opere complesse, il Bim ora è obbligatorio. Innovazione in vigore dal 1°
gennaio per importi oltre 100 mln.
Dal 1° gennaio è in vigore l'obbligo di progettare
opere pubbliche complesse di importo superiore a 100 milioni con il Bim
(Building information modelling); necessari piani di formazione
professionali e di acquisizione di hardware e software per le stazioni
appaltanti.
È
questo l'effetto dell'entrata in vigore del primo step dell'articolata road map prevista dal decreto 560/2017 che dovrà portare all'integrale
applicazione del (Bim) entro il 2025.
Si tratta di una delle innovazioni di maggiore importanza contenuta nel
codice dei contratti pubblici del 2016 finora confermata dal nuovo governo
che, per bocca del ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, già nel
luglio scorso ebbe a dire: «Il Building information modeling può far fare un
salto di qualità agli appalti pubblici. Si possono ridurre drasticamente i
tempi di progettazione e i costi di costruzione, ottimizzando la gestione
delle infrastrutture realizzate. Ecco perché lavorerò duramente alla
diffusione della digitalizzazione nel settore delle costruzioni».
In realtà, il governo Conte raccoglie anche i frutti del lavoro dei governi
precedenti che avviarono l'implementazione del Bim in Italia, a valle del
decreto legislativo 50/2016 (attuando l'articolo 23, comma 13), attraverso
un'apposita commissione ministeriale presieduta dal provveditore alle opere
pubbliche di Lombardia ed Emilia-Romagna, Pietro Baratono, che mise a punto
i contenuti del decreto ministeriale primo dicembre 2017 n. 560. È in questo
provvedimento che, all'articolo 6, comma 1, lettera a) del decreto n. 560,
si rinviene l'obbligo di utilizzo del Bim dal 01.01.2019 per i lavori
complessi relativi ad opere di importo a base di gara pari o superiore a 100
milioni di euro.
Si tratta di una prima tappa perché il decreto ministeriale entrerà
compiutamente in vigore per le opere di qualsiasi importo soltanto dal 01.01.2025 secondo la seguente tempistica: per i lavori complessi relativi
a opere di importo a base di gara pari o superiore a 100 milioni di euro, a
decorrere dal 01.01.2019; per i lavori complessi relativi a opere di
importo a base di gara pari o superiore a 50 milioni di a decorrere dal 01.01.2020; per i lavori complessi relativi a opere di importo a base di
gara pari o superiore a 15 milioni di euro a decorrere dal 01.01.2021;
per le opere di importo a base di gara pari o superiore alla soglia di cui
all'articolo 35 del codice dei contratti pubblici (soglie comunitarie), a
decorrere dal 01.01.2022; per le opere di importo a base di gara pari o
superiore a 1 milione di euro, a decorrere dal 01.01.2023; per le opere
di importo a base di gara inferiore a un milione di euro, a decorrere dal 01.01.2025.
In una prima fase, quindi, si tratterà di un'applicazione obbligatoria
destinata alle opere complesse, sostanzialmente ad elevato contenuto
tecnologico, ma poi si applicherà indistintamente a tutte le opere. Nel
frattempo, nulla toglie che le stazioni appaltanti possano comunque chiedere
il Bim anche al di sotto dei 100 milioni, ma a condizione che abbiano
predisposto un piano di formazione del personale, un piano di acquisizione o
di manutenzione di hardware e software di gestione dei processi decisionali
e informativi e un atto organizzativo che espliciti il processo di controllo
e gestione, i gestori dei dati e la gestione dei conflitti
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Due
budget assunzionali per i nuovi vigili urbani.
Due budget assunzionali per i nuovi vigili urbani La legge di conversione
del dl n. 113/2018, ha introdotto disposizioni in materia di assunzioni del
personale di polizia locale, speciali e derogatorie rispetto al regime
ordinario per le assunzioni a tempo indeterminato.
L'Anci ha predisposto una specifica nota contenente linee di indirizzo
operativo-gestionali per supportare i comuni nell'attuazione di tali
disposizioni. L'art. 35-bis del dl n. 113/2018 individua come disciplina
oggetto di deroga l'art. 1, c. 228, legge n. 208/2015, che cessa la sua
efficacia proprio al 31/12/2018. Pertanto la disciplina derogatoria opera
sulla ordinaria capacità assunzionale di cui all'art. 3, c. 5, dl n.
90/2014, che prevede il 100% del turnover nel 2019.
L'art. 35-bis è ispirato dalla ratio del rafforzamento delle attività
connesse al controllo del territorio e del potenziamento degli interventi in
materia di sicurezza urbana, determinando un budget assunzionale
migliorativo per il personale di polizia locale rispetto a quello
ordinariamente previsto per tutti gli altri profili.
I comuni in regola con
gli obiettivi posti dai vincoli di finanza pubblica nel triennio 2016-2018
(rispetto del saldo finanziario), ferma la sostenibilità finanziaria in
termini di equilibri di bilancio (requisiti abilitanti all'incremento delle
facoltà assunzionali), nell'anno 2019 potranno assumere a tempo
indeterminato personale di polizia municipale nel limite della spesa
sostenuta per il personale a tempo indeterminato dell'area di vigilanza
nell'anno 2016.
Ad avviso di Anci, l'interpretazione letterale del richiamo
al limite della spesa 2016 non impedisce di utilizzare, nel 2019, la spesa
per cessazioni di personale di polizia locale eventualmente già utilizzata
come capacità assunzionale in altri settori. Un elemento di criticità è dato
dalla previsione per cui le cessazioni nell'anno 2018 del personale di
polizia municipale «non rilevano ai fini del calcolo delle facoltà assunzionali del restante personale».
Questa limitazione non appare
coordinata con le vigenti regole che disciplinano la determinazione della
facoltà assunzionale, la programmazione dei fabbisogni e le procedure
assunzionali. Questa previsione introduce infatti un fattore di rigidità
organizzativa senza offrire alcun vantaggio in termini assunzionali
imponendo a molte amministrazioni la modifica del piano dei fabbisogni
2019-2021, e determinando criticità operative in tutti quei casi in cui i
comuni abbiano già diversamente programmato l'utilizzo di tali risorse.
Inoltre, tenendo conto che tutte le procedure di reclutamento devono essere
precedute dalla pubblicazione di un avviso di mobilità volontaria,
l'eventuale finalizzazione positiva della mobilità in ingresso
determinerebbe, sulla base di una lettura rigida e formale della norma, la
perdita della capacità assunzionale generata dal personale di polizia
municipale cessato nell'anno 2018. Sul punto Anci ritiene necessario un
intervento normativo volto ad abrogare l'ultimo periodo dell'art. 35-bis.
L'applicazione della nuova disciplina implica innanzitutto l'individuazione,
per l'anno 2019, di due distinti budget assunzionali: uno specifico per il
personale della polizia municipale, ove l'ente si avvalga della disciplina
derogatoria, e uno relativo al restante personale, in applicazione del
regime ordinario
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019). |
TRIBUTI: Incentivi
per gli uffici tributi. Negli enti che varano presto i bilanci e non
esternalizzano. La chance è prevista nella legge di
Bilancio. Ma la norma non brilla per chiarezza.
Così
come più volte auspicato dall'Anutel, la finanziaria appena licenziata ha
introdotto, con il comma 1091 dell'art. 1 della legge 30.12.2018, n.
145, una norma volta ad incrementare la capacità di contrasto all'evasione
dei comuni che certo non brilla per chiarezza e che deve quindi essere
correttamente inquadrata al fine della corretta applicazione.
Il meccanismo delineato dal legislatore prevede la costituzione di un fondo
utilizzabile sia per il potenziamento delle risorse strumentali degli uffici
preposti alla gestione delle entrate (acquisto pc, software, elaborazioni
informatiche, specifici servizi professionali ecc.) sia per l'incremento
delle risorse da destinare al trattamento economico accessorio del personale
ivi impiegato.
Non tutti i comuni potranno beneficiarne, essendo l'ambito di
applicazione limitato solo a quelli che provvedono ad approvare nei termini
il bilancio preventivo e consuntivo e che non abbiano esternalizzato
l'attività di accertamento e riscossione dei tributi. La concreta
applicazione dell'incentivo è affidata alla potestà regolamentare dell'ente
che dovrà disciplinarne gli aspetti operativi quali, ad esempio, le risorse
strumentali acquistabili, le modalità di costituzione dei gruppi di lavoro e
di individuazione dei soggetti che vi partecipano, la quantificazione degli
importi erogabili quale trattamento accessorio ecc.
Le somme utilizzabili sono quelle derivanti dal recupero evasione Imu e Tari
e dalla partecipazione dei comuni all'accertamento dei tributi erariali e
dei contributi sociali non corrisposti (il cui maggior gettito è devoluto
integralmente ai comuni per il 2019), con la precisazione che, stante il
tenore della norma, questi ultimi concorrono solo ad alimentare il
trattamento accessorio e non anche il potenziamento delle risorse
strumentali.
Onde assicurare la spendita di somme «certe» il legislatore ha
statuito che occorre fare riferimento al «maggiore gettito accertato e
riscosso nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento
risultante dal conto consuntivo approvato nella misura massima del 5%».
Siffatta previsione, unitamente alla natura e alla finalità delle somme di
cui si discute, fa propendere per l'operatività della norma solo per il
futuro e quindi dal 2020 in relazione ai dati risultanti dal consuntivo
2019.
Infatti, è necessario che sia prima definito l'intero impianto
incentivante perché poi si possa provvedere alla utilizzazione dei fondi. E
questo anche in considerazione della distribuzione del trattamento economico
accessorio, nel limite del 15% del trattamento tabellare annuo lordo
individuale, (riconoscibile anche al personale di qualifica dirigenziale, in
deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo n.
75/2017) vincolato al raggiungimento di obiettivi che possano essere
misurabili e valutabili
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019). |
APPALTI: Dal
15/1 gare d’appalto con commissari esterni. Vanno scelti tra gli esperti
iscritti all’albo tenuto dall’Anac.
Dal 15.01.2019 scatta l'obbligo di nomina dei
commissari di gara esterni per l'affidamento di contratti pubblici da
aggiudicarsi con l'offerta economicamente più vantaggiosa. La nomina dei
commissari avverrà dopo la presentazione delle offerte scegliendo fra gli
esperti iscritti nell'albo Anac previsto dagli articoli 77 e 78 del codice
dei contratti pubblici (decreto 50/2016).
La
scadenza non è una novità, anche se in molti si attendevano una proroga che
al momento non ci sarà: già con il comunicato Anac di cui alla delibera 648
del 18.07.2018 si era previsto che «ai fini dell'estrazione degli
esperti, l'Albo è operativo, per le procedure di affidamento delle quali i
bandi e gli avvisi prevedono termini di scadenza della presentazione
dell'offerte a partire, dal 15.01.2019».
Per gli appalti di lavori l'obbligo si applicherà a tutti i contratti di
importo superiore a un milione di euro; per servizi e forniture vale per
affidamenti di importo superiore alla soglia di applicazione della normativa
Ue, cioè oltre 221.000 euro. Generalmente si tratterà di nominare tre o
cinque commissari, presidente incluso quando il criterio di aggiudicazione
non è quello del prezzo più basso (ammesso per i lavori fino a due milioni,
per servizi e forniture fino a 40 mila euro o anche fino alla soglia Ue se a
«carattere di elevata ripetitività»). Le stazioni appaltanti potranno però
ancora nominare commissari interni non soltanto al di sotto delle soglie
previste (un milione per lavori e 211 mila euro per servizi e forniture), ma
anche per contratti «che non presentano particolare complessità».
Si tratta dei contratti che vengono affidati con sistemi dinamici di
acquisizione (art. 55 del decreto 50/2016) e con le procedure interamente
gestite tramite piattaforme telematiche di negoziazione. La procedura passa
per l'utilizzo di un applicativo che l'Anac ha predisposto e reso operativo
dal 10 settembre 2018 e che ha lo scopo di iscrivere e selezionare,
attraverso sorteggio, i componenti esterni incluso il presidente della
commissione. I candidati in possesso dei requisiti di esperienza, di
professionalità e di onorabilità previsti dalle Linee guida Anac n. 5
possono iscriversi, in qualsiasi momento dell'anno, all'Albo, attraverso
l'applicativo, autocertificando, ai sensi del dpr 28.12.2000 n. 445,
il possesso dei requisiti. Il richiedente deve essere in possesso di un
dispositivo per la firma digitale, di un indirizzo Pec e disporre di
credenziali username e password rilasciate dal sistema dell'Autorità. Il
ricorso all'applicativo Anac è obbligatorio quando i «bandi o gli avvisi
prevedono termini di scadenza della presentazione delle offerte a partire
dal 15.01.2019».
Le stazioni appaltanti dovranno però prestare
particolare attenzione ai tempi perché le linee guida Anac n. 5 scadenzano
con precisione gli adempimenti a loro carico, a partire dalla richiesta
sull'applicativo del numero di esperti da estrarre, in misura pari al doppio
o al triplo degli esperti da nominare.. Nel bando la stazione appaltante
dovrà inserire anche i criteri di scelta del presidente e la durata prevista
dei lavori della commissione. L'Anac potrà scegliere i componenti della
commissione giudicatrice «anche tra gli esperti interni alla stazione
appaltante, previa richiesta della stazione appaltante e con un confronto
con la stessa». In questo caso la stazione appaltante dovrà inviare all'Anac
una richiesta motivata entro 30 giorni antecedenti il termine per la
richiesta dell'elenco dei candidati
(articolo ItaliaOggi del 09.01.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Corrotti e corruttori al bando.
La riabilitazione può attendere. Stretta a 360 gradi sui delitti contro la
p.a. con le norme approvate il 18 dicembre
Via
per sempre (o quasi) dalla vita economica del Paese corrotti e corruttori: i
primi saranno interdetti dai pubblici uffici a vita, oltre che per i reati
attualmente previsti, anche in caso di corruzione impropria e aggravata,
induzione indebita a dare o promettere utilità, per corruzione di persona
incaricata di pubblico servizio, corruzione attiva, istigazione alla
corruzione; traffico di influenze illecite.
I secondi saranno esclusi dalla vita economica pubblica anche per i reati di
peculato, escluso quello d'uso; corruzione in atti giudiziari; traffico di
influenze illecite.
E non solo. Anche se dovesse intervenire la riabilitazione (che estingue la
condanna) a seguito dell'esito positivo dell'affidamento in prova ai servizi
sociali, le pene accessorie interdittive sarebbero comunque perpetue.
Insomma: niente più casi «Berlusconi», il quale è tornato ad essere
candidabile dopo che il Tribunale di sorveglianza di Milano nella primavera
scorsa lo ha riabilitato a seguito del servizio sociale svolto presso
l'istituto della Sacra Famiglia di Cesano Boscone.
I «faccendieri» non potranno più far sentire la loro influenza, reale o
millantata che sia.
La stretta del governo giallo-verde sulla corruzione si annuncia destinata a
propagare i suoi effetti in un futuro espanso, e non solo nei termini della
maggiore incisività investigativa e di accertamento dei reati contro la
pubblica amministrazione nel processo, ma anche con l'intento, in effetti
anche dichiarato, di «spazzare via» dalla vita pubblica tutti coloro che si
sono macchiati di comportamenti illeciti nei confronti dell'amministrazione
pubblica.
Sono forse questi gli aspetti di maggiore incisività, che si aggiungono ai
temi più prettamente processuali, della legge «spazzacorrotti» approvata in
via definitiva dal Senato lo scorso 18 dicembre. Ed ai quali si sommano le
altre novità, oltre il cosiddetto «Daspo» appunto: aumento dell'entità delle
pene accessorie, arresto in flagranza di reato, aumento a due anni dei
termini delle indagini preliminari e preclusioni ad accedere ai benefici
penitenziari e misure alternative. Introduzione del «pentito» e delle
operazioni sotto copertura (ma non agente provocatore) e della possibilità
di utilizzare le intercettazioni con trojan (finora limitate alle ipotesi di
criminalità organizzata e terrorismo) anche per i reati contro la p.a.
Congelamento della prescrizione dopo le sentenze di primo grado e nuove
regole per la trasparenza del finanziamento dei partiti.
L'andamento parlamentare. Approvata con la fiducia al Senato il 23 novembre
scorso, il testo esaminato in seconda lettura da Montecitorio è pressoché
identico a quello licenziato in prima lettura se non fosse per la modifica
che ha eliminato la disposizione volta ad assorbire nell'abuso d'ufficio una
fattispecie configurata attualmente come peculato e perciò punita più
severamente.
«Questa legge è per tutti i cittadini onesti», ha detto il ministro
guardasigilli Alfonso Bonafede commentando il voto finale, «per tutti gli
imprenditori che vogliono fare bene il loro lavoro e per tutte le persone
che faranno rinascere questo Paese. Per noi questa è una legge molto
importante, il mio primo pensiero va ai giovani italiani e al loro futuro».
Per magistrati e avvocati però la musica è diversa: Anm e Ucpisi si sono
ritrovate nelle critiche alle modifiche alla norma sulla prescrizione,
destinate, è la denuncia, a rendere il processo penale una spada di Damocle
permanente sulla testa degli indagati o imputati.
Anche il Csm, con un parere arrivato a legge approvata, lo scorso 19
dicembre, ha espresso critiche sulla riforma della prescrizione e sulla
previsione del Daspo a vita per i corrotti adombrando seri rischi di
incostituzionalità anche per gli effetti sui diritti alla difesa e alla
ragionevole durata dei processi. Con conseguente probabile ricaduta sugli
esborsi ex Legge Pinto.
L'inasprimento dei reati contro la Pa. Per grandi linee, il provvedimento
interviene su due questioni: i reati contro la pubblica amministrazione e la
trasparenza nel finanziamento ai partiti.
Sul primo fronte, la legge interviene sul codice penale (inasprendo le pene
dei reati contro la pa), sul codice di procedura penale (potenziando
strumenti di indagine e di accertamento), sul codice civile (rendendo
perseguibile d'ufficio la corruzione tra privati), sull'ordinamento
penitenziario e sulla legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa da
reato per le persone giuridiche (vedi altro articolo nella pagina affianco).
Il testo introduce un'aggravante del delitto di indebita percezione di
erogazioni a danno della Stato, quando il fatto sia commesso da un pubblico
ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio; aumenta le pene per i
delitti di corruzione per l'esercizio della funzione e di appropriazione
indebita.
Ridefinisce la fattispecie del traffico di influenze illecite, assorbendo il
millantato credito e rendendo passibile di pena anche colui che dà o
promette la somma di denaro, non più reputato alla stregua di una vittima
del raggiro.
Inasprimento delle pene accessorie (Daspo). Il provvedimento introduce
l'incapacità di contrarre con la p.a. (cosiddetto Daspo) nell'ipotesi di un
ventaglio molto ampio di reati, così come la interdizione perpetua dai
pubblici uffici.
La riabilitazione sarà possibile, sulla carta, non prima di sette anni e con
la prova di buona condotta. Aumentano i termini della interdizione
temporanea.
L'accesso alla sospensione condizionale della pena sarà più oneroso: non
solo riguarderà anche il corruttore «privato» e sarà condizionato al
pagamento, all'amministrazione lesa, della somma determinata a titolo di
riparazione pecuniaria; ma il giudice potrà decidere di non estenderne gli
effetti alla interdizione dai pubblici uffici o al cosiddetto Daspo.
Viene introdotta la figura del «pentito». La legge introduce una causa di
non punibilità (nuovo articolo 323-ter), in presenza di autodenuncia (prima
di essere iscritto nel registro degli indagati e in ogni caso entro sei mesi
dal fatto, mettendo a disposizione l'utilità ricevuta) e di collaborazione
con l'autorità giudiziaria.
Il millantato credito viene abrogato come fattispecie a sé e ricompreso
nella nuova formulazione del traffico di influenze illecite.
Agente sotto copertura. Il provvedimento estende la disciplina delle
operazioni di polizia sotto copertura al contrasto di alcuni reati contro la
pubblica amministrazione.
La nuova prescrizione. Per quanto riguarda la prescrizione, il testo prevede
una parziale riforma modificando gli articoli 158, 159 e 160 del codice
penale.
Il provvedimento individua nel giorno di cessazione della continuazione il
termine di decorrenza della prescrizione in caso di reato continuato (si
tratta di un ritorno alla disciplina anteriore alla legge ex Cirielli del
2005); sospende il corso della prescrizione dalla data di pronuncia della
sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione) o dal decreto
di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il
giudizio o alla data di irrevocabilità del citato decreto.
L'entrata in vigore della riforma della prescrizione è fissata (comma 2
dell'art. 1) al 1° gennaio 2020.
Trojan per investigazioni domiciliari ad ampio raggio. Sono consentite
sempre le intercettazioni mediante l'uso dei captatori informatici (cd.
trojan) su dispositivi elettronici portatili nei procedimenti per delitti
contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non
inferiore nel massimo a cinque anni. Inoltre cade il paletto del loro
utilizzo domiciliare, che sarà possibile anche quando non vi è motivo di
ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2019). |
ENTI LOCALI: Revisori,
aumentano i compensi.
Aumentano dal 01.01.2019 i compensi spettanti ai revisori dei conti
degli enti locali, calcolati in relazione alla classe demografica e alle
spese di funzionamento e di investimento.
A provvedervi il decreto 21.12.2018 del ministero dell'interno pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
n. 3 del 04.01.2019. Il Viminale ha proceduto agli incrementi
considerando che, come si legge nel preambolo al dm, che «le funzioni del
revisore contabile nell'ultimo decennio sono esponenzialmente aumentate alla
luce della legislazione della finanza pubblica e che questo impone
l'adeguamento dei compensi base, anche per rispettare i principi sull'equo
compenso, di cui all'art. 13-bis della legge 31.12.2012, n. 247»
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Un pieno di tax credit nel 2019.
Tra le novità sgravi (fino a 20 mila €) per compostabili. LEGGE
DI BILANCIO/ Una conferma anche per evergreen come i bonus energetici.
Pieno
di crediti d'imposta e detrazioni nella manovra 2019. Dalla conferma di
misure ormai consolidate, come le agevolazioni per ristrutturazioni e
riqualificazione energetica degli edifici, alla riproposizione di sport
bonus e bonus verde. Ma con il maxi-emendamento governativo alla legge di
Bilancio sono arrivate anche novità come il tax credit per le imprese che
acquistano prodotti riciclati o imballaggi compostabili.
Una misura analoga
era già stata prevista lo scorso anno, ma a causa della mancata emanazione
del dm attuativo è rimasta lettera morta. L'incentivo per il 2019-2020
consentirà alle aziende un risparmio fiscale pari al 36% delle spese
sostenute per l'acquisto dei prodotti «eco-friendly»: non si tratta solo di
materiali derivanti dalla raccolta degli imballaggi in plastica, ma anche di
quelli originati dallo smaltimento differenziato di carta e alluminio. Il
bonus potrà arrivare fino a 20 mila euro per ciascun beneficiario. Le
modalità tecniche saranno definite da un decreto del ministero
dell'ambiente, che dovrà vedere la luce entro il 01.04.2019.
Tra le
misure inserite in zona Cesarini nella legge 145/2018 (si veda tabella a
lato) la detrazione Irpef per l'installazione di colonnine per la ricarica
di veicoli elettrici nelle case private: saranno agevolate le spese fino a 3
mila euro sostenute tra il 01.03.2019 e il 31/12/2021. Sgravio pari al 50%
dell'investimento, utilizzabile dal contribuente in dieci quote annuali
direttamente nella dichiarazione dei redditi. Servirà un decreto da emanare
entro il 2 marzo
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Uno stop alla speranza di vita.
Cade l’aggancio al requisito per la pensione anticipata. QUOTA 100/ Cosa
prevede la bozza di decreto che sarà varato entro il 14 gennaio.
Stop
alla speranza di vita. Almeno per la pensione anticipata. Stando ad
anticipazioni, infatti, il decreto attuativo della riforma delle pensioni
(quota 100 e altre misure) potrebbe cancellare l'adeguamento all'aspettativa
di vita del requisito unico previsto per la pensione anticipata (ex pensione
d'anzianità), cristallizzandolo a 41 anni e 10 mesi alle donne, a 42 anni e
10 mesi agli uomini e a 41 anni ai precoci (chi ha iniziato a lavorare in
giovane età).
La novità avrebbe effetto dal 1° gennaio (facendo così venir
meno l'incremento che c'è appena stato di cinque mesi), come tutte le altre
novità di riforma che riguardano quota 100, opzione donna, Ape sociale.
Le misure finiranno in un unico provvedimento, insieme con quelle legate al
reddito di cittadinanza (si veda ItaliaOggi del 2 gennaio), che verrà
approvato dal consiglio dei ministri entro il prossimo 14 gennaio.
Speranza di vita
La novità potrebbe essere, dunque, l'abrogazione dell'adeguamento
all'aspettativa di vita che viene cristallizzata in 41 anni e 10 mesi alle
donne, 42 anni e 10 mesi agli uomini e 41 anni ai precoci.
La novità riguarderebbe il requisito contributivo previsto per la pensione
anticipata che, dal 1° gennaio, per effetto proprio dell'adeguamento alla
speranza di vita che è scattato quest'anno (pari a cinque mesi), risulta
pari a 42 anni e 3 mesi alle donne e 43 anni e 3 mesi agli uomini.
La porta d'accesso al riposo, però, si aprirà trascorsi tre mesi dalla
maturazione dei requisiti. La misura dovrebbe interessare i lavoratori
iscritti all'Ago dell'Inps (dipendenti e autonomi del settore privato),
nonché quelli iscritti alla gestione separata (parasubordinati).
Resterebbero, dunque, fuori i dipendenti pubblici.
Quota 100
L'attesa misura «quota 100» avrà durata sperimentale di tre anni, con uno
stanziamento di 21 miliardi così da interessare una potenziale platea di
circa 800 mila beneficiari.
Riguarderà il trattamento di pensione anticipata che si potrà conseguire,
appunto, maturando «quota 100» con la somma di età e contributi, a partire
dai 62 anni di età e 38 anni di contributi. La misura, come detto, sarà
retroattiva, con decorrenza cioè dal 1° gennaio.
Anche in tal caso, la porta di accesso al riposo si aprirà trascorsi tre
mesi dalla maturazione dei requisiti.
Opzione donna
Scompare il riferimento a scadenze e rinnovi, con l'ipotesi di rendere la
misura strutturale. Si ricorda che il regime c.d. «opzione donna», la cui
ultima operatività si è chiusa al 31.12.2015, ha consentito alle
lavoratrici donne (appunto) di andare in pensione prima rispetto ai
requisiti ordinari fissati per il pensionamento, ossia in presenza di almeno
35 anni di contributi e di un'età non inferiore a 57 anni e tre mesi (58
anni e tre mesi se lavoratrici autonome).
La facoltà era esercitabile a una condizione: optare per il calcolo
contributivo della pensione (di tutta la pensione).
Il regime è una misura a esclusivo favore delle lavoratrici sia del settore
pubblico sia del privato, e sia titolari di un rapporto di lavoro dipendenti
sia autonomo.
Ape sociale
Ha chiuso i battenti il 31.12.2018. La riforma prevede il rinnovo per
un altro anno, il 2019.
Si ricorda che l'Ape (acronimo che sta per «anticipo pensionistico»)
consente di mettersi in pensione prima dell'età stabilita dalla legge e, in
particolare, a 63 anni d'età a patto che nei successivi 3 anni e 7 mesi
venga maturato il diritto alla pensione di vecchiaia
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019). |
ENTI LOCALI - VARI: Multe auto, scatta l’aumento.
Restyling per i servizi Ncc. Ztl aperte a veicoli ibridi. CIRCOLAZIONE
STRADALE/ Ecco tutte le novità in vigore dal 01.01.2019.
Aumento
degli importi delle sanzioni stradali del 2,2%. Nuove regole per il servizio
di noleggio con conducente. Accesso libero alle ztl per i veicoli a
propulsione elettrica o ibrida. Circolazione in via sperimentale di segway,
hoverboard e monopattini nelle strade delle città. Rinvio al 2020 del
documento unico di circolazione. Stop agli autobus Euro 0 a benzina o
gasolio.
Sono alcune delle novità in materia di circolazione stradale
previste da vari provvedimenti in vigore dal 01.01.2019.
Sanzioni del codice della strada. Da capodanno è scattato l'aumento degli
importi delle sanzioni previste dal codice stradale (si veda quanto
anticipato da ItaliaOggi del 23/11/2018) in seguito alla pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale del 29.12.icembre 2018 del decreto del ministero della
giustizia del 27 dicembre, che ha disposto l'aggiornamento nella misura del
2,2%, corrispondente alla variazione biennale dell'indice di variazione
percentuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (si
veda tabella in pagina).
Come chiarito anche dalla circolare prot. n.
300/A/9857/18/101/3/3/14 del 31.12.2018 del ministero dell'interno, nel
calcolo si applica la consueta regola dell'arrotondamento all'unità di euro
per eccesso se la frazione decimale è pari o superiore a 50 centesimi di
euro oppure per difetto se è inferiore. L'arrotondamento va applicato alle
sanzioni edittali, ma non agli importi che costituiscono il risultato di
operazioni di divisione rispetto ai valori minimi o massimi previsti dal
codice della strada, come, per esempio, le somme da iscrivere a ruolo o le
somme richieste a titolo di cauzione.
Noleggio con conducente. Con il decreto legge n. 143 del 29.12.2018,
recante «disposizioni urgenti in materia di autoservizi pubblici non di
linea», pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 29 dicembre, sono entrate in
vigore dal 30 dicembre nuove regole per il servizio di noleggio con
conducente. La richiesta di tale servizio può adesso essere trasmessa anche
mediante l'utilizzo di strumenti tecnologici; inoltre, non più soltanto
presso la rimessa, ma anche presso la sede.
Il vettore può disporre di
ulteriori rimesse nel territorio di altri Comuni della medesima Provincia o
area metropolitana in cui ricade il territorio del Comune che ha rilasciato
l'autorizzazione, previa comunicazione ai Comuni predetti, salvo diversa
intesa raggiunta in Conferenza unificata entro il 28 febbraio 2019. Oltre a
ciò, il decreto legge n. 143/2018, che modifica la legge n. 21 del 15.01.1992 («legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi
pubblici non di linea»), prevede che il foglio di servizio debba essere
compilato e tenuto dal conducente in formato elettronico, secondo le
specifiche tecniche che saranno stabilite dal ministero delle infrastrutture
e dei trasporti con proprio decreto, adottato di concerto con il ministero
dell'interno.
Fino all'adozione del decreto, il foglio di servizio
elettronico è sostituito da una versione cartacea dello stesso
(caratterizzato da numerazione progressiva delle singole pagine, con gli
stessi contenuti previsti per quello in formato elettronico), da tenere in
originale a bordo del veicolo per un periodo non inferiore a quindici
giorni, per essere esibito agli organi di controllo, con copia conforme
depositata in rimessa.
L'inizio di un nuovo servizio può avvenire senza il
rientro in rimessa, quando sul foglio di servizio siano registrate, sin
dalla partenza dalla rimessa o dal pontile d'attracco, più prenotazioni di
servizio oltre la prima, con partenza o destinazione all'interno della
Provincia o dell'area metropolitana in cui ricade il territorio del Comune
che ha rilasciato l'autorizzazione. Infine, il decreto legge dispone che è
consentita la fermata su suolo pubblico durante l'attesa del cliente che ha
effettuato la prenotazione del servizio e nel corso dell'effettiva
prestazione del servizio stesso.
Come precisato dalla circolare del
ministero dell'interno prot. 300/A/18/19/113/11 del 2 gennaio, le sanzioni
di cui all'art. 11-bis della legge n. 21/1992, relative all'inosservanza
degli art. 3 e 11, si applicheranno dal 30.03.2019; fino a tale data non
potranno essere contestate le violazioni di cui all'art. 85, commi 4 e
4-bis, del codice della strada limitatamente ai soggetti titolari di
autorizzazione per l'esercizio del servizio di noleggio con conducente.
Hoverboard in strada. La legge di bilancio n. 145 del 30.12.2018
(gazzetta ufficiale del 31 dicembre) prevede che con decreto del ministro
delle infrastrutture e dei trasporti, da adottare entro il 30 gennaio 2019,
sarà regolamentata la circolazione stradale in via sperimentale di veicoli
per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica, come segway, hoverboard e monopattini.
Documento unico di circolazione. La legge di bilancio n. 145/2018 ha
disposto il rinvio al 01.01.2020 del termine a decorrere dal quale la
nuova carta di circolazione, come regolamentata dal decreto legislativo n.
98 del 29.05.2017, costituirà il documento unico di circolazione dei
veicoli, contenente i dati di circolazione e di proprietà.
Stop agli autobus Euro 0. Come previsto dall'articolo 1, comma 232, della
legge n. 190 del 23.12.2014 (legge di stabilità 2015), dal 01.01.2019 è vietata la circolazione di veicoli a motore categorie M2 e M3
alimentati a benzina o gasolio con caratteristiche antinquinamento Euro 0.
Si tratta degli autobus per il trasporto di persone con più di otto posti a
sedere oltre al sedile del conducente.
Tuttavia, ai sensi del decreto del
ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 03.11.2016 (gazzetta
ufficiale del 16.12.2016), sono esclusi dal divieto i veicoli di
interesse storico e collezionistico iscritto in uno dei registri di cui
all'articolo 60, comma 4, del codice della strada (articolo ItaliaOggi del 04.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Due budget assunzionali per assumere i vigili.
Due distinti budget assunzionali per i comuni. Uno specifico per il
personale della polizia locale, in applicazione della disciplina derogatoria
prevista dal decreto sicurezza (art. 35-bis). E l'altro in applicazione del
regime ordinario che, tuttavia, non si può escludere che possa essere
destinato dagli enti «anche per un ulteriore potenziamento dell'organico
della polizia locale».
A chiarirlo è l'Anci in una nota operativa sulle
assunzioni di vigili potenziate dal decreto Salvini.
L'art. 35-bis del dl 113
prevede infatti che «al fine di rafforzare le attività connesse al controllo
del territorio e di potenziare gli interventi in materia di sicurezza
urbana, i comuni che nel triennio 2016-2018 hanno rispettato gli obiettivi
dei vincoli di finanza pubblica possono, nell'anno 2019, in deroga alle
disposizioni di cui all'articolo 1, comma 228, della legge 28.12.2015,
n. 208, assumere a tempo indeterminato personale di polizia municipale, nel
limite della spesa sostenuta per detto personale nell'anno 2016 e fermo
restando il conseguimento degli equilibri di bilancio. Le cessazioni
nell'anno 2018 del predetto personale non rilevano ai fini del calcolo delle
facoltà assunzionali del restante personale».
La norma che, come ha chiarito
l'Anci, non si applica alle città metropolitane e alle province, ha creato
più di un problema interpretativo soprattutto con riferimento al parametro
della spesa del 2016 e all'inciso secondo cui le cessazioni 2018 del
personale di polizia municipale non rilevano ai fini del calcolo delle
facoltà assunzionali del restante personale.
Con riguardo al primo profilo,
l'Anci ritiene che «l'interpretazione letterale del richiamo al limite della
spesa 2016, non impedisce di utilizzare, nel 2019, la spesa per cessazioni
di personale di polizia locale eventualmente già utilizzata come capacità assunzionale in altri settori».
Mentre per quanto riguarda il secondo
profilo, secondo l'Anci, la limitazione opera esclusivamente nell'ipotesi in
cui l'ente abbia deciso di avvalersi dello speciale regime derogatorio di
cui all'art. 35-bis. Pertanto, nel caso in cui l'ente intenda applicare la
disciplina ordinaria del turnover, prevista dall'art. 3, comma 5, del dl
90/2014, potrà computare nel buget assunzionale complessivo anche le
cessazioni intervenute nel 2018 nell'ambito del personale assegnato all'area
della vigilanza
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifiche con lo sgravio del 65%.
CREDITO D’IMPOSTA.
In arrivo un credito d'imposta del 65% per chi finanzia
interventi di bonifica e prevenzione su edifici e terreni pubblici. Il bonus
fiscale, aperto a persone fisiche, enti non commerciali e società, coprirà
anche i lavori per la rimozione dell'amianto, per il risanamento del
dissesto idrogeologico e per la realizzazione di parchi e aree verdi
attrezzate.
È una delle novità
contenute nella legge di Bilancio 2019. La misura recata dai commi 156-161
rientra in un più ampio pacchetto di norme finalizzate alla messa in
sicurezza del territorio, con particolare attenzione anche alla cosiddetta
«terra dei fuochi» (va precisato comunque che l'incentivo sarà operante in
tutta Italia).
Il tax credit sarà riconosciuto a chi effettua, a partire dal
01.01.2019, erogazioni liberali in denaro per sostenere progetti di
recupero presentati dagli enti proprietari dei fabbricati e/o delle aree
inquinate o contaminate. L'incentivo, fruibile in tre quote annuali, potrà
arrivare a un massimo del 20% del reddito imponibile per le persone fisiche
e del 10 per mille dei ricavi annui per le imprese. Ciò significa che un
privato cittadino che presenta un reddito di 30 mila euro potrà recuperare
dall'Irpef fino a 6 mila euro in tre anni (che corrisponde a una donazione
di circa 9.230 euro), mentre un'azienda che fattura un milione di euro potrà
ottenere uno sgravio Ires di 10 mila euro (donandone 15.384).
Come già
avvenuto lo scorso anno per lo sport bonus, le donazioni potranno essere
effettuate anche a favore dei soggetti concessionari o affidatari dei beni
oggetto degli interventi. Per garantire un regime di piena trasparenza, i
beneficiari delle somme dovranno rendicontare mensilmente al ministero
dell'ambiente gli importi ricevuti. Prevista anche la pubblicazione on-line
delle informazioni sull'uso dei fondi in un apposito portale, gestito
dall'Ambiente. A fissare le regole operative del credito d'imposta sarà un
dpcm, entro il 01.04.2019. La misura è stata finanziata con un milione di
euro per il 2019, 5 per il 2020 e 10 annui dal 2021 (articolo ItaliaOggi del 03.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente
idonei per i concorsi avviati a partire dal 2019.
Niente idonei ma solo per i concorsi avviati a partire dal 2019. Gli enti
potranno continuare a scorrere le graduatorie dei concorsi degli anni
precedenti (si veda ItaliaOggi di ieri) a partire dalle graduatorie
approvate dal 01.01.2010, e utilizzare anche quelle vigenti presso
altri enti, in applicazione dell'articolo 3, comma 61, della legge 350/2003,
finché resteranno valide.
Gli enti debbono coordinare le previsioni della legge di Bilancio 2019 con
le disposizioni vigenti, in particolare quelle che impongono di scorrere le
graduatorie di altre amministrazioni, prima di effettuare nuovi concorsi.
È evidente che questa possibilità di attingere agli idonei di graduatorie di
amministrazioni diverse (qualora quelle proprie siano per qualsiasi ragione
esaurite) si riferisce esclusivamente alle graduatorie che nel passato
avevano legittimamente prodotto idonei: si tratta di tutte le graduatorie
approvate dall'01.01.2010 e fino al 31.12.2018. Le amministrazioni, dunque,
per scorrere le proprie graduatorie ed eventualmente quelle di altre,
dovranno guardare con attenzione lo scadenzario della loro validità,
disposto dall'articolo 1, comma 362, della legge 145/2018.
Per quanto riguarda le graduatorie che si produrranno a partire
dall'1.1.2019, esse avranno validità triennale, ma da esse sarà vietato
attingere agli idonei per posti nuovi e diversi rispetto a quelli banditi.
L'articolo 1, comma 361, della legge di Bilancio, infatti dispone che le
graduatorie «sono utilizzate esclusivamente per la copertura dei posti messi
a concorso»: dunque, gli idonei potrebbero entrare in gioco solo qualora il
vincitore del concorso non prenda servizio oppure cessi dal servizio per
qualsiasi causa, entro il triennio di validità della graduatoria.
Poiché le graduatorie formatesi a partire dall'01.01.2019 sono utilizzabili
solo per i posti messi a concorso, altre amministrazioni potrebbero
utilizzarle solo per assunzioni a tempo determinato, ai sensi dell'articolo
36, comma 2, del dlgs 165/2001: è chiaro che l'amministrazione titolare
della graduatoria a tempo indeterminato potrà in ogni momento chiamare in
servizio il dipendente eventualmente assunto a termine presso un altro ente.
Il sistema congegnato dalla legge 145/2019 si regge sulla fiducia nella
capacità concreta di realizzare i concorsi unici nazionali previsti
dall'articolo 1, comma 360, della legge 145/2018. Questi concorsi, infatti,
dovrebbero produrre graduatorie nazionali, molto ampie, tali da consentire
alle amministrazioni di attingervi, senza dover più preoccuparsi
dell'utilizzo di graduatorie di amministrazioni differenti.
Ovviamente, tutto ciò richiede il rispetto di alcune condizioni.
In primo
luogo, occorre che i concorsi unici procedano senza intoppi: cosa alquanto
complessa, visto che il rischio di ricorsi, nelle procedure di reclutamento,
è elevatissimo e quindi la prospettiva di mega concorsi fermi per anni è
tutt'altro che astratta. In secondo luogo, il Ripam (acronimo di
Riqualificazione della pubblica amministrazione), ovverosia la struttura
chiamata a realizzare i concorsi unici, dovrà essere capace di indire i
bandi per tutte, ma proprio tutte, le figure ed i profili professionali
necessarie alle migliaia di amministrazioni: oggi non esiste nemmeno una
mappatura completa di questi profili. In terzo luogo, occorrerà che
la quantità di posti messi a bando sia perfettamente corrispondente ai
fabbisogni evidenziati dagli enti: tuttavia, la definizione dei fabbisogni,
come introdotta dalla riforma Madia, è ancora agli albori e una banca dati
unitaria e fruibile è ancora ad oggi assente.
Ancora, bisognerà stabilire criteri di «precedenza» tra enti per
attingere alle graduatorie, qualora ciò si renda necessario perché, ad
esempio, un vincitore di concorso receda dal rapporto di lavoro per
qualsiasi causa; altrettanti criteri di priorità dovrebbero essere disposti
per consentire di attingere alle graduatorie uniche nazionali per assumere
vincitori di concorso a tempo indeterminato con contratti a termine, nel
rispetto dell'articolo 36, comma 2
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta Cv, il datore può chiedere solo la verifica dei requisiti. IL
GARANTE ANALIZZA LE COMPATIBILITÀ TRA IL CODICE PRIVACY E IL GDPR SUL
TRATTAMENTO DATI PARTICOLARI.
Nel form per la raccolta del curriculum, il datore di lavoro deve inserire solo
i dati necessari alla verifica dei requisiti di chi aspira all'assunzione.
È
una delle regole relative al trattamento dei dati particolari da parte dei
datori di lavoro contenuta nelle vecchie autorizzazioni generali per il
trattamento dei dati sensibili, ritenuta compatibile dal Garante della
privacy, chiamato a passare al setaccio le norme del codice della privacy (dlgs
196/2003) rispetto al regolamento europeo n. 2016/679 (operativo dal 25.05.2018).
La verifica di compatibilità delle vecchie autorizzazioni generali è
prevista dall'articolo 21 del dlgs 101/2018 ed è stata realizzata dal
Garante con il provvedimento n. 497 del 13.12.2018. In merito alle
autorizzazioni generali (1/2016, 3/2016, 6/2016, 8/2016 e 9/2016) il
provvedimento del Garante ha individuato le prescrizioni compatibili con il
regolamento Ue e con il dlgs n. 101/2018 di adeguamento del codice.
La
cernita delle prescrizioni previgenti ha portato il Garante a ritenere in
piedi una serie di prescrizioni relative al trattamento di categorie
particolari di dati nei rapporti di lavoro (n. 1/2016); al trattamento di
categorie particolari di dati da parte degli organismi di tipo associativo,
delle fondazioni, delle chiese e associazioni o comunità religiose (n.
3/2016); al trattamento di categorie particolari di dati da parte degli
investigatori privati (n. 6/2016); al trattamento dei dati genetici (n.
8/2016); al trattamento dei dati personali effettuato per scopi di ricerca
scientifica (n. 9/2016).
L'autorizzazione generale al trattamento dei dati giudiziari da parte di
privati, di enti pubblici economici e di soggetti pubblici n. 7/2016, non
rientrando tra quelle richiamate dall'articolo 21, comma 1, dlgs n.
101/2018, ha cessato di produrre effetti giuridici alla data del 19.09.2018 ai sensi del comma 3 del citato articolo 21.
Inoltre le
autorizzazioni generali 2/2016, 4/2016 e 5/2016 (rispettivamente
«autorizzazione al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute
e la vita sessuale», «autorizzazione al trattamento dei dati sensibili da
parte dei liberi professionisti» e «autorizzazione al trattamento dei dati
sensibili da parte di diverse categorie di titolari») risultano prive di
specifiche prescrizioni e, pertanto, esulano dall'ambito delle disposizioni
di cui all'articolo 21, comma 1, dlgs n. 101/2018.
Il provvedimento di
ricognizione è in consultazione pubblica e sarà adottato in via definitiva
entro 60 giorni dal relativo esito. Si rammenta che, in base all'art. 21,
comma 5, del dlgs n. 101/2018 la violazione delle prescrizioni contenute
nelle autorizzazioni generali e nel provvedimento generale n. 497/2018 sono
soggette alla sanzione amministrativa di cui all'articolo 83, paragrafo 5,
del regolamento Ue (fascia massima fino a 20 milioni o 4% del fatturato per
le imprese).
Inoltre i dati trattati in violazione della disciplina
rilevante in materia di trattamento di dati personali non possono essere
utilizzati, salvo quanto previsto dall'art. 160-bis del Codice della
privacy. Il provvedimento in esame potrà non essere l'ultima parola, in
quanto produrrà effetti fino all'adozione di future regole deontologiche e
delle misure di garanzia di cui agli articoli 2-quater e 2-septies (dati
sanitari, genetici e biometrici) del Codice della privacy
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatorie, proroga allargata.
LEGGE
DI BILANCIO/ Saranno necessari un corso di aggiornamento e un colloquio di
idoneità.
Lo slittamento si estende fino al 2010. Ma serve un esame.
La
proroga delle graduatorie allarga i confini e torna indietro nel tempo fino
al 2010, salvando così molti idonei «storici» della p.a. che da anni
attendono di essere immessi in ruolo. Ma per poter sperare di essere
ripescati, i soggetti inseriti nelle graduatorie più risalenti (dal 01.01.2010 al 31.12.2013) dovranno obbligatoriamente frequentare
corsi di formazione e aggiornamento e superare un esame-colloquio volto a
verificare «la perdurante idoneità».
In poche parole, dovranno dimostrare di
non aver smarrito col passare del tempo quel patrimonio di conoscenze e
preparazione che ha consentito loro di vincere il concorso anni addietro.
Rispetto alle prime versioni della Manovra che mettevano in sicurezza solo
le graduatorie approvate dal 2014 in avanti, il testo finale del
maxiemendamento del governo, approvato prima dal senato e poi in terza
lettura dalla camera, viene parzialmente incontro alle richieste del popolo
degli idonei (stimato in 150 mila unità), salvando anche le graduatorie più
vecchie.
Ma, come più volte auspicato dal ministro della Funzione pubblica,
Giulia Bongiorno, questo slittamento non sarà fine a se stesso. La proroga
dovrà essere funzionale al rinnovamento e al ricambio generazionale nella
p.a. e per questo l'accertamento della preparazione degli idonei sarà
essenziale. Soprattutto quando, come nel caso delle graduatorie del 2010,
sono trascorsi molti anni dal concorso.
La Manovra (legge 30.12.2018 n. 145, pubblicata sul Supplemento
ordinario n. 62 alla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 31/12/2018) stabilisce la
regola (che però si applicherà solo per il futuro e cioè per le graduatorie
dei concorsi banditi successivamente al 01.01.2019) secondo cui le
graduatorie devono essere utilizzate «esclusivamente per la copertura dei
posti messi a concorso».
«Per il futuro chi vince vince, chi non vince non
vince», aveva detto a fine dicembre il ministro Bongiorno, rispondendo a
un'interrogazione alla camera (si veda ItaliaOggi del 20/12/2018) e la legge
di Bilancio recepisce il principio all'art. 1, comma 361. Inoltre, viene
stabilito il ripristino «graduale» della durata triennale delle graduatorie,
attraverso una scansione temporale precisa. Le graduatorie più vecchie
(approvate dal 01.01.2010 al 31.12.2013) saranno valide fino al
30.09.2019 e, come detto, potranno essere utilizzate solo alle
condizioni viste sopra (corsi di formazione+esame).
Nessuna condizione di
validità è invece prevista per le altre graduatorie, la cui validità sarà
estesa come segue:
- la validità delle graduatorie approvate nel 2014 è prorogata al 30.09.2019;
- la validità delle graduatorie approvate nel 2015 slitta al 31.03.2020;
- la validità delle graduatorie approvate nel 2016 è estesa fino al 30.09.2020;
- la validità delle graduatorie approvate nel 2017 è estesa fino al 31.03.2021;
- la validità delle graduatorie approvate nel 2018 è estesa fino al 31.12.2021;
- la validità delle graduatorie che saranno approvate nel 2019 avrà durata
triennale decorrente dal giorno di approvazione di ciascuna graduatoria.
Dal 01.01.2019 i nuovi statali assunti saranno scelti sulla base di concorsi
unici in relazione a figure professionali omogenee. I concorsi unici saranno
organizzati dalla Funzione pubblica con modalità semplificate, sulla base
dei piani di fabbisogno trasmessi dalle amministrazioni. I concorsi dovranno
essere espletati entro fine febbraio 2019 e saranno in deroga alle procedure
di mobilità tra enti
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Meno chance per i contratti a termine.
Minori possibilità di stipulazione di contratti a tempo determinato nelle
pubbliche amministrazioni.
La legge di Bilancio 2019 riduce di molto la
possibilità delle amministrazioni pubbliche di avviare contratti a termine.
Il dl 101/2013, convertito in legge 125/2013 modificò l'articolo 36, comma
2, del dlgs 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego), inserendo la
seguente previsione: «Per prevenire fenomeni di precariato, le
amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente
articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli
idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato».
Si tratta di una norma finalizzata espressamente a evitare il fenomeno dei
contratti a termine inanellati, che, quindi, obbliga i datori di lavoro
pubblici ad assumere a tempo determinato esclusivamente attingendo a
graduatorie di vincitori di concorsi per assunzioni a tempo indeterminato,
estendendo tale possibilità anche agli idonei.
È evidente che se un vincitore di concorso non possa essere, per qualsiasi
ragione (prevalentemente di ordine finanziario di rispetto dei tetti di
spesa) assunto subito con contratto a tempo indeterminato, il suo eventuale
impiego con contratto a termine riduce di molto, quasi ad azzerare, il
rischio di «precarizzazione».
Infatti, la norma autorizza ad attivare con chi ha comunque acquisito un
diritto ad avviare un rapporto di lavoro stabile un precedente contratto a
termine: non si tratta, quindi, di abusare di contratti precari, ma di fare
fronte a reali esigenze a termine con rapporti di lavoro conclusi con chi
prima o poi comunque costituirà col datore un lavoro a tempo indeterminato,
sicché il pericolo di un contenzioso successivo sostanzialmente si annulla.
Nella realtà dei fatti, questa norma è stata assai poco rispettata. Infatti,
sono ancora moltissime le amministrazioni che pubblicano bandi o avvisi per
la formazione di graduatorie per lavori a tempo determinato in vari profili.
Una violazione diffusa, nonostante la giurisprudenza avesse evidenziato
l'illegittimità di questi avvisi, come ad esempio la Corte dei conti,
Sezione regionale di controllo per la Campania, con la delibera n. 31/2017,
la quale ricorda che se l'ente non disponga di una propria graduatoria a
tempo indeterminato deve avvalersi di quella di altri enti.
Sta di fatto,
comunque, che la legge di bilancio entra prepotentemente in questo merito,
perché priva della possibilità di assumere con contratti a tempo
determinato, per le graduatorie che si formeranno dal 2019 in poi, gli
idonei, abolendo implicitamente il contenuto dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 riferito a essi.
Per un verso, l'impossibilità di assumere a
tempo determinato gli idonei è più coerente con l'intento di evitare la
formazione di precariato. Gli idonei, infatti, non hanno un diritto
soggettivo all'assunzione, sicché una loro chiamata per un lavoro a termine
espone al rischio di precarizzazione, visto che nulla garantirebbe una
successiva assunzione stabile. Per altro verso, però, per le amministrazioni
si limitano le possibilità di attingere alle graduatorie a tempo
indeterminato, perché una volta esaurita la provvista di vincitori, non
potranno assumere a tempo determinato idonei, visto che le graduatorie
dovranno essere utilizzate esclusivamente per la copertura di posti messi a
concorso. Una restrizione che a maggior ragione pare debba valere per le
assunzioni con contratti a termine.
Risulterà, dunque, ancora più complicato
dare corretta attuazione alla previsione dell'articolo 36, comma 2, del dlgs
165/2001, specie in particolare per amministrazioni caratterizzate da
profili professionali molto spiccati e peculiari.
La soluzione è l'estensione più ampia possibile dell'utilizzo delle
graduatorie di altri enti valevoli per l'assunzione di personale a tempo
indeterminato da cui attingere per contratti a termine, in applicazione
dell'articolo 3, comma 61, della legge 350/2003, anche non risulta semplice
l'accordo tra amministrazioni.
Rimane ancora irrisolto, se non in parte e solo per via deduttiva
relativamente alla polizia municipale, il problema delle assunzioni con
contratti a termine per esigenze stagionali e sostitutive: in questi casi,
infatti, attingere a graduatorie a tempo indeterminato non è la soluzione
più opportuna: occorrerebbero norme per autorizzare espressamente concorsi a
tempo determinato finalizzati a queste particolari esigenze
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2019). |
LAVORI PUBBLICI: Più risorse per le opere da realizzare con il Ppp.
Più soldi per la progettazione delle opere da realizzare mediante contratti
di Partenariato pubblico privato (Ppp). La manovra appena approvata dal
parlamento cambia la destinazione del fondo per la progettazione preliminare
gestito dalla Cassa depositi e prestiti, vincolandolo esclusivamente a tale
diversa finalità.
La novità è contenuta nel comma 174 del testo finale, il quale, a sua volta,
modifica una disciplina più che ventennale che finora non ha prodotto
risultati significativi. Si tratta dell'art. 4 della legge n. 144/1999, che
ha istituito un fondo per il finanziamento della progettazione preliminare
delle amministrazioni regionali e locali, individuando la Cdp come soggetto
erogatore dei relativi contributi.
Uniche condizioni per accedere alle risorse erano l'acquisizione della
prescritta certificazione da parte dei nuclei regionali di valutazione e
verifica degli investimenti (istituiti dall'art. 1 della stessa legge n.
144) e la successiva ratifica con provvedimento del presidente della giunta
regionale. Dopo un inizio promettente, questa linea di credito è risultata
quasi sempre sottoutilizzata, sebbene i relativi finanziamenti siano a fondo
perduto.
La legge di Bilancio 2019 è quindi intervenuta cambiando completamente pelle
allo strumento. Esso, innanzitutto, viene indirizzato unicamente verso
«opere da realizzare mediante contratti di partenariato pubblico privato».
Si tratta delle tipologie contrattuali previste in via generale dall'art.
180 del codice dei contratti, ovvero, in particolare, delle seguenti:
concessione di costruzione e gestione, concessione di servizi,
sponsorizzazione, locazione finanziaria. In secondo luogo, non sarà più
preso in considerazione il progetto preliminare (non più previsto), ma il
documento di fattibilità delle alternative progettuali, se redatto, il
progetto di fattibilità tecnico economica e il progetto definitivo.
I finanziamenti saranno sempre erogati da Via Goito, con proprie
determinazioni. Scompare, quindi, la certificazione dei nuclei regionali,
così come il decreto presidenziale. Con decreto di natura non regolamentare
del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il
ministro dell'economia e delle finanze, sentita la stessa Cassa, saranno
definiti termini e condizioni di utilizzo delle risorse. L'assegnazione
potrà essere incrementata, con uno o più decreti ministeriali, a valere
sulle risorse disponibili del fondo per la progettazione di fattibilità
delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del
Paese di cui all'articolo 202, comma 1, lettera a), del dlgs 50/2016
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2019). |
GIURISPRUDENZA |
ESPROPRIAZIONE:
Riparto di giurisdizione in materia di retrocessione.
---------------
Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità – Retrocessione –
Giurisdizione giudice amministrativo – Condizione.
In presenza di una controversia che involga la
retrocessione totale di un fondo, la potestas dedicendi del giudice
amministrativo, in funzione di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133,
comma 1, lett. g) c.p.a., sussisterà non solo se la richiesta di
retrocessione totale sia avanzata nello stesso giudizio innanzi al giudice
amministrativo in uno alla domanda di retrocessione parziale (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che sebbene si registri una successiva
decisione della Suprema Corte, che si conforma al diverso e tradizionale
orientamento interpretativo (Corte di Cassazione, Sez. II, 17.10.2017, n.
24485), l’innovativa opzione ermeneutica è stata ribadita in via incidentale
da altra ordinanza delle Sezioni Unite, in cui è statuito che “in tema di
espropriazione per pubblica utilità, sussiste la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g), dell'all.
1 al d.lgs. n. 104 del 2010, allorquando il comportamento della P.A., cui si
ascrive la lesione, sia la conseguenza di un assetto di interessi conformato
da un originario provvedimento ablativo, legittimo o illegittimo, ma
comunque espressione di un potere amministrativo (in concreto) esistente,
cui la condotta successiva si ricollega in senso causale. Pertanto, poiché,
diversamente dalla mancata retrocessione del fondo occupato, l'eventuale
usucapione della proprietà di quest'ultimo non è immediatamente
riconducibile al pregresso esercizio del potere espropriativo, ma ne
costituisce una conseguenza meramente occasionale …, il relativo suo
accertamento appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario” (Corte
di Cassazione, Sezioni Unite, 11.07.2017, n. 17110).
Sulla scorta del revirement operato in argomento dalle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, pertanto, in presenza di una controversia che
involga la retrocessione totale di un fondo, la potestas dedicendi
del g.a., in funzione di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma
1, lett. g) c.p.a., sussisterà non solo, come già affermato in passato, se
la richiesta di retrocessione totale sia avanzata nello stesso giudizio
innanzi al g.a. in uno alla domanda di retrocessione parziale (ex multis,
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 27.01.2014, n. 1520) ma anche ove
proposta in via autonoma
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 16.05.2019 n. 990 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: a)
per pacifica giurisprudenza l'applicazione delle sanzioni in materia
edilizia è un atto tipicamente vincolato: presupposto per la loro adozione è
pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in
assenza del necessario titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo
tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con
l'accertamento dell'abuso e non necessitano di una particolare motivazione
in ordine all'interesse pubblico che è in re ipsa;
----------------
b) per la costante giurisprudenza in materia, l'onere di fornire la
prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio della sua consistenza
e, quindi, in ultima analisi, della sua sanabilità, incombe
sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in presenza di
un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il
potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge;
----------------
c) la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e
la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non
dell'amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli
inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto,
dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico
in base al quale la ripartizione dell'onere della prova va effettuata
secondo il principio della vicinanza della prova;
d) spetta a colui che ha commesso l'abuso l'onere di provare la
data di realizzazione e la consistenza originaria dell'immobile abusivo, in
quanto solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed
elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell'epoca
di realizzazione di un manufatto; in mancanza di tali prove,
l'Amministrazione può negare la sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il
suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il
diretto interessato fornisca la prova suddetta, l'onere della prova
contraria viene trasferito in capo all'amministrazione.
---------------
Va inoltre osservato che:
a) per pacifica giurisprudenza l'applicazione delle sanzioni in
materia edilizia è un atto tipicamente vincolato: presupposto per la loro
adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento
edilizio in assenza del necessario titolo abilitativo, con la conseguenza
che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate
con l'accertamento dell'abuso e non necessitano di una particolare
motivazione in ordine all'interesse pubblico che è in re ipsa;
b) per la costante giurisprudenza in materia (cfr. Cons. Stato,
Sez. III, 13.09.2013 n. 4546; Sez. IV, 10.01.2014 n. 46 e 14.02.2012 n. 703;
Cons. Stato, Sez. V, 20.08.2013 n. 4182; Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2013 n.
6159 e 01.02.2013 n. 631), l'onere di fornire la prova dell'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio della sua consistenza e, quindi, in
ultima analisi, della sua sanabilità, incombe sull'interessato, e non
sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non
assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla ai sensi di legge;
c) si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la
prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa
consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non
dell'amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli
inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto,
dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico
in base al quale la ripartizione dell'onere della prova va effettuata
secondo il principio della vicinanza della prova;
d) tali principi sono stati ancora di recente ribaditi dalla
Sezione (Cons. Stato, Sez. VI, 19.10.2018 n. 5984: “Spetta a colui che ha
commesso l'abuso l'onere di provare la data di realizzazione e la
consistenza originaria dell'immobile abusivo, in quanto solo l'interessato
può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano
radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un
manufatto; in mancanza di tali prove, l'Amministrazione può negare la
sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il suo dovere di irrogare la
sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il diretto interessato fornisca
la prova suddetta, l'onere della prova contraria viene trasferito in capo
all'amministrazione”) e da essi il Collegio non ravvisa motivo per
discostarsi
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.05.2019 n. 3133 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
realizzazione di un porticato non può considerarsi attività attratta alla
natura pertinenziale dell’opera, di talché necessita di un apposito permesso
di costruire per la sua costruzione.
Invero, “una tettoia pertinenziale ad un'unità immobiliare, costituita da un
porticato in muratura sormontato da una tettoia di rilevanti dimensioni,
ancorata a terra, e da un muro perimetrale, non può essere considerata una
struttura equiparabile ad un gazebo o pergolato e, pertanto, non è
riconducibile nell'ambito dell'edilizia libera”.
---------------
10. - In ragione di quanto sopra
appare essere documentalmente comprovato che i fabbricati di proprietà della
odierna appellante presentano gli interventi edilizi abusivi per come
contestati dal comune appellato e plasticamente riprodotti con puntualità
nei provvedimenti impugnati in primo grado ed in particolare nella
determinazione n. 8 del 02.05.2011.
Le opere realizzate anche in difformità avrebbero dovuto esserlo solo dopo
avere ottenuto un permesso di costruire e non successivamente alla
presentazione di una denuncia di inizio attività edilizia, peraltro
realizzati in area paesaggisticamente vincolata.
Ed infatti la realizzazione di un porticato non può considerarsi attività
attratta alla natura pertinenziale dell’opera, di talché necessita di un
apposito permesso di costruire per la sua costruzione (cfr. Cons. Stato,
Sez. VI, 26.09.2018 n. 5541, nella quale osserva che “una tettoia
pertinenziale ad un'unità immobiliare, costituita da un porticato in
muratura sormontato da una tettoia di rilevanti dimensioni, ancorata a
terra, e da un muro perimetrale, non può essere considerata una struttura
equiparabile ad un gazebo o pergolato e, pertanto, non è riconducibile
nell'ambito dell'edilizia libera”) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.05.2019 n. 3133 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Soprintendenza è onerata, alla luce dei canoni di leale collaborazione e
proporzionalità, a proporre soluzioni alternative per l'esecuzione
dell'intervento edilizio richiesto dal cittadino.
A quest’ultimo riguardo:
(b) gli errori edificatori del passato non possono essere
bilanciati mediante una sorta di compensazione intertemporale, bloccando
tutte le innovazioni dello stato dei luoghi. Parimenti, non è possibile
presumere che qualsiasi edificazione abbia un impatto negativo sul
territorio, come se l’esistente trattenesse valori paesistici che sarebbero
irrimediabilmente perduti per il solo fatto che vengano realizzate nuove
opere. Ogni nuovo progetto deve invece essere valutato in concreto per
stabilirne la compatibilità con il vincolo paesistico, utilizzando la
prospettiva ideale di un osservatore che descrive uno scenario dove sono
percepibili molti elementi connessi tra loro in modo coerente;
(c) qualora in un progetto siano effettivamente ravvisabili
criticità o dettagli potenzialmente dissonanti, l’autorità che effettua la
valutazione paesistica è tenuta in primo luogo a graduare il proprio
giudizio attraverso prescrizioni limitative o mitigative. È infatti
prioritario stabilire se, con differenti modalità costruttive o con una
diversa scelta di materiali e colori, ovvero con schermature vegetali o
interventi di ingegneria naturalistica, sia possibile diluire e confondere
il significato delle nuove opere nella visione d’insieme. Un giudizio
completamente negativo può essere espresso solo dopo aver scartato queste
ipotesi intermedie.
---------------
I ricorrenti censurano i provvedimenti della Soprintendenza e della Comunità
montana, che hanno rigettato l’istanza per la realizzazione di una nuova
rimessa interrata.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
1. Sotto il primo profilo, la relazione paesaggistica attesta che sul
versante la vegetazione non è particolarmente fitta, e che la percettibilità
da Via Coste è limitata e marginale (cfr. materiale fotografico doc. 11,
individuato nella narrazione in fatto).
La foto-simulazione delle pagine 13 e 14 restituisce in effetti un’incidenza
sullo stato dei luoghi di non particolare rilievo, tenuto conto dei muri di
contenimento già esistenti lungo via Coste, cosicché il giudizio negativo
per “perdita materica e testimoniale” della storia del piccolo ambito
non appare allineato con l’effettiva interferenza (anche visiva) dell’opera
rispetto al contesto in cui si inserirebbe.
Sul punto, la Soprintendenza non produce alcun documento (fotografia o altra
rappresentazione utile alla scopo), né chiarisce in concreto come possono
evincersi l’impatto del manufatto in progetto e la sua seria percettibilità
dalle strade all’intorno (in particolare da Via Coste).
Ferma la potestà attribuita dal legislatore all’autorità preposta alla
tutela del vincolo, si rivela indispensabile una riedizione del potere che
prenda in considerazione, in modo puntuale, lo stato dei luoghi e le
caratteristiche dell’intervento quale rappresentato nel progetto e
illustrato con il materiale fotografico, salvi ulteriori approfondimenti.
2. Acquista altresì rilevanza, ai fini di un giudizio d’insieme, il contesto
circostante, caratterizzato da un limitrofo complesso residenziale edificato
alla fine degli anni 80 del secolo scorso e da un’area in costruzione a fini
residenziali, come da rappresentazione fotografica del 22/05/2014 (doc. 15)
e del 09/01/2015 (doc. 16).
E’ ben vero che una situazione paesaggistica compromessa o seriamente incisa
non giustifica ulteriori interventi dannosi per l’ambiente, e pur tuttavia
l’autorità preposta deve illustrare in modo esauriente i connotati dei
luoghi e motivare una decisione sfavorevole malgrado la presenza di
un’edificazione diffusa.
3. Se la parte ricorrente ha offerto solide argomentazioni (ed elementi
probatori) a sostegno della scarsa visibilità e incidenza dell’intervento,
l’amministrazione non ha suggerito (pur essendone onerata alla luce dei
canoni di leale collaborazione e proporzionalità) soluzioni alternative per
la sua esecuzione.
A quest’ultimo riguardo, può essere richiamata la recente sentenza di questa
Sezione 08/06/2018 n. 552, che a sua volta ha evocato il precedente
09/02/2016 n. 228 (che risulta oggetto di appello), secondo il quale <<(b)
gli errori edificatori del passato non possono essere bilanciati mediante
una sorta di compensazione intertemporale, bloccando tutte le innovazioni
dello stato dei luoghi. Parimenti, non è possibile presumere che qualsiasi
edificazione abbia un impatto negativo sul territorio, come se l’esistente
trattenesse valori paesistici che sarebbero irrimediabilmente perduti per il
solo fatto che vengano realizzate nuove opere. Ogni nuovo progetto deve
invece essere valutato in concreto per stabilirne la compatibilità con il
vincolo paesistico, utilizzando la prospettiva ideale di un osservatore che
descrive uno scenario dove sono percepibili molti elementi connessi tra loro
in modo coerente (v. TAR Brescia Sez. I 08.01.2015 n. 14);
(c) qualora in un progetto siano effettivamente ravvisabili criticità o
dettagli potenzialmente dissonanti, l’autorità che effettua la valutazione
paesistica è tenuta in primo luogo a graduare il proprio giudizio attraverso
prescrizioni limitative o mitigative. È infatti prioritario stabilire se,
con differenti modalità costruttive o con una diversa scelta di materiali e
colori, ovvero con schermature vegetali o interventi di ingegneria
naturalistica, sia possibile diluire e confondere il significato delle nuove
opere nella visione d’insieme. Un giudizio completamente negativo può essere
espresso solo dopo aver scartato queste ipotesi intermedie>>.
4. In conclusione, la pretesa avanzata merita apprezzamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo monumentale su uno specifico immobile non opera automaticamente come
un vincolo paesistico a beneficio della vista che dal suddetto immobile si
rivolge verso il paesaggio circostante.
L’estensione del vincolo monumentale alle aree esterne deve essere
espressamente disposta da un provvedimento che crei un vincolo indiretto ex
art. 45 del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
Al di fuori di questa ipotesi, non esiste alcun diritto di prevenzione sul
paesaggio a favore di chi ha edificato per primo, neppure quando
l’edificazione abbia prodotto un bene di interesse culturale.
Un simile diritto di prevenzione privatizzerebbe di fatto una parte della
fruizione del paesaggio, trasformandosi in un divieto di edificazione a
carico di tutti coloro che chiedono un titolo edilizio in un momento
successivo.
---------------
Sulle conseguenze paesistiche del progetto di ampliamento
23. Passando al progetto di ampliamento del porto turistico, la tesi del
ricorrente è in sostanza che le nuove opere inciderebbero negativamente sia
sul vincolo paesistico relativo alla sponda bresciana del lago di Iseo sia
sul pregio monumentale di Villa Mazzucchi. Gli argomenti proposti non sono
però condivisibili.
24. In primo luogo, è necessario evitare equivoci e sovrapposizioni tra la
tutela paesistica e la tutela monumentale.
Il vincolo monumentale su uno specifico immobile non opera automaticamente
come un vincolo paesistico a beneficio della vista che dal suddetto immobile
si rivolge verso il paesaggio circostante. L’estensione del vincolo
monumentale alle aree esterne deve essere espressamente disposta da un
provvedimento che crei un vincolo indiretto ex art. 45 del Dlgs. 22.01.2004
n. 42.
Al di fuori di questa ipotesi, non esiste alcun diritto di prevenzione sul
paesaggio a favore di chi ha edificato per primo, neppure quando
l’edificazione abbia prodotto un bene di interesse culturale. Un simile
diritto di prevenzione privatizzerebbe di fatto una parte della fruizione
del paesaggio, trasformandosi in un divieto di edificazione a carico di
tutti coloro che chiedono un titolo edilizio in un momento successivo.
25. A favore di Villa Mazzucchi non è stato disposto un vincolo indiretto
sulla sponda del lago, e tanto meno sul lago stesso, e dunque il
proprietario dell’immobile non ha un’aspettativa a opporsi con successo, per
un interesse proprio, agli strumenti urbanistici e alle concessioni
demaniali che consentono l’occupazione di una maggiore superficie lacuale
per l’ampliamento del porto turistico.
Una tutela è invece possibile entro limiti più ristretti, ossia qualora
venga fornita la dimostrazione che le nuove opere potrebbero alterare in
modo rilevante, non per un singolo proprietario ma per tutti gli osservatori
collocati in punti accessibili al pubblico, lo scenario sottoposto a vincolo
paesistico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2019 n. 467 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Nel
silenzio dell'art. 92, L.R. 11.03.2005 n. 12, che al c. 7 si limita ad
affermare che spetta alla Provincia esprimere il parere circa la
compatibilità del programma integrato di intervento predisposto dal Comune
con il sopraordinato piano territoriale di coordinamento provinciale, senza
però precisare a quale organo provinciale spetti tale potere, trova
applicazione il criterio di riparto fra gli organi di governo degli enti
locali fissato dall'art. 42, c. 2, lett. h), T.U. 18.08.2000 n. 267, per
effetto del quale detta competenza spetta alla Giunta provinciale, e non al
Consiglio provinciale, trattandosi non di un parere in senso tecnico, ma di
una mera verifica di conformità, che non è espressione di potestà
pianificatoria, ma esprime un mero raffronto, privo di ogni valutazione
discrezionale, tra il programma comunale ed il piano territoriale
provinciale.
---------------
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza ha chiarito che nel silenzio dell'art. 92, L.R. 11.03.2005
n. 12, che al c. 7 si limita ad affermare che spetta alla Provincia
esprimere il parere circa la compatibilità del programma integrato di
intervento predisposto dal Comune con il sopraordinato piano territoriale di
coordinamento provinciale, senza però precisare a quale organo provinciale
spetti tale potere, trova applicazione il criterio di riparto fra gli organi
di governo degli enti locali fissato dall'art. 42, c. 2, lett. h), T.U.
18.08.2000 n. 267, per effetto del quale detta competenza spetta alla Giunta
provinciale, e non al Consiglio provinciale, trattandosi non di un parere in
senso tecnico, ma di una mera verifica di conformità, che non è espressione
di potestà pianificatoria, ma esprime un mero raffronto, privo di ogni
valutazione discrezionale, tra il programma comunale ed il piano
territoriale provinciale (C.S., Sez, IV, 28.05.2009 n. 3333, che ha
riformato TAR Lombardia, Milano, Sez., II, 29.10.2008 n. 5219) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2018 n. 205)
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Il Consiglio di stato, dopo avere evidenziato che la Valutazione
ambientale strategica (Vas) non è configurata come un procedimento o un sub
procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ha
affermato che è legittima, e anzi quasi fisiologica l'evenienza che
l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica (Vas) sia
identificata in un organo o ufficio interno alla stessa Autorità procedente.
---------------
2. Il secondo motivo è parimenti infondato e quindi non occorre
scrutinare l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Comune.
In merito alla distinzione tra Autorità competente e Autorità procedente
nella VAS la giurisprudenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza
27.09.2018 n. 2163) ha chiarito che il Consiglio di stato, sezione IV, con
la sentenza del 12.01.2011, numero 133, dopo avere evidenziato che la
Valutazione ambientale strategica (Vas) non è configurata come un
procedimento o un sub procedimento autonomo rispetto alla procedura di
pianificazione, ha affermato che è legittima, e anzi quasi fisiologica
l'evenienza che l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica
(Vas) sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa Autorità
procedente
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Se è vero che il Comune non può imporre un vincolo forestale né
un vincolo paesistico, ciò non preclude al Comune di prevedere una
destinazione a verde agricolo, conformativa dello stato dei suoli, che
include le aree destinate all’esercizio sia di attività propriamente
agricole che di delle attività boschive, tanto è vero che l’art. 59, comma
3°, lett. b), della l.r. Lombardia n. 12/2005 riconosce un indice fondiario
anche su <<terreni a bosco>>.
La giurisprudenza poi riconosce che la classificazione a zona agricola
possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a
costituire il polmone dell’insediamento urbano ed assumendo, per tale via,
la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione
dell’aggregato urbano.
Ne consegue che la previsione boschiva prevista nel PGT non può ritenersi
illegittima in quanto riconducibile ad una destinazione a verde agricolo.
---------------
4. Con riferimento al quarto motivo, le parti sono in disaccordo in
merito alla questione se il P.I.F. o il P.T.C.P. prevedano un vero e proprio
vincolo sull’area interessata e sulla riconducibilità al concetto di bosco
dei c.d. “elementi boscati minori”.
In merito occorre precisare che, se è vero che il Comune non può imporre un
vincolo forestale né un vincolo paesistico, ciò non preclude al Comune di
prevedere una destinazione a verde agricolo, conformativa dello stato dei
suoli, che include le aree destinate all’esercizio sia di attività
propriamente agricole che di delle attività boschive, tanto è vero che
l’art. 59, comma 3°, lett. b), della l.r. Lombardia n. 12/2005 riconosce un
indice fondiario anche su <<terreni a bosco>>.
La giurisprudenza (ex plurimis TAR Valle d'Aosta, sentenza 02.11.2011
n. 73) poi riconosce che la classificazione a zona agricola possiede anche
una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il
polmone dell’insediamento urbano ed assumendo, per tale via, la funzione
decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano.
Ne consegue che la previsione boschiva prevista nel PGT non può ritenersi
illegittima in quanto riconducibile ad una destinazione a verde agricolo
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Per quanto riguarda il sindacato del
giudice amministrativo in materia di osservazioni ai piani regolatori, le
osservazioni medesime costituiscono un mero apporto collaborativo alla
formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari
aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata
motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in
modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni
generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte
discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di
pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona
del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove
risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta
illogicità o contraddittorietà.
In merito poi all’onere motivazionale, cui l’amministrazione è tenuta, la
giurisprudenza afferma comunemente che le osservazioni proposte dai
cittadini nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non
costituiscono veri e propri rimedi giuridici ma semplici apporti
collaborativi e, pertanto, il loro rigetto o il loro accoglimento non
richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state
esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento
pianificatorio.
---------------
5. In merito al quinto motivo occorre premettere, per quanto riguarda
il sindacato del giudice amministrativo in materia di osservazioni ai piani
regolatori, che la giurisprudenza costante (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 04.02.2018 n. 418) afferma che le osservazioni costituiscono un
mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non
danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede
una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e
ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte
discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di
pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona
del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove
risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta
illogicità o contraddittorietà.
In merito poi all’onere motivazionale, cui l’amministrazione è tenuta, la
giurisprudenza afferma comunemente che le osservazioni proposte dai
cittadini nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non
costituiscono veri e propri rimedi giuridici ma semplici apporti
collaborativi e, pertanto, il loro rigetto o il loro accoglimento non
richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state
esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento
pianificatorio (Consiglio di Stato, sez. IV, 18.06.2009, n. 4024; TAR
Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 20.04.2010 n. 2043).
Nel caso di specie l’amministrazione non doveva controdedurre in modo
specifico alla richiesta di cancellazione del suddetto vincolo a "bosco"
per illegittimità del medesimo, in quanto, come visto, esso è legittimo.
Per quanto riguarda poi gli altri profili (capacità insediativa, necessità
di acquisire le aree in questione per garantire la "continuità" di
aree a servizi in tale zona, presenza di aree di sviluppo in Comuni
contermini) si tratta di valutazioni ampliamente discrezionali che rientrano
nel merito dell’azione amministrativa e quindi non possono essere sindacate
dal giudice.
In definitiva quindi il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sui
cartelli pubblicitari si abbassa la sanzione.
È illegittima la forte sanzione prevista dal Codice della strada per
l'installazione di cartelli pubblicitari in modo difforme
dall'autorizzazione. Detta sanzione deve essere ribassata e allineata a
quella applicabile in caso di mezzi pubblicitari abusivi.
Lo ha deciso la Corte Costituzionale con la
sentenza
10.05.2019 n. 113.
L'art. 36, comma 10-bis, del decreto legge n. 98 del 06.07.2011, convertito
con modificazioni in legge n. 111 del 15.07.2011, ha introdotto una nuova
formulazione del comma 12 dell'art. 23 del codice della strada, disponendo
che chiunque non osserva le prescrizioni indicate nelle autorizzazioni per
il posizionamento di cartelli pubblicitari è soggetto alla sanzione
amministrativa del pagamento di una somma da 1.388 a 13.876 euro (importi
poi aggiornati), in via solidale con il soggetto pubblicizzato.
Aumentando in tal modo da 159 a 1.388 euro nel minimo e da 639 a 13.876,00
euro nel massimo l'importo della sanzione da pagare, quando invece,
all'epoca della violazione oggetto della decisione della Corte
costituzionale, la somma da pagare per il posizionamento di pubblicità
abusiva era compresa tra un minimo di 422 e un massimo di 1.695 euro.
Secondo la Corte costituzionale, il forte aumento deciso dal legislatore nel
2011 per la sanzione relativa alla collocazione di mezzi pubblicitari in
modo difforme dall'autorizzazione è manifestamente irragionevole, in quanto
tale condotta è certamente connotata da minor disvalore rispetto a quella
dell'installazione senza autorizzazione. Non è, in sostanza, giustificabile
l'eccessiva e non proporzionata misura dell'aumento della sanzione correlata
all'infrazione meno grave in materia di pubblicità.
Pertanto, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 111
depositata il 10.05.2019, per l'inosservanza delle prescrizioni
autorizzative non sono più applicabili gli attuali importi da un minimo di
1.420 a 14.196 euro, ma gli importi di cui all'art. 23, comma 11, del codice
della strada, ovvero da un minimo di 431 a un massimo di 1.734 euro
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2019). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso civico generalizzato.
---------------
●
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Ascesso ordinario l. n. 241
del 1990 – Permane.
●
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Limiti – Individuazione.
●
Anche dopo l’entrata in vigore delle norme che disciplinano l’accesso civico
‘generalizzato’, permane un settore ‘a limitata accessibilità, nel quale
continuano ad applicarsi le più rigorose norme della l. 07.08.1990, n. 241
(1).
●
Ai sensi dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. n. 33 del 2013, il
criterio individuato dal legislatore per la valutazione delle esclusioni
dall’accesso generalizzato è quello del solo pregiudizio, mentre resta
escluso, contrariamente alle altre esperienze FOIA, la previsione espressa
di un test dell’interesse pubblico, cioè la possibilità di effettuare, ai
fini della decisione finale sull’istanza di accesso, un bilanciamento tra la
tutela da assicurare all’interesse da proteggere dalla disclosure e la
tutela dell’interesse pubblico alla diffusione della informazione, per cui
se il secondo dovesse risultare prevalente si procederebbe comunque alla
diffusione (2).
---------------
(1) Il Tar ha richiamato quanto di recente affermato dal
Consiglio di Stato, sez. VI, 31.01.2018, n. 651, secondo cui “se
è vero che ormai è legislativamente consentito a chiunque di conoscere ogni
tipo di documento o di dato detenuto da una pubblica amministrazione (oltre
a quelli acquisibili dal sito web dell’ente, in quanto obbligatoriamente
pubblicabili), nello stesso tempo, qualora la tipologia di dato o di
documento non può essere resa nota per il pericolo che ne provocherebbe la
conoscenza indiscriminata, mettendo a repentaglio interessi pubblici ovvero
privati, l’ostensione di quel dato e documento sarà resa possibile solo in
favore di una ristretta cerchia di interessati in quanto titolati, secondo
le tradizionali e più restrittive regole recate dalla legge 241/1990…; pur
introducendo nel 2016 (d.lgs. 97/2016) il nuovo istituto dell’accesso civico
‘generalizzato’, espressamente volto a consentire l’accesso di
chiunque a documenti e dati e quindi permettendo per la prima volta
l’accesso (ai fini di un controllo) diffuso alla documentazione in possesso
delle amministrazioni (e degli altri soggetti indicati nella norma appena
citata) e privo di un manifesto interesse da parte dell’accedente, ha però
voluto tutelare interessi pubblici ed interessi privati che potessero esser
messi in pericolo dall’accesso indiscriminato.
Il legislatore ha quindi operato per un verso mitigando la possibilità di
conoscenza integrale ed indistinta dei documenti detenuti dall’ente
introducendo dei limiti all’ampio accesso (art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs.
33/2013) e, per altro verso, mantenendo in vita l’istituto dell’accesso ai
documenti amministrativi e la propria disciplina speciale dettata dalla
legge 241/1990 (evitando accuratamente di novellare la benché minima
previsione contenuta nelle disposizioni da essa recate), anche con
riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia sotto il versante
della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse in capo al
richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle richieste volte
ad ottenere un accesso diffuso".
(2) Ha chiarito la Sezione che nonostante la scelta esplicita
operata dal legislatore italiano per il solo criterio del “pregiudizio
concreto”, deve ritenersi che la scelta finale dell’amministrazione
sull’istanza di accesso generalizzato deve tenere conto anche dell’interesse
alla divulgazione che fonda la richiesta dell’istante. L’amministrazione è
chiamata, infatti, non solo a considerare e verificare la serietà e la
probabilità del danno all’interesse-limite, ma anche a contemperarlo con
l’interesse alla conoscenza del richiedente.
Anche richieste di accesso civico presentate per finalità “egoistiche”
possono favorire un controllo diffuso sull’amministrazione, se queste
consentono di conoscere le scelte amministrative effettuate, in quanto il
controllo diffuso di cui parla la legge non è da riferirsi alla singola
domanda di accesso, ma è il risultato complessivo cui “aspira” la
riforma sulla trasparenza la quale, ampliando la possibilità di conoscere
l’attività amministrativa, favorisce forme diffuse di controllo sul
perseguimento dei compiti istituzionali e una maggiore partecipazione dei
cittadini ai processi democratici e al dibattito pubblico; pertanto,
l’accesso generalizzato deve essere riguardato come estrinsecazione di una
libertà e di un bisogno di cittadinanza attiva, i cui relativi limiti
debbono essere considerati di stretta interpretazione e saranno solo quelli
espressamente previsti dal legislatore.
Nella eventualità in cui l’istanza di accesso generalizzato si riferisca a
una mole di documenti tale da rappresentare (ad esempio, anche per mancanza
di procedure informatizzate) una aggravio per l’attività dell’Ente, di cui
si darà conto motivatamente, questo attiverà l’istituto del “dialogo
cooperativo” con il richiedente.
L’amministrazione, infatti, deve consentire l’accesso generalizzato anche
quando l’istanza fa riferimento a un numero cospicuo di documenti ed
informazioni; non vi è tenuta allorquando la richiesta risulti massiva
ovvero idonea a interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione,
incombendo sulla stessa l’obbligo di motivare espressamente su detta
ritenuta interferenza
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.05.2019 n. 2486 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Le questioni che vengono in evidenza nella presente decisione sono
molteplici e concernono aspetti propri sia della disciplina dell’accesso
documentale (ex art. 22 e ss. della legge 241/1990), per i quali già esiste
un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che sarà in
questa sede richiamato ai fini della decisione, che dell’accesso civico
generalizzato (art. 5, co. 2 e ss., del d.lgs. 33/2013), istituto quest’ultimo,
che al contrario del primo, risulta tuttora poco “esplorato” nel nostro
ordinamento quanto a presupposti, finalità e limiti, in ragione della sua
recente introduzione, in particolare quanto alla sua differenziazione con
l’accesso documentale.
Le questioni che vengono qui in rilievo riguardano, quanto all’accesso
documentale, i presupposti per consentire l’accesso, le finalità dello
stesso e l’ampiezza oggettiva; per l’accesso generalizzato, invece, vengono
in evidenza gli aspetti relativi ai presupposti, alle finalità, all’attività
che svolge l’amministrazione nel decidere l’istanza, ai limiti, alle ipotesi
di istanze massive, al c.d. dialogo collaborativo in caso di istanze che
contengono richieste onerose, all’obbligo di motivare la decisione
dell’amministrazione, all’intervento del Responsabile della prevenzione
della corruzione e della trasparenza (RPCT) in sede di riesame.
Tanto premesso, si deve considerare quanto segue.
1)- L’accesso documentale.
L’accesso ai documenti è stato considerato
per anni il principale strumento di trasparenza, costituendo, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse, principio generale dell’attività
amministrativa, finalizzato a favorire la partecipazione e ad assicurare
l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa.
Come è noto, l’istituto dell’accesso ai documenti consente all’interessato
di accedere a quei documenti amministrativi la cui conoscenza è importante
per la tutela di una propria situazione giuridicamente rilevante, in pratica
consentendogli di soddisfare un interesse individuale e qualificato alla
conoscenza. L’istituto, quindi, più che uno strumento di controllo
democratico delle decisioni amministrative da parte dei cittadini
generalmente considerati, sostanzia uno strumento a disposizione del singolo
per tutelare propri interessi giuridici nei rapporti con l’amministrazione.
Chi chiede i documenti non è un quisque de populo, ma è un soggetto “interessato”
al documento e cioè, come la stessa legge lo definisce, un soggetto, di
regola privato (la norma include anche i portatori di interessi pubblici o
diffusi), che abbia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento oggetto
dell’istanza di accesso.
In definitiva, il diritto di accesso ai documenti amministrativi non
costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della
situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un
autonomo bene della vita, così che la domanda tesa ad ottenere l’accesso ai
documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel
quale venga fatta valere l’anzidetta situazione, ma anche dall’eventuale
infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente
potrebbe proporre una volta conosciuti gli atti (cfr., ex multis,
Cons. St., sez. V, 11.06.2012, n. 3398, nonché Cons. St., Ad. Plen.,
24.04.2012, n. 7).
In altri termini, la nozione di “interesse
giuridicamente rilevante”, che fonda il diritto di accesso è più ampia
rispetto a quella di “interesse all’impugnazione” (Cons. St., sez. V,
17.03.2015, n. 1370; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 10.10.2017, n. 4727).
Il diritto di accesso quale principio generale dell’attività amministrativa
può, quindi, subire limitazioni nei soli casi indicati dalla legge e non già
sulla base di unilaterali valutazioni dell’amministrazione in ordine alla
maggiore o minore utilità dell’accesso ai fini di una proficua tutela
giurisdizionale delle posizioni soggettive dell’istante (Cfr. Cons. St.,
sez. IV, 28.07.2016, n. 3431; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 23.08.2017, n.
4115).
2) - I presupposti per esercitare il diritto di accesso.
Come già
anticipato, è legittimato
all’accesso il soggetto che ha un interesse diretto, concreto e attuale
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento che intende conoscere. Il carattere dell’attualità non è collegato
all’interesse ad agire in giudizio, ma direttamente alla richiesta di
conoscere il documento; inoltre, il carattere della concretezza impone che
si tratti di un interesse effettivo e tangibile. Il soggetto richiedente
deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non emulativo,
deve essere ricollegabile alla persona dell’istante da uno specifico
rapporto.
Ciò che è importante è che il richiedente intenda, con la documentazione da
acquisire, supportare una situazione di cui è titolare, che l’ordinamento
stima meritevole di tutela, con la conseguenza che «non è sufficiente
addurre il generico e indistinto interesse di qualsiasi cittadino alla
legalità o al buon andamento dell’attività amministrativa» (Cfr. Cons.
St., sez. VI, 10.11.2015, n. 5111), bensì è necessario che il
richiedente dimostri che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di
accesso agli atti e/o documenti amministrativi richiesti, verrà
inequivocabilmente a trovarsi “titolare” di «poteri di natura
procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi
giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque a intersecarsi
con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la dimensione
processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità
diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso, così come
l’esercizio del secondo prescinde dalla prima» (Cfr., ex multis,
TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 31.03.2016, n. 3941; in conformità, TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 28.01.2016, n. 521; TAR Lazio, Roma, sez. II,
11.01.2016, n. 232).
La norma se, da una parte, consente la possibilità di accedere ai documenti
in base alla prospettazione dell’interesse fatta dal richiedente, dall’altra
impone che venga evidenziato il nesso logico-funzionale tra il fine
dichiarato e la documentazione richiesta.
3)- I limiti all’accesso documentale: istanze preordinate al controllo
generalizzato.
L’art. 24, della legge 241/1990 prevede gli interessi
pubblici e privati che devono essere tutelati in caso di istanza di accesso
documentale e che necessariamente devono essere considerati e bilanciati in
sede di decisione.
Il co. 3 del medesimo articolo dispone, inoltre, che non
possono essere ammesse istanze di accesso preordinate ad un controllo
generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni, intendendosi con
ciò che l’istituto dell’accesso ai documenti (contrariamente a ciò che
consente la disciplina in tema di accesso civico, di cui si dirà a breve)
non è preordinato a soddisfare, in senso lato, l’interesse al buon andamento
dell’attività amministrativa, ovvero ad assicurare un regime di trasparenza
finalizzato a consentire “il controllo” sull’efficienza o sull’efficacia
dell’azione amministrativa.
Infatti, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che
il
diritto di accesso ai documenti non è assoluto e incondizionato, ma subisce
alcuni temperamenti. Tale diritto non si sostanzia in un’azione popolare e
neppure può tradursi in un controllo generalizzato sulla legittimità
dell’azione amministrativa, ma deve essere strumentale alla tutela di un
interesse personale del richiedente. La posizione legittimante, anche se non
deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o
dell’interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non
potendo identificarsi con il generico e indistinto interesse di ogni
cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa.
Proprio di recente
il supremo consesso della Giustizia Amministrativa ha ulteriormente chiarito
che, pur rientrando la valorizzazione del principio della massima ostensione
nell’ambito del nuovo modo di concepire il rapporto tra cittadini e potere
pubblico, improntato a trasparenza e accessibilità dei dati e delle
informazioni, ciò non vuol dire che esso possa estendersi fino al punto da
legittimare un controllo generalizzato, generico e indistinto del singolo
sull’operato dell’amministrazione.
È chiaro, quindi, che anche dopo l’entrata in vigore delle norme che «disciplinano
l’accesso civico ‘generalizzato’, permane un settore ‘a limitata
accessibilità’, nel quale continuano ad applicarsi le più rigorose norme
della legge 241/1990 e se è vero che ormai è legislativamente consentito a
chiunque di conoscere ogni tipo di documento o di dato detenuto da una
pubblica amministrazione (oltre a quelli acquisibili dal sito web dell’ente,
in quanto obbligatoriamente pubblicabili), nello stesso tempo, qualora la
tipologia di dato o di documento non può essere resa nota per il pericolo
che ne provocherebbe la conoscenza indiscriminata, mettendo a repentaglio
interessi pubblici ovvero privati, l’ostensione di quel dato e documento
sarà resa possibile solo in favore di una ristretta cerchia di interessati
in quanto titolati, secondo le tradizionali e più restrittive regole recate
dalla legge 241/1990…; pur introducendo nel 2016 (d.lgs. 97/2016) il nuovo
istituto dell’accesso civico ‘generalizzato’, espressamente volto a
consentire l’accesso di chiunque a documenti e dati e quindi permettendo per
la prima volta l’accesso (ai fini di un controllo) diffuso alla
documentazione in possesso delle amministrazioni (e degli altri soggetti
indicati nella norma appena citata) e privo di un manifesto interesse da
parte dell’accedente, ha però voluto tutelare interessi pubblici ed
interessi privati che potessero esser messi in pericolo dall’accesso
indiscriminato. Il legislatore ha quindi operato per un verso mitigando la
possibilità di conoscenza integrale ed indistinta dei documenti detenuti
dall’ente introducendo dei limiti all’ampio accesso (art. 5-bis, commi 1 e
2, d.lgs. 33/2013) e, per altro verso, mantenendo in vita l’istituto
dell’accesso ai documenti amministrativi e la propria disciplina speciale
dettata dalla legge 241/1990 (evitando accuratamente di novellare la benché
minima previsione contenuta nelle disposizioni da essa recate), anche con
riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia sotto il versante
della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse in capo al
richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle richieste volte
ad ottenere un accesso diffuso» (Cons. St., sez. VI, 31.01.2018, n.
651).
Alla luce dei principi sopra richiamati, l’istanza di accesso documentale
formulata dal ricorrente deve essere respinta in quanto soggiace al limite
di cui all’art. 24, co. 3, poiché preordinata ad un controllo generalizzato
dell’operato della pubblica amministrazione, avendo richiesto il ricorrente
di avere copia di “tutte le licenze commerciali di qualunque natura
rilasciate nel comune di Serrara Fontana; dei certificati di agibilità di
dette attività commerciali (alberghi, ristoranti, negozi, ecc.); delle
domande di condono non ancora evase ovvero a cui non è stata ancora concessa
la sanatoria in relazione ad immobili in cui vengono esercitate attività
commerciali per le quali è stata rilasciata licenza di commercio; di tutte
le continuità d’uso rilasciate per immobili sottoposti a pratica di condono
non ancora esaminata e concessa”.
4) - Il ricorso, quindi, con riguardo all’accesso ai documenti richiesti in
base alla legge 241/1990 deve essere respinto in quanto la mole dei
documenti indicati nell’istanza, sebbene collegati all’interesse del
ricorrente di conoscere, relativamente al territorio del Comune di Serrara
Fontana, quanti esercizi commerciali operano in regime di agibilità
provvisoria in pendenza di istanza di condono, non trattata dal Comune,
nonché all’interesse (se del caso) di far emergere che l’ente locale
“normalmente” opera nei termini quali censurati dal TAR Campania con la
sentenza n. 3100/2018, sostanzia, per la sua ampiezza, un accesso rivolto,
in senso lato, a soddisfare l’interesse al buon andamento dell’attività
amministrativa ovvero a consentire “il controllo” sull’efficienza o
sull’efficacia dell’azione amministrativa, non consentito dalla legge
241/1990.
5) - A diverso esito si giunge allorquando si esamina la domanda di accesso
del ricorrente in base all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013.
6) - Accesso civico generalizzato: ambito oggettivo e finalità.
Sulla scia dei concetti introdotti dal d.lgs. n. 150 del 2009 in materia di
trasparenza e in attuazione della delega recata dall’art. 1, commi 35 e 36
della l. 28.11.2012, n. 190, in tema di “Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella
pubblica amministrazione”, è stato adottato il d.lgs. 14.03.2013, n. 33,
come modificato dal d.lgs. 97/2016, che ha operato una importante estensione
dei confini della trasparenza intesa oggi come “accessibilità totale dei
dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di
tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli
interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche”.
L’accesso civico generalizzato è stato introdotto in Italia sulla base della
delega di cui all’art. 7, comma 1, lett. h), della cd. Legge Madia (legge
124/2015), ad opera dell’art. 6 del d.lgs. 25.05.2016, n. 97 che ha
novellato l’art. 5 del decreto trasparenza (d.lgs. 33/2013).
L’ampio diritto all’informazione e alla trasparenza dell’attività delle
amministrazioni di cui al decreto 33/2013 resta temperato solo dalla
necessità di garantire le esigenze di riservatezza, di segretezza e di
tutela di determinati interessi pubblici e privati (come elencati nell’art.
5-bis del d.lgs. 33/2013) che diventano l’eccezione, alla stregua degli
ordinamenti caratterizzati dal modello FOIA, (Freedom of Information Act, la
legge sulla libertà di informazione adottata negli Stati Uniti il 04.07.1966).
Nonostante alcuni punti di contatto di tipo “testuale” tra la
disciplina in tema di accesso ai documenti (legge 241/1990) e quella
riferita all’accesso civico generalizzato (d.lgs. 33/2013), quest’ultimo si
pone su un piano diverso rispetto all’accesso documentale, che come già
detto rimane caratterizzato da un rapporto qualificato del richiedente con i
documenti che si intendono conoscere, derivante proprio dalla titolarità in
capo al soggetto richiedente di una posizione giuridica qualificata tutelata
dall’ordinamento.
Il nuovo accesso civico, che attiene alla cura dei beni comuni a fini
d’interesse generale, si affianca, senza sovrapposizioni, alle forme di
pubblicazione on-line del 2013 e all’accesso agli atti amministrativi del
1990, consentendo, del tutto coerentemente con la ratio che lo ha ispirato
(e che lo differenzia dall’accesso qualificato previsto dalla legge generale
sul procedimento), l’accesso alla generalità degli atti e delle
informazioni, senza onere di motivazione, a tutti i cittadini singoli e
associati, in guisa da far assurgere la trasparenza a condizione
indispensabile per favorire il coinvolgimento dei cittadini nella cura della
“cosa pubblica”, oltre che mezzo per contrastare ogni ipotesi di corruzione e
per garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’Amministrazione (cfr.
Cons. St. sez. III, 06.03.2019, n. 1546).
Con il d.lgs. n. 33 del 2013, infatti, viene assicurata ai cittadini la
possibilità di conoscere l’organizzazione e l’attività delle pubbliche
amministrazioni anche attraverso l’obbligo a queste imposto di pubblicare
sui siti istituzionali, nella sezione denominata “Amministrazione
trasparente”, i documenti, i dati e le informazioni concernenti le scelte
amministrative operate (artt. 12 e ss.), ad esclusione dei documenti per i
quali è esclusa la pubblicazione, in base a norme specifiche ovvero per
ragioni di segretezza, secondo quanto indicato nello stesso decreto.
7) - Presupposti.
Alla luce del dettato normativo, si comprende bene
la rilevante differenza che esiste tra accesso ai documenti e accesso civico
generalizzato che, pur condividendo lo stesso tipo di tutela processuale,
non possono considerarsi sovrapponibili: il primo è strumentale alla tutela
degli interessi individuali di un soggetto che si trova in una posizione
differenziata rispetto agli altri cittadini, in ragione della quale ha il
diritto di conoscere e di avere copia di un documento amministrativo; il
secondo è azionabile da chiunque, senza la previa dimostrazione della
sussistenza di un interesse attuale e concreto per la tutela di situazioni
rilevanti, senza dover motivare la richiesta e con la sola finalità di
consentire una pubblicità diffusa e integrale dei dati, dei documenti e
delle informazioni che sono considerati, in base alle norme, come pubblici e
quindi conoscibili.
L’art. 5, co. 2, del decreto 33/2013 consente ai cittadini di accedere a dati
e documenti (detenuti dalle Amministrazioni) “ulteriori” rispetto a quelli
oggetto di pubblicazione, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di
interessi pubblici e privati individuati all’art. 5-bis del decreto,
conoscenza che deve portare a favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
Tale controllo è, quindi, funzionale a consentire la partecipazione dei
cittadini al dibattito pubblico e finalizzato ad assicurare un diritto a
conoscere in piena libertà anche dati “ulteriori” e cioè diversi da quelli
pubblicati, naturalmente senza travalicare i limiti previsti dal legislatore
e posti a tutela di eventuali interessi pubblici o privati che potrebbero confliggere con la volontà di conoscere espressa dal cittadino.
Per facilitare il raggiungimento di tale obiettivo la disciplina prevista
per l’accesso civico generalizzato dispone che questo non sia sottoposto ad
alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente;
l’istanza non deve essere motivata; deve esclusivamente limitarsi a indicare
i dati, le informazioni o i documenti che si intendono conoscere.
8) - I limiti all’accesso civico generalizzato.
La disciplina
dell’accesso civico generalizzato, avendo l’istituto ambiti di applicazione
molto estesi in quanto riferito ai dati, alle informazioni e ai documenti
inerenti l’attività e l’organizzazione delle amministrazioni, non poteva non
prevedere anche una serie di limiti cui lo stesso è sottoposto, in ragione
degli interessi pubblici e privati che devono essere necessariamente
salvaguardati; e ciò alla stregua di quanto si rinviene anche nell’ambito
della disciplina sull’accesso ai documenti (art. 24, legge 241/1990) e nel
decreto sulla trasparenza (d.lgs. 33/2013) in merito agli obblighi di
pubblicazione (art. 7-bis, d.lgs. 33/2013).
L’art. 5-bis. co. 1, individua i limiti da applicare alle richieste di
accesso civico generalizzato, prevedendo che detto accesso deve essere
rifiutato se il diniego è necessario per evitare un “pregiudizio concreto”
alla tutela di uno dei seguenti interessi pubblici, allorquando cioè il
diritto a conoscere possa pregiudicare la sicurezza pubblica e l’ordine
pubblico, la sicurezza nazionale, la difesa e le questioni militari, le
relazioni internazionali, la politica e la stabilità finanziaria ed
economica dello Stato, la conduzione di indagini sui reati e il loro
perseguimento, il regolare svolgimento di attività ispettive.
Ancora, ai sensi dell’art. 5- bis, co. 2, l’accesso generalizzato deve
essere negato se ciò risulti necessario per evitare un “pregiudizio
concreto” alla tutela di uno dei seguenti interessi privati, quali la
protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa
in materia, la libertà e la segretezza della corrispondenza e gli interessi
economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la
proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali.
Dal dato normativo (art. 5-bis, co. 1 e 2) emerge che il criterio
individuato dal legislatore per la valutazione delle esclusioni dall’accesso
generalizzato è quello del solo pregiudizio (harm test), mentre resta
escluso, contrariamente alle altre esperienze FOIA, la previsione espressa
di un test dell’interesse pubblico (the public interest test), cioè la
possibilità di effettuare, ai fini della decisione finale sull’istanza di
accesso, un bilanciamento tra la tutela da assicurare all’interesse da
proteggere dalla disclosure e la tutela dell’interesse pubblico alla
diffusione della informazione, per cui se il secondo dovesse risultare
prevalente si procederebbe comunque alla diffusione.
Nonostante la scelta esplicita operata dal legislatore italiano, con
riguardo all’accesso generalizzato, per il solo criterio del “pregiudizio
concreto”, deve ritenersi che la scelta finale dell’amministrazione
sull’istanza di accesso generalizzato non deve tenere conto solo del
“pregiudizio concreto” ma anche dell’interesse alla divulgazione che fonda
la richiesta dell’istante. L’amministrazione nell’esercizio dell’attività
discrezionale (attività che esercita quando è chiamata a decidere se dare in
ostensione i documenti e in che termini, al fine di proteggere gli interessi
pubblici e privati previsti) è chiamata, infatti, non solo a considerare e
verificare la serietà e la probabilità del danno all’interesse-limite, ma
anche a contemperarlo con l’interesse alla conoscenza del richiedente. In
caso di pregiudizio concreto a uno degli interessi pubblici e privati,
infatti, ciò dovrebbe rappresentare solo una condizione necessaria, ma non
sufficiente, per negare l’ostensione.
Sul punto va richiamata la
giurisprudenza del Supremo consesso della giustizia amministrativa secondo
cui «la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati
siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di
proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e
non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità
della posizione legittimante del richiedente» (Cons. Stato, sez. IV, 12.08.2016, n. 3631).
9) - L’amministrazione intimata, dovrà operare una valutazione comparativa,
secondo il principio di proporzionalità, (sull’applicazione di tale
principio in materia di trasparenza e obblighi di pubblicazione si veda
anche la recente sentenza della Corte Cost. n. 20/2019) fra il beneficio che
potrebbe arrecare la disclosure richiesta e il sacrificio causato agli
interessi pubblici e privati contrapposti che vengono in gioco. In base al
bilanciamento condotto secondo il principio di proporzionalità, l’interesse
alla conoscenza dell’informazione, del dato o del documento (di cui
all’istanza di accesso generalizzato del richiedente) non soccomberà
rispetto al pregiudizio concreto di un interesse-limite, se ritenuto di
minore impatto.
L’amministrazione dovrà assumere la decisione nel rispetto dei canoni di
proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia di tutti gli interessi
coinvolti, quindi anche di quello del richiedente.
Il principio di proporzionalità impone all’amministrazione di valutare le
esigenze di tutti i titolari degli interessi presenti nell’azione
amministrativa, compreso quello del richiedente, al fine di ricercare la
soluzione che comporti il minor sacrificio per tutti gli interessi
coinvolti.
La necessaria considerazione dell’interesse alla disclosure si impone, così,
direttamente all’amministrazione nell’esercizio dell’attività discrezionale
di cui è titolare e che svolge quando è chiamata a decidere l’istanza di
accesso generalizzato. Il risultato di questa ponderazione diventa
comprensibile per il cittadino con la motivazione, strumento di
esplicitazione e di comprensione delle ragioni della scelta effettuata e di
valutazione degli interessi contrapposti.
In pratica l’amministrazione, nonostante il riferimento nella norma al solo
“test del pregiudizio concreto”, dovrà considerare non solo il danno che
l’ostensione può creare all’interesse (limite) “protetto” dall’ordinamento,
ma anche valutare l’aspettativa che ha il richiedente di conoscere i dati,
le informazioni o i documenti oggetto dell’istanza (riferibili all’attività
e all’organizzazione amministrativa) e quale potrebbe essere il contributo
positivo alla “conoscenza diffusa” dell’attività amministrativa che
l’ostensione richiesta potrebbe comportare.
La regola della generale accessibilità è, così, temperata dalla previsione
di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati che possono
subire un pregiudizio dalla rivelazione generalizzata di talune
informazioni, ma che comunque non si trasformano in limiti tout court alla
trasparenza amministrativa dovendo essere riguardati anche alla luce
dell’interesse alla accessibilità delle informazioni, dei dati e dei
documenti richiesti.
10) - Finalità della legge.
Per quanto concerne le finalità della
legge che sono, con riguardo alla trasparenza amministrativa, quella di
«promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa
e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (cfr. art. 1, co. 1,
d.lgs. 33/2013) e, più in particolare, con riguardo all’accesso generalizzo,
quella di «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» (art. 5, co. 2. d.lgs.
33/2013), le dette finalità rappresentano gli obiettivi che la legge vuole
perseguire, essendo l’accesso civico generalizzato solo uno degli strumenti
volti a realizzare un ordinamento democratico, a consentire la
partecipazione dei cittadini alla vita politico-amministrativa, a
comprendere le scelte effettuate dalle amministrazioni, a promuovere il
libero formarsi dell’opinione pubblica.
Naturalmente queste finalità non
possono trasformarsi in limiti “impliciti”: l’amministrazione non potrà
negare un accesso generalizzato ritenendo che la conoscenza dei documenti
richiesti non sia utile alle finalità della legge ovvero che l’ostensione
richiesta “non risulti finalizzata al controllo diffuso”; così interpretando
il dato normativo si corre, infatti, il rischio di introdurre limiti alla
libertà di informazione non previsti espressamente dal legislatore.
La finalità soggettiva che spinge il richiedente a presentare istanza di
accesso civico non è, infatti, sindacabile se non correndo il rischio di
confondere la finalità della legge con la finalità soggettiva del
richiedente.
11) - Alla luce di quanto argomentato, quindi, anche richieste di accesso
civico presentate per finalità “egoistiche” possono favorire un controllo
diffuso sull’amministrazione, se queste consentono di conoscere le scelte
amministrative effettuate.
Il controllo diffuso di cui parla la legge,
infatti, non è da riferirsi alla singola domanda di accesso ma è il
risultato complessivo cui “aspira” la riforma sulla trasparenza la quale,
ampliando la possibilità di conoscere l’attività amministrativa, favorisce
forme diffuse di controllo sul perseguimento dei compiti istituzionali e una
maggiore partecipazione dei cittadini ai processi democratici e al dibattito
pubblico.
In definitiva, l’accesso generalizzato deve essere riguardato come
estrinsecazione di una libertà e di un bisogno di cittadinanza attiva, i cui
relativi limiti debbono essere considerati di stretta interpretazione e
saranno solo quelli espressamente previsti dal legislatore.
Potranno trovare, così, accoglimento anche istanze tese all’acquisizione di
informazioni utili a fini personali, ad esempio professionali, se l’istanza
riguarda informazioni, dati e documenti amministrativi e ciò perché ai fini
della trasparenza e del diritto a conoscere rileva “che cosa si può
conoscere” e non “perché si vuole conoscere”. Se i dati e i documenti
richiesti sono inerenti a scelte amministrative, all’esercizio di funzioni
istituzionali, all’organizzazione e alla spesa pubblica, questi potranno
essere considerati di “interesse pubblico” e quindi conoscibili, a meno che
non si rinvengano concomitanti interessi pubblici e privati prevalenti da
salvaguardare.
12) - Fatta questa premessa di carattere normativo-interpretativo, e
passando all’esame dell’istanza di accesso, il ricorrente ha chiesto di
avere copia, ex art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013:
«- di tutte le licenze
commerciali di qualunque natura rilasciate nel comune di Serrara Fontana;
- dei certificati di agibilità di dette attività commerciali
(alberghi, ristoranti, negozi, ecc.);
- delle domande di condono non ancora evase ovvero a cui non è
stata ancora concessa la sanatoria in relazione ad immobili in cui vengono
esercitate attività commerciali per le quali è stata rilasciata licenza di
commercio;
- di tutte le continuità d’uso rilasciate per immobili sottoposti a
pratica di condono non ancora esaminata e concessa visto che il TAR non l’ha
riconosciuta come equipollente del necessario requisito dell’agibilità».
L’intento principale del ricorrente (come esplicitato in ricorso) è quello
di sapere, anche per difendersi adeguatamente, se ha subito discriminazioni
e quindi di verificare l’osservanza del principio della par condicio civium.
Afferma di voler sapere se il diniego di agibilità basato effettivamente
sulla pendenza di una domanda di condono edilizio, non ancora evasa
dall’amministrazione comunale, è principio applicato per la generalità dei
cittadini e se l’ente ha rilasciato per gli esercizi commerciali, la cui
attività è svolta in locali oggetto di domanda di condono edilizio,
l’agibilità provvisoria.
13) - Va in primo luogo ricordato, come detto sopra, che
non rileva ai fini
dell’accesso generalizzato la legittimazione rappresentata. Ciò che diventa
dirimente è se, alla luce delle finalità della legge, i documenti richiesti
risultino conoscibili in quanto in grado di contribuire a realizzare il
controllo diffuso sull’attività dell’amministrazione e sulle scelte dalla
stessa effettuate (salvaguardando concomitanti limiti ritenuti prevalenti).
In merito alla istanza nella specie proposta, certamente può ritenersi che
la conoscenza dei documenti e dei dati richiesta consentono un controllo
diffuso da parte del cittadino in quanto permettono di sapere, per esempio,
quante sono le domande di condono pendenti presso il Comune, e da quanti
anni pendono, se sono stati rilasciati certificati di agibilità provvisoria
(anziché evadere le domande di condono) ovvero se sono autorizzate
continuità d’uso per immobili sottoposti a pratica di condono non ancora
esaminata.
Non rilevano in questa sede i motivi di ricorso che potrebbero essere
proposti successivamente, in merito agli atti conosciuti, così come non
rileva il fatto che gli stessi potrebbero risultare in ipotesi inammissibili
o infondati, in quanto, ai fini della presente decisione, è importante solo
decidere se i dati e i documenti richiesti ai sensi dell’art. 5, co. 2,
possono ritenersi utili ai fini della conoscenza di come un’amministrazione
pubblica svolge la propria attività e di come organizza i proprio uffici al
fine di garantire efficienza, efficacia e credibilità dell’azione
amministrativa.
L’istanza di accesso che viene qui in esame poteva essere formulata da
qualunque cittadino, non necessariamente e/o esclusivamente dall’odierno
ricorrente.
L‘amministrazione comunale chiamata a provvedere su questa istanza avrebbe
dovuto esaminarla tenendo distinti i presupposti dell’accesso documentale di
cui alla legge 241/1990 da quelli previsti per l’accesso generalizzato;
avrebbe dovuto, quindi, operare la sua scelta operando un bilanciamento tra
l’interesse del richiedente (nella sua qualità di quisque de populo) a
vedere i documenti e quindi a conoscere l’attività amministrativa di che
trattasi e la protezione da assicurare agli interessi pubblici e privati di
cui all’elencazione dell’art. 5-bis del d.lgs. 33/2013, dando conto in
motivazione della ponderazione effettuata e della prevalenza, nel caso,
degli uni sull’altro.
14) - Sul punto deve ritenersi che l’atto impugnato risulta certamente
affetto da motivazione carente in quanto non dà conto delle ragioni per cui
è stato negato l’accesso civico generalizzato e cioè dell’eventuale
pregiudizio a interessi pubblici e privati che si intendono tutelare (gli
unici limiti, questi, previsti dal legislatore per negare l’accesso),
limitandosi invece il comune a richiamare la giurisprudenza che fa
riferimento a istanze c.d. “massive” che si pongono come causa di intralcio
dell’azione della pubblica amministrazione (di cui si dirà a breve) e
ritenendo inaccoglibile l’istanza del ricorrente in quanto rivolta solo a
soddisfare un “bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale,
egoistico”.
15) - In merito all’ultimo punto deve ritenersi non legittima, alla luce del
dettato normativo in tema di accesso generalizzato, la decisione
dell’amministrazione in quanto riferita ad “istanza egoistica”, circostanza
questa che non può rappresentare un limite in quanto non prevista dal
legislatore come tale, e dunque inidonea a limitare la conoscenza “diffusa”.
La norma non prevede alcuna motivazione “a conoscere” da porre a supporto
dell’istanza di accesso generalizzato e anche se l’amministrazione, nella
istanza presentata dal ricorrente, sia stata a conoscenza dell’interesse
“personale” di questi a conoscere, (che certamente rileva nell’ambito della
disciplina sull’accesso ai documenti ex legge 241/1990), in quanto
destinatario di precedenti atti amministrativi dallo stesso impugnati,
questo non può ridondare sull’accesso generalizzato, per il quale la norma
dispone che sia “il chiunque” a poter chiedere, senza dover spiegare le sue
“ragioni”; tali considerazioni portano il Collegio a ritenere che anche
finalità “egoistiche e personali” possono essere poste a fondamento di una
istanza di accesso civico generalizzato, il quale ultimo, dunque, può essere
soddisfatto purché non crei pregiudizio agli interessi pubblici e privati da
salvaguardare.
Va anche chiarito che gli atti richiesti con l’istanza di accesso
generalizzato sono atti che rilevano ai fini della conoscenza dell’attività
amministrativa, in quanto espressione di scelte amministrative e certamente
come tali idonei a realizzare quel processo di accountability che anima la
recente riforma in tema di trasparenza.
L’amministrazione non dà conto,
nella specie, dei concomitanti interessi che intende salvaguardare, facendo
solo un generico riferimento alla inammissibilità dell’istanza in quanto
tesa a un controllo generalizzato, alla mancanza di prova (da parte
dell’istante) della posizione legittimante all’esercizio dell’actio exibendum,
al (probabile) carico di lavoro che l’istanza avrebbe prodotto, in grado di
interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione e infine, alla
circostanza che alcuni atti non sarebbero neppure soggetti a pubblicazione
obbligatoria.
16) - In merito ai diversi aspetti ora riportati e considerati
dall’amministrazione come argomenti per rigettare l’istanza deve
considerarsi che:
- il limite dell’istanza intesa al controllo generalizzato rileva
solo ai fini dell’applicazione dell’art. 22 della legge 241/1990 e non ai
fini dell’applicazione dell’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013, che è invece
proprio rivolto ad assicurare un controllo diffuso da parte dei cittadini;
- la legittimazione al diritto all’accesso rileva solo con
riferimento all’accesso documentale, alla luce dell’art. 22 della legge
241/1990;
- la mole di atti richiesti ed effettivamente da concedere in
ostensione non si apprezza in nessun modo in quanto l’amministrazione non dà
conto del numero di istanze di condono pendenti, del numero di esercizi
commerciali autorizzati, di certificati di agibilità provvisoria rilasciati
e di cessione d’uso consentite ma fa genericamente riferimento a “un carico
di lavoro per l’amministrazione in grado di interferire con il buon
funzionamento della stessa”; trattandosi di un piccolo comune (poco più di
tremila abitanti) doveva essere l’amministrazione a rappresentare, con “dati
alla mano” l’aggravio lavorativo riferito e rappresentato nell’atto
impugnato;
- l’amministrazione non tiene conto che l’accesso civico
generalizzato si riferisce a documenti “ulteriori” che possono essere
richiesti dal cittadini, ulteriori cioè rispetto a quelli per i quali esiste
l’obbligo di pubblicazione; l’accesso civico generalizzato è, quindi,
normalmente richiesto per i dati e i documenti per i quali non esiste un
obbligo di pubblicazione. In tal ultimo caso si sarebbe trattata di attività
vincolata posta in capo all’amministrazione (per la quale alcuna valutazione
era rimessa all’amministrazione) e il ricorrente avrebbe potuto far valere
l’art. 5. co. 1 del d.lgs. 33/2013;
- l’istanza di accesso generalizzato di cui è questione non può
essere considerata “massiva” in quanto circoscritta a un segmento di
attività dell’amministrazione il cui rigetto per “grave” carico di lavoro
avrebbe potuto essere giustificato solo in base alla rappresentazione del
numero (in caso notevole) di documenti esistenti;
- il comune non tiene conto che l’accesso generalizzato consente
una conoscenza “ampia” ma meno “profonda” di quella che si può ottenere in
base alla legge 241/1990 per cui il richiedente potrà, di regola, accedere
alle copie delle istanze inoltrate, ai certificati rilasciati, ma non a
tutti gli atti allegati alle istanze;
- l’amministrazione non ha tenuto conto della eventualità che per
molti dei documenti richiesti non sussistono “controinteressati” cioè
titolari della sfera di riservatezza da coinvolgere nel procedimento di
accesso e che non basta il richiamo di un terzo soggetto, nell’ambito del
documento, per renderlo effettivamente tale. Sul punto il Collegio aderisce
a quell’orientamento in base al quale, con specifico riguardo alla materia
dell’accesso ai documenti amministrativi, per controinteressati devono
intendersi tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base
alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso
vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza; tale tutela deve
essere assicurata nei confronti dei titolari dei dati sensibili e personali
(Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1034 del 2012).
Quella di controinteressato
non è qualità che si ravvisa in tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano
nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva,
ma, appunto, solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero
pregiudicato il loro diritto alla riservatezza. Non basta, perciò, che
taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento richiesto, ma
occorre in capo a tale soggetto un quid pluris, vale a dire la titolarità di
un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento. La
veste di controinteressato in tema di accesso è una proiezione, perciò, del
valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un
dato alla sfera di un certo soggetto. Se ne desume che non tutti i dati
riferibili ad un soggetto sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso,
ma solo quelli rispetto ai quali sussiste, per la loro inerenza alla
personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero discendere da una
loro diffusione, una precisa e ben qualificata esigenza di rischio
(Consiglio di Stato, Sezione V, n. 3190 del 2011, sez. VI, n. 2863/2016);
- l’amministrazione non tiene conto, inoltre, della possibilità di
non fornire alcuni dati personali che possono considerarsi non utili al fine
di garantire la conoscenza dell’attività amministrazione, previo oscuramento
degli stessi dai documenti da dare in ostensione;
- infine,
l’amministrazione, a fronte di una istanza, che potrebbe risultare
gravosa in ragione della mole di dati “in teoria” coinvolti, potrebbe
fornire, rispetto alla documentazione richiesta, almeno il dato aggregato
che ai fini della “conoscenza diffusa” comunque risulta un dato utile e
importante.
17) - Alla luce di tali considerazioni il Collegio ritiene che il rigetto
impugnato, per quanta parte è riferito all’istanza formulata ex art. 5, co.
2, d.lgs. 33/2013, deve essere annullato per difetto di motivazione in
quanto non risultano sufficientemente rappresentate le ragioni per cui deve
essere negato l’accesso generalizzato richiesto.
18) – Al fine di consentire concreta esecuzione alla presente decisione, il
Collegio ritiene, infine, di fornire ulteriori indicazioni che hanno rilievo
sul piano degli effetti conformativi della sentenza.
Il Collegio chiarisce, infatti, che
nella eventualità in cui l’istanza di
accesso generalizzato proposta si riferisca a una mole di documenti tale da
rappresentare (ad esempio, anche per mancanza di procedure informatizzate)
una aggravio importante per l’attività dell’Ente, di cui si darà conto
motivatamente, questo attiverà l’istituto del “dialogo cooperativo” con il
richiedente considerato che esso ha un «valore immanente alle previsioni
della legge istitutiva dell’accesso civico generalizzato e della finalità di
condividere con la collettività il patrimonio di informazioni in possesso
della pubblica amministrazione»
(cfr. TAR Puglia, Bari, sez. III, 19.02.2018, n. 234).
19) -
L’amministrazione, infatti, deve consentire l’accesso generalizzato
anche quando l’istanza fa riferimento a un numero cospicuo di documenti ed
informazioni; non vi è tenuta allorquando la richiesta risulti massiva «tale
cioè da comportare un carico di lavoro in grado di interferire con il buon
funzionamento dell’amministrazione», incombendo sulla stessa l’obbligo di
motivare su detta ritenuta “interferenza” e di esplicitare «le condizioni
suscettibili di pregiudicare in modo serio ed immediato il buon
funzionamento dell’amministrazione»
(Delibera ANAC n. 1309/2016).
20) - Il Collegio condivide certamente i pronunciamenti del giudice
amministrativo secondo cui
l’istituto dell’accesso generalizzato è teso a
costituire uno strumento di partecipazione all’attività
dell’amministrazione, di partecipazione al c.d. dibattito pubblico e che non
può essere «utilizzato in maniera disfunzionale rispetto alla predetta
finalità e non può essere trasformato in una causa di intralcio al buon
funzionamento dell’amministrazione»
(Cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. IV,
16.10.2017, n. 1971, 09.03.2018, n. 669).
Anche questo Tribunale ritiene del resto che
il principio generale del
divieto di abuso del diritto, inteso come ogni ipotesi in cui un diritto
cessa di ricevere tutela, poiché esercitato al di fuori dei limiti stabiliti
dalla legge, è legato alla tematica della buona fede, intesa come criterio
per stabilire un limite alle pretese e ai poteri del titolare di un diritto.
In ragione di tali principi,
pur considerando che la valutazione
dell’utilizzo dell’istituto secondo buona fede vada operata caso per caso,
al fine di garantire un bilanciamento delle situazioni e per assicurare che
non venga aggirata l’applicazione dell’istituto, è sicuramente importante
evidenziare che l’accesso generalizzato non può trasformarsi in un boomerang
per l’efficienza dell’amministrazione e che il dovere di solidarietà trova
posto in Costituzione come il diritto alla trasparenza.
21) - Alla luce di tali argomentazioni il Collegio ritiene che quella
formulata dal ricorrente non possa considerarsi istanza massiva tale da
comportare un carico di lavoro in grado di interferire con il buon
funzionamento dell’amministrazione.
Come di recente affermato,
il diniego opposto –motivato con riferimento alla compromissione del buon andamento della Pubblica Amministrazione, per il
carico di lavoro ragionevolmente ed ordinariamente esigibile dagli uffici–
non può ritenersi tout court fondato
(TAR Firenze, n. 133/2019).
Il buon andamento della Pubblica Amministrazione rappresenta –in qualunque
forma di accesso- un valore cogente e non recessivo, la cui sussistenza,
tuttavia, non può essere genericamente affermata bensì adeguatamente
dimostrata da parte dell’amministrazione che nega l’accesso
(cfr. Circolare
della Funzione Pubblica 30.05.2017 n. 2/2017).
Il dialogo endoprocedimentale di cui alla menzionata circolare, impone che
qualora la trattazione dell’istanza di accesso civico generalizzato sia
suscettibile di arrecare un pregiudizio serio ed immediato al buon
funzionamento della pubblica amministrazione, quest’ultima «prima di
decidere sulla domanda, dovrebbe contattare il richiedente e assisterlo nel
tentativo di ridefinire l’oggetto della richiesta entro limiti compatibili
con i principi di buon andamento e di proporzionalità».
Anche il punto 4.2. della delibera ANAC n. 1309 del 28.12.2016 prevede
che “nei casi particolari in cui venga presentata una domanda di accesso per
un numero manifestamente irragionevole di documenti, imponendo così un
carico di lavoro tale da paralizzare, in modo molto sostanziale, il buon
funzionamento dell’amministrazione, la stessa può ponderare, da un lato,
l’interesse dell’accesso del pubblico ai documenti e, dall’altro, il carico
di lavoro che ne deriverebbe, al fine di salvaguardare, in questi casi
particolari e di stretta interpretazione, l’interesse ad un buon andamento
dell’amministrazione”.
Tale norma agendi deve essere intesa, alla luce dei
generali principi di proporzionalità e ragionevolezza, come un invito a
cercare una soluzione consensuale, ad esempio mediante la sollecitazione del
richiedente a rimodulare la propria istanza in modo da ridurne l’ambito,
così da salvaguardare sia l’interesse pubblico al buon andamento della p.a.
sia l’interesse, anch’esso di rilievo pubblicistico, di garantire l’accesso
generalizzato ai dati in possesso della amministrazione
(TAR Lazio, Roma,
sez. II-ter, 05.05.2018, n. 4977).
22) - Come di recente affermato dal giudice amministrativo,
detto
comportamento deve ritenersi in linea con il percorso e le finalità
dell’accesso civico atteso che il principio del dialogo cooperativo con i
richiedenti deve ritenersi un valore immanente alle previsioni della legge
istitutiva dell’accesso generalizzato e della finalità di condividere con la
collettività il patrimonio di informazioni in possesso della Pubblica
Amministrazione
(TAR Toscana, Firenze, sez. I, 28.01.2019, n. 133,
TAR Puglia, Bari, sez. III, 19.02.2018, n. 234).
23) - Per quanto riguarda la presente fattispecie, la richiesta del
ricorrente non costituiva ragione, per come formulata, per procedere, sic et
simpliciter, al rigetto definitivo dell’istanza, (senza che venisse nemmeno
rappresentato in concreto la mole di documenti in discussione); ciò avrebbe
imposto, infatti, di attivare un dialogo procedimentale teso a permettere al
ricorrente una diversa specificazione della documentazione di interesse (e
ragionevolmente ostensibile), anche rappresentando allo stesso l’effettiva
mole di dati presenti (“mole” di dati tutta da far emergere considerate le
dimensioni dell’ente che, come detto sopra, supera di poco i tremila
abitanti).
Il ricorrente avrebbe, quindi, potuto, in sede procedimentale, delimitare
l’ambito di conoscenza.
24) - Il provvedimento di diniego dell’istanza deve pertanto essere
annullato, per quanta parte si riferisce alla richiesta di accesso
generalizzato, con conseguenziale obbligo, per il comune resistente, di
riattivare il procedimento, attraverso (se del caso) una fase di dialogo
endoprocedimentale tesa a permettere la specificazione dei documenti
richiesti (nei termini sopra indicati); ciò rende ovviamente impossibile
l’accoglimento dell’azione di accertamento e condanna all’ostensione dei
documenti proposta dal ricorrente (cfr. TAR Toscana, Firenze, n. 133/2019
cit.).
Ne consegue l’obbligo dell’amministrazione intimata di dare corso, senza
alcun indugio, alla domanda di “accesso civico” quale, se del caso,
riformulata dal ricorrente, previa attivazione e conclusione, nei termini di
legge, della procedura di confronto con i potenziali controinteressati;
l’amministrazione potrà, se del caso, tenere conto (mediante il parziale
oscuramento dei dati) solo di eventuali specifiche ragioni di riservatezza
dei controinteressati, puntualmente motivate e circostanziate, eventualmente
ritenute meritevoli di protezione (cfr. Cons. St., sez. III, 06.03.2019,
n. 1546).
25) - Infine, va solo fatto un breve cenno, per respingerlo, al motivo di
ricorso formulato dal ricorrente e riguardante la procedura di riesame
secondo cui l’amministrazione avrebbe agito illegittimamente, in violazione
dell’art. 5, co. 7, del d.lgs. 33/2013, adottando tout court un rigetto
senza attivare il controllo “interno” prevista in capo al Responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza.
Detto motivo è infondato in ragione dell’espresso dato normativo che impone
in capo al solo richiedente (o eventualmente al controinteressato) di
attivare la procedura di riesame e non all’amministrazione, di procedere
d’ufficio.
L’art. 5, co. 7, del decreto trasparenza prevede infatti che “Nei casi di
diniego totale o parziale dell'accesso o di mancata risposta entro il
termine indicato al comma 6, il richiedente può presentare richiesta di
riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza, di cui all'articolo 43, che decide con provvedimento motivato,
entro il termine di venti giorni”.
Come è evidente,
al contrario di quanto previsto per l’accesso civico
semplice, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza (RPCT) non viene in gioco nella fase di presentazione
dell’istanza di accesso generalizzato in quanto allo stesso è assegnato il
preciso compito di riesaminare, stimolato dal richiedente, l’eventuale
rigetto o accoglimento parziale dell’istanza di accesso civico ovvero di far
fronte all’inerzia dell’ufficio ricevente.
Per come è agevole rilevare, tra
i tre tipi di accesso esaminati (documentale, semplice e generalizzato) si
rilevano differenze anche in ragione del diverso ruolo svolto dal RPCT.
In
caso di accesso ai documenti, l’istanza è generalmente inviata all’ufficio
che detiene o forma il documento ovvero all’URP, che smista le istanze agli
uffici e non è previsto riesame (tutela interna) da parte
dell’amministrazione procedente; in caso di accesso civico semplice,
l’istanza deve essere rivolta al Responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza e in caso di diniego e di silenzio le
amministrazioni possono prevedere l’intervento del responsabile dei poteri
sostitutivi
(in questo senso Delibera ANAC n. 1310/2016); infine,
in caso di
accesso civico generalizzato, l’istanza va inviata a uno dei tre soggetti
individuati dall’amministrazione di cui all’art. 5, co. 3, lett. a), b) e
c), del d.lgs. 33/2013, mentre in caso di diniego totale o parziale
dell’accesso o di mancata risposta è espressamente previsto l’intervento del
Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza con il
compito di “riesaminare” la precedente decisione.
26) - Alla luce delle esposte argomentazioni il ricorso va accolto in parte,
con riguardo all’istanza di accesso generalizzato richiesto ai sensi
dell’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013, e per l’effetto annullato, in parte
qua, il provvedimento impugnato e intrapresa una nuova interlocuzione procedimentale con il richiedente secondo quanto affermato in motivazione. |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Licenziabile
il responsabile unico del procedimento che non esegue i compiti affidati.
L'inerzia protratta del RUP nell'eseguire le consegne
ricevute, nonostante i reiterati inviti ad eseguire le attività, può
costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento traducendosi in
un reiterato e consapevole inadempimento degli obblighi derivanti dal
rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione e dei doveri che ne
derivano e la sanzione può essere considerata proporzionale secondo le
regole del contratto collettivo degli enti locali.
Sono queste le conclusioni confermate dalla Corte di Cassazione - Sez.
lavoro (sentenza
08.05.2019 n. 12160).
La vicenda
La Giunta Comunale affidava un incarico di Responsabile Unico del
Procedimento ad un architetto dipendente dell'ente, ma a seguito della sua
protratta inerzia e nonostante i diversi solleciti ricevuti, il Segretario
comunale, in qualità di responsabile del procedimento disciplinare, previa
formale contestazione, ha irrogato la sanzione del licenziamento con
preavviso.
Il RUP nel ricorso innanzi al giudice del lavoro, oltre ad
evidenziare il mancato rispetto dei termini del procedimento disciplinare,
ha difeso la propria posizione evidenziando, tra l'altro, l'incompetenza
della Giunta Comunale alla sua nomina che spetta invece al dirigente, e che
inoltre, la sua nomina era stata deliberata quando il progetto esecutivo era
stato già approvato e dunque in violazione del principio di unicità del
responsabile del procedimento.
Il ricorrente ha, infine, evidenziato specifiche problematiche riguardo tra
l'altro all'ufficio in dotazione e alle modalità di consegna della
corrispondenza, ovvero in riferimento alla mancata disponibilità di
strumenti idonei per operare proficuamente nel senso richiesto
nell'interesse dell'amministrazione.
Rispetto al giudice di primo grado, che
ne aveva accolto la domanda di reintegrazione per violazione del termine del
procedimento disciplinare avvenuto oltre i venti giorni dalla conoscenza
della inerzia del dipendente, la Corte di Appello ha riformato la sentenza,
giudicando, invece legittima e proporzionale la sanzione del licenziamento.
La causa è stata quindi portata dal ricorrente davanti alla Corte di
Cassazione evidenziando gli errori in cui è incorsa la Corte territoriale.
La conferma della Cassazione
In via preliminare, per la Cassazione non sono degne di nota le eccezioni
sollevate dal ricorrente sul ritardo della contestazione disciplinare, la
quale è correttamente avvenuta nei termini facendo decorrere i medesimi
dalla comunicazione ufficiale pervenuta al responsabile del procedimento
disciplinare e non dalla data di conoscenza del dirigente responsabile.
Nel merito la Corte di Appello ha correttamente valutato il fatto costituito
dalla validità dell'incarico di RUP, ritenendo irrilevante ogni relativa
questione di legittimità dell'organo competente posto che il RUP aveva
accettato lo stesso con specifica nota, vincolandosi così all'espletamento
delle attività richieste. Inoltre, la deliberazione della Giunta Comunale di
nomina riguardava sia la fase preliminare che quella definitiva ed
esecutiva, per cui l'approvazione del progetto definitivo non aveva esaurito
l'incarico stesso permanendo così per il RUP la responsabilità di coordinare
risorse interne ed esterne per la realizzazione del progetto esecutivo.
Avuto riguardo alla sanzione disciplinare erogata, secondo i giudici di
Piazza Cavour, la stessa è stata correttamente giudicata dai giudici di
appello proporzionale avendo tenuto conto della condotta inadempiente e
della stessa posizione difensiva assunta dal RUP che nelle risposte fornite,
alle varie sollecitazioni del Sindaco e del dirigente del Settore, si è
sempre concentrato sulle proprie problematiche personali (ufficio in
dotazione, modalità di consegna della corrispondenza) piuttosto che fornire
adeguate e credibili giustificazioni.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con condanna alle spese di
giudizio a seguito della soccombenza
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.05.2019). |
APPALTI:
Occultare la risoluzione di un contratto penalizza. È causa di
esclusione dal concorso.
La mancata trasmissione di informazioni sulla risoluzione di un contratto
precedente legittima l'esclusione dalla gara.
Lo
ha precisato l'Avvocato generale della Corte di Giustizia Ue nelle sue
conclusioni
08.05.2019 nella causa C-267/18
e che verosimilmente saranno confermate in sede di pronuncia definitiva
dalla Corte. L'argomento trattato afferiva all'esclusione di un operatore
economico da una procedura di gara a causa della risoluzione di un contratto
precedente non comunicato all'amministrazione aggiudicatrice. Nella causa si
discuteva in particolare della nozione di «carenze significative o
persistenti» che giustificano ai sensi della normativa eurounitaria
l'esclusione dalla gara d'appalto.
La vicenda riguarda l'applicazione dell'articolo 57, paragrafo 4, lettera
g), della direttiva 2014/24 che, secondo l'avvocato generale, deve essere
interpretato nel senso che un'amministrazione aggiudicatrice, in linea di
principio, è autorizzata ad escludere dalla procedura di appalto di lavori
pubblici un operatore economico nei cui confronti sia stata disposta la
cessazione anticipata di un precedente contratto di appalto pubblico per
violazione della clausola che lo obbligava a comunicare, ai fini della
necessaria autorizzazione, che parte di tali lavori era assegnata a un
subappaltatore. Ciò premesso l'avvocato generale ha aggiunto che spetta al
giudice nazionale chiarire, alla luce delle particolari circostanze della
controversia e in applicazione del principio di proporzionalità, se la
cessazione anticipata del (primo) contratto di appalto pubblico fosse dovuta
a una significativa carenza nell'esecuzione di un requisito sostanziale
richiesto nell'ambito di detto contratto, sufficiente per escludere
l'operatore economico dal (secondo) contratto. Inoltre, in base alla lettera
h) dell'articolo 57 l'amministrazione aggiudicatrice può escludere da un
(secondo) contratto di appalto pubblico l'offerente che abbia occultato,
dinanzi ad essa, la cessazione anticipata di un contratto precedente per
significative carenze nell'esecuzione di un requisito sostanziale richiesto
nel contesto di tale (primo) contratto. Spetterà al giudice nazionale
valutare, alla luce del principio di proporzionalità, la gravità di tale
occultamento di informazioni (articolo ItaliaOggi del 17.05.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
All’Adunanza plenaria se la società incorporante è soggetto direttamente
responsabile dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata.
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Inquinamento – Inquinamento ambientale – Società incorporante –
responsabile per fatti della società incorporata – Dubbi e rimessione
all’Adunanza plenaria
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria la
questione se una società che abbia incorporato un’altra società
(direttamente o tramite incorporazioni intermedie) nel regime anteriore alla
modifica del diritto societario non possa essere considerata essa stessa, ai
sensi e per gli effetti dell’applicazione dell’art. 17 del “decreto Ronchi”
(e, in seguito, degli artt. 242 e ss., d.lgs. n. 152 del 2006), soggetto
direttamente responsabile dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata
(1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che l’antecedente condotta di
inquinamento posta in essere dall’incorporata, in quanto già allora
anti-giuridica, ha generato in capo ad essa, secondo il criterio
norma-fatto-effetto, una responsabilità che, a seguito dell’incorporazione,
non potendo andare dispersa (il principio della conservazione dei valori
giuridici è immanente nell’ordinamento – cfr. art. 1367 c.c.), non può che
essere confluita, come posta passiva, nel patrimonio dell’incorporante.
In tale ottica, peraltro, non si ravviserebbe alcuna applicazione
retroattiva dell’art. 17, posto che una conclusione siffatta si limiterebbe
a riconnettere ad un danno ancora attuale le conseguenze che il vigente
diritto contempla: di tale conseguenze non potrebbe che rispondere la
società succeduta a titolo universale al soggetto che ebbe a causare quel
danno.
Altrimenti argomentando, si ritiene, non solo si potrebbe consentire un
commodus discessus per eludere le norme imperative a tutela del bene
ambiente, ma –da un punto di vista sistematico– si ammetterebbe la
possibilità di una sorta di limitazione extra ordinem della
responsabilità giuridica per la commissione di condotte illecite produttive
di un danno ancora attuale.
Sotto altro aspetto, potrebbe altresì circoscriversi praeter legem
(se non addirittura contra legem) la pienezza contenutistica del
fenomeno successorio a titolo universale, funzionale proprio a consentire -a
tutela non tanto delle parti interessate, quanto soprattutto dei terzi e
dell’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche- la
prosecuzione a tutti gli effetti giuridici del patrimonio del soggetto
estinto, salve solo specifiche e tassative eccezioni (ad esempio, i cd. “diritti
intrasmissibili”).
In una visuale più ampia, poi, che una condotta ab origine contra jus
possa essere oggetto di conseguenze previste anche da leggi emanate in epoca
successiva alla condotta del danneggiante, purché il danno sia ancora
attuale, è positivamente escluso solo con riguardo alla pena (giova peraltro
evidenziare, sul punto, la differenza fra gli artt. 1 e 2 c.p. da un lato, e
gli artt. 199 e 200 c.p. dall’altro) e, in generale, alle misure
amministrative a contenuto sanzionatorio (cfr. art. 1, l. n. 689 del 1981)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 07.05.2019 n. 2928
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Condizioni di partecipazione dei privati alle società in house.
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Il Consiglio di Stato ha stabilito tre importanti
principi:
a) che nel settore dei servizi idrici, sino a quando una specifica
disposizione di legge nazionale, diversa dagli artt. 5, d.lgs. n. 50 del
2016 e 16, d.lgs. n. 175 del 2016, non stabilirà la possibilità per i
privati di partecipare ad una società in house –indicando anche la misura
della partecipazione, la modalità di ingresso del socio privato, il ruolo
all’interno della società e i rapporti con il socio pubblico– deve ritenersi
preclusa al privato la partecipazione alla società in house.
b) che l’art. 149-bis Codice dell’ambiente, nella parte in cui
effettua un richiamo all’ “ordinamento europeo”, non permette, allo stato,
la partecipazione dei privati alla società in house perché proprio il
richiamo all’ordinamento europeo effettuato dalla predetta norma nazionale
impone una specifica previsione nazionale che ammetta, e disciplini, la
partecipazione dei privati alle società in house (in termini analoghi i già
richiamati articoli 5 Codice dei contratti pubblici e 16, d.lgs. n. 175 del
2016).
c) che, in attesa della decisione della Corte di giustizia
dell’Unione europea (cui, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, spetta
l’interpretazione dei trattati e degli atti compiuti dalle istituzioni,
dagli organi o dagli organismi dell’Unione), a prescindere
dall’eccezionalità o meno dell’in house providing, le norme che disciplinano
tale istituto vanno interpretate restrittivamente anche per evitare che
applicazioni analogiche, di fatto ampliandone il ricorso, possano
trasformarsi in una lesione delle concorrenza che, come è noto, è tra i
principi dell’Unione. (1)
----------------
(1) La Sezione osserva che l'articolo 7 della legge della regione
Piemonte 20.01.1997, n. 13, nel riferirsi alla legge 142/1990, prende in
considerazione l’affidamento del servizio o attraverso concessione a terzo
scelto tramite gara oppure attraverso le società miste pubblico-privato;
nessuna indicazione, invece, fornisce per il possibile affidamento in house
anche in considerazione del fatto che all’epoca l’in house non si era ancora
sviluppato e certamente non era oggetto di disciplina normativa.
Inoltre, l’articolo 149-bis del codice dell'ambiente, facendo richiamo ai
principi nazionali e comunitari, va interpretato nel senso che, nel rispetto
dell’articolo 34, comma 20, d.l. 179/2012, si possa, tra l’altro, scegliere:
a) di esperire una gara per la scelta del concessionario-gestore
privato cui affidare la gestione del servizio idrico;
b) di costituire una società mista, con socio
operativo/industriale, cui conferire la gestione del servizio, a condizione
che la gara per la scelta del socio sia preordinata alla individuazione del
socio industriale od operativo che concorra materialmente allo svolgimento
del servizio pubblico nel rispetto di quanto oggi stabilito dal d.lgs.
175/2016 (e, tra l’altro, dagli articoli 7 e 17 d.lgs. ora citato) nonché
dalla giurisprudenza comunitaria (Corte UE, sez. III, 15.10.2009 C196/08) e
nazionale.
c) di affidarlo a società in house.
In quest’ultimo caso, come detto, occorrerà rispettare le condizioni
richieste dalla disciplina europea così come sopra delineate.
Con la conseguenza che il dubbio sollevato dalla regione Piemonte va sciolto
nel senso che la partecipazione di privati al capitale della persona
giuridica controllata è ammessa solo se prescritta espressamente da una
disposizione legislativa nazionale, in conformità dei trattati e a
condizione che si tratti di una partecipazione che non comporti controllo o
potere di veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle
decisioni della persona giuridica controllata.
Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio, poiché, per un verso, la norma
di riferimento per l’affidamento della gestione del servizio idrico è
l’articolo 149-bis del codice dell’ambiente che chiaramente lo esclude e,
per altro verso, manca una norma di legge che espressamente lo prescriva, la
risposta al primo quesito deve essere negativa: sino a quando una specifica
disposizione di legge nazionale, diversa dagli articoli 5 d.lgs. 50/2016 e
16 d.lgs. 175/2016, infatti, non prescriverà che i privati partecipino ad
una società in house –indicando anche la misura della partecipazione,
la modalità di ingresso del socio privato, il ruolo all’interno della
società e i rapporti con il socio pubblico– l’apertura dell’in house ai
privati deve ritenersi esclusa.
Giova altresì ribadire che non può giungersi a diversa conclusione, come
prospettato dalla regione richiedente, in considerazione del richiamo all’“ordinamento
europeo” che vi è nell’articolo 149-bis Cod. amb. perché, proprio
l’ordinamento europeo richiamato, impone una specifica previsione nazionale
che prescriva (e disciplini) la partecipazione dei privati alle società in
house (in termini analoghi i già richiamati articoli 5 Codice dei contratti
pubblici e 16 d.lgs. 175/2016).
Per chiarezza terminologica la Sezione rileva, inoltre, che il riferimento
al socio industriale contenuto a pagina 6 del quesito risulta corretto per
le società miste mentre nel caso di società in house non può, per le
ragioni prima esposte, portare a dare rilievo/influenza (maggiore di quella
voluta dalla direttiva comunitaria) al socio privato a prescindere da come
lo si voglia qualificare.
La risposta in termini negativi al primo quesito esonera la Sezione dal
rispondere al secondo quesito. Tuttavia il Consiglio, ferma restando
l’autonomia del legislatore regionale nel valutare l’ambito di un suo
intervento, ricorda che le discipline esposte in questo parere afferiscono
-come sopra detto- alla “tutela della concorrenza” e, dunque,
rientrano in larga parte nella materia indicata dall’articolo 117, comma 2,
lett. e), Cost. riservata al legislatore nazionale (ex multis, Corte
cost. 401/2007; Corte cost., 16.07.2014 n. 199)
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere
07.05.2019 n. 1389 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
2. La gestione dei servizi pubblici: profili storici
Prima di dare risposta ai quesiti, il Consiglio ritiene che sia necessario
effettuare una ricostruzione storica della disciplina degli affidamenti
della gestione del servizio pubblico, anche in considerazione del fatto che
la citata legge regionale fa espresso riferimento ai modelli all’epoca
delineati dalla legge 142/1990.
2.1. Innanzi tutto è utile ricordare che nei servizi pubblici è possibile
individuare tre distinti momenti logici e giuridici: 1) l’assunzione; 2) la
regolazione; 3) la gestione del servizio.
Momento iniziale è l’assunzione da parte dei pubblici poteri di un’attività
come servizio pubblico, con legge o con atto amministrativo emanato in base
ad una legge; si tratta di una decisione di carattere politico determinata
dal fatto che il mercato non è in grado di offrire alla collettività un
adeguato livello qualitativo o quantitativo di un determinato bene o
servizio. Ne deriva una nozione di servizio pubblico storicamente relativa
poiché varia in base all’epoca ed al contesto territoriale di riferimento;
ciò spiega perché è estremamente difficile dare una definizione univoca di
servizio pubblico.
Quando un’attività viene assunta come servizio pubblico, il potere pubblico
deve provvedere alla sua regolazione, secondo momento logico, dando
attuazione a determinati principi giuridici che si ricavano anche, e
soprattutto, dal diritto eurounitario e dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia dell’Unione europea, tra i quali ricordiamo: il principio di
legalità; il principio di doverosità (i pubblici poteri devono garantire
direttamente o indirettamente alla collettività l’erogazione del servizio
secondo criteri quantitativi e qualitativi predeterminati); il principio
della continuità della gestione ed erogazione dei servizi; il principio di
imparzialità; il principio di universalità (le imprese che gestiscono
servizi pubblici devono offrire prestazioni anche a fasce di clienti e in
aree territoriali non convenienti); il principio dell’accessibilità dei
prezzi per tutti; il principio dell’economicità (nel senso che il gestore
del servizio deve poter conseguire un margine ragionevole di utile); il
principio di trasparenza; il principio di proporzionalità.
Per quanto riguarda il terzo, e fondamentale, momento, le forme di gestione
dei servizi pubblici con rilevanza economica si caratterizzano per la minore
o maggiore afferenza del gestore all’organizzazione pubblica; la gestione
può infatti essere:
a) diretta, ossia eseguita dalle strutture dello stesso
ente che ha assunto il servizio pubblico (aziende speciali, gestione in
economia);
b) indiretta, ossia affidata ad un altro ente pubblico, ad
esempio un ente pubblico economico;
c) affidata ad una società in house providing;
d) affidata ad una società mista a partecipazione pubblica e
privata (c.d. partenariato pubblico privato istituzionale - PPPI);
e)
affidata in concessione a privati scelti mediante procedure di evidenza
pubblica (c.d. concorrenza per il mercato);
f) autorizzata a più gestori che
erogano il servizio in concorrenza nel rispetto degli obblighi di servizio
pubblico stabiliti dal regolatore (c.d. concorrenza nel mercato).
Dagli anni novanta in poi, per effetto delle direttive comunitarie, si è
passati da un modello di organizzazione del servizio pubblico caratterizzato
dalla riserva originaria dell’attività, con i c.d. diritti speciali o di
esclusiva, ad un modello sempre più concorrenziale. Le direttive volte alla
liberalizzazione dei diversi settori e dei differenti mercati operano una
distinzione tra “concorrenza nel mercato” e “concorrenza per il mercato”:
nel primo caso, quando le caratteristiche del mercato lo consentono, il
servizio può essere svolto da operatori economici in concorrenza tra loro,
sulla base di un provvedimento autorizzatorio, non discrezionale, che
realizza quindi la piena concorrenza; nel secondo caso, ragioni di tipo
tecnico o economico (monopolio naturale, costi eccessivi di duplicazione
delle reti e delle infrastrutture), suggeriscono che il servizio pubblico
venga svolto in modo efficiente soltanto da un unico gestore.
Pertanto,
l’amministrazione indice una procedura selettiva di affidamento della
concessione del servizio, alla quale possono partecipare tutti gli operatori
economici interessati, per la scelta del gestore cui viene riconosciuto un
diritto speciale o di esclusiva.
In questo modello di gestione, dunque, la
concorrenza si realizza a monte, secondo due modalità alternative ed
equivalenti che più avanti si approfondiranno: procedura ad evidenza
pubblica per l’affidamento del servizio a soggetto privato ovvero procedura
ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato industriale cui
affidare la gestione operativa del servizio in una società a partecipazione
mista pubblica e privata.
In ogni caso, non va dimenticato che, in base all’attuale disciplina
generale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, le pubbliche
amministrazioni possono sempre decidere di gestire direttamente il servizio
a mezzo di un soggetto rispondente al modello in house providing, modello
quest’ultimo da non confondere con quello delle società miste a
partecipazione pubblico-privata per le ragioni che saranno meglio
specificate in seguito.
2.2. Considerato che l’art 149-bis Codice ambiente, qui in esame, fa
riferimento ai “servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica”, è
opportuno approfondire la nozione di servizio di rilevanza economica per
verificarne l’eventuale coincidenza con la nozione comunitaria di servizio
di interesse economico generale.
L’articolo 2, comma 1, lett. i), d.lgs.
175/2016 definisce “«servizi di interesse economico generale»: i servizi di
interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro
corrispettivo economico su un mercato”; la lett. h), d.lgs. cit. definisce
invece “«servizi di interesse generale»: le attività di produzione e
fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un
intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di
accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità
e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell'ambito delle rispettive
competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei
bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l'omogeneità
dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse
economico generale”.
Sulla nozione di servizio pubblico locale avente rilevanza economica e sui
rapporti con la nozione europea di servizi di interesse economico
generale-SIEG, ora riferita, la Corte costituzionale, con sentenza n. 325
del 2010, ha affermato: “In àmbito comunitario non viene mai utilizzata
l’espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo
quella di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), rinvenibile, in
particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea (TFUE). Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale
ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo
dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE,
18.06.1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea (in
specie, nelle Comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in
Europa del 26.09.1996 e del 19.01.2001; nonché nel Libro verde su tali
servizi del 21.05.2003), emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di
SIEG, ove limitata all’àmbito locale, e quella interna di SPL di rilevanza
economica hanno «contenuto omologo», come riconosciuto da questa Corte con
la sentenza n. 272 del 2004. … Entrambe le suddette nozioni, interna e
comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio che:
a) è reso
mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata),
intesa in senso ampio, come «qualsiasi attività che consista nell’offrire
beni o servizi su un determinato mercato» …;
b) fornisce prestazioni
considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”)
nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere
dalle loro particolari condizioni (Corte di giustizia UE, 21.09.1999,
C-67/96, Albany International BV).
Le due nozioni, inoltre, assolvono
l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire
di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi
secondo procedure competitive ad evidenza pubblica”.
Tale precisazione è di particolare importanza perché, riconosciuta la
corrispondenza tra l'espressione «servizio pubblico locale di rilevanza
economica» e quella di «servizio di interesse economico generale», ne
consegue la riconducibilità all'ambito materiale relativo alla tutela della
concorrenza (Corte cost., 16.07.2014 n. 199) con conseguente attrazione
nella sfera della potestà legislativa esclusiva dello Stato.
2.3. Giova inoltre osservare che, a livello locale, vi era una dettagliata
disciplina legislativa dei servizi pubblici che, a partire dai primi anni
novanta, ha subito una profonda evoluzione.
La prima normativa risale al 1903, la c.d. legge Giolitti, che disciplinò la
gestione dei pubblici servizi da parte dell’ente locale, riconoscendo
all’amministrazione ampia discrezionalità nella scelta degli strumenti più
idonei, rappresentati all’epoca dall’azienda municipalizzata (con cui
l’autorità pubblica agisce da imprenditore), dalla gestione diretta in
economia e dalla concessione a terzi.
Dopo il T.U. 15.10.1925, n. 2578 ed il decreto di attuazione d.P.R. n.
602/1926, con la legge n. 142 del 1990 (Ordinamento delle autonomie locali),
e in particolare con l’articolo 22, si abbandonò la visione prevalentemente
pubblicistica del servizio pubblico (avvalorando la nozione mista,
oggettivo-soggettiva, di servizio pubblico) e si passò a modelli di gestione
più efficienti ed economici individuando cinque tipologie organizzative:
1)
la gestione in economia, nei casi in cui non è opportuno per le modeste
dimensioni del servizio e l’esiguità del valore della prestazione creare
un’autonoma azienda o una s.p.a.;
2) l’azienda speciale dotata di autonomia
operativa, gestionale, contabile e statutaria;
3) la società mista a
capitale pubblico-privato;
4) la concessione a terzi (provvedimento
fiduciario che consente l’affidamento diretto senza l’espletamento di una
gara);
5) l’istituzione per servizi di rilevanza non economica, organismo
strumentale dell’ente pubblico dotato di autonomia, ma privo di propria
personalità giuridica.
Va evidenziato che nell’articolo 22 ora citato nessun riferimento vi era, né
poteva esserci, alle società in house.
Avviata la privatizzazione dei servizi pubblici nazionali ed istituite le
Autorità di regolazione di servizi di pubblica utilità per energia
elettrica, gas e telecomunicazioni, nel 1997, con la legge Bassanini, iniziò
la privatizzazione dei gestori dei servizi pubblici a livello locale, con
l’obbligo di trasformare le aziende pubbliche in s.p.a. e di dismissione
progressiva del pacchetto azionario.
Nel 2000, il T.U. enti locali disciplinò i servizi pubblici locali
all’articolo 113, articolo quest’ultimo che nel tempo è stato modificato più
volte.
Successivamente intervenne l’articolo 23-bis, introdotto dalla legge n.
133/2008 (di conversione del decreto legge n. 112/2008, c.d. decreto Bersani)
a delineare un’ampia riforma dei servizi pubblici locali. Con il d.l.
135/2009 (c.d. decreto Ronchi), l’articolo 23-bis venne interamente
riformulato, da un lato, confermando che le sue disposizioni prevalevano
sull’articolo 113 d.lgs. 267/2000 e, dall’altro, prevedendo espressamente
la possibilità dell’affidamento a società miste, con una sola gara “a monte”
per la scelta del socio privato a condizione che con la gara si attribuisse
la qualità di socio operativo e non solo finanziatore.
In seguito alle modifiche citate, l’articolo 113 TUEL divenne norma di
riferimento per la disciplina della proprietà delle reti e delle
infrastrutture e della loro gestione mentre la gestione ed erogazione del
servizio fu disciplinata dall’articolo 23-bis citato.
Tuttavia l’articolo 23-bis venne abrogato a seguito del referendum popolare
del 12-13 giugno del 2011. A distanza di qualche tempo, con l’articolo 4
d.l. 138/2011 il legislatore adeguò la disciplina dei servizi pubblici
locali di rilevanza economica ai principi informatori sanciti a livello
europeo, prevedendo come regola generale che gli enti locali avrebbero
dovuto liberalizzare le attività economiche (c.d. concorrenza nel mercato),
ove fosse stata possibile una gestione dei servizi pubblici rispettosa dei
principi di proporzionalità, sussidiarietà ed efficienza; quando invece, in
base ad una analisi di mercato, fosse stato accertato che lasciare il
servizio alla libera concorrenza avrebbe pregiudicato l’universalità e
l’accessibilità del servizio, l’amministrazione avrebbe potuto derogare alla
concorrenza nel mercato prevedendo l’attribuzione di diritti di esclusiva e
conseguentemente scegliere di indire una gara pubblica per selezionare il
privato gestore (concorrenza per il mercato), oppure affidare in house il
servizio oppure ancora costituire una società mista.
La norma è stata tuttavia dichiarata incostituzionale dalla Corte
Costituzionale, con sentenza 199/2012, che l’ha ritenuta elusiva dell’esito
del referendum del 2011.
Per effetto della sentenza n. 199/2012 si è quindi creato nuovamente un
vuoto normativo sui servizi pubblici locali.
3. La gestione dei servizi pubblici: la disciplina attuale
In attuazione degli articoli 16 e 19 della L. 07.08.2015, n. 124 recante
“Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche”, è stato deliberato dal Consiglio dei Ministri del 20.01.2016 uno “schema di decreto legislativo recante testo unico sui servizi
pubblici locali di interesse economico generale”. Tuttavia, tale schema di
decreto legislativo non è stato mai approvato in via definitiva perché -prima della sua adozione– è intervenuta la sentenza della Corte
Costituzionale 25.11.2016, n. 251.
Pertanto la disciplina oggi è affidata ai principi dell’ordinamento UE, alla
direttiva sulle concessioni e a quelli affermati dalla Corte di Giustizia
U.E. nonché a specifiche disposizioni interne in materia di servizi
pubblici. Occorre richiamare, sotto tale ultimo aspetto, l’articolo 113 TUEL
per la disciplina della proprietà e della gestione delle reti, mentre, per
la disciplina della gestione e dell’erogazione dei servizi pubblici si
ricordano l’articolo 3-bis del d.l. n. 138/2011 (disciplina gli ambiti
territoriali dei servizi pubblici locali), l’articolo 34, commi 20-27, d.l.
n. 179/2012 (sui servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica)
nonché l’articolo 8 del d.l. n. 1/2012 (disciplina delle carte dei servizi
pubblici).
Tra queste disposizioni, in relazione ai quesiti formulati, va posto in
evidenza l’articolo 34, comma 20, d.l. cit. che prevede: “Per i servizi
pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto
della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della
gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di
riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita
relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto
delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento
europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti
specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale,
indicando le compensazioni economiche se previste”.
4. Le concessioni
La concessione è uno strumento antico, utilizzato sin dalla fine dell’800,
per la realizzazione e la gestione delle opere pubbliche, in alternativa
all’appalto. In origine era uno strumento di diritto pubblico, un atto
unilaterale ed autoritativo con cui la PA, per realizzare un’opera pubblica,
sceglieva fiduciariamente il concessionario, al quale poi l’opera era
concessa in gestione per consentirgli di recuperare le spese di costruzione.
Per tutelare la libertà di concorrenza e la parità degli operatori economici
nel mercato, è intervenuto il diritto dell’Unione europea prevedendo la
necessità di affidare anche le concessioni tramite procedure di evidenza
pubblica; con la direttiva 2014/23/UE del 26.02.2014,
“Sull’aggiudicazione dei contratti di concessione”, infine, il legislatore
europeo ha dettato per la prima volta una disciplina organica e dettagliata
per la concessione di lavori e servizi.
Mentre il previgente codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006),
all’articolo 30, disponeva soltanto che la scelta del concessionario dovesse
avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi
generali relativi ai contratti pubblici, il codice attualmente vigente (d.lgs.
50/2016), recependo la direttiva 23 del 2014, contiene una dettagliata
procedura di selezione del concessionario.
Per il Codice dei contratti pubblici, la concessione di servizi è un
“contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o
più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la
fornitura e la gestione di servizi diversi dall'esecuzione di lavori di cui
alla lettera ll) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il
diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto
accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del
rischio operativo legato alla gestione dei servizi” (articolo 3, lett. vv)
codice dei contratti pubblici).
Dalle disposizioni in questione emerge che le concessioni sono individuate
in base a due elementi:
1) il diritto di gestire le opere o i servizi
oggetto del contratto (quale corrispettivo riconosciuto in favore del
concessionario);
2) il trasferimento al concessionario del rischio operativo
legato alla gestione dell’opera o del servizio.
Sino alla direttiva del 2014 non esisteva una definizione normativa di
rischio operativo, con conseguente incertezza sull’individuazione della
soglia oltre la quale tale rischio doveva ritenersi eliminato e trasferito
sull’amministrazione concedente. La direttiva 2014/23/Ue, spiega
efficacemente che “… la caratteristica principale di una concessione, ossia
il diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il
trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica
che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti
effettuati e i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi
aggiudicati in condizioni operative normali, anche se una parte del rischio
resta a carico dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore.
L’applicazione di norme specifiche per la disciplina dell’aggiudicazione di
concessioni non sarebbe giustificata se l’amministrazione aggiudicatrice o
l’ente aggiudicatore sollevasse l’operatore economico da qualsiasi perdita
potenziale garantendogli un introito minimo pari o superiore agli
investimenti effettuati e ai costi che l’operatore economico deve sostenere
in relazione all’esecuzione del contratto” (considerando 18) e che “… Un
rischio operativo dovrebbe derivare da fattori al di fuori del controllo
delle parti. Rischi come quelli legati a una cattiva gestione, a
inadempimenti contrattuali da parte dell’operatore economico o a cause di
forza maggiore non sono determinanti ai fini della qualificazione come
concessione, dal momento che rischi del genere sono insiti in ogni
contratto, indipendentemente dal fatto che si tratti di un appalto pubblico
o di una concessione. Il rischio operativo dovrebbe essere inteso come
rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato, che possono derivare
da un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta ovvero
contestualmente da un rischio sul lato della domanda e sul lato
dell’offerta” (considerando 20).
L’art. 164 del codice dei contratti pubblici individua oggetto e ambito di
applicazione delle concessioni. In particolare, è previsto che alle
procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o
di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute
nella parte I e nella parte II del codice, relativamente ai principi
generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento,
alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai
requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di
aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli
offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai
termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e
delle offerte, alle modalità di esecuzione. Inoltre, è espressamente detto
che i servizi non economici di interesse generale non rientrano nell'ambito
di applicazione delle norme sulle concessioni.
5. Società in house
Con l’espressione in house providing si fa riferimento all’affidamento di un
appalto o di una concessione da parte di un ente pubblico in favore di una
società controllata dall’ente medesimo, senza ricorrere alle procedure di
evidenza pubblica, in virtù della peculiare relazione che intercorre tra
l’ente pubblico e la società affidataria.
La società in house è una società dotata di autonoma personalità giuridica
che presenta connotazioni tali da giustificare la sua equiparazione ad un
"ufficio interno" dell’ente pubblico che l’ha costituita, una sorta di
longa
manus; non sussiste tra l’ente e la società un rapporto di alterità
sostanziale, ma solo formale. Queste caratteristiche della società in house
giustificano e legittimano l’affidamento diretto, senza previa gara, per cui
un’amministrazione aggiudicatrice è dispensata dall’avviare una procedura di
evidenza pubblica per affidare un appalto o una concessione. Ciò in quanto,
nella sostanza, non si tratta di un effettivo "ricorso al mercato" (outsourcing),
ma di una forma di "autoproduzione" o, comunque, di erogazione di servizi
pubblici "direttamente" ad opera dell'amministrazione, attraverso strumenti
"propri" (in house providing).
L’istituto, le cui radici si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di
Giustizia dell’Unione europea, è espressione del principio di libera
amministrazione delle autorità pubbliche di cui all’articolo 2 della
direttiva 2014/23/Ue che afferma: “le autorità nazionali, regionali e locali
possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la
prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e
dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per
gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire
in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la
parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti
dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di
espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie
risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di
conferirli a operatori economici esterni”.
In definitiva, un affidamento diretto ad un soggetto che non è
sostanzialmente diverso dall’amministrazione affidante non può dare luogo
alla lesione dei principi del Trattato e, in particolare, del principio di
concorrenza, proprio perché si tratta non di esternalizzazione ma di
autoproduzione della stessa P.A.
L’in house segna, dunque, una delicata linea di confine tra i casi in cui
non occorre applicare le direttive appalti e concessioni, e la relativa
normativa nazionale di trasposizione, ed i casi in cui invece è necessaria
l’applicazione.
I requisiti delle società in house sono stati elaborati nel tempo dalla
Corte UE; secondo la giurisprudenza della Corte, a partire dalla sentenza
Teckal del 1999 sino alle direttive UE 23, 24 e 25/2014 in materia di
appalti e concessioni, le procedure di evidenza pubblica possono escludersi
tutte le volte in cui:
1) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul
soggetto affidatario un controllo analogo a quello operato sui propri
servizi interni (requisito strutturale);
2) il soggetto affidatario realizza
la parte più importante della propria attività a favore dell’amministrazione
aggiudicatrice che lo controlla (requisito funzionale).
Le condizioni necessarie per la configurazione del controllo analogo sono la
partecipazione pubblica totalitaria e l’influenza determinante; sin dal
2005, la Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE 11.01.2005, C-26/03, Stadt Halle; Corte di Giustizia UE 21.07.2005, C-231/03, Consorzio Coname; Corte di Giustizia UE, sez. I, 18.01.2007, C-225/05, Je. Au.)
ha chiarito che la partecipazione, pur minoritaria, di soggetti privati al
capitale di una società, alla quale partecipi anche l'amministrazione
aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa
esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui
propri servizi. La partecipazione pubblica totalitaria rappresenta una
condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, dovendosi ulteriormente
verificare la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente pubblico
più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile a favore del
socio totalitario. L'amministrazione aggiudicatrice, infatti, deve essere in
grado di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici
che sulle decisioni importanti dell'entità affidataria e il controllo
esercitato deve essere effettivo, strutturale e funzionale (in tal senso,
Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza 29.11.2012, C-182/11 e
C-183/11, Econord).
La Corte di Giustizia ha riconosciuto altresì che, a determinate condizioni,
il controllo analogo può essere esercitato congiuntamente da più autorità
pubbliche che possiedono in comune l'ente affidatario, c.d. in house
frazionato (Corte di Giustizia UE, 29.11.2012, in cause riunite
C-182/11 e C-183/11, Econord), e che è configurabile un controllo analogo
anche nel caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto
azionario non è detenuto direttamente dall’ente pubblico di riferimento, ma
indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding)
posseduta al 100% dall’ente medesimo, c.d. in house a cascata (Corte di
Giustizia UE 11.05.2006 C-340/04).
Il secondo requisito indicato dalla Corte è costituito dalla prevalenza
dell’attività svolta con l’ente affidante, ossia il soggetto in house deve
svolgere la parte più importante della propria attività con il soggetto o i
soggetti pubblici che lo controllano e la diversa attività, eventualmente
svolta, deve risultare accessoria, marginale e residuale.
Sino alle direttive UE del 2014 non vi era una percentuale di attività
predeterminata che doveva essere svolta in favore dell’ente affidante e,
pertanto, l’interprete era tenuto a prendere in considerazione tutte le
circostanze sia qualitative che quantitative del caso concreto.
Nel contesto sopra descritto sono intervenute le nuove direttive del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 26.02.2014 sugli appalti
pubblici e le concessioni.
I requisiti dell’in house sono adesso chiaramente indicati dall’articolo 12,
paragrafo 1, della direttiva 2014/24/UE, dall’articolo 28, paragrafo 1,
della direttiva 2014/25/UE e dall’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva
2014/23/UE; tutte norme di identico tenore. Non è disciplinato solo l’in
house, ma anche la cooperazione tra amministrazioni aggiudicatrici (c.d.
accordi di collaborazione), la quale però rimane al di fuori dell’in house,
in quanto non comporta la costituzione di organismi distinti rispetto alle
amministrazioni interessate all’appalto o alla concessione.
In particolare, l’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva
sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, relativo alle concessioni
tra enti nell’ambito del settore pubblico, prevede che una concessione
aggiudicata da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore
ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), a una persona giuridica
di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di
applicazione della direttiva quando siano soddisfatti tutti i requisiti del
controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi, quando
oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata
siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente
controllante e non vi sia alcuna partecipazione di capitali privati, ad
eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano
controllo o potere di veto.
Le direttive sono state attuate con il d.lgs. 50/2016, recante il nuovo
codice dei contratti pubblici che all’articolo 5, rubricato “principî comuni
in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra
enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico”,
stabilisce una disciplina di principio che tratteggia nelle sue linee
essenziali le caratteristiche principali dell’in house; le previsioni codicistiche ricalcano in buona parte le direttive.
Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, primo periodo, in presenza di determinate
condizioni, le norme del codice non si applicano ai contratti aggiudicati da
un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una “persona
giuridica di diritto pubblico o di diritto privato”; ciò significa che i
confini dell’in house sono stati estesi al di fuori del fenomeno delle
società di diritto privato comprendendovi anche gli enti pubblici.
Per l’individuazione dell’in house sono richiesti adesso tre requisiti:
1)
controllo analogo;
2) oltre l'80 per cento delle attività della persona
giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti
ad essa affidati dall’ente controllante;
3) nella persona giuridica
controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati.
In ordine al controllo analogo, è stabilito che “un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un
controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ... qualora essa
eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle
decisioni significative della persona giuridica controllata” (articolo 5,
comma 1, lett. a).
Quanto alla prevalenza dell’attività “intra moenia”, è previsto che oltre
l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve
essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente
controllante (articolo 5, comma 1, lett. b). Per determinare la citata
percentuale deve prendersi in considerazione il fatturato totale medio, o
altra idonea misura alternativa basata sull’attività quale, ad esempio, i
costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o
l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori
per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione
(articolo 5, comma 7).
Si è chiarito che ove a causa della recente data di costituzione della
persona giuridica o dell’amministrazione aggiudicatrice, ovvero a causa
della riorganizzazione delle sue attività, i criteri citati non sono
utilizzabili “è sufficiente dimostrare, segnatamente in base a proiezioni
dell’attività, che la misura dell’attività è credibile” (art. 5, comma 8).
Il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo
rispetto a quello del controllo analogo e, al contempo, sono state
consentite forme di partecipazione di capitali privati -le quali però non
devono comportare controllo o potere di veto- previste dalla legislazione
nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza
determinante sulla persona giuridica.
Oltre al c.d. in house di tipo tradizionale, dalle direttive UE e
dall’articolo 5 del codice dei contratti pubblici sono ricavabili anche
altre forme di in house:
- in house a cascata: si caratterizza per la presenza di un
controllo analogo indiretto “tale controllo può anche essere esercitato da
una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo”
(articolo 5, comma 2); l’amministrazione aggiudicatrice esercita un
controllo analogo su un ente che a propria volta esercita un controllo
analogo sull’organismo in house ed anche se tra la l’amministrazione
aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta è
comunque ammesso l’affidamento diretto;
- in house frazionato o pluripartecipato: ai sensi dell’articolo 5,
comma 4, l’affidamento diretto è consentito anche in caso di controllo
congiunto; le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori
esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono
congiuntamente soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) gli organi
decisionali della persona giuridica controllata sono composti da
rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti
aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare
varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori
partecipanti;
b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori
sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli
obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona
giuridica;
c) la persona giuridica controllata non persegue interessi
contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti
aggiudicatori controllanti;
- in house verticale “invertito” o “capovolto”, si ha quando il
soggetto controllato, essendo a sua volta amministrazione aggiudicatrice,
affida un contratto al soggetto controllante senza procedura di evidenza
pubblica: per il Codice degli appalti “il presente codice non si applica
anche quando una persona giuridica controllata che è un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore, aggiudica un appalto o una
concessione alla propria amministrazione aggiudicatrice o all’ente
aggiudicatore controllante …” (articolo 5, co. 3). Si verifica, pertanto,
una sorta di bi-direzionalità dell’in house; la giustificazione a tale
possibilità di affidamento diretto risiede nel fatto che mancando una
relazione di alterità, i rapporti tra i due soggetti sfuggono al principio
di concorrenza qualunque sia la “direzione” dell’affidamento;
- in house “orizzontale” che implica, invece, l’esistenza di tre
soggetti; un soggetto A aggiudica un appalto o una concessione a un soggetto
B, e sia A che B sono controllati da un altro soggetto C. Non vi è quindi
alcuna relazione diretta tra A e B, ma entrambi sono in relazione di in
house con il soggetto C, che controlla sia A che B; l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su due operatori economici
distinti di cui uno affida un appalto all’altro.
6. Affidamento in house: regola o eccezione?
Per lungo tempo è stato ritenuto che i requisiti dell'in house providing
dovessero essere interpretati restrittivamente (Cons. Stato, sez. II, n.
456/2007; Cons. Stato, sez. V, n. 5620/2010; Cons. Stato, sez. I, n.
2577/2011).
Si rilevava, al riguardo, che l'in house, così come costruito dalla
giurisprudenza comunitaria, rappresentava, più che un modello di
organizzazione dell'amministrazione, un'eccezione alle regole generali del
diritto comunitario, le quali richiedono la previa gara (Cons. Stato, Ad. Pl.
n. 1/2008).
E ciò sulla base del principio secondo cui, in via generale, l’assenza
totale di procedura concorrenziale per l’affidamento di una concessione di
servizi pubblici non è conforme alle esigenze di cui agli artt. 43 CE e 49
CE, e nemmeno ai principi di parità di trattamento, di non discriminazione e
di trasparenza (C. giust. CE, 06.04.2006, C-410/04 e 13.10.2005, C-458/03).
In particolare si considerava che “l’affidamento diretto del servizio viola
il principio di concorrenza sotto un duplice profilo: a) da una parte,
sottrae al libero mercato quote di contratti pubblici, nei confronti dei
quali le imprese ordinarie vengono escluse da ogni possibile accesso; b)
dall’altra, si costituisce a favore dell’impresa affidataria una posizione
di ingiusto privilegio, garantendole l’acquisizione di contratti. Il tutto
si traduce nella creazione di posizioni di vantaggio economico che l’impresa
in house può sfruttare anche nel mercato, nel quale si presenta come
‘particolarmente’ competitiva, con conseguente alterazione della par
condicio” (Cons. Stato, Ad. Pl. n. 1/2008).
Anche di recente questo Consiglio ha ritenuto di ribadire che l’in house
rappresenta “un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le
quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante
la gara” (sez. III, n. 2291/2015; sez. VI, n. 2660/2015; sez. III, n.
5732/2015; sez. II, n. 298/2015).
Occorre peraltro prendere atto dei mutamenti normativi e giurisprudenziali
sopravvenuti, soprattutto a seguito delle direttive europee in materia di
appalti (n. 2014/24/UE), di concessioni (n. 2014/23/UE) e sui settori
speciali (n. 2014/25/UE), del codice appalti (d.lgs. n. 50/2016) e del testo
unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175/2016),
di cui si dirà.
E pertanto, secondo una diversa prospettiva, l’autorità pubblica, in virtù
del principio di libera amministrazione, può discrezionalmente decidere come
devono essere gestiti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, vale
a dire:
- mediante il ricorso al mercato -individuando l’affidatario mediante
gara ad evidenza pubblica-;
- attraverso il c.d. partenariato pubblico
privato -ossia per mezzo di una società mista e quindi con una gara a
doppio oggetto per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio-;
- ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un
soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente, ma che ne costituisce
sostanzialmente un diretto strumento operativo (Cons. Stato, sez. V, n.
4599/2014; sez. V, n. 257/2015; sez. V, n. 1900/2016).
In ogni caso, da ultimo, il Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanze 07.01.2019, n. 138 e 14.01.2019, n. 293 e n. 296, ha rimesso alla
Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale originata dal dubbio che le
disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a
condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate (quindi su un piano
subordinato ed eccezionale) rispetto alle altre modalità di affidamento,
siano compatibili con le pertinenti disposizioni e principi del diritto
primario e derivato dell'Unione europea, trattandosi di stabilire se il
citato restrittivo orientamento ultradecennale dell'ordinamento italiano in
tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni
del diritto dell'Unione europea (con particolare riguardo al principio della
libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall'articolo
2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione).
Per completezza si segnala che il Tribunale amministrativo regionale della
Liguria (ordinanza n. 886/2018) ha ritenuto rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2,
del d.lgs. n. 50 del 2016, (nella parte in cui prevede che le stazioni
appaltanti diano conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento
in house, “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”) sulla base del
principio secondo cui sarebbe acquisito –quantomeno in ambito europeo– il
principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi
eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto
all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma
costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della
titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle
amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza
economica.
In attesa della decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea (cui,
ai sensi dell’articolo 267 TFUE, spetta l’interpretazione dei trattati e
degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi
dell’Unione), il Consiglio ritiene che, a prescindere dall’eccezionalità o
meno dell’in house providing, le norme che disciplinano questo istituto
vadano interpretate restrittivamente anche per evitare che applicazioni
analogiche, di fatto ampliandone il ricorso, possano trasformarsi in una
lesione delle concorrenza che, come è noto, è tra i principi dell’Unione.
7. Le società a partecipazione pubblica
La disciplina delle società a partecipazione pubblica è oggi contenuta nel
d.lgs. 19.08.2016, n. 175, adottato in attuazione della delega di cui
alla l. 124/2015; il T.U. costituisce il primo tentativo di disporre una
disciplina organica in materia di società a partecipazione pubblica,
ispirata a criteri di efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, di
tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché di
razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica.
Il Testo unico introduce disposizioni dedicate alla disciplina dei
comportamenti delle pubbliche amministrazioni che vogliano acquisire o
mantenere lo status di soci di società di capitali ed un altro gruppo di
norme contenenti le deroghe al diritto delle società necessarie in ragione
della natura pubblica delle partecipazioni societarie.
Il legislatore delegato ha classificato le società pubbliche in base al
controllo pubblico o alla partecipazione (diretta o indiretta) pubblica. La
distinzione è, dunque, quella tra società controllate e società meramente
partecipate (articolo 2, comma 1, lett. n).
L’intento perseguito dal legislatore con il Testo unico è stato quello di
applicare la disciplina civilistica alle società a partecipazione pubblica,
contenendo le deroghe nella misura strettamente necessaria al concreto
soddisfacimento dell’interesse pubblico di volta in volta perseguito
attraverso la costituzione di una società o la detenzione di partecipazioni
societarie. Conseguentemente, il testo stabilisce che “per tutto quanto non
derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società
a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile
e le norme generali di diritto privato” (articolo 1, comma 3, T.U.).
Il D.Lgs. 16.06.2017, n. 100 ha poi previsto "Disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175, recante testo
unico in materia di società a partecipazione pubblica" anche per adeguarsi
alla sentenza della Corte cost. 25.11.2016, n. 251 con la quale è
stata dichiarata l'illegittimità costituzionale di buona parte dell'art. 18
della L. 07.08.2015, n. 124 (c.d. legge Madia) e cioè della norma di
delega in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. 19.08.2016, n. 175
recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.
8. Società in house e società miste
Giova ora sottolineare che i due modelli della società mista e della società
in house non vanno sovrapposti. Il Consiglio di Stato ha avuto modo di
esprimersi, con parere n. 456 del 2007, sulle distinte modalità di
affidamento chiarendo che “l’evoluzione giurisprudenziale consente, altresì,
di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo
della “società mista” a quello dell’in house providing”.
Sul punto, si ricorda che l’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008 ha definito i
requisiti e le condizioni di affidamento alle società in house ed alle
società a partecipazione mista pubblico privata, delineando i rispettivi
tratti distintivi. Tale impostazione si è poi consolidata con la decisione
della Corte di Giustizia secondo cui “gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE non
ostano all'affidamento diretto di un servizio pubblico che preveda
l'esecuzione preventiva di determinati lavori, come quello di cui trattasi
nella causa principale, a una società a capitale misto, pubblico e privato,
costituita specificamente al fine della fornitura di detto servizio e con
oggetto sociale esclusivo, nella quale il socio privato sia selezionato
mediante una procedura ad evidenza pubblica, previa verifica dei requisiti
finanziari, tecnici, operativi e di gestione riferiti al servizio da
svolgere e delle caratteristiche dell'offerta in considerazione delle
prestazioni da fornire, a condizione che detta procedura di gara rispetti i
principi di libera concorrenza, di trasparenza e di parità di trattamento
imposti dal Trattato per le concessioni” (Corte UE, sez. III, 15.10.2009 C-196/08).
Per quanto di interesse in questa sede, giova sottolineare che dal testo
unico, in linea con l’evoluzione normativa che si è delineata, emerge
chiaramente la differenza tra le società in house, oggetto di disciplina
all’articolo 16, e le società miste a partecipazione pubblico-privato,
disciplinate al successivo articolo 17.
Più precisamente l’articolo 16
stabilisce che le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti
pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo
analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il
controllo analogo congiunto; in modo sensibilmente differente, invece, il
successivo articolo 17 stabilisce che nelle società a partecipazione mista pubblico-privata la quota di partecipazione del soggetto privato non può
essere inferiore al trenta per cento e la selezione del medesimo si svolge
con procedure di evidenza pubblica a norma dell'articolo 5, comma 9, del
decreto legislativo n. 50 del 2016 e ha a oggetto, al contempo, la
sottoscrizione o l'acquisto della partecipazione societaria da parte del
socio privato e l'affidamento del contratto di appalto o di concessione
oggetto esclusivo dell'attività della società mista.
Emergono dunque notevoli differenze sia con riferimento alle modalità di
affidamento del contratto sia in relazione al diverso ruolo del socio
privato che, nelle società in house non deve avere un ruolo determinante e
che, al contrario, nelle società miste deve essere determinante tanto che
l’articolo 17, comma 2, prescrive per quest’ultimo il possesso dei requisiti
di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla
prestazione per cui la società è stata costituita.
8.1 Società in house e partecipazione dei privati
In effetti uno dei requisiti tradizionalmente caratterizzanti la definizione
comunitaria di in house providing è dato dalla natura integralmente pubblica
del capitale della società controllata, ritenendosi invece non ammissibile
la partecipazione anche minoritaria di soci privati.
Ad. es. Corte Giust. CE, sez. I, 11.01.2005, C-26/03, caso Standt Halle,
ha statuito che “la partecipazione, anche minoritaria, di un'impresa privata
al capitale di una società alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice … esclude in ogni caso che tale amministrazione possa
esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa
esercita sui propri servizi”. E ciò in quanto “il rapporto tra un'autorità
pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi
sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di
obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di
capitale privato in un'impresa obbedisce a considerazioni proprie degli
interessi privati e persegue obiettivi di natura differente” e “una
procedura siffatta offrirebbe ad un'impresa privata presente nel capitale
della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.
Tali considerazioni sono state, più di recente, ribadite da Corte giust.,
sez. I, 19.06.2014, C-574/12, caso Centro Hospitalar de Setúbal EPE,
secondo cui “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al
capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione
possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa
esercita sui propri servizi, poiché qualunque investimento di capitale
privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi
privati e persegue obiettivi di natura differente rispetto a quelli di
interesse pubblico”.
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato è giunta alle medesime
conclusioni, a partire dall’Adunanza plenaria n. 1/2008: “La sussistenza del
controllo "analogo" viene esclusa in presenza di una compagine societaria
composta anche da capitale privato, essendo necessaria la partecipazione
pubblica totalitaria: deve pertanto escludersi, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della società mista a quello
dell'"in house providing" (v. anche Cons. Stato, sez. V, n. 5079/2014; Cons.
Stato, sez. VI, n. 2660/2015; Cons. Stato, sez. V, n. 4253/2015; Cons.
Stato, sez. I, n. 1645/2018; Cons. Stato, sez. I, n. 2583/2018; Cons. Stato,
sez. I, n. 883/2019; Cons. Stato, sez. I, n. 1645/2018).
Tale orientamento peraltro è stato anche condiviso dalla Corte di
Cassazione: “È possibile che il capitale sociale faccia capo ad una
pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici, e che occorre
pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la
possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli
enti pubblici siano titolari” (Cass. SS.UU. n. 5491-2014).
Sennonché –come prima accennato al paragrafo 5– il quadro di riferimento
normativo è stato parzialmente modificato dalla direttiva 2014/24/UE che, se
da un lato ha confermato e sottolineato che “l'aggiudicazione di un appalto
pubblico senza una procedura competitiva offrirebbe all'operatore economico
privato che detiene una partecipazione nel capitale della persona giuridica
controllata un indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti” (32°
considerando), dall’altro ha consentito forme di partecipazione di capitali
privati, purché sussistano i requisiti di cui all'art. 12, comma 1, lett. c)
(“nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta
di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali
privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle
disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non
esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata”).
In tal modo sono stati modificati, in parte, i tratti distintivi dell’in
house (Cons. Stato, Comm. Spec. n. 268/2016).
In definitiva, nel rispetto di determinati presupposti, appare astrattamente
consentita la partecipazione diretta di capitali privati nell'ente in house
controllato, quale –è bene sottolinearlo- eccezione di stretta
interpretazione alla regola della totale partecipazione pubblica.
In ogni caso gli interpreti hanno sottolineato che tale radicale riforma
normativa -che, come visto, si pone in contrasto con gli orientamenti
consolidati della Corte di giustizia- introdurrebbe modi di gestione
estranei alla tutela degli interessi pubblici e, comunque, il capitale
privato sarebbe ammesso solo per quelle esigenze imperative che consentono
di derogare ai principi del Trattato.
8.2 Partecipazione dei privati, codice dei contratti e T.U. sulle società
a partecipazione pubblica
In attuazione della direttiva 2014/24/UE, l’art 5, comma 1, lett. c), del
d.lgs. n. 50/2016 (Codice dei contratti) ha previsto che nella persona
giuridica controllata non vi debba essere “alcuna partecipazione diretta di
capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali
privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla
legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano
un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.
Successivamente l’articolo 16, comma 1, del d. lgs. 175/2016 (T.U. sulle
società a partecipazione pubblica) ha stabilito che: “le società in house
ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che
esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle
amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto
solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di
quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non
comportino controllo o potere di veto, né l'esercizio di un'influenza
determinante sulla società controllata”.
Al riguardo, non può non evidenziarsi che, mentre il Codice dei contratti fa
riferimento a forme di partecipazione di capitali previste dalla
legislazione nazionale, il T.U. sulle società a partecipazione pubblica
considera ammessa una partecipazione al capitale sociale dei privati a
condizione che la stessa sia prescritta da una disposizione di legge
nazionale.
Tale differenza semantica tre le due disposizioni nazionali
(previste-prescritta) ha fatto ritenere che non occorre che partecipazione
sia “prescritta” ma è sufficiente che sia consentita. E ciò in quanto la
partecipazione di soggetti privati al capitale di un ente societario, in
ossequio all'autonomia che li caratterizza, può essere prevista ma non può
essere imposta da una norma di legge nel nostro ordinamento.
Tali considerazioni –che pure hanno un qualche fondamento– non
considerano, però, il dato positivo, peraltro conseguente ad una fonte (il
Testo unico sulle società a partecipazione pubblica) che si pone quale equiordinata alla precedente (Codice dei contratti) ma prevalente in quanto
lex posterior.
D’altro canto l’espressione “prescritta” è esattamente quella contenuta
nella direttiva comunitaria.
E, in effetti, i “considerando” n. 32 della direttiva appalti e n. 46 della
direttiva concessioni espressamente affermano la necessità di una
partecipazione non facoltativa, ma obbligatoria, in ragione di valutazioni
effettuate dal legislatore interno: “L’esenzione non dovrebbe estendersi
alle situazioni in cui vi sia partecipazione diretta di un operatore
economico privato al capitale della persona giuridica controllata poiché, in
tali circostanze, l’aggiudicazione di un appalto pubblico senza una
procedura competitiva offrirebbe all’operatore economico privato che detiene
una partecipazione nel capitale della persona giuridica controllata un
indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti. Tuttavia, date le
particolari caratteristiche degli organismi pubblici con partecipazione
obbligatoria, quali le organizzazioni responsabili della gestione o
dell’esercizio di taluni servizi pubblici, ciò non dovrebbe valere nei casi
in cui la partecipazione di determinati operatori economici privati al
capitale della persona giuridica controllata è resa obbligatoria da una
disposizione legislativa nazionale in conformità dei trattati, a condizione
che si tratti di una partecipazione che non comporta controllo o potere di
veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle decisioni della
persona giuridica controllata. Si dovrebbe inoltre chiarire che l’unico
elemento determinante è la partecipazione privata diretta al capitale della
persona giuridica controllata. Perciò, in caso di partecipazione di capitali
privati nell’amministrazione aggiudicatrice controllante o nelle
amministrazioni aggiudicatrici controllanti, ciò non preclude
l’aggiudicazione di appalti pubblici alla persona giuridica controllata,
senza applicare le procedure previste dalla presente direttiva in quanto
tali partecipazioni non incidono negativamente sulla concorrenza tra
operatori economici privati”.
Occorre quindi che, a livello interno, la partecipazione sia “prescritta”, e
non meramente consentita perché:
- la direttiva usa il termine “prescritte”, e non semplicemente
“previste”;
- i considerando n. 32 della direttiva appalti e n. 46 della
direttiva concessioni espressamente affermano la necessità di una
partecipazione non facoltativa, ma obbligatoria, in ragione di valutazioni
effettuate dal legislatore interno;
- anche l’analisi comparativo-linguistica della direttiva,
fondamentale ai fini dell’indagine del suo significato letterale, conferma
il significato forte dell’impiego del termine “prescritta” (Corte dei Conti,
sez. controllo Campania, 108/2016).
A tali esiti, del resto, è giunto anche questo Consiglio con il parere Comm.
Spec. n. 968/2016 secondo cui la norma europea “non ha inteso autorizzare in
generale la partecipazione dei privati ma ha rinviato alle specifiche
disposizioni di legge che le «prevedono». Tale forma di rinvio deve però
essere fatto a disposizioni di legge che “prescrivono” e dunque impongono la
partecipazione e non anche a quelle che genericamente “prevedono” la
partecipazione”.
È stato rilevato, inoltre, che, all'art. 5, comma 1 del Codice dei contratti
si prevede che i privati non debbono esercitare "un'influenza determinante
sulla persona giuridica controllata", ma non si fa menzione del potere di
controllo e di quello di veto, cui si riferisce invece l'art. 16, comma 1,
del T.U. Tale differenza appare tuttavia superabile in base ad una
interpretazione comunitariamente orientata dell'art. 5, comma 1, lett. c)
del Codice, con la conseguenza che il contenuto di quest'ultima
disposizione, anche sotto questo profilo, non sembra sostanzialmente diverso
da quello dell'art. 16, comma 1, del T.U..
La ulteriore diversa formulazione della disposizione del codice degli
appalti (“forme di partecipazione di capitali privati le quali non
comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione
nazionale”) rispetto a quella del T.U. sulle società a partecipazione
pubblica (“ad eccezione di quella prescritta da norme di legge”) potrebbe
far insorgere il dubbio se fonti diverse da quelle statali - quali quelle
regionali - possano prevedere l'ingresso dei privati.
In senso favorevole si era espresso il Consiglio di Stato nel parere n.
2583/2018 –su quesito proposto dalla stessa Regione Piemonte- che peraltro
riguardava la specifica materia del turismo che –come è noto– appartiene
alla competenza "esclusiva" delle Regioni a statuto ordinario.
In via generale, invece -anche alla luce del canone ermeneutico sopra detto
secondo cui i requisiti dell'in house providing, costituendo un'eccezione
alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati
restrittivamente- la disciplina sulle società in house appartiene alla
potestà esclusiva del legislatore nazionale, trattandosi di materia
attinente alla concorrenza.
Quindi non v’è spazio per la legislazione regionale. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La disposizione contenuta nel secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990
dispone che la violazione costituita dall’omessa comunicazione di avvio non
determina l’annullabilità del provvedimento finale, anche se si tratti di
provvedimento a contenuto discrezionale (quali sono i provvedimenti di
secondo grado come l’annullamento d’ufficio), purché «l’amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato».
Ciò appare in linea con la
consolidata giurisprudenza, secondo la quale la predetta disposizione deve
essere interpretata nel senso di «evitare che l’amministrazione sia onerata
in giudizio di una prova diabolica, e cioè della dimostrazione che il
provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso in relazione a
tutti i possibili contenuti ipotizzabili, per cui si deve comunque porre
previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto meno in termini
di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto
nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare
l’amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta».
---------------
3. Con il primo motivo del ricorso introduttivo i ricorrenti
deducono la violazione della normativa sul procedimento amministrativo, in
quanto non sarebbe stato comunicato loro l’avviso di avvio del procedimento.
3.1. La doglianza è infondata.
Nella fattispecie de qua è pacifico che l’Amministrazione comunale non ha
comunicato ai ricorrenti l’avviso di avvio del procedimento finalizzato
all’annullamento in autotutela del permesso di costruire in sanatoria
rilasciato il 27.05.2016.
Tuttavia risulta altrettanto pacifico che il contenuto del provvedimento
adottato in sede di autotutela non avrebbe potuto avere un contenuto
diverso, atteso che risulta oggettivamente dimostrato –come risulta anche
dall’attività istruttoria posta in essere dalle parti all’esito
dell’ordinanza cautelare n. 1479/2016 e, da ultimo, come confermato anche
dalla relazione e dalle tavole allegate all’istanza di sanatoria datata 20.12.2018 (all. 29-30 al ricorso)– che il manufatto realizzato non è
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, per violazione delle
distanze tra costruzioni stabilite dal codice civile.
A tale fattispecie va applicata quindi la disposizione contenuta nel secondo
periodo dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, secondo
la quale la violazione costituita dall’omessa comunicazione di avvio non
determina l’annullabilità del provvedimento finale, anche se si tratti di
provvedimento a contenuto discrezionale (quali sono i provvedimenti di
secondo grado come l’annullamento d’ufficio), purché «l’amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato».
Ciò appare in linea con la
consolidata giurisprudenza, secondo la quale la predetta disposizione deve
essere interpretata nel senso di «evitare che l’amministrazione sia onerata
in giudizio di una prova diabolica, e cioè della dimostrazione che il
provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso in relazione a
tutti i possibili contenuti ipotizzabili, per cui si deve comunque porre
previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto meno in termini
di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto
nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare
l’amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta» (così
Consiglio di Stato, V, 18.04.2012, n. 2257; altresì Consiglio di Stato,
VI, 04.03.2015, n. 1060; V, 05.12.2014, n. 5989; più di recente,
TAR Sardegna, I, 08.08.2018, n. 739).
3.2. Ciò determina il rigetto della prima doglianza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.05.2019 n. 1020 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento [né del preavviso di rigetto], non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell’atto.
---------------
L’ordinanza di ripristino, in quanto atto di carattere del tutto vincolato,
ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica
dell’abusività degli interventi, non richiede una particolare motivazione né
con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico
interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con
riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla
descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
Difatti, nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi, il carattere
sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del
richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e «la selezione e
ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a
monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile
l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001),
in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo
esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti».
Con riguardo invece al legittimo affidamento del ricorrente in ordine alla
conformità del proprio comportamento, legato anche al trascorrere del tempo,
va evidenziato che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività,
il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico; né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di
un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via
di fatto».
---------------
4. Con la prima censura del ricorso per motivi aggiunti, i ricorrenti
reiterano la doglianza di violazione della normativa sul procedimento
amministrativo, in quanto non sarebbe stato comunicato loro l’avviso di
avvio del procedimento.
4.1. La doglianza è infondata.
In data 29.05.2017 è stato comunicato ai ricorrenti l’avviso di avvio
del procedimento finalizzato al riesame della situazione riguardante la
conformità edilizia del muro di contenimento realizzato nella loro proprietà
(cfr. all. 22 al ricorso). All’esito di tale comunicazione, i ricorrenti
hanno potuto produrre una perizia di parte (all. 23 al ricorso) e
successivamente partecipare, tramite un proprio tecnico di fiducia, al
sopralluogo avvenuto in data 10.07.2017 e svolto in contraddittorio
presso l’area di loro proprietà (cfr. all. 24 al ricorso).
Pertanto, le parti ricorrenti, avendo ricevuto l’avviso di avvio del
procedimento, hanno potuto prendere parte all’attività istruttoria svolta
dall’Amministrazione, senza lesione dei loro diritti di partecipazione.
Ciò è avvenuto nonostante un costante indirizzo giurisprudenziale, da cui
non vi è ragione di discostarsi, preveda che «l’esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento [né del preavviso di rigetto], non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell’atto» (TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2018, n. 2098;
06.08.2018, n. 1946; 05.03.2018, n. 616;
altresì Consiglio di Stato, VI, 29.11.2012, n. 6071; 24.09.2010, n. 7129).
4.2. Ne discende il rigetto della predetta censura.
...
5.2. Sulla base di tali elementi fattuali è stata poi adottata anche
l’ordinanza di ripristino; quest’ultima in quanto atto di carattere del
tutto vincolato, ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente
dalla verifica dell’abusività degli interventi, non richiede una particolare
motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e
all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate,
allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza
dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 21.01.2019, n. 112; 06.08.2018, n. 1946;
02.05.2018, n. 1190).
Difatti, nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi, il carattere
sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del
richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e «la selezione e
ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile
l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001),
in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo
esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti» (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9).
Con riguardo invece al legittimo affidamento del ricorrente in ordine alla
conformità del proprio comportamento, legato anche al trascorrere del tempo,
va evidenziato che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività,
il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico; né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di
un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via
di fatto» (Consiglio di Stato, IV, 16.04.2012, n. 2185; altresì,
Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia,
Milano, II, 18.09.2018, n. 2098; 03.05.2018, n. 1198)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.05.2019 n. 1020 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ragione del consolidato orientamento giurisprudenziale si deve
ritenere che «in tema di distanze legali, (…) mentre il muro di
contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può
considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873
codice civile per la parte che adempie alla sua specifica funzione, devono
ritenersi soggetti a tale norma, perché costruzioni nel senso sopra
specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad
opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il
naturale dislivello esistente».
---------------
5. Con la seconda e la terza doglianza, sia del ricorso introduttivo che del
ricorso per motivi aggiunti, da trattare congiuntamente in quanto
strettamente connesse, si assume l’illegittimità degli atti impugnati, in
quanto gli stessi non conterrebbero alcuna motivazione sull’interesse
pubblico alla demolizione e in relazione al legittimo affidamento dei
ricorrenti alla permanenza del titolo edilizio rilasciato in sanatoria e
quindi dell’opera realizzata.
5.1. Le doglianze sono infondate.
Il provvedimento di annullamento in autotutela è stato motivato con
l’avvenuto accertamento della «realizzazione di un muro di contenimento
terra realizzato ad una distanza variabile di mt 1,50 in contrasto con la
vigente normativa del Codice Civile, in materia di distanze nelle
costruzioni», tenuto altresì conto della «necessità di tutelare l’ordinato
assetto urbanistico dell’area interessata dall’intervento, soprattutto in
considerazione dell’elevata naturalità dove ricade l’intervento» (cfr.
motivazioni poste a sostengo dell’atto impugnato: all. 21 al ricorso).
Difatti, non è contestato che è stato realizzato un terrapieno di natura
artificiale, con un’altezza superiore a 4 m e posta in prossimità del
confine ad una distanza di circa 1,2/1,5 m dal medesimo (cfr. relazione
tecnica acclusa alla richiesta del P.d.C. in Sanatoria, all. 30 al ricorso).
Di conseguenza, in ragione del consolidato orientamento giurisprudenziale si
deve ritenere che «in tema di distanze legali, (…) mentre il muro di
contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può
considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873
codice civile per la parte che adempie alla sua specifica funzione, devono
ritenersi soggetti a tale norma, perché costruzioni nel senso sopra
specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad
opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il
naturale dislivello esistente» (Cass. civ., II, 16.03.2015, n. 5163;
anche Consiglio di Stato, IV, 01.02.2017, n. 412; TAR Lombardia,
Milano, II, 22.01.2018, n. 180).
Ne deriva che la motivazione posta a supporto degli atti impugnati –e in
particolare dell’atto di autotutela– appare satisfattiva dell’obbligo
imposto all’Amministrazione, vista la sussistenza di un interesse pubblico
legato sia al rispetto delle distanze tra le costruzioni, sia alla tutela da
riservare ad un ambito particolarmente sensibile a livello ambientale; a ciò
vanno aggiunte, in contrapposizione all’interesse dei ricorrenti, la
necessità di tutelare la posizione dei controinteressati che subiscono la
violazione del limite delle distanze e la brevità del lasso di tempo
trascorso tra il rilascio del permesso in sanatoria e il successivo
annullamento in autotutela (soltanto 22 giorni, ossia dal 26.05. al 17.06.2016: cfr., in tal senso, Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 8).
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.05.2019 n. 1020 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Risolvere l’irregolarità fiscale prima della gara. Ammissione
delle imprese ai concorsi.
Ai fini dell'ammissione a una gara d'appalto il
requisito della regolarità fiscale si considera sussistente soltanto ove,
prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di
partecipazione alla gara di appalto, l'istanza di rateizzazione sia stata
accolta con l'adozione del relativo provvedimento costitutivo.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma,
Sez. II-ter, con la
sentenza 03.05.2019 n. 5596.
Per i giudici, che richiamano la precedente giurisprudenza sul punto, non è
quindi da considerarsi ammissibile alla gara il concorrente che versi nelle
ipotesi in cui l'iniziale irregolarità abbia dato luogo alla richiesta di
dilazione, solo successivamente accolta.
Questa linea si giustifica, si legge nella sentenza anche a seguito
dell'entrata in vigore dell'art. 80, comma 4, del decreto n. 50 del 2016: la
mera presentazione dell'istanza di rateizzazione non comporta l'automatico
recupero della posizione di regolarità fiscale, atteso che, con la
presentazione di tale istanza, il partecipante non assume alcun impegno
vincolante a onorare il debito in quel momento gravante a suo carico, ma
semmai ad adempiere l'obbligazione originante dall'eventuale successiva
istanza di rateizzazione da parte dell'Agente della riscossione.
In altre parole, la circostanza che l'agente della riscossione dei tributi
abbia proceduto a pignorare presso un soggetto pubblico debitore somme da
questo dovute all'impresa concorrente, pur assicurando la soddisfazione del
credito fiscale, non è di per sé idonea a determinare il venir meno della
situazione di irregolarità in cui versa detta impresa.
Peraltro, in passato (vigente il decreto 163/2006) era stata ritenuta
inammissibile la partecipazione alla procedura di gara del soggetto che, al
momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di
partecipazione, non avesse conseguito il provvedimento di accoglimento
dell'istanza di rateizzazione, dal momento che la regolarità contributiva e
fiscale, richiesta come requisito indispensabile per la partecipazione ad
una gara di appalto deve essere mantenuta per tutto l'arco di svolgimento
della gara fino al momento dell'aggiudicazione, sussistendo l'esigenza della
stazione appaltante di verificare l'affidabilità del soggetto partecipante
alla gara fino alla conclusione della stessa (articolo ItaliaOggi del
10.05.2019).
---------------
MASSIMA
II) In ordine ai profili dedotti nell’odierno giudizio, la più recente
giurisprudenza (v. Consiglio di Stato, sez. V, 19/02/2018 , n. 1028), è
orientata a ritenere che il requisito della regolarità
fiscale si considera sussistente soltanto ove, prima del decorso del termine
per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto,
l'istanza di rateizzazione sia stata accolta con l'adozione del relativo
provvedimento costitutivo e non anche nelle ipotesi in cui l'iniziale
irregolarità abbia dato luogo alla richiesta di dilazione, solo
successivamente accolta; ciò anche in quanto
(v. TAR, Roma , sez. II , 28/12/2017, n. 12742), anche a
seguito dell'entrata in vigore dell'art. 80, comma 4, d.lgs. n. 80 del 2016,
la mera presentazione dell'istanza di rateizzazione non comporta
l'automatico recupero della posizione di regolarità fiscale, atteso che, con
la presentazione di tale istanza, il partecipante non assume alcun impegno
vincolante a onorare il debito in quel momento gravante a suo carico, ma
semmai ad adempiere l'obbligazione novata, originante dall'eventuale
successivo dell'istanza di rateizzazione da parte dell'Agente della
riscossione (tanto che, secondo la
medesima decisione appena richiamata, “la circostanza che l'agente della
riscossione dei tributi abbia proceduto a pignorare presso un soggetto
pubblico debitore somme da questo dovute all'impresa concorrente, pur
assicurando la soddisfazione del credito fiscale, non è di per sé idonea a
determinare il venir meno della situazione di irregolarità in cui versa
detta impresa”; cfr. anche TAR Milano, sez. I , 29/12/2016, n. 2490,
secondo cui “non è ammissibile la partecipazione alla procedura di gara,
ex art. 38, comma 1, lett. g, cod. contr. pubbl., del soggetto che, al
momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di
partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento
dell'istanza di rateizzazione; infatti per giurisprudenza costante, la
regolarità contributiva e fiscale, richiesta come requisito indispensabile
per la partecipazione ad una gara di appalto ai sensi dell'art. 38 d.lgs.
12.04.2006 n. 138, deve essere mantenuta per tutto l'arco di svolgimento
della gara fino al momento dell'aggiudicazione, sussistendo l'esigenza della
stazione appaltante di verificare l'affidabilità del soggetto partecipante
alla gara fino alla conclusione della stessa, restando irrilevante un
eventuale adempimento tardivo degli obblighi contributivi e fiscali,
ancorché con effetti retroattivi, giacché la (ammissibilità della)
regolarizzazione postuma si tradurrebbe in una integrazione dell'offerta,
configurandosi come violazione della par condicio”). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La legittimazione sostanziale ad agire sul piano processuale o legitimatio
ad causam spetta al titolare della situazione giuridica sostanziale che si
assume essere stata ingiustamente lesa dal provvedimento amministrativo e
che viene dedotta in giudizio, da valutare alla stregua delle affermazioni
del ricorrente.
Nel caso di specie, invece, dichiarando di agire nella veste
di promissario acquirente dell'immobile, il ricorrente non aveva veste
giuridica per l'esercizio dell'azione impugnatoria, posto che all’epoca di
introduzione del giudizio, il ricorrente era titolare di rapporto
obbligatorio non idoneo a fondare quel rapporto di stabile collegamento con
i luoghi interessati dai provvedimenti asseritamente illegittimi, sicché non
può predicarsi in capo a tale soggetto l'esistenza di una posizione di
interesse legittimo che sia stata lesa dal provvedimento di sanatoria, bensì
di un interesse di mero fatto eventuale e certamente non attuale potendo
venire meno anche sulla base della semplice rinuncia ad effettuare
l'acquisto con la stipula del contratto definitivo.
---------------
Il Collegio deve preliminarmente esaminare l'eccezione di
difetto di legittimazione ad agire del ricorrente attenendo essa a una
condizione dell'azione, la quale deve esistere al momento della
presentazione della domanda e deve poi permanere fino a quello della
decisione, rivestendo essa carattere pregiudiziale rispetto alle altre
eccezioni di rito, oltre cha alla disamina del merito.
In proposito, i controinteressati eccepiscono che all’epoca dell’introduzione del giudizio
il ricorrente non era proprietario dell'immobile confinante, né possessore o
titolare di altro diritto reale o personale di godimento sullo stesso e
ritengono che il ricorrente -promissario acquirente dell'immobile
confinante- era privo, all’epoca dell’introduzione del giudizio, della
legittimazione ad agire.
L'eccezione è fondata.
La legittimazione sostanziale ad agire sul piano processuale o legitimatio
ad causam spetta al titolare della situazione giuridica sostanziale che si
assume essere stata ingiustamente lesa dal provvedimento amministrativo e
che viene dedotta in giudizio, da valutare alla stregua delle affermazioni
del ricorrente; nel caso di specie, invece, dichiarando di agire nella veste
di promissario acquirente dell'immobile, il ricorrente non aveva veste
giuridica per l'esercizio dell'azione impugnatoria, posto che all’epoca di
introduzione del giudizio, il ricorrente era titolare di rapporto
obbligatorio non idoneo a fondare quel rapporto di stabile collegamento con
i luoghi interessati dai provvedimenti asseritamente illegittimi, sicché non
può predicarsi in capo a tale soggetto l'esistenza di una posizione di
interesse legittimo che sia stata lesa dal provvedimento di sanatoria, bensì
di un interesse di mero fatto eventuale e certamente non attuale potendo
venire meno anche sulla base della semplice rinuncia ad effettuare
l'acquisto con la stipula del contratto definitivo (Cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 22.01.2018 n. 389; TAR Lombardia-Milano Sez. II, 18.06.2014, n. 1592; TAR Campania-Napoli, sez. VIII,
07.03.2013 n. 1285;
TAR Toscana, Sez. III, 12.10.2018, n. 1309).
E’, inoltre, smentita dagli atti di causa la circostanza che all’epoca
dell’introduzione del giudizio il ricorrente potesse qualificarsi alla
stregua di un “qualificato possessore”, come dallo stesso riferito a pag. 3
del ricorso, poiché nel contratto preliminare del 26.11.2007 (pag. 5)
le parti avevo espressamente convenuto che “proprietà, possesso legale e
possesso materiale saranno trasferiti dalla parte promittente venditrice
alla parte promittente acquirente alla stipula dell’atto pubblico di
trasferimento” (cfr. sulla medesima questione ordinanza n. 6/2010 del
Tribunale di Catania – sezione di Giarre che in relazione alla domanda di
reintegra del ricorrente ha ritenuto fondata l’eccezione di difetto di
legittimazione attiva).
Il ricorso è, pertanto, inammissibile per difetto di legittimazione ad agire
del ricorrente il quale all’epoca dell’introduzione del giudizio era
promissario acquirente del bene immobile confinante con quello dei
controinteressati
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 03.05.2019 n. 992 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine per l'impugnazione delle concessioni edilizie in
sanatoria comincia a decorrere dalla piena conoscenza del titolo che, nella
fattispecie in esame e in assenza di ulteriori elementi forniti dalla parte
ricorrente in ordine all’effettiva conoscenza, si presume avvenuta dalla
loro pubblicazione all'albo pretorio.
In questi termini, si è espressa la giurisprudenza amministrativa ritenendo
che in presenza di attività edilizia ex post sanata, ma comunque già
percepibile nella sua consistenza fisica e nella sua valenza assunta come
lesiva degli interessi e/o dei diritti dei terzi, non valgono i criteri
utilizzati per valutare la tempestività delle impugnative avverso il
rilascio della concessione edilizia (completamento dell'involucro esterno,
ultimazione dei lavori), poiché nel caso della concessione edilizia in
sanatoria, viene sanata ex post un'attività edilizia già ultimata e quindi
percepibile dal vicino confinante prima ancora del rilascio del titolo e
deve, quindi, applicarsi il principio generale di decorrenza dei termini
dalla sua pubblicazione; non esiste, infatti, alcuna ragione di
temperamento, quale si riscontra invece per le concessioni ordinarie, dalla
non immediata percezione della lesività dell'atto che il solo provvedimento
concessorio formalmente emanato può non evidenziare, dal momento che in
mancanza di una tempestiva denunzia e, a fortiori, nelle ipotesi in cui
quanto edificato sul fondo del vicino è stato tollerato per molto tempo dal
proprietario limitrofo, quest'ultimo sostanzialmente accetta il rischio che
l'opera abusiva venga poi sanata e che l'atto di sanatoria si consolidi nei
suoi confronti per il decorso del termine decadenziale d'impugnativa.
Ciò al fine di tutela della certezza dei rapporti giuridici che verrebbe
pregiudicata dalla possibilità di impugnazione in ogni tempo dei titoli
edilizi a sanatoria.
---------------
Il ricorso è, in ogni caso, irricevibile e in ordine alla contestata
tardività del ricorso si formulano le seguenti considerazioni.
Preliminarmente, il Collegio rileva che il ricorso è stato notificato con
spedizione eseguita tramite raccomandata postale del 12.07.2013.
Tuttavia, parte ricorrente si è sottratta all’onere di dichiarare in quale
data avesse avuto conoscenza dei provvedimenti impugnati, reputando
erroneamente che tale elemento di fatto dovesse essere provato dalla
controparte.
Al contrario, deve rilevarsi come gravi sul ricorrente
dichiarare tutti gli elementi salienti della fattispecie posta
all’attenzione del giudice, ivi inclusa la data di conoscenza dell’atto
impugnato, allo scopo di consentire a quest’ultimo di vagliare tutti gli
elementi necessari alla decisione, che includono non solo l’eventuale
fondatezza nel merito delle censure dedotte ma –preliminarmente– la
sussistenza delle condizioni dell’azione e dei presupposti processuali, ivi
inclusa la tempestività dell’impugnazione.
Mancando -per omissione
addebitabile alla parte ricorrente- l’indicazione della data di conoscenza
dell’atto (ed esempio quella dell’esercizio del diritto di accesso) il
Collegio non è posto in condizione di valutare la tempestività del ricorso.
Va poi aggiunto che la concessione edilizia in sanatoria è stata pubblicata
il 03.04.2010 per quindici giorni consecutivi (v. allegato n. 1
depositato il 18.12.2018) e, pertanto, il termine decadenziale di
impugnazione iniziava a decorrere il 19.04.2010 e scadeva il 17.06.2010, con conseguente fondatezza dell’eccezione di tardività formulata dalle
parti resistenti.
A tale riguardo va precisato che il termine per l'impugnazione delle
concessioni edilizie in sanatoria comincia a decorrere dalla piena
conoscenza del titolo che, nella fattispecie in esame e in assenza di
ulteriori elementi forniti dalla parte ricorrente in ordine all’effettiva
conoscenza, si presume avvenuta dalla loro pubblicazione all'albo pretorio.
In questi termini, si è espressa la giurisprudenza amministrativa ritenendo
che in presenza di attività edilizia ex post sanata, ma comunque già
percepibile nella sua consistenza fisica e nella sua valenza assunta come
lesiva degli interessi e/o dei diritti dei terzi, non valgono i criteri
utilizzati per valutare la tempestività delle impugnative avverso il
rilascio della concessione edilizia (completamento dell'involucro esterno,
ultimazione dei lavori), poiché nel caso della concessione edilizia in
sanatoria, viene sanata ex post un'attività edilizia già ultimata e quindi
percepibile dal vicino confinante prima ancora del rilascio del titolo e
deve, quindi, applicarsi il principio generale di decorrenza dei termini
dalla sua pubblicazione; non esiste, infatti, alcuna ragione di
temperamento, quale si riscontra invece per le concessioni ordinarie, dalla
non immediata percezione della lesività dell'atto che il solo provvedimento
concessorio formalmente emanato può non evidenziare, dal momento che in
mancanza di una tempestiva denunzia e, a fortiori, nelle ipotesi in cui
quanto edificato sul fondo del vicino è stato tollerato per molto tempo dal
proprietario limitrofo, quest'ultimo sostanzialmente accetta il rischio che
l'opera abusiva venga poi sanata e che l'atto di sanatoria si consolidi nei
suoi confronti per il decorso del termine decadenziale d'impugnativa.
Ciò al
fine di tutela della certezza dei rapporti giuridici che verrebbe
pregiudicata dalla possibilità di impugnazione in ogni tempo dei titoli
edilizi a sanatoria (Cfr. Cons. Stato sez. IV, 11.11.2010, n. 8017;
TAR Sicilia-Palermo sez. II, 05.09.2012, n. 1835; TAR Lazio–Latina, sez. I,
09.01.2013, n. 21 e 25.01.2012, n. 52).
A ciò consegue che il ricorso all'esame, notificato il 12.07.2010 a
fronte di un titolo in sanatoria pubblicato il 03.04.2010, deve ritenersi irricevibile.
Va pertanto ribadita la complessiva inammissibilità del ricorso
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 03.05.2019 n. 992 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Nel rendere il giudizio di valutazione ambientale,
l'amministrazione esercita un'amplissima discrezionalità che non si
esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di
verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma
presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità
amministrativa e istituzionale in relazione all'apprezzamento degli
interessi pubblici e privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato
giurisdizionale sulla determinazione finale emessa.
Il corollario principale di siffatta impostazione è che l’apprezzamento e la
ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti nell’esecuzione
dell’opera “è sindacabile dal giudice amministrativo, nella pienezza della
cognizione del fatto, soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o
travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata o sia
stata svolta in modo inadeguato e risulti perciò evidente lo sconfinamento
del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione".
---------------
In materia ambientale le funzioni assolte dai piani e dai programmi
rispondono a logiche e finalità diverse da quelle delle “autorizzazioni”
qual è la VIA.
La funzione di pianificazione si esplica per mezzo di atti generali volti a
distribuire sul territorio, o in senso ampio tra i consociati, le risorse a
disposizione e a predisporre un intervento complessivo in un settore per
mezzo di un insieme coordinato di misure.
Dal momento che l’eventuale pregiudizio dell’interesse ambientale si connota
nella maggioranza dei casi come irreversibile, un’efficace tutela può essere
approntata predisponendo un controllo a monte dell’incidenza degli altri
interessi su quello ambientale.
Lo strumento che consente il più efficace espletamento di tale funzione è
quello autorizzatorio (VIA, VAS) che in materia ambientale è
quantitativamente preponderante.
E’ noto che la VIA è una procedura che viene utilizzata per la valutazione
dei progetti e delle singole opere.
Essa si adotta nella fase di progettazione, ossia quella in cui è più facile
individuare scientificamente i potenziali impatti ambientali e le possibili
alterazioni delle componenti naturali causate dalla messa in opera. Infatti,
il principio che regola la sua attuazione è quello della prevenzione del
rischio, che viene quindi previsto e studiato al fine di vagliare
alternative e soluzioni più compatibili.
A differenza della VAS che si svolge in un momento antecedente all’adozione
del singolo progetto per valutare l’impatto dell’intera attività di
pianificazione, essa trova applicazione per progetti più 'circoscritti', in
quanto mira a valutare l'incidenza sul territorio delle singole opere e di
progetti univoci.
Va inoltre precisato che la VIA non ha ad oggetto i contenuti degli atti di
pianificazione e di programmazione, né la conformità ai medesimi, ancorché i
citati elementi conoscitivi devono essere forniti all’Amministrazione
attraverso lo strumento dello studio di impatto ambientale, appositamente
predisposto dal soggetto proponente l’opera.
In questo senso, lo strumento pianificatorio è un mero strumento di
descrizione imposto ai fini di una attività istruttoria completa ed
esaustiva che si inserisce nell’ambito di una più vasta attività istruttoria
asservita alla determinazione finale di VIA e, conseguentemente, “il potere
riconosciuto all’attività amministrativa competente per la VIA non è un mero
potere di riconoscimento di compatibilità con soluzioni pianificatorie già
definite ma un potere di incisione diretta, con valutazione di possibili
soluzioni alternative, anche svincolate dagli strumenti pianificatori
preesistenti”.
---------------
11. E’ controversa in giudizio la legittimità della valutazione negativa di
compatibilità ambientale formulata, sulla scorta di conformi pareri
istruttori della Struttura Tecnica di Valutazione interna (d’ora in avanti
STV), dalla Direzione generale reggente del Dipartimento n. 11 “Ambiente
e Territorio” della Regione Calabria sul progetto di riqualificazione
costiera per la realizzazione di un porto turistico in località Oliveto nel
Comune di Scilla (RC).
Prima di procedere allo scrutinio del ricorso nel merito, il Collegio
ritiene opportuno richiamare in breve, in quanto decisivi ai fini del
presente giudizio, i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa
relativamente ai limiti del sindacato giurisdizionale in tema di valutazione
di impatto ambientale.
Secondo il più recente indirizzo “nel rendere il giudizio di valutazione
ambientale, l'amministrazione esercita un'amplissima discrezionalità che non
si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di
verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma
presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità
amministrativa e istituzionale in relazione all'apprezzamento degli
interessi pubblici e privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato
giurisdizionale sulla determinazione finale emessa” (Cons. St. sez. IV,
18.05.2018 n. 3011; TAR Lazio sez. II, 26.11.2018 n. 11460; Cons.St. sez. IV,
10.02.2017 n. 575).
Il corollario principale di siffatta impostazione è che l’apprezzamento e la
ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti nell’esecuzione
dell’opera “è sindacabile dal giudice amministrativo, nella pienezza
della cognizione del fatto, soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o
travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata o sia
stata svolta in modo inadeguato e risulti perciò evidente lo sconfinamento
del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione” (cfr. Cons.
St. sez. IV, 27.03.2017 n. 1392; TAR Veneto sez. III, 02.11.2016 n. 1225).
...
La censura è infondata anche nella
parte in cui è rivolta a far risaltare la contraddittorietà tra la VIA
negativa e gli strumenti pianificatori approvati dagli organi
rispettivamente competenti (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale,
Piano regionale degli interventi portuali) che pure contemplano la
realizzazione di nuovi porti turistici con la specifica previsione di quello
di Scilla, progettato ora dalla società ricorrente ,rispetto al quale
rileverebbe il nulla osta rilasciato dal Settore Pianificazione Territoriale
ed Urbanistica della Provincia di Reggio Calabria anche per quanto riguarda
la compatibilità del progetti con la tutela dei siti Natura 2000.
A tal proposito, il Collegio osserva che in materia ambientale le funzioni
assolte dai piani e dai programmi rispondono a logiche e finalità diverse da
quelle delle “autorizzazioni” qual è la VIA.
La funzione di pianificazione si esplica per mezzo di atti generali volti a
distribuire sul territorio, o in senso ampio tra i consociati, le risorse a
disposizione e a predisporre un intervento complessivo in un settore per
mezzo di un insieme coordinato di misure.
Dal momento che l’eventuale pregiudizio dell’interesse ambientale si connota
nella maggioranza dei casi come irreversibile, un’efficace tutela può essere
approntata predisponendo un controllo a monte dell’incidenza degli altri
interessi su quello ambientale.
Lo strumento che consente il più efficace espletamento di tale funzione è
quello autorizzatorio (VIA, VAS) che in materia ambientale è
quantitativamente preponderante.
E’ noto che la VIA è una procedura che viene utilizzata per la valutazione
dei progetti e delle singole opere.
Essa si adotta nella fase di progettazione, ossia quella in cui è più facile
individuare scientificamente i potenziali impatti ambientali e le possibili
alterazioni delle componenti naturali causate dalla messa in opera. Infatti,
il principio che regola la sua attuazione è quello della prevenzione del
rischio, che viene quindi previsto e studiato al fine di vagliare
alternative e soluzioni più compatibili.
A differenza della VAS che si svolge in un momento antecedente all’adozione
del singolo progetto per valutare l’impatto dell’intera attività di
pianificazione, essa trova applicazione per progetti più 'circoscritti',
in quanto mira a valutare l'incidenza sul territorio delle singole opere e
di progetti univoci.
Va inoltre precisato che la VIA non ha ad oggetto i contenuti degli atti di
pianificazione e di programmazione, né la conformità ai medesimi, ancorché i
citati elementi conoscitivi devono essere forniti all’Amministrazione
attraverso lo strumento dello studio di impatto ambientale, appositamente
predisposto dal soggetto proponente l’opera.
In questo senso, lo strumento pianificatorio è un mero strumento di
descrizione imposto ai fini di una attività istruttoria completa ed
esaustiva che si inserisce nell’ambito di una più vasta attività istruttoria
asservita alla determinazione finale di VIA e, conseguentemente, “il
potere riconosciuto all’attività amministrativa competente per la VIA non è
un mero potere di riconoscimento di compatibilità con soluzioni
pianificatorie già definite ma un potere di incisione diretta, con
valutazione di possibili soluzioni alternative, anche svincolate dagli
strumenti pianificatori preesistenti” (cfr. TAR Piemonte, sez. II,
15.04.2005 n. 1028).
Pertanto, l’ipotesi contenuta nel Piano Territoriale di Coordinamento
Provinciale, piuttosto che nel Piano degli interventi portuali o altro
equipollente, che a Scilla possa realizzarsi un porto turistico non
equivale, sotto il profilo dell’impatto ambientale, ad automatica
assentibilità, dell’opera poiché l’ulteriore attività forma oggetto di
autonoma valutazione, positiva o negativa che sia.
Lo stesso dicasi in ordine al parere favorevole espresso dalla stessa STV
del Dipartimento Regionale Territorio Ambiente relativamente alla VAS e alla
valutazione di incidenza sul PTCP che prevede la realizzazione di un porto,
in quanto evidentemente rilasciato non solo in una fase antecedente
all’adozione del singolo progetto presentato dal soggetto proponente, ma
anche in funzione di un interesse (strategico) diverso che è quello di
accompagnare la redazione stessa dell’atto di pianificazione e
programmazione e non quello di controllare la compatibilità ambientale dello
stesso (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 03.05.2019 n. 306 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Regione Sicilia - Opere di chiusura e di copertura di spazi
e superfici - Nozione di natura precaria e limiti al
criterio strutturale - Carattere eccezionale - Prevalenza
del criterio funzionale - Riferimento alla temporaneità e
provvisorietà dell'uso.
La natura precaria delle opere di
chiusura e di copertura di spazi e superfici per le quali
l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non
richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un
criterio strutturale, ovvero nel senso della facile
rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con
riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso,
sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può
essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente
previsti (Sez. 3,
n. 48005 del 17/09/2014 - dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro:
fattispecie in cui è stata esclusa la natura precaria della
chiusura di due verande mediante mattoni forati legati da
malta cementizia) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.05.2019 n. 18000
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come costantemente affermato
da
questa Corte, in materia edilizia una veranda è da considerarsi,
in senso
tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta
normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non
a
sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva
rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile.
---------------
Va, inoltre, ricordato che la natura precaria delle opere di chiusura e
di
copertura di spazi e superfici per le quali l'art. 20 della legge Regione
Sicilia n. 4
del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un
criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera,
e non
funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà
dell'uso,
sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata
al di
fuori dei casi ivi espressamente previsti.
---------------
3. Il secondo motivo è infondato.
3.1. Secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, l'imputata, pur non
essendo in possesso dei prescritti titoli autorizzativi, ha realizzato una
veranda
coperta adiacente al fabbricato principale, occupante una superficie di 55
mq. e
un volume di 180 mc., avente struttura portante in legno e copertura a
falde,
circostanza peraltro nemmeno oggetto di contestazione.
Nel caso di specie, a differenza di quanto ritenuto dalla ricorrente, la
costruzione della veranda, vista nella sua completezza, necessitava del
preventivo rilascio del permesso di costruire.
Come costantemente affermato
da
questa Corte, infatti, in materia edilizia, una veranda è da considerarsi,
in senso
tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta
normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non
a
sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva
rimozione,
ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile (Sez. 3, n.
14329 del 10/01/2008 - dep. 07/04/2008, Iacono Ciulla, Rv. 239707).
3.2. Va, inoltre, ricordato che la natura precaria delle opere di chiusura e
di
copertura di spazi e superfici per le quali l'art. 20 della legge Regione
Sicilia n. 4
del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un
criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera,
e non
funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà
dell'uso,
sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata
al di
fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014
- dep.
20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261156: fattispecie in cui è stata esclusa
la
natura precaria della chiusura di due verande mediante mattoni forati legati
da
malta cementizia).
3.3. La Corte territoriale si è uniformata ai principi ora evocati, avendo
accertato che la veranda coperta, occupante una superficie e una volumetria
propria, era un'opera stabilmente infissa al suolo, ciò che ne esclude il
carattere
di precarietà (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.05.2019 n.
18000). |
EDILIZIA PRIVATA: Ambito
di operatività dell’esclusione del vincolo
paesaggistico imposto per legge per le zone
A e B ex D.M. 1444/1968.
L’esclusione
dell’operatività del vincolo paesaggistico
imposto per legge (c.d. vincolo Galasso)
prevista dall’art. 1 del D.L. 27.06.1985, n.
312, convertito in legge con modificazioni,
con l’art. 1 della l. n. 431 del 1985
-secondo il quale «Il vincolo di cui al
precedente comma non si applica alle zone A,
B e -limitatamente alle parti ricomprese
nei piani pluriennali di attuazione- alle
altre zone, come delimitate negli strumenti
urbanistici ai sensi del dm 02.04.1968, n. 1444, e, nei
comuni sprovvisti di tali strumenti, ai
centri edificati perimetrati ai sensi
dell’art. 18 della legge 22.10.1971, n. 865»
(disposizione poi riprodotta nell’art. 146
del d.lgs. n. 490 del 1999 e quindi
nell’art. 142 del d.lgs. n. 42/2004, così
come sostituito dall'art. 12, comma 1,
d.lgs. 24.03.2006, n. 157, successivamente
integrato e modificato dal d.lgs. n. 63 del
2008)- riguarda solo le opere avviate o
previste alla data del 06.09.1985 e non i
lavori autonomamente e abusivamente
realizzati successivamente, non intendendo
la norma introdurre un’eccezione
all’applicazione dei vincoli per i centri
storici, quanto quello di non bloccare
l’esecuzione di piani urbanistici approvati
prima dell’introduzione del vincolo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.05.2019 n. 979 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Con il primo ed il terzo motivo
di ricorso la ricorrente contesta che
l’abuso sarebbe stato realizzato in zona A
del territorio comunale e quindi potrebbe
valersi dell’esclusione dell’operatività del
vincolo paesaggistico imposto per legge
(c.d. vincolo Galasso) prevista dall’art. 1
del D.L. 27.06.1985, n. 312, convertito in
legge con modificazioni, con l’art. 1 della
l. n. 431 del 1985 secondo il quale «Il
vincolo di cui al precedente comma non si
applica alle zone A, B e -limitatamente
alle parti ricomprese nei piani pluriennali
di attuazione- alle altre zone, come
delimitate negli strumenti urbanistici ai
sensi del decreto ministeriale 02.04.1968,
n. 1444, e, nei comuni sprovvisti di tali
strumenti, ai centri edificati perimetrati
ai sensi dell’art. 18 della legge
22.10.1971, n. 865».
In merito la giurisprudenza (Cons. Stato, IV,
17/10/2018 n. 5945) ha chiarito che "Tali
disposizioni sono state poi riprodotte
nell’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999 e
quindi nell’art. 142 del d.lgs. n. 42/2004
(così come sostituito dall'art. 12, comma 1,
d.lgs. 24.03.2006, n. 157, successivamente
integrato e modificato dal d.lgs. n. 63 del
2008), in particolare nel comma 2, secondo
cui, «La disposizione di cui al comma 1,
lettere a), b), c), d), e), g), h), l), m),
non si applica alle aree che alla data del
06.09.1985:
a) erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444,
come zone territoriali omogenee A e B;
b) erano delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444,
come zone territoriali omogenee diverse
dalle zone A e B, limitatamente alle parti
di esse ricomprese in piani pluriennali di
attuazione, a condizione che le relative
previsioni siano state concretamente
realizzate;
c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri
edificati perimetrati ai sensi dell'articolo
18 della legge 22.10.1971, n. 865».
Le specificazioni contenute in tali
disposizioni, come noto, rappresentano la
trasposizione dell’interpretazione delle
norme originariamente contenute nella legge
Galasso, quale consolidatasi
nell’elaborazione giurisprudenziale.
Risulta quindi chiaro che l’esclusione
dall’ambito di operatività del vincolo
paesaggistico introdotto per i centri
storici riguarda solo le opere avviate o
previste alla data del 6 settembre 1985 e
non i lavori autonomamente ed abusivamente
realizzati successivamente, non intendendo
la norma introdurre un’eccezione
all’applicazione dei vincoli per i centri
storici, quanto quello di non bloccare
l’esecuzione di piani urbanistici approvati
prima dell’introduzione del vincolo.
Infatti (v. Cons. Stato, IV, 17/10/2018 n.
5945) non appare poi inutile ricordare quale
fosse la ragione della deroga ivi introdotta
al regime ordinario di tutela paesistica.
Essa aveva infatti lo scopo di consentire la
realizzazione di opere già avviate in
esecuzione dei piani vigenti all’entrata in
vigore della legge (Cons. Stato, Sez. VI,
02.10.2007, n. 5072, con riferimento ai
piani pluriennali di attuazione)
nonché in
relazione ad aree già urbanizzate o comunque
«oggetto di una pianificazione che ha
ritenuto maturo il tempo dell’esecuzione di
interventi sul territorio» (Cass. pen.,
Sez. III, 17.12.1997, n. 3882,; cfr. anche
30.03.1999, n. 5923).
A ciò si aggiunge che non era sufficiente
che il centro storico fosse stato
genericamente individuato ma occorreva che
fosse stata approvata la zonizzazione
prevista dal DM 1444/1968.
Infatti la delimitazione negli strumenti
urbanistici, ai sensi del decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, delle zone
territoriali omogenee A e B […], non
concerne la percezione di un fatto bensì un
apprezzamento giuridico, relativo alla
portata della deroga, dal Collegio d’appello
intesa, in applicazione del prevalente
orientamento giurisprudenziale, come
limitata a “quelle aree già indicate come
zone territoriali omogenee A) e B) prima del
06.09.1985 (c.d. legge Galasso), per
tener conto dell’esistente, e sino a che
vige quello strumento urbanistico, così
consentendo di portare a compimento una
scelta già fatta al momento dell’entrata in
vigore della legge Galasso …” (Cons.
Stato, Sez. IV, 11/01/2019 n. 272).
Infatti «la c.d. “zonizzazione” non
postula e non presuppone solo
l’individuazione di un territorio -ossia una
operazione puramente ricognitiva- bensì la
qualificazione di esso, e pertanto una
valutazione, alla stregua delle categorie
offerte dal legislatore» (Cons. Stato,
Sez. IV, 28.06.2018, n. 3987).
In merito anche la D.G.R. Lombardia n.
6/30194/97 ha chiarito che affinché scatti
l’esclusione dai vincoli c.d. Galasso, le
zone A e B devono risultate delimitate dai
piani regolatori generali che risultino
definitivamente approvati dalla Regione alla
data di entrata in vigore della L. 431/1985.
Nel caso di specie, invece, come evidenziato
dal Comune, la ripartizione formale del
territorio comunale risale alla successiva
variante generale di PRG approvata con DGR
39450 del 07.02.1989, che ha fatto ricadere
all’interno della Zona A anche quella qui di
interesse.
In merito poi al fatto che la suddetta
variante fosse stata già adottata con
deliberazione del consiglio comunale n.
132/2 del 20.07.1984, si tratta di un fatto
irrilevante.
Infatti secondo la giurisprudenza (Cons.
Stato, IV, 17/10/2018 n. 5945) è tuttavia
destituita di fondamento, in primo luogo,
l’argomentazione secondo cui, sia pure ai
soli fini di cui trattasi, l’approvazione
del P.R.G. abbia efficacia retroattiva.
Al contrario, è giurisprudenza del tutto
pacifica quella secondo cui
il piano
regolatore (oggi variamente denominato nelle
legislazioni regionali) è un atto complesso,
il cui procedimento si conclude solo con
l’approvazione da parte della Regione.
Gli unici effetti anticipati del piano
adottato dal Consiglio comunale concernono
le misure di salvaguardia le quali
giustificano il diniego di concessioni
difformi (cfr. Cons. St., Adunanza plenaria,
n. 1 del 09.03.1983; cfr. anche Consiglio di
Stato, sez. V, 06.12.2007, n. 6226, relativa
a vicenda per certi versi speculare a quella
qui in esame).
In definitiva quindi il primo e terzo motivo
vanno respinti in quanto le opere realizzate
ed oggetto della domanda di condono non
formavano oggetto di una previsione di PRG
approvata anteriormente al 06.09.1985
e la disciplina urbanistica della zona, per
la sua incompletezza, non era idonea a
permettere l’esclusione dall’applicazione
del vincolo paesaggistico presente
sull’area. |
APPALTI:
Sì al soccorso istruttorio per i costi di manodopera.
Gli offerenti devono poter sanare la situazione per i giudici Ue.
In assenza di previsioni del bando di gara sull'indicazione del costo della
manodopera, è ammesso il soccorso istruttorio quando i moduli messi a
disposizione dalla stazione appaltante non consentono comunque tale
indicazione.
Lo ha precisa la Corte di giustizia dell'Unione europea, con la
sentenza 02.05.2019 (causa C-309/18),
nella quale sono stati affrontati i limiti dell'integrazione della
documentazione nei casi di omissione dei costi della manodopera.
La fattispecie, relativa alla causa n. C-309/18, avente ad oggetto la
domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta alla Corte dal Tar del Lazio,
riguardava l'interpretazione della direttiva 2014/24/Ue e in particolare
l'aggiudicazione di un appalto pubblico a una società che aveva omesso di
indicare separatamente i costi della manodopera nella propria offerta
economica.
Nel caso di specie, il bando di gara non richiamava espressamente l'obbligo
incombente agli operatori di indicare nella loro offerta economica i costi
della manodopera, prescritto all'articolo 95, comma 10, del codice dei
contratti pubblici. Dopo la scadenza del termine per la presentazione delle
offerte, l'amministrazione aggiudicatrice, facendo ricorso alla procedura di
soccorso istruttorio di cui all'articolo 83, comma 9, del codice dei
contratti pubblici, ha invitato alcuni degli offerenti a indicare i loro
costi della manodopera per poi aggiudicare l'appalto ad una di queste
imprese oggetto di soccorso istruttorio.
Di qui il ricorso della ditta seconda classificata che eccepiva che
l'aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura di gara per
aver omesso di indicare, nella sua offerta, i costi della manodopera, senza
possibilità di riconoscerle il beneficio della procedura di soccorso
istruttorio.
Ad avviso dei giudici europei in un primo momento apparirebbe lecita
l'esclusione perché, «seppure il bando non contenesse l'obbligo di
indicare i suddetti costi, è onere del concorrente adempiere a tale
incombenza prevista dalla normativa». Rimane però il fatto», hanno detto
i giudici, «che le disposizioni della gara d'appalto non hanno consentito
agli offerenti di indicare i citati costi di manodopera nelle loro offerte
economiche perché il modulo predisposto che gli offerenti della gara
d'appalto dovevano obbligatoriamente utilizzare non lasciava loro alcuno
spazio fisico per l'indicazione separata dei costi della manodopera»; né
era possibile presentare alcun documento che non fosse stato specificamente
richiesto dall'amministrazione aggiudicatrice.
Pertanto, i principi di certezza del diritto, parità di trattamento e di
trasparenza legittimano una disciplina come quella italiana secondo la quale
la mancata indicazione separata dei costi della manodopera comporta
l'esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso
istruttorio.
Tuttavia, ha aggiunto la Corte, se le disposizioni della gara d'appalto non
consentono agli offerenti di indicare tali costi nelle loro offerte
economiche si deve consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e
di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia
entro un termine stabilito dall'amministrazione aggiudicatrice
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2019). |
APPALTI:
Gare, sì alla sanatoria se il bando crea confusione.
Negli appalti gli obblighi di legge valgono anche se non richiamati dal
bando. Ma, se questo crea confusione, deve essere consentito agli offerenti
di sanare la loro situazione.
Lo ha deciso la Corte di giustizia Ue (sentenza
02.05.2019 (causa C-309/18) interpellata dal Tar Lazio sull'applicazione della direttiva 2014/24 in materia di appalti
pubblici.
La Corte ha osservato che l'obbligo di indicare separatamente i costi della
manodopera, a pena di esclusione dalla gara e senza possibilità di soccorso
istruttorio, discende chiaramente dalla legge italiana e vale anche se non
espressamente richiamato nel bando. Tuttavia, se il giudice accerta che
questo ha generato confusione, può essere consentito agli offerenti di
ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale entro un
termine stabilito
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
APPALTI: Mancata
indicazione separata dei costi della
manodopera in un’offerta economica.
La Corte d Giustizia UE in ordine alle
conseguenze della mancata indicazione
separata dei costi della manodopera in
un’offerta economica presentata nell’ambito
di una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico statuisce che: “I
principi della certezza del diritto, della
parità di trattamento e di trasparenza,
quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del
26.02.2014, sugli appalti pubblici e che
abroga la direttiva 2004/18/CE, devono
essere interpretati nel senso che essi non
ostano a una normativa nazionale, come
quella oggetto del procedimento principale,
secondo la quale la mancata indicazione
separata dei costi della manodopera, in
un’offerta economica presentata nell’ambito
di una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico, comporta l’esclusione
della medesima offerta senza possibilità di
soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in
cui l’obbligo di indicare i suddetti costi
separatamente non fosse specificato nella
documentazione della gara d’appalto, sempre
che tale condizione e tale possibilità di
esclusione siano chiaramente previste dalla
normativa nazionale relativa alle procedure
di appalti pubblici espressamente richiamata
in detta documentazione.
Tuttavia, se le disposizioni della gara
d’appalto non consentono agli offerenti di
indicare i costi in questione nelle loro
offerte economiche, i principi di
trasparenza e di proporzionalità devono
essere interpretati nel senso che essi non
ostano alla possibilità di consentire agli
offerenti di sanare la loro situazione e di
ottemperare agli obblighi previsti dalla
normativa nazionale in materia entro un
termine stabilito dall’amministrazione
aggiudicatrice”
(Corte di Giustizia UE, Sez. IX,
sentenza 02.05.2019 (causa C-309/18)
- commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
APPALTI:
Mancata separata indicazione dei costi di manodopera: la CGUE salva la
disciplina italiana ma indica i limiti entro cui è indispensabile il
soccorso istruttorio.
La Corte di giustizia UE, pronunciando su un rinvio pregiudiziale del Tar
per il Lazio, chiarisce che le norme del nuovo codice dei contratti (artt.
95, comma 10, ed 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016), le quali escludono
il rimedio del soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione separata
dei costi della manodopera, sono in linea di principio compatibili con la
direttiva n. 2014/24/UE, salva tuttavia la situazione –che spetta al giudice
nazionale verificare– in cui sussista una “materiale impossibilità”,
per l’offerente, di indicare separatamente quei costi (Corte di giustizia
dell’Unione Europea, Sez. IX,
sentenza 02.05.2019 - causa C-309/18).
---------------
Contratti pubblici – Offerta economica – Mancata separata indicazione dei
costi della manodopera – Esclusione – Compatibilità – Condizioni.
I principi della certezza del diritto, della parità
di trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva
2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli
appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, devono essere
interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come
quella oggetto del procedimento principale, secondo la quale la mancata
indicazione separata dei costi della manodopera, in un’offerta economica
presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico, comporta l’esclusione della medesima offerta senza possibilità di
soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i
suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione
della gara d’appalto, sempre che tale condizione e tale possibilità di
esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa
alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta
documentazione.
Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli
offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i
principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel
senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di
sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla
normativa nazionale in materia entro un termine stabilito
dall’amministrazione aggiudicatrice. (1)
---------------
(1) I. – Con la sentenza in rassegna, la Corte di giustizia UE si
pronuncia in merito all’annosa questione dell’indicazione separata, in sede
di offerta, dei costi per la manodopera, giungendo alla conclusione che la
normativa italiana –laddove non consente all’amministrazione di attivare il
soccorso istruttorio per consentire all’offerente di indicare, ex post,
i costi per la manodopera che si sia omesso di indicare in sede di offerta
(combinato disposto tra l’art. 95, comma 10, e l’art. 83, comma 9, del
d.lgs. n. 50 del 2016)– deve considerarsi, in linea di principio,
compatibile con la direttiva n. 2014/24/UE, ed in particolare con il suo
art. 56, par. 3, il quale, come è noto, consente alle amministrazioni
aggiudicatrici di attivare il rimedio del soccorso istruttorio “salvo
disposizione contraria del diritto nazionale che attua la presente direttiva”.
Tuttavia, ha aggiunto la Corte, quel rimedio dovrà comunque essere
assicurato, in ossequio ai principi euro-unitari di trasparenza e di
proporzionalità, tutte le volte in cui sia ravvisabile –con indagine rimessa
al giudice nazionale– una situazione di “materiale impossibilità”,
per l’offerente, di procedere all’indicazione separata nell’ambito della sua
offerta.
La questione pregiudiziale era stata sollevata dal
Tar per il Lazio, sezione II-bis, con ordinanza 24.04.2018, n. 4562
(oggetto della
News US in data 04.08.2018, cui si rinvia per un’analitica
ricostruzione della problematica), nell’ambito di una controversia insorta
intorno all’aggiudicazione di una procedura aperta, bandita da un Comune
della Provincia romana, per l’affidamento del servizio di raccolta
differenziata, trasporto dei rifiuti solidi urbani ed assimilati ed altri
servizi d’igiene urbana, la cui lex specialis non aveva espressamente
previsto l’onere di indicare separatamente, nell’offerta economica, i costi
della manodopera.
L’offerta dell’impresa poi risultata aggiudicataria aveva omesso tale
separata indicazione ma l’amministrazione, azionando il rimedio del soccorso
istruttorio, le aveva consentito di integrare ex post l’elemento
mancante. Ricorreva, pertanto, l’impresa seconda classificata invocando
l’esclusione dell’aggiudicataria per violazione dell’art. 95, comma 10, del
codice dei contratti, in quanto norma chiara ed inequivoca nello statuire
l’obbligo per l’operatore economico di indicare specificamente, tra gli
altri, i costi della manodopera, quale elemento essenziale dell’offerta
economica.
Il Giudice capitolino, nel formulare il rinvio, aveva esposto i propri dubbi
circa l’aderenza al diritto dell’Unione della normativa nazionale che non
consente il soccorso istruttorio, “nei casi in cui l’offerta economica,
che non riporta l’indicazione dei costi della manodopera, sia stata redatta
dall’impresa partecipante alla gara di appalto in conformità alla
documentazione all’uopo predisposta dalla stazione appaltante”,
evidenziando peraltro che, nel caso di specie, non fosse contestato che
l’offerta, dal punto di vista sostanziale, rispettasse la disciplina in
materia dei costi di manodopera, in quanto correttamente computati
dall’offerente.
II. – Nel rispondere al quesito, la Corte di giustizia UE opera una
preliminare ricognizione della propria giurisprudenza in subiecta materia,
procedendo quindi ad applicarla alla fattispecie in esame:
a) nella ricostruzione dei precedenti
giurisprudenziali, vengono anzitutto valorizzati il principio di parità di
trattamento e quello di proporzionalità.
Quanto al primo (ed al connesso principio di trasparenza, che ne costituisce
il corollario), la Corte ricorda che:
a1) in base a tali principi, è
necessario “che gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella
formulazione dei termini delle loro offerte”, da ciò derivandone “che
tali offerte siano soggette alle medesime condizioni per tutti gli
offerenti” e dovendosi “eliminare i rischi di favoritismo e di arbitrio da
parte dell’amministrazione aggiudicatrice”; di conseguenza, tutte le
condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione devono essere
formulate “in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel
capitolato d’oneri, in modo che, da un lato, si permetta a tutti gli
offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne
l’esatta portata e d’interpretarle allo stesso modo e, dall’altro,
all’autorità aggiudicatrice di essere in grado di verificare effettivamente
se le offerte degli offerenti rispondano ai criteri che disciplinano
l’appalto in questione” (con richiamo alla sentenza della stessa Corte
di giustizia UE del 02.06.2016, Pizzo, C-27/15, punto 36, in Foro it., 2017,
IV, 206, con nota di M. CONDORELLI);
a2) se, quindi, i richiamati
principi devono essere interpretati nel senso che ostano ad un provvedimento
di esclusione a seguito del mancato rispetto di un obbligo che non risulta
espressamente, se non in via interpretativa, dai documenti di gara o dal
diritto nazionale vigente (così, ancora, la sentenza del 02.06.2016, Pizzo,
cit., nonché l’ordinanza del 10.11.2016, Spinosa Costruzioni Generali e
Melfi, C-162/16, punto 32, in Urbanistica e appalti, 2017, 346, con nota di
BALDI), quegli stessi principi “non possono invece, di norma, ostare
all’esclusione di un operatore economico dalla procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico a causa del mancato rispetto, da parte del medesimo,
di un obbligo imposto espressamente, a pena di esclusione, dai documenti
relativi alla stessa procedura o dalle disposizioni del diritto nazionale in
vigore”, essendo preclusa, in tal caso, qualsiasi rettifica (con
richiamo, oltre alla sentenza Pizzo, anche alla sentenza del 06.11.2014,
Cartiera dell’Adda, C-42/13, punti 46 e 48, in Urbanistica e appalti, 2015,
137, con nota di PATRITO, ed in Dir. proc. amm., 2015, 1006, con nota di
MAMELI, ed alla
sentenza del 10.11.2016, Ciclat, C-199/15, punto 30, in Nuovo
notiziario giur., 2017, 317, con nota di PALMIERI, ed in Riv. dir. sicurezza
sociale, 2017, 631, con nota di D'ALOISIO, nonché oggetto della
News US in data 15.11.2016, cui si rinvia per ulteriori
indicazioni);
a3) in tale cornice, ricorda la
Corte, l’articolo 56, paragrafo 3, della direttiva n. 2014/24/UE “autorizza
gli Stati membri a limitare i casi nei quali le amministrazioni
aggiudicatrici possono chiedere agli operatori economici interessati di
presentare, integrare, chiarire o completare le informazioni o la
documentazione asseritamente incomplete, errate o mancanti entro un termine
adeguato”;
b) quanto, poi, al principio di proporzionalità,
la Corte ricorda che la normativa nazionale sulle procedure d’appalto
pubblico, pur se finalizzata a garantire la parità di trattamento degli
offerenti, tuttavia “non deve eccedere quanto necessario per raggiungere
l’obiettivo perseguito” (con richiamo alla sentenza dell’08.02.2018,
Lloyd’s of London, C-144/17, punto 32, in Foro amm., 2018, 163, solo
massima);
c) analizzando il caso in concreto, la Corte
osserva che:
c1) nella normativa italiana, l’obbligo, a pena di esclusione, di indicare
separatamente i costi della manodopera “discende chiaramente dal
combinato disposto dell’articolo 95, comma 10, del codice dei contratti
pubblici e dell’articolo 83, comma 9, del medesimo”, disposizioni
attraverso le quali il legislatore italiano, così come gli era consentito
dall’articolo 56, paragrafo 3, della direttiva 2014/24, “ha deciso,
all’articolo 83, comma 9, del succitato codice, di escludere dalla procedura
di soccorso istruttorio, in particolare, l’ipotesi in cui le informazioni
mancanti riguardino i costi della manodopera”;
c2) pur se il bando di gara oggetto della controversia non richiamava
espressamente l’obbligo di legge dell’indicazione separata, esso comunque
specificava che “[p]er quanto non espressamente previsto nel presente
bando, nel capitolato e nel disciplinare di gara si applicano le norme del
[codice dei contratti pubblici]”, da ciò derivandone “che qualsiasi
offerente ragionevolmente informato e normalmente diligente era, in linea di
principio, in grado di prendere conoscenza delle norme pertinenti
applicabili alla procedura di gara di cui al procedimento principale,
incluso l’obbligo di indicare nell’offerta economica i costi della
manodopera”;
c3) da queste considerazioni, la Corte ricava la prima, generale, risposta
al quesito posto dal Tar per il Lazio, affermando che “i principi della
parità di trattamento e di trasparenza non ostano a una normativa nazionale,
come quella di cui al procedimento principale, secondo la quale la mancata
indicazione dei costi della manodopera comporta l’esclusione dell’offerente
interessato senza possibilità di ricorrere alla procedura di soccorso
istruttorio, anche in un caso in cui il bando di gara non richiamasse
espressamente l’obbligo legale di fornire detta indicazione”;
d) la Corte rileva, in punto di fatto, che “il modulo predisposto che gli
offerenti della gara d’appalto di cui al procedimento principale dovevano
obbligatoriamente utilizzare non lasciava loro alcuno spazio fisico per
l’indicazione separata dei costi della manodopera. In più, il capitolato
d’oneri relativo alla medesima gara d’appalto precisava che gli offerenti
non potevano presentare alcun documento che non fosse stato specificamente
richiesto dall’amministrazione aggiudicatrice”; da questa osservazione
la Corte ricava che:
d1) spetta al giudice del rinvio “verificare se per gli offerenti fosse
in effetti materialmente impossibile indicare i costi della manodopera
conformemente all’articolo 95, comma 10, del codice dei contratti pubblici e
valutare se, di conseguenza, tale documentazione generasse confusione in
capo agli offerenti, nonostante il rinvio esplicito alle chiare disposizioni
del succitato codice”;
d2) qualora il giudice del rinvio accerti l’effettivo verificarsi di tali
circostanze, in considerazione dei principi della certezza del diritto, di
trasparenza e di proporzionalità, “l’amministrazione aggiudicatrice può
accordare a un simile offerente la possibilità di sanare la sua situazione e
di ottemperare agli obblighi previsti dalla legislazione nazionale in
materia entro un termine stabilito dalla stessa amministrazione
aggiudicatrice” (con richiamo, qui, alle già citate sentenze Pizzo e
Spinosa Costruzioni Generali e Melfi).
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
e) con ordinanze del 24.01.2019, nn. 1, 2 e 3 (quest’ultima
oggetto della
News US n. 18 del 04.02.2019), l’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato ha chiarito che le norme del nuovo codice dei contratti (in specie,
il combinato disposto dell’art. 83, comma 9, con l’art. 95, comma 10) devono
essere interpretate nel senso di imporre l’esclusione dell’offerta che non
abbia indicato separatamente i costi per la manodopera e per gli oneri di
sicurezza –pure nelle ipotesi in cui quell’offerta, dal punto di vista
sostanziale, abbia effettivamente computato quei costi–, senza alcuna
possibilità di invocare, da parte dell’impresa così esclusa, il rimedio del
c.d. soccorso istruttorio;
f) nella stessa sede, tuttavia, l’Adunanza plenaria ha affermato che questa
soluzione presenta possibili profili di incompatibilità con i principi
euro-unitari di legittimo affidamento, di certezza del diritto, di libera
circolazione, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei
servizi, nonché con le norme della direttiva n. 2014/24/UE, sollevando, di
conseguenza, quale giudice di ultima istanza, questione pregiudiziale
dinnanzi alla Corte di giustizia UE;
g) ciò nondimeno, la stessa Adunanza plenaria ha segnalato che vi sono
importanti argomenti di ordine letterale e logico che farebbero propendere
per la compatibilità comunitaria dell’obbligo di esclusione dalla gara,
quale ormai imposto, a livello legislativo, dalle richiamate disposizioni
del Codice dei contratti del 2016; ciò, in particolare, avuto riguardo alle
seguenti considerazioni:
g1) i principi di tutela della concorrenza e di proporzionalità in favore
degli offerenti dovrebbero far ritenere prevalenti le esigenze di certezza
del diritto, di parità di trattamento e di effettività della tutela
economica e sociale del lavoro e della sicurezza dei prestatori;
g2) una volta che la legge nazionale abbia definitivamente, formalmente e,
soprattutto, chiaramente sancito l’obbligo per l’offerente di dichiarare in
sede di offerta separatamente i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro,
si deve conseguentemente ritenere “che gli offerenti, anche di altri Stati
membri, non possano più addure a loro discolpa la sussistenza di un
condizione meno favorevole”;
g3) l’imposizione dell’obbligo di dichiarare gli oneri nell’offerta,
peraltro, “non costituisce affatto un adempimento meramente formale, in
quanto la presenza della dichiarazione non preclude la verifica della sua
correttezza sostanziale attraverso la richiesta ‘di spiegazioni’, di cui
all’articolo 69 della Dir. 2014/24 (ed all’art. 97, comma 5, del d.lgs. n.
50/2014), che è tipica della fase successiva all’apertura delle offerte
economiche ed ha un profilo eminentemente oggettivo”;
g4) non può dunque parlarsi affatto di “soccorso istruttorio”, “che
come tale afferisce propriamente alla fase dell’ammissione e della verifica
dei requisiti e quindi a profili tipicamente soggettivi”, in quanto la
normativa nazionale, utilizzando la facoltà concessa dall’art. 56, par. 3,
della direttiva n. 2014/24/UE, all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del
2016 ha limitato il soccorso istruttorio agli elementi formali “del
documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di
quelle afferenti all'offerta economica e all'offerta tecnica”;
g5) gli offerenti che partecipano alle gare comunitarie sono soggetti
imprenditoriali, che si presumono in possesso di adeguate professionalità,
per i quali il mancato adempimento di un onere obbligatoriamente previsto
dalla legge costituisce una grave negligenza addebitabile ai medesimi
concorrenti;
g6) ulteriori argomenti sono stati, poi, desunti dalla giurisprudenza della
stessa Corte di giustizia (con riguardo, in particolare, alle sentenze Pizzo
e Cartiera dell’Adda, richiamate anche dalla Corte di Lussemburgo nella
decisione qui in rassegna), a partire dall’affermazione secondo cui il
diritto euro-unitario non impedisce l’esclusione di un concorrente dalla
gara per ragioni di carattere formale e dichiarativo a condizione:
i) che le ragioni e le condizioni dell’esclusione siano chiaramente e
previamente stabilite dal diritto nazionale o dal bando di gara;
ii) che le clausole che dispongono l’esclusione mirino a propria volta a
conseguire obiettivi e princìpi di interesse per il diritto UE (quali il
principio della par condicio competitorum fra concorrenti
professionali);
h) non può non segnalarsi che i principi adesso formulati dalla Corte di
giustizia UE con la sentenza qui in rassegna esauriscono, nella sostanza, le
questioni pregiudiziali che erano state sollevate dalle menzionate ordinanze
nn. 1, 2 e 3 del 2019 dall’Adunanza plenaria la quale, a questo punto,
potrebbe chiedere, in base alle Raccomandazioni della Corte UE pubblicate in
GUCE del 25.11.2016, il ritiro dei propri quesiti interpretativi;
i) anche il Tar per la Basilicata aveva rimesso analoga questione alla Corte
di giustizia UE (ordinanza
25.07.2017, n. 525, in Foro amm., 2017, 1749, nonché oggetto
della
News US in data 21.08.2017) la quale è stata dichiarata
irricevibile dalla Corte di giustizia UE, sezione VI, con la
decisione del 23.11.2017, C-486/17, Olympus Italia (oggetto della
News US in data 03.08.2018, cui si rinvia per approfondimenti in
materia di ricevibilità dei rinvii pregiudiziali);
j) con la sentenza in rassegna la Corte di giustizia UE conferma i propri
precedenti arresti che già avevano, in parte, ridimensionato la portata ed
il fondamento europeo del soccorso istruttorio in materia di appalti
pubblici; al riguardo:
j1) la sentenza Cartiera dell’Adda, del 06.11.2014, cit. (ai punti nn. 46 e
48), aveva affermato che l’art. 51 della direttiva n. 2004/18/CE, il quale
dispone(va) che l’amministrazione aggiudicatrice può invitare gli operatori
economici ad integrare o a chiarire i certificati e i documenti presentati
dall’offerente, “non può essere interpretato nel senso di consentirle di
ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che, secondo le espresse
disposizioni dei documenti dell’appalto, debbono portare all’esclusione
dell’offerente”, essendo necessario che l’amministrazione aggiudicatrice
assicuri “il rispetto dei criteri da essa stessa fissati, di modo che
essa è tenuta ad escludere dall’appalto un operatore economico che non abbia
comunicato un documento o un’informazione la cui produzione era imposta dai
documenti di tale appalto sotto pena di esclusione”;
j2) le successive sentenze Pizzo, del 02.06.2016, e Ciclat, del 10.11.2016,
citt., hanno ribadito il concetto affermato nel precedente del 2014,
richiamando le stesse parole;
j3) rilevante è, tuttavia, la conclusione cui giunge la Corte nella sentenza
qui in rassegna, in merito alle situazioni di accertata “materiale
impossibilità” di effettuare l’indicazione separata dei costi di
manodopera, nella quale si riespande la piena possibilità, per
l’amministrazione aggiudicatrice, di procedere al soccorso istruttorio “in
considerazione dei principi della certezza del diritto, di trasparenza e di
proporzionalità”, previa fissazione di un termine di adempimento da imporre
al concorrente interessato;
k) sul principio di proporzionalità, dalla Corte di giustizia UE considerato
quale principio generale del diritto dell'Unione Europea, in base al quale
le misure adottate dai legislatori nazionali non devono eccedere quanto
necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito, cfr., da ultimo, Corte di
giustizia UE, sentenza 22.10.2015, C-425/14, Edilux (in Appalti & Contratti,
2015, 12, 90, con nota di CANAPARO, in Giur. it., 2016, 1459, con nota di
CRAVERO, ed in Giorn. dir. amm., 2016, 318, con nota di VINTI), secondo la
quale gli impegni e le dichiarazioni contenuti nel c.d. protocollo di
legalità non possono oltrepassare i limiti di ciò che è necessario al fine
di salvaguardare i principi di concorrenza, parità di trattamento e non
discriminazione nonché l'obbligo di trasparenza che ne deriva; in caso
contrario, tali impegni e dichiarazioni sono da interpretarsi contrari al
principio di proporzionalità e, perciò, inidonei a produrre l'effetto
esclusivo del partecipante inadempiente
(Corte di giustizia dell’Unione Europea, Sez. IX,
sentenza 02.05.2019 - causa C-309/18 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scatta
il reato per mancata bonifica anche in assenza del progetto.
L'omessa bonifica non può giustificarsi con la mancanza dello specifico
progetto o per l'assenza di fondi da parte del consorzio intercomunale.
Come spiega la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza
30.04.2019 n. 17813, l'attività di ripristino di luoghi inquinati è
attività prioritaria rispetto a qualsiasi mission dell'ente
responsabile del sito. In particolare se tale ente è gestore di una
discarica di rifiuti.
I giudici rispediscono al mittente anche l'argomento difensivo secondo cui
non scatterebbe il reato previsto dal testo unico dell'ambiente (articolo
257) per la mancata adozione del piano di bonifica, ma solo quando questo
sia stato adottato e poi non eseguito. Come giustamente fa notare la
Cassazione sarebbe una piena violazione del principio di ragionevolezza
affermare che il reato sussiste se il responsabile si è adoperato per
l'adozione del piano di caratterizzazione del danno ambientale e del
progetto esecutivo di bonifica senza poi procedervi mentre sarebbe
"innocente" chi non adotta tali atti prodromici in quanto non può violarli.
L'indirizzo prescelto
La Cassazione -districandosi tra i diversi e complessi orientamenti che
riporta in sentenza- aderisce all'interpretazione che ravvisa il reato come
permanente -a partire dalla rilevazione del danno- e che definisce la
bonifica come attività riparatoria che fa venir meno le conseguenze penali.
Ciò indica che il Legislatore ha messo al punto più alto di queste
fattispecie la tutela del diritto costituzionale alla salute, che quando
ripristinato esclude appunto la sussistenza del reato: spingendo di fatto
verso una condotta riparatoria che può essere realizzata fino all'adozione
della sentenza di condanna. Ma l'attività riparatoria, rilevante come
esimente per la persona fisica responsabile di un ente, non è solo quella
della concreta bonifica, ma ricomprende anche tutte quelle che la rendono
possibile.
È quindi rilevante, come nel caso in esame, che il presidente del
consorzio proceda a segnalare alla Regione e alle Province coinvolte la
situazione dannosa e sottoporre il progetto di bonifica, anche per
l'eventuale erogazione di risorse. Non poteva quindi considerare illegittima
la condanna il presidente del consorzio che non aveva dato impulso non solo
all'adozione del progetto di bonifica, ma anche delle rilevazioni delle
soglie di rischio e contaminazione e del piano di caratterizzazione.
Dal
canto suo la persona giuridica non potrà sottrarsi alle negative conseguenze
economiche della violazione del principio di "chi inquina paga"
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato.
2. Occorre ripercorrere preliminarmente e brevemente la disciplina in tema
di obblighi di bonifica penalmente rilevanti.
L'art. 58 del D.Lgs. n. 152
del 1999,
prevedeva che «chi con il proprio comportamento omissivo o commissivo in
violazione delle disposizioni del presente decreto provoca un danno alle
acque, al
suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, ovvero determina un
pericolo
concreto ed attuale di inquinamento ambientale, è tenuto a procedere a
proprie
spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino
ambientale
delle aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno ovvero
deriva il
pericolo di inquinamento, ai sensi e secondo il procedimento di cui al D.Lgs.
n. 22 del 1997, art. 17» e sanzionava con l'arresto e con l'ammenda
l'inosservanza
della disposizione anzidetta.
Si richiedeva per la configurabilità del reato
un
danno o un pericolo di danno all'ambiente causato non da un qualsivoglia
comportamento bensì dalla violazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. n.
152 del
1999 ossia, essenzialmente dalle violazioni delle disposizioni in materia di
scarichi di acque reflue industriali (cfr. Sez. 3, n. 40191 del 11/10/2007 Rv.
238057 - 01 Schembri).
Va aggiunto che a seguito delle modificazioni apportate
con il D.Lgs. n. 258 del 2000, per scarico doveva intendersi qualsiasi
immissione
tramite condotta di acque reflue, liquide o semiliquide nel suolo sottosuolo
o rete
fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante. Gli scarichi di
reflui di
cui il detentore si disfi senza versamento diretto tramite condotta o
comunque
senza una canalizzazione rientravano nella disciplina dei rifiuti di cui al
Decreto
Ronchi e non in quella sulle acque e potevano dare luogo o ad uno
smaltimento
di rifiuti o ad un abbandono degli stessi. In mancanza quindi di uno
scarico,
anche in tema di bonifica dei siti inquinati, non era applicabile la
disciplina sulle
acque bensì quella sui rifiuti (Sez. 3, n. 40191 del 11/10/2007 Rv. 238057 -
01
cit.).
2.1. A sua volta con l'art. 51-bis il D.Lgs. n. 22 del 1997 prescriveva che
chiunque avesse cagionato l'inquinamento o un pericolo concreto ed attuale
di
inquinamento, previsto dall'art. 17, comma 2, era punito con la pena
dell'arresto
da sei mesi a un anno e con l'ammenda da L. 5 milioni a L. 50 milioni se non
provvedeva alla bonifica secondo il procedimento di cui all'art. 17.
Si
applicava la
pena dell'arresto da un anno a due anni e la pena dell'ammenda da L. 10
milioni
a L. 100 milioni in caso di inquinamento provocato da rifiuti pericolosi e,
al
comma 2 si precisava che chiunque avesse cagionato, anche in maniera
accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero
avesse
determinato un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti
medesimi,
era tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in
sicurezza, dibonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti
dai quali
derivava il pericolo di inquinamento.
Si è così osservato come dal raffronto
emergesse che la fattispecie del D.Lgs. n. 22 del 1997 aveva un ambito
diverso
e, per alcuni aspetti, più circoscritto e limitato rispetto a quella di cui
al D.Lgs. n.
152 del 1999, art. 58, facendo riferimento non genericamente a un danno
all'ambiente o ad un pericolo di inquinamento ambientale, bensì al
superamento
o al pericolo di superamento di limiti precisi specificati dal D.M. 25.10.1999,
n. 471.
Inoltre, mentre, il decreto sulle acque del 1999 richiedeva che il
danno o
il pericolo di inquinamento ambientale fosse stato provocato da un
comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del
decreto stesso, l'articolo 17, comma 2, del Decreto Ronchi faceva discendere
l'obbligo della bonifica anche se il fatto fosse stato cagionato in maniera
accidentale.
2.2. Il D.Lgs. n. 152 del 2006, ha riprodotto in parte il contenuto delle
predette norme.
Il legislatore ha articolato la disciplina penale ed
amministrativa
della bonifica dei siti inquinati nel titolo V del D.Lgs. 152/2006, in
particolare con gli artt. 242 e ss., avendo riguardo oltre ai suoli, ed al sottosuolo, anche
alle acque
sotterranee e disponendo -con l'art. 242 cit.- che «al verificarsi di un
evento
che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile
dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie
di
prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di
cui
all'art. 304, comma 2».
Il responsabile dell'inquinamento inoltre, deve
svolgere
anche, una volta attuate le citate misure di prevenzione, una preliminare
indagine sui parametri oggetto dell'inquinamento e, «ove accerti che il
livello
delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato,
provvede al ripristino della zona contaminata dandone notizia con apposita
autocertificazione al comune ed alla provincia» (art. 242, comma 2 cit.).
Nel
caso
in cui invece, accerti l'avvenuto superamento delle anzidette
concentrazioni,
anche per un solo parametro, deve darne immediata notizia al comune ed alle
province competenti per territorio con la descrizione delle misure adottate
e, nei
successivi trenta giorni, deve presentare alle amministrazioni predette ed
alla
regione competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui
all'allegato
n. 2 alla parte quarta del D.Lgs. 152/2006. La segnalazione è dovuta a
prescindere
dal superamento delle soglie di contaminazione e la sua omissione è
sanzionata
dall'art. 257, che non punisce solo l'omessa bonifica ma anche l'omessa
segnalazione.
2.3.
Con particolare riferimento alla bonifica, quest'ultimo articolo
punisce,
salvo che il fatto costituisca più grave reato, «chiunque cagiona
l'inquinamento
del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque
sotterranee con il
superamento delle concentrazioni di soglia di rischio, [...] se non provvede
alla
bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente
nell'ambito
del procedimento di cui agli artt. 242 e seguenti».
2.4.
La struttura del reato richiede, quale indefettibile presupposto, la
sussistenza dell'evento di danno dell'inquinamento, la cui configurazione
implica
l'accertato superamento [attraverso la complessa procedura stabilita
dall'articolo
242 del T.U.A.) della concentrazione soglia di rischio (CSR) (che è un
livello di
rischio superiore ai livelli delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC)]
(Sez. 3, n. 9794 del 20/11/2006, Montigiani, Rv. 235951;
Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007 Rv. 237134 Magni; Sez. 3, n. 9492 del
29/01/2009 Rv. 243115, Capucciati).
Rispetto alla previgente fattispecie di cui all'art. 51-bis del D.lgs.
22/1997,
quella nuova di cui all'art. 257 D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, è meno grave,
essendo stata ridotta l'area dell'illecito ed attenuato il trattamento
sanzionatorio.
In particolare:
a) mentre in precedenza l'evento del reato poteva consistere
nell'inquinamento del sito o nel pericolo concreto ed attuale di
inquinamento,
l'art. 257 fa riferimento al solo evento di danno dell'inquinamento;
b) per
aversi
inquinamento è ora necessario il superamento della concentrazione soglia di
rischio (CSR), che costituisce un livello di rischio superiore rispetto ai
livelli delle
concentrazioni soglia di contaminazione (CSC);
c) la sanzione penale è ora
prevista con pena pecuniaria o detentiva alternativa, diversamente dalla
precedente disposizione che prevedeva la pena congiunta
(cfr. da ultimo Sez.
4,
n. 29627 del 21/04/2016 Rv. 267843 Silva).
Si tratta, secondo talune pronunce della Suprema Corte, di un reato di
evento a condotta libera o di un reato causale puro, nel quale l'evento
incriminato è l'Inquinamento, cagionato da una qualsiasi condotta dolosa o
colposa, la cui punizione è però subordinata all'omessa bonifica
(configurata
come condizione obiettiva di punibilità a contenuto negativo).
Inoltre,
secondo
una lettura elaborata con riguardo al previgente art. 51-bis del Dlgs 22/1997,
ma
che date le analogie strutturali tra i reati potrebbe, ove condivisa,
riguardare
anche l'attuale fattispecie di cui all'art. 257 in esame, una valutazione
costituzionalmente orientata imporrebbe che sia l'inquinamento nel senso
anzidetto, sia l'omessa bonifica, quale condizione intrinseca o impropria di
punibilità, siano coperti dal principio di colpevolezza penale desumibile
dall'art.
27, comma 1, della Carta fondamentale. (cfr. Sez. 3, n. 9794 del 29/11/2006
Rv. 235951 Montigiani; Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007 Rv. 237134 Magni, cit).
In proposito, è stato precisato che la condizione obiettiva di punibilità
"intrinseca" a contenuto negativo incide sull'interesse tutelato dalla
fattispecie in
quanto il mancato raggiungimento dell'obiettivo della bonifica determina un
aggravarsi dell'offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, già
perpetrata
dalla condotta di inquinamento (cfr. Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007
Rv. 237134 Magni, cit.). Secondo altro arresto di legittimità invece, è
configurabile un reato omissivo di pericolo che si consuma ove il soggetto,
a
fronte della situazione d'inquinamento, inquadrata tra i presupposti di
fatto del
reato, non proceda all'adempimento dell'obbligo di bonifica secondo le
cadenze
procedimentalizzate.
Tale interpretazione, nell'ottica della richiamata
sentenza, si
presenterebbe più rispondente ai principi di offensività e di
proporzionalità della
pena, perché, attraverso il rafforzamento penalistico dell'effettività delle
misure
reintegratorie del bene offeso, si fa assumere all'interesse pubblico alla
riparazione una connotazione particolare, che permea di sé il precetto e
diviene esso stesso bene giuridico protetto (cfr. con illustrazione
riguardante la
precedente fattispecie dell'art. 51-bis del D.Lgs. 22/1997, Sez. 3 , n. 1783
del
28.4.2000, Pizzuti, rv. 216585).
Conferma le medesime finalità ripristinatorie, seppure attraverso una
diversa
ricostruzione ermeneutica, distante rispetto alla suddetta tesi del reato
omissivo,
un ulteriore indirizzo di legittimità, secondo cui con l'entrata in vigore
dell'art.
257 in esame la disciplina del reato già previsto ai sensi del citato
articolo 51-bis
del D.lgs. 22/1997 non sarebbe sostanzialmente mutata, atteso che la struttura
della fattispecie di cui all'art. 257 sarebbe «del tutto corrispondente a
quella del
precedente reato di cui all'art. 51-bis, [...], poiché continua a prevedere
la
punibilità del fatto di inquinamento se l'autore 'non provvede alla bonifica
in
conformità al progetto di cui all'art. 242 (in precedenza era previsto che
la
bonifica dovesse avvenire secondo il procedimento del corrispondente art.
17). Il
che significava e significa che la bonifica, se integralmente eseguita
escludeva ed
esclude la punibilità del fatto anche secondo la precedente normativa (come
è
stato sempre pacifico anche in giurisprudenza)».
Attraverso tale
ricostruzione si
è voluto sottolineare che «in sostanza il legislatore, proprio per agevolare
la
bonifica dei siti inquinati (secondo il principio "chi inquina paga"
formalizzato
testualmente in legge nell'art. 239 del nuovo codice ambientale, ma già
esistente
come tale anche nel cd. decreto Ronchi ) e quindi impedire la prescrizione
del
reato nei tempi estremamente brevi previsti per le contravvenzioni,
insufficienti
di regola per gli interventi di ripristino ambientale dei sin contaminati,
ha
strutturato il reato di cui si tratta come reato la cui permanenza persiste
fino alla
bonifica ovvero fino alla sentenza di condanna, ma la cui punibilità può
essere
fatta venire meno, sempre fino alla sentenza di condanna, attraverso la
condotta riparatoria, in tal modo creando un particolare interesse per l'autore
dell'inquinamento -che non può invocare la prescrizione se non ha
provveduto
alla bonifica- ad attuare le condotte riparatorie, onde eliminare la
punibilità del
reato» (cfr. Sez. 1, n. 29855 del 13/06/2006 Rv. 235255 Pezzotti e altro).
2.5. Quest'ultimo aspetto relativo al carattere permanente del reato è stato
ribadito in altre pronunzie della suprema Corte.
Infatti si è osservato che
«si
versa in ipotesi di reato di natura permanente anche dopo l'entrata in
vigore
della D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 242 e 257 [...] -non bastando ai fini
della
interruzione della condotta il sequestro del sito inquinante, preordinato
all'eliminazione del danno, ma occorrendo l'esecuzione di interventi di
messa in
sicurezza, bonifica e ripristino ambientale delle aree, condotte riparatorie-
queste -previste anche dal nuovo testo unico D.Lgs. n. 152 del 2006, ex
art. 247, che, ove poste in essere prima della pronuncia giudiziale- fanno
venire
meno la punibilità del reato» (cfr. Sez. 3, n. 11498 del 15/12/2010 (dep.
22/03/2011) Rv. 249743 Ciabattoni).
2.6. Costituisce un tema dibattuto in dottrina e giurisprudenza, rilevante
nel
caso di specie alla luce del primo motivo di impugnazione, quello della
ricostruzione della condotta di omessa bonifica, con particolare riferimento
alla
necessità o meno che la stessa, per assumere rilevanza penale in rapporto
all'art. 257 cit., presupponga o meno la previa redazione e adozione del
progetto
di bonifica ex art. 242 cit. In altri termini, si tratta di stabilire se
l'obbligo di
bonifica, a fronte della cui omissione sussiste la punibilità del
responsabile
dell'inquinamento del sito, sia o meno quello che si delinea solo di seguito
all'approvazione del citato progetto operativo della medesima (cfr. art. 242,
comma
7 cit.).
In tale ultimo senso si rinvengono diverse decisioni con cui la
Suprema
Corte ha rilevato come, a fronte della riformulazione della pregressa
fattispecie
criminosa (art. 51-bis del D.L. vo. 22/1997) ai sensi del D.L.vo. 152/2006,
si
debba considerare che, mentre per il procedimento richiamato dal Decreto n.
22
del 1997, art. 51-bis, il reato era configurabile per la violazione di uno
qualsiasi
dei numerosi obblighi gravanti sul privato ex art. 17, con l'introduzione
del
Decreto n. 152 del 2006, art. 257, la consumazione del reato non può
prescindere dall'adozione del progetto di bonifica ex art. 242 (cfr. Sez. 3,
n. 9492
del 29/01/2009 Rv. 243115 Capucciati; Sez. 3, Sentenza n. 17817 del 2012
Rv. 252616 Bianchi; nel medesimo senso Sez. 3, n. 22006 del 13/04/2010
Rv. 247651 Mazzocco e altri; Sez. 3, n. 18502 del 16/03/2011, Rv. 250304,
Spirineo).
A tale orientamento che valorizza il dato letterale delle disposizioni
(laddove
l'art. 51-bis cit. stabiliva la punibilità di chi avesse cagionato
l'inquinamento o un
pericolo di inquinamento nel caso in cui non avesse provveduto «alla
bonifica
secondo il procedimento di cui all'art. 17 [...]» del T.U.A, descrittivo di
tutti i
passaggi funzionali alla approvazione del progetto di bonifica, mentre
l'art. 257
prevede la sanzione penale dell'autore dell'inquinamento «se non provvede
alla
bonifica in conformità al progetto approvato [...] nell'ambito del
procedimento di
cui agli artt. 242 e seguenti»), se ne contrappone un altro che valorizza
un'interpretazione sistematica.
Nell'ambito infatti di quest'ultimo
indirizzo si è
sostenuto che il reato in questione è configurabile non solo allorquando chi
sia
tenuto alla bonifica non vi provveda in conformità al progetto approvato
dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui all'art. 242 e ss.,
bensì anche nell'ulteriore caso in cui addirittura impedisca la stessa
formazione
del progetto di bonifica e quindi la sua realizzazione, attraverso la
mancata
attuazione del piano di caratterizzazione, necessario per predisporre il
progetto
di bonifica. Non si tratterebbe, in tal caso, di una non consentita
interpretazione
estensiva in malam partem né di un'applicazione analogica della norma penale incriminatrice, bensì «dell'unica interpretazione sistematica atta a rendere
il
sistema razionale e non in contrasto con il principio di ragionevolezza di
cui
all'art. 3 Cost. Invero [..] sarebbe manifestamente irrazionale una
disciplina che
prevedesse la punizione di un soggetto che dà esecuzione al piano di
caratterizzazione ma poi omette di eseguire il conseguente progetto di
bonifica
ed invece esonerasse da pena il soggetto che addirittura omette anche di
adempiere al piano di caratterizzazione così ostacolando ed impedendo la
stessa
formazione del progetto di bonifica» (cfr. Sez. 3, n. 35774 del 02/07/2010 Rv.
248561, Morgante).
2.7. Quest'ultimo indirizzo è condiviso nelle sue conclusioni e motivazioni
dal
Collegio.
Invero non pare discutibile, come rilevato da talune delle
sentenze
sopra richiamate, pur nella diversità dogmatica della ricostruzione della
struttura
del reato, che attraverso l'elaborazione delle fattispecie di cui all'art.
51-bis
prima e dell'art. 257 poi, si sia voluto «agevolare la bonifica dei siti
inquinati»
così che secondo un già citato indirizzo si sarebbe strutturata la
contravvenzione
come «reato la cui permanenza persiste fino alla bonifica ovvero fino alla
sentenza di condanna, ma la cui punibilità può essere fatta venire meno,
sempre
fino alla sentenza di condanna, attraverso la condotta riparatoria onde
eliminare
la punibilità del reato ,..]» (cfr. Sez. 1, n. 29855 del 13/06/2006 Rv.
235255
Pezzotti, cit.); per un altro indirizzo di legittimità «attraverso il
rafforzamento
penalistico dell'effettività delle misure reintegratorie del bene offeso, si
fa
assumere all'interesse pubblico alla riparazione una connotazione
particolare,
che permea di sè il precetto e diviene esso stesso bene giuridico protetto»
(cfr.
Sez. 3 , n. 1783 del 28.4.2000, Pizzuti, rv. 216585 cit.), ovvero «il
mancato
raggiungimento dell'obiettivo della bonifica determina un aggravarsi
dell'offesa al
bene tutelato dalla norma incriminatrice, già perpetrata dalla condotta di
inquinamento» (cfr. Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007 Rv. 237134 Magni, cit.).
In altri termini, può cogliersi, in ordine alla fattispecie in esame, la
condivisione del rilievo per cui il bene giuridico della tutela
dell'ambiente contro
particolari situazioni qualificate di contaminazione risulta "rafforzato"
attraverso
la valorizzazione di condotte riparatorie: così inteso, esso deve quindi
guidare
l'interprete verso la più corretta ricostruzione della norma.
2.8. Consegue che a fronte della tecnica di redazione della fattispecie in
esame, che tipicizza il fatto di reato anche attraverso il riferimento a
"fonti"
esterne, ovvero, nello specifico, ad un elemento normativo extrapenale quale
la
bonifica, sotto il profilo della relativa omissione, quest'ultima, alla luce
delle
suesposte finalità di tutela perseguite dalla norma, non può che intendersi
in
senso ampio, come riferita al complesso delle attività ed iniziative che il
soggetto
tenuto alla bonifica deve avviare a fronte dell'insorgere di tale obbligo;
dovere che consegue all'avvenuto accertamento del superamento «di una o più
delle
concentrazioni soglia di rischio» (cfr. art. 242, comma 6 e ss, del D.L.vo
152/2006) e
come tale impone all'interessato di attivarsi per pervenire al progetto
operativo
di bonifica, quale documento finale che stabilisce le corrette modalità di
effettuazione della predetta attività di ripristino.
Cosicché, il mancato
rispetto
dell'obbligo dovrà ritenersi integrato, in conformità al già citato
indirizzo
giurisprudenziale (cfr. Sez. 3, n. 35774 del 02/07/2010 Rv. 248561, Morgante),
sin dall'omissione di qualsivoglia condotta funzionale alla redazione e
approvazione del progetto operativo degli interventi di bonifica di cui al
comma 7
e ss. dell'art. 242 cit., piuttosto che restringersi alla mera omissione di
bonifica a
fronte dell'intervenuta approvazione del relativo progetto.
Così ricostruita
la
fattispecie, deve ritenersi che la relativa permanenza decorre sin dalla
configurazione della situazione di inquinamento «qualificata» di cui al
comma 1
dell'art. 257 cit., mentre la punibilità «può essere fatta venire meno, fino
alla
sentenza di condanna, attraverso la condotta riparatoria» (cfr. Sez. 1, n. 29855
del 13/06/2006 Rv. 235255 Pezzotti.); consegue che nella disposizione in
esame
il riferimento alla bonifica e alla sua conformità al progetto approvato
assume
una plurima portata: da una parte il richiamo alla bonifica assume il valore
di
rinvio sintetico, mediante elementi normativi extrapenali, alla più
complessa e
ampia procedura scaturente dall'avvenuto accertamento del superamento di
taluna delle «concentrazioni soglia di rischio»; dall'altra, la indicazione
della sua
conformità al progetto approvato dall'autorità competente ai sensi dell'art.
242 e
ss. citato, specifica le caratteristiche che devono rinvenirsi per ritenere
l'attività
di bonifica idonea ad escludere la punibilità del reato: non basta una
qualsivoglia
bonifica bensì quella conforme al progetto operativo emergente dalla
procedura
di cui agli artt. 242 e ss. del T.U.A. Cosicché il reato permane anche in
caso di
intervento eseguito in difformità da quanto formalmente pianificato (Sez. 3,
n.
35774 del 02/07/2010, Morgante, Rv. 248571, cit.).
2.9. Quanto al soggetto responsabile della condotta, un punto nodale è dato
dal caso in cui il sito inquinato sia riconducibile ad un ente.
Invero
l'art. 242
T.U.A. riferisce l'obbligo di attivare le procedure di bonifica al
"responsabile"
dell'inquinamento e tale obbligo grava sull'ente in virtù del rapporto
organico con
il soggetto in esso incardinato e della conseguente imputazione alla persona
giuridica del suo comportamento e dei relativi obblighi, salvo che sia
dimostrato
che egli abbia agito di propria ed esclusiva iniziativa ed in contrasto con
gli
interessi della società. Mentre alla persona fisica dell'amministratore fa
capo la
responsabilità penale per i singoli atti delittuosi, ogni altra conseguenza
patrimoniale non può non ricadere sull'ente esponenziale in nome e per conto
del
quale la persona fisica abbia agito, con esclusione della sola ipotesi di
rottura del rapporto organico, per avere il soggetto agito di propria
esclusiva iniziativa.
In
sostanza, l'obbligo di bonificare è del soggetto collettivo, mentre, per la
sua
inosservanza, occorre distinguere tra il profilo patrimoniale, del quale
risponde la
società, e quello della responsabilità penale, che riguarda l'organo
rappresentativo (cfr. Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016 Rv. 267842, Silva).
4.
Quanto al secondo motivo di impugnazione, riguardante l'omessa
motivazione in ordine alla asserita assenza di risorse,
va ricordato il
principio già
affermato con riferimento alla disciplina di cui al D.L.vo. 22/1997 (cfr. Sez.
3,
n. 25926 del 21/03/2002 Rv. 222100 Di Giorgio)
e che può rinvenirsi anche
nell'attuale disciplina di cui al D.L.vo 152/2006, atteso che sul punto non è
stata
introdotta alcuna innovazione: non esiste un principio di giustificazione di
tipo
economico nel sistema così disciplinato e quindi gli enti locali, così come,
deve
ritenersi, le loro promanazioni (tra cui può rinvenirsi un consorzio di
comuni,
come nel caso di specie, peraltro deputato alla gestione di una discarica
cui si
riconnette l'obbligo di bonifica in esame), hanno il dovere di dare priorità
alle
spese necessarie per gli adempimenti in materia di corretta gestione dei
rifiuti e
delle connesse attività, tra cui quella in esame. In questa materia dunque,
per
escludere la responsabilità dell'agente è necessario rinvenire una
determinata
causa di giustificazione fra quelle positivamente disciplinate
dall'ordinamento,
non essendo invocabile un inesistente principio generale di inesigibilità
della
condotta, se non quando si traduca in una positiva causa di esclusione della
punibilità (oggettiva o soggettiva) (cfr. in tal senso sez. 3, n. 4441 del
06/03/1996 Rv. 204423 Giffoni.).
Consegue che
le difficoltà economiche in
materia di rifiuti non integrano causa di giustificazione e di non
esigibilità. La
gestione dei rifiuti e delle connesse e conseguenziali attività
costituiscono infatti
un'assoluta priorità, in quanto incidono su interessi di rango
costituzionale, come
la salute dei cittadini e la protezione delle risorse naturali, sicché non
ha rilievo
giuridico l'insufficienza delle risorse, dovendo le stesse essere destinate
in via
prioritaria al soddisfacimento delle anzidette esigenze, rispetto ad altre.
Tanto
più che nel caso in esame emerge da parte dell'imputato la titolarità di un
ente consortile nascente dalla partecipazione di più comuni e su tutti
(compreso l'ente
esponenziale) incombe, attraverso i relativi organi, l'obbligo di gestione
in via
prioritaria della materia suddetta (cfr. in tal senso, seppure con
riferimento ad
un singolo comune e ad un suo sindaco, Sez. 3, n. 2109 del 10/01/2000 Rv.
215527 Mucci P.). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
La nozione di “azienda agricola” è diversa da quello di imprenditore
agricolo.
Ai fini dell'applicazione della normativa statale, è
imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di
conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del
regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17.05.1999, dedichi alle
attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o
in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio
tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il
cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro.
---------------
In tema di ICI, le agevolazioni di
cui all'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992, consistenti nel considerare
agricolo anche il terreno posseduto da una società agricola di persone si
applicano -a seguito della modifica dell'art. 12 della l. n. 153 del 1975 da
parte dell'art. 10 del d.lgs. n. 228 del 2001 e della sua successiva
abrogazione e sostituzione con l'art. 1 del d.lgs. n. 99 del 2004- qualora
detta società possa essere considerata imprenditore agricolo professionale
ove lo statuto preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle
attività agricole di cui all'art. 2135 c.c. ed almeno un socio sia in
possesso della qualifica di imprenditore agricolo ovvero abbia conoscenze e
competenze professionali, ai sensi dell'art. 5 del Regolamento (CE) n. 1257
del 1999 del Consiglio, e dedichi alle attività agricole di cui all'art.
2135 c.c. almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro
complessivo ricavando da dette attività almeno il cinquanta per cento del
proprio reddito globale da lavoro.
---------------
"... in relazione alle annualità in
contestazione, erano già entrate in vigore le disposizioni di cui al d.lgs.
n. 228/2001 e del d.lgs. n. 99/2004, che hanno profondamente inciso sulla
stessa configurazione del requisito soggettivo per la fruizione
dell'agevolazione, il primo, oltre ad individuare la nuova nozione
codicistica (art. 2135 c.c.) d'imprenditore agricolo, stabilendo, per quanto
qui interessa, (art. 12 della legge 09.05.1975, n. 153 quale sostituito
dall'art. 10 del citato d.lgs. n. 228/2001), che "Le società sono
considerate imprenditori agricoli a titolo principale qualora lo statuto
preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo dell'attività agricola"
e, nel caso di società di persone (lett. a) "qualora almeno la metà dei soci
sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo a titolo
principale"; disposizione ora facente parte dell'art. 1 del d.lgs. n.
99/2004, a seguito della disposta abrogazione dell'art. 12 della legge n.
153/1975, nell'art. 1 del decreto da ultimo citato, che reca la nuova
definizione dell'imprenditore agricolo professionale come "colui il quale,
in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo
5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17.05.1999, dedichi
alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile,
direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per
cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività
medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro".
---------------
La Corte di Giustizia,
intervenuta con due successivi arresti in materia tributaria sulla nozione
di "imprenditore agricolo a titolo principale", ha affermato che non è
possibile ricavare dalle disposizioni del trattato o dalle norme di diritto
comunitario derivato una definizione comunitaria generale ed uniforme di
"azienda agricola", valida per tutte le disposizioni di legge e di
regolamento concernenti la produzione agricola, riguardando il Regolamento 797/85 un regime di aiuti agli
investimenti nel settore agricolo rigorosamente determinati, mentre altre
modalità di aiuti (nella specie agevolazioni tributarie in tema di imposta
di registro) riguardano esclusivamente il legislatore nazionale; concetto quest'ultimo riferibile evidentemente ad altri tributi (e nella specie
all'ICI) e ribadito con la sentenza della stessa Corte 11.01.2001 n. 403 in
C-403/98 nella quale si afferma che le disposizioni dei
Regolamenti Comunitari (e nella specie quelle dei Regolamenti 797/85 e
232/91 in materia di aiuti agli investimenti nell'agricoltura) non producono
tutte effetti immediati nell'ordinamento nazionale, ma richiedono norme attuative in assenza delle quali" gli art. 2, n. 5, u.c. del reg.
797/85 e 5 n. 5 u.c. del reg. 2328/91 (che richiedono la parificazione delle
persone giuridiche a quelle fisiche nel settore agricolo) non possono essere
invocati davanti ad un giudice nazionale da società di capitali al fine di
ottenere il riconoscimento dello status di imprenditore agricolo a titolo
principale allorché il legislatore di uno Stato membro non ha adottato le
misure necessarie per la loro esecuzione nel suo ordinamento giuridico
interno", misure che possono in effetti riscontrarsi nel d.lgs. n. 228 del
2001, di portata non retroattiva....".
---------------
4.1. Il motivo è infondato per le ragioni di seguito svolte.
4.2. La questione centrale della controversia è se in tema di ICI le
agevolazioni previste dall'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992, per gli "imprenditori
agricoli che esplicano la loro attività a titolo principale", trovino
applicazione anche a favore delle società di persone, nella fattispecie
società di fatto o semplici, aventi qualifica di imprenditore agricolo
professionale.
Nella presente controversia è pacifico che: il contribuente è proprietario
del terreno oggetto di imposizione ed è imprenditore agricolo professionale;
l'attività agricola è gestita, attraverso una società semplice, dal
contribuente ed i suoi due figli, anch'essi imprenditori agricoli; per lo
svolgimento di tale attività il contribuente ed i suoi figli hanno aperto
un'unica partita iva con codice attribuito alle società semplici o di fatto.
Ai sensi dell'art. 1 del d.lgs. n. 99 del 2004, Imprenditore agricolo
professionale, "Ai fini dell'applicazione della normativa statale, è
imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di
conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del
regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17.05.1999, dedichi alle
attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o
in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio
tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il
cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro."
Ritiene il collegio di condividere i principi espressi in sede di
legittimità, da un orientamento recente, ma in via di consolidamento,
secondo cui le disposizioni di cui al d.lgs. n. 228/2001 e del d.lgs. n.
99/2004 hanno profondamente inciso sulla stessa configurazione del requisito
soggettivo per la fruizione dell'agevolazione fornendo una lettura più in
linea con la normativa eurounitaria.
In particolare è stato affermato che "In tema di ICI, le agevolazioni di
cui all'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992, consistenti nel considerare
agricolo anche il terreno posseduto da una società agricola di persone si
applicano -a seguito della modifica dell'art. 12 della l. n. 153 del 1975 da
parte dell'art. 10 del d.lgs. n. 228 del 2001 e della sua successiva
abrogazione e sostituzione con l'art. 1 del d.lgs. n. 99 del 2004- qualora
detta società possa essere considerata imprenditore agricolo professionale
ove lo statuto preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle
attività agricole di cui all'art. 2135 c.c. ed almeno un socio sia in
possesso della qualifica di imprenditore agricolo ovvero abbia conoscenze e
competenze professionali, ai sensi dell'art. 5 del Regolamento (CE) n. 1257
del 1999 del Consiglio, e dedichi alle attività agricole di cui all'art.
2135 c.c. almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro
complessivo ricavando da dette attività almeno il cinquanta per cento del
proprio reddito globale da lavoro" (Cass. n. 28062 del 2018, Cass. n.
375 del 2017).
In motivazione è chiarito che: "... in relazione alle annualità in
contestazione, erano già entrate in vigore le disposizioni di cui al d.lgs.
n. 228/2001 e del d.lgs. n. 99/2004, che hanno profondamente inciso sulla
stessa configurazione del requisito soggettivo per la fruizione
dell'agevolazione, il primo, oltre ad individuare la nuova nozione
codicistica (art. 2135 c.c.) d'imprenditore agricolo, stabilendo, per quanto
qui interessa, (art. 12 della legge 09.05.1975, n. 153 quale sostituito
dall'art. 10 del citato d.lgs. n. 228/2001), che "Le società sono
considerate imprenditori agricoli a titolo principale qualora lo statuto
preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo dell'attività agricola"
e, nel caso di società di persone (lett. a) "qualora almeno la metà dei soci
sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo a titolo
principale"; disposizione ora facente parte dell'art. 1 del d.lgs. n.
99/2004, a seguito della disposta abrogazione dell'art. 12 della legge n.
153/1975, nell'art. 1 del decreto da ultimo citato, che reca la nuova
definizione dell'imprenditore agricolo professionale come "colui il quale,
in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo
5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17.05.1999, dedichi
alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile,
direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per
cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività
medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro".
Sulla portata novativa del d.l. n. 228 del 2001, anche in epoca più
risalente, tuttavia, era stato osservato che: "la Corte di Giustizia,
intervenuta con due successivi arresti in materia tributaria sulla nozione
di "imprenditore agricolo a titolo principale", ha affermato che non è
possibile ricavare dalle disposizioni del trattato o dalle norme di diritto
comunitario derivato una definizione comunitaria generale ed uniforme di
"azienda agricola", valida per tutte le disposizioni di legge e di
regolamento concernenti la produzione agricola (C. Giust. 15/10/1992 in
C-162/91 par. 19), riguardando il Regolamento 797/85 un regime di aiuti agli
investimenti nel settore agricolo rigorosamente determinati, mentre altre
modalità di aiuti (nella specie agevolazioni tributarie in tema di imposta
di registro) riguardano esclusivamente il legislatore nazionale; concetto
quest'ultimo riferibile evidentemente ad altri tributi (e nella specie
all'ICI) e ribadito con la sentenza della stessa Corte 11.01.2001 n. 403 in
C-403/98 nella quale si afferma (par. 26 e segg.) che le disposizioni dei
Regolamenti Comunitari (e nella specie quelle dei Regolamenti 797/85 e
232/91 in materia di aiuti agli investimenti nell'agricoltura)non producono
tutte effetti immediati nell'ordinamento nazionale, ma richiedono norme
attuative in assenza delle quali (par. 29)" gli art. 2, n. 5, u.c. del reg.
797/85 e 5 n. 5 u.c. del reg. 2328/91 (che richiedono la parificazione delle
persone giuridiche a quelle fisiche nel settore agricolo) non possono essere
invocati davanti ad un giudice nazionale da società di capitali al fine di
ottenere il riconoscimento dello status di imprenditore agricolo a titolo
principale allorché il legislatore di uno Stato membro non ha adottato le
misure necessarie per la loro esecuzione nel suo ordinamento giuridico
interno", misure che possono in effetti riscontrarsi nel d.lgs. n. 228 del
2001, di portata non retroattiva...." (Cass. n. 5931 del 2010).
Nella specie i giudici di merito (sentenza di I grado) hanno accertato che
il contribuente è proprietario e coltivatore diretto e che nella società
semplice di cui lo stesso fa parte anche tutti gli altri soci sono
coltivatori diretti del terreno per cui è causa.
Tali accertamenti in fatto non risultano più contestati e sulla base di essi
la pronuncia impugnata ha reso un dispositivo conforme al diritto.
5. Ne consegue il rigetto del ricorso
(Corte di cassazione, Sez. V civile,
sentenza 30.04.2019 n. 11415). |
APPALTI: Consiglio
di Stato: acquisti entro 5mila euro senza rotazione ma il Rup deve motivare
la deroga.
Con il
parere
30.04.2019 n. 1312 -sul nuovo schema
di linee guida n. 4 dell'Anac– il Consiglio di Stato conferma che
nell'ambito dei 5mila euro (nuova soglia affrancata dall'obbligo di acquisto
dal mercato elettronico), il responsabile unico del procedimento può
derogare al criterio della rotazione, e quindi anche ribadire l'affidamento
diretto al vecchio affidatario, purché la determinazione di affidamento
contenga la motivazione di questa scelta.
La modifica della legge di bilancio
La novità introdotta dalla legge di bilancio 145/2018 con il comma 130
dell'articolo 1 (di modifica del comma 450 dell'articolo 1 della legge
296/2006) ha innalzato la soglia entro la quale le pubbliche amministrazioni
non hanno l'obbligo di procedere con gli acquisti di beni e servizi dal
mercato elettronico (Mepa).
L'importo, come noto, è stato innalzato fino
alla somma (inferiore) dei 5mila euro. La modifica, come rilevato dall'Anac
nello schema delle nuove linee guida n. 4 (in tema di acquisizioni in ambito
sottosoglia comunitaria), introduce la questione dei rapporti tra gli
acquisti di questi importi e il rispetto (o meno) del rigoroso criterio
dell'alternanza tra imprese.
In sostanza, circa i vincoli imposti dalla
rotazione secondo cui –nell'ambito di acquisizioni anche solo omogenee-
sia il vecchio affidatario (tale anche in seguito a una gara pubblica) sia
il precedente soggetto economico già invitato (in caso di procedura a
inviti) non possono risultare affidatari diretti né concorrere alla
eventuale microcompetizione avviata dal Rup.
La problematica, come si evince dalle riflessioni dell'Autorità
anticorruzione, si è posta considerato che nell'ambito dei mille euro le
linee giuda n. 4 ammettono la deroga della rotazione anche con sitentica
motivazione. Si trattava, quindi, di comprendere se la deroga -per effetto
delle modifiche apportata con la legge di bilancio– ora dovesse riguardare
anche la nuova "micro" soglia dei 5mila euro.
Il parere del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato si esprime positivamente in merito al fatto che anche
per le nuove soglie –affrancate (con decisione facoltativa rimessa al Rup)
da ogni rapporto con il Mepa– il criterio della rotazione possa o meno
subire delle deroghe con motivazione sintetica.
La commissione, a fronte dell'opportunità espressa dall'Anac (di consentire
la deroga), evidenzia di condividere «l’innalzamento della soglia entro la
quale è possibile, con scelta motivata, derogare al principio di rotazione».
Sotto il profilo pratico, l'indicazione risulta di estremo rilievo fermo
restando che, in primo luogo, si ribadisce che la scelta di derogare alla
rotazione deve comunque essere motivata. Ciò implica che nella
determinazione semplificata di affidamento diretto (articolo 32 del codice
dei contratti), il Rup non potrà esimersi dall'indicare –pur in modo
sintetico– le ragioni che hanno indotto la deroga e quindi situazioni
oggettive specifiche: vuoi l'esiguità dell'importo ma anche l'esigenza di
procedere in modo spedito riducendo i formalismi esasperati dell'azione
amministrativa.
Non può sfuggire, infatti, che un riaffido reiterato per soglie di poco
inferiori ai 5mila euro, potrebbero –in realtà– similare artificiosi
frazionamenti. Comportamento/circostanze che il responsabile unico del
procedimento deve assolutamente evitare a pena di responsabilità.
È chiaro poi che, sotto il profilo della responsabilità, se l'affidamento
diretto a un soggetto che sia stato solo invitato (e non sia risultato
aggiudicatario) al precedente "micro" procedimento non sembra comportare
particolari implicazioni ben diverso è il caso di riaffido reiterato (e
quindi la scelta ripetuta di affidare allo stesso aggiudicatario) che avrà
necessità di una motivazione maggiormente adeguata con riferimento esteso
oltre il dato economico (ad esempio al tipo di prestazione)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2019). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Aggiornamento Linee Guida sul sotto-soglia, il parere del
Consiglio di Stato. Il parere del Consiglio di Stato sulle modifiche delle
Linee Guida Anac n. 4 sugli appalti sotto-soglia e affidamenti diretti.
Il Consiglio di Stato rende parere sull’aggiornamento delle Linee Guida ANAC
n. 4, denominate «Linee guida – Procedure per l’affidamento dei contratti
pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini
di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici».
Il Parere 1312/2019, in particolare, richiede alcune modifiche in materia di
appalti sotto soglia di interesse transfrontaliero e delle opere di
urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il
rilascio del permesso di costruire.
Rapporto tra Linee Guida n. 4 e Decreto Sblocca Cantieri
Il problema è che si è posto è che tali Linee Guida si pongono come già “superate”
dalle novità sugli appalti sotto soglia nel Decreto 32/2019, Sblocca
Cantieri.
Il Consiglio di Stato affronta il problema, nel passaggio che si riporta
integralmente: “Il d.l. 18.04.2019, n. 32 c.d. sblocca-cantieri. Dopo
l’invio della richiesta di parere, è stato pubblicato il d.l. 18.04.2019 n.
32, c.d. decreto sblocca-cantieri nella gazzetta ufficiale 18.04.2019, n.
32.
Qualora tale decreto dovesse essere convertito, verranno introdotte
numerose, e consistenti, modifiche al Codice dei Contratti pubblici. Per
quanto di interesse in questa sede, il decreto legge in questione novella
l’articolo 36 Codice dei Contratti pubblici e, più in generale, ripensa il
ruolo delle linee guida Anac perché, attraverso l’introduzione dell’articolo
216, comma 27-octies, e la modifica delle norme del Codice dei contratti che
le prevedono, l’esecuzione, l’attuazione e l’integrazione del codice sono
affidate ad un regolamento unico.
Naturalmente non è possibile prevedere se il decreto verrà convertito o meno
e se verrà convertito nel suo testo attuale o con modifiche, tuttavia reputa
la Sezione che su alcune delle richieste formulate dall’ANAC possa essere
comunque reso parere anche in considerazione del fatto che le linee guida
rimarranno “in vigore o efficaci” sino alla data di entrata in vigore del
regolamento in questione” (commento tratto da www.giurdanella.it).
---------------
OGGETTO: Autorità nazionale anticorruzione -
Linee guida n. 4, denominate «Linee guida - Procedure per l'affidamento dei
contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza
comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di
operatori economici».
---------------
1.
La richiesta dell’Autorità nazionale anticorruzione.
L’Autorità nazionale anticorruzione, con la nota in epigrafe indicata, ha
trasmesso lo schema di linee guida n. 4 -denominate «Linee guida -
Procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle
soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione
degli elenchi di operatori economici», elaborate con delibera n. 206 del
01.03.2018- riferendo che si è reso necessario un intervento di
aggiornamento a seguito dell'avvio della procedura di infrazione sulle opere
di urbanizzazione a scomputo e delle modifiche normative sopravvenute.
L’ANAC riferisce, altresì, che la Commissione Europea ha segnalato un
possibile contrasto del paragrafo 2.2 delle Linee guida in esame con
l'articolo 5, paragrafo 8 della direttiva 2014/24/UE nella parte in cui
sembra ammettere che, in caso di esecuzione diretta delle opere di
urbanizzazione primaria di tipo funzionale, ammessa dall'articolo 16, comma
2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 per importi di
rilievo infracomunitario, il valore di tali opere, appaltabile in deroga
alle procedure di evidenza pubblica regolate dal Codice dei contratti
pubblici, possa essere determinato senza tenere conto del valore complessivo
delle opere di urbanizzazione (ossia escludendo anche le restanti opere di
urbanizzazione - secondaria, e primaria non funzionali).
Espone che è emersa, altresì, l'esigenza di operare ulteriori
modifiche/integrazioni alle Linee guida in esame nella parte relativa
all'esclusione automatica delle offerte anomale. L'articolo 97, comma 8, del
codice dei contratti pubblici stabilisce che per lavori, servizi e
forniture, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più
basso e comunque per importi inferiori alle soglie di cui all'articolo 35,
la stazione appaltante può prevedere nel bando l'esclusione automatica delle
offerte che presentino un ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia.
Per l’Autorità, secondo l'orientamento della Corte di Giustizia europea, i
principi comunitari vietano l'esclusione automatica delle offerte
anormalmente basse nei contratti sotto-soglia che abbiano carattere
transfrontaliero certo. L’Autorità riferisce poi che la Commissione Europea,
sulla base delle sentenze emesse nelle cause C-318/15, C-147/06 e C-148/06,
ha contestato all'Italia la possibile violazione della normativa
comunitaria, in quanto l'articolo 97, comma 8, del codice dei contratti
pubblici si applica indiscriminatamente a tutti gli affidamenti
sotto-soglia, indipendentemente dall'esistenza di un interesse
transfrontaliero certo.
Inoltre, la Commissione ha ritenuto insufficiente il
limite di dieci offerte valide per poter giustificare il ricorso
all'esclusione automatica. L’ANAC espone infine che, per tale ragione, in
sede di revisione delle Linee guida, ha ritenuto di poter fornire
un'interpretazione comunitariamente orientata della norma, nonché
indicazioni interpretative, sulla base delle citate sentenze della Corte, al
fine di individuare gli indicatori dell'interesse transfrontaliero certo.
Riferisce, in ultimo, che si è reso necessario adeguare le linee guida in
esame alle novità introdotte dalla legge 30.12.2018, n. 145, articolo
1, comma 912.
2. Il d.l. 18.04.2019, n. 32 c.d. sblocca-cantieri. Dopo l’invio della
richiesta di parere, è stato pubblicato il d.l. 18.04.2019 n. 32, c.d.
decreto sblocca-cantieri nella gazzetta ufficiale 18.04.2019, n. 32.
Qualora tale decreto dovesse essere convertito, verranno introdotte
numerose, e consistenti, modifiche al Codice dei Contratti pubblici. Per
quanto di interesse in questa sede, il decreto legge in questione novella
l’articolo 36 Codice dei Contratti pubblici e, più in generale, ripensa il
ruolo delle linee guida Anac perché, attraverso l’introduzione dell’articolo
216, comma 27-octies e la modifica delle norme del Codice dei contratti che
le prevedono, l’esecuzione, l’attuazione e l’integrazione del codice sono
affidate ad un regolamento unico.
Naturalmente non è possibile prevedere se il decreto verrà convertito o meno
e se verrà convertito nel suo testo attuale o con modifiche, tuttavia reputa
la Sezione che su alcune delle richieste formulate dall’ANAC possa essere
comunque reso parere anche in considerazione del fatto che le linee guida
rimarranno “in vigore o efficaci” sino alla data di entrata in vigore del
regolamento in questione.
3. Appalti sotto-soglia di interesse transfrontaliero.
3.1.Inquadramento di carattere sistematico. In via generale, occorre
rilevare che le procedure specifiche previste dalle direttive comunitarie si
applicano soltanto ai contratti il cui valore supera la soglia prevista
espressamente nelle direttive stesse (Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, Vestergaard). Pertanto, in via di massima, gli
Stati non sono obbligati a rispettare le disposizioni contenute nelle
direttive per gli appalti il cui valore non raggiunge la soglia fissata da
queste ultime (v., in tal senso, Corte di Giustizia, sentenza 21.02.2008, causa C-412/04, punto 65).
Ciò non significa tuttavia che questi
ultimi appalti siano del tutto esclusi dall'ambito di applicazione del
diritto comunitario (ancora Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001,
causa C-59/00, punto 19): infatti, conformemente alla giurisprudenza
costante della Corte di Giustizia, per quanto concerne l'aggiudicazione
degli appalti che, in considerazione del loro valore, non sono soggetti alle
procedure previste dalle norme comunitarie, le amministrazioni aggiudicatrici sono cionondimeno tenute a rispettare le norme fondamentali e
i principi generali del Trattato FUE e, in particolare, il principio di
parità di trattamento e il principio di non discriminazione in base alla
nazionalità (Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00,
punti 20 e 21; Corte di Giustizia, sentenza 20.10.2005, causa C-264/03,
punto 32; Corte di Giustizia, 14.06.2007, causa C-6/05, punto 33) nonché
l'obbligo di trasparenza che ne deriva.
L’applicazione delle norme fondamentali e dei principi generali del Trattato
alle procedure di aggiudicazione degli appalti di valore inferiore alla
soglia comunitaria è dunque imposta quando gli appalti in questione
presentino un interesse transfrontaliero certo (Corte di Giustizia, sentenza
13.11.2007, causa C-507/03, punto 29).
Un appalto di lavori può, ad esempio, presentare interesse transfrontaliero
in ragione del suo valore stimato, in relazione alla propria tecnicità o
all'ubicazione dei lavori in un luogo idoneo ad attrarre l'interesse di
operatori esteri.
Per la Corte di Giustizia, “spetta in linea di principio all'amministrazione aggiudicatrice interessata valutare, prima di definire le condizioni del
bando di appalto, l'eventuale interesse transfrontaliero di un appalto il
cui valore stimato è inferiore alla soglia prevista dalle norme comunitarie,
fermo restando che tale valutazione può essere oggetto di controllo
giurisdizionale” (Corte di Giustizia, 15.05.2008, C. 147/06).
Tuttavia,
prosegue la Corte, “una normativa può certamente stabilire, a livello
nazionale o locale, criteri oggettivi che indichino l'esistenza di un
interesse transfrontaliero certo. Tali criteri potrebbero sostanziarsi, in
particolare, nell'importo di una certa consistenza dell'appalto in
questione, in combinazione con il luogo di esecuzione dei lavori. Si
potrebbe altresì escludere l'esistenza di un tale interesse nel caso, ad
esempio, di un valore economico molto limitato dell'appalto in questione
(v., in tal senso, sentenza 21.07.2005, causa C-231/03, Coname, Racc.
pag. I-7287, punto 20). È tuttavia necessario tenere conto del fatto che, in
alcuni casi, le frontiere attraversano centri urbani situati sul territorio
di Stati membri diversi e che, in tali circostanze, anche appalti di valore
esiguo possono presentare un interesse transfrontaliero certo” (ancora Corte
di Giustizia, 15.05.2008, C. 147/06).
Se l’appalto sotto-soglia presenta interesse transfrontaliero, la costante
giurisprudenza della Corte reputa contrario al diritto eurounitario
l’esclusione automatica delle offerte sospettate di anomalia.
3.2. Il più recente intervento della Corte di Giustizia. Di recente la Corte
di Giustizia ha affermato che “per quanto riguarda i criteri oggettivi atti
a indicare l'esistenza di un interesse transfrontaliero certo … [questi]
potrebbero sostanziarsi, in particolare, nell'importo di una certa
consistenza dell'appalto in questione, in combinazione con il luogo di
esecuzione dei lavori o, ancora, nelle caratteristiche tecniche dell'appalto
e nelle caratteristiche specifiche dei prodotti in causa. A tal riguardo, si
può altresì tenere conto dell'esistenza di denunce presentate da operatori
ubicati in altri Stati membri, purché sia accertato che queste ultime sono
reali e non fittizie” (Corte di Giustizia, 06.10.2016, n. 318).
3.3. Le modifiche da apportare al punto 1.5.
Effettuata tale premessa, per la Sezione, il punto 1.5 dello schema di linee
guida deve essere modificato per:
a) chiarire meglio che il luogo in cui si trova la stazione appaltante può
avere rilievo ai fini della sussunzione dell’appalto tra quelli di interesse
transfrontaliero, come già specificato dalla sentenza della Corte di
Giustizia 15.05.2008, C. 147/06;
b) per specificare in modo netto quali regole si applicano, una volta
definito l’appalto sotto-soglia come di interesse transfrontaliero.
Il punto 1.5. va, dunque, così modificato: «Le stazioni appaltanti
verificano se per un appalto o una concessione di dimensioni inferiori alle
soglie di cui all’articolo 35 del Codice dei contratti pubblici vi sia un
interesse transfrontaliero certo in conformità ai criteri elaborati dalla
Corte di Giustizia. Tale condizione non può essere ricavata, in via
ipotetica, da taluni elementi che, considerati in astratto, potrebbero
costituire indizi in tal senso, ma deve risultare in modo chiaro da una
valutazione concreta delle circostanze dell’appalto in questione quali, a
titolo esemplificativo, l’importo dell’appalto, in combinazione con il luogo
di esecuzione dei lavori o, ancora, le caratteristiche tecniche dell’appalto
e le caratteristiche specifiche dei prodotti in causa, tenendo anche conto,
eventualmente, dell’esistenza di denunce (reali e non fittizie) presentate
da operatori ubicati in altri Stati membri (si veda la Comunicazione della
Commissione Europea 2006/C 179/02, relativa al diritto comunitario
applicabile alle aggiudicazioni di appalti non o solo parzialmente
disciplinate dalle direttive «appalti pubblici»). Possono essere
considerati, al riguardo, anche precedenti affidamenti con oggetto analogo
realizzati da parte della stazione appaltante o altre stazioni appaltanti di
riferimento. È necessario tenere conto del fatto che, in alcuni casi, le
frontiere attraversano centri urbani situati sul territorio di Stati membri
diversi e che, in tali circostanze, anche appalti di valore esiguo possono
presentare un interesse transfrontaliero certo. Per l’affidamento di appalti
e concessioni di interesse transfrontaliero certo le stazioni appaltanti
adottano le procedure di aggiudicazione adeguate e utilizzano mezzi di
pubblicità atti a garantire in maniera effettiva ed efficace l’apertura del
mercato alle imprese estere nonché il rispetto delle norme fondamentali e
dei principi generali del Trattato e in particolare il principi di parità di
trattamento e il principio di non discriminazione in base alla nazionalità oltre
che l'obbligo di trasparenza che ne deriva».
4. La disciplina delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale
del contributo.
4.1. Premessa. Come prima riferito, a seguito dell’avvio della procedura di
infrazione in sede europea, si è resa necessaria la modifica della
disciplina relativa al compimento delle opere di urbanizzazione a scomputo
totale o parziale del contributo.
Sulle opere di urbanizzazione a scomputo, la commissione speciale, con
parere 24.12.2018 n. 2942, reso all’adunanza del 03.12.2018
sempre su richiesta dell’ANAC, ha affermato che “l'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 -a mente del quale "nell'ambito degli
strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché
degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale,
l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma
7 (del medesimo art. 16, n.d.rr.), di importo inferiore alla soglia di cui
all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del
territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova
applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163"- contiene una
evidente (ed eccezionale) deroga normativa all'applicazione delle
disposizioni codicistiche in materia di affidamento di commesse pubbliche
laddove l'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria (purché realizzate
"Nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque
denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento
urbanistico generale, (...) funzionali all'intervento di trasformazione
urbanistica del territorio, (...)") sia attuata direttamente dal titolare
dell'abilitazione a costruire e l'importo delle stesse sia inferiore alle
soglie di rilevanza comunitaria;
- giova precisare che per “opere funzionali” si intendono le opere di
urbanizzazione primaria (ad es., fogne, strade e tutte gli ulteriori
interventi elencati, in via esemplificativa, dall’articolo 16, comma 7,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380) la cui realizzazione è diretta in via
esclusiva al servizio della lottizzazione ovvero della realizzazione
dell’opera edilizia di cui al titolo abilitativo a costruire (quest’ultimo
nelle varie articolazioni previste dalle leggi, anche non nazionali) e,
comunque, solo quelle assegnate alla realizzazione a carico del destinatario
del titolo abilitativo a costruire e da quest’ultimo specificate;
- fermo quanto sopra si presenta necessario ribadire, ancora una volta, che
il calcolo complessivo delle opere di urbanizzazione, intesa nella sua
interezza, è dato dalla somma di tutte le opere di urbanizzazione che il
privato deve realizzare a scomputo, funzionali e non. Tale operazione,
avente dunque ad oggetto la definizione dell’importo complessivo al quale
ammonta la realizzazione delle opere di urbanizzazione, deve essere
effettuata prima di ogni ulteriore valutazione circa la possibilità di
applicazione della deroga di cui all'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380
del 2001, giacché l’operatività di quest’ultima resta direttamente
condizionata dall’esito dell’accertamento in ordine al calcolo complessivo
delle opere di urbanizzazione da realizzarsi;
- se il valore complessivo di tali opere –qualunque esse siano– non
raggiunge la soglia comunitaria, calcolata ai sensi dell’articolo 35, comma
9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, solo allora il privato potrà avvalersi
della deroga di cui all’articolo 16, comma 2 bis, d.P.R. n. 380 del 2001 ed
esclusivamente per quelle funzionali;
- al contrario, qualora il valore complessivo di tali opere superi la soglia
comunitaria, il privato sarà tenuto al rispetto delle regole di cui al
Codice di contratti pubblici sia per le opere funzionali che per quelle non
funzionali;
- in termini ancora più semplici si deve ribadire l’iter logico già seguito
nel parere n. 361 del 2018 di questo Consiglio, vale a dire che l’insieme
delle opere di urbanizzazione il cui onere è accollato al titolare del
permesso di costruire come scomputo degli oneri di urbanizzazione, deve
essere considerato nel suo insieme come se fosse un'unica opera pubblica da
realizzarsi contestualmente, sia pure costituita da diverse tipologie (opere
di urbanizzazione primaria, primaria funzionali, secondaria) le quali,
ciascuna per sé, possono essere considerate come singoli lotti in relazione
alla loro singola natura (fogne, strade, illuminazione etc.). Ne consegue
che, per valutare se questo complessivo appalto virtualmente unitario,
composto da più opere disomogenee, superi o meno la soglia comunitaria, in
applicazione dell’art. 35, comma 9, del Codice occorre sommare il valore di
ciascuna di esse. Ciò refluisce, per altro, sulla soluzione al secondo
quesito posto dall’Anac di cui più avanti.
- tale essendo l’iter argomentativo del sottopunto 2.2 inserito nel punto 2
delle Linee guida n. 4 del 2018, per come redatto dall’Anac in seguito al
parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato n. 361 del 2018,
spetterà alla predetta Autorità, sfuggendo tale compito ai poteri di questa
Commissione speciale, valutare se si renda indispensabile o meno esternare
tali motivazioni in seno alle Linee guida già approvate e quale sia la
procedura corretta per effettuare tale integrazione”.
Sempre nel parere innanzi citato, la commissione speciale, su specifico
quesito posto dall’Autorità, ha precisato che “il coacervo delle opere di
urbanizzazione a scomputo addossate al titolare del permesso di costruire
deve essere considerato, agli effetti del calcolo delle soglie, come una
unica “opera prevista” oggetto di un unico appalto. Si è già precisato che
se la sommatoria di tale coacervo supera la soglia europea tutte le opere
dovranno essere assoggettate al codice.
Si rende tuttavia applicabile in questo caso anche l’art. 35, comma 11, del
Codice, il quale, in diretta, letterale e pedissequa applicazione dell’art.
5, par. 10 della direttiva 2014/24/UE, stabilisce che, in via di eccezione,
quando un’opera prevista può dar luogo ad appalti aggiudicati per lotti
separati, e quand’anche il valore complessivo stimato della totalità dei
lotti di cui essa si compone sia superiore alla soglia, ciò non ostante ai
lotti frazionati in questione non si applica la direttiva, e dunque possono
essere aggiudicati senza le procedure in essa previste come obbligatorie.
Ciò può avvenire però a due condizione 1. Che, i lotti in cui è stata
frazionata l’”opera prevista” siano ciascuno inferiore a € 1.000.000,00¸ 2.
Che la somma di tali lotti non superi il 20 per cento della somma di tutti i
lotti in cui l’opera prevista è stata frazionata. In questo caso per “opera
prevista” si deve intendere, appunto, il coacervo delle opere di
urbanizzazione addossate al titolare del permesso.
In questo senso, potendosi su tale aspetto concordare con quanto suggerito
dall’Anac nel quesito qui in esame, applicando l'articolo 35, comma 11, del
Codice e sussistendo le relative condizioni, sarebbe possibile scorporare il
lotto relativo alle opere di urbanizzazione primaria funzionali, affidandolo
in via diretta ai sensi dell'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del
2001, anche se il valore complessivo dell'opera fosse di rilevanza
comunitaria, a condizione che esso fosse di valore inferiore a €
1.000.000,00, e non superasse il venti per cento di tutte le opere a
scomputo addossate al titolare”.
4.2. Le modifiche da apportare. Alla luce della predetta ricostruzione, e
considerato quanto riferito dall’ANAC con la richiesta di parere, la Sezione
reputa che il punto 2.2 dello schema di linee guida sottoposto a parere,
debba essere modificato per:
a) chiarirne meglio l’ambito applicativo, coordinando le
disposizione del Codice dei Contratti con quelle del testo unico edilizia (d.P.R.
380/2001);
b) specificare il concetto di opere funzionali;
c) specificare che le opere di urbanizzazione possono riguardare
anche i permessi convenzionati (articolo 28-bis d.P.R. 380/2001) e le
convenzioni di lottizzazione (articolo 28 l.urb.);
d) coordinare l’articolo 16 TUE con l’articolo 36, comma 4, Codice;
e) eliminare “medesimo intervento” perché creerebbe il rischio di
una lettura elusiva.
Per tale ragione, la Sezione propone la modifica del punto 2.2. dello schema
di linee guida nei seguenti termini: "Per le opere di urbanizzazione a
scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del
permesso di costruire, nel calcolo del valore stimato devono essere
cumulativamente considerati tutti i lavori di urbanizzazione primaria e
secondaria anche se appartenenti a diversi lotti, connessi ai lavori oggetto
di permesso di costruire, permesso di costruire convenzionato (articolo 28-bis d.P.R.
06.06.2001 n. 380) o convenzione di lottizzazione (articolo 28
l. 17.08.1942 n. 1150) o altri strumenti urbanistici attuativi.
Quanto
disposto dall’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 36,
comma 4, Codice dei contratti pubblici si applica unicamente quando il
valore di tutte le opere di urbanizzazione, calcolato ai sensi dell’articolo
35, comma 9, Codice dei contratti pubblici, non raggiunge le soglie di
rilevanza comunitaria. Per l’effetto: se il valore complessivo delle opere
di urbanizzazione a scomputo –qualunque esse siano– non raggiunge la
soglia comunitaria, calcolata ai sensi dell’articolo 35, comma 9, Codice dei
contratti pubblici, il privato potrà avvalersi della deroga di cui
all’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, esclusivamente
per le opere funzionali; al contrario, qualora il valore complessivo di
tutte le opere superi la soglia comunitaria, il privato sarà tenuto al
rispetto delle regole di cui al Codice di contratti pubblici sia per le
opere funzionali che per quelle non funzionali.
Per opere funzionali si intendono le opere di urbanizzazione primaria (ad
es. fogne, strade, e tutti gli ulteriori interventi elencati in via
esemplificativa dall’articolo 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) la
cui realizzazione è diretta in via esclusiva al servizio della lottizzazione
ovvero della realizzazione dell’opera edilizia di cui al titolo abilitativo
a costruire e, comunque, quelle assegnate alla realizzazione a carico del
destinatario del titolo abilitativo a costruire”.
5. Le ulteriori modifiche alle linee guida. Lo schema di linee guida
trasmesso dall’Autorità prevede la modifica del punto 5.1 per adeguare le
predette linee guida a quanto stabilito dall’articolo 1, comma 912, l.
145/2018 e del punto 3.7 per innalzare da € 1.000 ad € 5.000 l’importo degli
affidamenti per i quali è consentito derogare al principio di rotazione con
scelta sinteticamente motivata contenuta nella determina a contrarre o in
atto equivalente.
In relazione alla modifica del punto 5.1 dello schema di linee guida, la
Sezione reputa di non poter esprimere parere in considerazione del fatto che
la disciplina è stata modificata dal d.l. 18.04.2019 n. 32.
Reputa, invece, di poter condividere l’innalzamento della soglia entro la
quale è possibile, con scelta motivata, derogare al principio di rotazione.
P.Q.M.
nelle suesposte considerazione è il parere della Sezione (Consiglio
di Stato, Sez. consultiva,
parere 30.04.2019 n. 1312 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il Consiglio di Stato tratteggia gli elementi caratterizzanti l'accesso
civico generalizzato rispetto all'accesso documentale.
Nell'ordinamento attuale, che prevede due canali di accesso agli atti
e ai documenti di una P.A., il primo istituzionalizzato in via
generale con la L. n. 241 del 1990 e il secondo contenuto del D.Lgs.
n. 33 del 2013, è ammessa una domanda di accesso articolata in formula
cumulativa, quale istanza di accesso civico generalizzato e
alternativamente/subordinatamente di accesso documentale.
Il giudizio avente a oggetto il silenzio-diniego provocato dall'inerzia
dell'amministrazione sull'istanza di accesso ai documenti amministrativi, i
provvedimenti espressi dall'amministrazione medesima aventi contenuto di
diniego ed accoglimento totale o parziale della richiesta ostensiva nonché
di differimento dell'esercizio del relativo diritto, per come emerge dalla
disciplina di cui all'art. 116 c.p.a., anche se si atteggia come
impugnatorio, in realtà consiste nella verifica sostanziale della spettanza
o meno del diritto di accesso.
---------------
In ossequio alla consolidata interpretazione della disciplina sull’accesso
documentale, plasticamente applicabile al nuovo istituto dell’accesso
civico generalizzato, la tutela da parte dell’aspirante accedente nei
confronti del silenzio-rifiuto, del provvedimento espresso di diniego,
totale o parziale e del provvedimento con cui si dispone il differimento,
formatisi o resi dall’amministrazione su una istanza ostensiva, deve essere
esercitata entro e non oltre il termine decadenziale di trenta giorni (ai
sensi dell’art. 116, comma 1, c.p.a.), decorrente dallo spirare del termine
procedimentale di trenta giorni (previsto dall’art. 25, quarto comma, l.
241/1990 per l’accesso documentale e, per l’accesso civico,
dall’art. 5, comma 6, d.lgs. 33/2013), sicché la proposizione della domanda
giudiziale oltre il termine decadenziale di impugnazione del diniego di
accesso civico generalizzato:
1) rende irricevibile il ricorso tardivamente proposto dinanzi al
giudice amministrativo (ovvero nelle sedi giustiziali indicate nell’art. 5,
commi 8 e 9, d.lgs. 33/2013);
2) rende inammissibile la (ri)proposizione di una domanda di
accesso (civico generalizzato) dello stesso tenore di quella fatta oggetto
del silenzio-diniego, del provvedimento espresso di diniego parziale o
totale ovvero del provvedimento di differimento non tempestivamente
impugnati.
---------------
Il giudizio avente ad oggetto il silenzio-diniego provocato dall’inerzia
dell’amministrazione sull’istanza di accesso ai documenti amministrativi, i
provvedimenti espressi dall’amministrazione medesima aventi contenuto di
diniego ed accoglimento totale o parziale della richiesta ostensiva nonché
di differimento dell’esercizio del relativo diritto, per come emerge dalla
disciplina di cui all’art. 116 c.p.a., anche se si atteggia come
impugnatorio, si compendia nella verifica della spettanza o meno del diritto
di accesso, piuttosto che nella verifica della sussistenza o meno di vizi di
legittimità dell'atto amministrativo e quindi è indipendente rispetto alla
mera indagine circa la correttezza o meno delle ragioni addotte
dall'amministrazione per giustificare il diniego o l’accoglimento o che
hanno provocato l’inerzia.
Infatti, il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così
sostituendosi all'amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, se
ne sussistono i presupposti (art. 116, comma 4, c.p.a.).
Il che implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica
motivazione dell'atto amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice
deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo
pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati dal
provvedimento amministrativo ovvero ravvisare motivi ostativi all'accesso
diversi da quelli opposti dall'amministrazione ovvero ancora ritenere
l’accesso giuridicamente possibile.
---------------
Il diverso istituto dell’accesso civico (sia
semplice che generalizzato) è stato interamente costruito sul
principio, di recente introduzione nel nostro ordinamento, della
“accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere
la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e favorire
forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 1, comma 1, d.lgs. 33/2013), ma
tale istituto e gli obiettivi che con esso si propone il legislatore
nazionale di raggiungere non interferiscono con il diverso istituto e la
diversa disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi di cui
alla l. 241/1990, tanto è vero che tale impermeabilità è consacrata da una
disposizione specifica del Codice della trasparenza all’art. 5, comma 11,
d.lgs. 33/2013, nella parte in cui il legislatore puntualizza che “Restano
fermi (…), nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal
Capo V della legge 07.08.1990, n. 241”.
I due istituti vivono e operano in due “compartimenti stagni”
legislativi, mantenendo ciascuno le proprie specifiche regole sia con
riferimento ai presupposti per l’esercizio di ciascun “diritto” sia con
riguardo alla procedura (si pensi, ad esempio, che solo per l’accesso civico
generalizzato è prevista la sospensione, fino ad un massimo di dieci giorni,
del termine procedimentale di trenta, per come stabilito all’art. 5, comma
5, d.lgs. 33/2013, con una disposizione non riprodotta nella l. 241/1990 né
estensibile in altro modo alla procedura di accesso documentale), confluendo
soltanto, come un corpo giuridico unico, nella disciplina processuale di cui
all’art. 116 c.p.a..
Riferito quanto sopra va quindi ribadito che:
- l’art. 24, comma 3, l. 241/1990 opportunamente esclude
dall’accesso le istanze preordinate ad un controllo generalizzato
dell'operato delle pubbliche amministrazioni, tenuto conto che lo strumento
dell’accesso documentale, postulando, a norma dell’art. 22, comma 1, lett.
b), l. 241/1990 “un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale
è chiesto l'accesso” non è dato in funzione della tutela di un interesse
generico e diffuso alla conoscenza degli atti amministrativi, vale a dire a
un controllo generalizzato da parte di chiunque sull'attività
dell'amministrazione, ma alla salvaguardia di singole posizioni
differenziate e qualificate e correlate a specifiche situazioni rilevanti
per la legge, che vanno dimostrate dal richiedente che intende tutelarle.
- il diritto all'accesso postula sempre un accertamento concreto
dell'esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i
documenti, che non si traduce in un potere di controllo generale e
preliminare, espressione di una funzione di vigilanza dell'operato del
gestore di pubblici servizi, ma ne impone l'esercizio al fine di inibire o
sanzionare comportamenti, atti o situazioni effettivamente lesivi degli
interessi rappresentati;
- l'accesso ai documenti è posto come strumento necessario per
verificare la sussistenza di quei presupposti di fatto per l'esercizio di
un'azione in giudizio (ovvero per una diversa cura della stessa, a mente
dell’art. 24, comma 7, primo periodo, l. 241/1990) ai fini della tutela di
situazione giuridiche, individuali o superindividuali, concretamente lese e
rispetto alla quale l'eventualità di una futura azione giudiziale, a
carattere individuale o collettivo, non può invece legittimare, mediante
l'accesso a documenti amministrativi, la ricerca di lacune o di
manchevolezze nell'operato dell’amministrazione, poiché darebbe luogo ad una
richiesta ostensiva meramente esplorativa, anche qualora se ne ipotizzi un
possibile sbocco giudiziario, non consentita dalla chiara formula dell’art.
24, comma 3, l. 241/1990.
---------------
In punto di diritto preme ricordare che, in ossequio alla consolidata
interpretazione della disciplina sull’accesso documentale,
plasticamente applicabile al nuovo istituto dell’accesso civico
generalizzato, la tutela da parte dell’aspirante accedente nei confronti
del silenzio-rifiuto, del provvedimento espresso di diniego, totale o
parziale e del provvedimento con cui si dispone il differimento, formatisi o
resi dall’amministrazione su una istanza ostensiva, deve essere esercitata
entro e non oltre il termine decadenziale di trenta giorni (ai sensi
dell’art. 116, comma 1, c.p.a.), decorrente dallo spirare del termine
procedimentale di trenta giorni (previsto dall’art. 25, quarto comma, l.
241/1990 per l’accesso documentale e, per l’accesso civico,
dall’art. 5, comma 6, d.lgs. 33/2013), sicché la proposizione della domanda
giudiziale oltre il termine decadenziale di impugnazione del diniego di
accesso civico generalizzato (tenendo conto della impostazione
interpretativa riferita all’accesso documentale, cfr. Cons. Stato,
Ad. pl., 18.04.2006 n. 6 e 20.04.2006 n. 7, perfettamente applicabile anche
alla simmetrica disciplina processuale riferita dal legislatore all’accesso
civico generalizzato nella comune applicazione dell’art. 116 c.p.a.):
1) rende irricevibile il ricorso tardivamente proposto dinanzi al
giudice amministrativo (ovvero nelle sedi giustiziali indicate nell’art. 5,
commi 8 e 9, d.lgs. 33/2013);
2) rende inammissibile la (ri)proposizione di una domanda di
accesso (civico generalizzato) dello stesso tenore di quella fatta oggetto
del silenzio-diniego, del provvedimento espresso di diniego parziale o
totale ovvero del provvedimento di differimento non tempestivamente
impugnati.
...
Ad avviso del Collegio si presenta questo il momento in cui è
necessario rammentare che, per costante giurisprudenza di questo Consiglio,
il giudizio avente ad oggetto il silenzio-diniego provocato dall’inerzia
dell’amministrazione sull’istanza di accesso ai documenti amministrativi, i
provvedimenti espressi dall’amministrazione medesima aventi contenuto di
diniego ed accoglimento totale o parziale della richiesta ostensiva nonché
di differimento dell’esercizio del relativo diritto, per come emerge dalla
disciplina di cui all’art. 116 c.p.a., anche se si atteggia come
impugnatorio, si compendia nella verifica della spettanza o meno del diritto
di accesso, piuttosto che nella verifica della sussistenza o meno di vizi di
legittimità dell'atto amministrativo e quindi è indipendente rispetto alla
mera indagine circa la correttezza o meno delle ragioni addotte
dall'amministrazione per giustificare il diniego o l’accoglimento o che
hanno provocato l’inerzia.
Infatti, il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così
sostituendosi all'amministrazione e ordinandole un facere
pubblicistico, se ne sussistono i presupposti (art. 116, comma 4, c.p.a.).
Il che implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica
motivazione dell'atto amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice
deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo
pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati dal
provvedimento amministrativo ovvero ravvisare motivi ostativi all'accesso
diversi da quelli opposti dall'amministrazione ovvero ancora ritenere
l’accesso giuridicamente possibile (cfr., ex multis, Cons. Stato,
Sez. III, 05.03.2018 n. 1396, Sez. VI 19.01.2012 n. 201 e 12.01.2011 n.
117).
...
Sul punto va precisato che il diverso istituto dell’accesso civico
(sia semplice che generalizzato) è stato interamente costruito
sul principio, di recente introduzione nel nostro ordinamento, della “accessibilità
totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo
scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione
degli interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo
delle risorse pubbliche” (art. 1, comma 1, d.lgs. 33/2013), ma tale
istituto e gli obiettivi che con esso si propone il legislatore nazionale di
raggiungere non interferiscono con il diverso istituto e la diversa
disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi di cui alla l.
241/1990, tanto è vero che tale impermeabilità è consacrata da una
disposizione specifica del Codice della trasparenza all’art. 5, comma 11,
d.lgs. 33/2013, nella parte in cui il legislatore puntualizza che “Restano
fermi (…), nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal
Capo V della legge 07.08.1990, n. 241”.
I due istituti vivono e operano in due “compartimenti stagni”
legislativi, mantenendo ciascuno le proprie specifiche regole sia con
riferimento ai presupposti per l’esercizio di ciascun “diritto” sia
con riguardo alla procedura (si pensi, ad esempio, che solo per l’accesso
civico generalizzato è prevista la sospensione, fino ad un massimo di dieci
giorni, del termine procedimentale di trenta, per come stabilito all’art. 5,
comma 5, d.lgs. 33/2013, con una disposizione non riprodotta nella l.
241/1990 né estensibile in altro modo alla procedura di accesso
documentale), confluendo soltanto, come un corpo giuridico unico, nella
disciplina processuale di cui all’art. 116 c.p.a..
Riferito quanto sopra va quindi ribadito che:
- l’art. 24, comma 3, l. 241/1990 opportunamente esclude
dall’accesso le istanze preordinate ad un controllo generalizzato
dell'operato delle pubbliche amministrazioni, tenuto conto che lo strumento
dell’accesso documentale, postulando, a norma dell’art. 22, comma 1, lett.
b), l. 241/1990 “un interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso” non è dato in funzione della
tutela di un interesse generico e diffuso alla conoscenza degli atti
amministrativi, vale a dire a un controllo generalizzato da parte di
chiunque sull'attività dell'amministrazione, ma alla salvaguardia di singole
posizioni differenziate e qualificate e correlate a specifiche situazioni
rilevanti per la legge, che vanno dimostrate dal richiedente che intende
tutelarle (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23.05.2017, n. 2415 e 15.06.2011 n.
3650).
- il diritto all'accesso postula sempre un accertamento concreto
dell'esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i
documenti, che non si traduce in un potere di controllo generale e
preliminare, espressione di una funzione di vigilanza dell'operato del
gestore di pubblici servizi, ma ne impone l'esercizio al fine di inibire o
sanzionare comportamenti, atti o situazioni effettivamente lesivi degli
interessi rappresentati (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 04.12.2017 n. 5643 e
Sez. IV, 06.10.2015 n. 4644);
- l'accesso ai documenti è posto come strumento necessario per
verificare la sussistenza di quei presupposti di fatto per l'esercizio di
un'azione in giudizio (ovvero per una diversa cura della stessa, a mente
dell’art. 24, comma 7, primo periodo, l. 241/1990) ai fini della tutela di
situazione giuridiche, individuali o superindividuali, concretamente lese e
rispetto alla quale l'eventualità di una futura azione giudiziale, a
carattere individuale o collettivo, non può invece legittimare, mediante
l'accesso a documenti amministrativi, la ricerca di lacune o di
manchevolezze nell'operato dell’amministrazione, poiché darebbe luogo ad una
richiesta ostensiva meramente esplorativa, anche qualora se ne ipotizzi un
possibile sbocco giudiziario, non consentita dalla chiara formula dell’art.
24, comma 3, l. 241/1990 (cfr., ancora sul punto, Cons. Stato, Sez. V,
05.04.2018 n. 2105)
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.04.2019 n. 2737 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' noto come l’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n.
380 preveda che “nel permesso di costruire sono indicati i
termini di inizio e di ultimazione dei lavori” e che “il
termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad
un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione,
entro il quale l'opera deve essere completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita” tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga;
E' altresì noto come, secondo l’orientamento prevalente
nella giurisprudenza amministrativa, la decadenza del
permesso di costruire per inutile decorrenza dei su indicati
termini opera di diritto in conseguenza dell’inutile decorso
del tempo, e non dipende da un atto amministrativo, che ove
intervenga assume comunque carattere meramente dichiarativo,
e ciò al fine di non far conseguire la decadenza ad un
comportamento dell’Amministrazione, con possibili disparità
di trattamento tra situazioni identiche.
---------------
Se è indubitabile che la proroga del citato termine annuale
ben possa essere accordata, con provvedimento motivato, per
fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del
permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando
si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia
previsto in più esercizi finanziari, è altresì indubitabile
che la richiesta di proroga debba essere in ogni caso
presentata prima della decorrenza del termine ultimo
previsto nel titolo edilizio e ciò proprio in virtù del
fatto che la decadenza del permesso di costruire costituisce
un effetto automatico del trascorrere del tempo, la
pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha mera
natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso
a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione,
oltre che un carattere strettamente vincolato
all'accertamento del mancato inizio e completamento dei
lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15 D.P.R.
380/2001 citato.
---------------
Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è
infondato nel merito e va pertanto rigettato.
Ed invero, è noto come l’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n.
380 preveda che “nel permesso di costruire sono indicati
i termini di inizio e di ultimazione dei lavori” e che “il
termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad
un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione,
entro il quale l'opera deve essere completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita” tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga; è altresì noto come, secondo
l’orientamento prevalente nella giurisprudenza
amministrativa, la decadenza del permesso di costruire per
inutile decorrenza dei su indicati termini opera di diritto
in conseguenza dell’inutile decorso del tempo, e non dipende
da un atto amministrativo, che ove intervenga assume
comunque carattere meramente dichiarativo, e ciò al fine di
non far conseguire la decadenza ad un comportamento
dell’Amministrazione, con possibili disparità di trattamento
tra situazioni identiche (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV,
18.05.2012, n. 2915, Consiglio di Stato, Sez. IV,
15.04.2016, n. 1520; Consiglio di Stato, Sez. IV,
11.04.2014, n. 1747).
Tanto premesso, il Tribunale evidenzia come risulti
infondato in primo luogo il primo motivo di gravame
articolato dal ricorrente nella spiegata impugnazione, con
cui quest’ultimo si duole, in buona sostanza, che l’atto
impugnato sarebbe affetto da un’istruttoria carente e dal
mancato rispetto dei principi di proporzionalità e
razionalità che dovrebbero caratterizzare l’agere
della pubblica amministrazione.
Al riguardo, il Collegio si limita ad evidenziare come le
pur valide ragioni addotte dal ricorrente, tuttavia solo in
data 29.01.2015, per giustificare la richiesta di
sospensione del procedimento di declaratoria di decadenza
del permesso di costruire, ben avrebbero potuto e dovuto
essere rappresentate all’Amministrazione Comunale resistente
prima del decorso del termine annuale per l’inizio dei
lavori di cui al permesso a costruire n. 152/2012 del
15.11.2012, non interrotto dalla comunicazione di inizio
lavori effettuata dal ricorrente in data 15.07.2013, in
quanto ritenuta dall’Amministrazione Comunale resistente
sfornita della necessaria documentazione per potere
intraprendere gli annunciati lavori; ciò in quanto, se è
indubitabile che la proroga del citato termine annuale ben
possa essere accordata, con provvedimento motivato, per
fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del
permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando
si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia
previsto in più esercizi finanziari (cfr. ex multis
TAR Puglia Lecce, sez. I, 10/04/2018, n. 603, TAR Lombardia
Milano, sez. II, 07/11/2018, n. 2522), è altresì
indubitabile che la richiesta di proroga debba essere in
ogni caso presentata prima della decorrenza del termine
ultimo previsto nel titolo edilizio (cfr. TAR Abruzzo
Pescara, sez. I, 05/11/2018, n. 333, Consiglio di Stato sez.
IV, 26/04/2018, n. 2508, TAR Valle d'Aosta, 18/04/2018, n.
26) e ciò proprio in virtù del fatto che la decadenza del
permesso di costruire costituisce un effetto automatico del
trascorrere del tempo, la pronunzia di decadenza del
permesso a costruire ha mera natura ricognitiva del venir
meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia
del titolare a darvi attuazione, oltre che un carattere
strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art.
15 D.P.R. 380/2001 citato.
Da quanto sin qui osservato consegue altresì il rigetto
anche del secondo motivo di impugnazione articolato
dal ricorrente nella spiegata impugnazione, considerato che
la decadenza del permesso di costruire è stata comminata per
inutile decorrenza del termine annuale di inizio lavori e
non per quello finale di ultimazione degli stessi e che, se
indubbiamente la proposizione di un’azione ex art. 700
c.p.c. per superare la dedotta condotta ostruzionistica dei
vicini può in astratto giustificare una richiesta di proroga
dei termini del permesso di costruire, è altrettanto
indubitabile che, in ogni caso, detta proroga debba essere
richiesta prima del decorso dei citati termini di cui
all’art. 15 D.P.R. 380/2001 citato.
Conclusivamente, per le ragioni sopra sinteticamente
indicate, lo spiegato ricorso è infondato nel merito e va
pertanto respinto mentre sussistono i presupposti di legge,
in considerazione della complessità e di taluni aspetti di
assoluta novità dell’oggetto del giudizio, per dichiarare
integralmente compensate tra le parti le spese di lite (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.04.2019 n. 2276 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Decalogo del Consiglio di Stato per la corretta gestione dei
concorsi pubblici.
Requisito di esperto per i commissari; utilizzo di penne di colore diverso;
presenza di cancellature negli elaborati; quote rosa; mancanza
dell'indicazione dell'ora di chiusura delle operazioni; incompatibilità tra
esaminatore e concorrente.
Sono le questioni affrontate dalla III Sez. del Consiglio di Stato che, con
la
sentenza 29.04.2019 n. 2775 propone una sorta di decalogo sui
concorsi pubblici.
Le ragioni dei ricorrenti
La terza sezione ha esaminato la sentenza con cui il Tar Lazio ha respinto
il ricorso volto a ottenere l'annullamento di un concorso per posti di
dirigente di ragioneria.
I ricorrenti avevano prospettato una nutrita serie di censure: due
commissari nominati quali esperti nelle materie oggetto di concorso non
potevano ritenersi tali; numerosi elaborati dei vincitori o idonei erano
contrassegnati da inequivoci segni di riconoscimento dovuti all'utilizzo di
penne con colori diversi e atipiche cancellature; omesso rispetto della
parità di genere; insufficienza del solo punteggio numerico; omessa
indicazione dell'orario di chiusura delle operazioni di correzione degli
elaborati; omessa collegialità nella conduzione delle prove orali; non
rinvenibilità del verbale di chiusura delle operazioni concorsuali;
violazione dell'obbligo di astensione di due commissari che avevano
direttamente collaborato con candidati poi risultati vincitori.
Gli appellanti, inoltre, hanno riproposto la domanda di risarcimento del
danno a titolo di perdita di chances, commisurata al rapporto tra i
posti disponibili e i concorrenti, da applicare alla retribuzione prevista
per la fascia dirigenziale per tutta la durata del rapporto di lavoro.
Esperti e anonimato
Nessuna delle doglianze è stata accolta dalla terza sezione del Consiglio di
Stato che ha dichiarato inammissibili i motivi aggiunti e respinto
l'appello. Circa il requisito di esperto nelle materie oggetto di concorso,
i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che la nomina a componente della
commissione «non richiede il possesso di particolari titoli di studio, ma
implica una valutazione discrezionale basata sulla considerazione della
pregressa esperienza in relazione al contenuto delle prove previste».
Dunque non vi è un rigido riferimento a specifiche categorie professionali,
anche per evitare paralisi dell'attività a causa di eventuali carenze di
personale disponibile.
Circa l'anonimato dei compiti scritti, l'utilizzo di penne con colori
diversi e la presenza di cancellature, per poter essere considerati segno di
identificazione «devono risultare oggettivamente anomali ed estranei al
contesto proprio dell'elaborato – altrimenti, qualsivoglia scritto aggiunto
ovvero alterato, apposto nell'elaborato, dovrebbe ritenersi sufficiente ad
identificarne l'autore». Tanto più che il cambio della penna capita di
frequente e gli sbarramenti di parti del testo sono i modi con cui si
procede alle cancellature.
Quote rosa e giudizi
La sezione ha esaminato poi la questione delle «quote rosa» imposte
dell'articolo 3, comma 3, del Dpcm 439/1994, il regolamento di accesso alla
qualifica di dirigente, vincolo che, in primo luogo, può essere rispettato
solo qualora vi siano componenti femminili in possesso dei previsti
requisiti di esperienza; in secondo, la giurisprudenza si è ormai attestata
nel ritenere che l'inosservanza del requisito può inficiare il concorso solo
qualora sia dimostrato, o quanto meno possa supporsi, che la commissione
abbia assunto una reale condotta discriminatoria.
Anche sul voto numerico la giurisprudenza si è consolidata nel ritenere che
sia sufficiente a esprimere il giudizio tecnico discrezionale della
commissione, contenendo in sé stesso la motivazione, senza bisogno di
ulteriori spiegazioni, tutte le volte in cui la commissione stessa abbia
prefissato i criteri di valutazione.
La mancata indicazione dell'ora di chiusura nel verbale costituisce mera
irregolarità non viziante, posto che è analiticamente descritto l'intero
iter procedimentale; così come la non rinvenibilità del verbale di chiusura
delle operazioni concorsuali e degli elaborati di alcuni concorrenti, fatto
deprecabile ma che non può di per sé invalidare il concorso.
L'incompatibilità
L'ultimo aspetto riguarda la collaborazione tra alcuni dei vincitori e due
commissari interni. Secondo il Consiglio di Stato una simile evenienza è «praticamente
inevitabile, tutte le volte che i concorrenti siano già in servizio presso
l'Amministrazione che bandisce il concorso e i commissari siano dirigenti
della stessa».
L'obbligo di astensione scatta solo se ricorrono le condizioni
tassativamente previste dall'articolo 51 del codice di procedura civile,
senza possibilità di estensione analogica. L'incompatibilità implica
l'esistenza di una comunanza di interessi economici o di vita ovvero la
sussistenza di un potenziale conflitto di interessi per una causa pendente
tra le parti, o la sussistenza di grave inimicizia tra di esse.
Il criterio fissato dalla terza sezione è che, in presenza di candidati
interni, ciò che deve orientare la condotta dei commissari ai fini del
rispetto dell'obbligo di astensione è l'esistenza di pregressi rapporti di
collaborazione basata su scelte fiduciarie o di carattere personale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.05.2019).
----------------
MASSIMA
6.1. Va anzitutto sottolineato che il requisito di “esperto nelle
materie oggetto di concorso”, necessario per essere nominato componente
della commissione, non richiede il possesso di particolari titoli di studio,
ma implica una valutazione discrezionale basata sulla considerazione della
pregressa esperienza in relazione al contenuto delle prove previste.
E’ stato condivisibilmente affermato che la scelta di prevedere anche gli
esperti è imposta da ragioni di prudenza ed efficienza dell'azione
amministrativa che consigliano di prescindere se del caso -per evitare
paralisi dell'attività in presenza di eventuali carenze di personale
disponibile nelle categorie predeterminate in modo specifico (dirigenti e
professori)- dal rigido riferimento a specifiche categorie professionali,
menzionando una categoria generale di esperti compulsabili per fare i
componenti, come clausola di sicurezza volta a conferire certezza
applicativa alla disposizione così assicurando la più facile costituzione
delle commissioni (cfr. Cons. Stato, VI, n. 5325/2006).
In questa prospettiva, non è stato messo in discussione che i due commissari
su indicati, entrambi dirigenti di ragioneria, avessero maturato,
nell’ambito dell’Amministrazione dell’Interno ed in relazione ai particolari
posti messi a concorso, una significativa e pluriennale esperienza nella
direzione di uffici contabili.
6.2. La censura relativa al difetto di anonimato dei compiti scritti
evidenzia circostanze che non sono idonee a far ritenere superata la soglia
di rilevanza necessaria.
L’utilizzo di penne con colori diversi, ovvero le cancellature
sull’elaborato, per poter essere considerati segno di identificazione del
candidato, devono risultare oggettivamente anomali ed estranei al contesto
proprio dell’elaborato – altrimenti, qualsivoglia scritto aggiunto ovvero
alterato, apposto nell’elaborato, dovrebbe ritenersi sufficiente ad
identificarne l’autore.
Per esperienza comune, il cambio di colore della penna è accadimento che può
capitare di frequente, e gli sbarramenti di parti del testo trasversali o ad
andamento sinusoidale sono i modi con cui si procede alle cancellature, in
assenza di una diversa regola prefissata ed imposta nello svolgimento della
prova.
Non vi è pertanto il presupposto di fatto per poter applicare al concorso in
esame il principio di rilevanza (presuntiva) dell’inosservanza da parte
della commissione di concorso di cautele ed accorgimenti posti a garanzia
dell’anonimato, affermato dalla Adunanza Plenaria n. 26/2013 - peraltro, in
quel caso ritenuta viziante in una situazione ben diversa, posto che, dopo
la conclusione della procedura, la commissione si era trovata in possesso di
un elenco alfabetico in cui al codice (segreto) contrassegnante l'elaborato
era inequivocabilmente associato il nome del candidato.
6.3. Il Collegio osserva che, ai sensi dell’art. 3 del d.P.C.M. 439/1994,
almeno un terzo dei posti è riservato alle donne “salva motivata
impossibilità” e “purché in possesso dei requisiti”, e che, come
sottolineato dal TAR, in primo grado la difesa dell’Amministrazione aveva
argomentato circa la impossibilità di nominare un componente femminile in
possesso dei previsti requisiti di esperienza.
Senza contare che l’inosservanza del previsto requisito di genere può
inficiare il concorso qualora sia dimostrato, o quanto meno possa supporsi
che la commissione abbia assunto una reale condotta discriminatoria (cfr.
Cons. Stato, VI, n. 7962/2006, n. 2217/2012, n. 703/2015); ma, al riguardo,
gli appellanti nulla hanno specificamente dedotto, e, comunque, l’attività
della Commissione che ha condotto al non superamento delle prove scritte da
parte degli appellanti, per quanto esposto, deve ritenersi svolta nel
rispetto dell’anonimato.
6.4. La Commissione di concorso ha esplicitato i criteri di attribuzione del
punteggio nel verbale in data 07.09.1999.
Ciò premesso, è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questo
Consiglio (cfr., da ultimo, Cons. Stato, IV, n. 4745/2018), secondo la quale
il voto numerico, in mancanza di una contraria disposizione, esprime e
sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione di concorso,
contenendo in sé stesso la motivazione, senza bisogno di ulteriori
spiegazioni, quale principio di economicità amministrativa di valutazione,
assicura la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute
dalla commissione nell'ambito del punteggio disponibile e del potere
amministrativo da essa esercitato e la significatività delle espressioni
numeriche del voto, sotto il profilo della sufficienza motivazionale in
relazione alla prefissazione, da parte della stessa commissione
esaminatrice, di criteri di massima di valutazione che soprassiedono
all'attribuzione del voto, da cui desumere con evidenza, la graduazione e
l'omogeneità delle valutazioni effettuate mediante l'espressione della cifra
del voto, con il solo limite della contraddizione manifesta tra specifici
elementi di fatto obiettivi, i criteri di massima prestabiliti e la
conseguente attribuzione del voto.
Inoltre, ai fini della verifica di
legittimità dei verbali di correzione e dei conseguenti giudizi non occorre
l'apposizione di glosse, segni grafici o indicazioni di qualsivoglia tipo
sugli elaborati in relazione a eventuali errori commessi. In definitiva,
solo se mancano criteri di massima e precisi parametri di riferimento cui
raccordare il punteggio assegnato, si può ritenere illegittima la
valutazione dei titoli in forma numerica (così, da ultimo, la decisione
dell’Adunanza plenaria n. 7/2017).
6.5. L’asserita mancata indicazione dell’ora di chiusura nel verbale
costituisce mera irregolarità non viziante, posto che, come affermato dal
TAR, occorre applicare il principio della strumentalità delle forme secondo
cui il raggiungimento dello scopo segna il discrimine tra mera irregolarità
ed invalidità ad effetto viziante: poiché nei verbali è analiticamente
descritto l’intero iter procedimentale, la mancata indicazione dell’ora di
chiusura del verbale, in sé, non comporta alcun pregiudizio delle operazioni
che la commissione attesta aver svolto.
6.6. Quanto al difetto di collegialità della commissione in occasione della
prova orale, è evidente la mancanza di interesse in capo agli appellanti, in
quanto esclusi da detta prova.
6.7. La non rinvenibilità, verificata in esito ad accesso, del verbale della
Commissione di chiusura delle operazioni concorsuali e degli elaborati di
ben sedici concorrenti, tra cui dieci vincitori e sei non vincitori, è
certamente un fatto deprecabile (e meritevole di essere approfondito in
altra sede), che tuttavia non può di per sé comportare l’invalidazione del
concorso.
6.8. Infine, riguardo alla circostanza che alcuni dei vincitori avessero
collaborato direttamente con i due commissari “interni”, deve rilevarsi come
una simile evenienza sia praticamente inevitabile, tutte le volte che i
concorrenti siano già in servizio presso l’Amministrazione che bandisce il
concorso e i commissari siano dirigenti della stessa.
Nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno
l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle
condizioni tassativamente previste dall’art. 51, c.p.c., senza che le cause
di incompatibilità possano essere oggetto di estensione analogica (cfr.
Cons. Stato, V, n. 3956/2014).
L'incompatibilità tra esaminatore e
concorrente implica quindi o l’esistenza di una comunanza di interessi
economici o di vita -di intensità tale da far ingenerare il sospetto che il
candidato sia giudicato non in base alle risultanze oggettive della
procedura, ma in virtù della conoscenza personale con l'esaminatore (cfr.
Cons. Stato, VI, n. 1057/2015) ed idonea a far insorgere un sospetto
consistente di violazione dei principi di imparzialità, di trasparenza e di
parità di trattamento (comunque inquadrabile nell'art. 51, comma 2, c.p.c.)- ovvero la sussistenza di un potenziale conflitto di interessi per
l’esistenza di una causa pendente tra le parti, o la sussistenza di grave
inimicizia tra di esse.
In definitiva, in presenza di candidati interni all’Amministrazione presso
cui prestano servizio, ciò che deve orientare la condotta dei commissari ai
fini del rispetto dell’obbligo di astensione, è l’esistenza di pregressi
rapporti di collaborazione basata su scelte fiduciarie, ovvero di carattere
personale; ma nel caso in esame non è argomentato che ciò si sia verificato.
7. In conclusione, l’appello –nella parte non dichiarata inammissibile-
deve essere respinto. |
APPALTI: Gara, soccorso istruttorio
per l’offerta difforme. Se lente appaltante sbaglia il fac-simile.
Se in una gara d'appalto l'impresa formula l'offerta in conformità a un
facsimile predisposto dalla stazione appaltante, ma difforme dal
disciplinare di gara, non può essere esclusa; eventuali difformità rispetto
al disciplinare di gara sono sanabili con il soccorso istruttorio.
Lo ha
affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 29.04.2019 n. 2720.
La questione rimessa ai giudici di secondo grado
riguardava l'offerta economica del concorrente per la quale il disciplinare
di gara presupponeva fossero rese, secondo un facsimile, una serie di
dichiarazioni da parte dell'offerente.
In realtà esistevano alcune incongruenze tra il modello di offerta
predisposto dalla stazione appaltante e gli obblighi dichiarativi previsti
dalla lex specialis di gara.
Dopo la pronuncia di primo grado, che aveva comunque legittimato la non
esclusione dell'offerente, in appello veniva chiesto se l'utilizzo dei
moduli predisposti dalla stazione appaltante potesse giustificare l'erronea
formulazione dell'offerta e se le omissioni dell'offerta integrassero la
violazione dell'art. 94, comma 1, lett. a), del codice appalti e quindi non
potessero essere suscettibili di soccorso istruttorio.
La sentenza ha precisato che per giurisprudenza consolidata, il principio
del favor partecipationis, volto a favorire la più ampia partecipazione alle
gare pubbliche, ha di norma carattere recessivo rispetto al principio della
par condicio.
Ciò premesso, però, il Consiglio di stato ha spiegato che l'esigenza di
apprestare tutela all'affidamento inibisce alla stazione appaltante di
escludere dalla gara pubblica un'impresa che abbia compilato l'offerta in
conformità al facsimile, perché eventuali parziali difformità rispetto al
disciplinare possono costituire oggetto di richiesta di integrazione
(necessariamente, mediante soccorso istruttorio).
La ragione di questa
impostazione risiede nel fatto che nessun addebito poteva essere contestato
all'impresa per essere stata indotta in errore, all'atto della presentazione
della domanda di partecipazione alla gara, da un negligente comportamento
della stazione appaltante, che aveva predisposto la modulistica da allegare
alla domanda
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione sia del piazzale di considerevoli
dimensioni sia del tratto di strada oggetto dell’ordinanza impugnata,
costituiscono opere dirette a modificare in modo permanente il territorio
circostante e perciò necessitanti del previo rilascio del permesso di
costruire ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Il lungo periodo intercorso tra la realizzazione delle opere abusive e
l’attività repressiva posta in essere dal Comune, stante il carattere di
illecito permanente dell’abuso edilizio, non è circostanza idonea a
ingenerare, nell’autore delle opere abusive, alcun tipo di affidamento
giuridicamente tutelato; né tale fatto può comportare un aggravio
motivazionale del provvedimento sanzionatorio emesso dall’amministrazione
comunale.
---------------
Con il presente ricorso, il proprietario di un’area sita nel comune di San
Giovanni Marignano chiede l’annullamento dell'ordinanza di ingiunzione di
demolizione ex art. 13 L.R. Emilia Romagna n. 23 del 2004 emessa in data
28/08/2013 dal comune di San Giovanni in Marignano nei suoi confronti.
L’ordinanza ingiunge la demolizione di opere edilizie consistenti nella
realizzazione di un piazzale per il parcheggio di autoveicoli di dimensioni
m. 41,00 x m. 33,00 e di una strada asfaltata di m. 3,87 x m. 4,26.
A sostegno del ricorso, il deducente rileva i seguenti motivi in diritto:
Violazione lett. G 1 L.R. n. 31 del 2000 per non essere, gli interventi in
oggetto, assoggettati al regime del previo rilascio del permesso di
costruire; violazione art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001; violazione L.R. n. 15
del 2012; eccesso di potere per illogicità e violazione del principio
dell’affidamento.
...
Il Collegio osserva che il ricorso non merita accoglimento.
La realizzazione sia del piazzale di considerevoli dimensioni sia del tratto
di strada oggetto dell’ordinanza impugnata, costituiscono opere dirette a
modificare in modo permanente il territorio circostante e perciò
necessitanti del previo rilascio del permesso di costruire ai sensi
dell’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001 (v. TAR Campania –NA- sez. VIII,
10/3/2016 n. 1397).
Nella specie, inoltre, le suddette opere abusive sono state oggetto di
precedente provvedimento ripristinatorio e di diniego di sanatoria; atti
entrambi adottati dal comune di San Giovanni Marignano e citati nella
ordinanza impugnata (v. provv. impugnato doc. n. 1 ric.).
Il lungo periodo intercorso tra la realizzazione delle opere abusive e
l’attività repressiva posta in essere dal Comune, stante il carattere di
illecito permanente dell’abuso edilizio, non è circostanza idonea a
ingenerare, nell’autore delle opere abusive, alcun tipo di affidamento
giuridicamente tutelato; né tale fatto può comportare un aggravio
motivazionale del provvedimento sanzionatorio emesso dall’amministrazione
comunale.
Pertanto, il ricorso è respinto
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza
29.04.2019 n. 380
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di paesaggio.
La nozione di paesaggio
delineata dall'art. 1 della Convenzione
europea del 2000, entrata in vigore sul
piano internazionale il 01.09.2006 e la cui
ratifica ed esecuzione è effettua in Italia
con L. n. 14 del 2006, definisce il
paesaggio come “una determinata parte di
territorio, così come è percepita dalle
popolazioni, il cui carattere deriva
dall'azione di fattori naturali e/o umani e
dalle loro interrelazioni”.
Nozione che testimonia la peculiare
polisemia del concetto in esame al cui
interno sono ricompresi sia sostrati
naturalistici (il territorio è, infatti,
inteso come res extensa), sia elementi
prettamente culturali; lo conferma la
disamina delle considerazioni inserite nel
Preambolo della Convenzione ove si afferma
che:
a) il “paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale,
sul piano culturale, ecologico, ambientale e
sociale e costituisce una risorsa favorevole
all'attività economica e che salvaguardato,
gestito e pianificato in modo adeguato, può
contribuire alla creazione di posti di
lavoro”;
b) “il paesaggio concorre all'elaborazione delle culture locali e
rappresenta una componente fondamentale del
patrimonio culturale e naturale dell'Europa,
contribuendo così al benessere e alla
soddisfazione degli esseri umani e al
consolidamento dell'identità europea”.
La Convenzione europea adotta, pertanto, una
nozione ampia di paesaggio che è inteso come
“elemento importante della qualità della
vita delle popolazioni nelle area urbane e
nelle campagne, nei territori degradati,
come in quelli di grande qualità, nelle zone
considerate eccezionali, come in quelle
della vita quotidiana”.
Tale concetto non ricomprende, soltanto, le
c.d. bellezze naturali, o il solo patrimonio
storico, archeologico e artistico, o ancora
i c.d. beni ambientali: al contrario, si
tratta di nozione che supera le
sovrapposizioni spesso presenti nella
legislazione interna tra ambiente, paesaggio
e beni culturali, e che reclama un’autonomia
del paesaggio riconoscendo, al contempo, la
necessità di una visione integrale e
olistica del concetto in esame; in sostanza,
il paesaggio descrive un patrimonio di
risorse identitarie non riducibili alle sole
bellezze naturali in sé o alle testimonianze
storico-artistiche di eccezionale valenza,
ma assume rilievo ogni qual volta sussistano
elementi morfologici a cui sia attribuibile
una valenza estetica.
A questo contesto non è certamente estranea
la materia del Governo del territorio che,
al contrario, costituisce uno degli
strumenti attraverso il quale la Repubblica
realizza la tutela del bene in esame
(fattispecie relativa alla rilevanza
paesaggistica di un intervento di recupero
del sottotetto all’interno di una corte)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.04.2019 n. 932 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Con il secondo motivo del ricorso per
motivi aggiunti si ripropongono le questioni
già a fondamento del ricorso introduttivo e
relative all’esatta delimitazione dello
spettro del potere della Commissione per il
paesaggio. Il nucleo sostanziale della
censura risiede, infatti, nell’asserita non
corretta applicazione dei parametri di
tutela del paesaggio che non verrebbero in
gioco stante la collocazione dell’intervento
nel solo cortile interno.
3.1. Osserva il Collegio come la Commissione
ponga a fondamento della propria valutazione
la nozione di paesaggio delineata dalla
Convenzione europea del 2000 (entrata in
vigore sul piano internazionale il 01.09.2006), la cui ratifica ed
esecuzione è effettua in Italia con L. n. 14
del 2006. La disposizione contenuta
all’interno dell’articolo 1 dell’atto
normativo internazionale definisce il
paesaggio come “una determinata parte di
territorio, cosi come è percepita dalle
popolazioni, il cui carattere deriva
dall'azione di fattori naturali e/o umani e
dalle loro interrelazioni”.
Nozione che
testimonia la peculiare polisemia del
concetto in esame al cui interno sono ricompresi sia sostrati naturalistici (il
territorio è, infatti, inteso come res extensa), sia elementi prettamente
culturali. Lo conferma la disamina delle
considerazioni inserite nel Preambolo della
Convenzione ove si afferma che:
a) il
“paesaggio svolge importanti funzioni di
interesse generale, sul piano culturale,
ecologico, ambientale e sociale e
costituisce una risorsa favorevole
all'attività economica e che salvaguardato,
gestito e pianificato in modo adeguato, può
contribuire alla creazione di posti di
lavoro”;
b) “il paesaggio concorre
all'elaborazione delle culture locali e
rappresenta una componente fondamentale del
patrimonio culturale e naturale dell'Europa,
contribuendo così al benessere e alla
soddisfazione degli esseri umani e al
consolidamento dell'identità europea”.
3.2. La Convenzione europea adotta,
pertanto, una nozione ampia di paesaggio che
è inteso come “elemento importante della
qualità della vita delle popolazioni nelle
area urbane e nelle campagne, nei territori
degradati, come in quelli di grande qualità,
nelle zone considerate eccezionali, come in
quelle della vita quotidiana”.
Tale concetto
non ricomprende, soltanto, le c.d. bellezze
naturali (al pari di quanto avviene, in
precedenza, in forza della previsione di cui
all’articolo 1 della L. 29.06.1939 n.
1497; nella giurisprudenza di legittimità
costituzionale, cfr. Corte Costituzionale,
29.05.1968 n. 56; Id., 24.07.1972 n.
141; Id., 03.08.1976 n. 210), o il solo
patrimonio storico, archeologico e artistico
(come può inferirsi dalle previsioni di
contenute nella legge 26.04.1964 n.
310), o ancora i c.d. beni ambientali (come
emerge dal d.P.R. 24.07.1977 n. 616 che
colloca il paesaggio nel pur ampio crinale
tra l’ambiente e il governo del territorio).
Al contrario, si tratta di nozione che
supera le sovrapposizioni spesso presenti
nella legislazione interna tra ambiente,
paesaggio e beni culturali, e che reclama
un’autonomia del paesaggio riconoscendo, al
contempo, la necessità di una visione
integrale ed olistica del concetto in esame.
In sostanza, il paesaggio descrive un
patrimonio di risorse identitarie non
riducibili alle sole bellezze naturali in sé
o alle testimonianze storico-artistiche di
eccezionale valenza ma assume rilievo ogni
qual volta sussistano elementi morfologici a
cui sia attribuibile una valenza estetica. A
questo contesto non è certamente estranea la
materia del Governo del territorio che, al
contrario, costituisce uno degli strumenti
attraverso il quale la Repubblica realizza
la tutela del bene in esame (articolo 9
Costituzione; in giurisprudenza, cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di
Milano, sez. II, 05.04.2017, n. 797; id.,
13.07.2018, n. 1690).
3.3. Declinando i principi esposti al caso
di specie, il Collegio non ravvisa nei
provvedimenti impugnati i vizi denunciati
dai ricorrenti. Il parere della Commissione
muove dalla corretta attribuzione di una
rilevanza paesaggistica al contesto che
l’intervento in esame risulta idoneo a
compromettere.
Infatti, come emerge dalla
documentazione di progetto versata in atti,
il recupero del sottotetto termina per
alterare la linea architettonica unitaria
degli immobili finitimi. Né una simile
alterazione può escludersi in ragione del confinamento interno delle opere in quanto,
in tal modo, si terminerebbe per
disconoscere la risorsa identitaria della
corte interna che, al contrario, è
correttamente messa a fondamento del parere
reso.
Negarne la valenza significherebbe,
infatti, retrocedere ad una nozione
ristretta di paesaggio che, al contrario,
l’evoluzione dell’ordinamento pur cursoriamente descritta abbandona in favore
di una visione più ampia e maggiormente
acconcia al benessere estetico che tale
visione mira a realizzare.
3.4. In definitiva, la valutazione operata
dall’Amministrazione costituisce una
corretta declinazione delle regole tecniche
che sorreggono il giudizio espresso. Ne
consegue l’infondatezza del motivo proposto. |
APPALTI:
Partecipazione alla gara pubblica come Raggruppamento verticale o
orizzontale.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di
imprese – Partecipazione in raggruppamento orizzontale o verticale – Art.
48, d.lgs. n. 50 del 2016 – Condizione.
Al fine di individuare la partecipazione alla gara
pubblica come Raggruppamento verticale o orizzontale il testuale riferimento
legislativo al "tipo" di prestazione (e non alla prestazione concretamente
svolta, e così ad un concetto astratto piuttosto che concreto) va inteso nel
senso che ciascun operatore economico dev'essere in grado, per le competenze
possedute, di partecipare all’esecuzione dell’unica prestazione; quest’ultima,
poi, altro non può essere che la prestazione oggetto del servizio da
affidare e le competenze non possono essere che quelle richieste dal bando
di gara.
Ciò significa che la diversità delle prestazioni, tale da escludere il
carattere orizzontale del raggruppamento, ricorre solo se ciascuna delle
imprese possiede specializzazioni e competenze diverse da quelle richieste
dal bando, finalizzate all’esecuzione di un’attività non corrispondente a
quella oggetto del contratto.
La simmetria tra competenze possedute e prestazioni assunte dalle imprese
raggruppate, quale principio costitutivo del RTI, deve essere verificata
(non in chiave assoluta ed astratta, ma) nel prisma delle prescrizioni di
gara: sì che solo qualora la ripartizione delle prestazioni all’interno del
raggruppamento sia tale da spezzare quel rapporto simmetrico, potrebbe
affermarsi il carattere derogatorio della formula organizzativa prescelta
rispetto al sistema di qualificazione che presiede alla disciplina della
partecipazione delle imprese alla specifica gara (1).
---------------
(1)
Cons. St., sez. V, 04.01.2018, n. 51.
Ha chiarito la Sezione che la possibilità per le imprese raggruppate -in
forza “orizzontale” o “verticale”- di indicare le “parti”
del servizio da ciascuna rispettivamente assunte in termini contenutistici
e/o quantitativi è stata riconosciuta dalla giurisprudenza nomofilattica di
questo Consiglio di Stato (cfr. Adunanza Plenaria n. 12/2012, cit.), secondo
la quale “l’obbligo deve ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in
termini descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile
il riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia in caso di
indicazione, in termini percentuali, della quota di riparto delle
prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese, tenendo conto della
natura complessa o semplice dei servizi oggetto della prestazione e della
sostanziale idoneità delle indicazioni ad assolvere alle finalità di
riscontro della serietà e affidabilità dell’offerta ed a consentire
l’individuazione dell’oggetto e dell’entità delle prestazioni che saranno
eseguite dalle singole imprese raggruppate”.
Né potrebbe farsi riferimento alla simmetria tra le prestazioni assunte
dalle imprese raggruppate e le relative competenze (in termini di mezzi ed
autorizzazioni possedute).
Deve invero osservarsi che, laddove non sia contestata (o dimostrata) la
violazione dei criteri di qualificazione fissati dalla lex specialis,
anche per le ipotesi di partecipazione di soggetti pluri-strutturati, la
ripartizione delle prestazioni tra le imprese raggruppate, anche
nell’ipotesi di raggruppamento di tipo “orizzontale”, non può che
essere rimessa alle loro scelte organizzative: scelte il cui criterio
direttivo non può che essere la coerenza di quella ripartizione con le
capacità ed i titoli abilitativi da ciascuna posseduti, ferma restando la
comune responsabilità solidale in ordine al servizio oggetto di appalto
complessivamente considerato
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 24.04.2019 n. 2641
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
In primo luogo, infatti, è lo stesso art. 48, comma 4, d.lvo n. 50/2016 ad
esigere, con riferimento alle modalità partecipative dei raggruppamenti
temporanei (abbiano essi struttura orizzontale o verticale) che
“nell’offerta devono essere specificate…le parti del servizio…che saranno
eseguite dai singoli operatori economici riuniti” (cfr., nel senso che
l’obbligo di specificare le parti del servizio che saranno svolte da
ciascuna impresa raggruppata sussiste anche in capo al RTI di tipo
“orizzontale”, Consiglio di Stato, Ad. Plen., n. 22 del 13.06.2012).
Le dichiarazioni contestate del RTI controinteressato risultano quindi prima facie rispecchiare il citato disposto normativo, recando l’indicazione –qualitativa e quantitativa– delle specifiche parti del servizio che
ciascuna delle imprese costituenti si propone di eseguire.
Né la specificazione contenutistica –e non solo percentuale– delle parti
del servizio demandate a ciascuna delle imprese raggruppate potrebbe essere
addotta a dimostrazione della volontà delle stesse di frammentare pro quota
la loro responsabilità in ordine all’esecuzione della prestazione
complessiva, secondo lo schema proprio dei raggruppamenti di tipo
“verticale”: deve infatti osservarsi che, in mancanza (incontestata) di una
indicazione della lex specialis in ordine alla suddivisione del servizio in
prestazioni “principale” e “secondarie”, che sola potrebbe conferire
rilevanza giuridica (anche ai fini della conseguente responsabilità) allo
schema organizzativo di tipo “verticale”, quella specificazione non è idonea
a produrre alcun effetto se non quello, appunto, di assolvere all’onere ex lege di precisare le “parti del servizio” che saranno eseguite dai singoli
operatori economici riuniti in associazione.
In altre parole, in assenza della attribuzione a quella ripartizione –che
solo la lex specialis potrebbe sancire– del crisma della distinzione tra
prestazioni “principale” e “secondarie”, essa resta “interna” all’unica
prestazione, giuridicamente intesa pur se descrittivamente complessa,
costituente oggetto dell’appalto.
Deve solo osservarsi che la possibilità per le imprese raggruppate -in
forza “orizzontale” o “verticale”- di indicare le “parti” del servizio da
ciascuna rispettivamente assunte in termini contenutistici e/o quantitativi
è stata riconosciuta dalla giurisprudenza nomofilattica di questo Consiglio
di Stato (cfr. Adunanza Plenaria n. 12/2012, cit.), secondo la quale
“l’obbligo deve ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini
descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il
riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia in caso di indicazione,
in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazioni che saranno
eseguite tra le singole imprese, tenendo conto della natura complessa o
semplice dei servizi oggetto della prestazione e della sostanziale idoneità
delle indicazioni ad assolvere alle finalità di riscontro della serietà e
affidabilità dell’offerta ed a consentire l’individuazione dell’oggetto e
dell’entità delle prestazioni che saranno eseguite dalle singole imprese
raggruppate”.
Né le deduzioni attoree potrebbero trovare fondamento nella simmetria che la
parte appellante deduce essere ravvisabile tra le prestazioni assunte dalle
imprese raggruppate e le relative competenze (in termini di mezzi ed
autorizzazioni possedute).
Deve invero osservarsi che, laddove non sia contestata (o dimostrata) la
violazione dei criteri di qualificazione fissati dalla lex specialis, anche
per le ipotesi di partecipazione di soggetti pluri-strutturati, la
ripartizione delle prestazioni tra le imprese raggruppate, anche
nell’ipotesi di raggruppamento di tipo “orizzontale”, non può che essere
rimessa alle loro scelte organizzative: scelte il cui criterio direttivo non
può che essere la coerenza di quella ripartizione con le capacità ed i
titoli abilitativi da ciascuna posseduti, ferma restando la comune
responsabilità solidale in ordine al servizio oggetto di appalto
complessivamente considerato.
Con specifico riferimento alla fattispecie in esame, nessuna specifica
allegazione viene formulata dalla parte appellante in ordine alla carenza,
in capo alle imprese raggruppate, dei titoli necessari all’esecuzione del
servizio oggetto di gara, così come contenutisticamente declinato dalla
relativa lex specialis e tra esse ripartito alla stregua delle dichiarazioni
presentate in sede partecipativa.
Quanto ad esempio al requisito di cui all’art. 3, lett. e), del disciplinare
di gara (iscrizione nell’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali), deve
osservarsi che il successivo art. 4 prevede che esso “deve essere posseduto
dalle imprese che svolgeranno le prestazioni contrattuali per cui è
richiesta l’iscrizione all’Albo”: ebbene, se da un lato la previsione
conferma la frazionabilità delle prestazioni contrattuali pur nel contesto
di un RTI di tipo “orizzontale” (l’unico che, come correttamente dedotto
dalla parte appellante, è contemplato dalla lex specialis), dall’altro lato
essa non richiede che il requisito de quo debba sussistere in capo
all’impresa associata non preposta all’esecuzione delle prestazioni
(raccolta e trasporto) per le quali esso è necessario (come, nella specie,
la mandante, cui è affidata l’esecuzione del solo “smaltimento”, sul quale
si dirà meglio infra).
Parallelamente, non potrebbe imputarsi alla società mandataria la carenza
dell’AIA, come fa la parte appellante, sia perché non è preposta
all’attività di smaltimento, per la quale essa è necessaria, sia perché,
comunque, la stessa disciplina di gara (recte, il capitolato tecnico)
ammette che, ai fini dell’esecuzione del suddetto segmento della complessiva
prestazione, l’impresa concorrente (a titolo individuale o collettivo) possa
avvalersi di un impianto di cui non abbia la diretta disponibilità (sebbene
munito dei necessari titoli autorizzativi).
Deve solo aggiungersi che le conclusioni esposte sono in linea con quelle
raggiunte dalla giurisprudenza maggioritaria, dalla quale si ricava il
principio interpretativo secondo cui “il testuale riferimento legislativo al
"tipo" di prestazione (e non alla prestazione concretamente svolta, e così
ad un concetto astratto piuttosto che concreto) va inteso, insomma, nel
senso che ciascun operatore economico dev'essere in grado, per le competenze
possedute, di partecipare all’esecuzione dell’unica prestazione; quest’ultima,
poi, altro non può essere che la prestazione oggetto del servizio da
affidare (in tal senso, cfr. Cons. Stato, V, 16.04.2013, n. 2093) e le
competenze non possono essere che quelle richieste dal bando di gara. Ciò
significa che la diversità delle prestazioni, tale da escludere il carattere
orizzontale del raggruppamento, ricorre solo se ciascuna delle imprese
possiede specializzazioni e competenze diverse da quelle richieste dal
bando, finalizzate all’esecuzione di un’attività non corrispondente a quella
oggetto del contratto” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 51 del 04.01.2018).
La citata giurisprudenza recepisce infatti la tesi interpretativa secondo
cui la simmetria tra competenze possedute e prestazioni assunte dalle
imprese raggruppate, quale principio costitutivo del RTI, deve essere
verificata (non in chiave assoluta ed astratta, ma) nel prisma delle
prescrizioni di gara: sì che solo qualora la ripartizione delle prestazioni
all’interno del raggruppamento sia tale da spezzare quel rapporto
simmetrico, potrebbe affermarsi il carattere derogatorio della formula
organizzativa prescelta rispetto al sistema di qualificazione che presiede
alla disciplina della partecipazione delle imprese alla specifica gara. |
APPALTI
SERVIZI - ENTI LOCALI:
Partecipate, illegittima la fuoriuscita del Comune che non motiva
le cause del recesso.
Il Comune azionista non può recedere «ad nutum» da una società partecipata,
adducendo in modo generico le inefficienze e gli inadempimenti in cui la
società è incorsa nel disimpegno delle prestazioni convenute nel contratto
di servizio. Infatti, il recesso dalla società è un procedimento vincolato
all'osservanza di regole ben precise, predeterminate dal codice civile e
dallo statuto sociale, sicché se il socio opera trascurando questo onere il
recesso deve considerarsi illegittimo e inefficace.
Sulla base di queste argomentazioni, la Corte d'appello di Brescia, con la
sentenza n. 621/2019, ha rigettato il ricorso
proposto da un Comune avverso la sentenza del Tribunale di Brescia e ha
confermato l'illegittimità del recesso dell'ente da una società operante nel
settore del servizio idrico integrato.
Le motivazioni del recesso
Il recesso era stato deciso con una delibera del Consiglio comunale, che a
sostegno della scelta di uscire dalla società adduceva i seguenti elementi:
• una serie di inefficienze, inadempimenti e ritardi nella gestione del
servizio idrico, con la conseguente esigenza dell'amministrazione di
utilizzare una diversa modalità di affidamento per la gestione del servizio;
• il dissenso, già manifestato dall'ente in sede di assemblea dei soci,
rispetto a un'operazione di riassetto organizzativo del gruppo, che ha
portato la società ad assumere la configurazione organizzativa di una
holding pura, e a gestire quindi il servizio pubblico in via indiretta,
attraverso la partecipazione nelle società operative del gruppo.
La specifica causa di recesso dalla società su cui verte la controversia è
la «modifica dell'oggetto sociale, quando consente un cambiamento
significativo dell'attività della società» (articolo 2437, lettera a) e
articolo 31 dello statuto sociale).
La decisione dei giudici
Il Tribunale di Brescia aveva dato torto al Comune, osservando che il
diritto di recesso del socio sorge solo in presenza di una delle cause
previste dalla legge o dallo statuto, per cui spetta al socio recedente, a
fronte di eventuali contestazioni, provare la sussistenza della causa di
recesso (articolo 2697 del codice civile), mentre l'ente convenuto non aveva
assolto a questo onere.
Sia il Tribunale, sia la Corte d'Appello di Brescia hanno concordato nel
ritenere che il riassetto organizzativo della società con la conseguente
trasformazione di quest'ultima da società operativa a holding pura non
rappresentava un elemento indicatore di un cambiamento dell'oggetto sociale,
perché a seguito delle modifiche statutarie il medesimo servizio pubblico
locale sarebbe stato realizzato con diverse modalità operative.
Secondo i giudici dell'appello, il Comune non ha esercitato in forma
corretta il recesso dalla società neppure sotto il profilo dell'affidamento
del servizio, adducendo lagnanze sulle inefficienze gestionali.
Il recesso dalla società poteva essere attivato in base alle previsioni
statutarie, che effettivamente consentivano all'ente socio di sganciarsi dal
soggetto gestore nel caso di gravi e reiterate violazioni del contratto di
servizio. Però, lo statuto prescriveva l'adozione di un'apposita procedura
preventiva, ossia la convocazione del comitato del controllo analogo, quale
organo consultivo tra i soci per l'esercizi del controllo analogo sulla
gestione sociale, che è stata invece trascurata.
La negligenza è costa cara al Comune soccombente, a conferma del fatto che
la gestione dei rapporti tra l'ente locale e le partecipate esige una
particolare cura nell'osservanza delle regole civilistiche, oltre che del
diritto amministrativo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019). |
APPALTI:
Decorrenza del termine per impugnare l’ammissione di un concorrente alla
gara - Iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali da parte di ciascun
componente il raggruppamento temporaneo di imprese.
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●
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione – Dies a quo –
Individuazione.
●
Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di
imprese – Albo Nazionale Gestori Ambientali - Iscrizione - Da parte di
ciascun componente il raggruppamento temporaneo di imprese – Necessità -
Limiti
●
Il termine di impugnazione di esclusioni e ammissioni (ma il problema si
pone chiaramente soprattutto per le ammissioni che di regola non sono
specificamente motivate –a differenza delle esclusioni– e le cui cause di
illegittimità di regola non sono conoscibili dagli altri concorrenti se non
quando essi sono posti nelle condizioni di conoscere la documentazione che
correda la istanza di partecipazione) non può farsi decorrere sic et
simpliciter dalla pubblicazione sul profilo del committente del verbale
della seduta che reca esclusioni e ammissioni (salvo che sia pubblicata
anche la documentazione amministrativa presentata dai concorrenti) bensì,
come stabilito dall’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 “dal momento in cui gli
atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati
di motivazione” (1).
●
Tutti i componenti di un raggruppamento temporaneo dì imprese,
partecipanti ad una gara per l’affidamento di lavori compresi nella
categoria OG 12, devono essere in possesso dell’iscrizione all’Albo
Nazionale Gestori Ambientali, quale requisito di natura soggettiva, ma, in
coerenza con il predetto istituto, è consentito alle imprese associate
procedere al cumulo delle “classi” di iscrizione al fine di soddisfare i
requisiti di esecuzione richiesi nel bando, in ragione dell’importo dei
lavori che ciascuna di esse deve eseguire all’interno della categoria OG12
(2).
---------------
(1) Il Tar ha ricordato l’art. 29, comma 1, periodi secondo terzo e
quarto, d.lgs. n. 50 del 2016 stabiliscono letteralmente che “al fine di
consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell' art. 120,
comma 2-bis, c.p.a., sono altresì pubblicati, nei successivi due giorni
dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le
esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito della
verifica della documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione
di cui all'art. 80, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari
e tecnico-professionali. Entro il medesimo termine di due giorni è dato
avviso ai candidati e ai concorrenti, con le modalità di cui all'art. 5-bis,
d.lgs. 07.03.2005, n. 82, recante il Codice dell'amministrazione digitale o
strumento analogo negli altri Stati membri, di detto provvedimento,
indicando l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove
sono disponibili i relativi atti. Il termine per l'impugnativa di cui al
citato art. 120, comma 2-bis, c.p.a. decorre dal momento in cui gli atti di
cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di
motivazione”.
A sua volta l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. prevede che l’impugnazione di
esclusioni e ammissioni vada proposta nel termine di trenta giorni “decorrente
dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione
appaltante, ai sensi dell'art. 29, comma 1, del codice dei contratti
pubblici”.
Come si vede le due previsioni non sono perfettamente coordinate, perché la
prima (cioè quella dell’articolo 29) è stata inserita nel codice degli
appalti dal d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, mentre la seconda, cioè quella del
c.p.a., è stata introdotta all’interno di quest’ultimo dal d.lgs. n. 50 del
2016; in altri termini il legislatore che nel 2017 ha modificato il codice
degli appalti (inserendo le previsioni in punto di comunicazione della
pubblicazione nel sito web e di decorrenza dell’impugnazione dalla data di
concreta disponibilità degli atti, corredati di motivazione) non ha
coordinato queste nuove previsioni con quella del comma 2-bis dell’art. 120
c.p.a. che rifletteva l’originario testo dell’articolo 29.
È chiaro però che, data anche la posteriorità delle modifiche all’art. 29,
nell’opera di coordinamento è necessariamente a quest’ultimo che occorre
dare la prevalenza.
Ha quindi affermato il Tar che la mera pubblicazione di esclusioni e
ammissioni infatti di regola non garantisce la “concreta disponibilità
dell’atto corredato da motivazione”, come richiede l’art. 29, d.lgs. n.
50 del 2016 o, meglio, il più delle volte la pubblicazione sarà sufficiente
per le esclusioni, dato che esse recano la motivazione e l’interessato
ovviamente conosce la documentazione amministrativa che correda la sua
istanza di partecipazione, ma non per le ammissioni, perché normalmente
l’ammissione si basa su una mera presa d’atto del possesso dei requisiti
richiesti e colui che sarebbe legittimato alla impugnazione –che ovviamente
non conosce la documentazione amministrativa presentata dagli altri
concorrenti– perché possa dirsi integrata la concreta disponibilità
dell’atto corredato da motivazione ha bisogno di conoscere tale
documentazione.
Come sottolineato in un recente precedente del Consiglio di Stato (sez.
V, 27.12.2018, n. 7256), “la concreta disponibilità dalla
quale è fatto ora decorrere il termine di impugnazione è nozione diversa
dalla piena conoscenza di cui all’art. 41, comma 2, c.p.a.; il legislatore,
infatti, con detta formula, ha inteso riferirsi al momento in cui l’impresa
è venuto in possesso dell’atto –perché comunicatole ovvero pubblicato con il
suo intero contenuto o, ancora, in mancanza dell’uno e dell’altro, ottenuto
mediante accesso ai documenti– e ne ha compreso l’effettiva illegittimità;
la “piena conoscenza”, invece, è conseguita per acquisizione della notizia
della lesione prodotta da un provvedimento amministrativo alla propria
posizione soggettiva, anche a prescindere dalla conoscenza del contenuto
dell’atto”.
Nella medesima direzione si è espressa ancor più di recente la Corte di
Giustizia europea con l’ordinanza 14.02.2019 secondo cui la decadenza
prevista dalla normativa italiana richiede che i termini prescritti per
proporre ricorso “inizino a decorrere solo dalla data in cui il
ricorrente abbia avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza dell’asserita
violazione” che in concreto lamenta sicché le previsioni dell’art. 120
c.p.a. risultano compatibili con il diritto europeo “a condizione che i
provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione dei
motivi pertinenti tale da garantire che detti interessati siano venuti o
potessero venire a conoscenza della violazione del diritto dell'Unione dagli
stessi lamentata”.
(2) Il Tar ha ricordato quanto precisato dall’Anac nella delibera
n. 498 del 10.05.2017, secondo cui “nel confermare che l’iscrizione
all’Albo Nazionale Gestori Ambientali costituisce un requisito di natura
soggettiva, che tutte le imprese in ATI devono possedere, quanto alle classi
e categorie di iscrizione richieste nel bando, si osserva quanto segue. Come
emerge dalla disciplina di riferimento (art. 212, d.lgs. n. 152 del 2006 e
d.m. n. 140 del 2010), l’iscrizione al predetto Albo è articolata in
“categorie” corrispondenti al settore di attività dell’impresa, e “classi”
relative alla popolazione complessivamente servita, alle tonnellate annue di
rifiuti gestiti, all’importo dei lavori di bonifica cantierabili (art. 8,
d.m. n. 140 del 2010). Si tratta, quindi, di un’iscrizione basata, oltre che
su requisiti di moralità (art. 10, d.m. n. 140 del 2010), anche su requisiti
di idoneità tecnica e finanziaria (art. 11, d.m. n. 140 del 2010) inerenti
la capacità di svolgere un determinato servizio/lavoro in ordine ai
su indicati criteri di assegnazione delle “classi”. Consegue da quanto sopra,
che in ossequio alle caratteristiche ed alle finalità dell’istituto del RTI,
pur confermando la necessità che tutti i componenti del raggruppamento
debbano essere in possesso dell’iscrizione all’Albo, quale requisito di
natura soggettiva, in coerenza con il predetto istituto appare consentito
alle imprese associate procedere al cumulo delle “classi” di iscrizione al
fine di soddisfare i requisiti di esecuzione richiesi nel bando, in ragione
dell’importo dei lavori che ciascuna di esse deve eseguire all’interno della
categoria OG12. Tale interpretazione è conforme anche al principio del favor
partecipationis, poiché di fatto consente una maggiore partecipazione alle
gare d’appalto da parte delle piccole e medie imprese iscritte all’Albo ed
operanti nel settore”.
A sostegno di questa impostazione può anche richiamarsi la recente sentenza
della
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 6 del 27.03.2019, che
ha affrontato una analoga problematica, sia pure relativa alla attestazione
SOA, affermando il principio secondo cui in caso di raggruppamento
temporaneo di imprese ogni componente del raggruppamento deve “coprire”
con la propria attestazione la quota di lavori che si è impegnata a eseguire
(TAR Valle d’Aosta,
sentenza 23.04.2019 n. 22
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Cimiteri
islamici, niente esclusiva per le associazioni. La sepoltura non può essere
subordinata a un certificato religioso.
Problemi
di convivenza anche nei luoghi di culto e, in particolare, nei cimiteri.
Se
ne occupa il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II (sentenza
20.04.2019 n. 383), regolando la gestione di un’area
riservata a fedeli musulmani che chiedono il rispetto delle loro tradizioni
religiose.
E fissando il principio che è possibile utilizzare la collaborazione dei
privati per la corretta gestione delle aree in concessione, ma non
affidare un ruolo troppo rilevante a una singola associazione.
L’orientamento verso la Mecca, la vestizione, il coinvolgimento di religiosi
islamici pongono una serie di problemi ai Comuni. Il Comune di Bergamo
aveva, in questo caso, risolto parte dei problemi assegnando alla Comunità
islamica un’area in diritto di superficie, attrezzata e gestita dal Centro
culturale islamico. In questo modo, l’orientamento e le altre forme della
liturgia coranica potevano essere rispettate accogliendo chi lo richiedesse,
con una professione di fede attestata dall’associazione religiosa.
Il Comune aveva solo chiesto che non si facesse distinzione di sesso, censo,
etnia o tradizione, nella verifica da parte dell’associazione, garantendo il
diritto di libertà di espressione del rito religioso.
In altri termini, l’associazione culturale avrebbe dovuto verificare
l’effettiva professione di fede islamica, garantendo la possibilità a
qualsiasi musulmano, qualunque fosse la sua tradizione, di ottenere
un’adeguata accoglienza. Questo equilibrio è stato tuttavia contestato da
altre associazioni islamiche, ritenendo che non si potesse affidare a una
specifica associazione l’attestazione di appartenenza alla specifica fede.
Di qui la controversia, che è stata risolta dai giudici amministrativi
prendendo atto che l’obiettivo da raggiungere era quello di migliorare il
servizio ed evitare usi scorretti, sicché quando ciò ha coinvolto più
associazioni, tutte rappresentative, è sembrato discriminatorio riservare in
esclusiva l’organizzazione del servizio a un’unica associazione
privata. Occorre, infatti, coniugare i principi di libertà religiosa con le
necessità organizzative, stabilendo ad esempio adeguati strumenti di
controllo. Ciò tanto più che il settore islamico, nel locale cimitero, era
stato costruito con oneri a carico di una specifica organizzazione. Il Tar
ha quindi escluso che, in aggiunta alla richiesta dei familiari o alle
disposizioni del defunto, sia possibile richiedere un attestato di fede,
rilasciato da una specifica associazione privata circa la pratica del credo
religioso.
Prevale, quindi, il diritto alla libertà di espressione
religiosa: chiunque può accedere al rito funebre islamico senza passare per
una specifica verifica affidata ad un’associazione privata. Quindi, i Comuni
possono utilizzare la collaborazione dei privati per la corretta gestione
delle aree in concessione, ma non possono affidare un ruolo troppo rilevante
ad una singola associazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.04.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Non è il danno che fa il reato.
La condotta in sé, pur se non lesiva, configura l’illecito.
L’intervento della Cassazione nel caso di violazioni nella
gestione di rifiuti pericolosi.
Anche
se non c'è danno all'ambiente è condannato chi recupera rifiuti pericolosi
violando le prescrizioni dell'Aia. È la condotta in sé che configura
l'illecito, senza che sia necessario un danno effettivo al bene tutelato. In
tal caso l'ambiente.
Questo è il principio posto dalla Corte di Cassazione -Sez. III penale- con la
sentenza
18.04.2019 n.
17056, nel caso di violazioni compiute da parte di un amministratore di
società alle prescrizioni inerenti alle modalità di gestione dei rifiuti
pericolosi impartite dall'amministrazione provinciale.
In particolare all'imputato era stato contestato di avere effettuato nella
sua qualità di dirigente aziendale, un'attività diretta al recupero di
rifiuti pericolosi, le cui modalità contrastavano con le prescrizioni
individuate in apposita autorizzazione integrata, emessa dalla provincia di
Asti, la quale ne delimitava i confini e le modalità.
A seguito di tale condotta, accertata durante un accesso ispettivo da parte
di un pubblico ufficiale, durante il quale era emersa la presenza di opere
in loco che provavano in maniera indiscutibile la condotta illecita,
conseguiva, come ovvio, la contestazione del reato di cui all'art.
29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006, il cosiddetto Testo
unico ambientale, che sanziona il trattamento dei rifiuti pericolosi e non
al di fuori delle prescrizioni regolamentari che ne governano lo stoccaggio.
Nel procedimento di merito, sulla base delle dichiarazioni rese del pubblico
ufficiale che ne confermavano il precedente operato, era stato possibile
raggiungere la prova positiva circa la condotta illecita dalla quale
conseguiva la condanna per il reato di cui 29.quattordecies, comma 2, del
dlgs n. 152 del 2006.
L'imputato, ritenendosi leso nei propri diritti, ricorreva per Cassazione al
fine di ottenere l'annullamento della decisione di secondo grado.
Osservava il ricorrente come la figura di reato applicata a carico del suo
assistito, da parte dei giudici della Corte d'appello, veniva prevista
dall'ordinamento per altri casi e condotte ben diverse rispetto a quella
contestata all'imputato, la quale era comunque estranea alle previsioni
normative.
In particolare il legale, nella sua tesi difensiva, a sostegno della propria
linea diretta a ottenere l'annullamento della sentenza di secondo grado,
osservava che per potersi ritenere configurabile il reato contestato al
ricorrente era a ogni modo necessario un danno effettivo all'interesse
tutelato dalla norma, costituito dall'integrità dell'ambiente, che la
previsione normativa da parte dell'ordinamento della figura di reato mira a
tutelare.
L'applicazione, infatti, di una sanzione penale a una condotta come quella
contestata al ricorrente configurerebbe l'assurdo giuridico di punire una
condotta in concreto priva di ogni effetto lesivo per il bene tutelato dalla
norma e sostanzialmente innocua.
Il procedimento, dopo avere esaurito il proprio corso, veniva deciso da
parte degli ermellini con la sentenza recentemente depositata.
Nella motivazione della sentenza n. 17056/2019 viene fatto oggetto d'esame,
come ovvio, il motivo di ricorso afferente l'effettivo contenuto e la
concreta estensione della figura di reato applicata nel caso di specie.
Gli ermellini prendono le mosse delle modalità d'accertamento della condotta
illecita, compiuta, nel caso di specie, da parte di un pubblico ufficiale
nell'esercizio delle sue funzioni.
Si trattava nel caso di specie di un funzionario dell'Arpa, il quale nel
corso di un accesso ispettivo aveva verificato la presenza di tutti gli
elementi che portavano a ritenere che l'attività di recupero dei rifiuti
veniva effettuata al di fuori e contrariamente alle prescrizioni impartite
dall'amministrazione provinciale che, ai sensi della normativa vigente, era
l'organo competente in materia.
Il pubblico ufficiale confermava nel corso del procedimento di merito il suo
operato, sotto l'aspetto della prova del fatto illecito la norma che
prevedeva la sanzione penale era stata legittimamente applicata non
potendosi in alcun modo discutere l'effettiva esistenza del fatto
costituente reato.
La motivazione passa a esaminare l'ulteriore aspetto rappresentato da parte
del ricorrente riguardante, invece, il contenuto normativo del reato dal
quale discende la concreta operatività del reato previsto dall'art.
29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006.
La questione viene risolta da parte dei giudici della Corte suprema di
cassazione sulla base dell'esame del contenuto della disposizione; dalla sua
osservazione, infatti, emerge indiscutibilmente come la norma non compia
alcun riferimento o menzione all'entità della condotta e alla sua concreta
lesività; in altre parole dall'esame del dettato normativo risulta evidente
come non abbia alcun peso nel disegno legislativo l'eventuale carattere
pericoloso della condotta, la quale risulta, proprio per il suo carattere
meritevole di punizione, anche nel caso in cui si concretizzi in una
semplice violazione formale delle prescrizioni impartite
dall'amministrazione provinciale.
La tesi difensiva pertanto si palesa come insostenibile, in quanto fondata
su di una lettura della norma palesemente errata e non rispondente al suo
contenuto e alla sua funzione.
Infatti, proseguono i magistrati della corte suprema di Cassazione il
dettato normativo delinea in maniera piuttosto ampia la condotta illecita,
senza che venga prevista alcuna condizione di punibilità per l'applicazione
della sanzione, che diviene operativa e perfettamente applicabile nel caso
di realizzazione degli elementi costitutivi della figura di reato.
Tale conclusione consegue alla natura riconosciuta all'art.
29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006. Tale illecito, infatti,
secondo i magistrati della corte suprema presenta una indiscutibile natura
formale, con la conseguenza che per la sua configurabilità non divengono
necessari elementi ulteriori rispetto alla condotta.
L'applicazione della sanzione, infatti, discende in tali casi dalla mera
violazione formale della normativa, la quale viene ritenuta da parte del
legislatore di per sé lesiva del bene tutelato dall'ordinamento.
La conclusione sarebbe diametralmente opposta, invece, nel caso in cui al
reato previsto dall'art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006
venisse attribuita una natura sostanziale, in tali casi, infatti, la
semplice violazione formale delle norme non sarebbe sufficiente a ritenere
configurabile il reato che per la sua perfezione, richiederebbe altresì
l'ulteriore elemento di una lesione al bene ambiente alla cui tutela è
preordinata la norma.
L'opinione dei giudici della Corte suprema, pertanto, è tale da estendere la
portata applicativa della norma la quale viene ritenuta operativa anche nel
solo caso di una semplice violazione della normativa prevista per la
gestione dei rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019). |
APPALTI:
Niente esclusione automatica dall’appalto con il rinvio a
giudizio per grave illecito professionale.
Secondo il TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
18.04.2019 n. 897, la richiesta di rinvio a giudizio dell'impresa può
legittimare l'esclusione dalla gara, ma la stazione appaltante deve motivare
il relativo provvedimento in modo adeguato, basandosi su accertamenti
specifici e non sull'accettazione acritica delle valutazioni del pubblico
ministero.
L'impugnazione
La stazione appaltante ha escluso la ricorrente da una procedura aperta «per
l’affidamento, tramite accordo quadro con un unico operatore, dei lavori
occorrenti per la realizzazione di interventi di rimozione fibre di vetro e
bonifica amianto», in quanto colpita da una richiesta di rinvio a giudizio
per illecito amministrativo (relativa ai delitti previsti dagli articoli
319, 319-bis, 321 e 353, comma 1, codice penale).
Il provvedimento era fondato esclusivamente sulle valutazioni espresse dal
pubblico ministero, come compscritto nel verbale di gara. A propria difesa,
la stazione appaltante si è limitata a ribadire che la prerogativa risulta
rimessa direttamente dall'articolo 80, comma 5, lettera c) del codice dei
contratti per il quale «le stazioni appaltanti escludono dalla
partecipazione alle gare i concorrenti che si siano resi colpevoli di gravi
illeciti professionali, tali da rendere dubbia la loro integrità od
affidabilità», qualora ciò sia dimostrato con «mezzi adeguati».
La replica della ricorrente eccepiva la scorretta applicazione della norma
sostenendo che la stessa, per legittimare i provvedimenti estromissivi,
imporrebbe l'accertamento definitivo delle violazioni e, soprattutto,
adducendo il difetto di motivazione e di istruttoria del provvedimento
impugnato, che si sarebbe limitato a un «mero richiamo per relationem ai
contenuti della richiesta di rinvio a giudizio, non operando alcuna
ulteriore valutazione o approfondimento istruttorio sulla vicenda».
In sostanza, il responsabile univoco del procedimento avrebbe dato «per
assodato tutto quello che la Procura della Repubblica ha contestato come
capo d’imputazione».
La decisione
Il ragionamento della ricorrente persuade il giudice. In sentenza si
puntualizza che, in via generale, anche «i fatti oggetto di accertamento in
un procedimento penale ancora in corso possano essere considerati mezzi
adeguati da parte di un’amministrazione aggiudicatrice, per dimostrare che
un operatore economico si sia reso responsabile di gravi illeciti
professionali». Non è necessario quindi un provvedimento definitivo di
condanna.
Il problema, e quindi l'aspetto critico del provvedimento di esclusione
adottato, è che la stazione appaltante ha aderito acriticamente alle
conclusioni del pubblico ministero. E in questo senso, pur potendo il rinvio
a giudizio determinare l'adozione di un provvedimento di esclusione è
altresì vero, come sostenuto dalla Corte di Giustizia (C-124/17 del 24.10.2018, p. 26), che le amministrazioni aggiudicatrici «devono valutare
i rischi cui potrebbero essere esposte aggiudicando un appalto a un
offerente la cui integrità o affidabilità sia dubbia».
La circostanza che la norma (articolo 80, comma 5, lettera c) attribuisca
un ampio potere discrezionale alla stazione appaltante impone di raggiungere
un punto di equilibrio «tra la tutela della concorrenza e le esigenze» della
stessa che sono tenute a «giustificare l’esercizio dei più ampi poteri
discrezionali loro attribuiti, mediante congrua motivazione».
La norma del codice rapporta l'ampio potere della stazione appaltante
correlandone l'esercizio ad un «concetto giuridico indeterminato», e
consentendo di declinare, caso per caso, «la condotta dell’operatore
economico colpevole di gravi illeciti professionali».
La categoria dei concetti giuridici a contenuto indeterminato, prosegue il
giudice, «attiene a una particolare tecnica legislativa nella quale, per
individuare il fatto produttivo di effetti, la norma non descrive la
fattispecie astratta in maniera tassativa ed esaustiva, ma rinvia, per la sussunzione del fatto concreto nell'ipotesi normativa, all'integrazione
dell'interprete, mediante l'utilizzo di concetti che vanno completati e
specificati con elementi o criteri extragiuridici (Consiglio di Stato,
sentenza n. 5467/2017)».
Un potere così ampio deve trovare un suo bilanciamento nell'obbligo di
motivazione rafforzato che implica una verifica autonoma sulla gravità
dell'illecito professionale. Mentre nel caso specifico non sono emerse
valutazioni «dei fatti indicati nel procedimento penale» mancando «finanche
la loro descrizione, così come degli elementi di prova ivi raccolti, non
essendovi alcun riferimento alle risultanze delle annotazioni,
intercettazioni telefoniche, verbali di interrogatorio e altro su cui è
fondata la richiesta di rinvio a giudizio»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019). |
APPALTI:
Richiesta di rinvio a giudizio e
provvedimento di esclusione da una gara
d’appalto.
Una richiesta di rinvio
a giudizio non è certamente ostativa
all’adozione di un provvedimento di
esclusione da una gara d’appalto, non
essendo infatti a tal fine necessario che il
procedimento penale avviato a carico di un
concorrente si sia concluso con una sentenza
di condanna a suo carico.
Tuttavia, una richiesta di rinvio a
giudizio, sebbene per gravi reati, in
assenza di un autonomo accertamento dei
fatti idonei a configurare un grave illecito
professionale da parte della stazione
appaltante, e di una congrua motivazione sul
punto, non può di per sé essere sufficiente
a giustificare un provvedimento
amministrativo di esclusione, spesso
suscettibile di arrecare gravissimi
pregiudizi all’operatore economico e, in
taluni casi, la cessazione della sua
attività
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 18.04.2019 n. 897 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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I.1) Le vicende poste a fondamento del
presente giudizio traggono origine da un
procedimento penale, in cui l’amministratore
della società ricorrente è accusato di aver
messo a disposizione le proprie maestranze
per l’esecuzione di lavori di
ristrutturazione di un centro estetico di
proprietà della figlia di un funzionario
comunale, al fine di essere favorito nella
procedura per l’affidamento dell’appalto n.
67/2011, aggiudicatole dal Comune di Milano,
in data 01.08.2012.
In particolare, a seguito della richiesta di
rinvio a giudizio dell’operatore economico
-OMISSIS- formulata dal pubblico ministero,
con il provvedimento impugnato, il Comune
resistente ha dato applicazione all’art. 80,
c. 5, lett. c), del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50,
secondo cui, le stazioni appaltanti
escludono dalla partecipazione alle gare i
concorrenti che si siano resi colpevoli di
gravi illeciti professionali, tali da
rendere dubbia la loro integrità od
affidabilità, qualora ciò sia dimostrato con
“mezzi adeguati”.
I.2) Sotto un primo aspetto, la ricorrente
deduce la violazione di detta norma,
sostenendo che la stessa presupporrebbe
l’esistenza di un “accertamento definitivo”,
non essendo a tal fine sufficiente una
richiesta di rinvio a giudizio, come ha
invece avuto luogo nel caso di specie.
Sotto altro profilo, l’istante lamenta il
difetto di motivazione e di istruttoria del
provvedimento impugnato, che si sarebbe
limitato ad un “mero richiamo per relationem
ai contenuti della richiesta di rinvio a
giudizio”, non operando “alcuna ulteriore
valutazione o approfondimento istruttorio
sulla vicenda”, limitandosi invece “a dare
acriticamente per assodato tutto quello che
la Procura della Repubblica ha contestato
come capo d’imputazione”.
II) Ritiene il Collegio che, in linea
generale, anche i fatti oggetto di
accertamento in un procedimento penale
ancora in corso possano essere considerati
“mezzi adeguati” da parte di
un’amministrazione aggiudicatrice, per
dimostrare che un operatore economico si sia
reso responsabile di gravi illeciti
professionali.
Come recentemente affermato dalla Corte di
Giustizia, nell’ambito delle “ricerche e
verifiche” che le stazioni appaltanti
possono condurre per accertare l’integrità
di un operatore economico, laddove esista
“una procedura specifica disciplinata dal
diritto dell'Unione o dal diritto nazionale
per perseguire determinate violazioni, e in
cui particolari organismi sono incaricati di
effettuare indagini al riguardo,
l'amministrazione aggiudicatrice,
nell'ambito della valutazione delle prove
fornite, deve basarsi in linea di massima
sull'esito di siffatta procedura” (C-124/17
del 24.10.2018, punti 24-25).
Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto
dalla ricorrente, la Corte di Giustizia non
ha affermato l’impossibilità per una
stazione appaltante di procedere ad
un’autonoma valutazione dei fatti oggetto di
accertamento in sede penale, statuendo
invece che “occorre tener conto delle
funzioni rispettive, da un lato, delle
amministrazioni aggiudicatrici e,
dall'altro, delle autorità investigative.
Mentre queste ultime hanno il compito di
stabilire la responsabilità di determinati
agenti nel commettere una violazione a una
norma di diritto, accertando con
imparzialità la realtà di fatti che possono
costituire una siffatta violazione, nonché
punendo il comportamento illecito pregresso
di detti agenti, le amministrazioni
aggiudicatrici devono valutare i rischi cui
potrebbero essere esposte aggiudicando un
appalto a un offerente la cui integrità o
affidabilità sia dubbia” (v. punto 26).
Ad analoghe conclusioni è giunta la
giurisprudenza amministrativa, ritenendo
che, in linea generale, l'art. 80, c. 5,
lett. c) cit., rimetta alla stazione
appaltante il potere di apprezzamento delle
condotte dell'operatore economico che
possono integrare un “grave illecito
professionale”, tale da metterne in dubbio
la sua integrità o affidabilità, anche oltre
le ipotesi elencate nel medesimo articolo (C.S.,
Sez. V, 03.09.2018 n. 5142).
In particolare, non è indispensabile che i
gravi illeciti professionali posti a
fondamento della sanzione espulsiva del
concorrente dalla gara siano accertati con
sentenza, anche se non definitiva, essendo
infatti sufficiente che gli stessi siano
ricavabili da altri gravi indizi (C.S., Sez.
V, 27.02.2019 n. 1367, 20.03.2019 n. 1846).
III.1) Più in generale, il Collegio
evidenzia che l’ampiezza della formulazione
utilizzata dall’art. 57, c. 4, lett. c), della
Direttiva 2014/24, consentendo di escludere
i partecipanti che abbiano commesso “gravi
illeciti professionali”, riconosce un ampio
potere discrezionale alle amministrazioni aggiudicatrici, ciò che ha indotto la
giurisprudenza a dubitare della legittimità
degli automatismi previsti dall’art. 80, c. 5,
lett. c) cit., e più recentemente, lo stesso
legislatore, a modificare tale norma.
In particolare, a fronte del quesito posto
dal TAR Campania (ordinanza n. 5893 del
13.12.2017), nelle proprie conclusioni rese
nella causa C-41/18 in data 07.03.2019,
l’Avvocato Generale ha affermato che la
normativa italiana, nella parte in cui
precludeva la partecipazione ad un operatore
economico che non avesse contestato in
giudizio la risoluzione anticipata di un
precedente contratto di appalto, “sottrae
all’amministrazione aggiudicatrice la
facoltà di valutare pienamente
l’affidabilità del candidato” (v. punto 53),
restringendone indebitamente il campo di
azione (v. punto 55. Un’analoga questione è
stata peraltro sollevata da C.S., 03.05.2018
n. 2639).
A sua volta, l’art. 5, c. 1, del D.L.
14.12.2018, n. 135, convertito con L.
11.02.2019 n. 12, ha modificato l’art. 80, c.
5 cit., consentendo alle amministrazioni
aggiudicatrici di escludere il concorrente
cha abbia subito una risoluzione per
inadempimento, una condanna al risarcimento,
o altre sanzioni, anche a fronte dalla loro
mancata contestazione, richiedendo tuttavia
che, in tali casi, “la stazione appaltante
motiva anche con riferimento al tempo
trascorso dalla violazione e alla gravità
della stessa” (v. nuovo comma c-ter).
III.2) Alla luce di quanto sopra
evidenziato, il Collegio dà atto che, ai
fini dell’individuazione dei “gravi illeciti
professionali”, si assiste ad una
tendenziale riduzione delle fattispecie
generali e astratte normativamente previste,
venendo tale onere direttamente demandato
alle amministrazioni aggiudicatrici.
Il punto di equilibrio tra la tutela della
concorrenza e le esigenze delle stazioni
appaltanti, è conseguentemente spostato in
favore di queste ultime, che essendo
chiamate ad individuare in concreto le
condotte suscettibili ad integrare un “grave
illecito professionale”, devono perciò
giustificare l’esercizio dei più ampi poteri
discrezionali loro attribuiti, mediante
congrua motivazione.
III.3) Come espressamente affermato da C.S.,
Sez. III, 23.11.2017, n. 5467, l’art. 80, c.
5, lett. c) cit. ha infatti esteso il potere
discrezionale delle amministrazioni aggiudicatrici di escludere i concorrenti da
una gara d’appalto, correlandone l’esercizio
ad un “concetto giuridico indeterminato”, e
consentendo loro di declinare, caso per
caso, la condotta dell’operatore economico
“colpevole di gravi illeciti professionali”.
Come noto, la categoria dei concetti
giuridici a contenuto indeterminato, attiene
ad una particolare tecnica legislativa nella
quale, per individuare il fatto produttivo
di effetti, la norma non descrive la
fattispecie astratta in maniera tassativa ed
esaustiva, ma rinvia, per la sussunzione del
fatto concreto nell'ipotesi normativa,
all'integrazione dell'interprete, mediante
l'utilizzo di concetti che vanno completati
e specificati con elementi o criteri
extragiuridici (C.S. n. 5467/2017 cit.).
A fronte di concetti giuridici
indeterminati, l’Amministrazione dispone
pertanto di un più ampio potere
discrezionale, ciò che è potenzialmente
suscettibile di pregiudicare il principio di
legalità, dovendo pertanto richiedersi
l’adempimento di un onere motivazione
rafforzato.
Conseguentemente, come ha avuto luogo nel
caso di specie, quando la stazione
appaltante esclude dalla partecipazione alla
gara un operatore economico perché
considerato colpevole di un grave illecito
professionale non compreso nell'elenco
dell'art. 80, c. 5 lett. c) cit., deve
adeguatamente motivare l'esercizio di
siffatta discrezionalità, ed in maniera ben
più rigorosa ed impegnativa rispetto a
quanto avviene a fronte delle particolari
ipotesi esemplificate dal testo di legge (C.S.,
Sez. V, 02.03.2018 n. 1299).
III.4) In conclusione, in linea generale,
non può pertanto che riconoscersi alla
stazione appaltante la facoltà di escludere
un concorrente, a prescindere dalla
definitività degli accertamenti compiuti in
sede penale, e dunque, anche a fronte di una
richiesta di rinvio a giudizio, ferma
restando tuttavia la necessità di accertare
che ciò abbia in concreto avuto luogo a
fronte di una congrua motivazione.
...
V) Pur comprendendo il disagio di
un’Amministrazione che si trovi di fronte ad
un aggiudicatario indagato in una vicenda
penale che l’ha vista coinvolta, e dando
atto che a fondamento dell’operato del
Comune di Milano, vi sia l’intenzione di
voler tutelare l’interesse pubblico, il
Collegio non può tuttavia che annullare il
provvedimento impugnato.
Come evidenziato nel precedente punto II),
una richiesta di rinvio a giudizio non è
certamente ostativa all’adozione di un
provvedimento di esclusione da una gara
d’appalto, non essendo infatti a tal fine
necessario che il procedimento penale
avviato a carico di un concorrente si sia
concluso con una sentenza di condanna a suo
carico. Tuttavia, una richiesta di rinvio a
giudizio, sebbene per gravi reati, in
assenza di un autonomo accertamento dei
fatti idonei a configurare un grave illecito
professionale da parte della stazione
appaltante, e di una congrua motivazione sul
punto, non può di per sé essere sufficiente
a giustificare un provvedimento
amministrativo di esclusione, spesso
suscettibile di arrecare gravissimi
pregiudizi all’operatore economico, e in
taluni casi, la cessazione della sua
attività.
In assenza di un’autonoma valutazione dei
fatti posti a fondamento della richiesta di
rinvio a giudizio, a cui il provvedimento
impugnato ha invece sostanzialmente
rinviato, lo stesso deve essere annullato,
avvallandosi in contrario il principio
secondo cui, a fronte di un atto proveniente
dal solo p.m., prima ancora che il g.i.p. si
sia potuto pronunciare sulla sufficienza ed
idoneità degli elementi acquisiti, e prima
ancora di potersi difendere nel dibattimento
dalle accuse rivoltegli, un operatore
economico si vedrebbe preclusa la
possibilità di partecipare alle gare
d’appalto, ciò che violerebbe i principi
fondamentali dell’ordinamento (artt. 27, c. 2,
Cost. e 6, c. 2, Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo).
E’ certamente vero che, come evidenziato
dalla difesa comunale e da Corte Giustizia
C-124/17 cit., mentre nel processo penale
deve essere raggiunta la prova piena degli
elementi del reato contestato,
un’amministrazione aggiudicatrice che
intenda escludere un operatore economico,
deve invece solo dimostrare i fatti che ne
rendano dubbia l’integrità ed affidabilità.
Come tuttavia indicato nel precedente punto
III), il giudizio con cui una stazione
appaltante accerti la sussistenza di un
grave illecito professionale, non può essere
incentrato su un automatismo, e pertanto,
sulla mera sussistenza di una richiesta di
rinvio a giudizio, richiedendo invece
un’articolata ed autonoma motivazione.
In conclusione, ritiene il Collegio che il
mero richiamo alla richiesta di rinvio a
giudizio del pubblico ministero, posta a
fondamento del provvedimento impugnato, in
assenza di ulteriori ed autonome valutazioni
da parte della stazione appaltante, non
costituisca “mezzo adeguato” di prova della
sussistenza di un grave illecito
professionale di cui all’art. 80, c. 5, lett.
c) cit., dovendosi pertanto accogliere il
presente ricorso.
VI.1) Quanto sopra pare al Collegio in linea
con le prime pronunce giurisprudenziali rese
nella materia per cui è causa.
TAR Toscana, Sez. I, 01.08.2017 n. 1011, ha
accolto un ricorso avverso un provvedimento
di esclusione per difetto di motivazione,
essendo quest’ultimo incentrato unicamente
sulla mancata contestazione in giudizio di
una risoluzione contrattuale da parte della
concorrente, che tuttavia negava di essersi
resa inadempiente. In particolare, il TAR
Toscana ha ritenuto di non poter considerare
consolidata la risoluzione contrattuale
posta a fondamento del provvedimento
impugnato, in difetto “di alcun accertamento
giudiziale”.
TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 05.10.2018,
n. 955, ha a sua volta accolto un ricorso
avverso un’esclusione, a fronte di un
difetto di motivazione del provvedimento
impugnato, che si era limitato a richiamare
un precedente inadempimento contrattuale,
evidenziando la mancanza di un “percorso
logico che ha condotto all'adozione del
provvedimento qui gravato, lungi dallo
svolgersi attraverso il compiuto
accertamento in ordine alla presenza di
elementi effettivamente, quanto
concretamente, suscettibili di condurre
all'espressione di un giudizio di non
affidabilità”.
Nei casi sopra evidenziati, la
giurisprudenza non ha pertanto ritenuto
sufficiente il mero rinvio della stazione
appaltante ad un fatto (precedente
inadempimento contrattuale), richiedendone
invece espressamente una sua valutazione
autonoma.
A maggior ragione, nella fattispecie per cui
è causa, in cui i fatti esterni a cui il
provvedimento impugnato ha rinviato, sono
oggetto di accertamento in un procedimento
penale, avrebbero dovuto essere
approfonditamente ed autonomamente valutati
in sede amministrativa.
VI.2) In una fattispecie pressoché identica
a quella per cui è causa, TAR Lazio,
Roma, Sez. I, 04.03.2019 n. 2771, ha infatti
accolto un ricorso avverso l’esclusione da
una gara d’appalto indetta dal Consiglio
Superiore della Magistratura, disposta in
considerazione della sussistenza di un
procedimento penale per corruzione a carico
dell’ex amministratore unico e legale
rappresentante della concorrente.
In particolare, oltre a dare atto della
pendenza del citato procedimento penale, il
provvedimento impugnato si fondava sulla
“esigenza del Consiglio di verificare
l’affidabilità, complessivamente
considerata, dell'operatore economico con
cui andrà a contrarre per evitare, a tutela
del buon andamento dell'azione
amministrativa, che entri in contatto con
soggetti privi di affidabilità morale e
professionale; dato atto che i casi di gravi
illeciti professionali sono elencati
all'art. 80, c. 5, lett. c), del D.Lgs. n.
50/2016 e che, secondo la più recente e
affermata giurisprudenza, detta elencazione
è da ritenersi meramente esemplificativa;
ritenuto pertanto che è facoltà
dell'Amministrazione disporre l'esclusione
in tutti i casi in cui è dubbia l'integrità
e affidabilità del concorrente al di là
delle tipizzazioni elencate dalla norma in
questione”.
Analogamente al provvedimento impugnato nel
presente giudizio, anche quello adottato dal
C.S.M. era in sostanza incentrato sulla
“gravità dei fatti contestati che, pur in
pendenza di giudizio, rende dubbia
l'integrità o l'affidabilità dei
concorrenti”, ciò che non è stato tuttavia
reputato sufficiente dal TAR Lazio,
secondo cui, “la motivazione, invero, per
come formulata nel provvedimento, che fa
generico riferimento alla gravità dei fatti
contestati, si risolve nella applicazione di
una sanzione automatica, riconnessa alla
sola pendenza del giudizio per il reato di
corruzione. Un simile automatismo, tuttavia,
non è previsto dalla norma primaria e, anzi,
si palesa contrario alla stessa ratio
dell’art. 80 del Codice, che impone alla
stazione appaltante un particolare rigore
probatorio qualora intenda escludere un
concorrente in presenza di una fattispecie
non ricompresa tra quelle menzionate dalla
norma di legge o dalle linee guida”.
VI.3) Né in contrario il Collegio ritiene
che le pronunce invocate dalla difesa
comunale ostino all’accoglimento del
ricorso.
Se infatti è pur vero che TAR Puglia,
Bari, Sez. I, 13.04.2018 n. 562, confermata
da C.S., Sez. V, 27.02.2019 n. 1367, ha
ritenuto legittimo un provvedimento di
esclusione motivato con riferimento ad un
rinvio “per relationem, sia ai gravi indizi
di colpevolezza”, che “al pericolo di
reiterazione del reato”, ciò ha tuttavia
avuto luogo a fronte di un’ordinanza
applicativa di una misura cautelare disposta
dal giudice delle indagini preliminari, e
non invece, come nel caso di specie, di una
mera richiesta formulata dalla pubblica
accusa.
Quanto a TAR Lazio, Sez. II, 13.02.2019 n.
1931, ha affrontato una fattispecie in cui
il g.i.p. aveva accolto la richiesta di
giudizio immediato formulata dal p.m, ciò
che, ai sensi dell’art. 453 c.p.p.,
presuppone che le prove a carico della
persona sottoposta alle indagini siano
ritenute “evidenti”, diversamente dal caso
di specie, in cui la richiesta di rinvio a
giudizio, oltre ad essere avanzata dal solo p.m., presuppone semplicemente la
sussistenza di elementi sufficienti a
sostenere l'accusa (nel caso sottoposto al
TAR Lazio, la gravità delle prove
raccolte, aveva inoltre giustificato, pochi
giorni prima dell’adozione del provvedimento
impugnato, l’applicazione della sanzione interdittiva cautelare del divieto di
contrarre con la Pubblica Amministrazione).
La lettura di TAR Lazio n. 1931/2019 cit.,
pare in realtà confermare l’illegittimità
del provvedimento in questa sede impugnato,
atteso che, in quel caso, la stazione
appaltante aveva espressamente richiamato
specifici contenuti di taluni “verbali degli
interrogatori”, ed in particolare, di uno
riferito ad un proprio dipendente, indicando
i fatti oggetto degli stessi, e ritenuti
rilevanti ai fini della dimostrazione di un
“grave illecito professionale”, diversamente
da quanto avuto luogo nella fattispecie per
cui è causa, in cui il Comune di Milano ha
invece effettuato un rinvio generico ed
omnicomprensivo alla richiesta di rinvio a
giudizio.
Anche TAR Lombardia, Brescia, Sez. I,
08.01.2019 n. 21 e C.S., Sez. V, 20.03.2019 n.
1846 non paiono pertinenti, essendo entrambe
riferite a fattispecie relative ad appalti
secretati, disciplinate dall’art. 162 del D.Lgs. 50/2016, che deroga alla disciplina
ordinaria, avendo infatti dette sentenze
espressamente riconosciuto alle stazioni
appaltanti la possibilità di valutare “ogni
circostanza che possa incidere negativamente
sulla corretta esecuzione dell’attività”,
ciò che “supera necessariamente le cause di
esclusione codificate nell’art. 80 del D.Lgs.
n. 50/2016, e anche il livello di
accertamento previsto da tale norma”.
Quanto infine a C.S., Sez. III, 12.12.2018
n. 7022, osserva il Collegio che, in primo
luogo, in quel caso, la gravità degli
elementi raccolti nel procedimento penale
era stata confermata dal giudice nelle
indagini preliminari, che aveva infatti
accolto la richiesta di sequestro inoltrata
dal p.m., diversamente da quello per cui è
causa, come detto, incentrato sulla sola
richiesta di rinvio a giudizio. Inoltre,
nella fattispecie decisa da C.S., n. 7022/2018 cit., “l’Amministrazione, nella motivazione
del provvedimento di esclusione, ha dato
conto non solo delle specifiche circostanze
risultanti dal decreto di sequestro, ma
anche dei profili per cui ha ritenuto
rilevanti tali elementi”, ciò che non ha
invece avuto luogo nel provvedimento oggetto
del presente giudizio, che si è invece
limitato ad un rinvio per relationem al
procedimento penale.
In ogni caso, la
fattispecie sottoposta a C.S., n. 7022/2018
cit. non è equiparabile a quella per cui è
causa, essendo il provvedimento di
esclusione ivi impugnato in realtà
incentrato sulla mancata regolarità
contributiva della ricorrente, che come
detto, risultava altresì coinvolta in un
procedimento penale, sul cui rilievo, il
giudice di primo grado non si era peraltro
neppure pronunciato, diversamente dal caso
di specie, in cui la richiesta di rinvio a
giudizio ne ha costituito l’unico
presupposto. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Monetizzazione
sostitutiva della realizzazione di opere a
standard e della cessione delle aree a
standard.
La monetizzazione
sostitutiva della realizzazione di opere a
standard, come la monetizzazione della
cessione delle aree a standard, costituisce
il contenuto di un potere discrezionale del
Comune il quale deve in primo luogo
soddisfare l’interesse pubblico a rendere
effettivamente edificabile l’area su cui
sorgerà l’intervento edilizio, dotandola dei
manufatti e dei servizi indispensabili per
l’agibilità e la fruibilità del fabbricato
secondo la destinazione d’uso.
Per tali ragioni non sussiste l’obbligo del
Comune di aderire alla proposta del privato
di corresponsione degli oneri di
urbanizzazione, rimanendo l’Amministrazione
titolare di una facoltà di scelta tra la
monetizzazione e la cessione delle aree.
Ne consegue che qualora la monetizzazione
sia stata concessa e non sia stata ritirata
dall’amministrazione o annullata dal giudice
essa osta all’accoglimento di richieste che
si pongano in contrasto con essa; a ciò si
aggiunge che qualora la proposta di
monetizzazione delle opere provenga dal
privato spetta, comunque,
all'amministrazione, in base
all'obbligazione unilateralmente assunta
dalla parte, accettare o meno la proposta e
subordinarla a condizioni o prescrizioni
specifiche; con la conseguenza che la parte
promittente non può mutare unilateralmente,
in un momento successivo, le condizioni
sulle quali è intervenuto il consenso
comunale, altrimenti venendosi ad alterare
ingiustificatamente, mediante l'iniziativa
unilaterale del medesimo obbligato
principale, le basi stesse del consenso
espresso nella convenzione o in un
successivo atto di accettazione della
monetizzazione che integri la suddetta
convenzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.04.2019 n. 882 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
L’infondatezza del gravame esime il Collegio
dall’esame dell’eccezione di estinzione del
giudizio per tardiva riassunzione.
Nel merito occorre evidenziare che non è
discusso tra le parti che la scelta di non
realizzare i tre posti auto mancanti
consegue a precisa richiesta avanzata dalla
società ricorrente accolta dal Comune con un
provvedimento che ha quantificato le somme
sostitutive dovute dal privato in €
16.362.00, interamente pagate e non
contestate né nell’an che nel
quantum.
Nel caso di specie si discute se il privato
possa cambiare idea, presentare un permesso
a costruire per la realizzazione delle opere
prima monetizzate e chiedere la restituzione
delle somme versate in esecuzione di un atto
non contestato.
In merito occorre premettere che in
attuazione del comma 9, il D.M. 02.04.1968
n. 1444, ha disciplinato per ogni zona
omogenea le misure concrete dei parametri
che devono essere rispettate in sede di
formazione degli strumenti urbanistici
generali, ovvero di varianti al PRG, la cui
concreta quantificazione spetta –nel
rispetto del D.M. 1444 cit.– agli organi
della pianificazione urbanistica.
Come visto, tra gli standard speciali
rientrano anche quelli che –sia per le zone
residenziali, che per quelle produttive–
individuano le quantità minime di spazi che
devono essere destinati alle attività
collettive, a verde pubblico, ovvero a
parcheggi.
A sua volta l’art. 46 della legge regionale
12/2005 reca: “La convenzione, alla cui
stipulazione è subordinato il rilascio dei
permessi di costruire, ovvero la
presentazione delle denunce di inizio
attività relativamente agli interventi
contemplati dai piani attuativi, deve
prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione
primaria, nonché la cessione gratuita delle
aree per attrezzature pubbliche e di
interesse pubblico o generale la cessione
gratuita, entro termini prestabiliti, delle
aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria, nonché la cessione
gratuita delle aree per attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico o generale
previste dal piano dei servizi; qualora
l'acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal
comune in relazione alla loro estensione,
conformazione o localizzazione, ovvero in
relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in
alternativa totale o parziale della
cessione, che all'atto della stipulazione i
soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all'utilità economica
conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non inferiore al costo
dell'acquisizione di altre aree. I proventi
delle monetizzazioni per la mancata cessione
di aree sono utilizzati per la realizzazione
degli interventi previsti nel piano dei
servizi, ivi compresa l’acquisizione di
altre aree a destinazione pubblica;
b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte
delle opere di urbanizzazione secondaria o
di quelle che siano necessarie per
allacciare la zona ai pubblici servizi; le
caratteristiche tecniche di tali opere
devono essere esattamente definite; ove la
realizzazione delle opere comporti oneri
inferiori a quelli previsti distintamente
per la urbanizzazione primaria e secondaria
ai sensi della presente legge, è corrisposta
la differenza; al comune spetta in ogni caso
la possibilità di richiedere, anziché la
realizzazione diretta delle opere, il
pagamento di una somma commisurata al costo
effettivo delle opere di urbanizzazione
inerenti al piano attuativo, nonché
all'entità ed alle caratteristiche
dell'insediamento e comunque non inferiore
agli oneri previsti dalla relativa
deliberazione comunale”.
Dal complesso delle norme citate risulta
chiaro che la
monetizzazione sostitutiva della
realizzazione di opere a standard, come la
monetizzazione della cessione delle aree a
standard, costituisce il contenuto di un
potere discrezionale del Comune, il quale
deve in primo luogo soddisfare l’interesse
pubblico a rendere effettivamente
edificabile l’area su cui sorgerà
l’intervento edilizio, dotandola dei
manufatti e dei servizi indispensabili per
l’agibilità e la fruibilità del fabbricato
secondo la destinazione d’uso.
Per tali ragioni la giurisprudenza ha
chiarito che cui non
sussiste l’obbligo del Comune di aderire
alla proposta del privato di corresponsione
degli oneri di urbanizzazione, rimanendo
l’Amministrazione titolare di una facoltà di
scelta tra la monetizzazione e la cessione
delle aree
(TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 13.07.2005,
n. 749; Cons. St., Sez. IV, 08.01.2013, n.
32, secondo cui la
monetizzazione si configura quale facoltà
eminentemente discrezionale «dell’Amministrazione
Comunale e non già quale diritto del privato»).
Ne consegue che, qualora la
monetizzazione sia stata concessa e non sia
stata ritirata dall’amministrazione od
annullata dal giudice, essa osta
all’accoglimento di richieste che si pongano
in contrasto con essa.
A ciò si aggiunge che qualora
la proposta di monetizzazione delle opere
provenga dal privato spetta, comunque,
all'amministrazione, in base
all'obbligazione unilateralmente assunta
dalla parte, accettare o meno la proposta e
subordinarla a condizioni o prescrizioni
specifiche; con la conseguenza che la parte
promittente non può mutare unilateralmente,
in un momento successivo, le condizioni
sulle quali è intervenuto il consenso
comunale, altrimenti venendosi ad alterare
ingiustificatamente, mediante l'iniziativa
unilaterale del medesimo obbligato
principale, le basi stesse del consenso
espresso nella convenzione od in un
successivo atto di accettazione della
monetizzazione che integri la suddetta
convenzione.
Ne consegue che il ricorso va respinto. |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
La fattura vincola l’avvocato.
No al decreto ingiuntivo per una parcella più alta. CASSAZIONE/ Un’ordinanza
sulla quantificazione dei compensi professionali.
Il
legale non può pretendere dal cliente mediante decreto ingiuntivo un
compenso maggiore rispetto a quello preventivato nel preavviso di fattura:
lo hanno chiarito i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione nell'ordinanza
17.04.2019 n. 10757, intervenendo sul ricorso di un avvocato avverso la
sentenza di appello a seguito della quale in totale riforma della decisione
di I grado veniva revocato il decreto ingiuntivo ottenuto per compensi
professionali.
A fronte del secondo motivo di censura, relativo al fatto che la Corte di
appello aveva fondato la propria decisione sulla circostanza che l'avvenuta
presentazione di una nota spese nel giudizio avesse precluso la liquidazione
di maggiori compensi, senza considerare che la determinazione degli onorari
nei confronti del cliente soggiace a criteri legali diversi rispetto a
quelli applicabili nei confronti del soccombente, gli ermellini rispondono
non solo rilevando che già in precedenza il medesimo avvocato aveva
trasmesso alla propria assistita due preavvisi di fattura nei quali per
l'impiego professionale profuso con riferimento alla causa in questione
aveva indicato un determinato importo; ma richiamano altresì un costante
orientamento sul punto, secondo il quale «ove la sentenza sia sorretta da
una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali
giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione
adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per
difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo
divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe
produrre in nessun caso l'annullamento della sentenza».
Ora, la suddetta
ratio decidendi è stata presa dal giudice di appello «del tutto
coerentemente, come base di calcolo del valore della prestazione»: ne deriva
che il professionista non poteva pretendere, così come ha fatto con la
proposta monitoria, la corresponsione di compensi per importi superiori,
quanto meno a quelli di cui alla nota spese depositata.
Così argomentando, hanno quindi rigettato il ricorso e condannato il
ricorrente al pagamento delle spese di giudizio oltre al contributo
unificato
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019). |
URBANISTICA: Necessità
della ripubblicazione del PGT.
Con
riguardo alla necessità di una
ripubblicazione del PGT, legata ad un
asserito stravolgimento di quest’ultimo in
fase di approvazione,
sebbene, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, la
rielaborazione complessiva di uno strumento
di pianificazione territoriale, avvenuta in
sede di approvazione definitiva dello
stesso, comporti la necessità della sua
ripubblicazione, va tuttavia osservato che
ricorre una tale ipotesi allorquando fra la
fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua
impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei
Comuni, si esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando,
in sede di approvazione, vengano introdotte
modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree; in
tali casi trova applicazione la norma
dell’art. 13, comma 9, della legge regionale
n. 12 del 2005 che esclude la necessità di
nuova pubblicazione in caso di approvazione
di “… controdeduzioni alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali e
regionali …”.
Tale disposizione appare del tutto
ragionevole alla luce della interpretazione
che ne ha fornito la giurisprudenza,
avendone limitato l’operatività alle
situazioni in cui non risulta essersi
prodotto uno stravolgimento del piano o
delle sue linee portanti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 868 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Con la seconda doglianza si assume che il
Piano, attraverso lo stralcio del RCC18,
sarebbe stato modificato e ciò avrebbe
dovuto condurre ad una ripubblicazione dello
stesso, al fine di consentire alla parte
interessata di interloquire sul nuovo
assetto urbanistico.
3.1. La doglianza è infondata.
In primo luogo, si deve sottolineare come
nessuno stravolgimento del Piano risulta
essere stato posto in essere, considerato
che destinazione a zona agricola della
proprietà dei ricorrenti non ha prodotto
effetti così rilevanti sull’assetto
territoriale complessivo, o almeno ciò non è
stato oggetto di inequivoca dimostrazione;
in tal modo è stato altresì garantito un
minore consumo di suolo complessivo.
In ogni caso, con riguardo alla necessità di
una ripubblicazione del Piano, legata ad un
asserito stravolgimento di quest’ultimo in
fase di approvazione, va sottolineato che,
sebbene, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, la
rielaborazione complessiva di uno strumento
di pianificazione territoriale, avvenuta in
sede di approvazione definitiva dello
stesso, comporti la necessità della sua
ripubblicazione, va tuttavia osservato che
ricorre una tale ipotesi allorquando fra la
fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione
(cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II,
26.11.2018, n. 2677; altresì, 19.07.2018, n.
1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei
Comuni, si esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano,
quando, in sede di approvazione, vengano
introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi
di aree, come avvenuto nella fattispecie de
qua (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In tali casi trova applicazione la norma
dell’art. 13, comma 9, della legge regionale
n. 12 del 2005 che esclude la necessità di
nuova pubblicazione in caso di approvazione
di “… controdeduzioni alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali e
regionali …”. Tale disposizione appare del
tutto ragionevole alla luce della
interpretazione che ne ha fornito la
giurisprudenza, avendone limitato
l’operatività alle situazioni in cui non
risulta essersi prodotto uno stravolgimento
del piano o delle sue linee portanti (TAR
Lombardia, Milano, II, 04.04.2019, n. 751;
26.11.2018, n. 2677).
3.2. Ciò determina il rigetto della predetta
censura. |
URBANISTICA: Secondo
la consolidata giurisprudenza, le scelte
riguardanti la classificazione dei suoli
sono sorrette da ampia discrezionalità e in
tale ambito la posizione dei privati risulta
recessiva rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti.
---------------
La destinazione di un’area a verde agricolo
non implica necessariamente che la stessa
soddisfi in modo diretto e immediato
interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell’ordinato
governo del territorio, quale la necessità
di impedire ulteriori edificazioni, ovvero
di garantire l’equilibrio delle condizioni
di vivibilità, assicurando la quota di
valori naturalistici e ambientali necessaria
a compensare gli effetti dell’espansione
dell’aggregato urbano.
---------------
La più recente evoluzione giurisprudenziale
ha evidenziato che all’interno della
pianificazione urbanistica devono trovare
spazio anche esigenze di tutela ambientale
ed ecologica, tra le quali spicca proprio la
necessità di evitare l’ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il
correlativo esercizio del potere di
pianificazione non possono essere intesi,
sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
---------------
In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento
delle capacità edificatorie del comparto di
proprietà dei ricorrenti, rispetto alle
previsioni contenute nel Piano adottato,
deve richiamarsi la costante giurisprudenza
secondo la quale, in materia urbanistica,
non opera il principio del divieto di
reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse dei
privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale.
---------------
Del resto, secondo la consolidata
giurisprudenza, le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono sorrette da
ampia discrezionalità e in tale ambito la
posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia,
Milano, II, 04.04.2019, n. 751; 27.02.2017, n. 451).
Difatti, lo
strumento urbanistico previgente
classificava l’area in parte in zona
omogenea F (attrezzature pubbliche) ed in
parte in zona omogenea E (agro-silvo-pastorale).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi
che la destinazione di un’area a verde
agricolo non implica necessariamente che la
stessa soddisfi in modo diretto e immediato
interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell’ordinato
governo del territorio, quale la necessità
di impedire ulteriori edificazioni, ovvero
di garantire l’equilibrio delle condizioni
di vivibilità, assicurando la quota di
valori naturalistici e ambientali necessaria
a compensare gli effetti dell’espansione
dell’aggregato urbano (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n.
830; 16.11.2011, n. 6049; TAR
Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n.
122; 27.02.2017, n. 451).
La più recente evoluzione giurisprudenziale
ha, oltretutto, evidenziato che all’interno
della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca
proprio la necessità di evitare l’ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi
(così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto
l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non possono
essere intesi, sul piano giuridico, solo
come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n.
2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia,
Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento
delle capacità edificatorie del comparto di
proprietà dei ricorrenti, rispetto alle
previsioni contenute nel Piano adottato,
deve richiamarsi la costante giurisprudenza
secondo la quale, in materia urbanistica,
non opera il principio del divieto di
reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse dei
privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale
(Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n.
1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n.
2393) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 868 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette
da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta
recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto
scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non
siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del
suolo, nel caso non sussistenti.
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che
all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche
esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la
necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi. E ciò in quanto l’urbanistica ed
il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere
intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo
ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione
territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di
interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
---------------
Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale
ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro
limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute
dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono
scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice
amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o
irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che
non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di
trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa ad
immobili adiacenti.
In ordine, poi, all’avvenuta compressione delle capacità edificatorie del
comparto di proprietà della ricorrente, rispetto alle previsioni contenute
nel previgente strumento urbanistico, deve richiamarsi la costante
giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il
principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia
l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della
previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede
giurisdizionale.
---------------
Nel ribadire l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione nel perseguimento
degli obiettivi legati ad un armonico e ordinato sviluppo del territorio, va
pure sottolineato che la destinazione di un’area a verde agricolo non
implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato
interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato
governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori
edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di
vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali
necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano.
---------------
3. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo si assume
l’illegittimità della qualificazione come Ambito di Riqualificazione Urbana
(A.R.U.) dell’area di proprietà della ricorrente, non trattandosi di area
dismessa o sottoutilizzata, né di ambito con funzioni non coerenti con il
contesto, né di comparto che necessiti di interventi di trasformazione
finalizzati alla riqualificazione; sarebbe inoltre illegittima anche la
scelta di subordinare la realizzazione della residua capacità edificatoria
all’acquisizione di aree equoperequate.
3.1. La doglianza è infondata.
La motivazione posta a base della qualificazione del comparto di proprietà
della ricorrente è contenuta nella controdeduzione all’osservazione proposta
rispetto al Piano adottato: si è specificato difatti che “il ricorso alla
predisposizione di un piano attuativo risulta indispensabile se si valuta le
opportunità offerte dalla specifica disciplina d’ambito. Il PGT, anche al
fine di garantire il consolidamento dell’attività in essere, consente una
molteplicità di interventi, fino alla riorganizzazione complessiva del
comparto. In quest’ultimo caso ci si troverebbe di fronte ad un intervento
di trasformazione urbanistica e, nel rispetto dei disposti normativi
nazionali e regionali, il medesimo intervento deve necessariamente essere
sottoposto a pianificazione esecutiva preventiva. Resta inteso che, ai sensi
dell’art. 19 delle norme di PGT, in assenza di piano attuativo, sono fatte
salve le attività in essere e, sugli edifici esistenti, sono ammessi
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. In merito alla
realizzazione di una stazione di distribuzione del carburante, il PGT non
intende in alcun modo interferire con atti o sentenze o pregiudicarne gli
effetti” (all. 7 al ricorso).
Come evidenziato dalla difesa comunale, l’art. 49 delle N.d.A. del P.d.R.
qualifica come A.R.U. anche i “comparti che necessitano di interventi di
trasformazione funzionale ed edilizia finalizzati alla loro riattivazione in
senso urbano e al potenziamento delle infrastrutture e dei servizi”, con
la conseguenza che non è necessario trovarsi al cospetto di aree degradate o
dimesse, ma apparendo sufficiente il ricorrere della necessità o
dell’opportunità di valorizzare e consolidare, attraverso un loro
potenziamento, una parte del territorio comunale al fine di migliorarne le
condizioni di vivibilità e l’assetto complessivo.
Inoltre, la previsione del Piano attuativo è legata alle possibilità di
sviluppo del comparto che, a giudizio del Comune, richiedono una valutazione
contestuale e unitaria, anche al fine di comprendere l’impatto complessivo
degli interventi sul tessuto esistente, indipendentemente dall’assetto già
raggiunto (cfr. la destinazione integrativa contenuta nella scheda A.R.U. 26
Via De Gasperi: all. 4 al ricorso).
Ne deriva la non illogicità della determinazione comunale, in linea con la
consolidata giurisprudenza, secondo la quale le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale
ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non
sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non
sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia,
Milano, II, 04.04.2019, n. 751).
3.2. La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato
che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche
esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la
necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio di Stato, IV,
21.12.2012, n. 6656). E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo
esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano
giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie
connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo
ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione
territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di
interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio di Stato, IV,
10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR
Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
3.3. Quanto alla contestazione del meccanismo perequativo, deve
sottolinearsi come la discrezionalità dell’Amministrazione in ambito
pianificatorio sia talmente ampia da non poter essere sindacata né nel
merito, né con riguardo a supposte disparità di trattamento tra aree
contigue.
Del resto, in assenza di una perfetta omogeneità delle zone poste in
comparazione, affatto dimostrata nel presente giudizio, non è possibile
invocare pretese finalizzate ad ottenere una parità di trattamento, tanto
meno in relazione all’assetto urbanistico del territorio, dove
l’Amministrazione dispone della più ampia discrezionalità, non rilevando
affatto la specifica collocazione delle diverse aree. Le scelte di
pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia
discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti
alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle
autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di
merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero
da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di
eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con
la destinazione impressa ad immobili adiacenti (TAR Lombardia, Milano, II,
22.01.2019, n. 122; 27.02.2018, n. 567; si veda pure Consiglio di Stato, IV,
16.01.2012, n. 119).
In ordine, poi, all’avvenuta compressione delle capacità edificatorie del
comparto di proprietà della ricorrente, rispetto alle previsioni contenute
nel previgente strumento urbanistico, deve richiamarsi la costante
giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il
principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati
alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n.
1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
3.4. Ciò determina il rigetto della suesposta censura.
...
Nel ribadire l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione nel perseguimento
degli obiettivi legati ad un armonico e ordinato sviluppo del territorio, va
pure sottolineato che la destinazione di un’area a verde agricolo non
implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato
interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato
governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori
edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di
vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali
necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n.
6049; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2017, n. 451)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 866 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In tema di pianificazione urbanistica la nozione di lotto intercluso ha una
sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore
pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente
urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici,
nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere
e compensare il disordine edificativo in atto.
---------------
4.2. Quanto alla natura di lotto
(pressoché) intercluso dell’area di proprietà della ricorrente, va rimarcato
come in tema di pianificazione urbanistica la nozione di lotto intercluso ha
una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore
pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente
urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici,
nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere
e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, IV,
20.07.2016, n. 3293; 21.12.2012, n. 6656); nella fattispecie de qua
non risulta affatto sussistere un lotto intercluso, come dimostrato dalle
cartografie di Piano (cfr. all. 3 e 14 del Comune), essendo edificata
soltanto una parte del confine del lotto, mentre un lato è delimitato da una
strada (SP109) e l’altro da un’area agricola (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 866 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Rapporti tra accesso ai documenti ordinario e civico nel settore degli
appalti con riferimento agli atti della fase esecutiva.
-----------------
Accesso ai documenti - Contratti della Pubblica amministrazione – Accesso
civico – Fase esecutiva del contratto – Limiti.
Nei rapporti tra accesso ai documenti ordinario e
accesso civico nel settore degli appalti, per quanto riguarda dati,
informazioni e documenti inerenti la fase esecutiva, successiva
all’aggiudicazione del contratto di appalto, caratterizzata da rapporti
paritari, l’interesse della ex partecipante alla gara può configurarsi solo
nel rispetto delle condizioni e dei limiti dell’accesso ordinario.
Va quindi escluso l’accesso civico esercitato dal concorrente relativamente
agli atti della fase di esecuzione del contratto sull’art. 140, d.lgs. n.
163 del 2006, in base al quale, in caso di fallimento o di liquidazione
coatta e concordato preventivo, ovvero in caso di risoluzione del contratto,
le stazioni appaltanti potranno interpellare i soggetti che hanno
partecipato alla originaria procedura di gara, al fine di stipulare un nuovo
contratto.
Non sussistendo alcuna ipotesi di risoluzione per inadempimento o di recesso
dal contratto che possa giustificare il ricorso all’interpello previsto
dalla norma, l’istanza si traduce in un’indagine esplorativa tesa alla
ricerca di una qualche condotta inadempiente dell’attuale aggiudicataria, di
per sé inammissibile, non risultando da alcuna fonte di provenienza delle
amministrazioni interessate, né avendo la ricorrente altrimenti fornito
alcun elemento o indicato concrete circostanze in tal senso, la sussistenza
di qualsivoglia inadempimento dell’aggiudicatario nell’esecuzione delle
prestazioni contrattuali.
-----------------
(1) Ha preliminarmente chiarito il Tar che circa l’ambito di
operatività dell’istituto dell’accesso civico ed in particolare sulla sua
applicabilità nella materia degli appalti pubblici, la giurisprudenza ha
finora espresso orientamenti non univoci (Tar
Napoli, sez. VI, n. 6028 del 2017;
Tar Marche n. 677 del 2018;
Tar Lazio, sez. II, n. 425 del 2019; da ultimo, anche
TAR Toscana, sez. I, n. 422 del 2019).
Secondo un primo indirizzo, i documenti afferenti alle procedure di
affidamento ed esecuzione sono esclusivamente sottoposti alla disciplina di
cui all’art. 53 d.lgs. 50/2016 e pertanto restano esclusi dall’accesso
civico c.d. generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013 (Tar
Parma n. 197 del 2018;
Tar Milano, sez. I, n. 630 del 2019).
In base ad un diverso indirizzo l’art. 53, d.lgs. n. 50 del 2016 non va
inteso come un rinvio fisso ma come volontà del legislatore di sottoporre
l’accesso ai documenti di gara generici (non sensibili) alle norme ordinarie
in tema di accesso, nella loro evoluzione storica e, pertanto, attualmente
alla disciplina introdotta dal d.lgs. n. 33 del 2016, oltre tutto successivo
al codice dei contratti, che afferma la regola generale della integrale
trasparenza la quale implica il diritto di chiunque, senza la prova di una
particolare legittimazione e senza onere di motivare la relativa istanza, di
accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni,
ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria, compresi
tutti quelli attinenti alla fase del rapporto contrattuale tra stazione
appaltante ed aggiudicatario dell’appalto.
Ha ancora ricordato il Tar che l’art. 37, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 33
del 2013, poi sostituito dall’art. 31, comma 1, d.lgs. 25.05.2016, n. 97,
prevede che “Le pubbliche amministrazioni e le stazioni appaltanti
pubblicano: b) gli atti e le informazioni oggetto di pubblicazione ai sensi
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”. La norma da ultimo citata è
infatti coerentemente inserita nel capo V (rubricato come “Obblighi di
pubblicazione in settori speciali”) del decreto legislativo, che
sottopone ad accesso civico generalizzato tutta la documentazione oggetto di
pubblicazione obbligatoria secondo il codice degli appalti. Ne consegue una
disciplina complessa, risultante dall’applicazione dei diversi istituti
dell’accesso ordinario e di quello c.d. civico, che hanno un diverso ambito
di operatività e grado di profondità con effetti diversificati con
riferimento al settore speciale dei pubblici appalti.
In particolare, per quanto riguarda gli atti e documenti della fase
pubblicistica del procedimento, oltre all’acceso ordinario è consentito
anche l’accesso civico generalizzato, “allo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico”; per quanto riguarda atti e documenti della fase
esecutiva del rapporto contrattuale tra stazione appaltante ed
aggiudicataria, l’acceso ordinario è consentito ai sensi degli artt. 22 e
seguenti della legge n. 241 e nel rispetto delle condizioni e dei limiti
individuati dalla giurisprudenza, che nella fattispecie non risultano
osservati (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2019, n. 577
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
2.1 - La ricorrente fonda la propria pretesa di accedere agli atti della
fase di esecuzione del contratto sull’art. 140 d.lgs. 162/2006 (applicabile
ratione temporis) in base al quale, in caso di fallimento o di
liquidazione coatta e concordato preventivo, ovvero in caso di risoluzione
del contratto, le stazioni appaltanti potranno interpellare i soggetti che
hanno partecipato alla originaria procedura di gara, al fine di stipulare un
nuovo contratto.
Nella fattispecie (come già evidenziato da Consip nella nota del 02.05.2018 e
dalla stessa Azienda USL Toscana Centro), non sussiste alcuna ipotesi di
risoluzione per inadempimento o di recesso dal contratto che possa
giustificare il ricorso all’interpello previsto dalla norma.
Pertanto, l’istanza formulata dalla ricorrente –per il contenuto con cui è
formulata- si traduce in un’indagine esplorativa tesa alla ricerca di una
qualche condotta inadempiente dell’attuale aggiudicataria, di per sé
inammissibile, non risultando da alcuna fonte di provenienza delle
amministrazioni interessate, né avendo la ricorrente altrimenti fornito
alcun elemento o indicato concrete circostanze in tal senso, la sussistenza
di qualsivoglia inadempimento di C.N.S. nell’esecuzione delle prestazioni
contrattuali.
Sul punto, come condivisibilmente affermato da consolidata giurisprudenza
(da ultimo, TAR Lazio, Roma, III, 07.12.2018 n. 11875; TAR Emilia Romagna,
Bologna, 04.04.2016 n. 366), è inammissibile una richiesta di accesso agli
atti amministrativi avente natura meramente esplorativa, volta quindi ad un
mero controllo generalizzato dell'operato della pubblica amministrazione.
2.2 – Né può convenirsi con la diversa prospettazione introdotta dalla
ricorrente in sede di ricorso avverso il diniego impugnato, con la quale
essa qualifica la propria domanda come istanza di accesso generalizzato ai
sensi dell’art. 3 d.lgs. n. 33/2013 (come modificato con d.lgs. 97/2016),
pur tralasciando il rilievo formale della differente qualificazione
normativa dell’istanza rispetto alla formulazione prescelta in sede
amministrativa alla quale soltanto si riferisce la determinazione impugnata.
In via generale, “il legislatore, pur introducendo nel 2016 (l.
25.05.2016, n. 97) il nuovo istituto dell’accesso civico “generalizzato”,
espressamente volto a consentire l’accesso di chiunque a documenti e dati
detenuti dai soggetti indicati nel neo-introdotto art. 2-bis d.lgs.
14.03.2013, n. 33 e quindi permettendo per la prima volta l’accesso (ai fini
di un controllo) diffuso alla documentazione in possesso delle
amministrazioni (e degli altri soggetti indicati nella norma appena citata)
e privo di un manifesto interesse da parte dell’accedente, ha però voluto
tutelare interessi pubblici ed interessi privati che potessero esser messi
in pericolo dall’accesso indiscriminato. Il legislatore ha quindi operato
per un verso mitigando la possibilità di conoscenza integrale ed indistinta
dei documenti detenuti dall’ente introducendo dei limiti all’ampio accesso
(art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. 33/2013) e, per altro verso, mantenendo in
vita l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi e la propria
disciplina speciale dettata dalla l. 241/1990 (evitando accuratamente di
novellare la benché minima previsione contenuta nelle disposizioni da essa
recate), anche con riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia
sotto il versante della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse
in capo al richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle
richieste volte ad ottenere un accesso diffuso” (cfr. Cons. Stato, VI,
n. 651/2018).
Circa l’ambito di operatività dell’istituto dell’accesso civico ed in
particolare sulla sua applicabilità nella materia degli appalti pubblici, il
Collegio non ignora che la giurisprudenza ha finora espresso orientamenti
non univoci (TAR Campania, Napoli, VI, n. 6028/2017; TAR Marche, I, n.
677/2018; TAR Lazio, Roma, II, n. 425/2019; da ultimo, anche TAR Toscana, I,
n. 422/2019).
Secondo un primo indirizzo, i documenti afferenti alle procedure di
affidamento ed esecuzione sono esclusivamente sottoposti alla disciplina di
cui all’art. 53 d.lgs. 50/2016 e pertanto restano esclusi dall’accesso
civico c.d. generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013 (TAR
Emilia Romagna, Parma, n. 197/2018; TAR Lombardia, Milano, I, n. 630/2019).
In base ad un diverso indirizzo (come interpretato dalla ricorrente Diddi)
l’art. 53 d.lgs. 50/2016 non va inteso come un rinvio fisso ma come volontà
del legislatore di sottoporre l’accesso ai documenti di gara generici (non
sensibili) alle norme ordinarie in tema di accesso, nella loro evoluzione
storica e, pertanto, attualmente alla disciplina introdotta dal d.lgs.
33/2016, oltre tutto successivo al codice dei contratti, che afferma la
regola generale della integrale trasparenza la quale implica il diritto di
chiunque, senza la prova di una particolare legittimazione e senza onere di
motivare la relativa istanza, di accedere ai dati e ai documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione obbligatoria, compresi tutti quelli attinenti alla fase del
rapporto contrattuale tra stazione appaltante ed aggiudicatario
dell’appalto.
Invero, la sentenza del TAR Lombardia (Milano, sez. IV, n. 45/2019 citata
dalla ricorrente in opposizione alla precedente sentenza del TAR Emilia
Romagna, sez. Parma, n. 197/2018), ha statuito su un’istanza di accesso
“alle offerte tecniche ed economiche e al piano finanziario”.
dell’aggiudicataria, e cioè ad atti che si collocano nella fase
pubblicistica della procedura di affidamento, rispetto alla quale soltanto
ha, condivisibilmente, affermato la piena applicabilità dell’acceso civico
(sia pure nei limiti di cui all’art. 5-bis d.lgs. 33/2016).
2.3 - Nella fattispecie in esame, l’istanza di accesso agli atti si
riferisce ad una serie di dati e documenti strettamente attinenti allo
svolgimento del servizio, oggetto di appalto, laddove esistenti e detenuti
dalla stazione appaltante, al fine di “verificare che l’esecuzione del
servizio si svolga nel pieno rispetto di quanto richiesto dal Capitolato
Tecnico”….; a tal fine si chiede di accedere “alla documentazione che
attesti la corretta esecuzione delle prestazioni”.
Ritiene il Collegio che l’esame della disciplina applicabile debba prendere
le mosse dall’art. 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013 n. 33, il quale dispone:
“2. Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di
accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni,
ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente
decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi
giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis.”
Il successivo comma 11, a sua volta, sancisce: “11. Restano fermi gli
obblighi di pubblicazione previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di
accesso degli interessati previste dal Capo V della legge 07.08.1990, n. 241”.
Il successivo art. 5-bis, dopo aver previsto i casi in cui l’accesso deve
essere negato a tutela di taluni interessi pubblici (comma 1), nonché a
tutela di taluni interessi privati (comma 2), al comma 3 dispone: “Il
diritto di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di
Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla
legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina
vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi
quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990”.
Ne segue che non solo permane, in via generale, la disciplina delle forme di
accesso agli atti diverse da quella introdotta dal d.lgs. 33/2013 (neppure
richiamato dal pur successivo d.lgs. 50/2016), ma che l’accesso c.d. civico
è escluso ove esso sia subordinato dalla legge vigente “al rispetto di
specifiche condizioni, modalità o limiti”.
2.4 - Con specifico riferimento al profilo in questione, il Collegio ritiene
pertanto che debba trovarsi il necessario punto di equilibrio risultante
dall’applicazione dell’art. 53 d.lgs. 50/2016, che rinvia alla disciplina di
cui all’art. 22 e seguenti della legge n. 241/1990, e dell’art. 5-bis, comma
3, d.lgs. 33/2013.
Per quanto riguarda dati, informazioni e documenti inerenti la fase
esecutiva, successiva all’aggiudicazione del contratto di appalto,
caratterizzata come noto da rapporti paritari, l’interesse della ex
partecipante alla gara può configurarsi solo nel rispetto delle condizioni e
dei limiti dell’accesso ordinario; nella fattispecie esso va escluso, attesa
la palese assenza di qualsivoglia prospettiva di risoluzione del rapporto
contrattuale e di un interesse attuale della ricorrente al subentro, neanche
ipotizzabile sulla base degli elementi acquisiti in giudizio.
Diversamente si deve ritenere laddove l’accesso abbia ad oggetto dati e
documenti (es. offerte tecniche ed economiche, piano finanziario) della fase
pubblicistica della procedura di affidamento.
Infatti, come sancito dall’art. 37, comma 1, lett. b), d.lgs. 33/2013 (poi
sostituito dall’art. 31, comma 1, d.lgs. 25.05.2016 n. 97): “Le pubbliche
amministrazioni e le stazioni appaltanti pubblicano: b) gli atti e le
informazioni oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50”.
La norma da ultimo citata è infatti coerentemente inserita nel capo V
(rubricato come “Obblighi di pubblicazione in settori speciali”) del
decreto legislativo, che sottopone ad accesso civico generalizzato tutta la
documentazione oggetto di pubblicazione obbligatoria secondo il codice degli
appalti.
Ne consegue una disciplina complessa, risultante dall’applicazione dei
diversi istituti dell’accesso ordinario e di quello c.d. civico, che hanno
un diverso ambito di operatività e grado di profondità con effetti
diversificati con riferimento al settore speciale dei pubblici appalti.
In particolare, per quanto riguarda gli atti e documenti della fase
pubblicistica del procedimento, oltre all’acceso ordinario è consentito
anche l’accesso civico generalizzato, “allo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico”; per quanto riguarda atti e documenti della fase
esecutiva del rapporto contrattuale tra stazione appaltante ed
aggiudicataria, l’acceso ordinario è consentito ai sensi degli artt. 22 e
seguenti della legge n. 241 e nel rispetto delle condizioni e dei limiti
individuati dalla giurisprudenza, che nella fattispecie non risultano
osservati.
3 – Conclusivamente, per le ragioni esposte, il ricorso va respinto in
quanto infondato. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di sospensione dei lavori edili in corso ha natura cautelare, in
quanto è teso ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un
aggravio del danno urbanistico.
Dalla natura interinale e provvisoria del provvedimento in questione
discende che, allo spirare del termine di quarantacinque giorni dalla sua
adozione, laddove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento
sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia.
Tutto ciò nella considerazione che l'ordinanza di sospensione dei lavori è
un provvedimento con efficacia strettamente limitata nel tempo, avente il
solo scopo di impedire il procedere della costruzione, in modo da consentire
all’Amministrazione di potersi determinare con una misura sanzionatoria
(ordine di demolizione ovvero applicazione di una sanzione pecuniaria), non
essendo consentito che il destinatario possa essere esposto sine die
all'incertezza circa la sussistenza del proprio ius aedificandi.
---------------
1. La domanda di annullamento dell’ordinanza n. 10 del Comune di
Campodarsego in data 28.02.2005, prot. n. 4172, è inammissibile per carenza
di interesse.
Deve premettersi che il potere di sospensione dei lavori edili in corso ha
natura cautelare, in quanto è teso ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravio del danno urbanistico (cfr., ex plurimis, Cons.
Stato, sez. IV, 06.11.2017, n. 5110; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis,
22.01.2019, n. 849; TAR Campania, Napoli, sez. II, 03.09.2018, n. 5329).
Dalla natura interinale e provvisoria del provvedimento in questione
discende che, allo spirare del termine di quarantacinque giorni dalla sua
adozione, laddove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento
sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia; tutto
ciò nella considerazione che l'ordinanza di sospensione dei lavori è un
provvedimento con efficacia strettamente limitata nel tempo, avente il solo
scopo di impedire il procedere della costruzione, in modo da consentire
all’Amministrazione di potersi determinare con una misura sanzionatoria
(ordine di demolizione ovvero applicazione di una sanzione pecuniaria), non
essendo consentito che il destinatario possa essere esposto sine die
all'incertezza circa la sussistenza del proprio ius aedificandi (arg.
ex Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2016 n. 2758; TAR Sicilia, Catania, sez. III,
15.05.2018, n. 1004; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 20.03.2017, n. 3709).
Orbene, l’ordinanza de qua è stata adottata in data 28.02.2005 e
notificata in data 03.03.2005 alla società esponente (come risulta
dall’epigrafe del ricorso introduttivo del giudizio) mentre la relata di
notificazione del ricorso introduttivo reca la data del 03.05.2005,
allorquando dunque l’impugnata ordinanza aveva perso efficacia.
Ne discende che la relativa domanda di annullamento deve essere dichiarata
inammissibile in quanto rivolta avverso un provvedimento non idoneo a
determinare alcuna lesione attuale e concreta della posizione giuridica
della parte ricorrente (arg. ex TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 13.06.2017, n.
6987)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 487 - link a
www.giustizia-amministrativa). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nei
concorsi per dirigenti solo i criteri pre-determinati legittimano
l’esclusione.
È illegittima l'esclusione del dirigente dalla selezione per il posto di
direttore regionale se la scelta non è giustificata da criteri generali
determinati preventivamente dall'amministrazione in relazione alla natura e
alle caratteristiche del ruolo, alla luce dei principi di buona fede e
correttezza.
È quanto emerge dall'ordinanza
16.04.2019 n. 10567 della
Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Il caso
Protagonista della vicenda è un dirigente delle Regione Lazio -ora in
pensione- il quale nel 2007 veniva escluso dalla procedura selettiva per la
nomina di dirigente regionale dei servizi sociali, in quanto pochi mesi
prima aveva ricevuto l'incarico biennale di direttore dell'area
programmazione e qualità.
Il dirigente aveva chiesto all'amministrazione di poter partecipare alla
selezione per il ruolo apicale, ma la Regione riteneva di dover rispettare
l'impegno contrattuale assunto che prevedeva la revoca dell'incarico solo a
fronte di assegnazione di nuovo incarico e non anche per la partecipazione
alla selezione per un nuovo incarico.
Il dirigente aveva impugnato così la
sua esclusione dalla procedura selettiva denunciando sostanzialmente la
violazione dell'articolo 19 del testo unico sul pubblico impiego (Dlgs
165/2001) che detta le regole sull'assegnazione di incarichi di funzioni
dirigenziali nonché in generale del principio di correttezza e buona fede
fissati degli articoli 1175 e 1375 del codice civile nell'interpretazione
del contratto individuale di lavoro.
La decisione
Dopo un doppio verdetto sfavorevole al dirigente, la questione è arrivata in
Cassazione dove i giudici di legittimità hanno ribaltato la decisione
accogliendo la tesi dell'inosservanza dei principi di correttezza e buona
fede da parte dell'amministrazione regionale.
La Suprema corte ritiene che i giudici di merito abbiano incentrato la
decisione sull'interpretazione del contratto individuale di conferimento
dell'incarico al ricorrente senza tener conto dei principi espressi dal
Testo unico sul pubblico impiego e dalla contrattazione collettiva sul tema
del conferimento di incarichi apicali.
Secondo il Collegio, gli atti
relativi all'assegnazione di incarichi dirigenziali «rivestono natura di
determinazioni negoziali assunte dall'amministrazione con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro» e perciò obbligano al rispetto della
correttezza e buona fede, anche alla stregua dei principi di imparzialità e
buon andamento di cui all'art. 97 Cost. Ciò significa che l'amministrazione
deve «adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad
esternate le ragioni giustificatrici delle proprie scelte», pena
l'inadempimento contrattuale.
Nel caso di specie, alla luce dei contratti del 1996, 1999 e 2006 e
dell'attuale disciplina dell'articolo 19 del testo unico sul pubblico
impiego, la Regione Lazio avrebbe dovuto tener conto «in relazione alla
natura e caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e
delle capacità professionali del singolo dirigente» e, dunque, determinare
in via preventiva se la situazione in cui versava il dirigente
corrispondesse a una causa di esclusione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019). |
APPALTI FORNITURE: Apertura
dei plichi contenenti la documentazione
necessaria per l’attribuzione del punteggio
tecnico in una gara per l’affidamento di un
bene pubblico.
Anche in una gara per
l’affidamento in concessione di beni e non
di servizi o di lavori –in relazione alla
quale non vi è applicazione diretta del
D.Lgs. 50/2016– parimenti devono
necessariamente trovare applicazione i
principi di pubblicità e di trasparenza
dell’azione amministrativa (cfr. l’art. 1
della legge 241/1990), nel rispetto della
norma costituzionale (art. 97 della
Costituzione) sul buon andamento e
sull’imparzialità dell’amministrazione e
dell’art. 41 della Carta di Nizza dei
diritti fondamentali dell’Unione europea,
sul diritto del cittadino “ad una buona
amministrazione”.
Tali esigenze di trasparenza non possono
limitarsi alla pubblicazione del bando di
gara e degli atti di conclusione della gara
stessa, ma impongono lo svolgimento
trasparente della procedura e quindi
l’apertura in seduta pubblica dei plichi
contenenti la documentazione necessaria per
l’attribuzione del punteggio
tecnico/qualitativo ai partecipanti alla
gara
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 15.04.2019 n. 840 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
1.5 Nel quinto motivo, proposto in
via subordinata, e per tale esaminato, è
lamentata l’illegittimità dell’intera
procedura di gara, in quanto l’apertura
delle buste contenenti le offerte tecniche
delle partecipanti è avvenuta in seduta
segreta.
Il motivo appare suscettibile di
accoglimento, per le ragioni seguenti.
In primo luogo risulta evidente che
l’apertura della busta “B”, contenente ai
sensi dell’art. 6 del bando tutti i
documenti per l’attribuzione del punteggio
tecnico (rilevanza dell’associazione,
progetto di gestione e progetto tecnico), è
avvenuta nella seduta riservata del
12.09.2018 (cfr. il doc. 4 della ricorrente).
La resistente e la controinteressata
reputano però che, venendo in considerazione
nel caso di specie una procedura per
l’assegnazione in concessione di un bene
pubblico non direttamente soggetta al codice
dei contratti, le esigenze di trasparenza
dell’azione amministrativa non richiedono
l’apertura in seduta pubblica delle buste
con la documentazione tecnica, in mancanza
fra l’altro di una normativa specifica al
riguardo.
Tale tesi difensiva non convince però il
Collegio.
Infatti, se è pur vero che la presente
concessione ha carattere di concessione di
beni e non di servizi o di lavori –sicché
non vi è applicazione diretta del D.Lgs.
50/2016– parimenti devono necessariamente
trovare applicazione i principi di
pubblicità e di trasparenza dell’azione
amministrativa (cfr. l’art. 1 della legge
241/1990), nel rispetto della norma
costituzionale (art. 97 della Costituzione)
sul buon andamento e sull’imparzialità
dell’amministrazione e dell’art. 41 della
Carta di Nizza dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, sul diritto del
cittadino “ad una buona amministrazione”.
Tali esigenze di trasparenza però,
contrariamente a quanto sostenuto nelle
difese delle parti intimate, non possono
limitarsi alla pubblicazione del bando di
gara e degli atti di conclusione della gara
stessa, ma impongono lo svolgimento
trasparente della procedura e quindi
l’apertura in seduta pubblica dei plichi
contenenti la documentazione necessaria per
l’attribuzione del punteggio
tecnico/qualitativo ai partecipanti alla
gara (sulla rilevanza dell’apertura delle
buste contenenti l’offerta tecnica in seduta
pubblica, cfr. la fondamentale sentenza del
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n.
13/2011).
D’altronde lo stesso codice dei contratti
pubblici, all’art. 4 ha cura di specificare
che l’affidamento dei contratti attivi –come quello di cui è causa– pur se esclusi
dall’ambito di applicazione oggettiva del
presente codice, avviene nel rispetto di una
serie di principi, fra cui quelli di
trasparenza e pubblicità.
Parimenti, appare ispirato a pregnanti
esigenze di pubblicità dell’attività
dell’amministrazione anche il RD 827/1924,
tuttora vigente, costituente il regolamento
di contabilità generale dello Stato, dal
quale possono senza dubbio desumersi
principi generali sulla pubblicità
dell’attività di scelta dei contraenti da
parte di tutte le pubbliche amministrazioni.
Neppure potrebbe sostenersi, come sembrano
adombrare le difese delle parti intimate,
che l’apertura in seduta pubblica non
sarebbe stata necessaria, giacché la busta
“B” indicata dal bando non avrebbe quale suo
contenuto una vera e propria offerta
tecnica, bensì una dichiarazione sugli
aspetti qualitativi dei concorrenti.
L’affermazione è smentita dalla semplice
lettura del bando (cfr. ancora il doc. 8
della ricorrente), che prevede quale
criterio di aggiudicazione quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa
(si veda l’art. 5), con inserimento nella
busta “B” di tutti gli elementi necessari
per l’attribuzione del punteggio tecnico
(che vale 70 punti su 100), fra cui il
“progetto di gestione” ed il “progetto
tecnico” (cfr. l’art. 6 del bando).
Del resto è sufficiente l’analisi
dell’attività della commissione, quale
risultante dai relativi verbali, per
concludere senza smentita che è stata
presentata dai concorrenti una vera e
propria offerta tecnica: e va quindi
nuovamente ribadito che l’apertura della
busta che la conteneva costituiva “passaggio
essenziale e determinante dell’esito della
procedura concorsuale”, e richiedeva
pertanto di essere effettuata in forma
pubblica “a tutela degli interessi privati e
pubblici coinvolti dal procedimento” (così,
in motivazione, C.d.S., a.p., 13/2011, cit.),
che non vengono meno solo perché la
procedura riguarda un bene pubblico e non un
servizio.
Infine, a conferma, nel caso di specie, che
il principio di pubblicità –con
un’inammissibile restrizione della tutela
anche giudiziale– è stato pregiudicato, va
rimarcato altresì che il verbale della
seduta riservata di apertura delle buste (cfr.
ancora il doc. 4 della ricorrente), è molto
laconico nel proprio contenuto, dando atto
solo dell’avvenuta apertura e dell’analisi
della documentazione, senza altro aggiungere
o specificare, il che rafforza la pronuncia
di fondatezza del motivo su indicato.
Per effetto dell’accoglimento dell’ultima
censura, pertanto, devono essere annullati
il provvedimento finale di aggiudicazione e
gli atti dell’intera procedura svolta, salvi
ovviamente i successivi provvedimenti
dell’amministrazione. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività organizzate per il traffico illecito di
rifiuti - Ecodelitti - Art. 260 d.lgs. 152/2006 (ora
452-quaterdecies c.p.) - Natura di reato abituale proprio -
Reato permanente - Cessazione dell'attività.
Il delitto di cui all'art. 260 d.lgs.
152/2006 (ora 452-quaterdecies codice penale) ha natura di
reato abituale proprio, in quanto caratterizzato dalla
sussistenza di una serie di condotte le quali, singolarmente
considerate, potrebbero anche non costituire reato, con
l'ulteriore conseguenza che la consumazione deve ritenersi
esaurita con la cessazione dell'attività organizzata
finalizzata al traffico illecito dei rifiuti
(Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Bettelli e altro) e che
alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del
fatto, corrisponde una unica violazione di legge (Sez. 3, n.
46705 del 03/11/2009, Caserta).
...
RIFIUTI - Ecoreati e natura di reato permanente -
Contestazione della condotta con la formula "ad oggi"
o "tuttora" o "tutt'oggi" - Momento della
cessazione della permanenza - Disciplina della prescrizione
- Reati abituale o "reato di durata"- Art.
452-quaterdecies codice penale - Giorno dell'ultima condotta
tenuta.
Nei c.d. ecodelitti la natura di reato
permanente si evince, anche, quando la contestazione
contenuta nel decreto dispone il giudizio con la formula "ad
oggi" o "tuttora" delimitando la durata della contestazione
e, quindi, la cessazione della permanenza alla data di
formulazione dell'accusa precisando, altresì, che tale
regola processuale non deve essere confusa con la prova
della protrazione della condotta criminosa fino a tale
limite processuale, spettando all'accusa l'onere di fornire
la prova a carico dell'imputato in ordine al protrarsi della
condotta criminosa fino all'indicato ultimo limite
processuale.
Tali principi devono ritenersi utilizzabili anche con
riferimento ai reati abituali, (in specie art.
452-quaterdecies codice penale), osservando come ogni reato
abituale sia "reato di durata", che mutua la disciplina
della prescrizione da quella prevista per i reati
permanenti, sicché il decorso del termine di prescrizione
avviene dal giorno dell'ultima condotta tenuta, che chiude
il periodo consumativo iniziatosi con la condotta che,
insieme alle precedenti, forma la serie minima di rilevanza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.04.2019 n. 16036 - link a www.ambientediritto.it). |
CONDOMINIO: Arretrato,
solidarietà limitata. L’acquirente paga solo per gestione in corso e
precedente. La Cassazione interviene sulla ripartizione degli oneri
condominiali in caso di vendita.
Chi acquista casa in condominio non può essere
obbligato a pagare le spese non versate dal venditore, se non limitatamente
a quelle pertinenti alla gestione annuale in corso e a quella precedente. E
questo nemmeno se il regolamento condominiale preveda diversamente,
addossando al nuovo condomino l'intero debito maturato da quello precedente.
Si
tratta dell'interessante chiarimento contenuto nella
sentenza 12.04.2019 n. 10346 della II Sez. civile della Corte
di Cassazione con la quale i giudici di legittimità sono intervenuti a
meglio delineare i contorni della solidarietà dell'acquirente nel pagamento
degli oneri condominiali.
Il caso concreto. Nella specie il soggetto che aveva acquistato un
appartamento sito in un edificio condominiale era stato coinvolto nella
procedura di recupero del credito promossa dal medesimo condominio nei
confronti del venditore in mora nel pagamento degli oneri relativi ai beni e
ai servizi comuni. Il regolamento condominiale, infatti, prevedeva che
andassero posti a carico del nuovo proprietario anche i debiti maturati dal
precedente condomino.
Nel caso in questione l'assemblea aveva quindi
deliberato di imputare all'acquirente l'intero debito risultante a bilancio
relativamente all'unità immobiliare oggetto del trasferimento di proprietà,
chiedendo all'amministratore di procedere al recupero forzoso del credito in
caso di mancato pagamento spontaneo. Il nuovo proprietario aveva però
impugnato la delibera dinanzi al Tribunale di Torino, chiedendone la
declaratoria di nullità per violazione degli articoli 63 e 72 delle
disposizioni di attuazione del codice civile, contestando quindi anche la
validità della menzionata disposizione regolamentare.
Il condominio si era
costituito in giudizio sostenendo la piena legittimità di quest'ultima e la
conseguente validità della delibera impugnata, che ne costituiva semplice
esecuzione. Il tribunale, tuttavia, aveva ritenuto nulle sia la disposizione
regolamentare sia l'impugnata deliberazione.
Di qui l'appello interposto dall'amministratore del condominio, il quale era
stato viceversa accolto dai giudici di secondo grado, i quali avevano
affermato il principio secondo cui la disposizione di cui all'art. 63 disp.
att. c.c., la quale impone all'acquirente la solidarietà nel pagamento delle
obbligazioni condominiali limitatamente a quelle maturate nella gestione
annuale in corso e in quella precedente rispetto alla data del trasferimento
di proprietà, avrebbe potuto essere derogata, a certe condizioni, da un
regolamento condominiale di natura contrattuale. L'art. 72 disp. att. c.c.
prevede infatti la non derogabilità, da parte del regolamento, delle
disposizioni contenute negli artt. 63,66,67 e 69 delle medesime disposizioni
di attuazione.
Tuttavia, secondo la Corte di appello di Torino, detta
inderogabilità avrebbe dovuto essere interpretata in maniera meno
restrittiva. Secondo i giudici, infatti, detta disposizione avrebbe avuto la
finalità di evitare che un regolamento condominiale potesse escludere
l'accollo al condomino acquirente dei debiti lasciati dal venditore nei
limiti previsti dall'art. 63 disp. att. c.c..
In altre parole scopo della
norma sarebbe stato quello di blindare la solidarietà del nuovo acquirente
per le obbligazioni condominiali maturate nella gestione annuale in corso e
in quella precedente, garanzia che nemmeno un regolamento di natura
contrattuale avrebbe potuto far venir meno. Al contrario la normativa in
questione sarebbe stata derogabile laddove la disposizione regolamentare
avesse voluto ampliare detta garanzia e prevedere un accollo integrale al
nuovo proprietario dei debiti accumulati dal precedente condomino, quindi
anche oltre quelli maturati nel biennio.
Detta ricostruzione interpretativa,
secondo la Corte di appello, sarebbe derivata dalla natura cosiddetta propter rem dei predetti debiti, essendo gli stessi relativi a spese
oggettivamente connaturate al bene immobile di proprietà esclusiva al cui
servizio sono poste le parti comuni, a prescindere dai mutamenti soggettivi
derivati dai relativi trasferimenti di proprietà. La decisione dei giudici
di appello torinesi, evidentemente, non aveva però convinto il condomino
acquirente, il quale si era infatti affrettato a impugnare la sentenza
dinanzi alla Suprema corte.
La decisione della Cassazione. I giudici di legittimità hanno quindi dovuto
valutare la correttezza dell'opzione interpretativa avallata dalla Corte di
appello di Torino e in base alla quale il limite temporale fissato dall'art.
63 disp. att. c.c. per il pagamento dei contributi condominiali pregressi da
parte del condomino subentrante a precedente condomino moroso costituirebbe,
per usare le parole della Cassazione, un limite inderogabile, ma soltanto
nel limite minimo e non anche in quello massimo.
Quindi, come detto, nella
specie si trattava di stabilire se la deroga al contenuto della predetta
disposizione potesse essere operata con un regolamento contrattuale per le
morosità condominiali arretrate anche oltre il biennio precedente
all'acquisto dell'unità immobiliare sita in condominio.
La riferita lettura combinata degli articoli 63 e 72 delle disposizioni di
attuazione del codice civile è stata però cassata dalla Suprema corte per
due ordini di motivi. In primo luogo la seconda sezione civile della
Cassazione ha evidenziato l'originaria estraneità dell'acquirente alla
volontà contrattuale espressa nel regolamento condominiale a cui il
medesimo, stando all'interpretazione avallata dai giudici di appello,
dovrebbe soggiacere nel rimanere vincolato alle spese condominiali pregresse
anche oltre il predetto biennio.
A questo proposito i giudici di legittimità
hanno evidenziato come una tale lettura delle predette disposizioni di legge
alimenterebbe una indubbia condizione di incertezza sui limiti della
responsabilità solidale del nuovo acquirente per i debiti condominiali
pregressi, che si tradurrebbe a sua volta in un possibile ostacolo alla
circolazione dei beni immobili.
In secondo luogo, in maniera sicuramente più decisiva, la Suprema corte ha
evidenziato come il ragionamento seguito nella specie dai giudici di merito
poggiasse su un errato assunto di diritto. La Corte di appello di Torino,
infatti, aveva ritenuto che il regolamento condominiale di natura
contrattuale potesse derogare, nei termini già visti, all'art. 63 disp. att.
c.c. per via della ritenuta natura propter rem dei debiti maturati, in
quanto connessi a obbligazioni correlate all'utilizzo dei beni e dei servizi
comuni.
Questa conclusione, tuttavia, è stata ritenuta erronea dai giudici
di legittimità, in quanto, si legge nella sentenza in questione,
«univocamente esclusa dalla giurisprudenza di questa Corte».
A questo
proposito è stato quindi richiamato il precedente di cui alla sentenza n.
2979 del 27/02/2012 con la quale la medesima sezione della Suprema corte
aveva stabilito che la responsabilità solidale dell'acquirente di una
porzione di proprietà esclusiva per il pagamento dei contributi dovuti al
condominio dal venditore è limitata al biennio precedente all'acquisto,
trovando applicazione l'art. 63 disp. att. c.c. e non già l'art. 1104 c.c.,
norma dettata in materia di comunione e la quale prevede che il cessionario
del partecipante sia tenuto in solido con il cedente a pagare i contributi
da questo dovuti e non versati.
E questo perché, secondo quanto disposto
dall'art. 1139 c.c., le norme sulla comunione in generale si estendono al
condominio soltanto in mancanza di apposita disciplina.
Nel caso in
questione, quindi, secondo il ragionamento seguito dalla Suprema corte, il
disposto dell'art. 63 disp. att. c.c. rappresenta disposizione specifica che
preclude l'applicabilità della norma generale di cui all'art. 1104 c.c. (articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2019). |
TRIBUTI: Esenzione
ICI solo se l'attività non ha fine di lucro.
Pagano l'Ici la casa del pellegrino e la scuola materna paritaria condotta
da un istituto religioso.
Queste le conclusioni della Corte di Cassazione, Sez. V civile, in due
ordinanze depositate
venerdì scorso, la
12.04.2019 n. 10286 e la
12.04.2019 n. 10288.
La casa di riposo
L'immobile destinato agli anziani per attività esclusivamente assistenziali
non sconta l'Ici. Discorso diverso per la struttura che ospita i pellegrini.
Questo è quanto ha stabilito la Cassazione con l'ordinanza
12.04.2019 n. 10286.
La
Corte ha precisato, infatti, che mentre per il ricovero degli anziani
ricorrevano sia il requisito soggettivo che oggettivo per l'esenzione, per
l'immobile destinato ai pellegrini, invece, non era stato prodotto alcun
documento che dimostrasse come il bene non avesse fine di lucro. Anche
perché -si legge nella sentenza- un ente pur essendo non profit può
perseguire finalità di lucro (si pensi ai circoli sportivi che offrono
bibite e altro).
Altro chiarimento fornito dalla Cassazione riguarda l'autorizzazione
rilasciata dal Comune a svolgere una certa attività (in riferimento ai
pellegrini) che di per sé non è sufficiente a garantire il beneficio
fiscale. Quindi con riferimento all'immobile destinato a offrire ricettività
ai pellegrini ha sbagliato la commissione tributaria regionale ad affermare
il diritto all'esenzione per il solo fatto che tale attività era tesa alla
formazione e diffusione dei principi di solidarietà cattolica senza
accertare che le attività cui gli immobili erano destinati non fossero
svolte con le modalità di attività "esclusivamente" commerciale.
La scuola
Sempre sull'Ici la Cassazione si è espressa con l'ordinanza
12.04.2019 n. 10288 su
un istituto scolastico religioso.
La Corte anche in questo caso ha
analizzato la natura del bene e in funzione di ciò ha decretato o meno la debenza dell'Ici. Secondo la sentenza il versamento dell'imposta era dovuto
a meno di non dimostrare che la struttura fosse una onlus senza alcun fine
di lucro.
Ma solo il pagamento delle tasse annuali da parte degli alunni
faceva rientrare la scuola nella sfera Ici, in quanto senza il pagamento ci
sarebbe stato un buco nelle entrate con evidente concessione di aiuti di
stato. Anche in questo caso, errore della commissione tributaria regionale
nel ritenere idonee a escludere la natura economica alle attività didattiche
svolte.
Queste, infatti, andavano analizzate con maggiore attenzione per
verificare la gratuità delle attività ovvero che gli eventuali importi
versati dagli alunni o dai loro genitori fossero, per loro entità, inidonei
a costituire una retribuzione del servizio prestato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: La
destinazione d'uso di fatto di un fabbricato è irrilevante essendo,
viceversa, da considerarsi soltanto quella che risulta da atti
amministrativi.
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Quanto al terzo motivo di ricorso, il Collegio ritiene che il
denunciato vizio di contraddittorietà estrinseca non può ritenersi
sussistente a fronte della sopravvenienza –rispetto alla concessione
rilasciata dal Comune di Venezia nel 1990– della variante per la “Città
Giardino” di Marghera approvata con deliberazione della Giunta regionale
del 16.12.1997, come detto sopra.
Va peraltro ribadito che la concessione del 1990 ha riguardato il solo piano
terra dell’immobile in questione (N.C.E.U. foglio 1, mapp. N. 731, sub. 1,
Via ... n. 13) ed è pertanto infondata l’argomentazione di parte ricorrente
volta ritenere l’immobile -nella sua interezza- destinato ad attività
commerciali e/o comunque del terziario.
Tale essendo lo stato di diritto e ferma l’irrilevanza dello stato di fatto
(la destinazione d'uso di fatto è irrilevante essendo, viceversa, da
considerarsi soltanto quella che risulta da atti amministrativi: arg. ex TAR
Campania, Napoli, sez. III, 05.05.2016, n. 2243; TAR Valle d'Aosta, sez. I,
19.09.2013, n. 62), nessuna contraddittorietà è ravvisabile nel caso in
esame
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 12.04.2019 n. 471 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: La
Cassazione ribadisce il no all'Ici sui ruderi.
La Corte di Cassazione -Sez. V civile- conferma l’impossibilità di assoggettare a Ici i fabbricati
collabenti, iscritti nella categoria catastale fittizia F/2, con la
sentenza 11.04.2019 n. 10122,
in linea con sue precedenti pronunce.
I fabbricati collabenti
La questione concerne l’applicazione dell’imposta comunale sugli immobili su
di un fabbricato “collabente”, risultante iscritto nella categoria F/2,
senza attribuzione di rendita. Le unità immobiliari collabenti sono unità
che per il loro sopraggiunto degrado non sono più in grado di produrre
reddito, ma che comunque risultano individuabili (di norma con copertura
parziale o totale o con muri perimetrali almeno per 1 metro).
In base
all’art. 3, comma 2, del Dm 28/1998, sono tali le costruzioni caratterizzate
da un notevole livello di degrado che ne determina una incapacità reddituale
temporalmente rilevante.
I precedenti della Corte
In passato la Suprema Corte (sentenza n. 5166/2013), aveva ritenuto che
laddove si trattasse di fabbricati che potevano essere demoliti e quindi
ricostruiti, conservandosi quindi il diritto edificatorio corrispondente
alla volumetria esistente, gli stessi andavano assoggettati ad ICI sulla
base del valore venale in comune commercio di tale potenzialità
edificatoria. In altri termini, veniva assoggettata all’imposta non il
fabbricato, privo di rendita, ma l’area di sedime potenzialmente
edificabile.
Tuttavia, tale tesi era stata già sconfessata dalla sentenza della Corte di
cassazione n. 17815/2017, la quale evidenziava che il fabbricato iscritto
nella categoria F2 non è assoggettabile all’Ici, non poiché viene meno il
presupposto dell’imposta, in quanto lo stesso rimane un fabbricato, ma
piuttosto per l’azzeramento della base imponibile in seguito
all’impossibilità di produrre reddito. Eventualmente era onere del comune
contestare l’errato classamento.
Non può tassarsi neppure come area edificabile, a parere della Corte, in
quanto si tratta di fabbricato e comunque di un’area già edificata e non di
un’area edificabile. Non può infatti considerarsi edificabile un’area in cui
il Prg preveda solo interventi di recupero dell’esistente senza incrementi
volumetrici.
Rincaravano la dose successivamente le pronunce n
23801/2017-24120/2017-25774/2017-7653/2018, le quali evidenziavano che il
fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F2) oltre a non
essere tassabile come fabbricato in quanto privo di rendita, non lo è
neppure come area edificabile, sino a quando l’eventuale demolizione
restituisca autonomia all’area fabbricabile, che da allora è assoggettabile
al tributo come tale, fino al subentro della tassazione del fabbricato
ricostruito. Peraltro, non vi è a parere della Corte disparità di
trattamento tra l’area occupata dal fabbricato collabente, non tassata e
l’area sgombra, invece tassata. Questo perché la seconda è prontamente
tassabile, mentre la prima richiede interventi di bonifica e demolizione.
L’intervento attuale della Corte
La recente pronuncia della Cassazione n. 10122/2019 ribadisce che è errato
tassare il fabbricato collabente, in quanto la sottrazione ad imposta dello
stesso, in ragione dell'azzeramento della relativa base imponibile, non può
essere superata prendendo a riferimento la diversa base imponibile prevista
per le aree edificabili e costituita dal valore venale del terreno sul quale
il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede l'imposizione Ici per le
aree edificabili e non per quelle già edificate.
Effetti sull’Imu e considerazioni
La questione assume rilevanza anche per l’Imu, tenuto conto che i criteri di
determinazione della base imponibile del tributo degli immobili soggetti
sono sostanzialmente gli stessi dell’Ici.
Tuttavia sarebbe opportuna una riflessione sul tema, alla luce anche del
rilevante fenomeno elusivo che una tale interpretazione può determinare, con
rilevante calo del gettito tributario. Non è infatti infrequente il caso di
fabbricati non utilizzati che vengono privati della copertura per poter
essere declassati a collabenti e sfuggire all’Imu. La Corte ritiene in buona
sostanza che il fabbricato collabente non sia soggetto al tributo in quanto
privo di rendita e quindi di base imponibile, poichè, per la medesima Corte,
il fabbricato collabente è pur sempre un fabbricato ai fini Ici (e Imu).
Tuttavia, a ben vedere, la definizione di fabbricato fornita dalla norma
tributaria indentifica lo stesso con l’unità immobiliare iscritta o che deve
essere iscritta in catasto (art. 2, comma 1, lettera a, Dlgs 504/1992). Il
comma 2 dell’art. 3 del Dm 28/1998 precisa che l’iscrizione in catasto delle
unità collabenti nell’ambito della categorie fittizie, non è un obbligo ma
una mera facoltà. Ne deriva che l’unità collabente non iscritta in catasto
non rientra nella definizione di fabbricato ai Imu.
Pertanto, seguendo la tesi della Cassazione, risulterebbero non soggette da
Imu le unità collabenti iscritte in catasto per scelta del titolare, mentre
per quelle non iscritte, non rientrando nella definizione di fabbricato
(…unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta in catasto),
l’imposta sarebbe dovuta sulla base dell’area edificabile, visto che il
suolo su cui insistono esprime una volumetria utilizzabile. Venendosi a
creare in tal modo una palese disparità di trattamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.04.2019). |
TRIBUTI: Fabbricati
fatiscenti, fisco light. Immobili privi di rendita non soggetti alle imposte
locali. A parere della Suprema corte non sono dovute Ici, Imu o Tasi neppure
sull’area
Le unità immobiliari fatiscenti e prive di rendita
non sono soggette al pagamento delle imposte locali né come fabbricati né
come aree edificabili. Questi beni immobili non possono essere assoggettati
a imposizione fino a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia
alle aree per poter essere nuovamente edificate.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza 11.04.2019 n. 10122.
Per i giudici di piazza Cavour, «la sottrazione a imposta del fabbricato
collabente, iscritto nella conforme categoria catastale F/2 (come quello di
cui trattasi), in ragione dell'azzeramento della relativa base imponibile,
non può essere superata prendendo a riferimento la diversa base imponibile
prevista per le aree edificabili e costituita dal valore venale del terreno
sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge (dlgs n. 504 del 1992)
prevede l'imposizione Ici per le aree edificabili e non per quelle già
edificate».
Dunque, sui fabbricati privi di rendita i contribuenti non pagano l'Ici, e
quindi anche l'Imu e la Tasi, né sui fabbricati né sulle aree edificabili
sottostanti. Questi fabbricati, cosiddetti collabenti, non pagano le imposte
locali non perché manca il presupposto impositivo, ma perché non può essere
determinata la base imponibile considerato che il loro valore economico è
pari a zero.
Tuttavia, questo non autorizza l'amministrazione comunale a richiedere il
pagamento dei tributi sull'area edificabile poiché si tratta di un'area che
è stata già edificata. Per il fabbricato iscritto in categoria catastale
F/2, privo di rendita, la mancata imposizione è giustificata non
dall'assenza del presupposto, ma dalla mancanza della base imponibile. E non
può essere presa a base l'area su cui insiste il fabbricato.
Le categorie catastali prive di reddito.
La categoria «F/2» (unità collabenti) viene attribuita ai fabbricati che non
sono suscettibili di fornire reddito, come le costruzioni non abitabili o
non agibili a causa di dissesti statici, fatiscenza o inesistenza di
elementi strutturali e impiantistici, e comunque nel caso in cui la concreta
utilizzabilità non sia conseguibile con soli interventi edilizi di
manutenzione ordinaria o straordinaria.
Se le effettive condizioni dell'immobile siano tali da renderlo totalmente
inutilizzabile, a meno di radicali interventi viene disposto anche
l'azzeramento della rendita catastale. E agli atti viene conservata l'unità
immobiliare e i relativi identificativi con l'attribuzione della categoria
F/2. Secondo la Cassazione, in base alla normativa Ici contenuta nel decreto
legislativo 504/1992 (ma la stessa regola vale per Imu e Tasi), non si può
tassare l'area edificabile in presenza di un fabbricato regolarmente
iscritto in catasto, anche se privo di rendita, perché per ragioni
contingenti inagibile. S
ull'esclusione dell'assoggettamento a imposizione degli immobili inquadrati
catastalmente in categorie cosiddette fittizie ci sono pochi precedenti
della Cassazione. Con sentenza n. 10735/2013, però, la suprema Corte ha
stabilito che ai fini Ici «la nozione di fabbricato, di cui al dlgs
30.12.1992, n. 504, art. 2, rispetto all'area su cui esso insiste, è
unitaria, nel senso che, una volta che l'area edificabile sia comunque
utilizzata, il valore della base imponibile ai fini dell'imposta si
trasferisce dall'area stessa all'intera costruzione realizzata».
Ciò che rileva, dunque, è il fabbricato e non l'area edificabile.
Con la sentenza 23347/2004, la Cassazione ha ritenuto che le aree
edificabili sono soggette a imposizione fino a quando venga realizzata una
prima costruzione, in quanto da tale momento oggetto di imposta è la
costruzione mentre l'area fabbricabile diviene area pertinenziale esente.
Pertanto, non sono tenuti a pagare le imposte locali gli immobili in corso
di costruzione e tutti quelli privi di rendita. In questi casi il tributo
non è dovuto né sul fabbricato né sull'area edificabile utilizzata a fini
edificatori.
Si tratta di un'interpretazione discutibile. In effetti l'articolo 5, comma
6, del decreto legislativo 504/1992 dispone che in caso di utilizzazione
edificatoria dell'area, di demolizione di fabbricato, di interventi di
recupero a norma dell'articolo 31, comma 1, lettere c), d) ed e), della
legge 457/1978, la base imponibile è costituita dal valore dell'area, la
quale è considerata fabbricabile anche in deroga a quanto previsto
dall'articolo 2 del citato decreto, senza computare il valore del fabbricato
in corso d'opera, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione,
ricostruzione o ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in
cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque
utilizzato.
Si ritiene che dalla lettura della norma sopra indicata non si possa
arrivare alla conclusione che porta a escludere l'assoggettamento a
imposizione anche dell'area edificata, solo perché il fabbricato
momentaneamente inutilizzabile sia privo di rendita.
L'interpretazione ministeriale.
Anche il ministero dell'economia e delle finanze si è allineato alla tesi
della Cassazione. Con la risoluzione 8/2013 il dipartimento delle finanze,
riguardo alla tassabilità o meno di un lastrico solare, ha escluso la
tassazione come area edificabile e lo ha equiparato ai fabbricati
classificati catastalmente in categoria F/2.
Anche secondo il ministero l'immobile può essere qualificato come area
edificabile, nell'ipotesi in cui sulla stessa non insista alcuna unità
immobiliare. Mentre, in presenza di un fabbricato occorre fare riferimento
alla rendita catastale associata a ciascuna unità immobiliare, realizzata
sull'area, incrementata del 5%, e poi moltiplicata per i coefficienti
stabiliti dall'articolo 13 del dl 201/2011. Per l'inquadramento del lastrico
solare, il ministero richiama la circolare 9/2001 dell'Agenzia del
territorio, ora Agenzia delle entrate, nella quale sono individuate come
categorie fittizie (F1 = area urbana, F2 = unità collabenti, F3 = unità in
corso di costruzione, F4 = unità in corso di definizione ed F5 = lastrico
solare) «quelle che, pur non previste nel quadro generale delle categorie
(in quanto ad esse non è associabile una rendita catastale), sono state
necessariamente introdotte per poter permettere la presentazione in catasto
di unità particolari (lastrici solari, corti urbane, unità in via di
costruzione ecc...) con la procedura informatica di aggiornamento Docfa».
Viene precisato che il lastrico solare è associato a un edificio che ospita
una o più unità immobiliari e che occorre tenere conto delle sue
potenzialità già espresse con l'avvenuta edificazione. Non va tenuto conto,
invece, delle potenzialità risultanti dagli strumenti urbanistici in vigore,
atteso che «la stima catastale riguarda l'uso attuale del bene (existing
use) e non già l'uso fisicamente possibile e legalmente ammissibile,
caratterizzato dalla massima produttività (highest and best use)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Canne
fumarie senza permessi. Demolizione illegittima: si tratta di volume
tecnico. Ricognizione delle recenti pronunce sugli impianti di smaltimento
dei fumi in condominio.
La canna fumaria del pub non va abbattuta, per
quanto il locale della movida dia fastidio ai condomini. È illegittima
l’ordinanza di demolizione adottata dal comune: l’impianto di trattamento di
fumi e odori, infatti, non costituisce un manufatto che richiede il permesso
di costruire, a meno che non modifichi il prospetto del fabbricato. E dunque
non può essere colpito da un provvedimento di cui all’articolo 31 del Testo
unico per l’edilizia.
Il sospetto è che l’amministrazione locale sia voluta intervenire per
tutelare la salute dei condomini, da sempre ostili all’esercizio pubblico,
ma abbia usato lo strumento sbagliato.
È quanto emerge dalla
sentenza
11.04.2019 n. 592,
pubblicata dalla Sez. II della sede di Salerno del TAR Campania.
Senza motivazione.
Il ricorso del gestore è accolto perché il provvedimento del settore
ambiente del comune integra lo sviamento denunciato dal privato. I fatti:
durante il sopralluogo i vigili urbani scoprono che la cappa della cucina
non è a norma. Il funzionario dell'ente dispone la demolizione minacciando
l'acquisizione al patrimonio dell'amministrazione in caso d'inottemperanza;
misura che i giudici reputano «sproporzionata». Il fatto è che l'impianto di
trattamento deve ritenersi un volume tecnico, quindi un'opera priva di
un'autonoma rilevanza dal punto di vista urbanistico e funzionale: il comune
ne ingiunge la rimozione senza motivarla, per esempio perché il manufatto
risulti molto evidente rispetto alla costruzione e alla sagoma
dell'immobile.
Il pub, peraltro, risulta già multato per gli schiamazzi dei giovani che
richiama ogni giorno, ma le immissioni acustiche rimangono fuori dal
provvedimento annullato. Resta quindi l'impressione che «dietro lo schermo»
dell'ordinanza edilizia il comune abbia voluto tutelare la salute dei
condomini messa a rischio da fumi e odori di cucina: sarebbe però servito un
provvedimento extra ordinem, quindi eccezionale. L'ordinanza contingibile e
urgente deve tuttavia essere emessa dal sindaco, non dal dirigente
dell'ente, e soltanto in caso di grave pericolo per la comunità.
I precedenti. La
canna fumaria del ristorante, insomma, s'ha da fare quando il comune dà il
via anche se il condominio dice no. E ciò perché il proprietario esclusivo
dell'immobile ha facoltà di collocare un manufatto nell'area comune a patto
che l'installazione non pregiudichi il pari diritto degli altri condomini:
in tal caso ha titolo per ottenere il titolo edilizio che serve quando il
manufatto risulta troppo evidente lungo il palazzo.
Lo ha chiarito la
sentenza 648/2017, pubblicata dalla prima sezione del Tar Marche.
Bocciato il
ricorso del vicino che non riesce a bloccare l'intervento al servizio del
locale pubblico assentito dallo sportello unico per le attività produttive.
E attenzione: il fatto che il singolo abbia partecipato senza opporsi
all'assemblea condominiale che ha dato via libera al progetto non può essere
considerato indice di acquiescenza alla realizzazione dell'opera. Il punto è
che il placet del condominio non serve se la canna fumaria rispetta le norme
sulle parti comuni del fabbricato. Sta al vicino provare che il cortile non
sarebbe di proprietà comune. E certo non basta sostenere che l'area non sia
menzionata nel contratto di compravendita dell'immobile per superare la
presunzione di condominialità di cui all'articolo 1117 cc: la superficie
risulta messa al servizio di tutti e l'assenza di comunione non può
ritenersi dimostrata. La circostanza che il titolare della licenza
commerciale sia il gestore del ristorante -dunque l'affittuario
dell'immobile e non il proprietario- non preclude l'installazione del
manufatto: d'altronde l'istanza all'ente risulta presentata da entrambi i
soggetti.
Dimensioni ridotte.
Ciò che conta è la natura di impianto tecnico della canna fumaria: è escluso
che i vicini possano bloccare anche la sanatoria concessa alla pizzeria.
È
il caso affrontato dalla sentenza 10/2015, pubblicata dalla prima sezione
del Tar Marche.
La famiglia che abita sulla verticale del locale deve
rassegnarsi a convivere con gli olezzi di frittura che vengono dal basso. E
ciò al di là del caso specifico rappresentato dal locale pubblico: la
struttura per l'esalazione dei fumi deve infatti essere considerata un
volume tecnico che è necessario per l'utilizzo di tutti gli impianti
termici, i quali sono indispensabili negli edifici moderni.
Un problema si
potrebbe invece porre per strutture di grandi dimensioni, ma non è questo il
caso: risulta innestato soltanto un tubo di piccolo diametro. La necessità
dell'autorizzazione dei condomini risulta esclusa sulla base dell'articolo
1102 cc, comma primo. E nello specifico è escluso la canna fumaria stoni con
le linee architettoniche del fabbricato.
Prima la snellezza.
Sbaglia il comune, allora, se subordina il suo sì alla canna fumaria di un
condomino al consenso degli altri. L'iter autorizzativo dell'ente locale e
quello del condominio sono piani paralleli: non si intersecano.
L'amministrazione non può imporre al singolo proprietario che vuole
costruire la canna fumaria di farsi assentire i lavori dall'assemblea nello
stesso momento in cui concede il via libera all'intervento edilizio: la
legittimità dell'autorizzazione non può condizionare la regolazione dei
rapporti fra le parti private.
Lo evidenzia una sentenza del Tar Campania,
la 1985/2013, pubblicata dalla prima sezione della sede di Salerno.
Cade in errore l'ente locale quando vincola l'efficacia della sua stessa
autorizzazione al placet dell'assemblea condominiale. L'amministrazione deve
accertare che chi chiede di realizzare il progetto urbanistico sia titolare
di un idoneo titolo di godimento sull'immobile ma non è anche tenuta a
verificare limiti di natura civilistica per la realizzazione dell'opera
edilizia: altrimenti il procedimento burocratico diverrebbe ancora più
pesante, per via di accertamenti lunghi e complicati.
La richiesta
installazione della canna fumaria costituisce un intervento riconducibile
nella sfera di operatività della norma ex articolo 1102 cc perché colloca sì
il manufatto «estraneo» sul muro comune a servizio di una sola unità
immobiliare ma non preclude a nessuno dei proprietari esclusivi l'eventuale
relativo uso della parte comune né ne altera la destinazione d'uso. Insomma:
il singolo proprietario esclusivo trae dal bene comune una particolare
utilità aggiuntiva rispetto agli altri ma senza un intervento di particolare
vastità.
Attività necessaria.
Il principio vale anche quando non c'è un locale pubblico di mezzo.
È quanto
emerge dalla sentenza 450/2018, pubblicata dalla seconda sezione del Tar
Lombardia.
Il comune non può bloccare il ripristino del tubo coibentato che
serve a smaltire i fumi dell'appartamento soltanto perché va installato in
una condotta in muratura di proprietà anche di un altro condomino e manca
l'assenso di quest'ultimo. Si tratta infatti di un intervento di
manutenzione ordinaria che l'amministrazione può inibire soltanto per motivi
tecnici e urbanistici e non sulla base della disciplina privatistica: dovrà
essere il giudice civile a risolvere eventuali liti fra i condomini. Accolto
il ricorso del singolo proprietario: la sua canna fumaria era stata bloccata
perché non a norma e ora nella condotta detenuta «in condominio» col vicino
deve essere inserito il nuovo tubo coibentato.
Non c'è dubbio che si tratti
di lavori di manutenzione ordinaria: l'intervento si risolve nella
sostituzione di un impianto esistente e non ha alcun impatto strutturale né
estetico sul fabbricato. Anzi: è un'attività necessaria a rendere l'immobile
conforme all'uso perché rimette in opera la canna fumaria, cioè un impianto
esistente ma non utilizzabile. Insomma, il comune deve limitarsi a
verificare la conformità del progetto allo strumento urbanistico e alle
altre norme di settore
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019).
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MASSIMA
In ogni caso, e in disparte la seconda censura dell’atto introduttivo
del giudizio, quelle che appaiono al Collegio dirimenti –trascorrendo agli
aspetti di natura squisitamente urbanistico–edilizia, implicati dal
provvedimento impugnato– sono la terza e la quarta doglianza, ivi contenute,
le quali convergono nel senso dell’impossibilità d’adottare, con riferimento
all’impianto di smaltimento di fumi e odori, installato dalla ricorrente, a
servizio della propria attività commerciale, e in ragione della dedotta
violazione dell’art. 80 del R.U.E.C., un’ordinanza di demolizione, ex art.
31 d.P.R. 380/2001, la quale appare al Collegio –come, del resto, la
minacciata acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio del
Comune, in caso d’inottemperanza– “francamente sproporzionata” (come
recita la prefata ordinanza cautelare).
Più specificamente, deve fondatamente escludersi,
aderendo alle suddette censure, che la canna fumaria de
qua possa essere assimilata, per le sue concrete caratteristiche (“l’impianto
della ricorrente è di piccole dimensioni, con nessun impatto sul paesaggio e
non modifica minimamente il prospetto condominiale”), ad opera, per la
quale fosse necessario il permesso di costruire, con conseguente
impossibilità d’ordinarne la demolizione, ex art. 31 d.P.R. 380/2001.
Cfr., in giurisprudenza, la massima seguente: “La canna
fumaria deve ritenersi un'opera priva di autonoma rilevanza urbanistico
-funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di
costruire, a meno che non si tratti di opere di palese evidenza rispetto
alla costruzione ed alla sagoma dell'immobile, occorrendo solo in tal caso
il permesso di costruire. Nella specie, il Comune ha completamente omesso
qualsiasi indagine, dando per scontata la misura demolitoria, senza alcuna
motivazione sul punto e comunque nell'implicito erroneo assunto che le canne
fumarie debbano tout court ricondursi ad opere sottoposte a permesso”
(TAR Abruzzo–L’Aquila, Sez. I, 07/04/2016, n. 209).
In motivazione, la stessa sentenza specificava che: “(…)
La canna fumaria deve ritenersi ordinariamente un volume tecnico e, come
tale, un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la
cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, senza essere
conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione
(ex multis, Tar Campania Napoli Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380)”.
In termini sostanzialmente identici, cfr. anche l’altra massima che segue: “È
illegittima l'ordinanza di demolizione adottata in relazione
all'installazione di una canna fumaria, relativa ad un impianto
ecocompatibile a basso impatto ambientale alimentato con materiali
biodegradabili, in quanto trattasi di opera priva di autonoma rilevanza
urbanistico — funzionale e che non risulta particolarmente pregiudizievole
per il territorio, costituendo peraltro un volume tecnico”
(TAR Calabria–Catanzaro, Sez. I, 17/04/2012, n. 391).
Del resto, la necessità del p.d.c. è circoscritta, sempre dalla
giurisprudenza, in aderenza al dato normativo, ad ipotesi ben circoscritte e
senz’altro differenti da quella, considerata nella specie: “L'installazione
di una canna fumaria è riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia
di cui all'art. 3, comma 1, lett. d ), d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati
tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata
al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c
), dello stesso d.P.R., laddove comporti, come nella fattispecie, una
modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce”
(TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 01/10/2012, n. 4005).
In aderenza alle suddette argomentazioni, e prescindendo dagli ulteriori
profili, pure evidenziati in ricorso, ne risulta provato che –non
richiedendo, la contestata canna fumaria, il rilascio del p.d.c.- la stessa
giammai poteva essere attinta dall’ordinanza di demolizione impugnata.
Né a diverse conclusioni può giungersi, in ragione dell’evidenziato
contrasto dell’opera in questione con l’art. 80 del R.U.E.C. di Nocera
Inferiore.
Stabilito, infatti, che nella specie -in base alla disciplina legislativa,
di cui al d. P. R. 380/2001- non era necessario il titolo abilitativo
maggiore, non rileva il dedotto contrasto con la norma di regolamento
edilizio comunale, non potendo, evidentemente, quest’ultima derogare alla
legge, instaurando la necessità di un titolo edilizio non previsto, in linea
generale, dalla medesima.
Al riguardo, cfr. il principio, sancito da TAR Liguria, Sez. I, 20/06/2017,
n. 540, ed agevolmente estensibile alla specie: “L’art.
3, comma 2, del dPR 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla gerarchia
delle fonti del diritto in materia edilizia che inibisce la possibilità di
ritenere che un regolamento locale possa considerare un'attività costruttiva
in modo differente rispetto ai principi generali posti dalla norma di legge
citata (fattispecie relativa a norma di regolamento che sancisce l'obbligo
di acquisizione del titolo edilizio per l'installazione dell'antenna)”.
In conformità alle suddette considerazioni, e con assorbimento della residua
(quinta) doglianza esposta in ricorso, lo stesso va accolto, e il
provvedimento gravato, sub a) dell’epigrafe, annullato, senza che occorra
scendere all’analisi delle censure, specificamente rivolte all’impugnativa
dell’art. 80 del R.U.E.C., che non rivestono un carattere dirimente, ai fini
della decisione. |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di
tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di
preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di
precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile
alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
---------------
A questo proposito, peraltro, occorre rammentare che <<la precarietà di un
manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione
edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va,
quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale dell'opera>>.
La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso
di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e
non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non
possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli rivolti ad una utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante.
---------------
Proprio con riferimento alle tettoie, è stato di recente affermato che deve
ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di
tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di
preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di
precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile
alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite
(in questo senso, TAR, Napoli, sez. III, 29/05/2018, n. 3545).
A questo proposito, peraltro, occorre rammentare che <<la precarietà di
un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione
edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va,
quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale dell'opera>> (C. Stato, sez. IV, 26/09/2018, n. 5525; nello
stesso senso, C. Stato, sez. VI, 11/01/2018, n. 150).
La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso
di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e
non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non
possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli rivolti ad una utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante (TAR, Brescia, sez. I, 07/08/2018, n.
800).
Ebbene, se anche fosse possibile affermare la natura meramente precaria
della tettoia originariamente autorizzata, l’intervento oggetto di
contestazione e per il quale è stata negata la sanatoria, ha trasformato uno
spazio per lo più aperto in un corpo di fabbrica chiuso avente una struttura
idonea ad un uso duraturo del tempo, come del resto confermato anche da
parte ricorrente. Questa, infatti, ha sottolineato come tale chiusura si sia
resa necessaria per garantire che l’attività imprenditoriale esercitata
fosse conforme alla normativa nazionale e comunitaria.
Risulta, quindi, evidentemente venuto meno il carattere meramente precario
della tettoia, avendo parte ricorrente realizzato, di fatto, una vera e
propria costruzione potenzialmente duratura, per la quale non solo era
necessario richiedere ed ottenere un permesso di costruire (rectius
concessione edilizia, ratione temporis), ma non è nemmeno possibile
revocare in dubbio la rilevanza dell’opera ai fini del rispetto delle
distanze concernenti la c.d. fascia cimiteriale di rispetto ed il relativo
vincolo di inedificabilità
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 11.04.2019 n. 458 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura.
---------------
Con riferimento alla natura del vincolo di inedificabilità previsto
dall'art. 338, r.d. n. 1256 del 1934, la giurisprudenza amministrativa ha
affermato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a
carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non
suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva
e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare
rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di
possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con
efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad
incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla
pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato
espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua
natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle
eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici.
---------------
La natura tendenzialmente assoluta del vincolo predetto comporta che,
rispetto alle richieste dei privati, le deroghe, ammissibili tanto nella
versione dell’art. 338 ante modifica da parte della l. 166 del 2002, quanto
nella versione attuale, devono ritenersi del tutto eccezionali.
In particolare, in giurisprudenza è stato sottolineato che:
a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di
stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la
conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta
attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore
nell'elencazione delle opere ammissibili;
b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti);
c) l'art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad
iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate
condizioni, della zona di rispetto per scelta dell'amministrazione:
- per la costruzione di nuovi cimiteri o per l'ampliamento di cimiteri
esistenti (comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento urbanistico, ai
fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente fuori dalla
fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati
costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici (comma
5).
Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato la portata e i limiti
delle modifiche apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002, rispetto
alle richieste di privati.
Per quanto concerne, in particolare, la deroga di cui al comma 5, sia nella
vecchia che nella nuova formulazione, richiede l’attivazione di uno
specifico procedimento che comporta una valutazione da parte del Consiglio
Comunale finalizzata ad una autorizzazione in deroga.
E’ evidente, a questo riguardo, che tale procedimento (che nella vecchia
formulazione peraltro richiedeva altresì l’intervento del prefetto)
difficilmente può ritenersi compatibile con l’istituto della concessione o
permesso di costruire in sanatoria, oggetto del presente procedimento.
In ogni caso, quand’anche si dovessero ritenere astrattamente applicabili le
disposizioni eccezionali e derogatorie dell’art. 338 citato ad una
fattispecie in sanatoria quale quella in esame, in concreto, nel giudizio
che ci occupa, tali norme non sarebbero invocabili da parte ricorrente in
quanto eventuali deroghe al limite di 200 metri della c.d. fascia
cimiteriale sono ammissibili solo purché sia mantenuta la distanza minima di
50 m tra la struttura cimiteriale e l’opera in contestazione.
---------------
Fermo quanto sopra detto, peraltro, occorre sottolineare che la precarietà o
meno di un’opera non è un elemento di per sé rilevante ai fini del rispetto
delle distanze ed in particolare, con riguardo alla fascia di rispetto
cimiteriale e relativo vincolo.
In merito al vincolo cimiteriale, infatti, non rileva tanto la precarietà o
meno di una costruzione od opera, quanto la compatibilità della struttura in
esame con il rispetto degli interessi pubblici che detto vincolo è diretto a
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, da un lato, e la
sacralità del luogo, dall’altro.
Pertanto, in ogni caso, l’intervento edilizio posto in essere da parte
ricorrente oggetto del presente giudizio risulta rilevante ai fini del
rispetto della disciplina relativa al c.d. vincolo cimiteriale.
Al riguardo, si richiama l’insegnamento secondo il quale <<il vincolo
cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione
sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla
inumazione e alla sepoltura>> (C. Stato , sez. IV , 13/12/2017 , n.
5873)
Ebbene, nel caso di specie, se una mera tettoia meramente precaria può,
eventualmente, considerarsi rispettosa di tale vincolo, ancorché realizzata
all’interno della c.d. fascia di rispetto cimiteriale, non confliggendo con
esso proprio per la sua intrinseca amovibilità e per la natura aperta della
struttura, lo stesso non può dirsi per un edificio completamente chiuso e la
cui finalità denota un utilizzo duraturo, che, insistendo all’interno della
fascia di rispetto, si pone inevitabilmente in contrasto con gli interessi
sottesi al vincolo cimiteriale predetto.
2.2. Con riferimento alla natura del vincolo di inedificabilità previsto
dall'art. 338, r.d. n. 1256 del 1934, la giurisprudenza amministrativa ha
affermato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della
proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e
non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera
obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza
di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di
possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con
efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad
incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla
pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia
stato espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione
della sua natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti
delle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti
urbanistici (in ordine ai predetti principi si vedano, tra le altre, C.
Stato, sez. IV, 05/12/2018, n. 6891; C. Stato, sez. VI, 02/07/2018, n. 4018;
C. Stato, sez. IV, 13/12/2017, n. 5873).
La natura tendenzialmente assoluta del vincolo predetto comporta che,
rispetto alle richieste dei privati, le deroghe, ammissibili tanto nella
versione dell’art. 338 ante modifica da parte della l. 166 del 2002, quanto
nella versione attuale, devono ritenersi del tutto eccezionali.
In particolare, in giurisprudenza è stato sottolineato che:
a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di
stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la
conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta
attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore
nell'elencazione delle opere ammissibili;
b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti);
c) l'art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad
iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate
condizioni, della zona di rispetto per scelta dell'amministrazione:
- per la costruzione di nuovi cimiteri o per l'ampliamento di cimiteri
esistenti (comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento urbanistico, ai
fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente fuori dalla
fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati
costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici (comma 5)
(in ordine ai principi di cui sopra vi vedano, tra le altre, C. Stato, sez.
IV, 05/12/2018, n. 6891; C. Stato , sez. IV, 23/04/2018, n. 2407; C. Stato ,
sez. VI , 27/07/2015, n. 3667).
Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato la portata e i limiti
delle modifiche apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002, rispetto
alle richieste di privati (C. Stato sez. IV, 23/04/2018, n. 2407; C. Stato,
sez. VI, 02/07/2018, n. 4018; C. Stato, sez. IV, 06/10/2017, n. 4656).
Per quanto concerne, in particolare, la deroga di cui al comma 5, sia nella
vecchia che nella nuova formulazione, richiede l’attivazione di uno
specifico procedimento che comporta una valutazione da parte del Consiglio
Comunale finalizzata ad una autorizzazione in deroga.
E’ evidente, a questo riguardo, che tale procedimento (che nella vecchia
formulazione peraltro richiedeva altresì l’intervento del prefetto)
difficilmente può ritenersi compatibile con l’istituto della concessione o
permesso di costruire in sanatoria, oggetto del presente procedimento.
In ogni caso, quand’anche si dovessero ritenere astrattamente applicabili le
disposizioni eccezionali e derogatorie dell’art. 338 citato ad una
fattispecie in sanatoria quale quella in esame, in concreto, nel giudizio
che ci occupa, tali norme non sarebbero invocabili da parte ricorrente in
quanto eventuali deroghe al limite di 200 metri della c.d. fascia
cimiteriale sono ammissibili solo purché sia mantenuta la distanza minima di
50 m tra la struttura cimiteriale e l’opera in contestazione.
Nel caso di specie parte ricorrente non ha contestato in alcun modo, né,
a fortiori, ha minimamente confutato, il rilievo avanzato dal Comune,
che ha sottolineato come l’opera in contestazione si trovi collocata a 30
metri dal confine con il cimitero. Detta opera, perciò, risulta trovarsi
integralmente all’interno della fascia minima di rispetto.
Ne discende che in nessun caso l’opera in contestazione potrebbe essere
considerata suscettibile di sanatoria e che, quindi, la censura di parte
ricorrente è palesemente priva di fondamento.
Da ultimo, la contestazione di tardività del rilascio del permesso di
costruire in sanatoria e della violazione del principio di buon andamento
dell’Amministrazione è sia tardiva che inammissibile, in quanto articolata
solo in memoria difensiva datata 26.2.2019 e non notificata.
2.3. Alla luce di quanto sopra detto, pertanto, il ricorso deve essere
respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 11.04.2019 n. 458 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sì al soccorso istruttorio
per le referenze bancarie. Ammesso per gare di appalti pubblici.
È
ammesso il soccorso istruttorio per le referenze bancarie presentate in una
gara d'appalto pubblico.
È quanto ha chiarito il Consiglio di
Stato, Sez. V, con la
sentenza 10.04.2019 n. 2351 con riguardo
all'accertamento della capacità economico finanziaria di un concorrente ad
una gara di appalto pubblico, attraverso la produzione di referenze
bancarie.
In particolare, i giudici di Palazzo Spada, dopo avere ribadito
che le referenze assumono particolare rilievo «per il fatto notorio che il
sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto tale profilo», ha
precisato che è anche vero che le referenze bancarie «per quanto siano uno
dei mezzi di prova per la qualificazione degli operatori economici sul piano
economico-finanziario, possono rivelarsi in concreto inidonee a dimostrare i
requisiti minimi di solidità economica e patrimoniale dell'impresa al
momento della partecipazione alla gara».
Questo perché la stazione
appaltante deve «sempre aver riguardo al dato sostanziale come emergente da
tutti i documenti in suo possesso». Per il Consiglio di Stato, inoltre, le
referenze bancarie «sono suscettibili di soccorso istruttorio da parte della
stazione appaltante, che ha anche la possibilità di richiedere la loro
integrazione mediante altra documentazione» e che «non devono essere
consacrate in formule sacramentali, per essere sufficiente, per la loro
idoneità, l'indicazione della correttezza e puntualità dei rapporti tra la
cliente e l'istituto bancario».
Dal punto di vista, invece, della idoneità, a provare la capacità
economico-finanziaria del concorrente, il Consiglio di stato ha chiarito che
le referenze bancarie vanno considerate idonee qualora «gli istituti bancari
abbiano riferito sulla qualità dei rapporti in atto con le società, per le
quali le referenze sono richieste, con particolare riguardo alla correttezza
e puntualità di queste nell'adempimento degli impegni assunti con
l'istituto, l'assenza di situazioni passive con lo stesso istituto o con
altri soggetti, che siano desumibili dai movimenti bancari o da altre
informazioni in loro possesso».
Rimane però rimessa all'amministrazione aggiudicatrice la valutazione
dell'idoneità dei documenti presentati dall'operatore economico,
impossibilitato alla produzione delle referenze bancarie
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2019).
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MASSIMA
4. Il motivo di appello è infondato.
4.1. L’art. 41, comma 1, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 prevedeva che nelle
procedure per l’affidamento di appalti di forniture o di servizi, la
dimostrazione della capacità economico–finanziaria potesse essere fornita
mediante, tra gli altri, “dichiarazione di almeno due istituti bancari o
intermediari autorizzati ai sensi del decreto legislativo 01.09.1993, n. 383”,
specificando, al comma 3, che “Se il concorrente non è in grado, per
giustificati motivi, ivi compreso quello concernente la costituzione o
l’inizio dell’attività da meno di tre anni, di presentare le referenze
richieste, può provare la propria capacità economica e finanziaria mediante
qualsiasi altro documento considerato idoneo dalla stazione appaltante”.
L’Agenzia del Demanio, nell’avviso pubblico che ha dato avvio alla procedura
in esame, ha inteso far riferimento a tali prescrizioni per la dimostrazione
della capacità economico–finanziaria degli offerenti ponendo a carico degli
operatori offerenti l’onere documentale in precedenza esposto.
4.2. In materia di referenze bancarie, la giurisprudenza
amministrativa ha chiarito che:
- costituiscono uno dei mezzi di prova dei
requisiti economico–finanziari necessari per l’aggiudicazione dei contratti
pubblici, per il fatto notorio che il sistema bancario eroga credito a
soggetti affidabili sotto tale profilo
(cfr. Cons. Stato, sez. III, 17.12.2015, n. 5704);
- per quanto siano uno dei mezzi di prova per la
qualificazione degli operatori economici sul piano economico–finanziario,
possono rivelarsi in concreto inidonee a dimostrare i requisiti minimi di
solidità economica e patrimoniale dell’impresa al momento della
partecipazione alla gara, dovendo la stazione appaltante aver riguardo al
dato sostanziale come emergente da tutti i documenti in suo possesso
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.11.2018, n. 6292);
- sono suscettibili di soccorso istruttorio da
parte della stazione appaltante, che ha anche la possibilità di richiedere
la loro integrazione mediante altra documentazione
(cfr. Cons. Stato, sez. III, 03.08.2018, n. 4810);
- non devono essere consacrate in formule
sacramentali, per essere sufficiente, per la loro idoneità, l’indicazione
della correttezza e puntualità dei rapporti tra la cliente e l’istituto
bancario (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 15.01.2016, n. 108);
- le referenze bancarie vanno considerate “idonee”
qualora gli istituti bancari abbiano riferito sulla qualità dei rapporti in
atto con le società, per le quali le referenze sono richieste, con
particolare riguardo alla correttezza e puntualità di queste
nell’adempimento degli impegni assunti con l’istituto, l’assenza di
situazioni passive con lo stesso istituto o con altri soggetti, che siano
desumibili dai movimenti bancari o da altre informazioni in loro possesso
(cfr. Cons. Stato, sez. III, 27.06.2017, n. 3134; IV, 29.02.2016, n. 854; IV,
22.11.2013, n. 5542);
- è rimesso alla stazione appaltante la
valutazione dell’idoneità dei documenti presentati dall’operatore economico,
impossibilitato alla produzione delle referenze bancarie
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.07.2017, n. 3501).
4.3. Dall’esame degli approdi giurisprudenziali riportati emerge con ogni
evidenza che le referenze bancarie, come anche ogni altro documento
equivalente, devono consentire alla stazione appaltante di aver cognizione
del grado di affidabilità economico–finanziario dell’operatore economico che
abbia presentato domanda di partecipazione alla procedura di gara anche in
relazione all’entità degli investimenti offerti; non può, pertanto,
reputarsi idonea a tale scopo una documentazione (referenza bancaria o altre
attestazioni) che non abbia riguardo alla situazione finanziaria
dell’operatore, ma del suo rappresentante legale, per quanto ne sia il socio
di maggioranza.
La stazione appaltante, come l’ente concedente, non ha interesse a conoscere
i rapporti con il sistema bancario del rappresentante legale, i cui rapporti
di credito/debito sono di regola intrattenuti anche per finalità estranee
all’attività di impresa, ma di quale reputazione goda l’impresa offerente
nell’ambito del sistema bancario e se essa possa dirsi in condizione di
stabilità e solidità economico–finanziaria, tale da reggere gli investimenti
economici programmati. |
EDILIZIA PRIVATA:
Intervento edilizio su immobili sottoposti a tutela
paesaggistica o ambientale - Istituto del silenzio-assenso
inoperatività - Preventivo parere o autorizzazione - Artt.
20, 22, 23-bis, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Dal combinato disposto degli artt. 20,
22, 23-bis, D.P.R. n. 380/2001 ed art. 20 della legge n.
07.08.1990, n. 241 è corretto desumere che, quando si
intende realizzare un intervento edilizio per il quale è
necessaria il permesso di costruire o la segnalazione
certificata di inizio di attività, riguardanti immobili
sottoposti a tutela paesaggistica o ambientale, è necessario
acquisire preventivamente il parere o l'autorizzazione
prevista dalle specifiche discipline di salvaguardia, e,
inoltre, che l'istituto del silenzio assenso non opera con
riferimento agli atti e procedimenti riguardanti la tutela
del patrimonio paesaggistico o dell'ambiente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.04.2019 n. 15523 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tutela del paesaggio e provvedimento autorizzatorio -
Effetti del silenzio dell'amministrazione - Concorso di
competenze statali e regionali - Definizione di pratiche
edilizie mediante sanatoria - Art. 181, c. 1, d.lgs. n.
42/2004 - Speciale causa di estinzione del reato
paesaggistico - Art. 39, c. 8, L. n. 724/1994 -
Giurisprudenza - Fattispecie.
In tema di tutela del paesaggio, il
provvedimento autorizzatorio previsto dalla legislazione di
settore deve avere forma espressa, atteso che il silenzio
dell'amministrazione proposta alla tutela del vincolo non
può avere valore di assenso stante la necessità di valutare
da parte della p.a. equilibri diversi e tenere conto del
concorso di competenze statali e regionali. Identiche
conclusioni, inoltre, sono state affermate anche con
riferimento alla definizione di pratiche edilizie mediante
sanatoria.
In particolare, si è osservato che la speciale causa di
estinzione del reato paesaggistico introdotta dall'art. 39,
comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724, è subordinata, in
caso di opere eseguite in zona vincolata, al conseguimento
delle autorizzazioni delle Amministrazioni preposte alla
tutela del vincolo, non essendo applicabile la procedura del
silenzio-assenso, prevista dal comma 4 della medesima
disposizione, che si riferisce alla sola ipotesi di
violazioni edilizie eseguite in zona non vincolata
(così, per tutte, Sez. 3, n. 30059 del 16/05/2018,
Quartucci).
Fattispecie: disciplina applicabile su
immobile, in zona su cui insiste vincolo paesaggistico, in
ristrutturazione e piscina in edificazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.04.2019 n. 15523 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara se il Durc è negativo per una denuncia
errata.
Secondo il Consiglio di Stato si può perdere una gara che vale milioni di
euro e che coinvolge centinaia di lavoratori per il mancato inserimento del
codice fiscale del figlio di una dipendente (su oltre duemila) e la
conseguente scopertura contributiva di circa 330 euro.
Con una pronuncia di stampo estremamente formalistico (Sez. III,
sentenza
09.04.2019 n. 2313), il giudice amministrativo smentisce
l’approccio opposto tenuto dal giudice sul lavoro che, con riferimento alla
stessa vicenda, pochi mesi fa è giunto a conclusioni diverse (sentenza
1490/2019 del tribunale di Roma - si veda il Sole 24 Ore del 27 febbraio
scorso).
La questione esaminata dal Consiglio di Stato riguarda l’esclusione da un
bando di gara di una società che non ha correttamente inserito un codice
fiscale nelle denunce mensili relative al personale e quindi è incappata in
un Durc negativo.
In primo grado il Tar ha confermato la validità dell’esclusione, sostenendo
che nel concetto di violazione degli obblighi previdenziali rientri non solo
il mancato versamento dei contributi, accertati e quantificati, ma anche
l’omissione delle denunce obbligatorie, in quanto solo con la presentazione
di una denuncia corretta e completa l’ente previdenziale è messo in
condizione di controllare e quantificare i contributi dovuti.
La società ha fatto presente che l’omissione era di scarsa rilevanza, in
quanto consisteva nella mancata specificazione del codice fiscale del figlio
convivente di uno dei circa 2.000 dipendenti mensilmente dichiarati all’Inps,
ed era scaturita, peraltro, dalle novità tecniche che avevano interessato la
modalità di invio telematico dei flussi dei dati contributivi proprio nel
periodo di interesse.
Nonostante questa incongruenza del tutto marginale, il Consiglio di Stato ha
giudicato legittima l’esclusione. Infatti la ragione ostativa al rilascio di
Durc regolare può consistere «anche nel solo mancato adempimento degli
obblighi di presentazione delle denunce periodiche perché tale
inadempimento, di per sé, integra violazione contributiva grave, a
prescindere dal fatto che, in conseguenza della mancata presentazione delle
denunce, sia stato omesso il versamento di contributi» per importi molto
bassi, inferiori alla soglia di 150 fissata come “rilevante” dalla legge.
Un formalismo cieco che si concentra sulla procedura –indubbiamente, il
codice fiscale del figlio della dipendente non era stato inserito– senza
guardare in alcun modo al “bene giuridico” che questa vuole tutelare –la
regolarità contributiva della società– e che travolge completamente ogni
valutazione sulla rilevanza e sulla proporzionalità del danno prodotto
dall’omissione (qui prossimo allo zero).
Questo formalismo arriva a travolgere anche l’accertamento delle
responsabilità del mancato inserimento del codice fiscale: limitarsi a
sostenere che una grande azienda «deve» applicare le procedure informatiche,
senza verificare se queste erano concretamente fruibili, significa voler
difendere un rapporto squilibrato tra Pubblica amministrazione e imprese
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019).
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MASSIMA
7.1. La giurisprudenza di questo Consiglio, anche di recente, ha sempre
ribadito con costanza, e con fermezza, che la ragione
ostativa al rilascio di DURC regolari ben può consistere anche nel solo
mancato adempimento degli obblighi di presentazione delle denunce periodiche
perché tale inadempimento, di per sé, integra violazione contributiva grave,
a prescindere dal fatto che, in conseguenza della mancata presentazione
delle denunce, sia stato omesso il versamento di contributi per importi
inferiori all’importo-soglia di cui all’art. 3, comma 3, del D.M.
30.01.2015.
7.2. L’omessa o l’incompleta presentazione delle denunce
obbligatorie impedisce il rilascio di DURC regolare prima della sanatoria,
pur sempre possibile, ma non rilevante nei rapporti tra l’impresa e la
stazione appaltante in riferimento alla gara in corso
(v., da ultimo, Cons. St., sez. V, 18.02.2019, n. 1116). |
INCARICHI PROGETTUALI: Offerte, ammessi tecnici
fuori da raggruppamenti. Dubbi su subappalto delle
progettazioni.
In un raggruppamento di progettisti non è obbligatorio inserire il
professionista nel raggruppamento; è sufficiente che nell'offerta sia
indicata la parte della prestazione che svolgerà.
È quanto ha affermato il
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
08.04.2019 n.
2276.
Il caso esaminato riguardava un appalto di servizi di ingegneria e
architettura cui aveva partecipato un raggruppamento di progettisti che
aveva inserito nel proprio staff tecnico un ingegnere in possesso di una
certificazione energetica che veniva quindi fatto «passare» per membro del
raggruppamento, quando invece risultava soltanto indicato come facente parte
del team indicato in offerta.
I giudici hanno ricostruito il quadro
normativo di riferimento a partire dal contenuto dell'articolo 46 del codice
appalti che ammette alla partecipazione sia di professionisti singoli,
associati, sia di raggruppamenti temporanei.
Il Consiglio di stato ha
ricordato anche che l'articolo 24, comma 5 espressamente prevede che
«indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto affidatario,
l'incarico è espletato da professionisti iscritti negli appositi albi
previsti dai vigenti ordinamenti professionali, personalmente responsabili e
nominativamente indicati già in sede di presentazione dell'offerta, con la
specificazione delle rispettive qualificazioni professionali».
Da tali norme il collegio desume che «è dunque evidente che non vi è alcun
obbligo di inserire il professionista nel raggruppamento temporaneo di
professionisti ma è necessario, e sufficiente, che l'offerta indichi
analiticamente i singoli professionisti designati, le relative specifiche
attività e le connesse necessarie qualificazioni professionali».
Il nuovo
codice, ad avviso dei giudici, quindi, «ammette la possibilità alternativa
dell'offerente di avvalersi di liberi professionisti singoli o associati»
ovvero di inserirli nel raggruppamento temporaneo. Non sembra però chiaro,
alla luce di questa posizione, come si debba affrontare il tema del divieto
di subappalto della progettazione, laddove il professionista risulti nella
sostanza estraneo al raggruppamento e, peraltro, non ne partecipi delle
relative responsabilità contrattuali
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2019). |
APPALTI SERVIZI: Servizi
pubblici, gara illegittima senza la relazione che giustifica la forma
dell’affidamento.
Le ragioni della scelta della migliore modalità di gestione del servizio
pubblico devono essere compiutamente illustrate nella relazione prevista
dall'articolo 34, comma 20, del Dl 179/2012, la cui mancanza determina
l'illegittimità degli atti di gara.
Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza
08.04.2019 n. 2275.
La questione
Un operatore economico, gestore uscente del servizio di igiene urbana
oggetto di affidamento mediante gara, ha contestato la sentenza con cui il
Tar ha dichiarato l'illegittimità del provvedimento del Comune di
annullamento d'ufficio dell'intera procedura, ritenuta non viziata dalla
carenza della relazione illustrativa (articolo 34, comma 20, del Dl
179/2012). L'omissione dell'adempimento costituirebbe, ad avviso dei giudici
di primo grado, una mera irregolarità formale e sarebbe perciò inidonea a
ledere in concreto l'interesse pubblico alla cui tutela la norma è
preordinata.
Il comma 20 dell'articolo 24 dispone che per i servizi pubblici locali di
rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina
europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e di
garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento,
l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione,
pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che deve dare conto delle
ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo
per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici
degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le
compensazioni economiche se previste.
Tra i motivi di appello, l'operatore ha criticato la sentenza del Tar in
quanto ha ritenuto la valenza meramente formale e non sostanziale della
relazione illustrativa, la cui mancanza sarebbe inidonea a ledere gli
specifici interessi pubblici tutelati dalla norma che la prescrive e
comunque a comportare il concorrente sacrificio degli altri interessi
coinvolti nella vicenda, a cominciare da quello delle imprese ammesse alla
prosecuzione della gara, ma anche quello della stessa amministrazione alla
conservazione dell'attività amministrativa compiuta.
La relazione
La quinta sezione del Consiglio di Stato rileva la fondatezza dell'appello,
contestando alla radice la valenza formale e non sostanziale
dell'adempimento relativo alla relazione, in quanto smentita dall'articolo
3-bis, comma 1-bis, del Dl 138/2011 che, nel dettare i criteri di
organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali, ha imposto
agli enti di governo di effettuare la relazione in cui dare conto della
sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di
affidamento prescelta e motivarne le ragioni con riferimento agli obiettivi
di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e qualità del
servizio.
Nel contesto di sostanziale equiordinazione tra i vari modelli di gestione
disponibili per la gestione dei servizi pubblici locali (partenariato
pubblico-privato, società mista, affidamento in house), afferma la sezione,
l'amministrazione è chiamata ad effettuare una scelta per l'individuazione
della migliore modalità di gestione del servizio rispetto al contesto
territoriale di riferimento e sulla base dei principi indicati dalla legge.
L'amministrazione è quindi chiamata all'esercizio di poteri discrezionali al
fine di tutelare l'interesse generale al perseguimento degli obiettivi di
universalità e socialità, di efficienza, di economicità e qualità del
servizio, che devono trovare esito proprio nella relazione illustrativa di
cui all'articolo 34, che non può essere derubricata a «mero orpello procedimentale», scrivono i giudici di Palazzo Spada, in quanto si tratta di
valutazioni con le quali l'amministrazione deve in maniera congrua e
adeguata motivare sull'assenza di alternative praticabili, non potendo ciò
essere supplito da una valutazione con prognosi postuma effettuata dal
giudicante
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.04.2019). |
APPALTI:
Esclusione per condanna non dichiarata.
E' irrilevante che il
reato non dichiarato non rientri tra quelli
che ai sensi del comma 1 dell’articolo 80
del D.Lgs. n. 50/2016 sono preclusivi della
partecipazione alla gara, estendendosi
l’obbligo dichiarativo anche a quelle
fattispecie astrattamente idonee a porre in
dubbio l’affidabilità o l’integrità del
concorrente, e tale è sicuramente una
condanna per bancarotta fraudolenta, con la
conseguenza che l’omissione della
dichiarazione è essa stessa idonea ad
incidere sull’affidabilità del concorrente.
E' poi irrilevante che la condanna, per
effetto dell’accordato beneficio della non
menzione, non risulti dai certificati del
casellario giudiziario, posto che colui nei
cui confronti la sentenza di condanna è
stata pronunciata non può non esserne a
conoscenza; sempre per il TAR, ancorché
l’effetto estintivo del reato sia automatico
al concretizzarsi dei presupposti di cui
all’articolo 445 Cod. proc. pen., è pur
sempre necessaria, affinché venga meno
l’obbligo dichiarativo in gara, una
pronuncia giudiziale che accerti il
verificarsi della fattispecie estintiva, non
potendosi gravare la stazione appaltante di
controlli che non le competono
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 08.04.2019 n. 766 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Ritenuto:
- che è irrilevante che il reato non dichiarato non rientri tra
quelli che ai sensi del comma 1
dell’articolo 80 del D.Lgs. n. 50/2016 sono
preclusivi della partecipazione alla gara,
estendendosi l’obbligo dichiarativo anche a
quelle fattispecie astrattamente idonee a
porre in dubbio l’affidabilità o l’integrità
del concorrente, e tale è sicuramente una
condanna per bancarotta fraudolenta, con la
conseguenza che l’omissione della
dichiarazione è essa stessa idonea ad
incidere sull’affidabilità del concorrente (cfr.,
C.d.S., Sez. V, sentenza n. 1649/2019);
- che l’obbligo dichiarativo si estende, giusta quanto dispone
l’articolo 80, comma 3, D.Lgs. n. 50/2016,
anche ai membri del Collegio sindacale, in
virtù dei poteri controllo e, sia pure in
via suppletiva, amministrativi che a esso
competono secondo la disciplina contenuta
negli articoli 2397 e ss. Cod. civ.;
- che la falsa dichiarazione risulta per tabulas, e che è
irrilevante che la condanna, per effetto
dell’accordato beneficio della non menzione,
non risultasse dai certificati del
casellario giudiziario, posto che colui nei
cui confronti la sentenza di condanna è
stata pronunciata non può non esserne a
conoscenza;
- che, ancorché l’effetto estintivo del reato sia automatico al
concretizzarsi dei presupposti di cui
all’articolo 445 Cod. proc. pen.,
coerentemente con l’orientamento
tradizionale che valorizza il dato testuale
per cui l’estinzione deve essere “dichiarata”
(e che il Collegio ritiene preferibile
rispetto ad alcune recenti pronunce di segno
contrario), è pur sempre necessaria,
affinché venga meno l’obbligo dichiarativo
in gara, una pronuncia giudiziale che
accerti il verificarsi della fattispecie
estintiva (cfr., TAR Toscana, Sez. II,
sentenza n. 1041/2018), non potendosi
gravare la stazione appaltante di controlli
che non le competono;
- che il provvedimento impugnato, in uno con il gli atti
presupposti, rende intellegibile la ragione
per la quale il RTI concorrente è stato
escluso dalla gara, come dimostra il fatto
che stesso che con il primo motivo di
impugnazione la ricorrente abbia articolato
ampie difese contro la sussistenza dei
presupposti per la dichiarazione di
decadenza dall’aggiudicazione;
Ritenuto, conseguentemente, che il ricorso sia
manifestamente infondato e per questo vada
respinto, e che le spese di giudizio vadano
regolate secondo il principio della soccombenza. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Revisione
prezzi.
La revisione dei prezzi
si applica solo alle proroghe contrattuali e
non anche agli atti successivi al contratto
originario con cui, attraverso specifiche
manifestazioni di volontà, siano stati
costituiti tra le parti nuovi e autonomi
rapporti giuridici, ancorché di contenuto
analogo a quello originario
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 08.04.2019 n. 764 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
1. In via preliminare appare opportuno
premettere che, ai sensi dell’art. 133,
comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm., le
controversie in tema di revisione prezzi
sono devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo sia che la
contestazione riguardi la spettanza della
stessa, sia l’esatto suo importo come
quantificato dal concreto provvedimento
applicativo (cfr., da ultimo, TAR
Lombardia, Milano, III, 28.02.2018, n.
595).
2. Sempre in via preliminare va chiarito che
il periodo di proroga contrattuale –ricompreso tra il
01.07.2014 e il 30.03.2017– preso in considerazione nella
presente controversia è successivo a quello
per cui è stato instaurato, tra le stesse
parti di questo giudizio, il ricorso R.G. n.
2775/2013, conclusosi con la sentenza della
Terza Sezione di questo Tribunale n. 595 del
28.02.2018, di parziale accoglimento
del gravame.
3. Passando all’esame del merito del
ricorso, lo stesso non è fondato.
4. Con l’unica complessa censura di gravame,
si assume l’illegittimità del mancato
riconoscimento in favore della parte
ricorrente del compenso revisionale nella
misura di € 1.605.219,33, per il periodo 01.07.2014/30.03.2017, nonostante il
Comune di Milano abbia semplicemente
posticipato più volte l’originario termine
di esecuzione contrattuale, anziché
rinegoziare/rivisitare i preesistenti
obblighi pattizi.
4.1. La doglianza è infondata.
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, la revisione dei prezzi si applica solo alle
proroghe contrattuali e non anche agli atti
successivi al contratto originario con cui,
attraverso specifiche manifestazioni di
volontà, siano stati costituiti tra le parti
nuovi ed autonomi rapporti giuridici,
ancorché di contenuto analogo a quello
originario (cfr. Consiglio di Stato, III,
05.03.2018, n. 1337; 09.01.2017, n. 25;
22.01.2016, n. 209; TAR Lombardia,
Milano, III, 28.02.2018, n. 595).
Pertanto, nella controversia de qua, deve
verificarsi se gli atti di proroga
contrattuale posti in essere dal Comune di
Milano nei confronti del Consorzio
ricorrente risultino essere semplici
estensioni dell’originario rapporto, come
sostenuto nel ricorso, e quindi determinino
la necessità di prevedere un compenso
revisionale, oppure si tratti di rinnovi
contenenti nuove manifestazioni di volontà,
che danno vita ad autonomi rapporti
giuridici e per i quali non è previsto alcun
corrispettivo revisionale.
4.2. Il primo rinnovo contrattuale, relativo
al periodo 01.07.2014/30.06.2015, è
stato disposto con determinazione
dirigenziale n. 276 del 30.06.2014 (all.
3 al ricorso e all. 8 e 9 del Comune). Dalla
lettura dell’atto di sottomissione,
debitamente sottoscritto e accettato dal
Consorzio, si ricava che l’oggetto del
contratto è stato certamente modificato
rispetto al suo originario contenuto, in
quanto la manutenzione programmata è stata
estesa anche alle aree a verde pubblico
ubicate nei cimiteri cittadini (per un
ulteriore importo di € 888.787,81); inoltre
la stessa parte ricorrente ha evidenziato
l’effettuazione di una prestazione
aggiuntiva gratuita riguardante
l’installazione dei rilevatori su 11 cabine
(per un valore di € 248.000,00).
Tali
innovazioni, che non possono definirsi
marginali né da un punto di vista del loro
valore complessivo, né con riguardo alla
loro funzione, unitamente ai contenuti
motivazionali degli atti, attestano
l’avvenuta effettuazione di una negoziazione
con correlata valutazione circa la
convenienza economica dell’operazione, che
non si risolve in un mero differimento del
termine di scadenza del precedente
contratto, ma dà vita ad un nuovo rapporto
negoziale (cfr. TAR Lombardia, Milano, III, 28.02.2018, n. 595).
Ne discende che per tale periodo non può
essere riconosciuto alcun compenso
revisionale.
4.3. Il secondo rinnovo contrattuale,
relativo al periodo 01.07.2015/31.12.2015, formalizzato con le
determinazioni dirigenziali n. 192 del 30.04.2015 e n. 196 del
05.05.2015 (all.
4 al ricorso e all. 10, 11 e 12 del Comune),
è stato motivato con la necessità, sorta a
seguito della ridefinizione delle competenze
per la manutenzione del verde pubblico, di
proseguire le nuove modalità di esecuzione
degli interventi nelle Zone di Decentramento
Territoriale; inoltre la manutenzione
programmata è stata estesa anche alle aree a
verde pubblico relative al sito di EXPO
Milano 2015. Anche in tale frangente ci si
trova al cospetto di un nuovo rapporto
negoziale e non di una mera proroga, con la
conseguente impossibilità di riconoscere
alla parte ricorrente alcun compenso
revisionale.
4.4. Il terzo rinnovo, riguardante il
periodo 01.01.2016/30.04.2016, è
stato approvato con la determinazione
dirigenziale n. 485 del 29.12.2015
(all. 5 al ricorso e all. 13 e 14 del
Comune); dal contratto è stata stralciata la
manutenzione del verde cimiteriale, in
quanto inserita in un diverso lotto, come
pure risulta esaurita l’attività in
relazione alla manifestazione EXPO Milano
2015, conclusasi il 31.10.2015,
discendendo da ciò la modifica dell’oggetto
della prestazione richiesta alla parte
ricorrente. Anche in tale circostanza si
tratta di un rinnovo del rapporto
contrattuale e non delle sua mera proroga,
con l’insussistenza di alcun obbligo di
pagamento supplementare in capo al Comune di
Milano.
4.5. Con il quarto rinnovo, relativo al
periodo 01.05.2016/30.06.2016 e
approvato con le determinazioni dirigenziali
n. 247 del 15.04.2016 e n. 248 del 20.04.2016 (all. 7 al ricorso e all. 15, 16
e 17 del Comune), si è incluso nell’oggetto
del contratto la manutenzione delle aree a
verde pubblico presenti nel sito espositivo
di EXPO Milano 2015, sebbene attraverso una
rimodulazione delle attività prestata in
ragione dell’avvenuta conclusione
dell’evento. Ne discende anche in questo
caso l’insussistenza dei presupposti per il
riconoscimento del compenso revisionale.
4.6. I successivi rinnovi –quinto, sesto e
settimo, rispettivamente per i periodi 01.07.2016/30.09.2016,
01.10.2016/31.12.2016 e 01.01.2017/31.03.2017 (all. 8, 9, 10 e 11 al ricorso e
all. 18, 19, 20, 21, 22 e 23 del Comune)–
sono stati motivati con la mancata
conclusione della già intrapresa procedura
di affidamento del servizio globale per la
manutenzione ordinaria programmata delle
aree a verde pubblico, da cui è scaturito il
differimento dell’avvio dell’esecuzione
dell’appalto; inoltre, per ogni periodo
contrattuale è stato previsto l’obbligo per
l’appaltatore di realizzare gli ulteriori
interventi ordinati dall’Amministrazione,
secondo le tipologie e con le modalità
precisate dall’art. II/10 del Capitolato
speciale d’appalto (cfr. all. 19, 20 e 23
del Comune; sul punto specifico, si veda
anche TAR Lombardia, Milano, III, 28.02.2018, n. 595).
Ebbene, per i citati rinnovi –della durata
complessiva di nove mesi (luglio 2016/marzo
2017)– appare dirimente la circostanza che
gli stessi non si pongono in continuità con
l’originario contratto d’appalto, ma si
connotano per una cesura temporale
certamente rilevante (luglio 2014/giugno
2016), che impedisce di attribuire al
complessivo rapporto contrattuale una
matrice unitaria, tale da giustificare il
riconoscimento di un compenso revisionale;
l’applicazione poi di un identico regime
giuridico agli ultimi rinnovi si ricava
direttamente dall’art. 115 del D.Lgs. n.
163 del 2006, considerato che il compenso
revisionale non può spettare per il primo
anno del rapporto contrattuale, giacché la
previsione di una clausola “periodica” della
revisione prezzi esclude la computabilità a
tal fine dell’anno iniziale, dovendo
trascorrere un significativo periodo di
tempo tra la stipula del contratto d’appalto
e l’adeguamento dei prezzi (cfr. TAR
Campania, Napoli, III, 16.01.2018, n.
361).
4.7. All’infondatezza dell’unica censura di
gravame, segue l’integrale rigetto del
ricorso. |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Compensi,
un solo legittimato. Richiesta di restituzione da chi ha conferito procura.
PARCELLE AVVOCATI/ Il chiarimento in una sentenza del tribunale di Imperia.
È la parte che ha conferito la procura alle liti l'unica legittimata a
chiedere la restituzione del compenso versato: lo ha chiarito il TRIBUNALE
di Imperia nella sentenza n. 231/2019, a seguito della quale è stata
dichiarata l'inammissibilità della domanda proposta da una srl avverso due
legali, volta alla restituzione di alcune somme versate a titolo di
prestazione professionale e contestuale risarcimento del danno.
Nella decisione, il giudice monocratico rilevava, a proposito dell'eccezione
di carenza di legittimazione attiva sollevata dalla parte attrice, che nei
contratti di prestazione d'opera professionale, la qualità di cliente
potrebbe non coincidere con quella del soggetto a favore del quale l'opera
del professionista deve essere svolta, con la conseguenza che chiunque
potrebbe dare incarico ad un legale affinché questi presti la propria opera
a favore di un terzo.
Questo significa che il contratto si conclude tra il
committente ed il professionista, «il quale resta obbligato verso il primo a
compiere le prestazioni a favore del terzo, mentre il primo resta obbligato
al pagamento del compenso»: ora se è vero che la qualità di cliente potrebbe
non coincidere con quella del soggetto a favore del quale l'opera del
professionista viene svolta, è altrettanto vero che l'obbligo di
corrispondere il compenso all'avvocato, e quindi legittimato a richiedere
eventualmente la restituzione, grava «in linea di principio sul soggetto che
ha rilasciato la procura alle liti».
Nel caso di specie, tuttavia, la
società attrice non aveva fornito alcuna prova a sostegno del fatto che il
conferimento dell'incarico fosse avvenuto su mandato di altra società, né
potevano dirsi valide le e-mail inviate prive di firma digitale, in quanto
avevano natura di semplice riproduzione meccanica.
Andava dunque riconosciuta la presunzione che «parte sostanziale del
rapporto intercorso» fosse colui che aveva rilasciato la procura alle liti e
nella cui sfera giuridica si sarebbero prodotti gli effetti sostanziali
delle sentenze, con il risultato di una assoluta mancanza di legittimazione
attiva non potendo nessuno «far valere nel processo in nome proprio un
diritto altrui» (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Richiesta di rilascio di un permesso di costruire -
Documentazione non veritiera attestante una falsa
rappresentazione dello stato dei luoghi - Falso ideologico
in sede amministrativa - Configurabilità - Art. 20, c. 13,
d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 48 e 480 cod. pen..
Risponde del delitto di falso ideologico
in autorizzazioni amministrative il privato che alleghi, a
corredo della richiesta di rilascio di un permesso di
costruire (in sanatoria o no), atto avente natura di
autorizzazione amministrativa, documentazione non veritiera
attestante una falsa rappresentazione dello stato dei
luoghi, così inducendo in errore il pubblico ufficiale
destinatario della richiesta
(Sez. 3, n. 7273 del 09/01/2018, Cavallo).
Pertanto, laddove tale falsa dichiarazione
abbia indotto il pubblico funzionario ad emanare il
provvedimento di sanatoria, il privato si rende responsabile
anche del delitto di cui agli artt. 48 e 480 cod. pen. (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.04.2019 n. 15011 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Provvedimento adottato da un pubblico ufficiale basato su
atti o attestazioni non veri prodotti dal privato - Falso
ideologico in documenti a contenuto dispositivo - Effetti.
Tutte le volte in cui il pubblico
ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto sia
descrittivo sia dispositivo, dando atto in premessa, anche
implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste
per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri
prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del
pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell'art. 48
c.p., colui che ha posto in essere l'atto o l'attestazione
non vera.
Sicché, il falso ideologico in documenti a contenuto
dispositivo ben può investire le attestazioni anche soltanto
implicite contenute nell'atto e quei fatti, giuridicamente
rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti,
con la parte dispositiva dell'atto medesimo, sia che
concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal
pubblico ufficiale sia che concernano altri "fatti dei quali
l'atto è destinato a provare la verità" (art. 479 c.p.,
ultima parte) [...] La falsa premessa deve concernere un
fatto del quale l'atto del pubblico ufficiale è destinato a
provare la verità e ciò va inteso anche quale "immutatio
veri" circa l'esistenza di un presupposto in assenza del
quale il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato.
...
Rapporti tra il delitto di falso ideologico in atto pubblico
per induzione ed il reato di falsità ideologica in atto
pubblico commesso da privati - Rapporto di causa-effetto -
Condotte riconducibili al decipiens - Artt. 48-479 o
48-480 e 483 cod. pen..
Con riferimento ai rapporti tra il
delitto di falso ideologico in atto pubblico per induzione (artt.
48-479 o 48-480 cod. pen.) ed il reato di falsità ideologica
in atto pubblico commesso da privati (art. 483 cod. pen.),
stante il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato
dal privato, quale presupposto dell'emanazione dell'atto del
pubblico ufficiale, ed il contenuto dispositivo di quest'ultimo
e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l'uno e
l'altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e
diventa essa stessa falsità di questo, sicché la recepita
falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore veste
di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui
fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l'atto
pubblico è destinato a provare la verità.
Si configurano, anche sotto il profilo naturalistico, due
condotte riconducibili al decipiens: una prima condotta
consistente nella redazione della falsa attestazione ed una
seconda concretatasi nell'induzione in errore del pubblico
ufficiale mediante la produzione della stessa ai fini
dell'integrazione di un presupposto dell'atto pubblico
emanando, con conseguente configurabilità del concorso
materiale tra i due reati, legati anche da connessione
teleologica.
Pertanto, si può trarre la conclusione secondo cui: il
delitto di falsa attestazione del privato di cui all'art.
483 cod. pen. può concorrere -quando la falsa dichiarazione
sia prevista di per sé come reato- con quello della falsità
per induzione in errore del pubblico ufficiale nella
redazione dell'atto al quale la attestazione inerisca (artt.
48 e 479 cod. pen.), sempre che la dichiarazione non
veridica del privato concerna fatti dei quali l'atto del
pubblico ufficiale è destinato a provare la verità
(Sez. U., n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi e aa.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.04.2019 n. 15011 - link a www.ambientediritto.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Derivati
dei Comuni, alla Corte Conti il giudizio su politici e funzionari.
Rischiano di dover risarcire il danno in prima persona funzionari e
amministratori locali che -dopo il via libera alle operazioni di «finanza
derivata» anche per gli enti territoriali (legge 448/2001)- hanno stipulato
contratti di copertura del debito con effetti negativi sui bilanci.
Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con la
sentenza
05.04.2019 n.
9680, hanno infatti confermato la condanna per danno erariale
del funzionario responsabile dell'area "Amministrativo Finanziaria" e
dell'allora sindaco di un piccolissimo comune in provincia di Terni.
La Suprema Corte, in particolare, ha ribadito la piena legittimità della
giurisdizione della Corte dei conti stabilendo che «è inammissibile il
ricorso con cui si censuri la decisione del Giudice contabile per pretesa
invasione della sfera della discrezionalità dell'amministrazione e, quindi,
per eccesso di potere giurisdizionale».
Il Giudice contabile, dunque, è pienamente legittimato non a sindacare la
scelta in sé –utilizzo o meno del derivato per ristrutturare il debito-,
bensì la «concreta realizzazione ed esecuzione dell'operazione di finanza
derivata». Vale a dire le condizioni a cui il contratto è stato poi
effettivamente sottoscritto. Il caso affrontato è paradigmatico: il piccolo
comune aveva accumulato un debito di quasi 800mila euro per mutui a tasso
fisso contratti con la Cassa depositi e prestiti.
Per fronte alla ingente spesa aveva aderito alla proposta di
ristrutturazione avanzata nel dicembre 2005 dalla Bnl attraverso
un'operazione di finanza derivata del tipo Interest Rate Swap con clausole
Floor e Cap. Tuttavia, come emerso successivamente, il contratto risultava
sbilanciato a favore dell'istituto a causa dei "costi impliciti" non
valutati dal cliente al momento della sottoscrizione.
Il mispricing ammontava a quasi 20mila euro, pari al 4,8% del
nozionale medio. Ed è questa la somma a cui il funzionario, per la metà, e
gli amministratori (tra cui il sindaco), per l'altra metà, sono stati
condannati a risarcire il Comune
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.04.2019).
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MASSIMA
5. In base ai rilievi svolti il motivo è inammissibile sulla base del
seguente principio di diritto: «Nel regime dell'art. 1,
comma 1, primo inciso della l. n. 20 del 1994, con riferimento ad una
sentenza con cui la Corte dei Conti abbia ritenuto la responsabilità del
sindaco e degli assessori comunali e di un funzionario in relazione alla
conclusione, rivelatasi dannosa, di un'operazione di finanza derivata (del
tipo Interest Rate Swap, con clausola Floor e di Cap) in funzione di
un'esigenza di c.d. ristrutturazione del debito comunale ai sensi dell'art.
41 della I. n. 448 del 2001 e norme attuative, è inammissibile il motivo di
ricorso con cui si censuri la decisione del Giudice contabile per pretesa
invasione della sfera della discrezionalità dell'aministrazione e, quindi,
per eccesso di potere giurisdizionale, lamentando l'erroneità della
valutazione cui il Giudice contabile, per affermare la responsabilità, abbia
proceduto a valutare l'operato del funzionario e degli amministratori
comunali, addebitando rispettivamente al primo di avere concluso il relativo
contratto senza avere esperienza sulle operazioni derivate e senza avvalersi
di una preventiva consulenza sul contenuto del contratto, ed agli
amministratori di avere consentito tale conclusione e di avere adottato la
deliberazione senza i pareri previsti dall'art. 49 del d.lgs. n. 267 del
2000.
L'inammissibilità del motivo è giustificata perché la censura così
prospettata inerisce ad una valutazione che il Giudice contabile ha
effettuato sull'azione del funzionario e degli amministratori secondo i
criteri di efficacia ed economicità di cui all'art. 1 della l. n. 241 del
1990 e, dunque, secondo parametri di legittimità che la collocano
all'interno della giurisdizione contabile e non esprimono un sindacato del
merito delle scelte discrezionali dell'amministrazione di cui al
citato art. 1 della l. n. 20 del 1994, come tale fonte del prospettato
eccesso di potere giurisdizionale». |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale
sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica non
ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto.
Con la conseguenza che, all’atto della sua formazione per
inutile decorso del relativo termine, non sussiste un
obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il
provvedimento negativo tacito da impugnare (…).
Pertanto, a fronte di un’istanza di accertamento postumo di
conformità, l’inerzia dell’amministrazione costituisce
un’ipotesi tipica di silenzio significativo, i cui effetti
si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto
dell’istanza. In quanto tacito, tale provvedimento impone
all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione.
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2. Passando all’esame del merito del ricorso, va premesso
che “il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale
sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica non
ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto.
Con la conseguenza che, all’atto della sua formazione per
inutile decorso del relativo termine, non sussiste un
obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il
provvedimento negativo tacito da impugnare (…). Pertanto, a
fronte di un’istanza di accertamento postumo di conformità,
l’inerzia dell’amministrazione costituisce un’ipotesi tipica
di silenzio significativo, i cui effetti si identificano con
un provvedimento (tacito) di rigetto dell’istanza. In quanto
tacito, tale provvedimento impone all’interessato l’onere di
tempestiva impugnazione (…)” (TAR Calabria, Catanzaro, II,
22.08.2016, n. 1633; più di recente, TAR Lombardia,
Milano, II, 22.01.2018, n. 179; TAR Puglia, Lecce, II, 12.01.2018, n. 30).
Nella fattispecie de qua, il ricorrente ha impugnato
tempestivamente il silenzio-rigetto formatosi sulla sua
istanza di accertamento di conformità e, di conseguenza, si
può passare a scrutinare il merito del gravame
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.04.2019 n. 762 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Servizi idrici integrati, gli immobili pagano l’Ici. Lo
dice la Ctp di Parma. Il principio vale per Imu e Tasi.
Gli
immobili utilizzati da una società per azioni che ha in concessione il
servizio idrico integrato, destinati alla gestione di tale servizio e
utilizzati come depositi di acquedotto e impianto di depurazione delle acque
reflue, sono assoggettati ad Ici (e conseguentemente Imu/Tasi).
Con la sentenza n. 382/2018, la
commissione Tributaria provinciale di Parma ha infatti respinto il ricorso
di una società che per il comune resistente effettuava in concessione la
gestione del servizio idrico integrato.
Nel ricorso presentato si sosteneva che i beni oggetto di accertamento Ici
2011 erano in proprietà di un'altra società privata a parziale
partecipazione pubblica e che gli stessi erano entrati nella piena proprietà
della ricorrente con atto notarile stipulato solo nell'anno 2016, pur
avendone l'utilizzo e l'autonoma gestione dal 2011 per affidamento diretto
in house providing avvenuto con atto dell'Autorità di ambito territoriale
competente.
Il comune produceva memoria difensiva nella quale precisava che:
a)
l'accertamento riguardava immobili di categoria D insistenti su aree
demaniali e non aveva come oggetto le aree demaniali stesse.
I predetti fabbricati accertati insistevano su aree demaniali, essendo le
reti acquedottistiche appartenenti ai beni demaniali (artt. 822 e 824 del
codice civile);
b) il servizio svolto dalla ricorrente riguardava la
concessione del servizio idrico integrato, da cui conseguiva la soggettività
passiva d'imposta.
Infatti la Corte di cassazione, con diverse sentenze, ha affermato che i
negozi relativi all'utilizzazione dei beni facenti parte del demanio
pubblico, qual è il servizio idrico integrato, danno luogo ad atti di
concessione in godimento temporaneo;
c) pertanto, essendo la società
ricorrente, concessionaria di beni insistenti su aree demaniali, ne consegue
la soggettività passiva Ici ai sensi dell'art. 3, comma 2, decreto
legislativo n. 504/1992: «Nel caso di concessione di aree demaniali, soggetto
passivo è il concessionario».
La tesi del comune ha prevalso e il collegio, infatti, ha rigettato il
ricorso.
Le motivazioni espresse nella sentenza rilevano come il servizio effettuato
per conto del comune dalla società ricorrente sia da configurarsi come una
concessione per la gestione del servizio idrico integrato, da cui consegue
un diritto reale d'uso dei manufatti in cui viene svolto il servizio
affidato, con decorrenza dalla data di concessione. Inoltre, essendo in
presenza di una concessione su aree demaniali, ne deriva che, per i
fabbricati insistenti sull'area, soggetto passivo dell'Ici è il
concessionario, come statuito dall'art. 3, comma 2, dlgs 504/1992, modificato
dall'art. 18, comma 3, legge n. 388/2000.
La Commissione ricorda che le reti costituenti il servizio idrico integrato
fanno parte dei beni demaniali (artt. 822 secondo comma e 824 primo comma
del codice civile) e che i beni utilizzati dal concessionario rientrano
nella sfera dei cespiti soggetti ad Ici, come da consolidata giurisprudenza
della Suprema corte
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di ristrutturazione edilizia - Disciplina
applicabile - Applicazione retroattiva della norma
extrapenale più favorevole - Artt. 3, 10, 22, 23, 44, D.P.R.
n. 380/2001 - Art. 19, L. n. 241/1990 - Art. 2, c. 4, cod.
pen..
In materia edilizia la modifica
dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001,
(operata con art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n.
133, conv., con modiff., nella l. 11.11.2014, n. 164), ha
escluso dagli interventi di ristrutturazione edilizia
subordinati a permesso di costruire quelli che comportino
aumento di unità immobiliari o di superfici utili, osta alla
riconduzione di tali ipotesi al reato di costruzione sine
titulo di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del
2001 e deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi
dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., quale norma
extrapenale più favorevole integratrice del precetto.
...
Ristrutturazione edilizia e testo vigente - Successione di
leggi - Interventi definiti di ristrutturazione edilizia
c.d. "pesante" e ristrutturazione edilizia "leggera"
- Differenze - Regime del permesso di costruire o s.c.i.a..
Rispetto alla definizione di
ristrutturazione edilizia data dall'art. 3, comma 1, lett.
d) di tale decreto, il successivo art. 10, comma 1, lett.
c), nel testo oggi vigente, assoggetta al regime del
permesso di costruire -salve le ipotesi della modifica della
destinazione d'uso nei centri storici o delle modificazioni
della sagoma di immobili vincolati- soltanto quegli
interventi che «portino ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche
della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti».
Si tratta degli interventi definiti di ristrutturazione
edilizia c.d. "pesante" che, a differenza delle residuali
ipotesi rientranti nella categoria -per la cui realizzazione
è sufficiente la s.c.i.a. in forza della residuale
previsione di cui all'art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. 380
del 2001- sono assoggettati al previo rilascio del permesso
di costruire con conseguente realizzazione della fattispecie
penale contestata nel caso di assenza del titolo.
Se, per contro, si tratti di ristrutturazione edilizia
"leggera" per cui è sufficiente la s.c.i.a., quand'anche non
fosse stata corretta la qualificazione dei lavori in termini
di risanamento conservativo data dai richiedenti, il fatto
non integrerebbe gli estremi del reato contestato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.04.2019 n. 14725 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire -
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Successione di leggi penali e
punibilità del fatto precedentemente commesso - Principio di
retroattività della norma favorevole - Giurisprudenza.
Nel sanzionare penalmente l'esecuzione
di lavori in assenza del permesso di costruire, di fatti, la
norma incriminatrice di cui all'art. 44, comma 1, lett. b),
d.P.R. 380 del 2001 richiama implicitamente proprio l'art.
10, comma 1, del testo unico (rubricato interventi
subordinati a permesso di costruire), che vale dunque ad
integrare il precetto penale nella sua essenziale struttura,
individuando le opere che necessitano di tale titolo
abilitativo.
Va pertanto applicato il principio secondo cui, in tema di
successione di leggi penali, la modificazione della norma
extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice
esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se
tale norma è integratrice di quella penale.
Nel caso di specie, di fatti, non v'è dubbio che il citato
art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 integri il
precetto penale di cui al successivo art. 44, comma 1, lett.
b), incidendo sulla struttura essenziale del reato e quindi
sulla fattispecie tipica, sì che il principio di
retroattività della norma favorevole, affermato dall'art. 2,
comma quarto, cod. pen., si applica anche in caso di
successione nel tempo di norme extrapenali integratrici
aventi tali caratteristiche
(cfr. Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, Branchi;
Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.04.2019 n. 14725 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Responsabilità del progettista - Asseverazione della
conformità delle opere da realizzare agli strumenti
urbanistici approvati - False dichiarazioni o attestazioni o
asseverazioni - C.d. segnalazione certificata - Tecnici
abilitati - Eventuale concorso del privato committente -
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Verifiche di competenza
dell'amministrazione - Fedele rappresentazione dello stato
dei luoghi attuale e quello in progetto - Art. 19, c. 1, L.
241/1990 e ss.mm..
In materia edilizia, l'art. 23, comma 1,
d.P.R. 380 del 2001 -anche, se espressamente riferito alla
s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire, detta una
disciplina generale applicabile a qualsiasi ipotesi di
s.c.i.a. in materia edilizia- prescrive che il proprietario
dell'immobile o chi abbia titolo ad effettuare l'intervento
«presenta allo sportello unico la segnalazione, accompagnata
da una dettagliata relazione a firma di un progettista
abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che
asseveri la conformità delle opere da realizzare agli
strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con
quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie».
A tali documenti occorre pertanto fare riferimento per
applicare alle ipotesi in parola la norma incriminatrice
contenuta nell'art. 19, comma 6, l. 241 del 1990, la quale,
in via generale, punisce, «ove il fatto non costituisca più
grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o
asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio
attività, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei
requisiti o dei presupposti di cui al comma 1».
I requisiti o presupposti, precisa poi la disposizione
richiamata, sono quelli, richiesti dalla legge o da atti
amministrativi a contenuto generale, ai quali è subordinato
lo svolgimento dell'attività per cui è presentata la
segnalazione certificata e tra i documenti e gli atti
richiamati sono espressamente menzionate le «attestazioni e
asseverazioni di tecnici abilitati...corredati dagli
elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di
competenza dell'amministrazione» (art. 19, comma 1, L. 241
del 1990).
Pertanto, tali elaborati sono quelli espressamente
richiamati dall'art. 23, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 che,
allo scopo di consentire all'amministrazione di verificare
la sussistenza dei presupposti perché l'intervento possa
essere effettuato con s.c.i.a., debbono fedelmente
rappresentare -secondo, peraltro, una prassi consolidata- lo
stato dei luoghi attuale e quello in progetto.
Essi -ovviamente redatti dai tecnici abilitati e da essi
sottoscritti- sono, dunque, atti che rientrano nella
competenza, e nella responsabilità, dei professionisti
incaricati.
Sanzionando la citata norma incriminatrice la condotta di
"chiunque" attesti il falso nella redazione degli atti e
documenti presentati a corredo della s.c.i.a., non v'è
dubbio, pertanto, che - a prescindere da un eventuale
concorso anche del privato committente - del fatto debba in
via immediata rispondere l'autore del documento e dunque,
nel caso di tavole progettuali, il tecnico redigente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.04.2019 n. 14725 - link a www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Servizio idrico, si paga l’Imu.
Niente esenzione perché non è un’attività istituzionale. Per la Cassazione
l’immobile va inquadrato nella categoria catastale D e non nella E.
Un
immobile destinato dall'amministrazione comunale alla gestione del servizio
idrico non è esente da Ici e Imu, poiché non si tratta di attività
istituzionale. Non a caso l'immobile è stato inquadrato dall'Agenzia delle
entrate nella categoria «D» anziché «E», vale a dire tra quelli esenti.
Lo
ha stabilito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza
04.04.2019 n. 9427.
Non sussistono i presupposti per ottenere il riconoscimento dell'esonero dal
pagamento dell'imposta, considerato che l'art. 7, comma 1, lettera a) del
decreto legislativo 504/1992 riserva l'esenzione agli immobili posseduti
dall'ente locale destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Per i
giudici di legittimità, è «evidente che il servizio idrico esercitato non
possa essere qualificato come compito istituzionale del comune».
Peraltro,
la natura economica dell'attività esercitata non viene meno a seconda che a
gestire il servizio sia direttamente l'ente territoriale o una azienda
municipalizzata o una società partecipata dall'ente.
L'immobile, infatti, è
stato classificato nella categoria «D», perché ciò «che rileva ai fini del classamento catastale sono le caratteristiche dell'immobile e la sua
destinazione funzionale». La Cassazione (sentenza 8872/2016) ha chiarito
anche che un immobile posseduto da una società costituita da più comuni e
utilizzato per lo svolgimento dell'attività di smaltimento rifiuti non ha
diritto a fruire dell'esenzione. Del resto, l'elencazione dei soggetti
esenti dall'imposta municipale è tassativa e tra questi non rientra la
società di capitali, ancorché costituita tra enti pubblici territoriali.
L'interpretazione dei giudici di legittimità è pienamente condivisibile.
L'esenzione Ici, ma lo stesso vale per l'Imu, è prevista per gli immobili
posseduti, oltre che dallo stato, da regioni, province, comuni ed è
condizionata dalla destinazione effettiva che a questi viene data.
L'elencazione è tassativa, poiché tutte le norme che prevedono agevolazioni
sono di stretta interpretazione e non è ammesso ricorrere all'analogia. Per
il riconoscimento dell'esenzione la destinazione dell'immobile per scopi
istituzionali deve essere effettiva e concreta. In base all' art. 7 sopra
citato non spetta l'esenzione Ici e Imu se l'ente pubblico non fornisce la
prova che l'immobile abbia questa destinazione esclusiva.
Gli immobili,
dunque, devono essere diretti a soddisfare compiti dell'ente pubblico (sede
o ufficio) che ne è proprietario. È indispensabile che l'utilizzo avvenga in
forma immediata e diretta, e cioè da soggetti interni alla struttura
organizzativo- amministrativa dell'ente, poiché solo in questo caso l'uso
può essere caratterizzato da fini istituzionali. Per esempio la commissione
tributaria provinciale di Terni (sentenza 237/2011) ha sostenuto che la
provincia è tenuta a pagare l'Ici (e dal 2012 anche l'Imu) se gli immobili
non sono destinati al soddisfacimento di compiti dello stesso ente pubblico
che ne è proprietario. Non è infatti sufficiente che li metta a disposizione
di terzi, anche se la provincia è obbligata a darli in uso allo stato per lo
svolgimento di attività didattiche (sede universitaria).
Va ricordato che con l'introduzione dell'Imu è stato ristretto l'ambito
delle esenzioni prima riconosciute dalla disciplina Ici. Non possono più
fruire dell'agevolazione fiscale gli immobili posseduti dalle camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura. Non è stata riproposta
l'esenzione neppure per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili che
vengono recuperati per essere destinati a attività assistenziali.
Infine, con la modifica dell'art. 7, lettera a) sono state ridisegnate le
agevolazioni anche per gli immobili posseduti dalle amministrazioni locali,
poiché l'esonero dal pagamento è limitato solo agli immobili siti sul
proprio territorio e non compete più per quelli ubicati sul territorio di
altri enti
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
INCARICHI
PROGETTUALI: Senza
contratto spetta solo il danno emergente.
Al professionista che lavora senza contratto con la p.a. spetta solo il
danno emergente; non spetta il mancato guadagno: l'indennizzo dovuto
dall'ente pubblico non si calcola in base alle tariffe o compensi
professionali.
È quanto ha deciso la
sentenza 04.04.2019 n. 9317 della
III Sez. civile della Corte di Cassazione.
Nel caso specifico al centro della vicenda alcuni professionisti che avevano
effettuato progettazioni per lavori di ristrutturazione di edifici. Il
contenzioso ha riguardato la cifra da porre a carico della p.a. che si era
avvalsa del lavoro dei professionisti, ma senza formalizzare il contratto.
L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che
abbia svolto la propria attività a favore della pubblica amministrazione, ma
in difetto di un contratto, spiega la sentenza, non può essere determinato,
neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa professionale
che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse volto la sua opera a
favore di un privato né in base all'onorario che la pubblica amministrazione
avrebbe dovuto pagare se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto di
un contratto valido.
L'indennità, aggiunge la cassazione, va liquidata nei
limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della
prestazione con esclusione del lucro cessante (mancato guadagno), che si
sarebbe incassato se il contratto fosse stato valido ed efficace
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).
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MASSIMA
8. Osserva il Collegio come, secondo l'orientamento fatto proprio dalle
Sezioni Unite di questa Corte, in tema di azione d'indebito arricchimento
nei confronti della pubblica amministrazione, conseguente all'assenza di un
valido contratto di appalto d'opera tra la pubblica amministrazione e un
professionista, l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. va liquidata nei
limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della
prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto
lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto
negoziale fosse stato valido ed efficace (Sez. U, Sentenza n. 1875 del
27/01/2009, Rv. 606124 - 01). 9.
Pertanto, ai fini della determinazione
dell'indennizzo dovuto al professionista non possono essere assunte come
parametro le tariffe professionali (ancorché richiamate da parcelle vistate
dall'ordine competente), alle quali può ricorrersi solo quando le
prestazioni siano effettuate dal professionista in base un valido contratto
d'opera con il cliente (Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124
- 01, cit.).
10. Il richiamato insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (che
questo Collegio integralmente condivide e fa proprio, al fine di assicurarne
continuità, in consonanza con il successivo orientamento confermativo
assunto da Sez. 3, Sentenza n. 19886 del 06/10/2015, Rv. 637195 - 01) ha con
ampia motivazione dimostrato per quali ragioni la opposta tesi sia
insostenibile.
11. Dall'affermazione secondo cui l'indennizzo dovuto all'impoverito, ai
sensi dell'art. 2041 c.c., non possa comprendere il lucro che questi avrebbe
realizzato se il contratto stipulato con la p.a. fosse stato valido ed
efficace, la giurisprudenza successiva ha tratto il necessario corollario
secondo cui l'impoverimento non può essere determinato (neppure
indirettamente quale parametro: cfr. Sez. U, Sentenza n. 1875 del
27/01/2009, cit., in motivazione, là dove richiama Sez. 2, Sentenza n. 9243
del 12/07/2000, Rv. 538406 - 01) sulla base della tariffa professionale
applicabile alle prestazioni eseguite dall'impoverito.
Applicare quella
tariffa, infatti, significherebbe accordargli un indennizzo esattamente pari
a quanto avrebbe avuto diritto di pretendere dalla pubblica amministrazione
nell'ipotesi di stipula con essa d'un contratto valido (così si sono
pronunciate Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124; nello
stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 3905 del 18/02/2010, Rv. 611568; Sez. 3,
Sentenza n. 23780 del 07/11/2014, Rv. 633449; Sez. 3, Sentenza n. 19886 del
06/10/2015, Rv. 637195 - 01).
12. Questo Collegio non ignora che, dopo l'intervento delle Sezioni Unite,
alcune decisioni delle singole sezioni di questa Corte sono tornate ad
affermare che la tariffa professionale possa essere utilizzata per la stima
dell'indennizzo dovuto, ex art. 2041 c.c., a chi abbia lavorato per la
pubblica amministrazione senza la previa stipula d'un contratto scritto.
13. Tali decisioni, tuttavia non possono essere affatto condivise.
14. Non può essere condivisa, in primo luogo, la decisione pronunciata da
Sez. 1, Sentenza n. 19942 del 29/09/2011, Rv. 619548: sia perché si pone in
contrasto inconsapevole con la pronuncia delle Sezioni Unite sopra ricordata
(nonché con Sez. U, Sentenza n. 23385 del 11/09/2008, Rv. 604467 - 01),
senza spendere una parola per motivare la propria opinione dissenziente; sia
soprattutto perché l'affermazione del principio (secondo cui l'indennizzo
può essere liquidato in base alle tariffe professionali) è compiuta in modo
apodittico e non corredato da ragioni giustificatrici.
15. Per le stesse ragioni non può essere condiviso il decisum di Sez.
3, Sentenza n. 26193 del 06/12/2011 (non massimata) e di Sez. 6 - 1,
Ordinanza n. 351 del 10/01/2017 (Rv. 642780 - 01): anch'esse infatti
ignorano di fatto le indicazioni delle Sezioni Unite e non sono sorrette da
alcuna approfondita motivazione.
16. Non costituisce, invece, una dissenting opinion rispetto alle decisioni
delle Sezioni Unite sopra ricordate la sentenza pronunciata da Sez. 1,
Sentenza n. 21227 del 14/10/2011, Rv. 619902.
Nel caso ivi deciso, infatti, il giudice di merito aveva negato la
possibilità di liquidare l'indennizzo ex art. 2041 c.c. in base alla tariffa
professionale, e la Corte di cassazione ritenne che "tale
ratio decidendi [fosse] da condividersi".
17. È appena il caso di rilevare come le opinioni dissenzienti appena
ricordate, oltre che isolate, neppure avrebbero potuto essere ritualmente
pronunciate, ostandovi il divieto di cui all'art. 374, co. 3, c.p.c.
(secondo cui "se la sezione semplice ritiene di non condividere il
principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime,
con ordinanza motivata, la decisione del ricorso").
18. Essendosi il giudice a quo espressamente uniformato all'orientamento
fatto proprio da Sez. 1, Sentenza n. 19942 del 29/09/2011, Rv. 619548 (qui
motivatamente confutato), in accoglimento del secondo motivo del ricorso
(rigettato il primo ed assorbito il terzo), dev'essere disposta la
cassazione della sentenza impugnata, con il conseguente rinvio alla Corte
d'appello di Roma, in diversa composizione, cui è rimesso di provvedere,
sulla base degli elementi di fatto acquisiti al processo, alla decisione
dell'odierna controversia in applicazione del seguente principio di diritto:
"L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al
professionista che abbia svolto la propria attività a favore della pubblica
amministrazione, ma in difetto di un contratto scritto, non può essere
determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa
professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto
la sua opera a favore d'un privato, né in base all'onorario che la p.a.
avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto
d'un contratto valido". |
URBANISTICA: Destinazione
di un’area a verde agricolo.
La destinazione di un’area a verde
agricolo non implica necessariamente che la
stessa soddisfi in modo diretto e immediato
interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell’ordinato
governo del territorio, quale la necessità
di impedire ulteriori edificazioni, ovvero
di garantire l’equilibrio delle condizioni
di vivibilità, assicurando la quota di
valori naturalistici e ambientali necessaria
a compensare gli effetti dell’espansione
dell’aggregato urbano.
---------------
Le scelte riguardanti la classificazione dei
suoli sono sorrette da ampia discrezionalità
e in tale ambito la posizione dei privati
risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell’Amministrazione, in
quanto scelte di merito non sindacabili dal
giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo.
---------------
All’interno della pianificazione urbanistica
devono trovare spazio anche esigenze di
tutela ambientale ed ecologica, tra le quali
spicca proprio la necessità di evitare
l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e
spazi liberi.
E ciò in quanto
l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non possono
essere intesi, sul piano giuridico, solo
come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
---------------
In materia urbanistica, non opera il
principio del divieto di reformatio in peius,
in quanto in tale materia l’Amministrazione
gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte, che
relega l’interesse dei privati alla conferma
della previgente disciplina ad interesse di
mero fatto, non tutelabile in sede
giurisdizionale.
---------------
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi
che la destinazione di un’area a verde
agricolo non implica necessariamente che la
stessa soddisfi in modo diretto e immediato
interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell’ordinato
governo del territorio, quale la necessità
di impedire ulteriori edificazioni, ovvero
di garantire l’equilibrio delle condizioni
di vivibilità, assicurando la quota di
valori naturalistici e ambientali necessaria
a compensare gli effetti dell’espansione
dell’aggregato urbano (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n.
830; 16.11.2011, n. 6049; TAR
Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n.
122; 27.02.2017, n. 451).
...
Del
resto, secondo la consolidata
giurisprudenza, le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono sorrette da
ampia discrezionalità e in tale ambito la
posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia,
Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
La più recente evoluzione giurisprudenziale
ha, oltretutto, evidenziato che all’interno
della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca
proprio la necessità di evitare l’ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi
(così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto
l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non possono
essere intesi, sul piano giuridico, solo
come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n.
2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia,
Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento
delle capacità edificatorie del comparto di
proprietà della ricorrente deve richiamarsi
la costante giurisprudenza secondo la quale,
in materia urbanistica, non opera il
principio del divieto di reformatio in peius,
in quanto in tale materia l’Amministrazione
gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte, che
relega l’interesse dei privati alla conferma
della previgente disciplina ad interesse di
mero fatto, non tutelabile in sede
giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia,
Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017,
n. 2393)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.04.2019 n. 751 - link
a www.giustizia-amministrativa). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di
pianificazione urbanistica la nozione di
lotto intercluso ha una sua valenza quando
non si rinviene spazio giuridico per
un’ulteriore pianificazione, mentre non è
applicabile nei casi di zone solo
parzialmente urbanizzate, esposte al rischio
di compromissione di valori urbanistici,
nelle quali la pianificazione può ancora
conseguire l’effetto di correggere e
compensare il disordine edificativo in atto.
---------------
2.2. Quanto alla natura di lotto intercluso
dell’area di proprietà della ricorrente, che
avrebbe perciò richiesto un rafforzato onere
motivazionale, va sottolineato come in tema
di pianificazione urbanistica la nozione di
lotto intercluso ha una sua valenza quando
non si rinviene spazio giuridico per
un’ulteriore pianificazione, mentre non è
applicabile nei casi di zone solo
parzialmente urbanizzate, esposte al rischio
di compromissione di valori urbanistici,
nelle quali la pianificazione può ancora
conseguire l’effetto di correggere e
compensare il disordine edificativo in atto
(cfr. Consiglio di Stato, IV, 20.07.2016, n. 3293; 21.12.2012, n. 6656);
nella fattispecie de qua non risulta
affatto sussistere un lotto intercluso, come
dimostrato sia dalle cartografie (all. 2 del
Comune) che dalla mappa aerea (all. 27 al
ricorso), essendo edificato soltanto una
parte del confine del lotto, mentre per
tutto il lato sud il compendio è delimitato,
per un lungo tratto, da una strada (Via Levi
Montalcini)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.04.2019 n. 751 - link
a www.giustizia-amministrativa). |
URBANISTICA:
Con riguardo
alla necessità di una ripubblicazione del
Piano, legata ad un asserito stravolgimento
di quest’ultimo in fase di approvazione, va
sottolineato che, sebbene, in base ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale,
la rielaborazione complessiva di uno
strumento di pianificazione territoriale,
avvenuta in sede di approvazione definitiva
dello stesso, comporti la necessità della
sua ripubblicazione, va tuttavia osservato
che ricorre una tale ipotesi allorquando fra
la fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua
impostazione.
---------------
Con riferimento ai piani urbanistici dei
Comuni, si esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano,
quando, in sede di approvazione, vengano
introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi
di aree.
In tali casi trova applicazione la norma
dell’art. 13, comma 9, della legge regionale
n. 12 del 2005 che esclude la necessità di
nuova pubblicazione in caso di approvazione
di “… controdeduzioni alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali e
regionali …”. Tale disposizione appare del
tutto ragionevole alla luce della
interpretazione che ne ha fornito la
giurisprudenza, avendone limitato
l’operatività alle situazioni in cui non
risulta essersi prodotto uno stravolgimento
del piano o delle sue linee portanti.
---------------
4. Con la terza doglianza si assume che il Piano,
attraverso la soppressione dell’Ambito di
trasformazione afferente all’area di
proprietà della ricorrente, sarebbe stato
stravolto nelle sue linee portanti e ciò
avrebbe dovuto condurre ad una
ripubblicazione dello stesso, al fine di
consentire alla parte interessata di
interloquire sul nuovo assetto urbanistico.
4.1. La doglianza è infondata.
In primo luogo, si deve sottolineare come
nessuno stravolgimento del Piano risulta
essere stato posto in essere, considerato
che la soppressione dell’Ambito di
trasformazione “SP2” non ha prodotto effetti
così rilevanti sull’assetto territoriale
complessivo, o almeno ciò non è stato
oggetto di inequivoca dimostrazione; in tal
modo è stato altresì garantito un minore
consumo di suolo complessivo. Peraltro, la
contestazione riguardante la mancata
cessione all’Amministrazione, in sede di
perequazione, di aree per realizzare servizi
pubblici non può essere accolta, stante
l’accertato equilibrio complessivo del
Piano, documentato in sede di Relazione al
Piano dei servizi (cfr. all. 18 del Comune).
In ogni caso, con riguardo alla necessità di
una ripubblicazione del Piano, legata ad un
asserito stravolgimento di quest’ultimo in
fase di approvazione, va sottolineato che,
sebbene, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, la
rielaborazione complessiva di uno strumento
di pianificazione territoriale, avvenuta in
sede di approvazione definitiva dello
stesso, comporti la necessità della sua
ripubblicazione, va tuttavia osservato che
ricorre una tale ipotesi allorquando fra la
fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione
(cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2677; altresì, 19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei
Comuni, si esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano,
quando, in sede di approvazione, vengano
introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi
di aree, come avvenuto nella fattispecie de
qua (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In tali casi trova applicazione la norma
dell’art. 13, comma 9, della legge regionale
n. 12 del 2005 che esclude la necessità di
nuova pubblicazione in caso di approvazione
di “… controdeduzioni alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali e
regionali …”. Tale disposizione appare del
tutto ragionevole alla luce della
interpretazione che ne ha fornito la
giurisprudenza, avendone limitato
l’operatività alle situazioni in cui non
risulta essersi prodotto uno stravolgimento
del piano o delle sue linee portanti (TAR
Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n.
2677).
4.2. Ciò determina il rigetto della predetta
censura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.04.2019 n. 751 - link
a www.giustizia-amministrativa). |
URBANISTICA:
Secondo una
consolidata giurisprudenza, le censure
inerenti al procedimento di valutazione
ambientale strategica (V.A.S.) sono ammissibili nei
limiti in cui la parte istante specifichi
quale concreta lesione alla sua proprietà
sia derivata dall’inosservanza delle norme
sul procedimento, essendo pertanto
inammissibile una doglianza meramente
“strumentale”, visto che il generico
interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è
insufficiente a distinguere la posizione del
ricorrente da quella del quisque de populo.
---------------
La normativa in materia di V.A.S. non impone
una rigorosa separazione fra Autorità
competente e procedente, potendo
le stesse essere scelte anche fra
articolazioni o organi della stessa
amministrazione, purché sia garantita la
separazione e un adeguato grado di autonomia
tra le stesse.
Infine, non possono essere censurate le
valutazioni svolte dall’Autorità competente,
attesa la discrezionalità che le connota,
soprattutto avuto riguardo alla piena
ammissibilità di una motivazione per relationem rispetto ad atti già adottati in
precedenza, seppure da organi diversi.
---------------
5. Con la quarta doglianza si deduce l’illegittimità
del procedimento di V.A.S., attesa la
mancata separazione tra l’Autorità
competente e l’Autorità procedente, entrambe
rappresentate da funzionari della stessa
Amministrazione comunale e quindi non in
posizione di reciproca indipendenza, che
avrebbero adottato determinazioni
perfettamente sovrapponibili nei contenuti.
5.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che, secondo una consolidata
giurisprudenza, le censure inerenti al
procedimento di valutazione ambientale
strategica (V.A.S.) sono ammissibili nei
limiti in cui la parte istante specifichi
quale concreta lesione alla sua proprietà
sia derivata dall’inosservanza delle norme
sul procedimento, essendo pertanto
inammissibile una doglianza meramente
“strumentale”, visto che il generico
interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è
insufficiente a distinguere la posizione del
ricorrente da quella del quisque de populo (cfr.,
in termini, TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2676; 15.12.2017, n.
2394; 26.05.2016, n. 1097).
In ogni caso, da un punto di vista
sostanziale, deve sottolinearsi come la
scelta dell’Autorità competente –ossia il
Direttore dell’Area Politiche dell’Ambiente
e Sviluppo Economico– sia avvenuta
attraverso un procedimento che, oltre a
garantire l’autonomia della stessa rispetto
all’Autorità procedente (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 12.01.2011, n. 133), risulta
essere stato posto in essere con Delibera di
Giunta comunale n. 16 del 15.02.2012 (cfr.
all. 9 del Comune).
Ne discende la
legittimità della nomina dell’Autorità
competente, essendo stata garantita, sia da
un punto di vista sostanziale che
procedurale, la sua autonomia rispetto
all’Autorità procedente (rappresentata dal
Direttore dell’Area Governo del Territorio
ed Infrastrutture).
Del resto, la normativa in materia di V.A.S.
non impone una rigorosa separazione fra
Autorità competente e procedente, potendo le
stesse essere scelte anche fra articolazioni
o organi della stessa amministrazione,
purché sia garantita la separazione e un
adeguato grado di autonomia tra le stesse
(Consiglio di Stato, IV, 17.09.2012,
n. 4926; 12.01.2011, n. 133; TAR
Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n.
2676; 23.02.2016, n. 374).
Infine, non possono essere censurate le
valutazioni svolte dall’Autorità competente,
attesa la discrezionalità che le connota,
soprattutto avuto riguardo alla piena
ammissibilità di una motivazione per relationem rispetto ad atti già adottati in
precedenza, seppure da organi diversi.
5.2. Ciò determina il rigetto anche della
suesposta doglianza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.04.2019 n. 751 - link
a www.giustizia-amministrativa). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria
probabile. Demolizione stop. L’ordine era relativo a un manufatto abusivo.
L'ordine di demolizione di un manufatto abusivo può essere
sospeso nel solo caso in cui appaia probabile l'accoglimento della richiesta
di sanatoria.
La
Corte di Cassazione, Sez. III penale, con
sentenza
03.04.2019 n. 14601,
pone il principio di diritto, per il quale nel caso in cui venga ordinata la
demolizione di un manufatto abusivo ne sia possibile la revoca, qualora
appaia probabile l'accoglimento dell' istanza di sanatoria diretta a
eliminare la situazione d' illiceità.
Il costruttore, infatti, era stato condannato, a seguito della contestazione
del reato di cui all'art. 31 del dpr n. 380 (abusivismo edilizio), nella
decisione era contenuto anche l'ordine di demolizione del manufatto, in
quanto eretto in violazione alla normativa edilizia vigente nella zona. L'imputato tuttavia ritenendosi leso ne propri diritti ricorreva per
Cassazione, rappresentava come la decisione di secondo grado, nella parte in
cui imponeva la demolizione della costruzione, fosse stata emessa in palese
violazione di legge difettandone i presupposti.
Deduceva in particolare come
la situazione d'illiceità determinata dall'esistenza del manufatto abusivo
sarebbe venuta meno a seguito della presentazione di un istanza di sanatoria
dalla quale conseguirebbe la revoca dell'ordine di demolizione. Il
procedimento esaurito il proprio corso veniva deciso da parte degli
ermellini con la sentenza qui in commento. I giudici della Corte suprema di
cassazione, ritengono infondata la tesi difensiva del ricorrente osservando
come la normativa preveda in via automatica la rimessione in pristino dei
luoghi, nel caso di condanna per il reato contestato al ricorrente.
Pertanto per potere provvedere alla revoca debbono presentarsi eventi, che
rendano incompatibile la situazione con la sopravvivenza dell'ordine di
demolizione. Nel caso poi della presentazione di un istanza di sanatoria,
diviene compito del giudice dell'esecuzione, al quale è stata proposta la
valutazione di due tipi di elementi. L'annullamento diverrà possibile nel
solo caso in cui, considerato il contenuto della normativa e lo stato di
fatto, appaia probabile l'accoglimento della richiesta e che la sua
definizione paia probabile in tempi brevi e comunque ristretti (articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2019).
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MASSIMA
4. - Il ricorso è fondato per le ragioni qui di seguito esposte.
Deve rammentarsi che è principio consolidato nella
giurisprudenza di legittimità che in tema di reati edilizi, la
revoca/sospensione dell'ordine di demolizione (e anche di rimessione in
pristino), può essere disposto dal giudice dell'esecuzione previo
accertamento di una situazione (presentazione di istanza di condono o
provvedimento stesso) che lo renderebbe incompatibile
(Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015, Rv 266763).
In presenza di un'istanza di condono o di sanatoria
successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il giudice
dell'esecuzione investito della questione è tenuto a un'attenta disamina dei
possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura ed, in
particolare: a) ad accertare il possibile risultato dell'istanza e se
esistono cause ostative al suo accoglimento; b) nel caso di insussistenza di
tali cause, a valutare i tempi di definizione del procedimento
amministrativo e sospendere l'esecuzione solo in prospettiva di un rapido
esaurimento dello stesso (ex
plurimis, Sez. 3, n. 47263 del 25/09/2014, Russo, Rv. 261212; Sez. 3, n.
11149 del 07.12.2011; Sez. 4, 11.10.2011, n. 44035; Sez. 3, 07.07.2011, n.
36992; Sez. 3, 21.06.2011, n. 29638). L'ordine di
demolizione costituisce atto dovuto in quanto obbligatoriamente previsto,
dalla normativa in vigore, in relazione alle opere abusivamente realizzate.
Tale sanzione, pur formalmente giurisdizionale, ha natura
sostanzialmente amministrativa di tipo ablatorio che il giudice deve
disporre, non trattandosi di pena accessoria ne' di misura di sicurezza,
perfino nella sentenza applicativa di pena concordata tra le parti ex art.
444 c.p.p. a nulla rilevando che l'ordine medesimo non abbia formato oggetto
dell'accordo intercorso tra le parti.
L'ordine di demolizione, infatti, essendo atto dovuto, non è suscettibile di
valutazione discrezionale ed è sottratto, conseguentemente, alla
disponibilità delle parti, e non è suscettibile di passare in giudicato
avendo, il giudice dell'esecuzione, l'obbligo di revocare l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo impartito con la sentenza di condanna o di
patteggiamento, ove sopravvengano atti amministrativi con esso del tutto
incompatibili (Sez. 3, ord. n.
25212 del 18/01/2012 Rv. 253050; Sez. 3, n. 24273 del 24/03/2010, P.G. in
proc. Petrone, Rv. 247791).
5. Nel caso in esame, come osservato dal Procuratore generale, la Corte
d'appello di Palermo non ha fatto corretta applicazione dei principi qui
esposti e, con motivazione anche contraddittoria nella parte in cui rileva
che non sarebbe stato emesso alcun ordine di demolizione, ha escluso la
competenza a valutare la possibile incidenza di atti amministrativi
sull'ordine di demolizione sul rilievo della limitazione del proprio
accertamento alla regolarità formale del titolo esecutivo.
L'ordinanza impugnata ha omesso di compiere la valutazione degli atti
amministrativi e segnatamente non ha esaminato la questione prospettata
dell'incompatibilità del provvedimento in sanatoria con l'ordine dei
demolizione; non ha compiuto alcuna valutazione omettendo di motivare se
questo fosse già stato esaminato dal giudice della cognizione ovvero,
intervenuto successivamente, fosse incompatibile con l'ordine di
demolizione impartito con la sentenza di condanna previo sindacato sulla
sussistenza della condizioni formali e sostanziali della sanatoria.
A tale riguardo, rammenta il Collegio che in materia
edilizia, il giudice dell'esecuzione -investito dell'istanza di revoca o
sospensione dell'ordine di demolizione conseguente a condanna per
costruzione abusiva- ha il potere-dovere di verificare la legittimità e
l'efficacia del titolo abilitativo, sotto il profilo del rispetto dei
presupposti e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per
il corretto esercizio del potere di rilascio, la corrispondenza di quanto
autorizzato alle opere destinate alla demolizione e, qualora trovino
applicazione disposizioni introdotte da leggi regionali, la conformità delle
stesse ai principi generali fissati dalla legislazione regionale
(Sez. 3, n. 55028 del 09/11/2018, B., Rv. 274135 - 01), principi a cui dovrà
uniformarsi il giudice nel procedimento conseguente all'annullamento
dell'ordinanza. |
APPALTI: Appalti
sottosoglia, l'invito all'affidatario uscente ha carattere eccezionale e va
motivato.
Nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici sottosoglia non
sussiste l'obbligo per la stazione appaltante di invitare il precedente
affidatario. Si tratta di una facoltà di cui, proprio per il principio di
rotazione, e in caso di effettivo esercizio, la stessa stazione appaltante
deve dare adeguato conto all'esterno, motivando la concreta irrilevanza
della partecipazione anche del gestore uscente per garantire massima
trasparenza e concorrenzialità.
Così si è espresso il Consiglio di Stato, Sez. VI, nella
sentenza
03.04.2019 n. 2209.
Il caso
Un operatore economico aggiudicatario di una convenzione quadro Consip sui
servizi di pulizia, risolta da Consip stessa per grave inadempimento dell'affidataria,
ha presentato ricorso al Tar nei confronti, tra gli altri, di un istituto
scolastico che, data l'urgenza creata dalla risoluzione della convenzione,
ha individuato una soluzione ponte per consentire il regolare svolgimento
delle attività didattiche in ambienti con idonee condizioni
igienico-sanitarie, con affidamento diretto del servizio di pulizia,
omettendo di invitare il gestore uscente.
Il Tar ha rigettato il ricorso in virtù del principio di rotazione che
giustifica l'esclusione dall'affidamento del precedente aggiudicatario per
evitare il consolidarsi di indebite posizioni di favore e inaccettabili
chiusure surrettizie del mercato in capo al gestore uscente. Dello stesso
avviso anche i giudici di Palazzo Spada.
La decisione
L'articolo 36, comma 1, del codice appalti, infatti, quale lex specialis di
disciplina delle gare sottosoglia, imponendo il rispetto della rotazione,
prevale sulla normativa sulle gare in generale e comporta l'esclusione
dall'affidamento del precedente operatore per evitare che la posizione di
vantaggio dello stesso, derivante dal bagaglio informativo conseguente alla
precede esecuzione del contratto, costituisca ragione di reale o presunto
favoritismo.
Il principio di rotazione è concepito dal legislatore come un contrappeso
normativo alla semplificazione procedimentale delle procedure informali e un
bilanciamento del carattere "sommario" della scelta del contraente. La
garanzia di massima trasparenza e concorrenzialità deve trovare tutela
adeguata soprattutto nel settore degli appalti sottosoglia, nei quali è
maggiore il rischio del consolidarsi di posizioni di rendita
anticoncorrenziale da parte dei singoli operatori risultanti in precedenza
aggiudicatari della fornitura o del servizio, soprattutto nei mercati in cui
il numero degli operatori economici attivi non è elevato.
Corollario di questo principio, anche al fine di favorire la distribuzione
temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori
potenzialmente idonei, è il carattere eccezionale dell'invito al precedente
gestore: ciò comporta un onere motivazionale aggravato in capo alla stazione
appaltante che si determini in tal senso, che dovrà dar conto in modo
esauriente delle ragioni che inducono a questa scelta, che possono derivare
o da situazioni oggettive del mercato o da condizioni soggettive attinenti
alle prestazioni particolarmente efficienti rese dal precedente affidatario.
In definitiva, la stazione appaltante nell'esercizio della mera facoltà di
invitare l'operatore economico uscente è tenuta a illustrare le ragioni del
mancato contrasto con il principio di rotazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019). |
TRIBUTI:
TASI anche sui fabbricati delle zone rurali.
La Tasi si applica anche agli immobili ubicati in zona rurale a prescindere
dall'effettiva fruizione dei servizi comunali indivisibili quali
l'illuminazione pubblica, la manutenzione delle strade e del verde pubblico.
Lo ha stabilito il TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la
sentenza
03.04.2019 n.
1872, respingendo il ricorso di un contribuente che aveva
impugnato la delibera di determinazione delle aliquote Tasi 2014 nella parte
in cui non escludeva gli immobili che ricadevano in zona rurale.
Identikit di un tributo
La pronuncia in questione riguarda un tributo, introdotto nel 2014 e ormai
giunto al sesto anno consecutivo di applicazione, che costituisce
sostanzialmente un «doppione» dell'Imu (stessa base imponibile, stesso
sistema di calcolo e stesse modalità di versamento), a parte qualche lieve
differenza tra le due imposte.
Peraltro dal 2016 è stata soppressa l'applicazione della Tasi
sull'abitazione principale, che come è noto rappresentava l'unica ragione
fondante della istituzione del nuovo tributo, per cui la sua applicazione
non ha più ragione di esistere.
Evidenti esigenze di semplificazione impongono quindi l'unificazione della
Tasi con l'Imu che il legislatore non è ancora riuscito ad attuare
principalmente per problemi di ordine economico-finanziario, considerato che
per conservare la maggiorazione dello 0,8 per mille (oggi in vigore nei
Comuni di grandi dimensioni) occorrerebbe elevare l'aliquota massima dell'Imu
all'11,4 per mille, finendo così per aumentare la pressione fiscale
complessiva.
Il caso
Nel caso sottoposto all'esame del Tar Napoli, un contribuente ha contestato
la decisione dell'ente di applicare la Tasi anche agli immobili ubicati
nella zona rurale, che non beneficerebbe in alcun modo dei servizi
indivisibili al cui finanziamento è preordinato il tributo. In particolare,
non vi sarebbe illuminazione pubblica, né servizi di manutenzione stradale,
né verde pubblico. Il tributo non avrebbe quindi alcuna giustificazione,
data l'assenza di spese sostenute dal Comune per i servizi indivisibili.
La decisione
Il Tar Napoli ha respinto il ricorso, ritenendo infondata la tesi del
contribuente secondo cui la mancata fruizione dei servizi erogati dal Comune
e finanziati con la Tasi, con specifico riferimento all'illuminazione
pubblica, alla manutenzione stradale e al verde pubblico, renderebbe
illegittima la pretesa impositiva.
In primo luogo tra i servizi indivisibili rientrano anche quelli
socio-assistenziali, di protezione civile, servizi cimiteriali e di
manutenzione del patrimonio artistico- culturale e degli edifici comunali.
Nel caso specifico non vi è prova che il ricorrente non fruisca di questi
servizi di cui l'amministrazione ha tenuto conto ai fini della
determinazione del tributo, per cui la Tasi sarebbe in ogni caso dovuta in
relazione alla porzione residua dei servizi erogati dal Comune e di cui il
ricorrente fruisce in qualità di residente.
In secondo luogo il Tar non condivide il ragionamento del ricorrente secondo
cui la mancata fruizione individuale dei servizi indivisibili resi dal
Comune renderebbe illegittima la pretesa impositiva.
In senso contrario depone il fatto che il tributo è destinato a finanziare i
servizi indivisibili resi sul territorio comunale, quindi non misurabili
singolarmente, in quanto non erogati a uno specifico utente bensì all'intera
comunità. Il presupposto impositivo della Tasi è quindi riconducibile
all'erogazione dei servizi in favore della generalità dei consociati e non a
domanda individuale, con conseguente necessità di provvedere al relativo
finanziamento a giustificazione dell'imposizione tributaria
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019). |
TRIBUTI: Ici,
l’esenzione è plurivalente. Agevolati più immobili purché siano abitazione
principale. La Corte di cassazione: conta
l’effettiva utilizzazione, a prescindere dal numero di unità.
L'agevolazione Ici per la prima casa non è limitata a un solo immobile. Il
contribuente può utilizzare anche più unità immobiliari e ha diritto all'
esenzione su tutti gli immobili, purché vengano destinati a abitazione
principale.
La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l'ordinanza
02.04.2019 n. 9079, ha ribadito che il contemporaneo utilizzo di
più unità catastali non costituisce ostacolo all' applicazione dell'
agevolazione su tutti gli immobili «sempre che il derivato complesso
abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo
compongono, assumendo rilievo a tal fine non il numero delle unità
catastali, ma la prova dell' effettiva utilizzazione ad «abitazione
principale» dell'iimmobile complessivamente considerato».
La tesi ministeriale.
Per la Cassazione, dunque, quello che conta è l' effettiva utilizzazione
come abitazione principale dell' immobile complessivamente considerato, a
prescindere dal numero delle unità catastali.
Tuttavia, la tesi dei giudici di legittimità si pone in contrasto con quanto
affermato dal dipartimento delle finanze del ministero dell'economia
(risoluzione 6/2002) sui presupposti richiesti per usufruire dei benefici
fiscali.
Il ministero ha infatti precisato che due o più unità immobiliari vanno
singolarmente e separatamente soggette a imposizione, «ciascuna per la
propria rendita».
Solo una può essere considerata abitazione principale. Il contribuente, per
usufruire dell'esenzione, dovrebbe richiedere l'accatastamento unitario
degli immobili, per i quali è attribuita in catasto una distinta rendita,
presentando all'ente una denuncia di variazione. Allo stesso modo si è
espresso il ministero dell'economia con la circolare 3/2012 per limitare l'esenzione Imu. Dalla formulazione letterale della norma di legge (articolo
13 dl 201/2011) emergerebbe che l'abitazione principale deve essere
costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto,
a prescindere dalla circostanza che, di fatto, venga utilizzato più di un
fabbricato distintamente iscritto in catasto.
In questo caso le singole unità immobiliari vanno assoggettate separatamente
a imposizione, ciascuna per la propria rendita.
L'interessato può scegliere quale destinare ad abitazione principale,
Secondo il ministero, le altre unità immobiliari «vanno considerate come
abitazioni diverse da quella principale con l' applicazione dell' aliquota
deliberata dal comune per tali tipologie di fabbricati».
Al riguardo, si
ritiene di non condividere la posizione espressa con la circolare
ministeriale, poiché anche per l'Imu il contribuente dovrebbe avere diritto
al trattamento agevolato qualora utilizzi contemporaneamente diversi
fabbricati come prima casa, considerato che l'articolo 13 richiede che si
tratti di un'unica unità immobiliare iscritta o «iscrivibile» come tale in
catasto. È sufficiente che le diverse unità immobiliari siano possedute da
un unico titolare e siano contigue.
La posizione dei giudici di merito sull' uso congiunto.
I giudici di merito si sono allineati al principio affermato dalla
Cassazione. Per esempio, la Commissione tributaria provinciale di Roma,
sezione XXXVII, con la sentenza 16449/2017, ha sostenuto che il Comune di
Roma non può negare il diritto a fruire dell'agevolazione Ici a un
contribuente che utilizzi più immobili, distintamente iscritti in catasto,
come abitazione principale. Il contemporaneo utilizzo di più unità catastali
non costituisce impedimento all'applicazione, per tutte, dell'esenzione.
Per fruire delle agevolazioni fiscali non conta il numero delle unità
catastali, ma l'effettiva utilizzazione degli immobili complessivamente
considerati come prima casa.
Per i giudici capitolini, «la ricorrente ha fornito prova sufficiente di
utilizzare tutto l'immobile (210 mq lordi) come abitazione principale, così
come risulta dalla documentazione prodotta ed in particolare dalla
certificazione anagrafica. D'altro canto, il nucleo familiare, composto di
cinque membri di cui quattro adulti e di collaboratrice domestica, appare
avere un' esigenza abitativa correlata correttamente all' estensione e
caratteristiche del cespite».
La Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza 2830/2018) ha però
precisato che i contribuenti che intendono fruire dell'esenzione devono
presentare al comune un'apposita dichiarazione se utilizzano due o più
immobili come unica unità immobiliare destinata a prima casa, per consentire
all'ente di poter controllare la sussistenza dei requisiti.
Per il giudice
d'appello, «è da accogliere l'eccezione del comune secondo cui il
ricorrente, al fine di beneficiare di tale esenzione per i due appartamenti,
che avrebbero dovuto costituire un' unica un' unità immobiliare, doveva
farne apposita richiesta con variazione della dichiarazione, al fine di
consentire i controlli per la verifica dei requisiti previsti».
L'esenzione Imu per abitazioni e pertinenze.
La nozione di prima casa per l'Imu è diversa rispetto a quella stabilita
per l'Ici dall' articolo 8 del decreto legislativo 504/1992. In base a
quanto disposto dall' articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione principale
si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano
come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e
risiede anagraficamente. Per pertinenze dell' abitazione principale si
intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2,
C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna
delle suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto unitamente
all' immobile adibito ad abitazione.
In presenza delle condizioni di legge
gli immobili adibiti a prima casa sono esenti, tranne quelli iscritti nelle
categorie catastali A1, A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e
castelli, per i quali il trattamento agevolato è limitato all' aliquota e
alla detrazione. La legge, infatti, prevede per queste unità immobiliari l'applicazione di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni possono
aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro.
Mentre l'aliquota di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle
seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che gli enti locali
possono aumentare o diminuire di 3 punti percentuali.
Per fruire dell'agevolazione sulle pertinenze i giudici hanno posto dei
limiti. La Commissione tributaria regionale di Milano (sentenza 3376/2018)
ha sostenuto che non può essere riconosciuta l'esenzione Imu per il garage
se la distanza dall' abitazione principale è tale che il vincolo
pertinenziale può essere rimosso in qualsiasi momento secondo la convenienza
del contribuente.
Pertanto, è necessaria la contiguità spaziale per avere diritto all'agevolazione fiscale. La distanza tra garage e abitazione fa venir meno il
vincolo pertinenziale, che è indispensabile per poter fruire dell'esenzione Imu. Al riguardo, è stata richiamata dalla giurisprudenza la tesi sostenuta
per le aree edificabili che sono pertinenze di fabbricati. In effetti, in
base a quanto disposto dall' articolo 817 del codice civile, l'imposizione
è esclusa solo in presenza di un'effettiva destinazione della pertinenza al
servizio del bene principale.
Peraltro, secondo la Cassazione (ordinanza
15668/2017) è necessario anche il vincolo cartolare di contestuale
destinazione al servizio dell'abitazione al momento del separato acquisto
del garage. Naturalmente, non bastano solo i requisiti oggettivi per fruire
dell' esenzione sulle pertinenze, occorre che il contribuente possieda anche
quelli soggettivi.
Va evidenziato, infine, che anche la classificazione catastale è decisiva.
La Cassazione (ordinanza 8017/2017) ha chiarito che non spetta l'esenzione
se l'immobile destinato ad abitazione principale, ma il principio vale
anche per la classificazione delle pertinenze nelle categorie C/2, C/6 e
C/7, è inquadrato catastalmente come ufficio o studio.
Ai fini del
trattamento esonerativo rileva l'oggettiva classificazione catastale dell'immobile. Nel caso in cui l'immobile sia iscritto in una diversa categoria
catastale è onere del contribuente che pretenda l'esenzione impugnare l'atto di classamento
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019). |
TRIBUTI: ICI
agevolata per le unità catastali distinte utilizzate come unica abitazione.
Due immobili utilizzati unitariamente, anche se costituiscono unità
catastali autonome, devono essere considerati ai fini Ici come unica
abitazione.
La Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
02.04.2019 n. 9078, ha
precisato che, conseguentemente, ai due beni si debba applicare l'aliquota
Ici agevolata. Sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non
trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono.
Nei precedenti gradi di giudizio il contribuente aveva perso sul principio
di analogia applicato dai giudici: Tarsu e Tia erano state versate
separatamente e così anche l'Ici andava corrisposta in tal modo. Secondo la
tesi del contribuente, accolta in Cassazione, ciò che rileva ai fini Ici è
l'utilizzo unitario, indipendentemente dal separato accatastamento di
plurime unità abitative che lo compongono.
I Supremi giudici hanno precisato che il contemporaneo uso di più unità
catastali non rappresenta ostacolo all'applicazione, per tutte,
dell'aliquota agevolata prevista per l'abitazione principale, sempre che il
derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale
delle unità che lo compongono. Quindi ciò che conta è la prova
dell'effettiva utilizzazione ad abitazione principale dell'immobile
complessivamente considerato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.04.2019).
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MASSIMA
Considerato che:
- con l'unico motivo d'impugnazione, in relazione all'art.
360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, il ricorrente denuncia violazione
dell'art. 1 del d.l. n. 93 del 2008 convertito in legge n. 126 del 2008,
dell'art. 10 della legge n. 212 del 2000, dell'art. 97 Cost. e del principio
di leale collaborazione perché ai fini ICI ciò che rileva è l'utilizzo
unitario, indipendentemente dal separato accatastamento di plurime unità
abitative che la compongono;
- ritenuto che il motivo è fondato in quanto in
tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), il contemporaneo utilizzo di
più unità catastali non costituisce ostacolo all'applicazione, per tutte,
dell'aliquota agevolata prevista per l'abitazione principale, sempre che il
derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale
delle unità che lo compongono, assumendo rilievo a tal fine non il numero
delle unità catastali, ma assumendo rilievo, a tal fine, non il numero delle
unità catastali ma la prova dell'effettiva utilizzazione ad "abitazione
principale" dell'immobile complessivamente considerato
(Cass. 29.10.2008, n. 25902; 12.02.2010, n. 3393);
- ritenuto dunque che la Commissione Tributaria Regionale ha errato
laddove, nel rigettare l'appello del contribuente, ha fatto unicamente
riferimento al momento della variazione catastale; |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Compiti allargati per la polizia municipale.
La giunta comunale può attribuire alla polizia municipale compiti ulteriori
e aggiuntivi a condizione che rientrino, anche in una nozione assai ampia,
tra le competenze del settore. L'ente, nell'adottare questa scelta, non è
tenuto a fornire specifica e analitica motivazione.
Possono essere così riassunte le principali indicazioni contenute nella
sentenza
02.04.2019 n. 2174
della V Sez. del Consiglio di Stato che ribalta il giudizio negativo
formulato in primo grado dal Tar di Lecce.
Alla base della pronuncia vengono poste le disposizioni contenute nel comma
221 della legge n. 208/2015, cd legge di stabilità 2016. Ricordiamo che
questa disposizione amplia i compiti che possono essere assegnati sia ai
dirigenti della polizia locale sia ai dirigenti dell'avvocatura, superando
le indicazioni precedentemente fornite dalla giurisprudenza, per cui questi
incarichi venivano ritenuti essere caratterizzati da una specialità tale che
a questi dirigenti non potevano essere conferiti incarichi ulteriori e che
queste articolazioni organizzative dovevano necessariamente avere al proprio
vertice soggetti in possesso di queste caratteristiche.
La sentenza detta subito la indicazione che questa disposizione non può
essere intesa in senso letterale, cioè limitata esclusivamente agli
incarichi dirigenziali. Ricordiamo infatti che nella gran parte dei comuni
non vi sono dirigenti, a seguito delle dimensioni ridotte dell'ente Si deve
inoltre ricordare che, ex articolo 109 del D.Lgs. n. 267/2000, ai dirigenti
sono equiparati, negli enti che ne sono sprovvisti, i responsabili. Per cui,
sulla base di queste indicazioni, anche al comandante della polizia locale
che è una posizione organizzativa possono essere assegnati compiti ulteriori
e non si è vincolati a che esso debba svolgere esclusivamente le attività
peculiari del settore.
Le materie ascrivibili -anche in una nozione ampia alle competenze della
polizia locale- possono quindi essere assegnate a tale articolazione
organizzativa. Nel caso specifico esse sono le seguenti: "procedimenti in
materia di segnaletica stradale, ivi compresi quelli attinenti allo
svolgimento delle procedure per l'acquisto ed eventuale posa in opera della
segnaletica stradale verticale e orizzontale; rilascio dei contrassegni per
auto per soggetti disabili, passi carrabili, tesserini per l'esercizio della
caccia e per la raccolta dei funghi; di gestione dei servizi cimiteriali,
inclusa la procedura di individuazione del gestore del servizio; concessione
loculi comunali; notifica degli atti giudiziari e non giudiziari;
autorizzazione all'occupazione di suolo pubblico e commercio e pubblici
esercizi".
Siamo in presenza di attività che nel comune non erano assegnate
alla polizia locale, ma nulla impedisce che la giunta possa, nell'ambito di
una modifica del proprio modello organizzativo, procedere in questa
direzione. Siamo dinanzi a compiti che quanto meno si devono considerare
come connessi o, per usare il termine della sentenza, "non estranei"
rispetto alla polizia locale.
Una ultima importante indicazione contenuta nella sentenza è che le scelte
di modifica del modello organizzativo con cui vengono ampliati i compiti
della polizia locale hanno la natura di una disposizione regolamentare, per
cui –sulla base dei principi di carattere generale dettati dalla legge n.
241/1990 ed ancora pienamente in vigore- non occorre una specifica
motivazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.04.2019). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Affidamenti
semplificati efficaci solo dopo la verifica sul possesso dei requisiti.
Anche nei procedimenti di acquisto effettuati tramite il mercato
elettronico, l'aggiudicazione diventa efficace solo dopo il riscontro sul
possesso dei requisiti generali e speciali richiesti dalla stazione
appaltante (comma 7 dell'articolo 32 del codice dei contratti).
È quanto ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la
sentenza
01.04.2019 n. 4276.
La verifica sul possesso dei requisiti
L'importante chiarimento viene fornito sul possesso dei requisiti generali
(e speciali eventualmente richiesti dalla stazione appaltante) anche in tema
di procedimenti di affidamento semplificati secondo l'articolo 36 del codice
dei contratti. La tematica –tra le altre– posta in rilievo era quella dei
rapporti tra assegnazione della commessa avvenuta attraverso le dinamiche
del mercato elettronico (nel caso di specie il Mepa di Consip) e l'efficacia
dell'aggiudicazione che, da codice dei contratti, si verifica solo dopo il
controllo sul possesso dei requisiti.
Il giudice, nel confermare la necessità anche nel caso di procedure
negoziate e/o semplificate –del resto anche secondo quanto già sostenuto
dall'Anac con le linee guida n. 4 in tema di acquisizione sottosoglia-
puntualizza che in tal senso si è espressa la stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (decisione n. 8/2015 che richiama le decisioni n. 10
del 2014, nn. 15 e 20 del 2013; nn. 8 e 27 del 2012; n. 1 del 2010).
Secondo
questo intervento, «il possesso dei requisiti di ammissione si impone a
partire dall'atto di presentazione della domanda di partecipazione e per
tutta la durata della procedura di evidenza pubblica» per una ovvia esigenza
«di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col principio
del favor partecipationis». In sostanza, la verifica del possesso nel
soggetto concorrente –e in particolar modo nei confronti
dell'aggiudicatario- «dei requisiti di partecipazione alla gara deve
ritenersi immanente all'intero procedimento di evidenza pubblica».
Il giudice ha rammentato che la previsione è posta «a garanzia della
permanenza della serietà e della volontà dell'impresa di presentare
un'offerta credibile e, perciò, della sicurezza, per la stazione appaltante,
dell'instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in
sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino
all'adempimento dell'obbligazione contrattuale» risulti provvisto di tutti i
requisiti di ordine generale e tecnico-economico-professionale necessari per
addivenire alla stipula del contratto con la Pa.
La norma
In questo senso, del resto lo stesso articolo 36, comma 6-bis, del codice
dei contratti puntualizza che «Nei mercati elettronici (…) per gli
affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, la verifica sull'assenza dei
motivi di esclusione di cui all'articolo 80 è effettuata su un campione
significativo in fase di ammissione e di permanenza, dal soggetto
responsabile dell'ammissione al mercato elettronico» e che comunque (e
quindi in ogni caso) «Resta ferma la verifica sull'aggiudicatario (…)».
Quindi, anche in caso di approvvigionamento mediante ricorso al mercato
elettronico delle pubbliche amministrazioni, «pur essendo la verifica del
possesso dei requisiti», effettuata a monte, in capo a tutti i concorrenti,
«demandata alla Consip, alla quale è affidato il MEPA, è comunque
necessario, per ciascuna stazione appaltante, accertarne il possesso
rispetto al soggetto aggiudicatario».
Anche nei procedimenti semplificati, pertanto, torva applicazione il comma 7
dell'articolo 32 del codice dei contratti a memoria del quale «L'aggiudicazione
diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.04.2019).
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MASSIMA
9 - Il provvedimento risulta invece illegittimo nella parte in cui
dispone l’aggiudicazione in favore di Un. S.r.l., in assenza del controllo
dei requisiti in capo all’originaria concorrente Tr.Gr.Se. S.r.l..
9.1 - Occorre in primo luogo evidenziare che, come affermato dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato (decisione n. 8 del 20.7.2015, che richiama
le decisioni n. 10 del 2014, nn. 15 e 20 del 2013; nn. 8 e 27 del 2012; n. 1
del 2010), il possesso dei requisiti di ammissione si
impone a partire dall’atto di presentazione della domanda di partecipazione
e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica, in quanto, per
esigenze di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col
principio del favor partecipationis, la verifica del possesso, da
parte del soggetto concorrente, dei requisiti di partecipazione alla gara
deve ritenersi immanente all’intero procedimento di evidenza pubblica.
Tale previsione è a garanzia della permanenza della serietà e della volontà
dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, perciò, della sicurezza,
per la stazione appaltante, dell’instaurazione di un rapporto con un
soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del
contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale,
sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e
tecnico-economico-professionale necessari per contrattare con la Pubblica
Amministrazione.
9.1 - Fatta questa dovuta puntualizzazione, deve altresì considerarsi che,
pur avendo la Tr. sin dall’08.05.2017 stipulato un contratto d’affitto
d’azienda con Un. S.r.l., comprendente anche il servizio oggetto della
procedura qui in esame, tuttavia la decorrenza dell’efficacia del contratto
de quo era indicata nel rilascio, da parte della Prefettura di Roma,
del titolo di polizia a favore dell’affittuario nonché da dall’ottenimento
delle licenze e concessioni per l’esercizio dell’attività di vigilanza.
Quindi era la Tr. la Società partecipante alla procedura negoziata che ha
poi trasferito a Un. il servizio de quo.
9.2 - Ai sensi dell’art. 36, comma 6-bis, del d.lgs n.
50/2016: “Nei mercati elettronici di cui al comma 6, per gli affidamenti
di importo inferiore a 40.000 euro, la verifica sull’assenza dei motivi di
esclusione di cui all’articolo 80 è effettuata su un campione significativo
in fase di ammissione e di permanenza, dal soggetto responsabile
dell’ammissione al mercato elettronico. Resta ferma la verifica
sull’aggiudicatario ai sensi del comma 5.”.
Quindi, in caso di approvvigionamento mediante ricorso al mercato
elettronico delle pubbliche amministrazioni, pur essendo la verifica del
possesso dei requisiti a monte, in capo a tutti i concorrenti, demandata
alla Consip, alla quale è affidato
il MEPA, è comunque necessario, per ciascuna stazione appaltante, accertarne
il possesso rispetto al soggetto aggiudicatario, che è qui rappresentato da
Tr.Gr.Se. S.r.l..
9.3 - Pertanto anche nelle procedure negoziate svolte
facendo ricorso al MEPA si applica la previsione dell’art. 32, di cui in
ricorso si assume la violazione, che dispone: “L’'aggiudicazione diventa
efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti.”. |
APPALTI SERVIZI: Spetta al tribunale annullare la risoluzione dell'appalto.
Secondo il Consiglio di Stato (Sez. V,
sentenza
01.04.2019 n. 2128), l'annullamento del provvedimento comunale di risoluzione del
contratto di appalto per il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti
solidi urbani ed assimilati (nel caso di specie, nell'esercizio di apposita
clausola risolutiva espressa prevista dal capitolato speciale d'appalto),
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, afferendo alla fase di
esecuzione del contratto.
Nell'occasione, il giudice d'appello, confermando
la decisione del giudice di prime cure, ha respinto la tesi secondo cui la
questione rientrava tra le materie di giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo previste dalle lettere c) e p) dell'art. 133 del codice del
processo amministrativo, relative, rispettivamente, alle «concessioni di
pubblici servizi», con esclusione di quelle concernenti indennità, canoni ed
altri corrispettive, e «alla complessiva azione di gestione del ciclo dei
rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica
amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un
pubblico potere».
Il servizio in discussione, infatti, era stato affidato
dal comune mediante concessione anziché nelle forme dell'appalto, ma l'atto
comunale impugnato costituiva esercizio del potere di scioglimento dal
rapporto contrattuale stabilito con la stipulazione del contratto, quindi,
indiscutibilmente riconducibile alla fase esecutiva del contratto stesso
ossia ad una fase in cui, per costante giurisprudenza delle Sezioni unite
della Cassazione le posizioni delle parti hanno consistenza di diritto
soggettivo e sono conseguentemente conoscibili dal giudice ordinario (v. Cass., Ss.uu., ordinanza 10.01.2019, n. 489).
Pertanto, il Consiglio di
Stato, ha negato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
quanto «non sono riconducibili all'esercizio di un potere autoritativo in
materia gli atti compiuti nell'ambito di un rapporto obbligatorio avente la
propria fonte in una pattuizione di tipo negoziale, intesa a regolare gli
aspetti meramente patrimoniali della gestione dei rifiuti
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).
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8. Con riguardo all’ipotesi concernente le concessioni di pubblico
servizio la relativa nozione di origine europea incentrata sul trasferimento
al privato concessionario del rischio operativo inerente all’esecuzione del
contratto è –più precisamente: «legato alla gestione dei lavori o dei
servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di entrambi»,
ex art. 3, comma 1, lett. zz), d.lgs. n. 50 del 2016– è ormai stata recepita
sul piano normativo nazionale.
Ad essa è pertanto inevitabile riferirsi per stabilire se il contratto sia
qualificabile come concessione o appalto.
9. Nel caso di specie è pacifico che nessun rischio operativo legato alla
gestione dei servizi sul lato della domanda o dell’offerta risulta traslato
a carico del contraente privato, ed in particolare dell’odierna appellante
SO.GE.S.A., posto che, come sottolinea il Comune di Monteiasi, per esso è
previsto il pagamento di un corrispettivo «fisso ed invariabile»,
soggetto a «revisione e/o adeguamento ai sensi della normativa vigente»
(ai sensi dell’art. 3 del contratto).
Non muta le conclusioni il fatto che l’onere economico finale sia nella
sostanza riversato all’utenza del servizio di raccolta e trasporto dei
rifiuti e degli altri servizi di igiene urbana oggetto del contratto,
attraverso l’imposizione tributaria realizzata con la tassa per i rifiuti.
Rispetto a questo distinto rapporto, intercorrente tra l’ente comunale
impositore e i contribuenti in esso residenti, l’appaltatore è estraneo e
comunque garantito dal pagamento del corrispettivo contrattualmente
stabilito.
10. Sulla base delle considerazioni finora svolte non vi sono elementi per
ritenere, in contrasto con la qualificazione contrattuale data dalle stesse
parti, che il servizio in questione –pur pacificamente qualificabile in base
alle disposizioni del testo unico sull’ambiente richiamato dalla società
appellante– sia stato affidato a quest’ultima mediante concessione anziché
nelle forme espressamente previste dell’appalto.
11. Sulla base di questo inquadramento la ragione a base della declinatoria
di giurisdizione emessa dal Tribunale è corretta, posto che l’atto impugnato
(determinazione n. 251 del 18.09.2018, sopra menzionata) costituisce
esercizio del potere di scioglimento dal rapporto contrattuale stabilito con
la stipulazione del contratto d’appalto.
Come in particolare si evince dalla relativa motivazione la determinazione
impugnata è atto di manifestazione della volontà del Comune di Monteiasi di
avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista dall’art. 25 del
capitolato speciale d’appalto e non invece -come sostiene l’appellante, sia
pure ai fini dell’altro titolo di giurisdizione esclusiva invocato- atto di
esercizio del potere previsto dall’art. 108 del codice dei contratti
pubblici (impregiudicata peraltro ogni questione se quest’ultimo fondi un
potere di carattere autoritativo del contraente pubblico).
Si tratta quindi di atto indiscutibilmente riconducibile alla fase esecutiva
del contratto in cui per la costante giurisprudenza delle Sezioni unite
della Cassazione, richiamata dal giudice di primo grado, le posizioni delle
parti hanno consistenza di diritto soggettivo e sono conseguentemente
conoscibili dal giudice ordinario (da ultimo in questo senso: Cass., SS.UU.,
ordinanza 10.01.2019, n. 489).
12. In linea con la posizione assunta dalla Suprema Corte deve anche
escludersi che la presente controversia ricada nell’ipotesi di giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo la «complessiva azione di gestione
del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della
pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di
un pubblico potere».
La Cassazione afferma infatti che non sono riconducibili all’esercizio di un
potere autoritativo in materia gli atti compiuti nell’ambito di un rapporto
obbligatorio avente la propria fonte in una pattuizione di tipo negoziale,
intesa a regolare gli aspetti meramente patrimoniali della gestione dei
rifiuti (tra le altre: Cass., SS.UU. 11.06.2010, n. 14126; cui aderisce
questo Consiglio di Stato: cfr. le sentenze di questa Sezione 27.07.2016, n.
3399 e 09.04.2015, n. 1819).
Si tratta di un orientamento forse opinabile e da rimeditare, nella misura
in cui trascura che:
a) innanzitutto, l’affidamento di un contratto d’appalto per la
raccolta dei rifiuti e lo svolgimento degli altri servizi di igiene urbana
si pone a valle ed è attuativa di una scelta di carattere autoritativo
concernente le modalità di gestione di un servizio pubblico;
b) inoltre, la natura di diritto soggettivo delle posizioni
giuridiche controverse non è decisiva, poiché è proprio nella logica di
concentrazione delle tutele in situazioni di intreccio tra diritti
soggettivi ed interessi legittimi che si giustifica l’istituto della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dal legislatore.
Nondimeno l’indirizzo in questione non può non essere seguito, dal momento
che esso è stato espresso dal giudice regolatore della giurisdizione. |
APPALTI: Gara
da revocare se l'operatore economico è indagato.
In presenza di una gara che è oggetto di indagini penali, la stazione
appaltante può disporre la revoca della procedura qualora ricorrano elementi
precisi, diretti e concordanti, senza che occorra attendere l'esito del
giudizio penale al fine di affermare l'inaffidabilità, l'incongruità o la
mancanza di integrità della procedura stessa.
Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza
01.04.2019 n. 2123.
Il fatto
Oggetto dell'appello è stata una procedura di project financing per
l'affidamento della concessione del servizio di illuminazione votiva, con
annessa realizzazione di sistemi di produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili e l'accollo da parte del concessionario del presumibile esborso
del valore non ammortizzato delle immobilizzazioni e forniture riferibili ai
precedenti concessionari.
A seguito della notifica di un avviso di conclusione indagini per i delitti
di turbata libertà degli incanti e falso, la stazione appaltante ha revocato
l'aggiudicazione definitiva e tutta la procedura di project financing, sul
rilievo fondamentale per cui le circostanze emergenti dal procedimento
penale in corso avevano determinato il venir meno dell'elemento fiduciario
che deve ispirare i rapporti tra amministrazione e gli aggiudicatari
concessionari. L'operatore economico e il Comune hanno impugnato la sentenza
con cui il Tar Campania ha respinto la richiesta di annullamento della
determina dirigenziale di revoca in autotutela dell'aggiudicazione.
La revoca
La quinta sezione non ha dubbi circa la sussistenza del potere discrezionale
della stazione appaltante di revocare l'aggiudicazione definitiva in
relazione all'emersione di un interesse pubblico concreto derivante dalla
conoscenza di circostanze, risultanti dalle indagini penali, nel caso in cui
questi riguardano specificamente una gara il cui esito potrebbe essere stato
indebitamente influenzato.
In queste ipotesi, qualora ricorra un quadro di
elementi precisi, diretti e concordanti, la stazione appaltante, al fine di
addivenire al giudizio finale, può e deve far riferimento al complesso delle
circostanze emergenti dalla fattispecie, senza che occorra necessariamente
attendere sempre l'esito del giudizio penale al fine di affermare
l'inaffidabilità, l'incongruità o la mancanza di integrità della procedura
di gara.
In altre parole, per esercitare l'autotutela revocatoria è sufficiente che
sussistano profili sintomaticamente concordanti e univoci della sussistenza
di elementi tali da poter ricavare la ragionevole convinzione che si sia
verificata un'indebita influenza dell'operatore economico nei processi
decisionali dell'amministrazione. La valutazione in ordine alla rilevanza
inquinante sul procedimento di specifici comportamenti è rimessa a
valutazioni discrezionali di competenza esclusiva della stazione appaltante
e non costituisce un'automatica e necessitata conseguenza delle indagini
penali.
Il margine di apprezzamento
Anzi, afferma la quinta sezione, il potere di annullamento in autotutela del
provvedimento amministrativo, nel preminente interesse pubblico al
ripristino della legalità dell'azione amministrativa da parte della stessa
amministrazione procedente, sussiste anche dopo l'aggiudicazione della gara.
Gli elementi emersi in sede di indagine penale però non possono essere
riletti in modo del tutto eccentrico rispetto a quello dell'Autorità
Giudiziaria penale, almeno con riguardo alla loro oggettiva consistenza.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, l'immagine e la credibilità
dell'amministrazione costituiscono un valore primario prevalente
sull'affidamento maturato dall'operatore economico che ha partecipato alla
gara. Nemmeno avallano l'idea che l'amministrazione avrebbe dovuto
sottoporre ad autonoma verifica le situazioni fattuali oggetto di
accertamento in sede penale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Reclutamento
del personale, all'Ente resta il potere di scelta anche dopo aver bandito il
concorso.
Dopo che il Comune ha indetto un concorso per reclutare nuovi dipendenti non
perde il potere di organizzazione del personale rideterminando la dotazione
organica e il fabbisogno di risorse umane.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la
sentenza
29.03.2019 n.
4191, rigettando il ricorso proposto dai vincitori e dagli
idonei del concorso bandito da un Comune per l'assunzione di 18 unità di
personale di ruolo, categoria D.
La sentenza è interessante, in quanto riconosce alla Pa un ampio margine di
manovra nel decidere le modalità di reclutamento di personale, anche
modificando le scelte precedenti.
Il fatto
Un Comune, dopo aver portato a termine le procedure concorsuali e aver
individuato con graduatoria i vincitori e i candidati idonei, ha modificato
le politiche del personale approvando una riduzione della dotazione organica
con una delibera di Giunta avente a oggetto il programma triennale del
fabbisogno di personale.
Il cambio di rotta da parte del Comune non poteva essere più drastico, in
quanto con la delibera di programmazione l'ente è tornato sui suoi passi e
ha espresso la volontà di non avvalersi del personale individuato con il
concorso.
Nello specifico, la giunta ha deciso di:
• «cancellare» dalla dotazione organica i posti vacanti nella
categoria D già messi a concorso;
• sottoscrivere con la Provincia un protocollo d'intesa con
l'impegno di assumere 4 unità di personale di categoria D, attingendo alle
graduatorie provinciali;
• conferire ad alcuni dipendenti di categoria C l'incarico di
svolgere mansioni superiori ascrivibili alla categoria D;
• sopperire alle residue carenze di organico con procedure di
mobilità volontaria per la copertura di n. 3 posti, sempre di categoria D.
Su quest'ultimo punto va precisato che la preferenza accordata
dall'ordinamento alla procedura di mobilità volontaria (articolo 30 del Dlgs
165/2001) rispetto al concorso pubblico apre la strada al Tar Lazio per
sostenere la piena facoltà dell'ente di ritornare sui suoi passi, anche dopo
aver attivato una procedura concorsuale giunta alla fase finale.
La decisione
I giudici hanno scritto che «il carattere privilegiato della mobilità
volontaria quale procedura di approvvigionamento di personale rispetto ai
concorsi e a graduatorie ancora attive, anche nell'ottica del raggiungimento
del risparmio di spesa (…) è efficacemente sottolineato dalla giurisprudenza
del Consiglio di Stato per cui l'esistenza di una graduatoria ancora valida,
se limita (o in ipotesi, addirittura esclude) la libertà di indire un nuovo
concorso, non incide sulla libertà di avviare una procedura di mobilità».
Viene pertanto ribadito il principio secondo cui l'ente, prima di procedere
all'indizione di concorsi finalizzati alla copertura di posti vacanti, deve
attivare le procedure di mobilità esterna del personale di altre
amministrazioni pubbliche (Tar Calabria, sentenza n. 2185/2018).
In ogni caso, i giudici non hanno mosso rilievi al Comune anche per le
ulteriori misure adottate in sede di programmazione del fabbisogno di
personale. Infatti, l'eliminazione dei posti vacanti nella dotazione
organica non solo è risultata conforme al Dm 24.07.2014 che fissa i
rapporti medi dipendenti-popolazione per classe demografica, ma è stata
oltremodo apprezzata dal collegio quale misura virtuosa per gli enti in
condizioni di dissesto finanziario, come appunto il Comune chiamato in
causa.
Anche il protocollo d'intesa siglato con la Provincia per l'utilizzo della
graduatoria di questa amministrazione è uscito indenne dal vaglio dei
magistrati, trattandosi di una condotta conforme al dettato normativo.
La sentenza ha segnato un punto a favore della potestà discrezionale della
Pa in un frangente delicato, e ha scardinato la tesi a sostegno del ricorso
secondo cui il potere di organizzazione del personale rispetto ai posti
vacanti dopo l'indizione del concorso sarebbe oggetto di sviamento di
potere, perché esercitato dal Comune «non già per organizzare e pianificare
il fabbisogno dell'ente, ma per far "naufragare" il precedente concorso
svolto»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.04.2019).
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MASSIMA
Anche le procedure indette dal Comune di Rieti per la mobilità
volontaria anch’esse oggetto delle censure dei ricorrenti in quanto
considerate indicative della volontà dell’Amministrazione Comunale di
ignorare le graduatorie del concorso risultano, ad un attento esame degli
atti di causa, immuni dai dedotti vizi di illegittimità, irragionevolezza
illegittimità e sviamento.
“Dall'art. 30, comma 2-bis, d.lgs. 30.03.2001 n. 165
-secondo cui le Amministrazioni, prima di procedere all'indizione di
pubblici concorsi finalizzati alla copertura di posti vacanti, devono
attivare le procedure di mobilità esterna del personale di altre
Amministrazioni pubbliche- si desume agevolmente la preferenza del
legislatore per le procedure di mobilità… rispetto alle selezioni
concorsuali e perciò anche rispetto allo scorrimento delle graduatorie
concorsuali già pubblicate e tale prevalenza della mobilità rispetto al
concorso ed allo scorrimento della graduatoria non risulta illogica, dal
momento che risponde ad esigenze di efficacia ed efficienza dell'azione
amministrativa preferire l'utilizzazione di personale con esperienza
acquista nell'esercizio dei compiti propri del posto da ricoprire, per aver
già svolto la specifica funzione per un rilevante lasso di tempo
continuativo, e perché si tratta di un lavoratore già stabilmente inserito
nell'organizzazione della Pubblica amministrazione, non da reclutare
mediante un'assunzione ex novo”
(TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 24.12.2018 n. 2185).
Il carattere privilegiato della mobilità volontaria quale procedura di
approvvigionamento di personale rispetto ai concorsi e a graduatorie ancora
attive, anche nell’ottica del raggiungimento del risparmio di spesa
(finalità primaria ormai in tutte le realtà amministrative, ma obiettivo
quanto mai essenziale per il Comune di Rieti, vista la sua particolare
condizione economico-finanziaria) è efficacemente sottolineato dalla
giurisprudenza del Consiglio di Stato per cui “l’esistenza
di una graduatoria ancora valida, se limita (o in ipotesi, addirittura
esclude ) la libertà di indire un nuovo concorso, non incide sulla libertà
di avviare una procedura di mobilità… (poiché) la preferenza accordata
dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 14/2011 allo scorrimento della
graduatoria rispetto all’indizione di una nuova procedura concorsuale … non
può essere riferita al diverso caso in cui allo scorrimento della
graduatoria sia preferito il ricorso alla procedura di mobilità di personale
proveniente da altre Amministrazioni, ciò atteso il fatto che la mobilità
consente varie finalità quali l’acquisizione del personale già formato,
l’immediata operatività delle scelte, l’assorbimento di eventuale personale
eccedentario ed i risparmi di spesa conseguenti a tutte le ricordate
situazioni” (Cons. St., Sez.
III, 19.06.2018 n. 3750; Cons. St., Sez. IV, 30.03.2018 n. 2027). |
EDILIZIA PRIVATA: Volumi
tecnici.
La
nozione di volume tecnico corrisponde a
un’opera priva di qualsiasi autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché
destinata solo a contenere, senza
possibilità di alternative e, comunque, per
una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali di essa; i
volumi tecnici degli edifici sono perciò
esclusi dal calcolo della volumetria a
condizione che non assumano le
caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile
e suscettibile di abitabilità.
Ne consegue che nel caso in cui un
intervento edilizio sia di altezza e volume
tale da poter essere destinato a locale
abitabile, ancorché designato in progetto
come volume tecnico, deve essere computato a
ogni effetto, sia ai fini della cubatura
autorizzabile, sia ai fini del calcolo
dell’altezza e delle distanze ragguagliate
all’altezza
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2019 n. 2101 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
6 – La sentenza
impugnata deve essere confermata anche nel
punto in cui ha respinto le censure dirette
a contestare l’ordine di demolizione del
locale in alluminio e vetro, ubicato al di
sotto di una tettoia, utilizzato per il
riparo degli addetti al controllo del carico
e scarico delle merci e del locale
tecnologico, anch’esso ubicato al di sotto
di una tettoia, destinato ad ospitare
l’impianto antincendio.
L’appellante assume che tali strutture
possano essere classificati come volumi
tecnici.
6.1 - Le argomentazione a tal fine dedotte
dalla società sono smentite dalle
caratteristiche delle opere in esame e dalla
loro entità rapportate ai criteri
individuati dalla giurisprudenza al fine di
delineare la nozione di vano tecnico.
Le dimensioni del primo locale sono “pari
a circa mq = (3,80 mi x 5,75 mt.) = 21,85 mq
con altezza esterna pari a mi 2,70”,
quelle del secondo sono ”pari a circa mq
= (4,60 mi x 5,95 mi) = mq 27,37 con altezza
delle pareti rilevata esternamente pari a mi
2,70”.
Come costantemente affermato dalla
giurisprudenza (ex plurimis, Cons.
Stato, sez. VI, 27.11.2017, n. 5516),
la nozione di volume
tecnico corrisponde a un’opera priva di
qualsiasi autonomia funzionale, anche solo
potenziale, perché destinata solo a
contenere, senza possibilità di alternative
e, comunque, per una consistenza volumetrica
del tutto contenuta, impianti serventi di
una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali di essa.
Si è anche precisato che i
volumi tecnici degli edifici sono esclusi
dal calcolo della volumetria a condizione
che non assumano le caratteristiche di vano
chiuso, utilizzabile e suscettibile di
abitabilità; ne consegue che nel caso in cui
un intervento edilizio sia di altezza e
volume tale da poter essere destinato a
locale abitabile, ancorché designato in
progetto come volume tecnico, deve essere
computato a ogni effetto, sia ai fini della
cubatura autorizzabile, sia ai fini del
calcolo dell’altezza e delle distanze
ragguagliate all’altezza
(cfr. Cons. St., Sez. VI, 04.11.2014).
|
EDILIZIA PRIVATA: L’onere
di fornire la prova dell’epoca della
realizzazione delle opere incombe sul
privato e non sull’amministrazione che, in
presenza di un’opera non assistita da un
titolo edilizio, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla.
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I provvedimenti di demolizione si pongono
quale conseguenza necessitata dell’abuso,
senza alcun margine di apprezzamento
discrezionale in capo all’amministrazione.
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In generale, deve ribadirsi che l’onere di
fornire la prova dell’epoca della
realizzazione delle opere incombe sul
privato e non sull’amministrazione che, in
presenza di un’opera non assistita da un
titolo edilizio, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla (cfr. Cons. St., sez. VI,
20.12.2013, n. 6159; Cons. St., sez. V,
08.07.2013, n. 3596; Cons. St. Sez. VI, n.
3177 del 18.07.2016).
...
7 – Rispetto
alle predette opere eseguite senza l’idonea
autorizzazione, sono destituite di
fondamento le censure con le quali
l’appellante lamenta il mancato rispetto
delle norme in tema di partecipazione del
privato al procedimento amministrativo, ed
in particolare la mancata considerazione
delle controdeduzioni presentate dalla
società ricorrente.
Al riguardo, invero, deve ricordarsi che i
provvedimenti di demolizione si pongono
quale conseguenza necessitata dell’abuso,
senza alcun margine di apprezzamento
discrezionale in capo all’amministrazione (cfr.
Cons. St. sez. VI, n. 3744 del 2015).
In tal senso si giustifica il richiamo
all’art. 21-octies della legge 241/1990 da
ritenersi idoneo a superare i rilievi
dell’appellante, che come innanzi illustrati
si rilevano infondati (cfr. Cons. St., 1208
del 2014)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2019 n. 2101 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai
fini urbanistici ed edilizi il concetto di
pertinenza assume un significato più
circoscritto rispetto alla nozione
civilistica e si fonda sulla assenza di: a)
autonoma destinazione del manufatto
pertinenziale; b) incidenza sul carico
urbanistico; c) modifica all'assetto del
territorio.
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La giurisprudenza ha altresì chiarito che
una tettoia, quale quelle aventi le
descritte caratteristiche, seppur collegata
al muro di un edificio preesistente, non può
essere considerata in senso proprio una
pertinenza, in quanto fa corpo con la cosa
principale a cui aderisce, di cui modifica
la sagoma e ne comporta l’ampliamento,
creando nuova volumetria e, pertanto,
necessita di un adeguato titolo di
autorizzatorio.
---------------
5 – L’appello
non può inoltre trovare accoglimento in
riferimento al carattere abusivo delle
tettoie oggetto di contestazione, dovendosi
confermare la decisone del TAR che ha
ritenuto che la loro realizzazione, per
caratteristiche e dimensioni, necessitasse
del previo rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo l’appellante, che cita anche la
circolare ministeriale n. 1918/77, sostiene
che le tettoie aperte sarebbero opere di
natura meramente accessoria e pertinenziale,
al servizio esclusivo dei capannoni e prive
di una loro autonoma fruibilità.
5.1 – Come anticipato, la censura è
infondata, muovendo da un concetto improprio
di pertinenza e trascurando le
caratteristiche concrete delle tettoie in
discorso, costituite da struttura portante
in ferro e copertura con lamiere grecate ed
aventi dimensioni notevoli (“la tettoia
individuata al punto 6) dell'allegato A),
presenta una superficie coperta ad una sola
falda inclinata pari a circa mq 12100,00,
con altezze pari a circa mt. 5,60 max e mt.
5,20 min., mentre la tettoia individuata
alpunto 7) dell’allegato A) presenta una
superficie coperta pari a circa mq 504,00
... con altezze pari a circa mt. 5,70 max e
mt. 4,35 min”).
Invero, ai fini urbanistici ed edilizi il
concetto di pertinenza assume un significato
più circoscritto rispetto alla nozione
civilistica e si fonda sulla assenza di: a)
autonoma destinazione del manufatto
pertinenziale; b) incidenza sul carico
urbanistico; c) modifica all'assetto del
territorio (cfr. Cons. di Stato, sez. IV,
23.07.2009, n. 4636; Cons. di Stato, sez. IV,
16.05.2013, n. 2678; Cons. di Stato, sez. V,
11.06.2013, n. 3221).
La giurisprudenza ha altresì chiarito che
una tettoia, quale quelle aventi le
descritte caratteristiche, seppur collegata
al muro di un edificio preesistente, non può
essere considerata in senso proprio una
pertinenza, in quanto fa corpo con la cosa
principale a cui aderisce, di cui modifica
la sagoma e ne comporta l’ampliamento,
creando nuova volumetria e, pertanto,
necessita di un adeguato titolo di
autorizzatorio (cfr. Cons. St. n. 6493 del
2012; Cons. St. n. 3939 e n. 4997 del 2013)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2019 n. 2101 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ordinanza
di demolizione e comunicazione di avvio del
procedimento.
E' legittima l'ordinanza
di demolizione adottata in assenza
dell'avviso di inizio procedimento in
quanto, essendo la repressione dell'abuso un
atto dovuto, il provvedimento adottato
dall'Amministrazione non avrebbe potuto in
ogni caso essere diverso; secondo il
Coniglio di Stato, l'ordinanza di
demolizione, costituendo un atto doveroso e
vincolato emesso all’esito di un mero
accertamento tecnico della consistenza delle
opere realizzate e del carattere abusivo
delle medesime, non deve quindi essere
preceduta dall'avviso di avvio del relativo
procedimento, considerando anche la sua
conseguente intangibilità ai sensi dell'art.
21-octies della legge n. 241/1990
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.03.2019 n. 2086 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
7. Nel merito, l’appello è palesemente
infondato.
8. La società appellante ripropone in
appello la questione relativa al mancato
avviso dell’avvio del procedimento che ha
portato all’adozione dell’ordinanza di
demolizione impugnata.
8.1. Il profilo dedotto è infondato.
L’indirizzo costante della giurisprudenza è
infatti quello di ritenere non necessaria la
preventiva comunicazione di cui all’art. 7
della legge n. 241/1990.
8.2. Deve infatti considerarsi legittima
l'ordinanza di demolizione adottata in
assenza dell'avviso di inizio procedimento
in quanto, essendo la repressione dell'abuso
un atto dovuto, il provvedimento adottato
dall'Amministrazione non avrebbe potuto in
ogni caso essere diverso (cfr.
ex multis,
Consiglio di Stato sez. VI, 23/01/2018, n. 437.
8.3. L'ordinanza di demolizione, costituendo
un atto doveroso e vincolato emesso
all’esito di un mero accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e
del carattere abusivo delle medesime, non
deve quindi essere preceduta, come affermato
dall’appellante, dall'avviso di avvio del
relativo procedimento, considerando anche la
sua conseguente intangibilità ai sensi
dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.04.2009,
n. 2227).
8.4. D’altra parte, la invocata
partecipazione procedimentale non avrebbe
potuto eliminare la circostanza, non
contestata, che le opere erano state
realizzate senza il necessario titolo. In
tale contesto, il provvedimento, essendo
rigidamente ancorato alla sussistenza dei
relativi presupposti in fatto e in diritto,
non necessitava neppure di una specifica
motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse che imponevano la
rimozione dell'abuso (cfr. Cons. Stato sez.
VI, 03.12.2018, n. 6839).
8.5. In sostanza, la natura vincolata del
potere esercitato rendeva non necessario,
come correttamente messo in rilievo dal
primo giudice, la necessità della
partecipazione procedimentale, che non
sarebbe stata comunque in grado di incidere
sull'assetto sostanziale del rapporto quale
definito con la determinazione finale
adottata dal Comune.
9. Quanto, infine, alla lamentata
incompletezza della copia dell’ordinanza
notificata, può essere condivisa la
conclusione del giudice di primo grado che
ha rilevato come tale evenienza fosse
riferibile soltanto alla comunicazione e
quindi all’efficacia dell’atto impugnato, ma
non alla sua legittimità (il Comune ha poi
depositato agli atti del giudizio di primo
grado la copia completa, cui comunque non è
seguita da parte della ricorrente la
proposizione di motivi aggiunti).
10. Per le ragioni sopra esposte, l’appello
va respinto e, per l’effetto, va confermata
la sentenza impugnata. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
L'assenza per astensionismo politico non fa decadere il
consigliere comunale.
L’assenza del consigliere comunale per dichiarato astensionismo politico non
può essere considerata causa di decadenza dalla carica.
Così si esprime la I Sez. del TAR Campania-Napoli con la
sentenza
29.03.2019 n. 1765.
Il fatto
Un Consigliere comunale di un Comune del casertano, eletto alle elezioni
amministrative del 2016, ha impugnato la delibera consiliare, con la quale è
stata disposta la sua decadenza dalla carica per reiterate assenze dalle
sedute del Consiglio comunale, contestandone la legittimità e chiedendone
l’annullamento.
Il Tribunale del capoluogo partenopeo, con la sentenza in rassegna, ha
annullato la deliberazione consiliare.
La decisione
Il Consigliere dichiarato decaduto, ha dimostrato che le sue assenze erano
assenze per «dissenso politico» per contestare il comportamento della
maggioranza e del Presidente del Consiglio comunale che, avrebbero violato
disposizioni statutarie e regolamentari e violato così le prerogative della
minoranza.
La sentenza in rassegna, nel dichiarare illegittima la delibera consiliare
impugnata, tiene conto della giurisprudenza consolidata, che ha evidenziato
che le circostanze da cui consegue la decadenza del Consigliere comunale
vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la
limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus publicum,
considerando dunque che gli aspetti garantistici della procedura devono
essere valutati attentamente, anche al fine di evitare un uso distorto
dell’istituto come strumento di discriminazione delle minoranze.
Ne consegue che le assenze danno luogo a decadenza dalla carica qualora la
giustificazione addotta dall’interessato sia relegata alla sfera mentale
soggettiva di colui che la adduce, sì da impedire qualsiasi accertamento
sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi ovvero, più in generale,
quando dimostrano con ragionevole evidenza un atteggiamento di disinteresse
per motivi futili od inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico
pubblico elettivo.
È stato evidenziato dal Consiglio di Stato che la decadenza, intesa quale
misura sanzionatoria, non può riguardare il deliberato astensionismo di un
Consigliere comunale che viene esercitato in un contesto di dialettica
politica tra maggioranza ed opposizione di documentata conflittualità tanto
più se l’astensionismo risulta deliberato e preannunciato, in conformità ad
una decisione assunta dai gruppi consiliari di appartenenza ed adeguatamente
motivata in relazione ad un asserito atteggiamento della maggioranza che li
ha esclusi dalle scelte amministrative più significative.
Conclusioni
Il Collegio, nel caso di specie, ha ritenuto che è emerso nitidamente che
l’astensionismo del ricorrente sia avvenuto per motivi di lotta politica per
i comportamenti tenuti dalla maggioranza.
Ne consegue, pertanto, che le assenze dalle sedute consiliari del ricorrente
non potevano essere apoditticamente ritenute ingiustificate e condurre alla
decadenza del ricorrente senza una adeguata valutazione sulle loro
motivazioni
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del'11.04.2019).
---------------
MASSIMA
2. In via preliminare va respinta l’eccezione di difetto di
giurisdizione sollevata dal Comune.
Il collegio è consapevole che la giurisprudenza
consolidata, sia ordinaria che amministrativa, ritiene sussistente la
giurisdizione del g.o. nelle materie attinenti all'elettorato passivo, tra
cui rientra quella relativa alla decadenza del consigliere comunale, perché
si verte in tema di diritti soggettivi.
Nel caso di specie, tuttavia, si verte in un’ipotesi di decadenza dei
Consiglieri comunali per la mancata partecipazione alle sedute; l'art. 43,
comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000 statuisce che "Lo statuto stabilisce i
casi di decadenza e le relative procedure, garantendo il diritto del
consigliere a far valere le cause giustificative".
Tale disposizione introduce una seppur limitata sfera di potestà
discrezionale in capo ai singoli enti locali nell'identificazione dei
presupposti per la dichiarazione di decadenza, con riflessi sulle posizioni
giuridiche incise e sulla giurisdizione, che spetta al g.a. ove siano
coinvolti interessi legittimi, come è accaduto nel caso di specie, in cui il
consigliere comunale ricorrente contesta i presupposti di applicazione del
provvedimento amministrativo impugnato.
Del resto, come si vedrà oltre, la giurisprudenza amministrativa, in casi
esattamente sovrapponibili a quello oggetto del presente giudizio, ha sempre
ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo.
Ne consegue, pertanto, che l’eccezione di difetto di giurisdizione va
respinta.
3. Il ricorso è fondato.
E’ emerso che alcuni consiglieri comunali, tra cui il ricorrente, sono
risultati assenti a più consigli comunali, in pretesa violazione dell’art.
12 dello Statuto Comunale e dell’art. 31 del Regolamento per il
funzionamento del Consiglio Comunale.
Il predetto art. 12 dello Statuto del Comune di Villa Literno dispone che: “Il
funzionamento del Consiglio è disciplinato da apposito regolamento,
approvato a maggioranza assoluta dei componenti, in conformità ai seguenti
principi: a) gli avvisi di convocazione dovranno essere recapitati ai
consiglieri, nel domicilio dichiarato, rispetto al giorno di convocazione,
almeno: - cinque giorni prima per le convocazioni in seduta ordinaria; - tre
giorni prima per le convocazioni in seduta straordinaria; - un giorno prima
per le sedute straordinarie dichiarate urgenti; il giorno di consegna non
viene computato; b) nessun argomento può essere posto in discussione se non
sia stata assicurata, ad opera della Presidenza, un'adeguata e preventiva
informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri”.
Il comma terzo prevede che il consigliere è tenuto a giustificare per
iscritto l'assenza dalla seduta entro dieci giorni dalla stessa. Il comma
quarto dispone che la mancata partecipazione a tre sedute consecutive ovvero
a cinque sedute nell'anno solare, senza giustificato motivo, dà luogo
all'avvio del procedimento da parte del Presidente del Consiglio, per la
dichiarazione della decadenza del consigliere con contestuale avviso
all'interessato che può far pervenire le sue osservazioni entro 15 giorni
dalla notifica dell'avviso.
Il ricorrente, facente parte del gruppo politico di minoranza “Noi
Liternesi”, è risultato assente a tre sedute consecutive del Consiglio
Comunale; per tale motivo è stata disposta la sua decadenza con il
provvedimento in questa sede impugnato.
Il ricorrente ha, tuttavia, evidenziato che le assenze dalle sedute del
consiglio comunale sono state giustificate dal motivo di dissenso politico.
Tanto, peraltro, si desume dalla nota n. 1214 del 01.02.2019, con cui il
ricorrente provvedeva a fornire le richieste giustificazioni, rappresentando
come la mancata presenza ai Consigli Comunali del 02.07.2018, 11.09.2018 e
11.12.2018, fosse stata voluta quale manifestazione di “deliberato
astensionismo” riguardo alla continua convocazione dei Consigli Comunali
nelle ore mattutine.
Di qui, l'astensionismo dei consiglieri del gruppo “Noi Liternesi”
teso a contestare il comportamento della maggioranza e del Presidente del
Consiglio Comunale che, secondo la loro prospettazione, avrebbe violato
disposizioni statutarie e regolamentari e violato così le prerogative della
minoranza. In data 11.09.2018 è stata, peraltro, presentata dal gruppo “Noi
Liternesi”, istanza in cui veniva preannunciata la scelta politica di
astensione dell’intero gruppo “Noi Liternesi”, comunicando
testualmente che: “I
consiglieri del Gruppo “Noi Liternesi”, con la mancata presenza in Consiglio
Comunale manifestano il loro dissenso vs. un presidente del consiglio che
non tiene conto delle loro istanze e soprattutto non tiene conto delle
istanze dei Cittadini a cui interessa ancora la “res pubblica” continuando a
convocare l’assemblea in mattinata”.
La giurisprudenza consolidata,
cui questo Collegio intende dare continuità, ha evidenziato
che le circostanze da cui consegue la decadenza del consigliere comunale
vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la
limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus publicum,
considerando dunque che gli aspetti garantistici della procedura devono
essere valutati attentamente, anche al fine di evitare un uso distorto
dell’istituto come strumento di discriminazione delle minoranze
(Cons. Stato, V, 20.02.2017, n. 743).
Ne consegue che le assenze danno luogo a decadenza dalla
carica qualora la giustificazione addotta dall’interessato sia relegata alla
sfera mentale soggettiva di colui che la adduce, sì da impedire qualsiasi
accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi
(Cons. Stato, V, 29.11.2004, n. 7761), ovvero, più in
generale, quando dimostrano con ragionevole evidenza un atteggiamento di
disinteresse per motivi futili od inadeguati rispetto agli impegni con
l’incarico pubblico elettivo (Cons.
Stato, V, 09.10.2007, n. 5277).
Per tali motivi è stato evidenziato che "la decadenza,
intesa quale misura sanzionatoria, non può riguardare il deliberato
astensionismo di un consigliere comunale che viene esercitato in un contesto
di dialettica politica tra maggioranza ed opposizione di documentata
conflittualità" tanto più se l’astensionismo "risulta deliberato e
preannunciato, in conformità ad una decisione assunta dai gruppi consiliari
di appartenenza ed adeguatamente motivata in relazione ad un asserito
atteggiamento della maggioranza che li ha esclusi dalle scelte
amministrative più significative”
(cfr., Consiglio di Stato, Sez. V, Sentenza n. 4433/2017).
Nella stessa prospettiva si è posta anche la giurisprudenza amministrativa
dei TAR, secondo cui l'astensionismo deliberato e
preannunciato di un consigliere comunale dalle sedute dell'organo cui
appartiene, ancorché superiore al periodo previsto ai fini della decadenza,
è da considerarsi uno strumento di lotta politico-amministrativa a
disposizione delle forze di opposizione per far valere il proprio dissenso a
fronte di atteggiamenti ritenuti non partecipativi, dialettici e democratici
delle forze di maggioranza a cui non può conseguire la sanzione della
decadenza dalla carica di consigliere, anche perché in tal caso
l'amministratore non mostra disinteresse e negligenza nell'adempiere il
proprio mandato e non genera alcuna grave difficoltà di funzionamento
dell'organo collegiale cui appartiene
(cfr., TAR Latina, (Lazio) sez. I, 29/07/2016, n. 510).
Nel caso di specie, è emerso nitidamente che l’astensionismo del ricorrente
sia avvenuto per motivi di lotta politica per i comportamenti tenuti dalla
maggioranza.
Ne consegue, pertanto, che le assenze dalle sedute consiliari del ricorrente
non potevano essere apoditticamente ritenute ingiustificate e condurre alla
decadenza del ricorrente senza una adeguata valutazione sulle loro
motivazioni.
Peraltro, nel provvedimento impugnato non vi è alcuna motivazione sul punto,
né replica alle giustificazioni prodotte dal ricorrente.
Ne consegue, pertanto, che il ricorso va accolto e il provvedimento
impugnato, per l’effetto, va annullato. |
TRIBUTI: Casa
in comodato, per il bonus ICI-IMU non serve il modulo comunale.
La Cassazione interviene sui formalismi inutili: per avere diritto
all’agevolazione Ici-Imu sulla casa concessa in comodato ai figli non serve
aver compilato il modulo comunale, basta l’invio per fax dell’atto notorio.
Il principio è espresso nella
sentenza 28.03.2019 n. 8627
della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
In sostanza, il Comune aveva notificato un avviso di accertamento per
mancato pagamento dell’Ici dovuta per il 2004, senza tener conto della
riduzione prevista per gli immobili concessi in comodato ai figli, in quanto
non aveva ricevuto il modulo ufficiale con la comunicazione della variazione
della situazione immobiliare del contribuente. Il quale, però, aveva mandato
per fax un atto notorio dimostrando anche come questo immobile fosse
effettivamente usato come abitazione principale dei figli, benché non
ufficialmente residenti.
La Cassazione ha dato ragione su tutta la linea al contribuente, perché era
stata fornita concretamente prova dell’uso come abitazione principale e
perché il Comune doveva sapere (per via del fax) della concessione in
comodato, anche in base al «principio di collaborazione e buona fede»
espresso nello Statuto del contribuente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2019). |
TRIBUTI: I
ruderi non pagano il tributo né si può tassare l'area su cui poggiano.
Niente Ici sui ruderi.
A chiarirlo la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
28.03.2019 n. 8620.
La Corte ha precisato
che i cosiddetti «fabbricati collabenti» non scontano l'imposta in quanto
non si può tassare l'area eventualmente edificabile sulla quale poggiano, né
possono essere considerati beni utilizzabili in mancanza di lavori di
ristrutturazione.
Il Dlgs 504/1992 indica una categoria non ampliabile di terreni, immobili e
altro per i quali l'imposta è dovuta. Nella sentenza si legge che ha
sbagliato la Ctr a rendere imponibile l'immobile in quanto ha finito per
introdurre nell'ordinamento, in via del tutto interpretativa, un nuovo e
ulteriore presupposto dell'imposta, rappresentato dall'area edificata.
Neppure rileva che, come fatto presente dal giudice di appello, l'area già
sede della ex acciaieria possa essere oggetto di interventi edilizi di
manutenzione e che, in ragione di ciò, essa mantenga una sua edificabilità.
La controversia, infatti, ha a oggetto non già il valore commerciale
ipoteticamente attribuibile al terreno nella prospettiva della sua futura
valorizzazione edilizia e urbanistica, ma soltanto i presupposti
dell'imposizione Ici relativi a una determinata annualità e, in ordine a
detta annualità si discute esclusivamente di un fabbricato collabente fatto
oggetto di conforme e incontestata iscrizione catastale, senza che siano
stati dedotti interventi o demolizioni in corso, convenzioni o pratiche
amministrative pendenti di recupero e valorizzazione edilizia secondo
l'articolo 5, comma, del Dlgs 504/1992
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2019).
---------------
MASSIMA
La tesi della società contribuente, secondo cui l'IC non è dovuta perché
i fabbricati de quibus sono collabenti e, pertanto, privi di rendita
e non soggetti all'imposta, deve trovare accoglimento.
In particolare, afferma la parte ricorrente che la disciplina della vicenda
andrebbe tratta dall'articolo 5 del d.lgs. n. 504 del 1992, che si riferisce
alle costruzioni, e non, come sostenuto dalla CTR di Palermo, dall'articolo
11-quaterdecies, comma 16, del d.l. n. 203 del 2005, convertito con
modificazioni con I. n. 248 del 2005, e dall'articolo 36 della I. n. 248 del
2006 che riguardano i terreni e stabiliscono che, per ciò che qui rileva, ai
fini dell'applicazione del d.lgs. n. 504 del 1992, un'area è da considerare
fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento
urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente
dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo.
Ai sensi dell'articolo 5, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 504 del 1992, nel caso
di area edificata, la base imponibile ICI è determinata dal valore del
fabbricato e, per í fabbricati iscritti in catasto, tale valore è stabilito
applicando un determinato moltiplicatore alla rendita catastale vigente al
10 gennaio dell'anno di imposizione.
Peraltro, in base al comma 6 della disposizione in esame, la base imponibile
è costituita dal valore dell'area, considerata fabbricabile, allorquando
nell'anno di imposizione vi sia utilizzazione edificatoria in corso
dell'area stessa, demolizione di fabbricato ovvero realizzazione di
interventi di recupero ex articolo 31, comma 1, lett. c), d) ed e), l. n.
457 del 1978.
Alla luce di queste prescrizioni si deve escludere la fondatezza dell'avviso
di accertamento e liquidazione opposto, relativo a fabbricati in stato di
rovina e, come tali, iscritti fin dal 1999 in categoria catastale F/2
(circostanza che, dalla sentenza impugnata, risulta ammessa da entrambe le
parti).
Infatti, l'attribuzione di questa categoria presuppone che il fabbricato si
trovi in uno stato di degrado tale da comportarne l'oggettiva incapacità di
produrre ordinariamente un reddito proprio e, per tale ragione, l'iscrizione
in catasto avviene senza attribuzione di rendita ed al fine "della sola
descrizione dei caratteri specifici e della destinazione d'uso", ai
sensi dell'articolo 3, comma 2, lett. b), del D.M. n. 28 del 02.01.1998 del
Ministero delle Finanze (sul punto, Cass., Sez. 5, n. 4308 del 2010).
In assenza di rendita, però, viene meno -secondo l'articolo 5 del d.lgs. n.
504 del 1992- la stessa materia determinativa della base imponibile. Neppure
è possibile affermare che, esclusa sul fabbricato, l'imposizione ICI
dovrebbe colpire l'area di insistenza del fabbricato medesimo.
Invero, la CTR di Palermo sembra accogliere questa impostazione nella misura
in cui sostiene che, nella specie, vi erano gli estremi per reputare "edificabile
l'area già edificata" in forza di un programma di fabbricazione e di un
decreto assessoriale che "consentono per gli opifici industriali già
esistenti interventi di manutenzione".
Questa soluzione non è condivisibile.
Infatti, gli elementi della fattispecie impositiva sono prestabiliti dalla
legge secondo criteri di certezza e tassatività e -nel caso dell'ICI-
l'articolo 1 del d.lgs. n. 504 del 1992 assoggetta ad imposta unicamente il
possesso di fabbricati, aree fabbricabili e terreni agricoli. Peraltro, il
fabbricato iscritto in categoria catastale F/2 non cessa di essere tale solo
perché collabente e privo di rendita, poiché lo stato di rovina ed
improduttività di reddito non fa perdere all'immobile, fino all'eventuale
sua completa demolizione, la natura di fabbricato, la imposizione derivando,
nella specie, dall'assenza della base imponibile ex articolo 5 del d.lgs.
citato.
Ne consegue che, non essendo tassabile l'immobile collabente, l'imposizione
ICI non potrebbe essere giustificata dall'amministrazione comunale facendo
ricorso ad una base imponibile diversa, come quella attribuibile all'area di
insistenza del fabbricato, giacché non si tratta di un'area edificabile, ma
di un'area già edificata.
L'ente impositore, quindi, ha, nella sostanza, introdotto nell'ordinamento
in via interpretativa un nuovo ed ulteriore presupposto d'imposta,
rappresentato dall'area edificata, equiparando impropriamente l'ipotesi
dell'area risultante dalla demolizione di un rudere, regolata dall'articolo
5, comma 6, del d.lgs. n. 504 del 1992, a quella dell'immobile dichiarato
inagibile, ma non demolito.
Neppure rileva che, come rilevato dal giudice di appello, l'area già sede
della ex-acciaieria possa essere oggetto di interventi edilizi di
manutenzione e che, in ragione di ciò, essa mantenga una sua edificabilità.
La presente controversia ha ad oggetto non già il valore commerciale
ipoteticamente attribuibile al terreno nella prospettiva della sua futura
valorizzazione edilizia ed urbanistica, ma soltanto i presupposti
dell'imposizione ICI relativi ad una determinata annualità (2007) e, in
ordine a detta annualità si discute esclusivamente di un fabbricato
collabente fatto oggetto di conforme ed incontestata iscrizione catastale,
senza che siano stati dedotti interventi o demolizioni in corso, convenzioni
o pratiche amministrative pendenti di recupero e valorizzazione edilizia ai
sensi dell'articolo 5, comma 6, del d.lgs. n. 504 del 1992.
Conforme a tale ricostruzione è la recente giurisprudenza di legittimità, la
quale ha affermato che,
in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), la sottrazione ad
imposizione del fabbricato collabente, iscritto nella conforme categoria
catastale F/2, in ragione dell'azzeramento della base imponibile, non può
essere recuperata prendendo a riferimento la diversa base imponibile
prevista per le aree edificabili, costituita dal valore venale del terreno
sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede l'imposizione
ICI per le aree edificabili, e non per quelle già edificate, e che tale non
può essere considerata l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona
di risanamento conservativo per la quale la normativa comunale preveda solo
interventi edilizi di recupero
(Cass., Sez. 5, n. 17815 del 2017).
In particolare,
il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a non
essere tassabile ai fini ICI come fabbricato, in quanto privo di rendita,
non lo è neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile che, da allora, è
soggetta a imposizione come tale, fino al subentro della imposta sul
fabbricato ricostruito
(Cass., Sez. 5, n. 7653 del 2018, non massimata; Cass., Sez. 6-5, n. 25774
del 2017; Cass., Sez. 5, n. 23801 del 2017).
Pertanto, la CTR di Palermo, nella misura in cui non ha tenuto conto della
particolare natura dei fabbricati collabenti, ha violato la vigente
normativa, non avendo neanche chiarito la ragione per la quale detta natura
non ha assunto rilievo.
Ne consegue l'accoglimento dei motivi in esame. |
TRIBUTI: La
p.a. ci ripensa? Sanzioni ko. Se l’orientamento cambia è dovuto soltanto il
tributo. La Cassazione sottolinea il principio del legittimo affidamento
del contribuente.
Il principio del legittimo affidamento del
contribuente, sancito dallo Statuto, impone all'amministrazione di non
irrogare le sanzioni fiscali se cambia orientamento e ritiene di non
riconoscere un'esenzione della quale una società aveva fruito per i 20 anni
precedenti. Il tributo, però, è sempre dovuto.
Lo
ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, con l'ordinanza
27.03.2019 n. 8548.
Secondo la Cassazione, «il legittimo affidamento del contribuente comporta,
ai sensi dell'art. 10, commi 1 e 2, della legge 27.07.2000, n. 212,
l'esclusione degli aspetti sanzionatori, risarcitori e accessori conseguenti
all'inadempimento colpevole dell'obbligazione tributaria, ma non incide
sulla debenza del tributo, che prescinde del tutto dalle intenzioni
manifestate dalle parti del rapporto fiscale, dipendendo esclusivamente
dall'obiettiva realizzazione dei presupposti impositivi».
Il principio di
buona amministrazione impone di richiedere l'imposta anche per i periodi
pregressi. Il legittimo affidamento, per i giudici di legittimità, vale «ai
fini delle sanzioni».
L'esclusione delle sanzioni fiscali. I contribuenti sono esonerati dal
pagamento delle sanzioni se le norme di legge non sono chiare e se c'è
incertezza oggettiva sugli adempimenti fiscali. L'incertezza oggettiva che
giustifica l'esclusione delle sanzioni può derivare da contrasti
giurisprudenziali e dottrinali.
Le sanzioni devono essere disapplicate se
l'amministrazione comunale, come è avvenuto nel caso di specie, o
l'amministrazione finanziaria si esprimono in modo non univoco, anche con
note e circolari ministeriali, o comunque manifestano una diversa opinione
sulle questioni tributarie rispetto a quanto sostenuto in precedenza.
La
Cassazione, con la sentenza 18405/2018, ha già avuto modo di chiarire che si
è in presenza di incertezza normativa oggettiva in materia tributaria quando
è impossibile «individuare con sicurezza e univocamente, al termine di un
procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto
la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie; l'incertezza
normativa oggettiva costituisce una situazione diversa rispetto alla
soggettiva ignoranza incolpevole del diritto».
Non a caso viene precisato
nella pronuncia che l'art. 6 del decreto legislativo 472/1997 «distingue in
modo netto le due figure dell'incertezza normativa oggettiva e
dell'ignoranza (pur ricollegandovi i medesimi effetti) e perciò
l'accertamento di essa è esclusivamente demandata al giudice e non può
essere operato dalla amministrazione». Incertezza normativa oggettiva non
vuol dire ignoranza giustificata, ma impossibilità di pervenire «allo stato
di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria».
In particolare
rilevano: la difficoltà d'individuare le disposizioni normative e il loro
significato; la mancanza di informazioni amministrative o la loro
contraddittorietà; la mancanza di precedenti giurisprudenziali o la presenza
di orientamenti tra loro non uniformi; il contrasto tra opinioni dottrinali;
l'adozione di norme di interpretazione autentica.
In buona sostanza,
costituisce causa di esonero da responsabilità amministrativa l'inevitabile
incertezza sul contenuto, sull'oggetto e sui destinatari delle disposizioni
fiscali.
Tuttavia, l'incertezza sul contenuto, sull'oggetto e sui destinatari della
norma fiscale deve avere carattere oggettivo. È assolutamente irrilevante,
invece, l'incertezza soggettiva, che deriva da ignoranza incolpevole.
Statuto del contribuente e principi generali sulle sanzioni.
L'esclusione
delle sanzioni per i contribuenti, dunque, si rende necessaria se il
legislatore con vari interventi normativi modifica più volte le regole di
condotta e gli adempimenti fiscali, creando incertezza.
In queste situazioni è applicabile il principio generale contenuto
nell'articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000)
che, per garantire collaborazione e buona fede nei rapporti con il fisco, e
per tutelare il legittimo affidamento del soggetto interessato, esclude
l'irrogazione delle sanzioni quando la violazione dipende da obiettive
condizioni di incertezza sulla portata e l'ambito di applicazione di una
norma tributaria.
Oltre alla disposizione dello Statuto, poi, c'è un'altra
norma che nel nostro ordinamento prevede che il contribuente non debba
essere sanzionato se la legge non è chiara. L'articolo 6 del decreto
legislativo 472/1997, che contiene i principi generali in materia di
sanzioni fiscali, ammette l'errore dipendente da incertezza oggettiva sul
significato della norma di legge e ne fa conseguire la non punibilità.
Qualora il contribuente richieda la disapplicazione delle sanzioni per
obiettiva incertezza, l'induzione in errore deve essere desunta
dall'impossibilità di comprensione della legge ritenuta tale dal giudice,
essendo del tutto irrilevante l'incertezza soggettiva derivante dall'erronea
interpretazione della norma da parte del contribuente.
In questo modo si è
espressa la Cassazione con la sentenza 14910/2016. Ex lege, ricorda la
Cassazione (sentenza 13076/2015), rileva solo «l'obiettiva incertezza» della
norma reputata tale dal giudice e non già quella «meramente soggettiva»
riferita al contribuente.
Le cause esterne. Sono state individuate anche delle cause esterne che
possono avere incidenza sull'esclusione delle penalità. Costituisce,
infatti, causa di esonero dal pagamento delle sanzioni anche lo stato di
forza maggiore. La forza maggiore è una causa esterna che obbliga il
contribuente a comportarsi in modo difforme da quanto voluto e che lo
costringe a commettere la violazione a causa di un evento imprevisto,
imprevedibile e irresistibile.
In questo senso si è espressa la Cassazione
con l'ordinanza 3049/2018.
La Suprema corte ha richiamato nella pronuncia la sentenza della Corte di
giustizia Ce C/314/06, secondo cui la nozione di forza maggiore ha alla base
un elemento oggettivo, che riguarda circostanze anormali del tutto estranee
al soggetto che ne subisce gli effetti.
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Cause di esclusione, parola al giudice.
L'articolo 8 del decreto legislativo 546/1992 attribuisce al giudice
tributario il potere di dichiarare non applicabili le sanzioni.
Per poter aver luogo l'applicazione di queste esimenti occorre che
sussistano dubbi, per esempio, in ordine all'assoggettamento a tassazione di
un determinato bene oppure sull'obbligo di presentazione della dichiarazione
o, ancora, che vi siano incertezze interpretative su una determinata
disposizione.
Le Commissioni tributarie possono annullare le sanzioni quando
i dubbi derivano dall'emanazione di una legge interpretativa che intervenga
successivamente alla constatazione di una violazione oppure quando la stessa
amministrazione si esprima in termini contraddittori con circolari e
risoluzioni.
In quest'ultimo caso non sono dovuti neppure gli interessi moratori.
L'incertezza oggettiva può essere determinata anche da contrastanti
decisioni giurisprudenziali e rileva nei casi in cui nulla può essere
rimproverato al cittadino per non aver osservato la legge (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.04.2019). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Procura sostanziale al legale.
Nel procedimento della mediazione obbligatoria. La Cassazione la ritiene
necessaria anche se si tratta del proprio avvocato.
Nel procedimento di mediazione obbligatoria è necessaria la comparizione
personale delle parti, assistite dal difensore. In tale procedura, la parte
può anche farsi sostituire da un proprio rappresentante sostanziale,
eventualmente coincidente con il medesimo difensore che lo assiste, purché
dotato di apposita procura sostanziale. Inoltre, la condizione di
procedibilità può ritenersi realizzata al termine del primo incontro davanti
al mediatore, qualora una o entrambe le parti, dopo essere state
adeguatamente informate sulla mediazione, comunichino la propria
indisponibilità di procedere oltre.
Sono i principi sanciti dalla
sentenza
27.03.2019 n. 8473
della Corte di cassazione, pubblicata lo scorso 27 marzo, che chiarisce
alcuni profili su cui si sono registrati orientamenti non convergenti nelle
numerose sentenze di merito che si sono già occupate della materia.
Il
ricorso al giudice di legittimità ha ad oggetto la presunta improcedibilità
della domanda di risoluzione di un contratto di locazione di un'unità
immobiliare per mancato previo esperimento del tentativo obbligatorio di
mediazione, previsto dal decreto legislativo 28/2010.
Ricordano i giudici di
piazza Cavour che «il successo dell'attività di mediazione è riposto nel
contatto diretto tra le parti e il mediatore professionale il quale può,
grazie alla interlocuzione diretta e informale con esse, aiutarle a
ricostruire i loro rapporti pregressi, ed aiutarle a trovare una soluzione
che, al di là delle soluzioni in diritto della eventuale controversia,
consenta loro di evitare l'acuirsi della conflittualità e definire
amichevolmente una vicenda potenzialmente oppositiva con reciproca
soddisfazione». Ciò premesso, la sentenza osserva che la novella del 2013,
che introduce la presenza necessaria dell'avvocato, segna la progressiva
emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso.
«La previsione della presenza sia delle parti sia degli avvocati comporta
che la parte non possa evitare di presentarsi davanti al mediatore, inviando
soltanto il proprio avvocato», statuisce la Cassazione che, però, precisa
come la parte che, per scelta o per impossibilità, non possa partecipare
personalmente ad un incontro di mediazione, possa farsi sostituire da una
persona a sua scelta e quindi anche, ma non solo, dal suo difensore. Con la
condizione che tale potere debba essere conferito mediante procura avente lo
specifico oggetto della partecipazione alla mediazione, con la previsione di
disporre dei diritti sostanziali.
Pertanto, secondo gli ermellini, la
procura conferita al difensore, e da questi autenticata, non può conferire
anche il potere di disporre dei diritti sostanziali.
La Cassazione, inoltre,
chiarisce che l'onere della parte, che intenda agire in giudizio, di dar
corso alla mediazione obbligatoria possa ritenersi adempiuto con l'avvio
della procedura di mediazione e con la comparizione al primo incontro.
All'esito di tale incontro, ricevute dal mediatore le necessarie
informazioni, si può liberamente manifestare il parere negativo sulla
possibilità di utilmente iniziare o proseguire la procedura di mediazione (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019). |
LAVORI
PUBBLICI: Ati, requisiti imprese
in linea con l’offerta. Altrimenti raggruppamento
escluso dalla gara.
Se
un componente di un raggruppamento temporaneo di imprese (Ati) non possiede
i requisiti almeno nella stessa misura della quota di svolgimento delle
attività indicata in sede di offerta, il raggruppamento va escluso dalla
gara; non rileva il fatto che le altre imprese componenti il raggruppamento
abbiano requisiti sovrabbondanti tali da coprire la parte di cui è carente
la mandante.
È questo il principio affermato dall'adunanza plenaria del
Consiglio di Stato (con la
sentenza 27.03.2019 n. 6) che ha affrontato, con riguardo
a un appalto di lavori, il tema della carenza dei requisiti di
qualificazione, rispetto alla quota di lavori dichiarati, da parte di un
componente di un raggruppamento di costruttori.
Il giudici di Palazzo Spada
hanno precisato, in particolare, che se una delle imprese raggruppate non è
in possesso di requisiti sufficienti per svolgere la quota di lavori
dichiarati in sede di offerta, l'esclusione dalla gara deve essere comminata
nei confronti dell'intero raggruppamento temporaneo.
L'adunanza plenaria non
offre alcuno spazio per soluzioni di compromesso, neanche rispetto ad una
ipotetica verifica da parte della commissione di gara in relazione al
rilievo e all'entità della carenza del requisito, così come con riguardo
alla possibilità che un'altra impresa del raggruppamento possa coprire i
requisiti mancanti essendo in possesso di requisiti «sovrabbondanti»
rispetto a quelli richiesti dal bando.
La sentenza era stata richiesta preliminarmente da una sezione dello stesso
Consiglio di stato per risolvere il contrasto di giurisprudenza fra un
orientamento improntato a una lettura restrittiva della disposizione
(precisa corrispondenza fra requisiti e quote dichiarate) e un secondo e più
flessibile indirizzo interpretativo che riteneva legittimi piccoli
scostamenti a condizione che il raggruppamento nel suo complesso copra tutti
i requisiti richiesti dal bando.
Nella sentenza si legge che, per i lavori, l'art. 92 del dpr 207/2010
(ancora in vigore) riconosce ai raggruppamenti la possibilità di suddividere
in piena libertà le quote di lavori tra le imprese con un paletto ben
preciso: il rispetto dei requisiti di qualificazione posseduti dalle singole
imprese
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Doppia
tutela in materia edilizia e urbanistica.
Nel
regime della doppia tutela in materia
edilizia e urbanistica è possibile che la
legittimità dell’edificazione venga
riconosciuta dal giudice amministrativo, ma
non dal giudice ordinario, in quanto quest’ultimo
si riserva di disapplicare i titoli edilizi
confrontandoli direttamente con il codice
civile e con le norme integrative di natura
civilistica.
La regola vale anche nell’altra direzione, e
dunque le qualificazioni formulate dal
giudice ordinario non sono vincolanti
nell’indagine sulla legittimità dei titoli
edilizi svolta dal giudice amministrativo.
Peraltro, nella giurisdizione amministrativa
i rapporti privatistici tra i confinanti
vengono presi in esame solo quando siano per
sé evidenti, o quando gli interessati
abbiano di loro iniziativa rappresentato
agli uffici comunali eventuali contese in
grado di incidere sulla legittimazione a
chiedere il titolo edilizio.
Non è quindi utile trasferire materiali
processuali da un giudizio civile a uno
amministrativo per profili che nel secondo
non sono normalmente utilizzabili ai fini
della decisione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.03.2019 n. 276 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
Sulla materia del contendere
16. In seguito ai motivi aggiunti e alla
sentenza non definitiva n. 1163/2016, la
vicenda contenziosa si è focalizzata sulla
legittimità dei provvedimenti che hanno
autorizzato l’attività edilizia della
controinteressata. Prima di entrare nel
dettaglio, è però necessario definire
l’estensione del presente giudizio.
17. In primo luogo, occorre precisare che
non possono avere rilievo in questa sede le
questioni privatistiche relative alle
distanze minime e alle servitù di veduta. Al
riguardo, alcuni profili privatistici (in
particolare, la contestazione della sagoma
del porticato esistente, in origine abusivo,
poi condonato, e infine ricostruito con
altezza differente) sono già stati portati
all’attenzione del giudice ordinario
dall’attuale ricorrente, come documentato
dalla stessa con il deposito del 07.11.2018. Anche la controinteressata, nella
memoria dell’08.11.2018, ha descritto
l’ampio contenzioso sviluppatosi nel tempo
con la ricorrente, sia davanti al giudice
ordinario sia davanti al giudice
amministrativo.
18. Nel regime della doppia tutela in
materia urbanistica è possibile che la
legittimità dell’edificazione venga
riconosciuta dal giudice amministrativo ma
non dal giudice ordinario, in quanto quest’ultimo
si riserva di disapplicare i titoli edilizi
confrontandoli direttamente con il codice
civile e con le norme integrative di natura
civilistica. A questa possibilità accenna
anche l’ordinanza della Corte d’Appello di
Brescia del 03.04.2017, con la quale è
stata negata la sospensione della sentenza
del Tribunale di Bergamo n. 3290 del 10.11.2016, contenente la condanna della controinteressata alla demolizione del
porticato ricostruito, per la parte che
eccede la sagoma originaria.
19. La regola vale anche nell’altra
direzione, e dunque le qualificazioni
formulate dal giudice ordinario (nello
specifico, il concetto di sagoma, prima e
dopo la sentenza della Corte Costituzionale
n. 309 del 23.11.2011) non sono
vincolanti nell’indagine sulla legittimità
dei titoli edilizi svolta dal giudice
amministrativo. Peraltro, nella
giurisdizione amministrativa i rapporti privatistici tra i confinanti vengono presi
in esame solo quando siano per sé evidenti,
o quando gli interessati abbiano di loro
iniziativa rappresentato agli uffici
comunali eventuali contese in grado di
incidere sulla legittimazione a chiedere il
titolo edilizio. Non è quindi utile
trasferire materiali processuali da un
giudizio civile a uno amministrativo per
profili che nel secondo non sono normalmente
utilizzabili ai fini della decisione.
20. Restando sul terreno amministrativo,
occorre poi precisare che l’impugnazione
proposta con i motivi aggiunti, rivolta
contro la DIA del 27.11.2009 e contro
l’autorizzazione paesistica del 19.04.2010, ha come presupposto logico il ricorso
sul silenzio del Comune. Nel ricorso sul
silenzio era contestata l’inerzia degli
uffici comunali per il mancato intervento
repressivo su alcune specifiche opere
ritenute abusive (ampliamento della
pavimentazione in porfido; porta-finestra
con balcone al secondo piano; realizzazione
del cappotto isolante con tinteggiatura
della facciata). I motivi aggiunti
perseguono lo stesso obiettivo, ossia
eliminare le suddette opere, ma privandole
preventivamente dei titoli edilizi.
L’impugnazione riguarda quindi i titoli
edilizi per la parte in cui autorizzano le
opere indicate come abusive nel ricorso sul
silenzio.
21. La controversia non può invece
estendersi alle altre opere elencate nella
DIA del 27.11.2009 e
nell’autorizzazione paesistica del 19.04.2010, tra cui in particolare il porticato
oggetto della sentenza del Tribunale di
Bergamo n. 3290/2016. In proposito, si deve
sottolineare che l’intervento sul porticato
esistente, con realizzazione di una nuova
terrazza, seppure richiamato anche nei
suddetti provvedimenti, era stato in realtà
autorizzato in precedenza con il permesso di
costruire del 22.04.2009 e con la DIA
depositata il 19.05.2009. Manca quindi
un collegamento formale con gli atti
richiamati dal Comune per rispondere al
ricorso sul silenzio.
22. Una lettura restrittiva dei fatti
processualmente rilevanti consente inoltre
di mantenere i motivi aggiunti entro i
limiti della ricevibilità e
dell’ammissibilità. Da un lato, infatti, non
sarebbe possibile considerare tempestiva, a
distanza di anni, l’impugnazione di titoli
edilizi riguardanti lavori già puntualmente
contestati davanti al giudice ordinario con
il ricorso per denuncia di nuova opera
proposto nel 2009.
Dall’altro, non è chiaro
quale interesse vi sarebbe a impugnare i
titoli edilizi dopo che la sentenza n.
3290/2016 ha già disposto la condanna alla
demolizione delle opere contestate (se la
pronuncia fosse ribaltata, la situazione
dell’interesse non cambierebbe, in quanto le
opere sarebbero protette da un giudicato). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Tutela dei beni ambientali -
Intervento abusivo su beni vincolati - Limiti volumetrici -
Reato paesaggistico - Poteri del giudice dell'esecuzione -
Prescrizione e procedimento di esecuzione - Corte Cost.
23.03.2016, n. 56 - Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 -
Giurisprudenza.
In tema di tutela dei beni ambientali,
per effetto della sentenza della Corte cost. 23.03.2016, n.
56, che ha dichiarato la parziale incostituzionalità
dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, integra la
contravvenzione prevista dal comma primo di detto articolo
ogni intervento abusivo su beni vincolati paesaggisticamente,
tanto in via provvedimentale che per legge, configurandosi
invece il delitto previsto dal successivo comma 1-bis nella
sola ipotesi di lavori che superino i limiti volumetrici ivi
precisati (Cass.
Sez. 3, n. 38976 del 07/04/2017, Guadagno e a.).
Detti limiti sono alternativamente
indicati: nell'aumento superiore al trenta per cento della
volumetria della costruzione originaria; in un ampliamento
della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi;
nella realizzazione di una nuova costruzione con volumetria
superiore a mille metri cubi.
Pertanto, il giudice dell'esecuzione, adito a seguito della
dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 181, comma
1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, può dichiarare l'estinzione
per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva
di condanna, riqualificato come contravvenzione ai sensi del
comma 1 della norma citata, qualora la prescrizione sia
maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti
salvi i rapporti ormai esauriti
(Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017, Giordano).
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Efficacia del giudicato penale
- Principio di certezza e stabilità giuridica - Divieto di "bis
in idem" - Applicazione in sede esecutiva - Corte Cost.
sent. n. 56/2016 - Fattispecie: illegittimità costituzionale
parziale dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004.
L'efficacia del giudicato penale nasce
dalla necessità di certezza e stabilità giuridica, propria
della funzione tipica del giudizio, ma anche dall'esigenza
di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera
individuale, sicché si esprime essenzialmente nel divieto di
"bis in idem", e non implica l'immodificabilità in assoluto
del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza
irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba
subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela
dei diritti primari della persona
(Conf. Corte cost. sentenze n. 115 del 1987, n. 267 del
1987, n. 282 del 1989).
In questi casi, il giudice dell'esecuzione,
adito per l'applicazione in sede esecutiva della sent. Corte
cost. n. 56 del 2016, che ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale parziale dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs.
n. 42 del 2004, il cui delitto sia stato ritenuto con la
sentenza di condanna divenuta definitiva, deve dichiarare,
anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 30, quarto comma, legge
n. 87 del 1953, l'estinzione per prescrizione del reato
oggetto della sentenza definitiva di condanna che debba
essere riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma
1 della norma incriminatrice citata, qualora la prescrizione
sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e
gli effetti della condanna non siano ancora esauriti; negli
stessi casi, laddove il reato non sia prescritto, il giudice
dell'esecuzione deve rideterminare la pena in relazione alla
diversa cornice edittale prevista per la fattispecie
contravvenzionale; il relativo potere/dovere del giudice
dell'esecuzione dev'essere esercitato quando ci si trovi di
fronte ad una condanna definitiva a pena illegale derivante
dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale della
norma incriminatrice non ravvisata dal giudice della
cognizione, senza che il medesimo si sia posto il relativo
problema giuridico ed abbia espresso le sue valutazioni, non
essendo in tal caso la correzione dell'errore preclusa dal
giudicato neppure laddove questo si sia formato sulla base
di una decisione assunta successivamente alla declaratoria
di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice;
nel procedimento di esecuzione, nel rispetto del
contraddittorio, il giudice, su richiesta di parte o "ex
officio", può assumere tutte le prove necessarie per la
decisione, ivi compresa l'audizione del consulente tecnico
di parte nominato dal condannato e l'acquisizione della
relazione dal medesimo predisposta, e non deve basarsi, solo
ed esclusivamente, sulla sentenza in relazione alla quale è
stato promosso l'incidente d'esecuzione. Fattispecie:
abrogazione e dichiarazione di illegittimità costituzionale
delle leggi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.03.2019 n. 12916 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Responsabilità per la gestione dei rifiuti - Stoccaggio o
smaltimento a mezzo di impianto indipendente - Sostanze gassose - Omessa
classificazione - Produttore o detentore di rifiuto - Individuazione.
Possono costituire "rifiuto" anche le sostanze gassose
qualora ai fini dello smaltimento siano immesse da sole o insieme ad altra
sostanza in contenitori oppure quegli effluenti gassosi che vengono stoccati
o smaltiti a mezzo di impianto indipendente diverso da quello in cui sono
stati prodotto nel corso dell'attività produttiva. Inoltre, deve intendersi
produttore o detentore di rifiuto non solo chi svolge l'attività materiale
ma colui al quale è riferibile l'attività giuridica e quindi qualsiasi
intervento che determina in concreto la produzione di rifiuti e da cui
deriva la posizione di garanzia dell'adempimento di determinati obblighi in
materia di smaltimento.
...
RIFIUTI - Responsabilità per la gestione dei rifiuti - Posizione di garanzia
apicale - Obblighi di legge - Soggetti coinvolti nella produzione o nella
detenzione - Omessa classificazione - Protezione della salute umana - Omessa
imprudente vigilanza sulle operazioni di bonifica - Art. 183 e ss. 208 e ss.
D.Lgs. n. 152/2006 - Fattispecie: Vittime dovuti dalla pulitura di cisterne
dai rifiuti interni rimasti dopo lo scarico di zolfo liquido - ADR - Tank
container - Violazione di cui agli artt. 5 e 25-septies D.L.vo n. 231/2011 -
Norme antinfortunistiche violate e all'art. 2087 cod. civ. - DVR non
aggiornato - Rischi derivanti dal lavaggio di autocisterne utilizzate per il
trasporto di prodotti chimici - Caso Eni di Taranto e Scarlino.
Dalla posizione di garanzia apicale discendono gli
obblighi di legge riferiti al produttore di rifiuti ex art. 183 d.lgs n.
152/2006 che, alla lett. f), che definisce tale il soggetto la cui attività
produce rifiuti, senza alcun riferimento, alla lettera h), che qualifica il
detentore come il produttore di rifiuto o la persona giuridica o fisica che
ne è in possesso.
È dunque pacifico che la responsabilità per la gestione dei rifiuti in
relazione alle disposizioni nazionali e comunitarie gravi su tutti i
soggetti coinvolti nella produzione o nella detenzione di beni dai quali
originano i rifiuti pericolosi e che la normativa di riferimento è posta a
protezione della salute umana per tutti coloro, quindi anche i lavoratori,
che vengono in contatto con i rifiuti nelle attività di gestione degli
stessi. Nella specie, il comportamento degli imputati non ha avuto un ruolo
meramente occasionale, ma si è posto come condizione necessaria ed
antecedente rispetto all'evento in concreto verificatosi.
È quindi, applicabile al caso la regola inserita nell'art. 41 c.p., comma 1,
perché gli imputati con la loro condotta colposa (mancato controllo sulla
affidabilità delle persone delegate allo smaltimento dei rifiuti) hanno
posto in essere una condizione della catena causale senza la quale l'evento,
prevedibile e non dovuto a fattori imponderabili, non si sarebbe verificato.
Pertanto, sotto il profilo della colpa generica e specifica, le omissioni di
informazioni attribuibili agli altri imputati committenti dell'operazione di
bonifica rappresentano concause nella produzione dell'evento e non già cause
sopravvenute idonee a elidere il nesso di causalità materiale ai sensi
dell'art. 41 comma 2 cod.pen.
(Corte di Cassazione, Sez. IV
penale,
sentenza 25.03.2019 n. 12876
- link a
www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA
LAVORO:
APPALTI - Responsabilità dei committenti e rischio interferenziale -
Obblighi di coordinamento e cooperazione - Dovere informativo su eventuali
pericoli - SICUREZZA SUL LAVORO - Contratto di appalto e accordo per una
mera prestazione d'opera - Posizione di garanzia propria dell'imprenditore -
Infortuni sul lavoro - Responsabilità del committente per "culpa in
eligendo" - Verifica dell'idoneità tecnico professionale - Fattispecie:
pericolosità derivante dai rifiuti gestiti.
In tema di appalti, i committenti in relazione agli
obblighi di coordinamento e cooperazione connessi al rischio interferenziale,
dettati dall'art. 7 D.Lgs. n. 626/1994 (ora art. 26 D.Lgs. 81/2008), sono
tutti senz'altro tenuti a informare gli affidatari del rischio rappresentato
dalla presenza di eventuali pericoli (in specie acido solfidrico nella
cisterna).
Tale dovere informativo prescinde dalla contingenza e fa riferimento ai
rischi strutturalmente insiti nell'operazione relativa allo svolgimento di
un'attività da considerarsi pericolosa in ragione della pericolosità dei
rifiuti gestiti (art. 2087 e 2050 cod. civ.).
Mentre, in materia di infortuni sul lavoro, ai fini della configurabilità di
una responsabilità del committente per "culpa in eligendo" nella verifica
dell'idoneità tecnico professionale dell'impresa affidataria di lavori, non
ritiene neppure necessario il perfezionamento di un contratto di appalto,
essendo sufficiente un accordo per una mera prestazione d'opera
(Sez. 3, n. 10014 del 01/03/2017).
Inoltre, la culpa in eligendo, cioè la verifica
dell'idoneità tecnico professionale della ditta appaltatrice, in relazione
all'entità e alla tipologia della prestazione richiesta, inerisce alla
posizione di garanzia propria dell'imprenditore e agli obblighi di
valutazione del rischio specifico che scaturiscono dall'art. 2087, 2050 cod.
civ. e trova il proprio fondamento anche nell'art. 26 D.Lgs. n. 81/2008.
...
APPALTI - SICUREZZA SUL LAVORO - Subappaltato dei lavori - Responsabilità
dell'imprenditore che frazioni il ciclo produttivo - Norme
antinfortunistiche - Casi di lesioni e di omicidi colposi - Nesso di
causalità - Evento dannoso un legame causale - Giurisprudenza.
In tema di sicurezza sul lavoro, quand'anche
l'imprenditore frazioni il ciclo produttivo avvalendosi di strumenti
contrattuali finalizzati ad alleggerire sul piano burocratico-organizzativo
la struttura aziendale, non perde la sua posizione di garante
dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità di tutti
coloro che contribuiscono alla realizzazione del suo programma lavorativo e
produttivo (Cass. Sez. 4, n. 37588
del 12/10/2007) che in applicazione di tale principio ha ritenuto la
responsabilità dell'imprenditore che aveva subappaltato i lavori in luoghi
esterni all'impresa).
Inoltre, è da rilevare che le norme antinfortunistiche non
sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il
rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro
attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro
che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono in luoghi di lavoro che,
non muniti dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere
causa di eventi dannosi (Cass.,
Sezione 4, 06/11/2009, Morelli).
Le disposizioni prevenzionali sono quindi da considerare
emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di
lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a
prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare
dell'impresa. Con la conseguenza che, in caso di lesioni e di omicidio
colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione
delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e
sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un
legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia
ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi
dettati dagli artt. 40 e 41 cod. pen..
In tale evenienza deve ravvisarsi l'aggravante di cui all'art. 589 c.p.,
comma 2, e art. 590 c.p., comma 3, nonché il requisito della perseguibilità
d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 c.p., u.c., anche
nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di
lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento
dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed
eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e
la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a
prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi.
...
SICUREZZA SUL LAVORO - Prevenzione degli infortuni sul lavoro -
Individuazione del garante nelle strutture complesse - Relazioni
intersoggettive - Datore di lavoro - Persona giuridica - Responsabilità del
legale rappresentante dell'ente.
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai
fini dell'individuazione del garante nelle strutture complesse occorre far
riferimento al soggetto deputato alla gestione del rischio essendo comunque
riconosciuto come riconducibile alla sfera del preposto, il rischio
occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella
del dirigente, il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione
dell'attività lavorativa, al datore di lavoro l'incidente derivante da
scelte gestionali di fondo (Sez. 4
n. 22606 del 04.04.2017).
Pertanto, se il datore di lavoro è una persona giuridica,
destinatario delle norme è il legale rappresentante dell'ente imprenditore,
quale persona fisica attraverso la quale il soggetto collettivo agisce nel
campo delle relazioni intersoggettive, cos? che la sua responsabilità
penale, in assenza di valida delega, è indipendente dallo svolgimento o meno
di mansioni tecniche, attesa la sua qualità di preposto alla gestione
societaria (Sez. 3, n. 28358 del
08/08/2006; nell'occasione la Corte ha ulteriormente affermato che il legale
rappresentante non può esimersi da responsabilità adducendo una propria
incapacità tecnica, in quanto tale condizione lo obbliga al conferimento a
terzi dei compiti in materia antinfortunistica).
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SICUREZZA SUL LAVORO - Successione di norme e corrispondenza contenutistica
- Datore di lavoro dell'impresa appaltatrice - Valutazioni di rischio -
Omessa redazione del DVR - Prevenzione dei rischi generici e processo
causale che ha dato origine all'infortunio.
In materia di sicurezza sul lavoro, le valutazioni di
rischio contenuti nel Dlgs n. 626/1994 (artt. 4 e 7), hanno una
corrispondenza contenutistica con le disposizioni succedutesi con il D.Lgs.
n. 81/2008 (Sez. 4, 42018 del
12.10.2011).
Pertanto, fermo restando l'obbligo della valutazione dei
rischi di cui all'art. 4 d.Lgs n. 626/1994 e fermi restando gli obblighi di
cooperazione e di coordinamento previsti dall'art. 7 d.lgs. 626/1994,
confermati dalla nuova disciplina -art. 26, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008- il
datore di lavoro dell'impresa appaltatrice non può più essere ritenuto
responsabile -in applicazione dell'art. 2, quarto comma, cod. pen.-
dell'omessa redazione del documento di valutazione dei rischi di cui
all'art. 7, comma 1, d.Lgs. 626/1994, gravando tale obbligo sul datore di
lavoro committente, e cioè su colui che ha la disponibilità giuridica dei
luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo
(Sez. 4 n. 14167 del 12.03.2015 Marzano).
Grava specularmente sugli stessi datori di lavoro, ai quali
sono stati appaltati segmenti dell'opera complessa, l'obbligo di collaborare
all'attuazione del sistema prevenzionistico globalmente inteso, sia mediante
la programmazione del rischio specifico della singola attività in ordine
alla quale la posizione di garanzia rimane a carico del singolo datore di
lavoro, sia mediante la cooperazione nella prevenzione dei rischi generici
derivanti dall'interferenza tra le diverse attività rispetto a cui la
posizione di garanzia si estende a tutti i datori di lavoro ai quali siano
riferibili le plurime attività coinvolte nel processo causale che ha dato
origine all'infortunio (Sez. 4 n.
30557 del 07.06.2016).
...
SICUREZZA SUL LAVORO - Sistema di sicurezza aziendale - Procedimento di
programmazione della prevenzione globale dei rischi - Responsabilità del
datore di lavoro committente - Documento di valutazione dei rischi -
Obblighi di cooperazione e coordinamento.
Il sistema di sicurezza aziendale, si configura come
procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi e tale
logica riguarda anche la gestione dei rischi in caso di affidamento dei
lavori a singole imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno
dell'azienda o di una singola unità produttiva della stessa, nonché
nell'ambito del ciclo produttivo dell'azienda medesima.
Grava, pertanto, sul datore di lavoro committente, l'obbligo di predisporre
il documento di valutazione dei rischi derivanti dalle possibili
interferenze tra le diverse attività che si svolgono in successione o
contestualmente all'interno di un'area.
Pertanto, gli obblighi di cooperazione e coordinamento gravanti,
dall'esigenza antinfortunistica, sui datori di lavoro rappresentano la
"cifra" della loro posizione di garanzia e sono rilevanti anche per
delimitare l'ambito della loro responsabilità.
...
SICUREZZA SUL LAVORO - Sistema di sicurezza aziendale con più i titolari
della posizione di garanzia - Responsabilità di ogni singola posizione di
garanzia - Nesso di causalità e rischio interferenziale - Coinvolgimento
funzionale - Fattispecie: bonifica della cisterna recante rifiuti
pericolosi.
Nel sistema di sicurezza aziendale, se sono più i
titolari della posizione di garanzia come nel caso di specie, ciascun
garante risulta per intero destinatario dell'obbligo di impedire l'evento
fino a che non si esaurisca il rapporto che ha originato la singola
posizione di garanzia. Sicché, quando l'obbligo di impedire un evento ricade
su più persone che debbano intervenire o intervengano in momenti diversi, il
nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una
posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato
intervento da parte di altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo
di impedire l'evento, configurandosi un concorso di cause ex art. 41, comma
primo, cod. pen. (Sez. 4 n. 244455
del 22.04.2015; sez. 4 n. 37992 del 11.07.2012; sez. 4 n. 1194 del
15.11.2013).
Inoltre, si è precisato che, ai fini della attività di
valutazione di coordinamento e cooperazione connessa al rischio
interferenziale, secondo quanto previsto dall'art. 7 D.Lgs. 626/1994 (ora
art. 26 D.lgs. 81/2008), occorre avere riguardo non alla qualificazione
civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro
-contratto di appalto, d'opera o di somministrazione-, ma all'effetto che da
tale rapporto origina, vale a dire alla concreta interferenza e coesistenza
-nella specie, la bonifica della cisterna recante rifiuti pericolosi- di più
organizzazioni, che genera la posizione di garanzia dei datori di lavoro ai
quali fanno capo le distinte organizzazioni
(sez. 4 n. 44792 del 17.06.2015).
Tale coinvolgimento, funzionale nella procedura di lavoro
di diversi plessi organizzativi, non esclude poi la necessità di adottare le
misure previste per i diversi rischi specifici, a meno che non risultino
inefficaci o dannose ai fini della sicurezza dell'ambiente di lavoro
(Sez. 4 n. 18200 del 07.01.2016).
...
SICUREZZA SUL LAVORO - Violazione di norme antinfortunistiche - Aggravante
speciale - Procedibilità di ufficio in caso di lesioni gravi e gravissime -
Addebito di colpa specifica - Posizione di garanzia - Assenza di diligenza,
prudenza e accortezza.
In materia di reati colposi derivanti da infortunio sul
lavoro, per la configurabilità dell'aggravante speciale della violazione
delle norme antinfortunistiche (rilevante per la procedibilità di ufficio in
caso di lesioni gravi e gravissime e per il raddoppio della prescrizione ai
sensi dell'art. 157 cod. pen.) non occorre che sia integrata la violazione
di norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, giacché per
l'addebito di colpa specifica, è sufficiente che l'evento dannoso si sia
verificato a causa della violazione del citato art. 2087, che fa carico
all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che
secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono
necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei
lavoratori. Infatti, il datore di lavoro e gli altri soggetti investiti
della posizione di garanzia devono in proposito ispirare la loro condotta
alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza, per fare in modo che
il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza.
In sintesi, sussiste una posizione di garanzia a condizione che: un bene
giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado
di proteggerlo; una fonte giuridica -anche negoziale- abbia la finalità di
tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente
individuate sulla base di un'investitura formale o l'esercizio di fatto
delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante; queste ultime siano
dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero
siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari
ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato
(Sez. 4, n. 9855 del 27/01/2015, Chiappa; Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015;
Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini).
In questa prospettiva, merita di essere ricordato che
l'obbligo posto a carico dei titolari delle posizione di garanzia
individuate, da ultimo, nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett.
b), d) ed e), di attivarsi positivamente per organizzare le attività
lavorative in modo sicuro è di tale spessore che non potrebbe neppure
escludersi una responsabilità colposa dei medesimi allorquando non abbiano
assicurato tali condizioni, in quanto, al di là dell'obbligo di rispettare
le prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di
danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la
prudenza e l'accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività
derivi un nocumento a terzi, in quanto l'obbligo di garantire la sicurezza
sul luogo di lavoro si estende anche nei confronti di terzi non dipendenti
dall'impresa.
...
SICUREZZA SUL LAVORO - Impresa strutturata come persona giuridica - Legale
rappresentante e responsabilità penale - Destinatario delle normativa
antinfortunistica.
In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro,
destinatario delle normativa antinfortunistica in una impresa strutturata
come persona giuridica è il suo legale rappresentante, persona fisica
attraverso cui l'ente ha agito e agisce nel campo delle relazioni
intersoggettive; ne consegue che la responsabilità penale del predetto, ad
eccezione delle ipotesi di valida delega, deriva proprio dalla sua qualità
di preposto alla gestione societaria ed è indipendente dallo svolgimento, o
meno, di mansioni tecniche
(Corte di Cassazione, Sez. IV
penale,
sentenza 25.03.2019 n. 12876
- link a
www.ambientediritto.it). |
CONDOMINIO:
Convocazioni, sufficiente l’invio. Spetta al condomino la prova
di mancata ricezione. Il principio ribadito dalla Cassazione sugli avvisi
dell’assemblea, che sono atti privati.
Convocazione dell'assemblea con maggiori garanzie. Per la regolarità dello
svolgimento della riunione è infatti sufficiente che l'amministratore
attesti di avere inviato la relativa convocazione al condomino, senza
preoccuparsi dell'esito di tale spedizione, spettando a quest'ultimo la
prova di non averla ricevuta per motivi estranei alla propria volontà.
Lo
ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la
sentenza
25.03.2019 n. 8275, nella
quale si è presa posizione su un pronunciamento di legittimità di segno
contrario.
Il caso concreto. Nella specie la Corte di appello di Roma, nel riformare la
sentenza di primo grado, aveva accolto l'appello proposto
dall'amministratore condominiale avverso la decisione con la quale era stata
giudicata positivamente l'impugnazione ex art. 1337 c.c. proposta da una condomina contro le delibere approvate nel corso di un'assemblea. Le stesse
erano state annullate per difetto di convocazione della predetta condomina
alla riunione.
Dagli atti di causa risultava che l'amministratore avesse
inviato ai condomini mediante raccomandata le relative convocazioni
assembleari dieci giorni prima dell'assemblea chiamata in prima
convocazione. Nel caso specifico della condomina che aveva impugnato le
conseguenti delibere risultava poi che tale avviso fosse stato spedito al
suo indirizzo di residenza.
I giudici di appello, nel riformare la predetta
sentenza, avevano ritenuto di fare applicazione del principio di presunzione
di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. e, tenuto conto dell'affidabilità
del mezzo postale utilizzato e della circostanza pacifica che il luogo in
cui tale atto era stato spedito coincideva con l'indirizzo di residenza
della condomina, avevano ritenuto che il procedimento di convocazione
assembleare si fosse svolto correttamente.
Di qui il ricorso della condomina
presso la Suprema corte, alla quale la stessa si era rivolta per ottenere
l'annullamento della sentenza di secondo grado che aveva dato ragione
all'amministratore condominiale.
L'invio dell'avviso di convocazione assembleare. L'avviso di convocazione,
che deve essere predisposto dall'amministratore e inviato a tutti i
condomini presso la propria residenza o il proprio domicilio, come
risultante dall'anagrafe condominiale (che è specifico obbligo
dell'amministratore provvedere a mantenere aggiornata), è finalizzato a
consentire la partecipazione dei condomini all'assemblea, fornendo loro
indicazione dell'ordine del giorno, del luogo e dell'ora della riunione,
oltre che degli argomenti da discutere.
Esso deve essere comunicato ai
condomini almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza in
prima convocazione. Il nuovo art. 66 disp. att. c.c. prevede quindi in modo
specifico le modalità per il suo inoltro, richiedendo alternativamente
l'utilizzo della posta raccomandata, della posta elettronica certificata,
del fax oppure la consegna a mani (con consigliabile ricevuta cartacea del
ritiro dell'atto da parte del condomino).
Il predetto art. 66 disp. att.
c.c. ha inoltre chiarito che qualsivoglia vizio relativo all'omissione, alla
tardività o all'incompletezza della convocazione legittima il condomino alla
richiesta di annullamento delle conseguenti delibere adottate
dall'assemblea.
La decisione della Suprema corte. Nella recente sentenza della seconda
sezione civile della Cassazione sono stati preliminarmente confermati i
predetti chiarimenti forniti dal legislatore con il menzionato restyling
dell'art. 66 disp. att. c.c. di cui alla riforma del 2012.
I giudici di
legittimità hanno richiamato il consolidato orientamento che qualifica
l'avviso di convocazione come atto privato, del tutto svincolato, in assenza
di espressa disposizione di legge, dall'applicazione del regime giuridico
delle notificazioni degli atti giudiziari, che soggiace, quale atto
unilaterale di natura recettizia, al principio di cui all'art. 1135 c.c..
Anche all'avviso di convocazione si applica quindi la presunzione di
conoscenza, superabile dalla prova contraria fornita dal condomino
convocato, in base alla quale la conoscenza dell'atto è parificata alla
conoscibilità, in quanto riconducibile anche solo al fatto che la
comunicazione sia pervenuta all'indirizzo del destinatario, a prescindere
dalla sua materiale apprensione o effettiva conoscenza.
In questo caso
l'onere della prova a carico del mittente riguarda solo l'avvenuto recapito
del plico all'indirizzo del destinatario, salva la prova da parte del
destinatario dell'impossibilità di acquisire in concreto l'anzidetta
conoscenza per un evento estraneo alla propria volontà.
Nel caso di invio dell'avviso di convocazione mediante posta raccomandata,
il momento in cui può ritenersi che la stessa sia arrivata nella sfera di
conoscibilità del condomino, qualora quest'ultimo non fosse presente al
momento della consegna del plico da parte dell'incaricato del servizio
postale, coincide con il rilascio da parte di quest'ultimo del relativo
avviso di giacenza, idoneo a consentire il ritiro della spedizione (e non
già con altri momenti successivi, quali il giorno in cui il plico sia stato
effettivamente ritirato o in cui si sia compiuta la relativa giacenza).
A fronte di questo consolidato orientamento giurisprudenziale la seconda
sezione civile ha però dovuto fare i conti con una recente decisione di
legittimità di contenuto (apparentemente) contrario di cui alla sentenza n.
25791 del 14/12/2016. In questo caso la Cassazione aveva ritenuto che
l'avviso di tentata consegna da parte dell'incaricato del servizio postale,
non contenendo l'atto cui si riferisce, non equivalesse alla sua
comunicazione, non potendo dunque farsi applicazione dell'art. 1335 c.c. Al
contrario, in casi del genere si era ritenuto di dover fare riferimento
all'effettiva conoscenza.
Tuttavia, come correttamente rilevato, in detta
decisione la Suprema corte si era occupata del diverso caso dell'invio da
parte dell'amministratore del verbale assembleare al condomino assente.
Trattasi, all'evidenza, di una ipotesi diversa da quella dell'invio
dell'avviso di convocazione, perché dalla spedizione del verbale ai
condomini assenti decorre un termine (giudiziale) di decadenza
dall'impugnazione delle deliberazioni in esso contenute, ovvero il termine
di 30 giorni di cui all'art. 1337 c.c. (salvo il caso in cui il vizio
denunciato comporti addirittura la nullità della deliberazione).
Per questo
motivo, trattandosi di tutelare il diritto costituzionalmente garantito
della difesa in sede giudiziaria, nella menzionata sentenza si era ritenuto
di dover fare applicazione analogica di quanto previsto dalle disposizioni
del regolamento postale di cui all'art. 8 della legge n. 890/2002, tenendo
comunque conto del fatto che, non trattandosi della notifica di un atto
giudiziario, non si poteva pretendere dall'incaricato del servizio postale
la spedizione al destinatario di una raccomandata con la comunicazione
dell'avvenuto deposito, ma soltanto il rilascio dell'avviso di giacenza.
L'importanza del registro di anagrafe condominiale. Emerge ancora una volta
tutta l'importanza di tenere correttamente e in maniera aggiornata il
registro dell'anagrafe condominiale. L'amministratore deve infatti conoscere
esattamente chi sono i proprietari delle singole unità immobiliari.
La
gestione di un aggiornato registro di anagrafe rileva inoltre non solo ai
fini della convocazione e della gestione dell'assemblea (l'amministratore è
tenuto a sapere chi siano i condomini, ovvero i soli soggetti legittimati a
partecipare alle riunioni di tale organo condominiale), ma anche per la
ripartizione delle spese tra usufruttuario e nudo proprietario, così come
per la richiesta di decreto ingiuntivo nei confronti dei condomini morosi e
per il conseguente pignoramento immobiliare, oppure per la comunicazione ai
terzi creditori del condominio del nominativo dei condomini non in regola
con il versamento degli oneri condominiali.
Il nuovo art. 1130, comma 1, n.
6, del codice civile, obbliga quindi l'amministratore ad annotare nel
predetto registro le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di
diritti reali (per esempio l'usufrutto, l'uso e l'abitazione) e di diritti
personali di godimento (per esempio la locazione), comprensive del codice
fiscale e della residenza o domicilio dei medesimi, nonché dei dati
catastali di ciascuna unità immobiliare (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2019). |
TRIBUTI: Esenzione
ICI sui fabbricati rurali, è retroattiva la presentazione del Docfa in
catasto
La presentazione del Docfa in catasto ha effetto retroattivo per il
riconoscimento dell'esenzione Ici per i fabbricati rurali.
In tal senso si è pronunciata la Commissione tributaria regionale di Sassari
con sentenza 25.03.2019 n. 183/8/2019,
riconoscendo il diritto del contribuente all'esenzione prevista
dall'articolo 9 del Dl 557/1993 convertito dalla legge 133/1994.
La questione ha riguardato il ricorso da parte di una Cooperativa di
allevatori alla Commissione tributaria provinciale di Sassari avverso il
diniego di rimborso da parte di un Comune dell'Ici pagata dal 2002 al 2006
per un fabbricato ritenuto dalla contribuente rurale e quindi esente. Invero
il fabbricato in oggetto al 1° gennaio degli stessi anni d'imposizione era
classificato in categoria D/8, la cooperativa ha però sostenuto di aver
presentato in catasto un Docfa nel corso del 2008 con il quale ha
riclassificato in D/10 l'immobile; quindi spettando retroattivamente, a suo
dire, l'esenzione da tributo anche per gli anni in oggetto.
Il giudice di appello, nel confermare la sentenza di primo grado, ha accolto
la tesi della contribuente, sulla base dello «jus superveniens» costituito,
tra l'altro e soprattutto, dal combinato disposto della norma di
interpretazione autentica contenuta nell'articolo 2, comma 5, del Dl
102/2013 e dell'articolo 7, comma 2-bis, del Dl 70/2011. A dire del giudice
di secondo grado da tale jus superveniens si ricaverebbe il principio
generale di retroattività del classamento in D/10 proposto con Docfa dal
contribuente in linea con l'insegnamento contenuto nella sentenza delle
Sezioni Unite della Cassazione n. 18565/2009.
Le argomentazione che non convincono
Le argomentazioni del pronunciamento lasciano perplessi sotto diversi
aspetti. In primo luogo, il giudice sassarese ricava un principio
ordinamentale di retroattività, in ultima analisi, da una norma di
interpretazione autentica, di per se eccezionale, di una norma catastale
condonistica (articolo 7, comma 2-bis, Dl 70/2011), e perciò stesso
anch'essa speciale (Cassazione civile, sezione tributaria, sentenza n.
1779606/2018; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 3862/2017).
Dunque, seguendo il ragionamento del giudice sassarese si dovrebbe arrivare
all'irragionevole conclusione che nel nostro ordinamento i principi generali
si possono ricavare da normative di natura emergenziale. Sotto altro
aspetto, proprio perché eccezionali, le norme condonistiche, come quella di
specie, non possono che essere applicate nei limiti stretti dei previsti
specifici adempimenti formali di natura volitiva a carico dei soggetti
interessati da porre in essere dopo la loro entrata in vigore.
Dunque, non è
dato comprendere come possa essere estesa la disciplina condonistica del
2011, che prevede l'adempimento di specifiche formalità autocertificate di
natura volitiva, alla presentazione di una dichiarazione di scienza qual è
il Docfa presentata nel 2008 in base alla normativa ordinari catastale.
Il giudice di seconde cure attribuisce efficacia retroattiva fino al 2002 a
uno jus superveniens del 2011, i cui effetti fiscali potevano al limite
retroagire al 2006 in ragione della presentazione in pari anno della domanda
di condono catastale; la retroattività pretesa dal giudice sassarese si pone
in evidente contrasto con l'articolo 11 delle Preleggi (Cassazione civile,
sezione I, 3308/1992).
Sotto altro aspetto, il giudice di seconde cure non
sembra aver fatto tesoro dell'insegnamento consolidato della giurisprudenza
di legittimità in materia di Ici. Infatti, la Corte di cassazione è ferma da
anni nel ritenere che in base all'articolo 5, comma 2, del Dlgs n. 504/1992
le variazioni catastali producono effetti fiscali solo dall'anno successivo
a quello della loro messa in atti indipendentemente che ciò sia dovuto a
presentazione di Docfa (di recente Cass. civile, sez. VI, 07/09/2018, n.
21760), tanto più se in ragione di tale applicazione retroattiva possa
derivarne l'irragionevole riconoscimento di una esenzione fiscale (Cassazione
civile, sezione VI, sentenza n. 7746/2019), ponendosi tale retroattività in
evidente contrasto con il principio di certezza e stabilità dei rapporti
fiscali.
L'impugnazione del classamento
La pronuncia in commento, a tacer d'altro, finisce per non far buon uso
nemmeno dei principi contenuti nella sentenza delle Sezioni Unite della
Cassazione n. 18565/2009, ove proprio a tutela della certezza e della
stabilità dei rapporti giuridici fiscali, è posto a carico del contribuente
e dell'ente impositore l'onere di impugnare entro il termine di decadenza il
classamento catastale non ritenuto corretto.
Ragion per cui, se fosse possibile per il contribuente modificare
retroattivamente con un Docfa un classamento catastale consolidato in atti
verrebbe irragionevolmente consentito allo stesso di aggirare il principio
generale della decadenza dell'azione giudiziaria tipico dei processi di
natura impugnatoria, come quello tributario, a presidio del quale è posto
l'articolo 21 del Dlgs 546/1992.
Limite quello decadenziale che si pare possa essere superato solo se dal
riconoscimento dell'esenzione fiscale, in ragione del consolidato
classamento in D/10, possa derivarne la violazione della normativa europea
in materia di divieto di aiuti di stato, imponendosi al giudice nazionale
l'obbligo di disapplicare le norme e gli atti di diritto interno cagionanti
o impeditivi del recupero dell'aiuto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opera abusiva e conseguenza dannosa dell'illecito edilizio -
Persistente offensività dell'opera nei confronti
dell'interesse tutelato dalla norma - Demolizione e
sospensione condizionale della pena - Funzione
ripristinatoria del bene offeso - Amministrazione inerte e
poteri del giudice di merito - Giurisprudenza - Art. 31, c.
9. T.U. Edilizia.
In materia urbanistica, la presenza di
un'opera abusiva costituisce una conseguenza dannosa
dell'illecito edilizio alla cui eliminazione è sotteso
l'ordine di demolizione pronunciato dal giudice penale ai
sensi dell'art. 31, 9° comma T.U. Edilizia contestualmente
alla sentenza di condanna, ove non altrimenti eseguita.
La facoltà rimessa al giudice di merito di subordinare, in
presenza di illeciti edilizi, la concessione della
sospensione condizionale della pena all'eliminazione delle
conseguenze dannose del reato mediante demolizione
dell'opera abusiva, non esige alcuna specifica motivazione
se non sulla scelta del rafforzamento così operato, essendo
questa implicita nell'emanazione dell'ordine di demolizione
che, in quanto accessorio alla condanna del responsabile, è
emesso sulla base dell'accertamento della persistente
offensività dell'opera stessa nei confronti dell'interesse
protetto (Sez. 3,
n. 23189 del 29/03/2018 - dep. 23/05/2018, Ferrante).
Infine, non sortisce alcun effetto
l'eccepita riserva di legge in favore dell'autorità
amministrativa, la quale non preclude al giudice di merito
il potere di ordinare la demolizione delle opere abusive
anche in presenza di un parallelo e concorrente ordine della
P.A., di cui nella specie peraltro non vi è traccia, e
comunque fino a quando l'Amministrazione rimanga inerte
omettendo sia di ingiungere la demolizione, sia di procedere
all'acquisizione dell'opera (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.03.2019 n. 12735 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Nullità del trasferimento dell'immobile abusivo attinente al
profilo civilistico - C.d. nullità «testuale» - Presenza
nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi
del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile -
Artt. 17 e 40 L n. 47/1985 - Artt. 31, 46, 136 del TUE del
2001 - Art 1418 c.c..
In materia urbanistica, la nullità
comminata dall'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli
artt. 17 e 40 della L n. 47 del 1985 va ricondotta
nell'ambito del comma 3 dell'art 1418 c.c., di cui
costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi
come nullità «testuale», con tale espressione dovendo
intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un'unica
fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad
effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a
sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi
del titolo abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia,
deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a
quell'immobile.
In presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante
degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile
all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal
profilo della conformità o della difformità della
costruzione realizzata al titolo menzionato.
...
Nullità del contratto di comprovendita per mancata
inclusione degli estremi del titolo abilitativo -
Dichiarazione reale riferibile all'immobile - Effetti e
limiti - Art. 31 Legge Urbanistica - Nullità delle
compravendite di terreni abusivamente lottizzati.
La nullità del contratto comminata per
il solo caso della mancata inclusione degli estremi del
titolo abilitativo, ha il pregio di render chiaro il confine
normativo dell'area della non negoziabilità degli immobili,
a tutela dell'interesse alla certezza ed alla sicurezza
della loro circolazione, appare, quindi, quello che meglio
rappresenta la sintesi tra le esigenze di tutela
dell'acquirente e quelle di contrasto all'abusivismo.
Pertanto, l'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 dichiara,
invalidi quegli atti da cui non constino (ove da essi non
risultino) gli estremi del permesso di costruire o del
permesso in sanatoria, ovvero gli estremi della segnalazione
certificata di inizio attività, con la precisazione che tali
elementi devono risultare per dichiarazione dell'alienante.
Nell'ipotesi di compravendita di edifici o parte di essi (ed
a parte le allegazioni di cui all'art. 40 L. n. 47/1985 ),
le norme pongono, dunque, un medesimo, specifico, precetto:
che nell'atto si dia conto della dichiarazione
dell'alienante contenente gli elementi identificativi dei
menzionati titoli, mentre la sanzione di nullità e
l'impossibilità della stipula sono direttamente connesse
all'assenza di siffatta dichiarazione (o allegazione, per le
ipotesi di cui all'art. 40 L. n. 47 del 1985).
Sicché, gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie
costruite in assenza di concessione sono nulli ove da essi
non risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza
della concessione, disposizione che era stata preceduta
dalla L. n. 765 del 1967, art. 10, che, nel modificare
l'art. 31 della Legge Urbanistica, aveva disposto la nullità
delle compravendite di terreni abusivamente lottizzati a
scopo residenziale nel medesimo caso in cui "da essi non
risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza" di
una lottizzazione autorizzata (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 22.03.2019 n. 8230 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanzione della demolizione - Ordine di demolizione -
Responsabilità del dirigente o del funzionario per omissione
o ritardo - Illecito permanente - Giurisprudenza
amministrativa.
La sanzione della demolizione di cui
all'art. 31, co. 2 e 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 è
prevista, nei confronti sia del costruttore che del
proprietario in caso d'interventi edilizi eseguiti non solo
in assenza di permesso, ma anche in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai
sensi dell'articolo 32.
Tale sanzione, come chiarito dalla giurisprudenza
amministrativa (Ad
Plenaria Cons. Stato n. 9 del 2017), ha,
infatti, carattere reale e non incontra limiti per il
decorso del tempo e ciò in quanto l'abuso costituisce un
illecito permanente, e l'eventuale inerzia
dell'Amministrazione non è idonea né a sanarlo o ad
ingenerare aspettative giuridicamente qualificate, né a
privarla del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurandosi, anzi, la responsabilità (art. 31 cit., co.
4-bis) in capo al dirigente o al funzionario responsabili
dell'omissione o del ritardo nell'adozione di siffatto atto,
che resta, appunto, doveroso, nonostante il decorso del
tempo (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 22.03.2019 n. 8230 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusivismo edilizio - Disvalore espresso dall'ordinamento -
APPALTI - Contratti d'appalto nulli per illiceità
dell'oggetto - Importanza della veridicità delle
dichiarazioni dell'alienante - Contratto preliminare -
Giurisprudenza.
Il disvalore espresso dall'ordinamento
rispetto al diffuso fenomeno dell'abusivismo edilizio, si
coglie non solo in riferimento alle sanzioni penali ed
amministrative variamente graduate che reprimono
direttamente la commissione di abusi edilizi, ma, in
generale, in relazione alla percezione negativa di ciò che
circonda il bene abusivo.
Tanto si desume dalla giurisprudenza che ritiene nulli per
illiceità dell'oggetto i contratti d'appalto aventi ad
oggetto la costruzione di un immobile senza titolo
abilitativo (Cass.
n. 7961/2016; n. 13969/2011 e cfr., pure, n. 3913/2009; n.
2187/2011; n. 30703/2018), o non
suscettibili di indennizzo espropriativo gli edifici
costruiti abusivamente
(a meno che, alla data dell'esproprio, sia stata avanzata
domanda di sanatoria, pur non ancora scrutinata dalla P.A.,
ma con favorevole valutazione prognostica, art. 38, co.
2-bis, del d.P.R. n. 327 del 2001, Cass. n. 18694/2016; n.
10458/2017; n. 645/2018), ed, in assoluto,
in relazione al valore conformativo della proprietà
riconosciuto alla disciplina urbanistica
(Cass. SU n. 183/2001 e successive conformi).
Inoltre, l'importanza della veridicità
delle dichiarazioni dell'alienante, affermata dalla
menzionata sentenza n. 20258/2009, ha trovato seguito nella
successiva giurisprudenza in tema di contratto preliminare
(Cass. n. 52/2010; n. 8081/2014) (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 22.03.2019 n. 8230 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Le
centrali di committenza possono aspettare: per l'obbligo serve l'elenco
delle stazioni appaltanti.
La violazione del principio di centralizzazione delle committenze non è
sanzionabile con l'annullamento della procedura di gara fintanto che non
sarà costituito l'apposito elenco delle stazioni appaltanti qualificate con
l'approvazione del decreto previsto dall'articolo 38, comma 2, del Codice
dei contratti, che dovrà definire i requisiti tecnico-organizzativi per
l'iscrizione e le modalità attuative del sistema delle attestazioni di
qualificazione.
Lo afferma la Sez. I di Brescia del TAR Lombardia con la
sentenza
21.03.2019 n. 266.
Il tema
Un operatore aveva fatto ricorso per l'annullamento dell'aggiudicazione
della concessione di un servizio effettuata all'esito di un avviso
esplorativo per sollecitare manifestazioni di interesse alla partecipazione
a una procedura negoziata.
Tra i motivi di ricorso spicca il mancato
utilizzo di una centrale di committenza o di un'aggregazione secondo
l'articolo 37, comma 3, del Codice dei contratti, sul presupposto che, in
relazione al valore della gara, il Comune dovrebbe essere considerato una
stazione appaltante priva dei requisiti di qualificazione stabiliti
dall'articolo 38 del Codice stesso.
Il ricorrente ha inoltre chiesto
l'accesso alla documentazione amministrativa e all'offerta tecnica ed
economica dell'operatore aggiudicatario, a cui è stato dato in parte esito
negativo a causa dell'opposizione manifestata da quest'ultimo circa
l'offerta tecnica.
La qualificazione
Sulla prima questione, posto che l'acquisizione centralizzata è obbligatoria
per le stazioni appaltanti che non siano in possesso della necessaria
qualificazione stabilita dall'articolo 38 del Codice, i giudici hanno detto
che finché non sarà approvata la disciplina attuativa non vi sono i
presupposti per formulare un giudizio di inadeguatezza della stazione
appaltante.
Di conseguenza, nel periodo transitorio ogni ente locale, previa
iscrizione nell'anagrafe unica dell'Anac, può bandire e gestire come
autonoma stazione appaltante tutte le procedure di gara a cui sia
interessato, senza che questo possa mettere a rischio l'aggiudicazione. Ma
anche nei casi in cui l'aggregazione e la centralizzazione delle committenze
è obbligatoria, ossia qualora la stazione appaltante sia un Comune non
capoluogo di Provincia, secondo il Tar di Brescia la violazione «non è
sanzionabile con l'annullamento dell'intera procedura di gara in mancanza di
parametri precostituiti che consentano di misurare la sproporzione tra la
complessità della procedura e le competenze tecniche della stazione
appaltante».
Parametri che potranno essere forniti solo dal decreto che
individuerà i requisiti tecnico-organizzativi per l'iscrizione nell'elenco
delle stazioni appaltanti qualificate.
L'accesso
Circa la domanda di accesso alla documentazione tecnica, il Tar ricorda che
l'inserimento di elementi originali o creativi all'interno del progetto di
gestione non basta a qualificare l'offerta tecnica come atto contenente
segreti tecnici o commerciali (articolo 53, comma 5, lettera a), del
Codice).
Né è sufficiente la menzione di particolari rapporti commerciali in
grado di assicurare condizioni di gestione favorevoli e neppure
l'elaborazione di innovative strategie di mercato. A maggior ragione non può
essere invocata la segretezza quando, come nel caso in esame, la maggior
parte dei criteri di assegnazione del punteggio riguarda la presenza di
servizi aggiuntivi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019). |
TRIBUTI: Le
macchinette per la fototessera pagano l'Imposta di pubblicità.
La Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
20.03.2019 n. 7785,
ha confermato l'assoggettabilità all'imposta di pubblicità delle cabine
automatiche per la riproduzione fotografica (fototessera, biglietti da
visita), non potendosi considerare i cartelli e le scritte apposte sulla
macchinetta come insegna di esercizio.
Si tratta di conferma di principi di diritto già enunciati dalla Corte con
riferimento ai distributori automatici di bevande e cibo che si trovano
nelle stazioni (da ultimo, Cassazione n. 29086/2018).
Il caso
Secondo la tesi della società contribuente i messaggi pubblicitari apposti
sulle cabine fotografiche sono da considerarsi esenti in quanto hanno la
medesima funzione di un'insegna di esercizio ed sono inferiori alla misura
di 5 mq prevista per l'esenzione delle insegne. L'esenzione, invece, era
stata negata dal giudice d'appello perché l'insegna ha lo scopo di indicare
al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività economica, mentre le
insegne ubicate in luoghi diversi dalla sede sono soggetti all'imposta.
La Corte per risolvere la controversia ha quindi dovuto verificare se la
cabina fotografica potesse essere, o meno, considerata come sede della
società. La risposta è stata negativa.
La decisione
La normativa sull'imposta di pubblicità fa genericamente riferimento alla
"sede" dell'attività, sicché occorre rifarsi alla nozione civilistica, che
distingue tra sede legale, risultante dall'atto costitutivo e dallo statuto
della società, e sede effettiva intendendosi per tale «il luogo in cui hanno
concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente ed
ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti».
Alla luce di queste precisazioni, per la Corte è «di intuitiva evidenza che
le cabine per fototessera e/o le postazione automatiche di distribuzione di
cibi o bevande non possono essere ricondotte né al concetto di sede legale
né a quello di sede effettiva di esercizio dell'attività sociale come sopra
richiamati, e neppure può ipotizzarsi un rapporto pertinenziale con la sede
della società, in ragione dell'ampia diffusione territoriale che impedisce a
monte la stessa configurabilità di un rapporto durevole di servizio del
singolo distributore alla sede sociale».
In conclusione, i mezzi esposti sulle cabine fotografiche, che riproducono
le modalità di utilizzo e i servizi resi, costituiscono dei veri è propri
mezzi pubblicitari autonomamente assoggettabili a imposta di pubblicità in
quanto idonei a far conoscere a un numero indiscriminato di possibili
clienti i prodotti ottenibili
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.04.2019).
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MASSIMA
1.2. Nel merito, il motivo è infondato.
La CTR, sul punto, ha confermato la sentenza di primo grado, ritenendo che i
pannelli apposti sulle cabine in questione non hanno la caratteristica di
insegna di esercizio, definita dall'art. 47 del d.P.R. n. 495/1992 come "scritta
con caratteri alfanumerici installata nella sede della società" e,
pertanto, "prescindono dal soggetto commerciale o imprenditoriale che
operi in quella sede, da individuare nell'installatore dell'apparecchio
automatico, con diversa sede dell'azienda, ed indicano soltanto il luogo di
fornitura del servizio e la qualità del prodotto, assumendo esclusiva
valenza pubblicitaria".
La ricorrente assume, invece, che il giudice tributario avrebbe dovuto
riconoscere l'esenzione dal tributo, come prevista dall'art. 17 comma 1-bis,
del d.lgs. n. 507 del 1994, in ragione del fatto che le strutture in
questione riportavano la descrizione del servizio offerto, come emergerebbe
dallo stesso avviso di accertamento di cui è causa, e, pertanto, erano
destinate alla comunicazione al pubblico dello specifico servizio offerto da
ogni postazione, dovendo conseguentemente qualificarsi insegne di esercizio,
e non pubblicità, potendo quest'ultima ravvisarsi solo in presenza di
cartelli svincolati dal luogo di esercizio dell'attività.
Giova ricordare che, in linea generale, i presupposti
applicativi dell'imposta di cui si discorre sono disciplinati dall'art. 5
del d.lgs. n. 507 del 1993, a mente del quale "la diffusione di messaggi
pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o
acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche
affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi
percepibile è soggetta all'imposta sulla pubblicità prevista nel presente
decreto. Ai fini dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi
diffusi nell'esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la
domanda di beni o serviti, ovvero finalizzati a migliorare l'immagine del
soggetto pubblicato".
A sua volta, l'art. 17 del medesimo d.lgs. n. 507/1993
stabilisce i casi di esenzione dall'imposta, prevedendo al comma 1-bis, per
quanto qui rileva, che "l'imposta non è dovuta per le insegne di
esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che
contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono,
di superficie complessiva fino a cinque metri quadrati".
L'art. 2-bis, comma 6, del d.l. 22/2/2002, n. 13, convertito in 1.
14/04/2002 n. 75, ha poi chiarito che "si definisce
insegna di esercizio la scritta di cui all'articolo 47, comma 1, del
regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 16.12.1992, n.
495, che abbia la funzione di indicare al pubblico il luogo di
svolgimento dell'attività economica. In caso di pluralità di insegne
l'esenzione e' riconosciuta nei limiti di superficie di cui al comma 1".
Di analogo tenore è il richiamato art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del
1992, che definisce "insegna" "la scritta in
caratteri alfanumerici, completata eventualmente da un simbolo o da un
marchio realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura,
installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze
accessorie alla stessa. Può essere luminosa sia per luce propria che per
luce indiretta".
Ne deriva che le insegne ubicate in luoghi diversi dalla sede sono soggetti
all'imposta (Cass., sez. 5,
11/05/2012, n. 7348, Rv. 622894 - 01).
Ciò posto, nella fattispecie in esame, in cui pacificamente si discorre di
pannelli apposti su distributori automatici (cabine per foto, foto per
documenti, fototessera, ecc.), ai fini della applicazione dell'esenzione ai
sensi della norma invocata dalla ricorrente, correttamente la sentenza
impugnata ha in primo luogo valutato se le postazioni di distribuzione
automatica possano essere configurate quali "sedi" di svolgimento
dell'attività commerciale, giungendo correttamente ad escludere tale
possibilità.
Invero, la sentenza impugnata impropriamente afferma che l'art. 47 del
d.P.R. n. 495/1992 indichi la "sede della società", posto che
l'espressione effettivamente inserita nella norma citata è "sede
dell'attività", ma ciò non incide sulla necessità di individuare il
concetto di "sede" in senso giuridico e non, come sostenuto dalla
ricorrente, in senso atecnico, ossia quale "luogo" genericamente
inteso.
In proposito, va richiamato il precedente di questa Corte,
cui il Collegio intende dare continuità, che, in un analogo caso, ha escluso
la riconducibilità dei distributori automatici al concetto di "sede"
(cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, Rv. 634248 - 01).
A tale conclusione la citata sentenza è pervenuta
osservando che non è rinvenibile altra nozione normativa, ai fini
civilistici, di sede delle persone giuridiche (qual è l'odierna ricorrente,
in quanto società di capitali avente, quindi, personalità giuridica), se non
quella formale (c.d. sede legale) risultante dall'atto costitutivo e dallo
statuto (cfr. artt. 46 e 16 c.c.), alla quale si aggiunge correntemente, per
l'equiparazione a determinati effetti nei confronti dei terzi, la nozione di
sede effettiva, tale intendendosi il luogo in cui hanno concreto svolgimento
le attività amministrative e di direzione dell'ente ed ove operano i suoi
organi amministrativi o i suoi dipendenti
(cfr. Cass., sez. L, 12.03.2009, n. 6021, Rv. 607263 - 01; Cass., sez. L,
13.04.2004, n. 7037, Rv. 572032 - 01).
Tanto premesso, risulta di intuitiva evidenza che le cabine
per fototessera e/o le postazione automatiche di distribuzione di cibi o
bevande non possono essere ricondotte né al concetto di sede legale né a
quello di sede effettiva di esercizio dell'attività sociale come sopra
richiamati, e neppure può ipotizzarsi un rapporto pertinenziale con la sede
della società, in ragione dell'ampia diffusione territoriale che impedisce a
monte la stessa configurabilità di un rapporto durevole di servizio del
singolo distributore alla sede sociale.
A tali considerazioni deve aggiungersi l'ulteriore rilievo,
decisivo al fine di escludere che al punto automatico di esercizio
dell'attività possa attribuirsi la qualificazione di "sede", che tale
concetto viene a costituire nella fattispecie in esame il presupposto per
l'applicazione di una norma, quale il menzionato art. 17, comma 1-bis, del
d.lgs. n. 507/1993, che prevede un'esenzione fiscale, come tale da ritenersi
di stretta interpretazione (cfr.
Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, in motivazione).
La sentenza impugnata, pertanto, ha correttamente affermato
che le cabine automatiche non possono considerarsi "sede" della
società, ed è conseguentemente pervenuta ad una corretta decisione di
esclusione del diritto all'esenzione, atteso che tale circostanza osta
all'applicabilità dell'art. 17, comma 1 bis del d.lgs. n. 507/1993, invocato
dalla ricorrente.
Resta assorbito l'ulteriore argomento dedotto dalla società ricorrente in
riferimento alla asserita irrilevanza, ai fini dell'applicabilità della
esenzione, dell'eventuale concorso dello scopo pubblicitario con la funzione
propria della insegna stessa, siccome desumibile dal precedente di questa
Corte n. 23021 del 2009 e dall'art. 2, capo 3, del D.M. 07.01.2003: tale
questione, infatti, attiene al contenuto dell'insegna e presuppone che si
tratti di "insegna" installata nella "sede" dell'attività cui
si riferisce, requisito che, per quanto sopra evidenziato, non può ritenersi
sussistente nel caso in esame.
Esclusa l'applicabilità dell'esenzione, la sentenza impugnata ha quindi
correttamente confermato il rigetto del ricorso proposto in primo grado
dalla DE.AU., ritenendo, con accertamento in fatto non censurato né
censurabile in questa sede, che i mezzi esposti sulle cabine, riproducenti
le modalità di utilizzazione ed i servizi resi, costituissero mezzi
pubblicitari, in quanto "obiettivamente idonei a far conoscere
indiscriminatamente ad una massa di possibili acquirenti ed utenti
l'attività ed il prodotto".
Quest'ultima affermazione è infatti coerente con il principio, già affermato
da questa Corte e condiviso dal Collegio, secondo il quale,
ai fini dell'imposta sulla pubblicità, costituisce fatto imponibile
qualsiasi mezzo di comunicazione con il pubblico che risulti
-indipendentemente dalla ragione e finalità della sua adozione-
obbiettivamente idoneo a far conoscere indiscriminatamente alla massa
indeterminata di possibili acquirenti ed utenti cui si rivolge il nome,
l'attività ed il prodotto di una azienda, non implicando la funzione
pubblicitaria una vera e propria operazione reclamistica o propagandistica e
non essendo, quindi, la stessa incompatibile con altre finalità
(V. Cass., sez. 5, 30/06/2010, n. 15449, Rv. 613891 - 01).
Né la ricorrente ha mai prospettato nei gradi di merito (e tanto meno in
questa sede) che la comunicazione così realizzata possa essere ricondotta ad
altre ipotesi di esenzione, e specificamente a quelle previste dall'art. 17,
comma 1, lettere a) e b), del d.lgs n. 507/1993 con riferimento alle insegne
non riconducibili nella nozione di "insegna di esercizio",
contemplata dalla sola ipotesi di cui all'art. 17, comma 1-bis, del medesimo
decreto legislativo. |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
11 dpr 380/2001 legittima alla richiesta dei titoli edilizi il proprietario
o, comunque, il soggetto che abbia diritto di realizzare le opere oggetto di
istanza.
Fornita la prova sull’esistenza del titolo, l’Amministrazione non è tenuta
ad effettuare approfondite ricerche sull’esistenza di limiti al diritto di
proprietà, ove essi non siano stati evidenziati nel corso dell’istruttoria
procedimentale, non essendo l’Amministrazione chiamata a dirimere conflitti
tra titolari di diritti confliggenti.
Invero, “In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, una volta
verificata la legittimazione attiva all'ottenimento del predetto titolo,
sussiste l'obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte
dell'istante dei limiti privatistici soltanto alla condizione che tali
limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non
contestati, di modo che il controllo da parte dell'ente locale si traduca in
una semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere
ad un'accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici.
In base all'art. 11, d.P.R. n. 380/2001, il Comune nel verificare
l'esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo
di godimento sull'immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma deve
accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che
richiede il permesso.
In tal senso, l'Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di
istruttoria che comprende l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a
dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi
propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione, senza che
l'esame del titolo di godimento operato dalla P.A. costituisca
un'illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al
controllo autorizzatorio.
Pertanto, al fine di non aggravare il procedimento, l'Amministrazione non è
tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, ma deve prendere in
considerazione solo gli impedimenti già accertati in seguito
all'espletamento di un'adeguata istruttoria”.
---------------
9. Con il VI motivo è dedotta la violazione art. 11 dpr 380/2001 con
specifico riguardo all’installazione della fascia di protezione del muro
romano poiché –afferma il ricorrente– “parte delle opere sono su
proprietà privata di terzi”.
A fronte delle difese di controinteressato e Comune, i quali affermano che
la fascia di protezione sarà realizzata sul suolo di proprietà Comunale
concesso in uso alla controinteressata, i ricorrenti hanno precisato che il
vizio sussisterebbe in ogni caso, poiché la protezione è destinata ad essere
installata sulle griglie di aerazione di proprietà dei ricorrenti.
Il motivo non è fondato.
L’art. 11 legittima alla richiesta dei titoli edilizi il proprietario o
comunque il soggetto che abbia diritto di realizzare le opere oggetto di
istanza.
Fornita la prova sull’esistenza del titolo, l’Amministrazione non è tenuta
ad effettuare approfondite ricerche sull’esistenza di limiti al diritto di
proprietà, ove essi non siano stati evidenziati nel corso dell’istruttoria
procedimentale, non essendo l’Amministrazione chiamata a dirimere conflitti
tra titolari di diritti confliggenti (cfr. ex multis TAR Milano,
(Lombardia) sez. II, 01/06/2018, n. 1398: “In sede di rilascio del titolo
abilitativo edilizio, una volta verificata la legittimazione attiva
all'ottenimento del predetto titolo, sussiste l'obbligo per il Comune di
verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici
soltanto alla condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o
immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da
parte dell'ente locale si traduca in una semplice presa d'atto dei limiti
medesimi senza necessità di procedere ad un'accurata e approfondita disamina
dei rapporti civilistici.
In base all'art. 11, d.P.R. n. 380/2001, il Comune nel verificare
l'esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo
di godimento sull'immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma deve
accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che
richiede il permesso.
In tal senso, l'Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di
istruttoria che comprende l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a
dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi
propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione, senza che
l'esame del titolo di godimento operato dalla P.A. costituisca
un'illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al
controllo autorizzatorio.
Pertanto, al fine di non aggravare il procedimento, l'Amministrazione non è
tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, ma deve prendere in
considerazione solo gli impedimenti già accertati in seguito
all'espletamento di un'adeguata istruttoria”)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.03.2019 n. 342 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Assoluzione
e niente sanzioni disciplinari: al dipendente gli arretrati per tutta la
sospensione.
La sospensione facoltativa del dipendente pubblico sottoposto a procedimento
penale è priva di titolo qualora, all'esito del processo, l'ente datore di
lavoro non attivi il procedimento disciplinare. Il dipendente assolto, poi,
non ha alcun onere di attivarsi per la tempestiva ripresa del procedimento
disciplinare comunicando all'amministrazione l'esito del processo a suo
carico.
È quanto precisato nella
sentenza 19.03.2019 n. 7657 della Sez. lavoro della
Corte di Cassazione in cui altresì si afferma che nel caso in cui
il procedimento disciplinare non sia riattivato, o nel caso in cui non sia
irrogata alcuna sanzione, il dipendente ha diritto a ottenere le
retribuzioni non percepite per tutto il periodo di sospensione.
Il caso
Protagonista della vicenda è un dipendente pubblico della Regione Campania
il quale, a metà degli anni '90, veniva indagato e processato per diversi
reati, alcuni dei quali venivano dichiarati estinti per prescrizione nel
1999 dal Tribunale di Napoli, mentre per altro titolo di reato nel 2003
giungeva una sentenza di assoluzione dalla Corte di cassazione. Nelle more
del procedimento penale, la giunta regionale decideva di sospendere il
dipendente dal servizio, in attesa di conoscere l'esito della vicenda, senza
però mai aprire il procedimento disciplinare a suo carico.
Così dopo la
sentenza di assoluzione per l'ultimo reato contestatogli, il lavoratore
chiedeva la riammissione in servizio e la restitutio in integrum, ovvero la
differenza tra la retribuzione di norma spettante e l'assegno alimentare a
lui corrisposto dall'ente durante il periodo di sospensione cautelare.
L'Amministrazione negava però la richiesta economica, in quanto il
dipendente non aveva informato tempestivamente il suo datore di lavoro del
proscioglimento per prescrizione che avrebbe di per sé fatto cessare la
sospensione dal servizio.
La decisione
Dopo i primi due gradi di giudizio che negavano la richiesta economica a
causa della «inerzia del lavoratore», la questione è arrivato in Cassazione
dove il dipendente sottolineava che se inerzia vi è stata, è sicuramente
quella della stessa amministrazione, che dimenticava di attivarsi nel
riavviare il procedimento disciplinare, essendo d'altra parte già informata
dell'esito del procedimento penale dall'autorità giudiziaria.
La difesa ha colto nel segno e portato la Suprema corte ad annullare il
verdetto di merito precisando che non sussiste alcun obbligo di
collaborazione o dovere di comunicazione a carico del dipendente sottoposto
a processo penale e sospeso dal servizio.
I giudici di legittimità sul punto
evidenziano poi il «carattere della provvisorietà e della rivedibilità»
della sospensione cautelare, quale misura cautelare e interinale, la quale
può sfociare in sanzione disciplinare o al contrario venire caducata negli
effetti all'esito del procedimento disciplinare. La sanzione cautelare,
inoltre quando è adottata, discrezionalmente, in pendenza di procedimento
penale, mira ad evitare che «la permanenza in servizio del dipendente
inquisito possa pregiudicare l'immagine e il prestigio
dell'amministrazione».
Se poi il procedimento disciplinare non si riattivi dopo l'assoluzione o si
concluda favorevolmente al dipendente, prosegue il Collegio, a costui spetta
il diritto la restitutio in integrum. La sospensione cautelare irrogata
dall'ente al dipendente non fa venir meno l'obbligazione retributiva, ma
semplicemente la sospende e solo quando il procedimento si concluda in senso
sfavorevole al lavoratore con la sanzione del licenziamento «il diritto alla
retribuzione viene definitivamente meno, in quanto gli effetti della
sanzione retroagiscono al momento dell'adozione della misura cautelare».
In caso di esito favorevole, invece, «il rapporto riprende il suo corso dal
momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di
corrispondere le retribuzione arretrate»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019).
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MASSIMA
3. E' invece fondata la censura con la quale si assume che il diritto
alla restitutio in integrum, in relazione al periodo di sospensione
facoltativa, non poteva essere negato a fronte della pacifica mancata
riattivazione del procedimento disciplinare, dopo la definizione di quello
penale.
Questa Corte è stata più volte chiamata a pronunciare sulla natura della
sospensione cautelare (fra le più recenti Cass. nn. 5147/2013, 15941/2013,
26287/2013, 13160/2015, 9304/2017, 18849/2017, 10137/2018, 20708/2018) e, in
linea con i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa e
costituzionale, ha evidenziato che la sospensione, in
quanto misura cautelare e interinale, «ha il carattere della
provvisorietà e della rivedibilità, nel senso che solo al termine e secondo
l'esito del procedimento disciplinare si potrà stabilire se la sospensione
preventiva applicata resti giustificata e debba sfociare nella destituzione
o nella retrocessione, ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti»
(Corte Cost. 06.02.1973 n. 168).
Si è sottolineato in relazione alla sospensione facoltativa
che la stessa è solo finalizzata a impedire che, in pendenza di procedimento
penale, la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa
pregiudicare l'immagine e il prestigio dell'amministrazione di appartenenza,
la quale, quindi, è tenuta a valutare se nel caso concreto la gravità delle
condotte per le quali si procede giustifichi l'immediato allontanamento
dell'impiegato.
Ove l'amministrazione, valutati i contrapposti interessi in gioco, opti per
la sospensione, in difetto di una diversa espressa previsione di legge o di
contratto, opera il principio generale secondo cui «quando la mancata
prestazione dipenda dall'iniziativa del datore di lavoro grava su quest'ultimo
soggetto l'alea conseguente all'accertamento della ragione che ha
giustificato la sospensione»
(Corte Cost. n. 168/1973).
La verifica dell'effettiva sussistenza di ragioni idonee a
giustificare l'immediato allontanamento è indissolubilmente legata all'esito
del procedimento disciplinare, perché solo qualora quest'ultimo si concluda
validamente con una sanzione di carattere espulsivo potrà dirsi giustificata
la scelta del datore di lavoro di sospendere il rapporto, in attesa
dell'accertamento della responsabilità penale e disciplinare.
Sulla base di detti principi il diritto alla restitutio in integrum è
stato riconosciuto nell'ipotesi di annullamento della sanzione inflitta
(Cass. n. 26287/2013), di mancata conclusione del procedimento disciplinare
a causa del decesso del dipendente (Cass. n. 13160/2015), di irrogazione di
una sanzione meno afflittiva rispetto alla sospensione cautelare sofferta
(Cass. nn. 5147/2013 e 9304/2017), di omessa riattivazione del procedimento
in conseguenza delle dimissioni (Cass. n. 20708/2018) o del pensionamento
(Cass. n. 18849/2017) e ciò a prescindere dalla espressa previsione della
legge o della contrattazione collettiva.
3.1. Alle medesime conclusioni è pervenuta la giurisprudenza amministrativa
nel suo massimo consesso (Cons. Stato Ad. Plen. 28.02.2002 n. 2) che,
evidenziata la necessità di interpretare gli artt. 96 e 97 del d.P.R. n.
3/1957 alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale sulla
natura della sospensione, ha ritenuto che in caso di omissione del
procedimento disciplinare, anche l'eventuale condanna penale, intervenuta
nei confronti dell'impiegato, non è suscettibile di tenere ferma la
sospensione cautelare dal servizio, disposta in corso di procedimento penale
e stabilita dall'amministrazione in via discrezionale, non potendosi
ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico
contenuto.
Si è aggiunto che essendo la sospensione cautelare dal servizio adottata in
base ad una valutazione discrezionale dell'Amministrazione (con eccezione
della ipotesi della emissione del mandato o ordine di cattura nei confronti
del dipendente) non è corretto ritenere la non imputabilità
dell'interruzione del rapporto sinallagmatico all'Amministrazione medesima,
posto che è la stessa Amministrazione che valuta i presupposti per
l'adozione della misura e ne determina i contenuti. Quando poi nella sede
propria degli accertamenti definitivi emerga che la sospensione non era
giustificata, in tutto o in parte, non può essere addebitabile al dipendente
l'interruzione del rapporto di servizio ed il mancato adempimento della
prestazione (Cons. Stato Ad. plen. 02.05.2002 n. 4).
3.2. Ai richiamati principi, qui ribaditi perché condivisi dal Collegio, si
deve aggiungere che il diritto alla restitutio in integrum ha natura
retributiva e non risarcitoria.
Il potere del datore di lavoro di estromettere temporaneamente dall'azienda
o dall'ufficio il dipendente sottoposto a procedimento penale è espressione
del generale potere organizzativo e direttivo e trova fondamento
costituzionale, quanto all'impiego privato, nell'art. 41 Cost. e in
relazione all'impiego pubblico nell'art. 97 Cost., perché finalizzato a
garantire, in pendenza del procedimento penale, la corretta gestione
dell'impresa o l'efficienza e l'imparzialità della Pubblica Amministrazione.
La misura cautelare, per il suo carattere unilaterale, non fa venir meno
l'obbligazione retributiva che, nei casi in cui la stessa sia oggetto di
disciplina da parte della legge o della contrattazione collettiva, è solo in
tutto o in parte sospesa ed è sottoposta alla condizione dell'accertamento
della responsabilità disciplinare del dipendente.
Solo qualora il procedimento si concluda sfavorevolmente per il dipendente
con la sanzione del licenziamento, il diritto alla retribuzione viene
definitivamente meno, in quanto gli effetti della sanzione retroagiscono al
momento dell'adozione della misura cautelare; viceversa qualora la sanzione
non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura tale da non giustificare
la sospensione sofferta, il rapporto riprende il suo corso dal momento in
cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le
retribuzioni arretrate, dalle quali dovranno essere detratte solo quelle
relative al periodo di privazione della libertà personale perché in tal
caso, anche in assenza dell'atto datoriale, il dipendente non sarebbe stato
in grado di rendere la prestazione.
3.3. Occorre ancora aggiungere che il legislatore, prima, e le parti
collettive, poi, nel prevedere la tempestiva riattivazione del procedimento
disciplinare, all'esito della definizione di quello penale che ha dato causa
alla misura cautelare, ha posto un preciso onere a carico delle
amministrazioni, che, una volta fatto ricorso alla misura cautelare, non
possono rimanere inerti e devono sollecitamente adottare tutte le iniziative
necessarie a consentire una tempestiva ripresa del procedimento.
I rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare nell'impiego
pubblico contrattualizzato nel tempo sono stati disciplinati dall'art. 97
del d.P.R. n. 3/1957, dalla contrattazione collettiva, dalla legge n.
97/2001, dall'art. 55-ter del d.lgs. n. 165/2001, inserito dal d.lgs. n.
150/2009 e recentemente modificato dal d.lgs. n. 75/2017. Il legislatore, al
fine di consentire alle Pubbliche Amministrazioni di avere tempestiva
notizia dei processi penali avviati a carico di dipendenti pubblici e del
loro esito, ha imposto precisi oneri di comunicazione a carico del Pubblico
Ministero (art. 129 disp. att. cod. proc. pen.) e della cancelleria del
giudice che ha emesso il provvedimento (art. 154-ter disp. att. cod. proc.
pen.) e con l'art. 97 aveva anche attribuito all'impiegato pubblico il
potere di far decorrere termini sensibilmente ridotti per la riattivazione,
provvedendo egli alla notifica della sentenza stessa all'amministrazione.
Né il legislatore nei diversi interventi normativi né, tanto meno, le parti
collettive hanno mai previsto a carico del dipendente sottoposto a processo
penale e sospeso dal servizio, un obbligo di collaborazione e un dovere di
comunicazione delle sentenze penali, a prescindere dalla natura e dal
contenuto di dette decisioni.
Ha osservato al riguardo la Corte Costituzionale che la
facoltà concessa all'impiegato di attivarsi per far cessare lo stato di
sospensione non può essere trasformata in un obbligo o in un onere, «peraltro
a rischio di colui a carico del quale tale onere verrebbe imposto, di
sollecitare l'apertura o la prosecuzione del procedimento stesso che
potrebbe risolversi in senso a lui sfavorevole. Non sarebbe difatti
ragionevole che, per far cessare una situazione di incertezza che il
legislatore ha ancorato al trascorrere di un termine congruo, si debba
accollare, a colui che ha un interesse addirittura contrapposto
all'esercizio del potere disciplinare, l'onere di sollecitarlo, tenuto conto
che l'ordinamento, per esigenze di certezza del tutto analoghe, già conosce
ipotesi, come quelle attinenti alla prescrizione di reati, nelle quali
l'estinzione del potere punitivo in relazione al mero trascorrere del tempo
non è subordinata ad alcun onere da parte del soggetto che ne beneficia, né,
tanto meno, alla conoscibilità del fatto illecito»
(Corte Cost. n. 264/1990).
3.5. Ai principi di diritto sopra richiamati non si è attenuta la Corte
territoriale che, come evidenziato nello storico di lite, ha ritenuto di
dover respingere la domanda per il solo fatto che il De. non avesse
tempestivamente notiziato l'amministrazione dell'avvenuto passaggio in
giudicato della sentenza n. 3103/1999, con la quale il Tribunale di Napoli
aveva dichiarato estinto per prescrizione uno dei reati in relazione ai
quali la sospensione dal servizio era stata disposta.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione alle censure
accolte, con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo, che
procederà ad un nuovo esame, limitatamente alla pretesa retributiva fatta
valere per il periodo successivo al 30.06.1998, attenendosi ai principi di
diritto richiamati nei punti che precedono e che di seguito si sintetizzano:
«nell'impiego pubblico contrattualizzato la sospensione
facoltativa del dipendente sottoposto a procedimento penale, in quanto
misura cautelare e interinale, diviene priva di titolo qualora all'esito del
procedimento penale quello disciplinare non venga attivato. Il diritto del
dipendente alla restitutio in integrum, che ha natura retributiva e non
risarcitoria, sorge ogniqualvolta la sanzione non venga inflitta o ne sia
irrogata una di natura ed entità tali da non giustificare la sospensione
sofferta. L'onere di attivarsi per consentire la tempestiva ripresa del
procedimento disciplinare, una volta definito quello penale, grava
sull'amministrazione e non sul dipendente pubblico, sicché non rileva, né
può fare escludere il diritto al pagamento delle retribuzioni non
corrisposte durante il periodo di sospensione facoltativa, la circostanza
che l'incolpato non abbia tempestivamente comunicato al datore di lavoro la
sentenza passato in giudicato di definizione del processo penale
pregiudicante». |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
polizia municipale non può essere subordinata a un'altra struttura comunale.
Il Comune non può inserire il corpo/servizio di polizia locale quale
struttura intermedia in una più ampia articolazione burocratica.
Lo ha ribadito il TAR Campania-Napoli, Sez. V, con la
sentenza 18.03.2019 n. 1470.
La vicenda
Un dirigente della polizia municipale ha impugnato gli atti relativi alla
macro organizzazione di un Comune che aveva inserito la polizia Municipale
all'interno del settore amministrativo ritenendo che l'Ente non poteva
collocare la polizia locale quale struttura intermedia in una più ampia
articolazione burocratica.
La decisione
Il Tar ha rilevato che non vi è omogeneità tra la polizia municipale e il
settore amministrativo e che una tale organizzazione inficia l'autonomia
delle funzioni dello stesso servizio di polizia locale. L'istituzione del
corpo/servizio di polizia municipale dà vita a una entità organizzativa
unitaria completamente autonoma da altre strutture organizzative del comune
(un corpo, appunto, che assomiglia ai corpi militari dai quali mutua anche i
gradi gerarchici), costituita dall'aggregazione di tutti i dipendenti
comunali che esplicano, a vari
Livelli, i servizi di polizia locale
Al vertice di questa aggregazione unitaria è posto un comandante (anch'egli
vigile urbano) che ha la responsabilità del corpo e ne risponde direttamente
al sindaco. Ciò è tanto vero che la legge 65/1986, contempla uno status
giuridico ed economico differenziato rispetto a quello degli altri
dipendenti comunali, sia pure nel rispetto dei principi generali contenuti
nella legge quadro sul pubblico impiego. Invero, a tutti gli addetti della
polizia municipale sono attribuite le funzioni di polizia giudiziaria, di
polizia stradale e di pubblica sicurezza con riconoscimento della relativa
qualità.
L'autonomia del corpo di polizia municipale è connaturale alla specificità
delle funzioni del personale che vi appartiene, stante l'attribuzione in via
ordinaria a tutti gli addetti della polizia municipale delle funzioni di
polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica sicurezza con
riconoscimento della relativa qualità.
Le competenze attribuite dall'ordinamento (articoli 3 e 5 della legge
65/1986) al corpo di polizia municipale consistono, in misura assolutamente
prevalente, in compiti di prevenzione e vigilanza sull'osservanza di norme e
di regolamenti nei settori di competenza comunale; di accertamento e di
contestazione delle eventuali infrazioni; di adozione di provvedimenti
sanzionatori. A queste attività si aggiunge l'espletamento di funzioni di
polizia giudiziaria, di polizia stradale e, in determinate circostanze, di
pubblica sicurezza.
Nell'ambito dell'organizzazione comunale, quindi, deve essere sempre
garantita la totale autonomia del corpo di polizia municipale specie per
quanto concerne le competenze previste dall'articolo 9 della legge 65/1986.
Per queste ragioni la polizia municipale, specie se costituita in corpo, non
può essere considerata una struttura intermedia (nella specie una sezione)
di un compendio burocratico più ampio, né può essere posta alle dipendenze
del dirigente amministrativo responsabile della struttura burocratica
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.05.2019).
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MASSIMA
I. Parte ricorrente, vincitrice del concorso pubblico per titoli ed esami
indetto dall’Amministrazione resistente con bando del 16.04.2013, assunta
dal Comune di Giugliano in Campania con contratto di lavoro a tempo
indeterminato quale “Dirigente del Settore Polizia Municipale e servizi
al Cittadino con funzioni di Comandante della P.M.”, impugna, unitamente
agli atti conseguenti, le deliberazioni di G.C., n. 188 del 29.12.2017 e n.
12 del 08.02.2018, aventi ad oggetto le modifiche dell'assetto organizzativo
dell'Ente, nella parte in cui dispongono e confermano l'accorpamento del “Settore
Polizia Municipale al Settore Servizi Sociali ed Educativi” del Comune
di Giugliano in Campania, ponendo tale macro-settore alle dipendenze di un
dirigente amministrativo, figura intermedia, nominata, poi, nel caso
specifico, anche Comandante del Corpo (decreto n. 119/2018), con supposta
lesione della autonomia ed indipendenza del Servizio di pertinenza.
I.1. Con tali atti, in particolare, l’Amministrazione comunale ha
strutturato il Servizio di Polizia locale in quattro posizioni organizzative
(Affari Generali del Comando, Polizia Giudiziaria, Polizia stradale,
Protezione civile), sottoposte al potere direttivo del responsabile del
predetto neo istituto Settore, individuato in un dirigente amministrativo
non necessariamente provvisto della qualifica di Comandante della Polizia
municipale né, tanto meno, appartenente al Corpo.
I.2. In conseguenza di tali atti di macro-organizzazione, il Sindaco con
propri decreti, parimenti gravati, ha, poi, nominato i dirigenti
responsabili dei vari settori comunali: ...
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V. Il ricorso è, in parte, fondato, in parte, inammissibile.
VI. E’ preliminarmente da accogliere l’eccezione in rito quanto
all’impugnativa avverso il conferimento degli incarichi vertendosi in
materia di meri atti di gestione del rapporto di lavoro.
VI.1. Invero, “in tema di impiego pubblico privatizzato, ai sensi
dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, sono attribuite alla
giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie inerenti ad ogni
fase del rapporto di lavoro, incluse quelle concernenti l’assunzione al
lavoro ed il conferimento di incarichi dirigenziali, mentre la riserva in
via residuale alla giurisdizione amministrativa, contenuta nel comma 4 del
citato art. 63, concerne esclusivamente le procedure concorsuali,
strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A.” (Cassazione
civile, sez. un., 05.04.2017, n. 8799).
Deve pertanto essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione
il gravame proposto contro gli specifici provvedimenti di incarico di
posizioni organizzative con funzioni dirigenziali.
Non possono conseguentemente essere scrutinate tutte le eccezioni sollevate
dal controinteressato costituito, dr. Pe., vice Comandante della P.M.,
con riferimento, in primo luogo, alla sopravvenuta improcedibilità del
gravame quanto al decreto n. 24 del 09.01.2018, del quale è risultato
destinatario, per essere medio tempore stato collocato a riposo d’ufficio
per il raggiungimento dei requisiti di anzianità di servizio con decorrenza
dal 01.12.2018.
Parimenti è a dirsi, in secondo luogo, quanto all’eccepita
inammissibilità dell’impugnativa avverso l’incarico di affidamento della
dirigenza del Settore Polizia municipale e Servizi sociali all’altro controinteressato, dr. Pe. (decreto sindacale n. 284 del 29.12.2017) per
omessa notifica nei suoi confronti del ricorso introduttivo benché parte
necessaria ai sensi dell’art. 41 c.p.a..
L’inoppugnabilità del decreto di
affidamento di tale incarico dirigenziale eliderebbe, a parere del predetto controinteressato, l’interesse anche all’impugnazione della delibera di
riorganizzazione dei settori comunali. Analogamente deve argomentarsi quanto
all’eccezione di improcedibilità avanzata dall’Amministrazione resistente,
relativamente all’impugnativa proposta, sempre con il ricorso principale,
avverso i primi decreti sindacali per essere gli stessi a termine, con
scadenza alla data del 31.03.2018.
La carenza di giurisdizione impedisce a questo Collegio di sindacare le
eccezioni proposte.
VI.2. Infondata è, invece, l’eccezione relativa alla tardività dei motivi
aggiunti, posto che il giudizio verte sulla illegittimità dell’accorpamento
dei Settori Polizia Locale – Servizi Sociali del Comune così come
originariamente disposto con la deliberazione giuntale n. 188/2017 e solo
confermato con la successiva deliberazione di G.C. n. 12/2018, in assenza di
qualsivoglia istruttoria e/o rinnovata valutazione sul punto. Nella specie,
tale ultimo atto ha disposto modifiche all’assetto organizzativo dell’Ente
già fissato con la precedente delibera n. 188/2017 solo nella parte relativa
ai settori “Idrico Fognario e Manutentivo” e “Ambiente e Lavori Pubblici”,
restando completamente inalterata la precedente organizzazione del Settore
Polizia Municipale e Servizi Sociali, oggetto del presente giudizio.
In definitiva, la delibera di G.C. n. 12/2018, si configura, sul punto
(ovvero sulla struttura del Settore Polizia Locale e Servizi Sociali), quale
atto meramente confermativo della precedente delibera n. 188/2017, con la
conseguenza che lo stesso, non essendo autonomamente impugnabile, non può
mai determinare la improcedibilità del ricorso originariamente proposto
avverso l’atto confermato (cfr. Cons. di St., sez. IV, 28.06.2016, n.
2914).
VI.3. E’, altresì, priva di pregio l’eccezione relativa al supposto difetto
di interesse alla impugnativa avverso gli atti di macro-organizzazione in
ragione della dedotta carenza di diretta lesività della condizione
professionale della ricorrente che, di contro, avrebbe, invece, prestato
acquiescenza al successivo decreto sindacale, n. 283 del 29.12.2017,
notificato in data 02.01.2018, confermato con successivo decreto n. 118 del
03.05.2018, con cui, in asserita esecuzione agli atti organizzativi, la
stessa sarebbe stata nominata e confermata dirigente del Settore Servizi
Demografici ed elettorale, in luogo del Comando della Polizia Municipale.
Una volta consolidatosi l’attribuzione del nuovo e diverso incarico di
dirigente del Settore Servizi Demografici, la medesima non potrebbe più
trarre alcuna utilità dall’accoglimento delle censure avverso la
riorganizzazione della Polizia Municipale, avendo implicitamente rinunciato
all’incarico.
VI.3.1. L’eccezione è priva di pregio.
La ricorrente, vincitrice del concorso pubblico per titoli ed esami indetto
dall’Amministrazione resistente con bando del 16/04/2013 - è stata assunta
dal Comune di Giugliano in Campania, con contratto di lavoro a tempo pieno e
indeterminato, quale Dirigente “da assegnare al Settore Polizia Municipale e
servizi al Cittadino con funzioni di comandante della P.M.” e legittimamente
aspira a svolgere l’incarico per il quale è stata selezionata all’esito di
una procedura di evidenza pubblica e cui è correlato, in relazione alle
funzioni, un determinato trattamento economico.
In disparte gli anzidetti profili di giurisdizione, a fronte della censurata
riorganizzazione amministrativa, oggetto di tempestiva impugnativa, parte
ricorrente non avrebbe tratto alcun vantaggio dall’impugnativa di un
provvedimento comunque attributivo di un incarico di natura dirigenziale
nelle more della definizione del presente giudizio, in attesa, cioè, di
svolgere le funzioni di Comandante della P.M. per la cui attribuzione è
stata selezionata in quanto riconosciuta in possesso dei necessari requisiti
(specifici, per l’assunzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza
e con anzianità di servizio nella P.M., nelle FF.OO., presso enti o
organismi internazionali ovvero con rapporto di lavoro in regime di diritto
pubblico) risultando, poi, vincitrice nella comparazione effettuata, per
titoli e merito, rispetto agli altri partecipanti.
VII. Ciò posto, il ricorso è fondato quanto all’impugnativa avverso gli atti
di macro-organizzazione.
VII.1. Con il primo motivo di gravame, parte ricorrente censura la
violazione e falsa applicazione della l. n. 65/1986 e della l.r. della
Campania n. 12/2003.
VII.2. Con il secondo motivo di ricorso, parte ricorrente deduce la
violazione del Regolamento sull’ordinamento organizzativo del Corpo di
polizia locale del Comune di Giugliano approvato con deliberazione di G.C.
n. 175 del 18.05.2010 come modificato con deliberazione del Commissario
straordinario n. 104 del 05.12.2013.
Rileva, in particolare, una contraddittorietà estrinseca dell’agere
amministrativo nella misura in cui mentre detto regolamento salvaguarda la “specificità
e l’autonomia del Corpo della Polizia municipale”, tali finalità
sarebbero totalmente disattese nel provvedimento in contestazione.
VII.2.1. Le censure che, per connessione logico-giuridica, possono essere
trattate congiuntamente sono fondate.
VII.3. Con gli atti deliberativi gravati, il Comune ha strutturato il
Corpo/Servizio di Polizia Locale in quattro posizioni organizzative,
sottoposte al potere direttivo del responsabile della neo-istituita macro
area individuato in un dirigente amministrativo non necessariamente
provvisto della qualifica di Comandante della Polizia Municipale, e
comunque, pur se nominato tale, non espressamente appartenente al Corpo
ovvero alla medesima categoria di dipendenti, beneficiari di un peculiare
status.
VII.3.1. Orbene, tale modus operandi si pone in aperto contrasto con
la normativa nazionale e regionale di settore e, in particolare:
1) con la legge n. 65 del 07.03.1986, legge-quadro sull’ordinamento
della Polizia Municipale, che, pur statuendo che i Comuni definiscono con
proprio regolamento l’ordinamento e l’organizzazione del Corpo di polizia
municipale, dispone:
a) all’art. 7, comma 5, che: “l’ordinamento si
articola in: a) responsabile del Corpo (Comandante); b) addetti al
coordinamento e al controllo; c) operatori (vigili)”,
b) all’art. 9 comma 1, che: “Il comandante del
Corpo di Polizia municipale è responsabile verso il sindaco
dell’addestramento, della disciplina e dell’impiego tecnico-operativo degli
appartenenti al Corpo”;
c) all’art. 5, che: “1. Il personale che
svolge servizio di polizia municipale, nell'ambito territoriale dell'ente di
appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, esercita anche: a)
funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine la qualità di agente
di polizia giudiziaria, riferita agli operatori, o di ufficiale di polizia
giudiziaria, riferita ai responsabili del servizio o del Corpo e agli
addetti al coordinamento e al controllo, ai sensi dell'articolo 221, terzo
comma, del codice di procedura penale; b) servizio di polizia stradale, ai
sensi dell'articolo 137 del testo unico delle norme sulla circolazione
stradale approvato con decreto del Presidente della Repubblica 15.06.1959,
numero 393; c) funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza ai sensi
dell'articolo 3 della presente legge.
2. A tal fine il prefetto conferisce al suddetto personale, previa
comunicazione del sindaco, la qualità di agente di pubblica sicurezza ... 4.
Nell'esercizio delle funzioni di agente e di ufficiale di polizia
giudiziaria e di agente di pubblica sicurezza, il personale di cui sopra,
messo a disposizione dal sindaco, dipende operativamente dalla competente
autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza nel rispetto di eventuali
intese fra le dette autorità e il sindaco. 5. Gli addetti al servizio di
polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica
sicurezza possono, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale,
portare, senza licenza, le armi, di cui possono essere dotati in relazione
al tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi
regolamenti, anche fuori dal servizio, purché nell'ambito territoriale
dell'ente di appartenenza e nei casi di cui all'articolo 4...”;
2) con la legge regionale n. 12/2003, che, all’art. 11, ultimo
comma, stabilisce, ribadendo i principi di cui alla normativa nazionale, che
“nel rispetto del principio di separazione tra funzioni di indirizzo
politico-amministrativo e funzioni attinenti la gestione operativa dei
servizi di sicurezza urbana, i comandanti di polizia locale dipendono
unicamente dal sindaco o dal Presidente della Provincia”;
3) con la stessa normativa regolamentare invocata che statuisce:
- all’art. 2 comma 2, che “il Corpo di Polizia
Locale è diretto e coordinato dal Comandante, Dirigente del Settore a cui
sono affidate le relative funzioni, che è responsabile dell’addestramento,
della disciplina e della gestione del servizio”;
- al successivo comma 3 del medesimo articolo che
“il Settore cui sono affidate le funzione del Corpo di Polizia Locale,
articolazione dirigenziale di primo livello, esercita le sue funzioni
avvalendosi della propria struttura organizzativa articolata in servizi e
unità organizzative semplici e complesse”.
4) con l'art. 6 del vigente Regolamento degli Uffici e dei servizi
che stabilisce, poi, quanto segue:
- “la struttura organizzativa del Comune è
articolata in Settori, Servizi ed Unità operative complesse e semplici;
- … i Settori sono articolazioni dirigenziali di
primo livello e costituiscono le strutture organizzative di massima
dimensione dell'Ente, alle quali sono affidate funzioni ed attività fra loro
omogenee, che esercitano con autonomia operativa e gestionale, nell'ambito
degli indirizzi e degli obiettivi fissati dalla Giunta Comunale;
- … i Servizi sono articolazioni di secondo
livello e costituiscono strutture organizzative nelle quali è suddiviso il
Settore ed esso rappresenta, di norma, l'unità organizzativa complessa a cui
il Dirigente responsabile di Settore affida, con proprio provvedimento,
l'istruttoria dei singoli procedimenti compresi nell'ambito di competenza,
con responsabilità interna” (delibere n. 188 del 29.12.2017 e n. 12
dell’08.02.2018).
VII.3.2. Ora, con l’istituzione del Corpo/Servizio di Polizia municipale si
dà, pertanto, vita ad una entità organizzativa unitaria completamente
autonoma da altre strutture organizzative del comune (un Corpo, appunto, a
somiglianza del corpi militari dai quali mutuano anche i gradi gerarchici),
costituita dall’aggregazione di tutti i dipendenti comunali che esplicano, a
vari livelli, i servizi di polizia locale.
VII.3.2.1. Al vertice di questa aggregazione unitaria è posto un Comandante
(anch’egli vigile urbano) che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde
direttamente al Sindaco (cfr. Cons. di St., sez. V, 04.09.2000 n. 4663).
Ciò è tanto vero che la legge statale da ultimo richiamata –L. 65/1986–
contempla altresì uno status giuridico ed economico differenziato rispetto a
quello degli altri dipendenti comunali (art. 7, primo e terzo comma, della
legge n. 65 del 1986), sia pure nel rispetto dei principi generali contenuti
nella legge quadro sul pubblico impiego. Invero, a tutti gli addetti della
polizia municipale sono attribuite le funzioni di polizia giudiziaria, di
polizia stradale e di pubblica sicurezza con riconoscimento della relativa
qualità (art. 5 della legge n. 65 del 1986).
“L'autonomia del Corpo di Polizia Municipale è connaturale alla
specificità delle funzioni del personale che vi appartiene, stante
l'attribuzione in via ordinaria a tutti gli addetti della polizia municipale
delle funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica
sicurezza con riconoscimento della relativa qualità, per l'art. 5 della
legge n. 65 del 1986” (Cons. di St., sez. V, 16.01.2015, n. 75).
Ed invero, “Le competenze attribuite dall'ordinamento (artt. 3 e 5 della
legge 07.03.1986, n. 65) al corpo di polizia municipale consistono, in
misura assolutamente prevalente, in compiti di prevenzione e vigilanza
sull'osservanza di norme e di regolamento nei settori di competenza
comunale; di accertamento e di contestazione delle eventuali infrazioni; di
adozione di provvedimenti sanzionatori. A queste attività di aggiunge
l'espletamento di funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e, in
determinate circostanze, di pubblica sicurezza” (Cons. di Stato, sez.
III 10.07.2013, n. 3711).
VII.3.3. Lo stesso ordinamento regionale configura parimenti il
Corpo/Servizio di Polizia municipale come entità organizzativa distinta ed
autonoma dalle altre strutture dell’apparato comunale in ragione della
specifica caratterizzazione delle funzioni demandate al personale che vi
appartiene, in via ordinaria.
VII.3.4. Le richiamate disposizioni regolamentari confermano l’impossibilità
di determinare l’inserimento del Corpo/Servizio di Polizia Locale quale
struttura intermedia in una più ampia articolazione burocratica, vale a
dire, nella specie, in un Settore amministrativo, rispetto al quale non
presenta caratteristiche di omogeneità, inficiando nella specie l’autonomia
delle funzioni dello stesso servizio di Polizia municipale. Irrilevante è la
circostanza che tale modulo organizzativo sia stato già utilizzato in
passato.
VII.4. Dalla richiamata normativa discende allora che nell'ambito
dell'organizzazione comunale deve essere sempre garantita la totale
autonomia del Corpo di Polizia municipale specie per quanto concerne le
competenze di cui all'art. 9 della l. n. 65 del 1986, ed è anche per tali
ragioni che, la Polizia municipale, specie ove eretta in Corpo, non può
essere considerata in termini di struttura intermedia (nella specie come
Sezione) di un compendio burocratico più ampio (Settore amministrativo) né,
per tale incardinamento, essere posta alle dipendenze del dirigente
amministrativo cui è affidata la responsabilità di tale più ampia struttura
(TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 22.03.2011, n. 191, Cons. di St.,
sez. V, 27.08.2012, n. 4605; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 30.10.2017, n.
309).
VII.4.1. Quanto alla attribuzione delle funzioni di Comandante del Corpo:
1) posto che, come detto, “il servizio di Polizia municipale
costituisce funzionalmente un'entità organizzativa unitaria e autonoma dalle
altre strutture organizzative del Comune, derivante dall'aggregazione di
tutti dipendenti comunali che esplicano a vari livelli servizi di polizia
locale, con al vertice il Comandante che ha la responsabilità e ne risponde
direttamente al Sindaco”;
2) “l'attribuzione di funzioni gestionali e direzionali del
Corpo/Servizio di Polizia municipale ad altre figure professionali dell'Ente
appare violare l'intero assetto dei rapporti Comandante/Sindaco desumibile
dall'impianto della normativa di cui alle leggi n. 65/1986 e L.R. n. 17 del
1990, e si pone in contrasto con l'autonomia del servizio di Polizia
municipale rispetto gli altri servizi dell'amministrazione comunale (cfr. in
tal senso, TAR Sicilia-Catania, sez. II, 08.11.2013, n. 2709)” (TAR
Sicilia, Catania, sez. II, 21.07.2017, n. 1836);
3) “l'art. 7, 3° comma, l. 07.03.1986 n. 65 dispone che il Corpo
di Polizia municipale si articola nel responsabile del Corpo (Comandante),
negli addetti al coordinamento e al controllo ed infine negli operatori
(vigili)” (Cons. di St., sez. V, 17.09.1992, n. 813).
VII.5. Da quanto esposto, deriva, allora, l’illegittimità delle
deliberazioni giuntali impugnate poiché attraverso di esse il Corpo di
Polizia Locale del Comune di Giugliano in Campania è stato, di fatto, scisso
in quattro posizioni organizzative, assoggettate alla direzione di un
dirigente, privo della qualifica di Comandante di Polizia Municipale e
comunque, se pur nominato tale, non necessariamente appartenente alla
Polizia municipale.
VII.6. In definitiva, “secondo quanto dispone l'art. 9 L. n. 65/1986, il
Comandante della Polizia municipale è responsabile verso il Sindaco, il
quale a sua volta è l'organo titolare delle funzioni di Polizia locale che
competono al Comune (artt. 1 e 2); conseguentemente porre il Comandante
della Polizia municipale alle dipendenze di un funzionario del Comune
equivale a trasferire a quest'ultimo funzioni di governo che per legge
competono al Sindaco” (Cons. di Stato, sez. V, 17.02.2006, n. 616).
“In
riferimento alle competenze previste dall'art. 9, L. n. 65 del 1986, al
Corpo di Polizia municipale deve essere sempre garantita, nel contesto
dell'organizzazione comunale, la piena autonomia; ciò considerato, per
quanto concerne le succitate competenze, non è ammissibile che l'organo di
vertice del Corpo di Polizia municipale -Comandante- debba dipendere
direttamente da un dirigente e non, invece, dal Sindaco, o da un suo
delegato politico, come tassativamente previsto dalla L. n. 65 del 1996, non
interamente derogata dalla successiva privatizzazione del rapporto di
impiego pubblico” (TAR Puglia, Bari, sez. II, 12.03.2004, n. 1288).
Infatti, “il responsabile della Polizia municipale deve rispondere
direttamente al Sindaco dell'operato del Corpo e dei singoli addetti,
evidentemente in diretta connessione con il ruolo e le funzioni di ufficiale
di governo che l'ordinamento riconosce al Sindaco, oltre alle funzioni di
rappresentante e organo di vertice del comune quale ente pubblico. Pertanto
ogni interposizione di altro funzionario fra il Comandante di Polizia
municipale ed il Sindaco è da ritenersi illegittima, siccome in contrasto
con l'art. 9 l. 07.03.1986 n. 65 (Legge quadro sull'ordinamento della
polizia municipale)” (TAR Veneto, sez. II, 30.05.1997, n. 915).
VII.7. E’ irrilevante, a tali fini, che la Polizia Municipale del Comune di
Giugliano abbia sempre operato quale Servizio, collocato in Settori
(autonomi o accorpati), non essendo mai stato costituito formalmente il
Corpo che l’art. 7 della legge n. 65/1986 prevede come mera facoltà, dovendo
essere comunque assicurata la predetta autonomia funzionale e la diretta
dipendenza del Comandante, appartenente, quale organo di vertice, alla
stessa P.M., dal Sindaco, senza alcuna altra intermediazione.
VII.8. L’esigenza della rotazione degli incarichi dirigenziali
amministrativi, così come previsto dal Piano triennale per la prevenzione
della Corruzione 2017-2019, non comprende, pertanto, anche la figura di
vertice della Polizia municipale nel senso che tale posizione organizzativa
deve essere sempre attribuita a dipendenti che, in possesso dei richiesti
sopra citati requisiti, per lo status rivestito, siano comunque appartenenti
alla categoria di riferimento.
VII.9. Conclusivamente, gli atti deliberativi impugnati, dunque, nella parte
in cui hanno operato l’accorpamento del Settore Polizia Municipale in altra
entità organizzativa di dimensioni più ampie sottoposta, di norma, alla
direzione di un dirigente amministrativo, senza altra specificazione, si
pongono in aperto contrasto, oltre che con la legge quadro nazionale e
regionale, con lo specifico regolamento adottato dal Consiglio Comunale
in subjecta materia, quale organo titolare -in via esclusiva- delle
competenze in materia di organizzazione del Corpo di Polizia Municipale (cfr.
TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 30.10.2017, n. 309).
VII.10. Non appare, altresì, ultroneo osservare, al solo mero fine del
riconoscimento di un interesse a ricorrere attuale e concreto avverso gli
atti di macro organizzazione di parte ricorrente, che “la violazione, da
parte delle Amministrazioni datrici di lavoro, dell'obbligo di adibire il
prestatore di lavoro alle mansioni per le quali è stato assunto o alle
mansioni considerate equivalenti (art. 52, comma primo, d.lgs. n. 165 del
2001), va accertata, in concreto, con riferimento alle modificazioni dei
contenuti professionali delle attribuzioni della qualifica, non essendo
sufficiente il riscontro dell'alterazione dei precedenti assetti
organizzativi, ancorché non conformi a legge” (Cass. civ. Sez. lavoro,
09/05/2006, n. 10628 (rv. 589013).
VII.10.1. Nella specie, appare evidente la dequalificazione professionale
subita dalla ricorrente, assunta in qualità di Comandante della Polizia
municipale, una volta approfondita l'indagine sulle mansioni effettivamente
svolte e avuto riguardo alla sottrazione delle specifiche competenze di cui
all'art. 9, rubricato Comandante del Corpo di polizia municipale, della
legge 07.03.1986, n. 65 nell’ambito della nuova organizzazione.
VII.10.2. L’illegittimità dei moduli organizzativi adottati dal Comune ha,
pertanto, rilevanza in quanto si traduce in assegnazioni di mansioni diverse
da quelle proprie della qualifica rivestita e non equivalenti.
VIII. Ciò posto, il ricorso è, quindi, in parte qua, meritevole di
accoglimento, atteso che, assorbite le ulteriori censure dedotte, gli atti
di macro-organizzazione impugnati, nella parte in cui l’Amministrazione
resistente ha operato l’accorpamento del Settore Polizia Municipale in altra
entità organizzativa di dimensioni più ampie, macroarea, sottoposta alla
direzione di un Dirigente Amministrativo, non appartenente al Corpo, si
pongono in contrasto sia con le disposizioni legislative di cui alla
legge-quadro sull’ordinamento della Polizia Municipale (l. 07.03.1986, n.
65, artt. 5, 7 e 8) e alla legge regionale n. 12/2003 (art. 11) che con le
specifiche norme regolamentari adottate dal Consiglio Comunale (art. 2).
IX. In considerazione di tali rilievi, il gravame proposto, va
conclusivamente, in parte, assorbite le ulteriori censure dedotte, accolto,
con conseguente annullamento del provvedimenti di macro-organizzazione e, in
parte, dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione quanto ai
decreti di conferimento degli incarichi.
IX.1. Declinata, in parte qua, la giurisdizione di questo giudice
amministrativo, è consentito alla parte, ai sensi dell'art. 11, comma 2,
c.p.a., proseguire il giudizio avanti giudice ordinario, entro il termine
perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza,
con salvezza degli effetti già prodottisi all'atto della proposizione
dell'azione avanti a questo giudice, secondo quanto stabilito dalla norma
citata
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 18.03.2019 n. 1470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: È
legittimo che gli alberghi paghino più Tari delle abitazioni.
È legittima la delibera comunale che fissa per gli esercizi alberghieri una
tariffa per la tassa rifiuti notevolmente superiore a quella applicabile
alle civili abitazioni. La maggiore capacità produttiva di un esercizio
alberghiero rispetto a una abitazione costituisce un dato di comune
esperienza.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
15.03.2019 n. 7446.
Per i giudici di piazza Cavour, deve essere applicata una tariffa «per la
categoria degli esercizi alberghieri notevolmente superiore a quella
applicata alle civili abitazioni». Alla tesi sostenuta dalla Suprema corte,
però, i giudici di merito non si sono quasi mai uniformati. Un'eccezione è
rappresentata dalla Commissione tributaria regionale di Palermo (sentenza
2351/2017), la quale ha affermato che è legittima la delibera comunale che
fissa per gli esercizi alberghieri una tariffa superiore a quella delle
abitazioni.
Con la sentenza 16972/2015 la Cassazione ha chiarito, inoltre,
che va differenziata anche la tariffa per l'attività di B&B svolta in una
civile abitazione, rispetto alla tariffa abitativa ordinaria. I giudici di
legittimità hanno sempre sostenuto che i comuni hanno il potere-dovere di
deliberare tariffe più elevate per gli alberghi rispetto a quelle delle
abitazioni (sentenza 302/2010).
Peraltro, l'art. 68 del decreto legislativo
507/1993 non imponeva ai comuni di inserire gli immobili adibiti ad attività
alberghiere nella stessa categoria di quelli utilizzati come abitazioni,
poiché non manifestano la stessa potenzialità di produzione di rifiuti.
Così
come non sono inseriti nella stessa categoria per la Tari. L'amministrazione
comunale può differenziare le tariffe in relazione alla maggiore o minore
produttività dei rifiuti delle varie attività soggette al prelievo. In senso
contrario si è espressa, per esempio, la commissione tributaria provinciale
di Taranto (sentenza 1791/2016), poiché non c'è nulla che giustifichi un
diverso trattamento fiscale tra le due categorie di immobili.
Per la
commissione provinciale, che richiama una pronuncia della commissione
regionale della Puglia, «il dato di comune esperienza supposto dalla
Cassazione è, in realtà, opinabile», in quanto il legislatore ha voluto
assimilare gli alberghi alle abitazioni
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019). |
TRIBUTI: Separazioni
irrilevanti.
Non ha rilievo, ai fini dell'agevolazione Ici sull'abitazione principale,
la circostanza della separazione di fatto tra i coniugi, formalizzatasi in
separazione legale soltanto successivamente.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
15.03.2019 n. 7436.
Nel caso di specie il contribuente impugnava due avvisi di accertamento Ici,
relativi agli anni 2008 e 2009. La Commissione tributaria provinciale
rigettava i ricorsi, rilevando che dell'agevolazione prevista per l'abitazione principale si era già avvalsa la moglie del ricorrente, residente
in altro comune e che, nei periodi di imposta oggetto di accertamento, non
vi era separazione legale tra i coniugi, intervenuta solo nel 2012.
Pertanto, il nucleo familiare, al momento ancora sussistente, non poteva
godere della duplice esenzione.
Avverso tale sentenza il contribuente proponeva appello, accolto dalla
Commissione tributaria regionale. Il Comune ricorreva infine per cassazione.
Secondo la Suprema corte il ricorso era fondato. In tema di Ici, infatti, ai
fini della spettanza della detrazione e dell' applicazione dell'aliquota
ridotta prevista per le abitazioni principali, un'unità immobiliare può
essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisce la dimora
abituale non soltanto del ricorrente, ma anche dei suoi familiari.
E nella
specie era pacifico che la residenza della famiglia era nell'immobile sito
nell' altro comune, presso cui i coniugi, ex art. 144 c.c., erano tenuti
alla coabitazione (fino alla separazione legale), tanto che del relativo
beneficio fiscale la moglie del ricorrente aveva incontestabilmente
usufruito.
In sostanza, la Ctr aveva erroneamente attribuito all'addotta circostanza
della separazione di fatto tra i coniugi la stessa valenza della separazione
legale, erroneamente attribuendo il vantaggio fiscale, di natura
eccezionale, dell'esenzione per l'abitazione principale
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019). |
APPALTI: Impugnazione
valida dopo la verifica del possesso dei requisiti di gara.
La necessità di accelerare al massimo la definizione dei contenziosi in
materia di appalti ha comportato che l'articolo 32 del Dlgs 50/2016 abbia
del tutto eliminato la tradizionale categoria della «aggiudicazione
provvisoria», ma distingua solo tra la «proposta di aggiudicazione»,
adottata dal seggio di gara, e la aggiudicazione tout court, che è il
provvedimento conclusivo e che diventa efficace dopo la verifica del
possesso dei requisiti.
Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza
15.03.2019 n. 1710.
Il caso
Il giudizio verte sulla sentenza con cui il Tar Lazio ha dichiarato l'irricevibilità
di un ricorso proposto avverso una comunicazione di avvenuta aggiudicazione
dell'appalto del servizio di trasporto scolastico, appellata perché il
ricorrente avrebbe dovuto proporre ricorso non contro il provvedimento di
«aggiudicazione definitiva» ma contro il precedente provvedimento di
«aggiudicazione senza efficacia».
I giudici avrebbero così forzato
l'articolo 76, comma 5, del Codice degli appalti che, secondo la sentenza
impugnata, avrebbe eliminato il duplice passaggio dell'aggiudicazione
provvisoria e di quella definitiva, attribuendo valore determinante alla
prima, obbligando quindi il ricorrente a impugnare la prima con la
conseguenza di considerare fuori termine l'avvenuta impugnazione della
seconda.
Le categorie
Tesi che la quinta sezione del Consiglio di Stato non ha avallato, sull'onda
dell'evidenza che la necessità di accelerare al massimo la definizione dei
contenziosi in materia di appalti e di certezza, ha comportato che
l'articolo 32 del Codice abbia del tutto eliminato la tradizionale categoria
della «aggiudicazione provvisoria» e distingua solo tra:
• «proposta di aggiudicazione», adottata dal seggio di gara secondo
l'articolo 32, comma 5 che non costituisce provvedimento impugnabile;
• «aggiudicazione» tout court che è il provvedimento conclusivo di
aggiudicazione che diventa efficace dopo la verifica del possesso dei
requisiti previsti dall'articolo 33, comma 1, del Codice e che, da un lato,
fa sorgere in capo all'aggiudicatario un'aspettativa alla stipulazione del
contratto di appalto subordinata all'esito positivo della verifica del
possesso dei requisiti, dall'altro priva gli altri partecipanti del «bene
della vita» rappresentato dall'aggiudicazione della gara.
I termini per l'impugnativa
In questo contesto, il termine per l'impugnazione dell'aggiudicazione da
parte dei concorrenti non aggiudicatari inizia a decorrere dal momento in
cui essi hanno ricevuto la comunicazione prevista d all'articolo 76, comma
5, lettera a), del Codice e non dal momento in cui la stazione appaltante
abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di
gara in capo all'aggiudicatario.
Ricordano, infine, i giudici di Palazzo Spada che l'articolo 120, comma
2-bis, del Cpa espressamente collega il decorso del termine per impugnare i
provvedimenti di ammissione e di esclusione alle procedure di gara alla
pubblicazione dei relativi verbali sul profilo del committente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.03.2019).
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MASSIMA
In linea generale con riferimento al primo profilo si deve ricordare
che, come è noto, sulla concorde spinta delle stazioni appaltanti e della
associazioni delle imprese e delle maestranze, la necessità di accelerare al
massimo la definizione dei contenziosi in materia di appalti e di certezza,
ha comportato che l'art. 32 del d.lgs. n. 50 del 2016 –al fine di assicurare
con la massima celerità la certezza delle situazioni giuridiche ed
imprenditoriali– ha del tutto eliminato la tradizionale categoria della “aggiudicazione
provvisoria”, ma distingue solo tra:
- la “proposta di aggiudicazione”, che è quella adottata dal
seggio di gara, ai sensi dell'art. 32, co. 5, e che ai sensi dell’art. 120,
co. 2-bis, ultimo periodo, del codice del processo amministrativo non
costituisce provvedimento impugnabile;
- la “aggiudicazione” tout court che è il
provvedimento conclusivo di aggiudicazione e che diventa efficace dopo la
verifica del possesso dei requisiti di cui all’art. 33, co. 1, del cit.
d.lgs. n. 50 della predetta proposta da parte della Stazione Appaltante.
In tale sistematica, la verifica dei requisiti di partecipazione è dunque
una mera condizione di efficacia dell'aggiudicazione e non di validità in
quanto attiene sotto il profilo procedimentale alla “fase integrativa
dell’efficacia” di un provvedimento esistente ed immediatamente lesivo,
la cui efficacia è sottoposta alla condizione della verifica della proposta
di aggiudicazione di cui al cit. art. 33 circa il corretto espletamento
delle operazioni di gara e la congruità tecnica ed economica della relativa
offerta.
Anche alla luce dei precedenti della Sezione (cfr. infra multis:
Cons. Stato sez. V, 01.08.2018, n. 4765), quindi, del tutto esattamente il
TAR ha eccepito l’inammissibilità dell’appello perché il termine per
impugnare l’aggiudicazione ex art. 32, co. 5, del d.lgs. n. 50 ed ex art.
120, co. 2-bis, c.p.a. decorre dalla comunicazione della stessa.
Il termine per l'impugnazione dell'aggiudicazione da parte dei concorrenti
non aggiudicatari inizia a decorrere dal momento in cui essi hanno ricevuto
la comunicazione di cui all'art. 76, co. 5, lett. a), d.lgs. n. 50/2016, e
non dal momento, eventualmente successivo, in cui la Stazione Appaltante
abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di
gara in capo all'aggiudicatario.
L'aggiudicazione come sopra definita, dato che da un lato fa sorgere in capo
all'aggiudicatario un'aspettativa alla stipulazione del contratto di appalto
ex lege subordinata all'esito positivo della verifica del possesso
dei requisiti, dall’altro produce nei confronti degli altri partecipanti
alla gara un effetto immediato, consistente nella privazione definitiva,
salvo interventi in autotutela della Stazione Appaltante o altre vicende
comunque non prevedibili né controllabili, del “bene della vita”
rappresentato dall'aggiudicazione della gara.
Nel caso particolare, dunque, come risulta espressamente dal suo contenuto
letterale, l’Amministrazione con la determina n. 154 del 15.09.2017:
- aveva provveduto all’approvazione delle operazioni di gara;
- aveva aggiudicato alla Soc. Ci.To. spa con un punteggio totale di
86.01 (punteggio offerta tecnica 49.48 + punteggio offerta economica 36.53)
e offerto un prezzo di € 125.941,93;
-aveva precisato che l'aggiudicazione definitiva sarebbe divenuta
efficace dopo la verifica dei requisiti e che il contratto non poteva essere
sottoscritto prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima
comunicazione del provvedimento di aggiudicazione.
Nella fattispecie in esame la “aggiudicazione” della gara era stata
trasmessa con PEC del 21.09.2017 a tutte le ditte che avevano partecipato
alla gara con espresso rinvio alla relativa determina pubblicata, come
prescritto, nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito web
dell’Amministrazione Comunale cui erano allegati tutti i verbali.
A tale riguardo si ricorda che l’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. espressamente
collega il decorso del termine per impugnare i provvedimenti di ammissione e
di esclusione alle procedure di gara alla pubblicazione dei relativi verbali
sul profilo del committente, ai sensi dell’art. 29, co. 1, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (cfr. Cons. Stato, sez. III, 20.03.2018, n. 1765).
In definitiva dunque in base alla normativa vigente, il termine decadenziale
doveva essere computato a partire dalla comunicazione PEC del 21.09.2017.
In tale situazione appare dunque inesatto che la prima comunicazione fosse
stata comunque inidonea ad integrare l’effettiva conoscenza dell’appellante
dei punteggi assegnati dalla Commissione di gara in ordine ai vari elementi
di comparazione tra le due offerte, in quanto sia la determina che i
relativi verbali erano stati ritualmente pubblicati sul sito del Comune in
data 17.09.2017 dove erano (e sono tutt’ora) liberamente consultabili.
In relazioni alle considerazioni che precedono, è infine comunque del tutto
inconferente l’inserzione nella seconda comunicazione, della ricorribilità “avverso
il provvedimento di aggiudicazione avanti al TAR di Latina”.
In linea di principio si osserva che la seconda comunicazione non è
astrattamente inutile, ma è diretta ad assicurare la possibilità che,
successivamente alla verifica dell’aggiudicazione, il ricorrente che abbia
già impugnato l’aggiudicazione faccia luogo all’impugnazione della mancata
esclusione dell’aggiudicatario, necessaria a pena di improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse ai sensi dell’art. 35, co. 1, lett. c),
c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.02.2019, n. 815; Cons. Stato, sez. V,
03.04. 2018, n. 2039; id., 28.03.2018, n. 1935; id., 23.12.2016, n. 5445; id.,
25.02.2016, n. 754; id., 01.04.2015, n. 1714; id., 23.04.2014, n. 2063; id.,
19.07.2013, n. 3940).
Nel caso particolare, poi, si deve rilevare che le eventuali erronee
indicazioni contenute nel provvedimento non possono consentire di porre nel
nulla l’intervenuto superamento dei termini decadenziali per l’introduzione
del ricorso anche solo ai fini dell’errore scusabile, per la fondamentale
considerazione della condizione di soggetto professionale degli operatori
economici che concorrono alle gare.
In conclusione, il motivo è complessivamente infondato e deve essere
respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Individuazione della data di ultimazione dei lavori - Onere
di allegare gli elementi probatori - BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI - Riqualificazione del delitto paesaggistico in
contravvenzione Art. 181, d.Lgs. n. 42/2004.
Vale anche in materia edilizia il
principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione
di quanto afferma, pertanto, grava sull'imputato che voglia
giovarsi della causa estintiva della prescrizione, in
contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito
dagli atti di causa, l'onere di allegare gli elementi in suo
possesso, dei quali è il solo a potere concretamente
disporre, per determinare la data di inizio del decorso del
termine di prescrizione ed in particolare, trattandosi di
reato edilizio, la data di esecuzione dell'opera
incriminata.
Tale onere probatorio, peraltro, non può ritenersi assolto
attraverso fonti dichiarative -peraltro, come nel caso di
specie, non completamente affidabili, tenuto conto della
"confusione" dimostrata dal teste nella stessa
retrodatazione dell'epoca di realizzazione delle opere- ma
presuppone la dimostrazione attraverso elementi di prova
documentali (fatture di acquisto di materiali edili; rilievi
fotografici attestanti lo stato dei luoghi alla data della
asserita retrodatazione; etc.) che consentano di supportare
la prospettazione difensiva in ordine all'epoca di
consumazione del reato in data antecedente a quella
risultante dalla contestazione mossa dal PM.
...
Costruzione abusiva - Violazioni in materia edilizia ed
antisismica - Sequestro - Prosecuzione dei lavori oltre tale
data - Procedimento logico - deduttivo.
In tema di costruzione abusiva, qualora
l'imputato adduca che l'opera sia stata eseguita in una
specifica data ed il giudice non sia in grado -in base ad
elementi specifici- di stabilire la prosecuzione dei lavori
oltre tale data, l'affermazione, in virtù del principio del
"favor rei", non può essere disattesa. Ne deriva che il
reato deve essere dichiarato prescritto, quando sia
trascorso il tempo massimo all'uopo necessario.
Nella specie, diversamente, i giudici territoriali hanno
individuato una serie di elementi che consentivano,
attraverso un procedimento logico-deduttivo corretto e non
di valutazioni congetturali, di ritenere che l'epoca di
consumazione coincidesse con quella del sequestro,
considerato che i lavori si presentavano di recente fattura (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.03.2019 n. 11463 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Nella
multiservizi incarico fiduciario all’amministratore.
L'incarico di amministratore di un'azienda speciale costituita per la
gestione di servizi pubblici locali è di natura fiduciaria e, per essere
revocato, non richiede una particolare motivazione.
Il TAR Campania-Napoli, sezione I - con la
sentenza
11.03.2019 n. 1379 ha analizzato le condizioni che possono portare un sindaco
a revocare l'incarico di presidente di un'azienda speciale, istituita in
base all'articolo 114 del Dlgs n. 267/2000, a fronte dell'inosservanza delle
direttive conferite a tale soggetto dall'amministrazione.
Nel caso preso in esame, uno dei punti più critici era la mancata
predisposizione del piano economico-finanziario del principale servizio
affidato all'azienda da parte dell'organo amministrativo della stessa, con
rilevazione di un comportamento omissivo che impediva allo stesso Comune di
quantificare le somme da trasferire all'organismo partecipato.
La revoca
A seguito di questo e di altri comportamenti valutati come ostruzionistici,
il Sindaco ha revocato l'incarico al presidente dell'azienda speciale:
rispetto a tale provvedimento il Tar campano ha chiarito come la questione
inerisca la revoca di un incarico di natura fiduciaria, pertanto rimessa
all'ampia valutazione discrezionale dell'amministrazione comunale, per il
quale l'unico criterio di riferimento è costituito da quello politico-amministrativo riferibile all'organo di vertice.
La sentenza evidenzia, di conseguenza, come non sia richiesta per la revoca
-così come per l'affidamento dell'incarico- alcuna particolare
motivazione, venendo in rilievo valutazioni attinenti alla rilevanza di
fattori non normativamente predeterminati.
La fonte regolamentare del potere di revoca si rinviene, peraltro, nelle
disposizioni dello statuto dell'azienda speciale (che, nel caso specifico,
disciplinava dettagliatamente il percorso) e il venir meno del particolare
rapporto giustifica l'adozione del provvedimento di revoca, senza che la
stessa assuma connotazione sanzionatoria
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2019).
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SENTENZA
1. Preliminarmente, va affermata la giurisdizione di questo TAR alla
luce dell’indirizzo espresso dal Consiglio di Stato (Sez. V, n. 4435/2017)
secondo cui il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della
Cassazione n. 24591/2016 circa la devoluzione alla giurisdizione ordinaria
delle controversie concernenti la nomina e la revoca di amministratori di
società partecipate da enti pubblici non trova applicazione nel caso di
aziende speciali ex art. 114 del D.Lgs. n. 267/2000 (Testo Unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali - Tuel).
Al riguardo, si è infatti rilevato che l’azienda speciale costituisce uno
strumento di gestione di servizi pubblici locali ex art. 112 del Tuel -ed in
particolare di quelli a rilevanza economica, a differenza delle istituzioni,
deputate allo svolgimento di “servizi sociali” ai sensi del comma 2
dell’art. 114- avente natura pubblicistica e costituente, quindi,
articolazione dell’amministrazione.
“L’azienda speciale è infatti strettamente compenetrata all’ente locale.
La personalità giuridica e l’autonomia imprenditoriale per essa previste
dall’ordinamento giuridico sono funzionali ad un organizzazione di mezzi
deputata allo svolgimento di attività economiche e non già di funzioni
amministrative, tipiche degli enti pubblici. Ma essa è pur sempre
un’amministrazione parallela, e cioè una struttura inquadrata organicamente
nella più ampia organizzazione pubblicistica dell’ente pubblico. Infatti,
oltre a deliberarne l’istituzione e a provvedere alla relativa dotazione di
mezzi, quest’ultimo esercita sull’azienda speciale poteri di direzione e di
controllo (analogo a quello sulle strutture di stampo “burocratico”, per
usare una terminologia affermatasi con riguardo alle società in house)
attraverso strumenti tipici del diritto amministrativo, ed in particolare
nelle forme previste dalle disposizione sopra esaminate dell’art. 114
t.u.e.l. Si tratta dunque di un modello alternativo all’azionariato
pubblico, benché finalizzato anch’esso alla gestione di servizi pubblici di
rilevanza economica. In particolare, rispetto all’azienda speciale la
partecipazione al capitale di società per azioni si contraddistingue infatti
per l’utilizzo di uno strumento proprio del diritto civile. Ed è proprio
sulla base della natura di tale strumento –benché esso venga poi “piegato” a
finalità di pubblico interesse- che la Cassazione riconduce alla
giurisdizione ordinaria le controversie ad esso relative. Per le stesse
ragioni affermate dalla Suprema Corte nell’ambito dell’indirizzo richiamato
dal giudice di primo grado, nel caso di specie deve pertanto essere
affermata la giurisdizione amministrativa” (Consiglio di Stato, Sez. V,
n. 4435/2017).
...
5. I profili di illegittimità sono complessivamente infondati per le ragioni
di seguito illustrate.
Si controverte della revoca di un incarico di natura fiduciaria rimessa
all’ampia valutazione discrezionale dell’amministrazione comunale, per il
quale l’unico criterio di riferimento è costituito da quello
politico-amministrativo riferibile all’organo di vertice; di conseguenza,
non è richiesta per la revoca -così come per l'affidamento dell'incarico-
alcuna particolare motivazione, venendo in rilievo valutazioni attinenti
alla rilevanza di fattori non normativamente predeterminati.
A conferma di ciò depone la previsione contenuta nell’art. 7 dello Statuto
dell’Azienda ABC secondo cui “I membri del Consiglio di Amministrazione
sono nominati in considerazione del rapporto fiduciario esistente tra
l’amministrazione comunale e gli amministratori dell’azienda, che si
articola in funzione degli obiettivi per i quali ABC è stata istituita. Il
venire meno di tale rapporto fiduciario integra gli estremi della giusta
causa di cui all’art. 2383, terzo comma, del codice civile, in quanto
applicabile”.
Al riguardo, non vi è spazio per l'applicazione dell'istituto partecipativo
di cui all'art. 7 della L. n. 241/1990, il cui scopo è quello di consentire
l'apporto procedimentale da parte del destinatario dell'atto finale al fine
di condizionarne il relativo contenuto. Ed invero, le prerogative della
partecipazione possono essere invocate quando l'ordinamento prende in
qualche modo in considerazione gli interessi privati, in quanto ritenuti
idonei ad incidere sull'esito finale per il migliore perseguimento
dell'interesse pubblico, mentre tale partecipazione diventa indifferente in
un contesto normativo nel quale -come nel caso in trattazione- la
valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo agli
organi deliberativi dell'amministrazione, ai quali compete in via autonoma
la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi (Consiglio di
Stato, Sez. V, n. 3818/2013, n. 280/2009, n. 209/2007; TAR Campania, Napoli,
Sez. I, n. 3714/2018).
Quanto alla fonte regolamentare del potere di revoca, esso trova il proprio
fondamento nell’art. 8, comma 4, dello Statuto di ABC secondo cui “Il
Presidente e i membri del Consiglio di Amministrazione possono essere
revocati dal Sindaco, anche disgiuntamente, quando ricorrano le circostanze
previste dalle leggi vigenti, per l’insorgere di cause di incompatibilità o
per il venir meno del rapporto fiduciario, in conseguenza dei comportamenti
assunti, senza che tale revoca rientri nelle fattispecie per le quali
sussiste il diritto dei componenti revocati al risarcimento di cui al citato
art. 2383, terzo comma, del codice civile e senza che dalla stessa revoca
discenda per tali componenti ogni e qualsivoglia ulteriore diritto connesso,
conseguente o collegato alla stessa”.
Trattandosi di incarico di natura fiduciaria, il venir meno di tale
rapporto, giustifica l’adozione del provvedimento di revoca, senza che la
stessa assuma quindi connotazione sanzionatoria. |
ENTI LOCALI - VARI: Il
cane può scendere in spiaggia. Il TAR Lazio annulla un'ordinanza sindacale
restrittiva.
Il cane può scendere in spiaggia: annullata
l'ordinanza del sindaco di una cittadina di mare che vietava ai possessori
di cani di portarli con sé.
A
giudizio del TAR Lazio-Latina (sentenza
11.03.2019 n. 176)
l'amministrazione comunale avrebbe dovuto vagliare regole alternative al
divieto generalizzato poiché il principio di proporzionalità impone alla
stessa di optare, tra più possibili scelte volte al raggiungimento del
pubblico interesse, per quella meno gravosa per i cittadini coinvolti:
bisogna insomma evitare «inutili sacrifici». A ben vedere dunque la sentenza
coniuga il principio costituzionale di uguaglianza in una prospettiva nuova
non più solo «umana».
Secondo il Tar il provvedimento impugnato da una associazione per la tutela
giuridica dei diritti della natura e degli animali è frutto della immotivata
scelta di vietare l'ingresso agli animali sulle spiagge, risultando al
contempo irragionevole e illogico, oltre che irrazionale e sproporzionato,
per di più alla luce del potere dei comuni di individuare tratti di arenile
da destinare alla specifica accoglienza di animali da compagnia.
In altre parole l'amministrazione comunale avrebbe dovuto valutare la
possibilità di perseguire le finalità pubbliche di decoro, igiene e
sicurezza mediante regole alternative al divieto di frequentazione delle
spiagge, ad esempio valutando se limitare l'accesso dei cani in determinati
orari, con l'individuazione delle aree viceversa interdette. L'assenza di
motivazione nel provvedimento non consente invece di stimare se il divieto
sia riferibile a ragioni riconducibili all'igiene dei luoghi, ovvero alla
sicurezza di chi frequenta le spiagge.
La motivazione del provvedimento avrebbe dovuto inoltre contenere la
giustificazione delle misure adottate, idonea a verificare anche il rispetto
del principio di ragionevolezza, poiché l'autorità comunale avrebbe potuto
individuare le misure comportamentali ritenute più adatte, piuttosto che
porre un divieto assoluto di accesso agli arenili, in tal modo generando una
arbitraria sperequazione tra i cittadini, possessori e non di cani
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
La associazione ricorrente deduce che l’ordinanza gravata –in parte qua–
irragionevolmente impone ai conduttori di animali il generalizzato divieto
di accesso alle spiagge libere, in assenza di una motivazione che
giustifichi tale scelta e senza specificare quali cautele comportamentali
siano necessarie per la tutela dell’igiene delle spiagge, ovvero della
incolumità dei bagnanti.
Deduce altresì la manifesta irragionevolezza e la violazione del principio
di proporzionalità, circa il rapporto tra le esigenze pubbliche da
soddisfare e l’incidenza sulle sfere giuridiche dei privati.
La totale assenza di motivazione, infatti, non consentirebbe di apprezzare
se il divieto sia riferibile a ragioni riconducibili all’igiene dei luoghi
ovvero alla sicurezza di chi frequenta le spiagge.
La motivazione del provvedimento avrebbe dovuto inoltre contenere una
specifica giustificazione delle misure adottate, idonea a verificare anche
il rispetto del principio di proporzionalità, poiché l’Autorità comunale
avrebbe dovuto individuare le misure comportamentali ritenute più adeguate,
piuttosto che porre un divieto assoluto di accesso alle spiagge.
La ricorrente evidenzia, altresì, come l’ordinanza sarebbe in contrasto con
i principi espressi in sede regionale ed in particolare dell’art. 16, co. 8,
del Reg. regionale.
Tali censure meritano accoglimento.
Il provvedimento impugnato è illegittimo per difetto di motivazione, oltre
che per violazione del principio di proporzionalità.
Sotto tale ultimo profilo va evidenziato che il principio di proporzionalità
impone alla pubblica amministrazione di optare, tra più possibili scelte
ugualmente idonee al raggiungimento del pubblico interesse, per quella meno
gravosa per i destinatari incisi dal provvedimento, onde evitare agli stessi
‘inutili’ sacrifici.
La scelta di vietare l’ingresso agli animali sulle spiagge destinate alla
libera balneazione, risulta irragionevole ed illogica, oltre che irrazionale
e sproporzionata, anche alla luce delle viste indicazioni regionali che
attribuiscono ai comuni il potere di individuare, in sede di predisposizione
del PUA, tratti di arenile da destinare all’accoglienza degli animali da
compagnia.
In particolare come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza in vicende
del tutto similari, l’amministrazione avrebbe dovuto valutare la possibilità
di perseguire le finalità pubbliche del decoro, dell’igiene e della
sicurezza mediante regole alternative al divieto assoluto di frequentazione
delle spiagge, ad esempio valutando se limitare l’accesso in determinati
orari, o individuare aree adibite anche all’accesso degli animali, con
l’individuazione delle aree viceversa interdette al loro accesso (cfr. Tar
Calabria, sez. Reggio Calabria, sent. n. 225/2014).
Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche deve quindi ritenersi che il
divieto -che non vale in assoluto per i gestori degli stabilimenti balneari
a pagamento, che a loro discrezione …abbiano creato delle apposite zone di
accesso per gli animali- non sia sufficientemente controbilanciato da tale
eventualità, non solo per la circostanza di creare una ingiustificata
sperequazione tra cittadini ma anche in quanto affidato, come detto, alla
mera facoltà del singolo concessionario.
Per le ragioni si qui esposte, il ricorso è fondato e va accolto, sicché il
provvedimento in esame va annullato, nei limiti oggetto della impugnazione. |
TRIBUTI: L’inquilino
può pagare l’Imu. Sì agli accordi. Contestazione al titolare dell’immobile.
Ai raggi X la sentenza n. 6882/2019 delle Sezioni unite della Cassazione
sugli obblighi tributari.
Il titolare di un immobile può sottoscrivere un
accordo con l'inquilino, con il quale quest'ultimo si impegna a pagare Ici e
Imu. La clausola contrattuale non è illegittima e serve a integrare le somme
dovute per il canone di locazione.
Questo principio innovativo è stato affermato dalle Sezioni unite civili con la
sentenza 08.03.2019 n. 6882 (si veda ItaliaOggi del 14
marzo).
I giudici di piazza Cavour, per la prima volta hanno preso posizione in
maniera così netta, escludendo che gli accordi che pongono il carico
tributario su un soggetto diverso dal proprietario, o titolare di altro
diritto reale, possano essere ritenuti contra legem. Le imposte locali sugli
immobili possono essere pagate anche dal conduttore, se questo obbligo è
previsto nel contratto di locazione.
L'accordo contrattuale che impone all'affittuario di pagare i tributi
locali, secondo le Sezioni unite, non si pone in contrasto con il principio
di capacità contributiva e non viola la regola sul divieto di traslazione
del carico fiscale a un soggetto diverso dal titolare. Non si ritiene
violato, dunque, l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio
di capacità contributiva e l'intrasferibilità del carico tributario su un
soggetto diverso rispetto a quello individuato dalla norma di legge.
Per la Cassazione, le somme che il conduttore si impegna a pagare
costituiscono integrazione del canone locativo, poiché concorrono a
determinarne l'ammontare complessivo dovuto. Viene posto in rilievo nella
motivazione della sentenza che con «due distinte clausole contrattuali» di
un «unico atto», le parti hanno nella specie inteso «determinare il canone
in due diverse componenti».
La traslazione dell'obbligo tributario.
Nel contesto della controversia, la parte interessata a eccepire la nullità
del contratto ha richiamato un precedente della Cassazione. Per le Sezioni
unite, però, il principio invocato contenuto nella sentenza 6445/1985, viene
giudicato del tutto fondato e viene ulteriormente confermato, laddove è
stabilito che il patto traslativo d'imposta è nullo per illiceità della
causa. Viene infatti ribadito che la traslazione d'imposta è contraria
all'ordine pubblico nel caso in cui l'imposta non venga corrisposta al fisco
dal «percettore del reddito».
Ma questo vale solo per la rivalsa facoltativa, cioè qualora il sostituto
perde la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al
fisco. Se l'imposta, invece, viene regolarmente versata e il conduttore si
accolla il pagamento, non viene violato il divieto di traslazione del carico
fiscale, in quanto la somma serve a integrare esclusivamente il prezzo
«della prestazione negoziale». Nonostante l'articolo 89 della legge
392/1978, che disciplina le locazioni, non preveda tra gli oneri a carico
del conduttore anche le imposte locali.
Si pone, però, un problema se il contratto di locazione, laddove dispone
espressamente che il conduttore si debba far carico dei tributi sui beni
locati, non viene onorato dal conduttore. Il contratto è opponibile a terzi?
L'amministrazione comunale a chi deve contestare la violazione?
Non c'è alcun dubbio che soggetto obbligato nei confronti del fisco rimane
sempre il titolare dell'immobile. Quindi, in caso di mancato pagamento
dell'inquilino, la violazione di omesso pagamento di Ici, Imu, Tasi deve
essere contestata al proprietario, con irrogazione della relativa sanzione.
La Cassazione, nella sentenza 6882/2019, fa riferimento a Ici e Imu, ma il
principio è estensibile anche alla Tasi, che ex lege rimane a carico del
proprietario nella misura minima del 70%.
L'accollo del debito d'imposta da parte dell'inquilino non libera
dall'obbligo di pagamento il contribuente originario. Naturalmente, il
locatore ha la facoltà di esperire azione giudiziale nei confronti del
conduttore per recuperare le somme che lo stesso si era impegnato
contrattualmente a versare all'amministrazione comunale.
I soggetti obbligati.
L'Imu, e prima ancora l'Ici, non è dovuta dal possessore di fatto
dell'immobile, ma solo dal possessore di diritto.
Quindi, il conduttore non è obbligato al pagamento del tributo,
semplicemente perché la legge non lo individua come soggetto passivo.
Oltre al proprietario e all'usufruttuario, sono soggetti passivi anche il
superficiario, l'enfiteuta, il locatario finanziario, i titolari dei diritti
di uso e abitazione, nonché il concessionario di aree demaniali. Rientra tra
i diritti reali, poi, il diritto di abitazione che spetta al coniuge
superstite, in base all'articolo 540 del codice civile.
Non è soggetto al prelievo fiscale, invece, il nudo proprietario
dell'immobile. Allo stesso modo, non sono obbligati al pagamento
dell'imposta il locatario, l'affittuario e il comodatario, in quanto non
sono titolari di un diritto reale di godimento sull'immobile, ma lo
utilizzano sulla base di uno specifico contratto.
Che il semplice possesso non obblighi al pagamento lo ha chiarito la
Cassazione (sentenza 18476/2005), per l'Ici, a proposito del coniuge
assegnatario dell'immobile, in caso di separazione.
Secondo la Cassazione, se il giudice assegnava in passato a un coniuge
l'abitazione dell'ex casa coniugale, il soggetto assegnatario non era tenuto
al pagamento dell'Ici. Il giudice non ha, infatti, il potere di costituire
diritti reali di godimento sull'immobile, quali quelli di uso e abitazione,
ma può decidere solo in ordine all'attribuzione di un diritto personale
sulla casa familiare a favore di un coniuge.
In base alla vecchia normativa Ici, l'assegnatario aveva solo un diritto di
godimento del bene di natura personale e non reale. Per l'Imu, con norma di
legge, è stato posto a carico dell'assegnatario dell'immobile l'obbligo di
pagare il tributo. Bisogna inoltre ricordare che l'utilizzo di un immobile o
il possesso di fatto non possono essere inquadrati giuridicamente come
diritto d'uso. In base all'articolo 1021 del codice civile, chi è titolare
di questo diritto può servirsi della cosa che ne forma oggetto e, se è
fruttifera, può raccogliere i frutti per quello che è necessario ai bisogni
personali. L'uso, dunque, è un diritto reale di godimento che attribuisce al
titolare la facoltà di usare e godere della cosa, in modo diretto, per il
soddisfacimento di un bisogno attuale e personale. Questo diritto viene
costituito per contratto, testamento o usucapione.
Infine, va precisato che l'Imu è dovuta dai contribuenti per anni solari,
proporzionalmente alla quota di possesso dell'immobile e in relazione ai
mesi dell'anno per i quali il bene è stato posseduto. Se il possesso si è
protratto per almeno 15 giorni, il mese deve essere computato per intero. La
prova della proprietà o della titolarità dell'immobile non è data dalle
iscrizioni catastali, ma dalle risultanze dei registri immobiliari. In caso
di difformità è tenuto al pagamento dell'imposta il soggetto che risulta
titolare da questi registri. Per l'assoggettamento agli obblighi tributari
non è probante quello che risulti iscritto in catasto (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’atto adottato dal Comune può
qualificarsi in modo più corretto, invece di
convalida come in esso indicato, come un
atto di rinnovazione procedimentale
conseguente al precedente annullamento
giurisdizionale dell’ordine di demolizione
per incompetenza e della convalida per
difetto di partecipazione al procedimento.
Trattandosi infatti di annullamento
giurisdizionale per vizi procedimentali la
pubblica amministrazione ha mantenuto il
potere di rinnovare l’atto emendandolo dai
vizi suddetti.
Né d’altro canto si può ritenere che la
qualificazione giuridica dell’atto vincoli
l’interprete in quanto la qualificazione del
provvedimento va operata in base
all’esclusiva considerazione del potere
effettivamente esercitato, e non in base
alla qualificazione ad esso attribuita dalle
parti o alle norme in esso citate.
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Come
chiarito precedentemente, l’atto impugnato è
stato erroneamente qualificato atto di
convalida ma in realtà è un atto di
rinnovazione procedimentale conseguente
all’annullamento con effetti di giudicato
delle precedenti determinazioni.
Ne consegue che esso si sottrae
all’applicazione degli oneri motivazionali
ed ai limiti temporali stabiliti per l’autotutela
d’ufficio dall'art. 21-nonies, 2° comma,
della L. 07.08.1990 n. 241.
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MASSIMA
2. Venendo al merito il primo motivo
di ricorso è infondato.
Infatti l’atto adottato dal Comune può
qualificarsi in modo più corretto, invece di
convalida come in esso indicato, come un
atto di rinnovazione procedimentale
conseguente al precedente annullamento
giurisdizionale dell’ordine di demolizione
per incompetenza e della convalida per
difetto di partecipazione al procedimento.
Trattandosi infatti di annullamento
giurisdizionale per vizi procedimentali la
pubblica amministrazione ha mantenuto il
potere di rinnovare l’atto emendandolo dai
vizi suddetti.
Né d’altro canto si può ritenere che la
qualificazione giuridica dell’atto vincoli
l’interprete in quanto la qualificazione del
provvedimento va operata in base
all’esclusiva considerazione del potere
effettivamente esercitato, e non in base
alla qualificazione ad esso attribuita dalle
parti o alle norme in esso citate (ex
plurimis Cons. St., sez. V, 25.11.1933,
n. 706; Cons. St., sez. VI, 07.11.1949, n.
202; Cons. St., sez. V, 04.12.1954, n. 1187;
Cons. St., sez. V, 06.04.1956, n. 224; Cons.
St., sez. V, 28.01.1956, n. 55; Cons. St.,
sez. V, 09.12.1957, n. 927; Cons. St., sez.
V, 18.04.1959, n. 228; Cons. St., sez. V,
10.05.1959, n. 288; Cons. St., sez. V,
13.06.1959, n. 344; Cons. St., sez. IV,
11.12.1959, n. 1195 1959, I, c. 1598; Cons.
St., V, n. 1160/1962; Cons. St., V, n.
282/1965; Cons. St., sez. V, 30.04.1968, n.
497; Cons. St., sez. V, 10.11.1978, n. 1120;
Cons. St., sez. V, 12.03.1996, n. 260; Cons.
St., sez. IV, 31.10.1996, n. 1183; TAR
Sicilia Catania, sez. IV, 02/04/2008, n.
563; TAR Campania, Napoli, sez. III,
14/03/2018 n. 1602).
Nel caso di specie, al di là della formale
qualificazione quale convalida di un atto
ormai irrimediabilmente annullato, è chiaro
che l’amministrazione ha inteso reiterare il
potere di porre a carico della ricorrente le
spese di demolizione (in solido con l’autore
dell’abuso), dopo il passaggio in giudicato
della sentenza del TAR Lombardia, Milano,
sez. II 30.04.2015 n. 1071, ripetendo il
procedimento in forma partecipata.
Il motivo va quindi respinto.
...
4. Il terzo motivo di ricorso è
infondato.
Come chiarito al primo motivo l’atto
impugnato è stato erroneamente qualificato
atto di convalida ma in realtà è un atto di
rinnovazione procedimentale conseguente
all’annullamento con effetti di giudicato
delle precedenti determinazioni.
Ne consegue che esso si sottrae
all’applicazione degli oneri motivazionali
ed ai limiti temporali stabiliti per l’autotutela
d’ufficio dall'art. 21-nonies, 2° comma,
della L. 07.08.1990 n. 241 (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.03.2019 n. 506 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Destinatario
dell’ordine demolizione e accollo delle
spese per l’esecuzione dell’ordine.
Le sanzioni
ripristinatorie (o reali), qual è l’ordine
di demolizione di un edificio abusivo,
colpendo l’oggetto dell’illecito, riportano
la situazione allo stato quo ante e sono
quindi correttamente disposte nei confronti
di chi ha la disponibilità dell’immobile e
ciò nonostante si sia astenuto dal rimuovere
l’abuso, oltre che nei confronti dell’autore
stesso dell’abuso.
Ne consegue che le spese per l’esecuzione
materiale della demolizione sono poste
correttamente anche in capo a chi, pur
avendone la possibilità, non ha provveduto
alla demolizione spontaneamente.
---------------
MASSIMA
5. Anche il quarto motivo di ricorso,
diretto contro l’affermazione della
responsabilità della ricorrente –in qualità
di proprietaria– circa le spese della
demolizione d’ufficio, è infondato.
In merito alla posizione del proprietario la
giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. IV,
n. 3366/2017) ha affermato che “24. Nella
disciplina statale, infatti, non par dubbio
che il proprietario possa essere coinvolto
nel procedimento successivo all’accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di
demolizione (in particolare, nel
sub-procedimento relativo all’acquisizione
al patrimonio comunale del bene e dell’area
di sedime), a prescindere da una sua diretta
responsabilità nell’illecito edilizio. La
giurisprudenza amministrativa ha avuto
peraltro agio di affermare che tale sistema
non presenta profili di criticità sul piano
del rispetto dei principi costituzionali (in
tali ricomprendendo anche quelli desumibili
dalle disposizioni sovranazionali che
trovano applicazione nel nostro ordinamento,
quali norme interposte, in base all’art. 117
Cost.). E ciò per la dirimente ragione che
si tratta di sanzioni in senso improprio,
non aventi carattere “personale” ma reale,
essendo adottate in funzione di accrescere
la deterrenza rispetto all’inerzia
conseguente all’ordine demolitorio e di
assicurare ad un tempo la effettività del
provvedimento di ripristino dello stato dei
luoghi e la soddisfazione del prevalente
interesse pubblico all’ordinato assetto del
territorio (cfr., Cons. Stato, sez. VI,
15.04.2015 n. 1927)”.
La giurisprudenza (TAR Campania, Napoli,
sez. II sent. 11/06/2018 n. 3895) richiede
quindi una condotta specifica del
proprietario di fronte all’abuso altrui.
Infatti “il proprietario
incolpevole di abuso edilizio commesso da
altri, che voglia sfuggire all’effetto
sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo
unico dell’edilizia della demolizione o
dell’acquisizione come effetto della
inottemperanza all’ordine di demolizione,
deve provare la intrapresa di iniziative
che, oltre a rendere palese la sua
estraneità all’abuso, siano però anche
idonee a costringere il responsabile
dell’attività illecita a ripristinare lo
stato dei luoghi nei sensi e nei modi
richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le
“azioni idonee” ad escludere l’esclusione di
responsabilità o la partecipazione all’abuso
effettuato da terzi, prescindendo
dall’effettivo riacquisto della materiale
disponibilità del bene, si ritiene
necessario un comportamento attivo, da
estrinsecarsi in diffide o in altre
iniziative di carattere ultimativo nei
confronti del conduttore (“che si sia
adoperato, una volta venutone a conoscenza,
per la cessazione dell’abuso”,
tra tante, si veda Cassazione penale,
10.11.1998, n. 2948), al
fine di evitare l’applicazione di una norma
che, in caso di omessa demolizione
dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente
costruita e la relativa area di sedime
siano, di diritto, acquisite gratuitamente
al patrimonio del Comune, non bastando
invece a tal fine un comportamento meramente
passivo di adesione alle iniziative comunali”
(cfr. Cons. Stato sent. n. 2211 del
04.05.2015, Cons. Stato sent. n. 3897 del
07.08.2015)”.
Ugualmente la giurisprudenza (Tar
Lazio–Roma, sez. II-quater, n. 4134/2018) ha
affermato che “il
proprietario si debba ritenere responsabile
solo quando, avendo la disponibilità ed il
possesso del bene o avendoli successivamente
acquisiti, non abbia provveduto alla
demolizione”
(Consiglio di Stato 10.07.2017, n. 3391).
Alle stesse conclusioni la giurisprudenza è
giunta per le sanzioni pecuniarie. Infatti
ha osservato che “in
relazione alle sanzioni pecuniarie previste
in materia edilizia, sussiste una
presunzione di corresponsabilità a carico
del “proprietario”, desumibile dal disposto
dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, ma
ha, comunque, ragionevolmente riconosciuto
che il proprietario debba essere lasciato
indenne ove risultino accertate sia
l’estraneità dello stesso all’esecuzione
delle opere prive di titolo abilitativo, sia
la sua pronta attivazione con i mezzi
previsti dall’ordinamento per agevolarne la
rimozione, nel rispetto dei doveri di
diligenza, correttezza e vigilanza nella
gestione dei beni immobiliari, di cui ha la
titolarità"
(cfr., ex multis, Tar
Sicilia–Palermo, sez. II, n. 1381/2018;
C.d.S., sez. VI, 10/07/2017, n. 3391; Sez.
VI, 30.03.2015, n. 1650; Tar Lazio, Roma,
sez. II-bis, 10/01/2017, n. 378; 30/01/2017,
n. 1440).
In modo analogo la giurisprudenza (TAR
Lazio, Sez. I-quater, 28.12.2011 n. 10254;
TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza
11.01.2013 n. 64) afferma che “l’acquisizione
gratuita, quale sanzione autonoma
conseguente all’inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione, non affranca
da responsabilità il proprietario dell’area,
qualora risulti che egli abbia acquistato o
riacquistato la disponibilità del bene e non
si sia attivato per dare esecuzione
all’ordine di demolizione, o qualora emerga
che, pur essendo in grado di dare esecuzione
all’ingiunzione, non vi abbia comunque
provveduto”.
In sostanza le sanzioni
ripristinatorie (o reali), qual è l’ordine
di demolizione di un edificio abusivo,
colpendo l’oggetto dell’illecito, la res
illicita, riportano la situazione allo stato
quo ante e sono quindi correttamente
disposte nei confronti di chi ha la
disponibilità dell’immobile e ciò nonostante
si sia astenuto dal rimuovere l’abuso, oltre
che nei confronti dell’autore stesso
dell’abuso. Ne consegue che le spese per
l’esecuzione materiale della demolizione
sono poste correttamente anche in capo a
chi, pur avendone la possibilità, non ha
provveduto alla demolizione spontaneamente.
Nel caso di specie deve escludersi che la
ricorrente abbia dato prova di aver fatto
quanto era nelle sue possibilità giuridiche
e materiali per provvedere alla demolizione
degli abusi realizzati da Gi.Ri., e perciò
la stessa sopporta le spese conseguenti alla
rimozione d’ufficio di quegli abusi.
In definitiva quindi il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.03.2019 n. 506 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Destinazione
di un’area al solo esercizio della funzione
sportiva esistente.
La previsione di un PGT
che limita l’utilizzo di un’area alla
funzione sportiva esistente (nella
fattispecie il golf) costituisce una forma
di limitazione dell’attività economica del
tutto sproporzionata e ingiustificata da un
punto di vista urbanistico che finisce per
impedire l’esercizio dell’attività economica
privata superando i limiti stabiliti
dall’art. 41, co. 3, della Costituzione che
preserva la libertà economica privata nel
suo nucleo essenziale, impedendo che il
necessario coordinamento con gli interessi
pubblici finisca per svuotarne il contenuto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.03.2019 n. 504 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Il terzo motivo di ricorso, con il
quale la ricorrente contesta l’art. 24 delle
NTA nella parte in cui dispone che "l'area
a golf individuata come Impianto Sportivo a
Gestione Privata dovrà essere mantenuta
nelle attuali condizioni di prevalente
naturalità", e che "è ammessa
esclusivamente la funzione sportiva
esistente" è fondato.
In merito occorre rilevare che –secondo
quanto correttamente obiettato dalla
ricorrente– quest'ultimo vincolo, cioè
quello di mantenere la sola funzione
sportiva esistente, non è giustificato
dall'esigenza di preservare la "prevalente"
naturalità dei luoghi, perché sono
perfettamente compatibili con la stessa
varie discipline sportive (quali il percorso
vita, il tiro con l'arco, o il canottaggio
nei laghetti interni), indice di illogicità
di una simile previsione.
In secondo luogo occorre rilevare che
l'organizzazione del territorio comunale e
la gestione dello stesso vengono realizzate
attraverso il coordinamento delle varie
destinazioni d'uso in tutte le loro
possibili relazioni e le modifiche non
consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale
(vedi Cass., Sez. 3^, 07.03.2008, Desumine e
12.07.2002, Cinquegrani).
Lo strumento urbanistico rappresenta l'atto
di destinazione generica ed esso trova
attuazione nelle prescrizioni imposte dal
titolo che abilita a costruire, quale atto
di destinazione specifica che vincola il
titolare ed i suoi aventi causa. Possono
conseguentemente distinguersi:
- una destinazione d'uso urbanistico, riferita alle categorie
specificate dalla legge e dal D.M. n. 1444
del 1968;
- una destinazione d'uso edilizio, che attiene al singolo edificio
ed alle sue capacità funzionali.
Duplice è, dunque, l'esigenza correlata al
controllo della destinazione d'uso degli
immobili: da un lato quella di assicurare
tutela alla zonizzazione funzionale,
dall'altro quella di consentire
l'applicazione della normativa sugli
standards, regolatrice della
differenziazione infrastrutturale del
territorio.
Nel caso di specie è evidente che la
previsione del PGT comunale, che limita
l’utilizzo dell'area a golf alla funzione
sportiva esistente, costituisce una forma di
limitazione dell’attività economica del
tutto sproporzionata e ingiustificata da un
punto di vista urbanistico, che finisce per
impedire l’esercizio dell’attività economica
privata superando i limiti stabiliti
dall’art. 41, co. 3, della Costituzione, che
preserva la libertà economica privata nel
suo nucleo essenziale, impedendo che il
necessario coordinamento con gli interessi
pubblici finisca per svuotarne il contenuto.
Il motivo va quindi accolto con riferimento
alla limitazione della funzione d’uso
all’attività sportiva esistente.
3.1 Il motivo è invece infondato nella parte
in cui contesta l'art. 24 delle NTA, laddove
vieta altresì che siano eseguiti interventi
di ristrutturazione edilizia sull'esistente,
mentre consente di ampliare le attrezzature
a servizio del Golf nel limite di 500 mq di
s.l.p., da utilizzare una tantum.
Infatti il divieto di ristrutturazione della
c.d. cloubhouse rientra tra i poteri
di limitazione degli interventi ammessi sui
fabbricati esistenti (e, più in generale,
sul territorio), tanto più in un ambito di
grande delicatezza paesaggistico-ambientale
qual quello in questione, per il quale il
Comune ha preferito una scelta limitatamente
ampliativa rispetto ad un totale
stravolgimento della funzione dell’immobile.
3.2 Invece è fondato il motivo nella parte
in cui censura l'art. 24 laddove impone che
la volumetria concessa una tantum possa "essere
utilizzata per la creazione di nuovi spazi
funzionali esclusivamente all'attività
sportiva in oggetto", per poi
specificare che la stessa possa essere
destinata "soltanto a reception,
spogliatoi, locali impianti e/o depositi".
Infatti l’ammissibilità di funzioni
assimilabili a quella sportiva esistente,
che rientrino nella stessa categoria
funzionale ed abbiamo il medesimo carico
urbanistico, comporta che sia illegittimo il
vincolo all’utilizzo della cloubhouse
per attività strettamente legate a quella
sportiva esistente e non a quelle
ammissibili nell’area. |
URBANISTICA: Deve confermarsi l’adesione
all’orientamento già espresso dall’univoca
giurisprudenza della Sezione, la quale ha
già avuto modo di affermare, in più
occasioni, che della disposizione
dell’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga
disposizione contenuta all’articolo 14,
comma 4, della medesima legge, debba darsi
un’interpretazione costituzionalmente
orientata.
Per questa via, si è ritenuto di
dover escludere che l’inosservanza dei
termini normativamente prescritti possa
determinare automaticamente l’inefficacia
dell’intero procedimento sino ad allora
svolto.
In particolare, si è affermato che
una soluzione che sanzionasse con la perdita
di efficacia degli atti la mera violazione
del termine condurrebbe inevitabilmente
“(...) ad esiti contrastanti con il
principio di buon andamento dell’azione
amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.
E invero, accogliendo la tesi suddetta
“(...) l’attività amministrativa
precedentemente esercitata verrebbe posta
nel nulla, con conseguente obbligo per
l’amministrazione di rinnovare l’intero
procedimento, il tutto in contrasto con il
principio di economicità oltre che con la
ratio acceleratoria sottesa alla norma.
Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe,
invero, del tutto vanificata ove il termine
previsto dall’art. 13, c. 7, della legge
regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la
perdita di efficacia dell’atto di adozione
del piano di governo del territorio, in
quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare
l’intera procedura amministrativa.”.
Per converso, la soluzione interpretativa
cui la Sezione ha aderito, e che va in
questa sede ribadita, ha evidenziato che la
previsione dell’inefficacia degli atti
assunti è collocata incidentalmente nel
testo dell’articolo, il quale –come detto–
prevede che “entro novanta giorni dalla
scadenza del termine per la presentazione
delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale
decide sulle stesse, apportando agli atti di
PGT le modificazioni conseguenti
all'eventuale accoglimento delle
osservazioni”.
Ciò –secondo l’orientamento richiamato–
“consente di riferire la sanzione della
inefficacia alla inosservanza non del
termine di novanta giorni, previsto nella
prima parte della norma, ma di quanto
stabilito nella seconda parte della
disposizione, ossia alla violazione
dell’obbligo di decidere sulle osservazioni
e di apportare agli atti del p.g.t. le
conseguenti modificazioni.”.
Conseguentemente, “l’inefficacia degli atti
assunti si verifica solo quando la loro
adozione non sia stata preceduta dalla
decisione delle osservazioni presentate
dagli interessati”.
Tale lettura, oltre ad essere consentita dal
tenore letterale della previsione normativa,
è altresì in linea con il principio generale
per il quale i termini per la conclusione
dei procedimenti amministrativi sono di
regola non perentori, soprattutto allorché
si tratti di procedure complesse, con la
partecipazione di una pluralità di soggetti,
a garanzia del contemperamento di tutti gli
interessi, pubblici o privati, coinvolti”.
---------------
5. Il quinto
motivo di ricorso, con il quale è stata
contestata la tardività della conclusione
del procedimento di approvazione del PGT, è
infondato.
In materia la giurisprudenza di questa
Sezione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.04.2015 n. 1032) ha chiarito che
“Al riguardo, deve confermarsi l’adesione
all’orientamento già espresso dall’univoca
giurisprudenza della Sezione, la quale ha
già avuto modo di affermare, in più
occasioni, che della disposizione
dell’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga
disposizione contenuta all’articolo 14,
comma 4, della medesima legge, debba darsi
un’interpretazione costituzionalmente
orientata. Per questa via, si è ritenuto di
dover escludere che l’inosservanza dei
termini normativamente prescritti possa
determinare automaticamente l’inefficacia
dell’intero procedimento sino ad allora
svolto. In particolare, si è affermato che
una soluzione che sanzionasse con la perdita
di efficacia degli atti la mera violazione
del termine condurrebbe inevitabilmente
“(...) ad esiti contrastanti con il
principio di buon andamento dell’azione
amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta
“(...) l’attività amministrativa
precedentemente esercitata verrebbe posta
nel nulla, con conseguente obbligo per
l’amministrazione di rinnovare l’intero
procedimento, il tutto in contrasto con il
principio di economicità oltre che con la
ratio acceleratoria sottesa alla norma.
Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe,
invero, del tutto vanificata ove il termine
previsto dall’art. 13, c. 7, della legge
regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la
perdita di efficacia dell’atto di adozione
del piano di governo del territorio, in
quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare
l’intera procedura amministrativa.”.
Per converso, la soluzione interpretativa
cui la Sezione ha aderito, e che va in
questa sede ribadita, ha evidenziato che la
previsione dell’inefficacia degli atti
assunti è collocata incidentalmente nel
testo dell’articolo, il quale –come detto–
prevede che “entro novanta giorni dalla
scadenza del termine per la presentazione
delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale
decide sulle stesse, apportando agli atti di
PGT le modificazioni conseguenti
all'eventuale accoglimento delle
osservazioni”.
Ciò –secondo l’orientamento richiamato–
“consente di riferire la sanzione della
inefficacia alla inosservanza non del
termine di novanta giorni, previsto nella
prima parte della norma, ma di quanto
stabilito nella seconda parte della
disposizione, ossia alla violazione
dell’obbligo di decidere sulle osservazioni
e di apportare agli atti del p.g.t. le
conseguenti modificazioni.”.
Conseguentemente, “l’inefficacia degli atti
assunti si verifica solo quando la loro
adozione non sia stata preceduta dalla
decisione delle osservazioni presentate
dagli interessati”.
Tale lettura, oltre ad essere consentita dal
tenore letterale della previsione normativa,
è altresì in linea con il principio generale
per il quale i termini per la conclusione
dei procedimenti amministrativi sono di
regola non perentori, soprattutto allorché
si tratti di procedure complesse, con la
partecipazione di una pluralità di soggetti,
a garanzia del contemperamento di tutti gli
interessi, pubblici o privati, coinvolti”.
Poiché nel caso in questione le osservazioni
sono state controdedotte il motivo va
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.03.2019 n. 504 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: L’agevolazione Imu è familiare.
L’abitazione principale è quella in cui dimora il nucleo. Cassazione:
è onere del contribuente dimostrare che coniuge e figli vivono nella casa.
Ai
fini dell'agevolazione Imu l'abitazione principale non è quella acquistata
nel luogo dove si lavora ma è la dimora abituale di tutta la famiglia. È
onere del contribuente dimostrare che anche coniuge e figli vivono nella
casa.
Lo ha sancito la Corte di
Cassazione -Sez. V civile- che, con l'ordinanza
07.03.2019 n. 6634, ha respinto il ricorso del proprietario.
All'uomo era stato
notificato un accertamento della maggiore imposta. Lui si era difeso
sostenendo che l'immobile era situato nel Comune presso il quale era
collocata la sua sede di lavoro. Ma per l'ente locale la circostanza era del
tutto irrilevante dal momento che dai documenti era risultato che la moglie
e i figli vivessero altrove. La tesi dell'amministrazione è risultata
vincente in sede di merito e in sede di legittimità.
I Supremi giudici hanno
motivato la decisione ricordando che in tema di Imu «ai fini della spettanza
della detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale
intendendosi, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica),
dall'art. 8 del dlgs n. 504 del 1992 (come modificato dall'art. 1, comma
173, lett. b), della legge n. 296 del 2006, con decorrenza dall'01.01.2007), occorre che il contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora
abituale non solo propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere
il diritto alla detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il
medesimo».
In altre parole, l'invocata detrazione di cui all'art. 8, comma
2, dlgs 504 del 1992, il quale, come noto, dispone che «per abitazione
principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a
titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari
dimorano abitualmente», non è indissolubilmente legata alla residenza
anagrafica, e ciò non è affatto contraddetto ma semmai reso più evidente
dalla modifica normativa apportata dall'art. 1 comma 173, legge n. 296 del
2006 (Finanziaria 2007).
Secondo la nuova disposizione, infatti, per
abitazione principale si intende, salvo prova contraria, quella residenza
anagrafica che si limita a introdurre una presunzione relativa e non supera
il concetto di abitazione principale fondato sul criterio della dimora
abituale (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019). |
TRIBUTI: Il
Comune può pretendere l'IMU sulla prima casa non abitata da tutta la
famiglia.
Con l'ordinanza
07.03.2019 n. 6634, la Corte di Cassazione
-Sez. V civile- ha rigettato il ricorso
di un contribuente che sosteneva il proprio diritto di beneficiare
dell'agevolazione Ici/Imu sulla prima casa; seguendo un percorso
giurisprudenziale consolidato la Cassazione ha ribadito che per ottenere le
agevolazione sull'abitazione principale occorre fare riferimento alla dimora
abituale di tutta la famiglia ed è onere del contribuente dimostrare che
anche coniuge e figli vivano nella casa.
Il contenzioso tributario
Un contribuente è ricorso in Cassazione avverso la sentenza sfavorevole
della Ctr secondo la quale il ricorrente non aveva dimostrato, per gli anni
di imposta 2005 e 2006, che l'immobile oggetto del contenzioso (si trovava a
Roma) era adibito ad abitazione principale sua e dei suoi familiari. In
sostanza il Comune aveva recuperato l'Ici non versata sull'abitazione
principale sostenendo che il contribuente non aveva diritto a beneficiare
dell'agevolazione.
Nel ricorso in Cassazione il contribuente si è lamentato,
in particolare, della violazione dell'articolo 8 del Dlgs 504/1992 nonché
dell'articolo 4 del Dlgs 437/1996, in relazione all'articolo 1, comma 2, del
Dlgs 546/1992, per avere i giudici territoriali erroneamente valutato le
prove offerte a dimostrazione che l'immobile oggetto dell'atto impositivo
era effettivamente destinato alla residenza abitativa del contribuente.
La sentenza della Cassazione
La Cassazione sulla base del fatto che il presupposto per l'agevolazione è
la residenza anagrafica ovvero che il contribuente che possiede a titolo di
proprietà, usufrutto o altro diritto reale l'abitazione vi dimori
abitualmente con i suoi familiari, ritiene che il motivo di ricorso sia
inammissibile.
I giudici hanno osservato che la detrazione stabilita dall'articolo 8, comma
2, del Dlgs 504/1992 non è indissolubilmente legata alla residenza
anagrafica, e ciò non è affatto contraddetto ma semmai reso più evidente
dalla modifica normativa apportata dall'articolo 1, comma 173, della legge
296/2006 (Finanziaria 2007), a tenore della quale «... al comma 2,
dell'articolo 8, dopo le parole: adibita ad abitazione principale del
soggetto passivo" sono inserite le seguenti:», intendendosi per tale, salvo
prova contraria, quella di residenza anagrafica, che si limita ad introdurre
una presunzione relativa e non supera il concetto di abitazione principale
fondato sul criterio della dimora abituale.
La modifica introdotta dal legislatore deve essere letta nel senso che si
considera abitazione principale quella di residenza anagrafica , salvo prova
contraria che consente al contribuente, nei casi appunto di mancata
coincidenza, anche solo per un periodo, tra dimora abituale e residenza
anagrafica, di riservare alla prima il trattamento fiscale meno gravoso
previsto per «l'abitazione principale», prova che deve comunque
riguardare l'effettivo utilizzo dell'unità immobiliare quale dimora abituale
del nucleo famigliare del contribuente (Cassazione n. 13062/2017 e n.
14398/2010)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.03.2019).
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MASSIMA
8. Il primo motivo è inammissibile.
Con esso, il ricorrente censura la non corretta valutazione delle prove
offerte nel giudizio di merito per dimostrare che l'immobile in Roma
costituiva residenza effettiva del contribuente, in quanto acquistato nel
luogo di lavoro.
La doglianza tuttavia non attinge la ratio decidendi posta a
fondamento della decisione impugnata, che ha escluso l'agevolazione sul
presupposto che il beneficio spetta solo se nell'abitazione dimorano
abitualmente sia il contribuente che i suoi familiari, non essendo
sufficiente all'insorgere del diritto alla detrazione che il contribuente
dimori abitualmente nell'unità immobiliare se i suoi familiari vivono
altrove.
La sentenza della CTR si è conformata al principio di diritto affermato da
questa Corte e ribadito con la sentenza n. 26947/2017: «In
tema d'imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della
detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi,
salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), dall'art. 8 del
d.lgs. n. 504 del 1992 (come modificato dall'arti, comma 173, lett. b),
della l. n. 296 del 2006, con decorrenza dall'i gennaio 2007), occorre che
il contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo
propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla
detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo».
In applicazione di questo principio, la Corte ha confermato la sentenza
impugnata, che aveva escluso la detrazione sulla base dell'accertamento che
l'immobile "de quo" costituisse dimora abituale del solo ricorrente e
non della di lui moglie (v. anche Cassazione, ordinanze nn. 15444/2017,
12299/2017, 13062/17, 12050/2010).
L'invocata detrazione di cui all'art. 8, comma 2, D.Lgs. n.
504 del 1992, il quale, come noto, dispone che "per abitazione principale
si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di
proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano
abitualmente", non è indissolubilmente legata alla residenza anagrafica,
e ciò non è affatto contraddetto ma semmai reso più evidente dalla modifica
normativa apportata dall'art. 1, comma 173, L. n. 296 del 2006 (Finanziaria
2007), a tenore della quale "... al comma 2 dell'articolo 8, dopo le
parole: "adibita ad abitazione principale del soggetto passivo" sono
inserite le seguenti: ", intendendosi per tale, salvo prova contraria,
quella di residenza anagrafica, che si limita ad introdurre una presunzione
relativa e non supera il concetto di abitazione principale fondato sul
criterio della dimora abituale di cui si è prima detto.
La modifica legislativa del 2006 deve essere letta nel
senso che -con effetto dall'annualità d'imposta 2007- si considera
abitazione principale quella di residenza anagrafica, salvo la prova
contraria che consente al contribuente, nei casi appunto di mancata
coincidenza, anche solo per un periodo di tempo, tra dimora abituale e
residenza anagrafica, di riservare alla prima il trattamento fiscale meno
gravoso previsto per "l'abitazione principale", prova che deve
comunque riguardare l'effettivo utilizzo dell'unità immobiliare quale dimora
abituale del nucleo famigliare del contribuente
(Cass. n. 13062/2017; Cass. n. 14398/2010).
In mancanza di detta prova, il ricorso deve essere respinto con aggravio di
spese. |
TRIBUTI: Ici, non pesa il vincolo a tempo. L’area risulta edificabile per il Prg e
quindi assoggettabile. Per la Suprema corte i provvedimenti non fermano la
trasformazione dell’area.
Un'area
è edificabile e soggetta al pagamento dell'Ici, dell'Imu, della Tasi e
dell'imposta di registro, anche se sussiste un vincolo d'inedificabilità che
ha interrotto il procedimento di trasformazione urbanistica e nonostante sia
previsto un vincolo paesaggistico, che subordina l'edificabilità concreta
dell'area al parere della Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali. Un
vincolo temporaneo, infatti, non può avere alcuna incidenza
sull'assoggettamento a imposizione del terreno.
Lo
ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
06.03.2019 n. 6431.
Per i giudici di piazza Cavour, «nel caso di specie, hanno errato i giudici
d'appello a ritenere sussistente un vincolo d'inedificabilità che aveva
interrotto il procedimento di trasformazione urbanistica, poiché il terreno
oggetto di controversia, era inserito in zona edificabile, e né il vincolo
paesaggistico, che subordinava l'edificabilità concreta dell'area al parere
della Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali, né la proroga del
vincolo d'immodificabilità temporaneo, poteva incidere sull'assoggettabilità
a imposizione Ici, in quanto, tali vincoli non avevano eliminato il
procedimento oramai avviato di trasformazione dell'area (v. decreto
assessorile - all. 2 -), in quanto avevano solo natura conformativa della
destinazione urbanistica dell'area».
Le aree che risultano edificabili in base al piano regolatore, dunque, sono
soggette al pagamento delle imposte locali ed erariali se i vincoli di
destinazione non comportano l'inedificabilità assoluta.
La Cassazione, con
l'ordinanza 7849 del 29.03.2018, aveva però precisato che in presenza di
vincoli che gravano sull'area il contribuente è tenuto a pagare le imposte
locali su un valore dell'immobile notevolmente ridotto, poiché «i vincoli d'inedificabilità
assoluta, stabiliti in via generale e preventiva nel piano regolatore
generale, vanno tenuti distinti dai vincoli di destinazione che non fanno
venire meno l'originaria natura edificabile».
Nozione di area edificabile e piano regolatore. Per il pagamento delle
imposte sull'area edificabile conta il suo inserimento nel piano regolatore
adottato dal comune in un dato momento e non hanno alcuna rilevanza la
mancata approvazione dello strumento urbanistico, da parte della regione, o
le modifiche che sono intervenute successivamente. Quindi, sono dovuti i
tributi sia erariali sia locali fino al momento in cui l'area risulta
edificabile dal piano regolatore, anche se non approvato in via definitiva o
modificato (Cassazione, ordinanza 20817/2017).
Ciò che assume rilievo ai
fini del prelievo fiscale è lo stato di fatto del terreno secondo lo
strumento urbanistico che lo conforma. L'edificabilità dei suoli, ai fini
fiscali, non è condizionata neppure dall'approvazione della regione e
dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo proprio perché il valore
del terreno nelle contrattazioni aumenta per effetto della sola adozione di
un piano regolatore.
In effetti, l'articolo 36, comma 2 del decreto-legge
legge 223/2006 (manovra Bersani) ha chiarito per l'Ici che un'area è da
considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo
strumento urbanistico generale deliberato dal comune, indipendentemente
dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi. La
Cassazione (sentenza 20097/2009) ha sostenuto che rientra nella competenza
degli stati membri della Comunità europea la qualificazione delle aree
edificabili. Ma l'ordinamento italiano non contiene una definizione generale
di terreno edificabile.
C'è piuttosto nel sistema fiscale una tendenza a ricomprendere in questa categoria, per determinare la base imponibile di
alcuni tributi (Iva, imposta di registro, Ici, Imu, Tasi), tutte le aree la
cui destinazione edificatoria sia prevista dallo strumento urbanistico
generale deliberato dal comune, anche in mancanza dei previsti atti di
controllo (approvazione regionale) e degli strumenti attuativi. In realtà,
non interessa che il suolo sia immediatamente edificabile: quello che conta
è che sia stata conclusa una fase rilevante del procedimento per attribuire
all'area la natura edificatoria o per modificare le precedenti previsioni
che escludevano questa destinazione.
I vincoli urbanistici. I giudici di legittimità hanno cambiato spesso idea
sulla tassazione delle aree edificabili destinate dal Prg a verde pubblico o
comunque soggette a vincoli pubblici. Con l'ordinanza 10231/2018 hanno
stabilito che le aree destinate a spazi pubblici per parchi, giochi e sport,
hanno un vincolo di destinazione che impedisce ai privati di potere
edificare e, pertanto, non possono essere assoggettate al pagamento di Ici,
Imu e Tasi.
Nello specifico hanno sostenuto che deve «negarsi la natura
edificabile delle aree, come quella del caso di specie, comprese in zona
destinata dal Prg ad «Aree per spazi pubblici a parco, gioco e lo sport a
livello comunale» in quanto tale destinazione preclude ai privati forme di
trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di
edificazione». Mentre con la sentenza 19131/2007 avevano ritenuto che l'Ici
fosse dovuta su un'area edificabile sottoposta a vincolo urbanistico e
destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore di mercato
dell'immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione.
Nello stesso modo
si è pronunciata la Cassazione con l'ordinanza 15729/2014, laddove ha
precisato che i vincoli urbanistici o paesaggistici non escludono che
un'area possa essere qualificata edificabile e che sia soggetta al pagamento
delle imposte locali. Ma l'amministrazione comunale deve verificare se i
vincoli posti dal piano regionale impediscono l'edificabilità dell'area o se
le limitazioni ne riducono il valore di mercato. I piani paesaggistici
regionali prevalgono sugli strumenti urbanistici comunali.
Anche i limiti amministrativi posti nei piani regolatori comunali non fanno
venir meno il regime fiscale dei suoli edificabili. Per esempio, i vincoli
ambientali che gravano sull'area non escludono che sia assoggettata a
imposizione. La presenza di vincoli ha sicuramente un'incidenza sul valore
venale in comune commercio dell'area e sulla base imponibile. L'imposta va
versata in misura ridotta, in quanto per quantificare il valore dell'area
occorre fare riferimento anche alla zona territoriale di ubicazione,
all'indice di edificabilità e alla destinazione d'uso consentita. L'area
deve essere considerata edificabile anche se qualificata «standard» e
vincolata a esproprio.
L'orientamento, però, non è uniforme neppure nella giurisprudenza di merito.
Per esempio, secondo la commissione tributaria regionale di Milano (sentenza
71/2013) un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore
generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici.
Il vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area edificabile
poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione
del bene. Per il giudice d'appello lo strumento urbanistico che destina
l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport, rende palese il vincolo
di utilizzo meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità.
Le dimensioni del terreno.
Sono soggette a imposizione anche le aree che non hanno le superfici minime
per essere edificate. L'estensione del terreno non incide sulla natura
dell'area, poiché è possibile accorpare il lotto con un fondo vicino della
zona o asservirlo a un fondo attiguo che ha la stessa destinazione
urbanistica.
In effetti, il proprietario dell'area potrebbe cedere il diritto a edificare
sul lotto o acquisire la titolarità di altro terreno limitrofo, al fine di
raggiungere le dimensioni minime. Sempre la Cassazione (sentenza 16485/2016)
ha precisato che la natura edificabile non viene meno neppure per la
particolare conformazione del lotto
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019). |
TRIBUTI: L'assoggettabilità
all'ICI prescinde dall'approvazione del piano regolatore generale.
Né il vincolo paesaggistico, che subordina l'edificabilità concreta di
un'area al parere della Sovraintendenza ai beni culturali e ambientali, né
la proroga del vincolo d'immodificabilità temporaneo possono incidere sull'assoggettabilità
all'Ici.
Entrambi i vincoli, infatti, non eliminano il procedimento ormai avviato di
trasformazione dell'area, avendo natura solo conformativa della destinazione
urbanistica.
Così scrive la VI Sez. civile della Corte di Cassazione
nella
ordinanza 06.03.2019 n. 6431.
Annullata la sentenza della Ctr Sicilia
La Cassazione rimanda alla Commissione tributaria di Palermo, sezione di
Messina, il giudizio sull'assoggettabilità all'Ici, nel 2004, di un terreno
che in quell'anno non era «concretamente edificabile» per l'assenza dello
strumento urbanistico necessario e sul quale, inoltre, gravava il vincolo
paesaggistico.
L'edificabilità di un'area, infatti, così come il suo valore, secondo un
orientamento consolidato della Cassazione relativo all'imposta di registro,
prescinde dalla mancata approvazione o dalle modifiche del piano regolatore
generale adottato dal Comune.
È sufficiente che si trovi in zona edificabile, non avendo importanza se sia
giù urbanizzata oppure non, o ancora se sia in attesa dei piani
particolareggiati o di quelli di lottizzazione. Il procedimento che porterà
alla possibilità di costruire sull'area è ormai iniziato.
L'indice di edificabilità, anche ai soli fini Ici -spiega inoltre la
Cassazione- è desumibile «dall'articolo 9 del Dpr 380/2001, che
disciplina i casi di attività edificatoria in aree che, come quella della
controversia, sono poste al di fuori del centro abitato dei Comuni
sprovvisti di strumento urbanistico»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.03.2019).
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MASSIMA
Il primo motivo è fondato, con assorbimento del secondo.
Infatti, secondo il consolidato orientamento di questa Corte "In
tema di imposta di registro, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 36,
comma 2, del d.l. 04.07.2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla
legge 04.08.2006, n. 248, di interpretazione autentica del d.P.R.
26.04.1986, n. 131, l'edificabilità di un'area, ai fini dell'inapplicabilità
del sistema di valutazione automatica previsto dall'art. 52, quarto comma,
del d.P.R. n. 131 cit., è desumibile dalla qualificazione attribuita nel
piano regolatore generale adottato dal Comune, anche se non ancora approvato
dalla Regione ovvero in mancanza degli strumenti urbanistici attuativi,
dovendosi ritenere che l'avvio del procedimento di trasformazione
urbanistica sia sufficiente a far lievitare il valore venale dell'immobile,
senza che assumano alcun rilievo eventuali vicende successive incidenti
sulla sua edificabilità, quali la mancata approvazione o la modificazione
dello strumento urbanistico, in quanto la valutazione del bene deve essere
compiuta in riferimento al momento del suo trasferimento, che costituisce il
fatto imponibile, avente carattere istantaneo.
L'impossibilità di
distinguere, ai fini dell'inibizione del potere di accertamento, tra zone
già urbanizzate e zone in cui l'edificabilità è condizionata all'adozione
dei piani particolareggiati o dei piani di lottizzazione non impedisce,
peraltro, di tener conto, nella determinazione del valore venale
dell'immobile, della maggiore o minore attualità delle sue potenzialità
edificatorie, nonché della possibile incidenza degli ulteriori oneri di
urbanizzazione" (Cass. n.
11182/2014, Cass. sez. un. n. 25506/2006).
Nel caso di specie, hanno errato i giudici d'appello a ritenere sussistente
un vincolo d'inedificabilità che aveva interrotto il procedimento di
trasformazione urbanistica, poiché il terreno oggetto di controversia, era
inserito in zona edificabile, e né il vincolo paesaggistico -che subordinava
l'edificabilità concreta dell'area, al parere della Sovraintendenza ai beni
culturali e ambientali- né la proroga del vincolo d'immodificabilità
temporaneo, poteva incidere sull'assoggettabilità a imposizione ICI, in
quanto, tali vincoli non avevano eliminato il procedimento oramai avviato di
trasformazione dell'area (v. decreto assessorile — all. 2 in quanto avevano
solo natura conformativa della destinazione urbanistica dell'area. |
EDILIZIA PRIVATA: La
qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di
modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio
i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici "et similia",
ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della
funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne
risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che,
a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un
manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la
creazione di un "nuovo volume".
Ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo
volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal
precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera come, ad
esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma.
---------------
6. Il ricorso è infondato.
6.1. Il locale a “forma esagonale” realizzato in aderenza alla unità
immobiliare ha dimensioni significative (“misure medie interne mt. 4,30 x
5,05, altezza 2,70”) ed è suscettibile di utilizzo autonomo, essendo
destinato a “magazzino-ripostiglio di attrezzi vari”, di talché è
escluso che il manufatto in questione possa essere qualificato alla stregua
di una pertinenza urbanistica: “Nemmeno può poi trovare accoglimento la
deduzione secondo la quale, nel caso in esame, circa il deposito attrezzi,
la legnaia e la tettoia, verrebbero in considerazione opere di natura
pertinenziale. Vengono invece in rilievo manufatti che, per consistenza e
tipologia, hanno comportato una trasformazione del territorio e del suolo
non irrilevante e che in modo corretto sono stati fatti ricadere nella
categoria degli interventi che richiedono il permesso di costruire ai sensi
dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001. … omissis … La qualifica di
pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e
accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici "et similia", ma non
anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si
caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta
principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti
possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica (cfr. Cons. St.,
Sez. VI, 02.01.2018, n. 24, 02.02.2017, n. 694, 04.01.2016, n. 19,
11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012). La
giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a
differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un
manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la
creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615,
cit.) … omissis … ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia
realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una
qualsiasi opera come, ad esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma”
(Cons. Stato, Sez. VI, 06.02.2019 n. 902)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.03.2019 n. 500 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un porticato terrazzato chiuso lateralmente su due lati e
destinato ad ospitare arredi fissi configura un organismo edilizio avente
natura e consistenza tali da ampliare in superficie o volume l'edificio
preesistente e, pertanto, per la sua realizzazione è necessario ottenere un
permesso di costruire”.
Un porticato, per il suo carattere trasformativo ed innovativo rispetto a
quello manutentivo e conservativo, comporta un manufatto del tutto nuovo per
consistenza e materiali utilizzati, idoneo con riguardo al tipo di copertura
ed alla presenza del parapetto a svolgervi varie attività della vita
quotidiana, in quanto tale comportante nuova volumetria, nuova superficie
utile e quindi, per la sua realizzazione, il previo rilascio del permesso di
costruire in mancanza del quale costituisce abuso edilizio.
---------------
6.2. A sua volta, il porticato ha dimensioni rilevanti (“mt. 10,20 x 6,20”),
risulta completamente chiuso su due lati (“con muri ed infissi”), ed
aperto soltanto in parte sugli altri due lati, sicché anche il detto
intervento, essendo idoneo ad un utilizzo autonomo, e stante il correlato
incremento della volumetria dell’immobile, deve essere qualificato in
termini di nuova costruzione, e come tale resta assoggettato alla sanzione
della demolizione: “Un porticato terrazzato chiuso lateralmente su due
lati e destinato ad ospitare arredi fissi configura un organismo edilizio
avente natura e consistenza tali da ampliare in superficie o volume
l'edificio preesistente e, pertanto, per la sua realizzazione è necessario
ottenere un permesso di costruire” (TAR Salerno, Sez. II, 13.03.2018 n.
386); in senso conforme TAR Catanzaro, Sez. I, 10.11.2012 n. 1087); “Un
porticato, per il suo carattere trasformativo ed innovativo rispetto a
quello manutentivo e conservativo, comporta un manufatto del tutto nuovo per
consistenza e materiali utilizzati, idoneo con riguardo al tipo di copertura
ed alla presenza del parapetto a svolgervi varie attività della vita
quotidiana, in quanto tale comportante nuova volumetria, nuova superficie
utile e quindi, per la sua realizzazione, il previo rilascio del permesso di
costruire in mancanza del quale costituisce abuso edilizio” (Consiglio
di Stato, Sez. IV, 13.10.2010 n. 7481)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.03.2019 n. 500 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La valutazione dell’eventuale pregiudizio che la demolizione
potrebbe arrecare ad altra parte dell’edificio è questione da rinviare alla
fase esecutiva e non, genetica, dell'ordinanza di demolizione.
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L'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata nei confronti
del proprietario dell'opera abusiva, anche se non responsabile della
relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via
ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del
soggetto interessato.
La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in
termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini
dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la
possibilità dell'attuale proprietario di avvalersi, ricorrendone i
presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il suo dante causa.
---------------
6.3. Né possono trovare accoglimento le doglianze che si appuntano sui
presunti rischi alla statica dell’immobile, atteso che negli atti impugnati
non vi è alcun riferimento alla impossibilità tecnica di addivenire alla
demolizione delle opere abusive senza pregiudizio per il fabbricato, né la
prova di tale circostanza è offerta dal ricorrente.
In ogni caso, la valutazione dell’eventuale pregiudizio che la demolizione
potrebbe arrecare ad altra parte dell’edificio è questione da rinviare alla
fase esecutiva e non, genetica, della ordinanza impugnata (cfr. TAR
Catanzaro, Sez. II, 18.10.2018 n. 1767; 07.02.2018 n. 370).
6.4. Quanto poi alle censure concernenti la mancata notifica della
ingiunzione al presunto responsabile dell’abuso e l’omesso accertamento
dell’epoca in cui sono stati realizzati gli interventi, si osserva che
l'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata nei confronti
del proprietario dell'opera abusiva, anche se non responsabile della
relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via
ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del
soggetto interessato.
La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in
termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini
dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la
possibilità dell'attuale proprietario di avvalersi, ricorrendone i
presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il suo dante causa (cfr.
TAR Napoli, Sez. III, 08.01.2016 n. 14)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.03.2019 n. 500 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L’autorizzazione edilizia non copre i reati.
Attività di costruzione.
Il rilascio dell'autorizzazione edilizia non impedisce la realizzazione dei
reati commessi nel corso dell'attività di costruzione.
La Corte di Cassazione - Sez. III penale, con
sentenza
05.03.2019 n. 9705, pone
il principio per il quale il costruttore sia ugualmente responsabile anche
nel caso in cui la sua attività sia stata autorizzata da parte dell'amministrazione con apposito provvedimento.
Il procuratore generale sosteneva in Cassazione che nonostante la presenza
di un'autorizzazione da parte dell'amministrazione è possibile la
configurabilità dei reati edilizi, nel caso in cui il provvedimento concesso
contrasti con gli strumenti urbanistici generali. La tesi veniva ritenuta
fondata.
I giudici della Corte escludono che la presenza di un
autorizzazione edilizia sia di per sé sola idonea ad evitare la configurabilità della responsabilità penale. Nella motivazione, infatti,
osservano gli ermellini come sia un potere dovere del giudice penale in sede
di valutazione dell'esistenza di eventuali reati edilizi, compiere un
accurata verifica circa l'atto autorizzativo all'attività di costruzione.
Esso perderà ogni efficacia, non solo nel caso in cui sia stato posto in
essere in maniera illecita, ma altresì nel caso in cui contrasti ad ogni
modo agli strumenti urbanistici generali, anche in tale secondo caso infatti
esso non assumerà alcuna efficacia, al fine di escludere il carattere
illecito dell'attività realizzata dal reo che resterà parimenti
responsabile per i reati commessi nel corso nell'esecuzione delle opere
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019).
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MASSIMA
1. Il Ricorso è inammissibile.
Si premette che le Sezioni Unite -con la sentenza 12/11/1993, ric. Borgia-
hanno affermato che «al giudice penale non è affidato alcun sindacato
sull'atto amministrativo, ma questi, nell'esercizio della potestà penale, è
tenuto ad accertare la conformità tra ipotesi di fatto (opera eseguenda o
eseguita) e fattispecie legale».
Tale fattispecie è delineata dalle
disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia,
dalle previsioni degli strumenti urbanistici e dalle prescrizioni del
regolamento edilizio.
Consegue che in tema di reati edilizi il giudice penale ha il potere-dovere
di verificare l'illegittimità del titolo abilitativo, in quanto contrastante
con le previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e
della disciplina urbanistico-edilizia vigente, senza che ciò comporti
l'eventuale "disapplicazione" dell'atto amministrativo ai sensi
dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E.
Attraverso tale esame, infatti, viene svolta una verifica in concreto della
fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela apprestata dalla L. n.
47 del 1985, art. 20, oggi D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, da identificarsi
non più -come nella L. n. 1150 del 1942- nel bene strumentale del
controllo e della disciplina degli usi del territorio, bensì nella
salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli
strumenti urbanistici
(cfr. Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017 Rv. 273218,
Menga).
Quanto poi alla rilevanza, ai fini della configurazione di reati edilizi o
urbanistici, della non-conformità dell'atto amministrativo alla normativa
che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e
regionali in materia urbanistico-edilizia ed alle previsioni degli strumenti
urbanistici, essa ricorre non soltanto se l'atto abilitativo sia illecito,
cioè frutto di attività criminosa (ed a prescindere da eventuali collusioni
dolose del soggetto privato interessato con organi dell'amministrazione), ma
anche, più semplicemente, nelle ipotesi in cui l'emanazione dell'atto sia
vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge così come in
quelle di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere
(cfr.
Sez. 3, n. 40425 del 28/09/2006 Cc. Rv. 237038, Consiglio; Sez. 3, n. 37847
del 14/05/2013 Rv. 256971 Sonni).
Con specifico riferimento al reato di lottizzazione abusiva, questa Corte,
con decisione che il Collegio condivide,
ha precisato che il rilascio della
concessione edilizia non esclude l'affermazione della responsabilità penale
ove si riscontri la difformità dell'intervento realizzato o realizzando
rispetto agli strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di
attuazione del piano regolatore generale; in tali casi il giudice lungi dal
procedere ad una "disapplicazione" dell'atto amministrativo, provvede
piuttosto ad accertare la conformità del fatto concreto rispetto alla
fattispecie astratta descrittiva del reato.
Infatti,
è stato osservato che una volta che il giudice constati il
contrasto tra la lottizzazione e la normativa urbanistica, giunge
all'accertamento dell'abusiva realizzazione di opere edilizie prescindendo
da qualunque giudizio sull'atto amministrativo.
La Suprema Corte ha altresì aggiunto che
la contravvenzione di lottizzazione
abusiva si configura come reato a consumazione alternativa, essendo
suscettibile di realizzazione sia quando manchi un provvedimento di
autorizzazione, sia quando quest'ultimo sussista ma contrasti con le
prescrizioni degli strumenti urbanistici; ciò perché grava sui soggetti che
predispongono un piano di lottizzazione, sui titolari di concessione, sui
committenti e costruttori l'obbligo di controllare la conformità dell'intera
lottizzazione e delle singole opere alla normativa urbanistica ed alle
previsioni di pianificazione
(cfr. sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017 Rv.
270644 Puglisi).
Gli indirizzi di legittimità su esposti peraltro, a fronte di talune pronunce
che hanno invece valorizzato, ai fini della configurabilità dei reati sopra
citati ed in caso di interventi abusivi eseguiti sul presupposto
dell'avvenuto rilascio di un permesso di costruire, il carattere illecito o
macroscopicamente illegittimo dell'atto abilitativo (cfr. tra le altre Sez.
3, n. 7423 del 18/12/2014 Rv. 263916 Cervino; Sez. 4, n. 38610 del
20/07/2017 Rv. 27093 Comune Di Sperlonga e altro), sono stati di recente
confermati con sentenza di questa sezione (n. 49687 del 30.10.2018, Bruno
non massimata) con argomentazioni ampie ed articolate, che, in questa sede,
è sufficiente sintetizzare.
Va quindi ribadito ed
evidenziato il principio per cui «nell'ipotesi in cui si edifichi con
permesso di costruire illegittimo la questione riguarda piuttosto il potere
di accertamento del giudice penale dinanzi ad un provvedimento che
costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato. In tale ambito
[...] l'individuazione dell'interesse tutelato dalle norme penali
urbanistiche [...] svolge [...] la funzione di attribuire l'esatto
significato all'elemento normativo delineato nella fattispecie
incriminatrice di riferimento [...] dovendo ritenersi compreso nel tipo e,
dunque, nel controllo, tutto ciò che, al di là della lettera della legge,
sia imposto dalla immancabile funzione interpretativa, anche estensiva,
della disposizione penale [...], sicché il giudice penale deve verificare,
al fine di ritenere sussistente o meno il reato, tutto ciò che nella
descrizione delle varie fattispecie penali sia stato indicato,
esplicitamente o implicitamente, come rilevante [...]. Ne consegue che
-quando la mancanza o l'illegittimità di un atto amministrativo [...]
costituisce un elemento normativo della fattispecie incriminatrice- non
viene in rilievo il potere dell'autorità giudiziaria di disapplicare un atto
amministrativo illegittimo, ma il potere di accertamento giurisdizionale,
inteso quale diretta espressione del principio di legalità [...] e dunque
detto potere deve essere esercitato anche in ordine ad un provvedimento
(amministrativo) quando l'atto costituisce presupposto o elemento
costitutivo di un reato o, comunque, incide su di esso
(Sez. 3, n. 38856 del
04/12/2017, dep. 2018, Schneider, non mass.)».
E' stato in altri termini sottolineato, con la predetta sentenza, che
l'esame del giudice penale riguarda l'integrazione o meno della fattispecie
penale in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a
tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono
organicamente, assumendo una valenza descrittiva. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità
volontaria, interdetti il passaggio di categoria o le mansioni superiori
della PA di appartenenza.
Impossibile fornire un'interpretazione estensiva alla norma sulla mobilità
volontaria (articolo 30 del Dlgs 165/2001) che possa attrarre eventuali
mansioni superiori svolte in precedenza dal dipendente, e autorizzare anche
il passaggio di categoria avvenuto in attesa del trasferimento verso la
nuova amministrazione.
Queste conclusioni sono state confermate dalla
Corte di Cassazione - Sez. lavoro (ordinanza
05.03.2019 n. 6337).
Il caso
Un dipendente transitato per mobilità volontaria verso un'altra
amministrazione pubblica ha reclamato l'inquadramento superiore, dovuto alle
mansioni superiori svolte nell'amministrazione di appartenenza prima del
trasferimento e successivamente acquisite a seguito di passaggio alla
categoria superiore ottenuto mediante superamento del corso-concorso di
riqualificazione. Avendo negato l'amministrazione di destinazione un
possibile inquadramento superiore, diverso da quello posto in disponibilità
in sede di avviso di mobilità, il dipendente ha chiesto tutela al giudice
del lavoro. Mentre il Tribunale di primo grado ha accolto le motivazioni del
dipendente, la Corte di appello le ha negate.
A sostegno della correttezza delle ragioni dell'ente, i giudici di appello
hanno evidenziato che nella mobilità volontaria il trasferimento avviene con
inquadramento nell'area funzionale e in posizione economica corrispondente a
quella posseduta presso l'amministrazione di provenienza, escludendo che ci
possa essere una preventiva valutazione tra le mansioni svolte presso l'ente
di provenienza e che possano, a tal fine, essere di aiuto un'eventuale
comparazione tra profilo professionale della prima amministrazione e quello
presso l'amministrazione di arrivo.
Pertanto, rispetto alle conclusioni del primo grado, va esclusa
un'interpretazione estensiva della normativa sulla mobilità volontaria. Va
anche escluso che il dipendente possa reclamare presso l'amministrazioni di
arrivo eventuali mansioni superiori svolte precedentemente, e che il
superamento successivo della categoria superiore acquisita dal dipendente,
dopo il passaggio per mobilità, possa avere ripercussioni
sull'amministrazione di arrivo se l'esito del concorso è avvenuto
successivamente alla data della mobilità volontaria.
Il dipendente ha impugnato la sentenza della Corte territoriale in quanto, a
suo dire, non avrebbe correttamente valorizzato sia il profilo professionale
di provenienza sia le mansioni svolte di fatto e di diritto ottenute con il
passaggio nella categoria superiore.
La conferma della Cassazione
Secondo la Cassazione le motivazioni del dipendente sono contrarie a un
consolidato orientamento del giudice di legittimità, il quale ha avuto modo
di precisare che nella mobilità volontaria del pubblico impiego si realizza
una modificazione meramente soggettiva del rapporto, soggetta a precisi
vincoli quanto alla conservazione dell'anzianità, della qualifica e del
trattamento economico. Si tratta, in altri termini, della cessione del
contratto, dove al dipendente trasferito si applica il trattamento
economico, compreso quello accessorio, e normativo previsto presso l'ente di
destinazione.
In questo caso l'ente di arrivo non ha alcun obbligo di verificare una
possibile comparazione tra le mansioni in concreto svolte e tra i profili
professionali assegnati prima e dopo il trasferimento. Di conseguenza, ha
ben operato l'ente di arrivo che ha proceduto solo a trovare una
corrispondenza tra l'area funzionale e la posizione economica possedute
nell'amministrazione di provenienza e quelle attribuite dall'amministrazione
d destinazione.
Infine, non può trovare accoglimento l'avanzamento di carriera del
dipendente, perché la pubblicazione della graduatoria è avvenuta solo dopo
al decreto di trasferimento. Su questo punto la Cassazione ha a suo tempo
confermato che non sussiste alcun diritto del dipendente di ottenere la
qualifica superiore acquisita, in attesa del passaggio, nell'amministrazione
di provenienza non essendo coerente con le esigenze di imparzialità e buon
andamento che un ente terzo incida sul rapporto di lavoro di un'altra Pa
(tra le tante Cass. n. 19925/2016)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.03.2019).
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MASSIMA
- il motivo è infondato, in quanto la Corte territoriale ha
spiegato in maniera chiara, lineare ed esaustiva le ragioni che la hanno
indotta a ritenere corretto l'operato del Ministero odierno controricorrente;
- l'accertamento di fatto si struttura su alcune circostanze
rimaste incontestate o che non hanno trovato smentita negli atti di causa:
a) il Fanti era transitato volontariamente dal
Ministero della Difesa al Ministero della Giustizia (decreto n. 7585
dell'11.03.2002) e al momento del passaggio possedeva la posizione economica
B2 appartenente all'Area funzionale B del contratto collettivo per il
personale del comparto dei Ministeri del 2002;
b) la mobilità era stata attuata per il profilo
di ausiliario per il quale vi era la carenza di organico che giustificava il
passaggio diretto ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. n. 165;
c) presso l'amministrazione penitenziaria non esiste il
profilo di programmatore addetto ai terminali evoluti, e l'area B contempla
i soli profili di ausiliario, collaboratore, contabile, educatore, operatore
di vigilanza e tecnico, così che al Fa. è a stato assegnato il profilo di
ausiliario;
- la soluzione della fattispecie è correttamente inquadrata
nel consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità che,
con l'espressione "passaggio diretto" contenuta nell'art. 30 del
d.lgs. n. 165, qualifica non già un particolare tipo contrattuale
civilistico ma un peculiare strumento, in campo pubblicistico, idoneo ad
attuare il trasferimento del personale da un'amministrazione a un'altra,
attribuendovi il significato di una modificazione meramente soggettiva del
rapporto, soggetta a precisi vincoli quanto alla conservazione
dell'anzianità, della qualifica e del trattamento economico;
- in tale contesto, il passaggio volontario del
dipendente da un'amministrazione pubblica a un'altra viene inquadrato
nell'ambito dell'istituto della cessione del contratto disciplinato dagli
artt. 1406 ss. cod. civ., con la conseguenza che il complesso unitario di
diritti ed obblighi derivanti dal contratto subisce una modificazione
soggettiva, mentre rimangono immutati gli elementi oggettivi essenziali che
lo connotano (Sez. Un. n. 6420 del
2006 e n. 19250 del 2010; Cass. n. 2 del 2017; n. 24724 del 2014; n. 5949
del 2012);
- il passaggio da un ente pubblico a un altro
comporta l'inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e
in un mutato contesto di regole normative e retributive, con la conseguenza
che al dipendente trasferito si applica il trattamento economico, compreso
quello accessorio, e normativo previsto presso l'ente di destinazione (salvi
eventuali assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il
divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito),
non giustificandosi diversità di trattamento tra dipendenti dello stesso
Ente a seconda della provenienza (Cass
n. 18299 del 2017; n. 169 del 2017; n. 22782 del 2016; n. 20557 del 2016; n.
13850 del 2016; n. 24949 del 2014; n. 2181 del 2013; n. 5959 del 2012);
- alla stregua dell'art. 30 del d.lgs. n. 165, in
capo all'amministrazione di destinazione non sussiste pertanto alcun obbligo
di operare una comparazione tra le mansioni in concreto svolte e tra i
profili professionali assegnati prima e dopo il trasferimento, atteso che la
norma non prevede detto tipo di valutazione ma si limita a disporre che nel
novero delle vacanze di organico "...il trasferimento è disposto con
inquadramento nell'area funzionale e posizione economica corrispondente a
quella posseduta presso l'amministrazione di provenienza";
- deve concludersi che la Corte territoriale ha fatto corretta
applicazione dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità sopra
richiamato, accertando che in base al tenore letterale dell'art. 30 del
d.lgs. n. 165, il Ministero odierno controricorrente aveva inquadrato il
Fanti sulla base dell'unico parametro indicato dalla norma: la
corrispondenza tra l'area funzionale e la posizione economica possedute
nell'amministrazione di provenienza e quelle attribuite dall'amministrazione
d destinazione;
- quanto alla pretesa di far derivare, dal superamento del
corso-concorso per il riconoscimento del profilo di programmatore nell'ente
di provenienza la legittimità del dipendente all'inquadramento nel profilo
B3 dell'ente di arrivo per aver svolto, di fatto superiori, la Corte
territoriale ha considerato ininfluente l'esito della selezione, avendo
accertato che la pubblicazione della graduatoria era avvenuta
successivamente al decreto di trasferimento per mobilità volontaria;
- al riguardo è sufficiente richiamare tra le tante Cass. n. 19925
del 2016, secondo cui "In tema di pubblico impiego
privatizzato, in caso di passaggio ad altra amministrazione per la qualifica
corrispondente a quella indicata dal lavoratore nella domanda, non sussiste
il diritto per il dipendente di ottenere, in ordine al rapporto costituito
su tale base, la qualifica superiore acquisita, nelle more del passaggio
stesso, nell'amministrazione di provenienza, atteso che il trasferimento è
chiesto ed avviene in ragione di una disponibilità creatasi nell'organico
dell'Amministrazione di destinazione e nella qualifica prevista, e non è
coerente con le esigenze di imparzialità e buon andamento che un ente terzo
incida sul rapporto di lavoro di un'altra P.A."; |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Tra due condomini il passo carrabile ci va a nozze.
Il comune può autorizzare un passo carrabile posizionato tra due condomini
senza occuparsi nel dettaglio della effettiva proprietà delle porzioni di
terreno a cui si accederà attraverso il nuovo accesso veicolare.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
05.03.2019 n. 1530.
Un condominio ha proposto doglianze contro l'autorizzazione comunale che ha
consentito al vicino di posizionare un passo carrabile sul proprio accesso
laterale. Ma senza successo.
A parere del collegio tutte le questioni civilistiche relative alla
proprietà dell'area a cui si accede mediante un passo carrabile sono
irrilevanti per giudicare la regolarità di una concessione comunale di passo
carraio. L'art. 3 del codice stradale definisce infatti il passo carrabile
come un accesso ad un'area laterale idonea allo stazionamento dei veicoli.
Nel caso sottoposto all'esame del collegio è evidente che il passo carrabile
si affaccia su un'area ad uso pubblico molto traffica del centro di Roma.
Per questo motivo, fatti sempre salvi i diritti dei terzi, è legittima
l'autorizzazione comunale rilasciata per l'apertura di un passo carrabile su
una strada ad uso pubblico
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Paletti anti-sosta, basta la Scia.
Non serve il permesso di costruire. Stop alle demolizioni.
Lo
indica una sentenza del Tar Campania sui dissuasori per auto e rifiuti in
condominio.
Tornano a sperare i condomini assediati dalle auto e dal deposito
incontrollato di rifiuti. Non vanno abbattuti i paletti anti-sosta e
immondizia selvaggi perché la demolizione è la sanzione che colpisce le
opere realizzate senza permesso di costruire, mentre per i dissuasori basta
la segnalazione certificata d'inizio attività.
È quanto emerge dalla
sentenza
05.03.2019 n. 1255,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Campania-Napoli, che spezza una lancia per
gli edifici dei centri storici ostaggio di auto, moto e immondizia.
Secondo
la giurisprudenza amministrativa il comune non può ignorare le richieste del
condominio che vuole mettere un divieto di sosta con dissuasori, tutelare
con paletti il passo carrabile o allargare il marciapiede all'ingresso del
comprensorio. Ma se l'immobile è di pregio niente paletti in ferro. Senza
dimenticare che l'amministrazione può far rimuovere le opere abusive dal
parcheggio condominiale anche se la strada è chiusa da un lato.
Restano dove
sono i paletti piantati dal condominio: sbaglia l'ente locale a ordinarne la
rimozione. Per i dissuasori basta la semplice Scia perché contano soltanto
natura e dimensioni delle opere e dopo la posa dei manufatti l'area resta
accessibile a tutti, in primis ai pedoni, tranne che alle macchine.
Il
ricorso dell'ente di gestione contro il comune del Napoletano è accolto
perché l'installazione dei paletti rientra nell'inserimento degli elementi
accessori ex articolo 3, lettera c), del Testo unico dell'edilizia: l'unica
sanzione che può scattare è quella pecuniaria di cui all'articolo 37, comma
primo, dello stesso dpr 308/2001. I paletti «incriminati» dalla polizia
municipale, in effetti, sono alti soltanto un metro e hanno un diametro di
dieci centimetri per dieci: non si tratta di manufatti in grado di incidere
in modo permanente sull'assetto del territorio perché possono essere
facilmente rimossi.
D'altronde neppure l'amministrazione locale contesta che
facciano da dissuasori al parcheggio non autorizzato e all'abbandono dei
rifiuti. Né conta che l'area sia soggetta a vincolo paesaggistico: l'ente
locale non indica in modo esplicito quale sarebbe l'incidenza negativa delle
opere.
I precedenti.
Nuovo contraddittorio.
È illegittimo il silenzio-inadempimento serbato dal comune sulla
segnalazione dei condomini che chiedono sia allargato il marciapiede oppure
installato un divieto di sosta con dissuasori: così neppure riescono a
entrare nel palazzo. Il parcheggio selvaggio si trasforma in barriera
architettonica e l'amministrazione locale ha l'obbligo almeno di
pronunciarsi sull'istanza del condominio sulla base dei poteri che gli
derivano dal codice della strada sulla gestione della circolazione stradale
dei veicoli e dei pedoni in città.
È quanto emerge dalla sentenza 423/2018,
pubblicata dalla I Sez. del Tar Toscana.
Accolto il ricorso dell'ente
di gestione e dei singoli condomini: non giova al comune obiettare che
nell'edificio non risultano residenti che abbiano difficoltà motorie. Il
punto è che il condominio è certificato contro le barriere architettoniche
interne, ma risulta difficilmente accessibile da fuori: a impedire il
passaggio sul marciapiede poco profondo sono le auto parcheggiate l'una a
ridosso dell'altra e i bauletti che sporgono dagli scooter.
Ed è dalle
stesse relazioni depositate dall'amministrazione che emerge come siano
fondate le istanze del condominio. In effetti gli uffici dell'ente stanno
valutando l'allargamento del marciapiede e l'installazione del divieto di
sosta, ma senza dissuasori. Su questo il giudice non può intervenire, ma la
scelta discrezionale che sarà adottata dall'ente dovrà di nuovo essere
vagliata nel contraddittorio.
Obbligo di manutenzione.
Il comune non può far finta di niente anche quando è il passo carrabile
dello stabile nella strada stretta a essere schiavo del parcheggio
selvaggio: deve rispondere entro un mese all'istanza dei condomini che
chiedono l'installazione di paletti o di un divieto di sosta all'altezza del
numero civico in modo da poter entrare e uscire dal palazzo usando anche
loro l'auto. E se l'amministrazione non provvede in tempo arriva il
commissario indicato dal prefetto.
Lo stabilisce la sentenza 4280/2015,
pubblicata dalla I Sez. del Tar Campania.
La grana scoppia perché uno
dei condomini in preda a una colica non può uscire dal cancello con la
macchina per essere accompagnato al pronto soccorso. La polizia municipale
conferma: lo spazio di manovra davanti al passo carrabile è troppo angusto
anche a causa dei veicoli parcheggiati sul marciapiede. E in caso di
emergenza un'ambulanza avrebbe difficoltà a intervenire in zona. L'ente
locale, dunque, non può rimanere inerte: ha un preciso obbligo di vigilanza
sulle strade e sulle relative pertinenza in quanto proprietaria delle
infrastrutture, ne deve garantire «la destinazione pubblica e il pacifico
utilizzo da parte degli utenti».
Ed è lo stesso codice della strada a
imporre al comune di installare la segnaletica stradale a partire dal
divieto di sosta (articolo 37) e i paletti dissuasori autorizzati dal
ministero dei Trasporti da «utilizzare come impedimento materiale alla sosta
abusiva» dei veicoli (art. 42). Se l'amministrazione locale non provvede, a
rispondere all'istanza dei cittadini sarà un funzionario dell'ufficio
territoriale del governo indicato dal prefetto.
Utilizzo legittimo.
Bisogna fare i conti anche con le Soprintendenze, però. Il comune non può
vietare al condominio di utilizzare il cortile come parcheggio dei veicoli
di proprietari e inquilini anche se l'edificio in pieno centro storico
risulta sottoposto a vincolo dai Beni culturali. E ciò perché lo stabile si
trova in un'area che è «residenziale» secondo il piano regolatore generale:
la destinazione indicata dalle norme di attuazione prg risulta estesa agli
spazi di pertinenza. L'ente di gestione, tuttavia, non può delimitare l'area
di sosta con paletti di ferro perché rovinano l'acciottolato di pregio, come
ha stabilito la Soprintendenza.
È quanto emerge dalla sentenza 98/2019,
pubblicata dalla II Sez. del Tar Piemonte.
Il condominio fa
annullare l'ordinanza del dirigente del servizio edilizia che vieta di
parcheggiare in cortile. Pesa l'esposto di uno dei proprietari esclusivi che
denuncia il posteggio selvaggio sotto il suo balcone. L'amministrazione
minaccia di applicare sanzioni all'ente di gestione in caso d'inottemperanza
ex articolo 7-bis primo comma Tuel. In realtà sono più di quarant'anni che
le macchine vengono parcheggiate in cortile con il permesso dell'assemblea:
l'impiego dell'area risulta legittimo in quanto costituisce una delle
possibili forme ordinarie utilizzazione dell'area di pertinenza all'edificio
residenziale.
Il condominio, comunque, deve provvedere a delimitare gli
spazi della sosta con elementi a terra come stalli o strisce dipinte perché
i paletti stop-auto sono incompatibili con il decoro architettonico
dell'edificio.
Apertura sufficiente.
Attenzione, infine, ai paletti in ferro nel parcheggio condominiale. La
rimozione ordinata dal comune scatta anche se l'area su cui i dissuasori
sono installati risulta proprietà dell'edificio: ciò che conta è l'uso
pubblico della strada su cui affaccia il caseggiato, mentre il fatto che la
via sia chiusa da un lato non basta a renderla privata.
È quanto emerge
dalla sentenza 1224/2015, pubblicata dalla II Sez. del Tar Sicilia.
Niente da fare, stavolta, per il condominio: deve rassegnarsi a far sparire
catene e lucchetti che blindano le auto parcheggiate sotto il palazzo come
ha ordinato il servizio edilizia pubblica e privata del comune.
All'amministrazione non può disconoscersi il potere di far abbattere le
opere abusive. E i dissuasori messi a bordo strada ostacolano il passaggio
di eventuali mezzi di soccorso.
È poi escluso che la strada dove sorge il
fabbricato possa davvero essere ritenuta privata: inutile eccepire il fatto
che la via sia chiusa da un lato e non metta in comunicazione due pubbliche
vie, risulta infatti sufficiente che l'apertura da un lato consenta
l'accesso da e per una strada pubblica.
Affinché una strada possa rientrare
nella categoria vicinale pubblica è prevista una serie di requisiti, fra i
quali il passaggio esercitato a titolo di servitù da una collettività di
persone appartenenti a un gruppo territoriale. E il diritto di uso pubblico
può ben essere affermato solo perché l'utilizzo si protrae da tempo
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato alla stregua delle seguenti considerazioni.
In primo luogo, diversamente da quanto sostiene parte ricorrente
l’intervento effettuato non ricade tra le attività libere (indicate
tra l’altro in modo tassativo all’art. 6 del t.u. n. 380 del 2001, in deroga
al generale obbligo di munirsi di un titolo abilitativo per eseguire
interventi edilizi, ciò di cui occorre tenere conto per una corretta lettura
e interpretazione dello stesso art. 6), avendo riguardo da un lato
alle tipologie delle fattispecie liberalizzate e, dall’altro,
all’entità dell’opera posta in essere, che non corrisponde alla descrizione
delle attività di cui alle lettere c) e d) del citato art. 6.
Tuttavia coglie nel segno il profilo di censura con cui parte ricorrente
ritiene che nel caso qui in esame non venga in discussione un’ipotesi di
trasformazione edilizio–urbanistica, o di alterazione permanente
dell’assetto del territorio, o di nuova costruzione, tale da esigere il
previo rilascio del permesso di costruire ai sensi e per gli effetti di cui
all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Deve invece ritenersi,
sulla falsariga di quanto affermato dal Giudice di appello in una
fattispecie del tutto simile a quella oggetto di causa, che
l’intervento ricada nel campo di applicazione dell’art. 22 del d.P.R. n.
380/2001, in tema di SCIA (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3554).
Sulla questione, intuitivamente affine, dell’assoggettamento, o meno, delle
recinzioni, a permesso di costruire, la giurisprudenza amministrativa di
primo grado, afferma che la valutazione sulla necessità, o
meno, del permesso di costruire, va compiuta in base ai parametri della
natura e delle dimensioni delle opere, e della loro destinazione e funzione
(si vedano, tra le altre, TAR Campania, n. 3328/2013 e n. 1542/2012, TAR
Lombardia, n. 6266/2009, TAR Lazio, n. 8644/2009, TAR Veneto, n. 1215/2011,
TAR Calabria, n. 1299/2014, TAR Lombardia–Brescia, n. 118/2013 e altre),
sicché quando, ad esempio, vengono eseguite opere in muratura e la
recinzione non è facilmente rimuovibile, l’intervento, essendo idoneo a
incidere in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio, esige il
previo rilascio del permesso di costruire, ma a tal fine occorre avere
riguardo a tutte le opere realizzate nel loro complesso.
Invero questa Sezione di recente ha ritenuto che: <<la
posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a sorreggere una recinzione
di rete metallica senza opere murarie, costituisce un manufatto di limitato
impatto urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo di
delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per cui l’intervento non
richiede il rilascio di un permesso di costruire, fatta salva ovviamente
l’osservanza dei vincoli paesaggistici
(cfr. TAR Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907; TAR Roma, sez. II,
04/09/2017, n. 9529; Cons. St., sez. IV, 15/12/2017, n. 5908)>>
(cfr. TAR Campania, Sez. III, 24.12.2018, n. 7333).
Ciò posto, l’intervento in argomento, alla luce delle
caratteristiche e delle dimensioni dello stesso (10 paletti dell’altezza di
mt. 1 ciascuno e diametro 10x10, si vedano le foto prodotte in giudizio),
ricade nel campo di applicazione dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, cioè,
tra quelli realizzabili con il regime semplificato della d.i.a., la cui
mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la demolizione, previste
dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 per l'esecuzione di interventi in
assenza del permesso di costruire, o in totale difformità del medesimo
ovvero con variazioni essenziali, ma con l'applicazione della mera sanzione
pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in
assenza della prescritta denuncia di inizio di attività.
In primo luogo, non è stata eseguita nessuna opera muraria significativa. I
paletti apposti, uniti al suolo mediante un basamento di calcestruzzo assai
sottile, risultano distanziati tra loro in modo tale da consentire un facile
accesso pedonale all’area ed effettivamente sembrano svolgere una funzione,
non contestata dal Comune, di dissuasori della sosta e dell’abbandono dei
rifiuti. Viene in rilievo, nel complesso, un’opera finalizzata a delimitare
la proprietà del condominio ricorrente (non si tratta neppure di una
recinzione, essendo l’area “tuttora liberamente accessibile a tutti,
salvo che alle autovetture”), rimovibile in maniera tutt’altro che
disagevole e, come tale, inidonea a incidere sull’assetto edilizio del
territorio.
Non vi è poi alcun concreto elemento, a parte la generica e immotivata
asserzione del Comune resistente, di incidenza negativa sul paesaggio nei
termini di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, come invece addotto nel
gravato provvedimento, laddove la limitata evidenza dell’intervento avrebbe
richiesto una più esplicita indicazione in tal senso.
Poiché dunque la realizzazione dei paletti per cui è causa
doveva farsi rientrare nella fattispecie dell’inserimento di elementi
accessori di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), del t.u. n. 380 del 2001, ne
consegue che l’intervento eseguito in assenza di titolo ex art. 22 d.P.R. n.
380/2001 porterebbe alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 37, co. 1
d.P.R. n. 380/2001.
In definitiva il ricorso deve essere accolto e l’ordinanza impugnata
conseguentemente deve essere annullata. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Accordo
in salita sul riassetto organizzativo dei piccoli comuni.
Accordo in salita sul riassetto organizzativo dei mini enti.
Dopo la
pubblicazione della
sentenza 04.03.2019 n. 33 della Corte
Costituzionale (che ha
censurato parzialmente la disciplina del dl 78/2010 con cui da quasi un
decennio il legislatore nazionale cerca, invano, di imporre ai mini enti di
gestire il proprio core business attraverso unioni e convenzioni) si sono
registrati solo commenti positivi. Peccato che, però, ciascuno la legga a
modo suo attestandosi su posizioni fra di loro spesso diametralmente
opposte.
Secondo l'Anpci, la pronuncia «mette la parola fine a un'epoca che
ha visto i piccoli comuni perseguitati da una logica burocratica ed
economica perversa». «Da oggi», ha scritto la presidente, Franca Biglio, «si
apre un'altra era politico-istituzionale che sancisce l'indispensabile ruolo
che i comuni fino a 5.000 abitanti svolgono sul territorio nazionale e
riafferma l'autonomia degli stessi, quali istituzioni sane e virtuose, che
presidiano il territorio, contro ogni maldestro tentativo di cancellare il
loro patrimonio culturale e sociale dalla storia millenaria dell'Italia. La
sentenza della Corte costituzionale segna una tappa fondamentale, un punto
fermo per la nuova riforma degli enti locali».
Più articolato il commento dell'Uncem, che invita a leggere per intero
quanto scritto dal relatore, Luca Antonini, «per evitare fraintendimenti sul
tema dell'associazionismo comunale e sulla gestione in forma associata delle
funzioni».
Come annota il rappresentante degli enti montani, Marco Bussone,
delle varie censure mosse dai ricorrenti a più commi dell'art. 14 del dl 78
che prevedono e disciplinano l'obbligo di esercizio associato delle funzioni
fondamentali per i piccoli comuni, la Corte costituzionale ritiene
illegittimo il solo comma 28, peraltro solo nella parte in cui non prevede
la possibilità (in un contesto di comuni obbligati e non) di ottenere
l'esonero (dall'obbligo) dimostrando che a causa della particolare
collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali non
sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o
miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell'erogazione dei
beni pubblici alle popolazioni di riferimento.
Secondo Uncem, i giudici
delle leggi avrebbero invece promosso il ruolo delle unioni, da sempre
invise all'Anpci che punta tutto sulle convenzioni in quanto più rispettose
dell'autonomia comunale.
Anche dall'Anci è partita la difesa delle unioni:
il vice-presidente della sezione del Piemonte, Michele Pianetta, ha
confermato che «non sono le unioni di comuni ad essere state dichiarate
incostituzionali, bensì l'obbligo dell'esercizio associato delle funzioni
fondamentali» ed ha invitato a diffidare dalla «propaganda di chi considera
gli accordi tra comuni come una minaccia. Le unioni rappresentano
un'opportunità, soprattutto quando si parla di servizi»
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019). |
APPALTI: Ricorsi sui concorrenti,
solo quando ammessi. GARE: I TERMINI PER LE IMPUGNAZIONI.
In una gara di appalto il termine per impugnare l'ammissione di
un concorrente decorre dalla pubblicazione dell'attestazione dell'avvenuta
ammissione e dalla disponibilità degli elementi minimi che consentano di
confutare la sussistenza del requisito di partecipazione.
Lo ha affermato il TAR Campania-Napoli,
Sez. I,
con la
sentenza 28.02.2019 n. 1132 rispetto all'interpretazione
dell'articolo 29 del codice dei contratti che richiama come decorso del
termine il «momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in
concreto disponibili, corredati di motivazione», cioè, «le ammissioni
all'esito della verifica della documentazione attestante l'assenza dei
motivi di esclusione di cui all'articolo 80, nonché la sussistenza dei
requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali».
I giudici campani hanno precisato che in base alla norma, il termine non
decorre dalla messa a disposizione di tutti i documenti attestanti il
possesso dei requisiti tecnico-professionali e economico-finanziari e che
non può ritenersi necessaria l'esternazione di valutazioni da parte
dell'amministrazione, atteso che il riferimento alla motivazione contenuto
nella disposizione deve necessariamente ricollegarsi alle esclusioni e non
anche alle ammissioni. In questi casi, infatti, «la motivazione non può che
riconnettersi all'avvenuto riscontro positivo dei requisiti prescritti dalla lex specialis di gara».
Se si ragionasse diversamente, hanno detto i giudici, nel caso della
contestazione delle ammissioni, il termine di cui all'art. 120, comma 2-bis,
codice di procedura amministrativa. comincerebbe a decorrere dal momento in
cui la parte ricorrente ha acquisito conoscenza di tutta la documentazione
relativa ai requisiti di partecipazione; questo porterebbe come conseguenza
che si dovrebbe posticipare sistematicamente il decorso del termine in
questione a quello dei controlli sulla veridicità delle dichiarazioni rese
in sede di partecipazione ovvero a quello in cui l'accesso a tali documenti
viene effettivamente consentito dalle varie amministrazioni interessate,
vanificando la previsione decadenziale e l'intento acceleratorio della norma
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).
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MASSIMA
Il rilievo è fondato.
L’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. prevede che: <<Il provvedimento che
determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad
essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di
trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del
committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1,
del codice dei contratti pubblici adottato in attuazione della legge
28.01.2016, n. 11. L'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere
l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento,
anche con ricorso incidentale. E' altresì inammissibile l'impugnazione della
proposta di aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti
endoprocedimentali privi di immediata lesività>>.
La disposizione introduce, come noto, un rito comunemente definito super
accelerato, in quanto volto a stabilire una decadenza generalizzata per
tutte le contestazioni giurisdizionali aventi ad oggetto le ammissioni o
esclusioni stabilite nel corso del procedimento di gara, alla dichiarata
finalità di limitare impugnazioni dell’aggiudicazione per invalidità
derivata e deflazionare così il contenzioso.
La gravità della decadenza connessa alla mancata tempestiva impugnazione dei
provvedimenti incidenti sulla partecipazione (ammissioni/esclusioni) ha
condotto all’introduzione di un correlativo obbligo di pubblicità gravante
sulla stazione appaltante all’art. 29 del codice dei contratti, che nella
parte che qui rileva così dispone: <<Tutti gli atti delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori relativi alla programmazione di
lavori, opere, servizi e forniture, nonché alle procedure per l'affidamento
di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere…devono essere
pubblicati e aggiornati sul profilo del committente, nella sezione
"Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di cui
al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33. Al fine di consentire l'eventuale
proposizione del ricorso ai sensi dell' articolo 120, comma 2-bis, del
codice del processo amministrativo, sono altresì pubblicati, nei successivi
due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che
determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni
all'esito della verifica della documentazione attestante l'assenza dei
motivi di esclusione di cui all'articolo 80, nonché la sussistenza dei
requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali…Il termine per
l'impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis, decorre dal
momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto
disponibili, corredati di motivazione>>.
La giurisprudenza amministrativa si è orientata nel senso che <<l’onere
di impugnazione immediata, nel termine di trenta giorni, del “provvedimento
che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni
ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali” risulta esigibile solo a
fronte della contestuale operatività delle disposizioni del decreto
legislativo che ne consentono l’immediata conoscenza da parte delle imprese
partecipanti alla gara e, segnatamente, degli artt. 29, comma 1, e 76, comma
3. In difetto del (contestuale) funzionamento delle regole che assicurano la
pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere
di immediata impugnazione –che devono, perciò, intendersi legate da un
vincolo funzionale inscindibile– la relativa prescrizione processuale si
rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della
sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che
garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto
del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi
stabilito…>> (cfr. Cons.
Stato, Sez. III, 25.11.2016, n. 4994; TAR Lazio, sez. III, 14.02.2019, n.
1947).
In estrema sintesi la disciplina del rito c.d. super
accelerato può così riassumersi per quanto di odierno interesse: le
ammissioni (e le esclusioni) devono essere impugnate entro trenta giorni dal
momento in cui sono pubblicate telematicamente sul profilo committente della
stazione appaltante, complete di tutte le informazioni previste dall’art. 29
stesso. Non vale quindi la regola dell’effettiva conoscenza, essendo stato
introdotto un regime che, per un verso, è più trasparente in quanto tende a
fornire immediatamente ai potenziali interessati tutte le informazioni
necessarie a decidere se proporre ricorso e, per altro verso, più formale
perché la pubblicazione con le modalità prescritte dall’art. 29 produce la
decorrenza del termine indipendentemente dall’effettiva conoscenza da parte
degli altri partecipanti (cfr. cfr.
Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 4/2018; TAR Lazio, Sez. III-quater,
22.08.2017, n. 9379; Cons. Stato, Sez. III, 11.07.2016, n. 3026).
Ne consegue che, quand’anche i rappresentanti di una
concorrente abbiano partecipato alla seduta della commissione che abbia
deciso sulle esclusioni e ammissioni, il termine di impugnazione non
comincia a decorrere fino a che non sia eseguita la predetta pubblicazione
ai sensi dell’art. 29 codice contratti.
Nel caso di specie parte ricorrente sostiene che il ricorso sarebbe stato
tempestivamente proposto, in quanto il termine di cui all’art. 120, co.
2-bis, c.p.a. non poteva nemmeno cominciare a decorrere, in quanto la piena
conoscenza da parte della ricorrente sarebbe stata raggiunta solo a seguito
dell’accesso agli atti della gara e in particolare alle attestazioni del
Comune di Battipaglia relative ai requisiti esperenziali dichiarati
dall’aggiudicataria.
In altri termini solo dopo che la stazione appaltante ha finalmente osteso e
depositato siffatti documenti, la ricorrente avrebbe potuto accertare la
pretesa incongruenza della dichiarazione resa in sede di partecipazione e,
in questo modo, ha potuto censurare l’aggiudicazione.
Ritiene il Collegio che tale impostazione non possa essere condivisa sia sul
piano dei principi che in fatto.
Occorre ribadire che l’art. 29 codice dei contratti subordina il decorso del
termine per l'impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis “dal
momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto
disponibili, corredati di motivazione”; ora, gli atti a cui al secondo
periodo sono: <<il provvedimento che determina le esclusioni dalla
procedura di affidamento e le ammissioni all'esito della verifica della
documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui
all'articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e
tecnico-professionali>>.
Ritiene il Collegio che, per il caso delle ammissioni, il termine decorra
dalla pubblicazione dell’attestazione dell’avvenuta ammissione e dalla
disponibilità degli elementi minimi che consentano di confutare la
sussistenza del requisito di partecipazione, non anche dalla messa a
disposizione di tutti i documenti attestanti il possesso dei requisiti
tecnico/professionali e economico/finanziari né può ritenersi necessaria
l’esternazione di valutazioni da parte dell’Amministrazione, atteso che il
riferimento alla “motivazione” contenuto nella disposizione deve
necessariamente ricollegarsi alle esclusioni e non anche alle ammissioni per
le quali la motivazione non può che riconnettersi all’avvenuto riscontro
positivo dei requisiti prescritti dalla lex specialis di gara.
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che nel caso della contestazione
delle ammissioni, il termine di cui all’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. cominci
a decorrere dal momento in cui parte ricorrente ha acquisito conoscenza di
tutta la documentazione relativa ai requisiti di partecipazione
significherebbe posticipare sistematicamente il decorso del termine in
questione a quello dei controlli sulla veridicità delle dichiarazioni rese
in sede di partecipazione ovvero a quello in cui l’accesso a tali documenti
viene effettivamente consentito dalle varie Amministrazioni interessate,
vanificando la previsione decadenziale e l’intento acceleratorio
evidentemente sotteso alla previsione in parola.
Ciò non implica che la ricorrente non possa contestare la sussistenza dei
requisiti di ammissione, ma se non è in possesso ancora di tutta la
documentazione può proporre comunque ricorso tempestivamente nel termine di
cui all’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. sulla base degli elementi in proprio
possesso, salvo poi notificare motivi aggiunti nel caso in cui dovessero
emergere (anche a seguito di accesso) ulteriori manifestazioni di
illegittimità.
Questo è del resto quanto accaduto nel caso di specie, in cui parte
ricorrente aveva precedentemente acquisito conoscenza della determina del
Comune di Battipaglia pubblicata nell’albo pretorio dell’ente, secondo
quanto confermato dalla stessa Tr.Co. s.r.l. nel ricorso introduttivo (pag.
3).
Ma se la ricorrente aveva già contezza dell’ammissione dell’aggiudicataria
e, peraltro, le informazioni relative al contestato possesso del requisito
di partecipazione erano già disponibili da tempo, non si vede perché non
fosse applicabile il termine di trenta giorni di cui all’art. 120, co.
2-bis, c.p.a.; una diversa interpretazione che richiedesse, come detto, la
piena conoscenza di tutti gli atti collegati alla comprova della sussistenza
dei requisiti esperenziali, oltre a non essere imposta dal richiamato
dall’art. 29 del codice dei contratti, comporterebbe la sostanziale
disapplicazione della disposizione appena citata.
Disapplicazione che non è imposta dall’ordinamento comunitario, come di
recente chiarito dalla CGE che, proprio con riferimento al rito super
accelerato di cui all’art. 120, co. 2-bis, c.p.a., ha statuito che: <<la
direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 2014/23, e in particolare
i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretata nel
senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, che prevede che, in mancanza di
ricorso contro i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti
ammissione degli offerenti alla partecipazione alle procedure di appalto
pubblico entro un termine di decadenza di 30 giorni dalla loro
comunicazione, agli interessati sia preclusa la facoltà di eccepire
l’illegittimità di tali provvedimenti nell’ambito di ricorsi diretti contro
gli atti successivi, in particolare avverso le decisioni di aggiudicazione,
purché tale decadenza sia opponibile ai suddetti interessati solo a
condizione che essi siano venuti o potessero venire a conoscenza, tramite
detta comunicazione, dell’illegittimità dagli stessi lamentata…>>
(cfr. CGE, sez. IV, 14.02.2019, causa C-54/18).
Ne consegue che il termine di impugnazione comincia a decorrere quando
l’impresa che intenda contestare la partecipazione di altro concorrente
disponga del minimo degli elementi di fatto necessari a tal fine, ma non
anche di tutto il corredo documentale relativo alla contestata ammissione.
Nel caso di specie, si ripete, parte ricorrente già dalla pubblicazione del
verbale del 05.06.2017, avvenuta in data 17.07.2018, disponeva degli
elementi poi addotti in sede di ricorso introduttivo, con la conseguenza che
il ricorso notificato in data 28.09.2017 deve ritenersi tardivamente
proposto.
Né può invocarsi l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il termine di
impugnazione dell’ammissione decorrerebbe dall’avvenuta aggiudicazione nel
caso in cui le ammissioni e la valutazione delle offerte avvengano
contestualmente.
Secondo la giurisprudenza, infatti, allorquando le cause di
esclusione o di mancate esclusioni si innestano direttamente nella procedura
valutativa che segue l’apertura delle offerte, si verte nella fattispecie
del comma 6 dell'art. 80 del d. l.vo 50/2016, secondo cui "Le stazioni
appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della
procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di
atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle
situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5". Ed in tal caso,
come rilevato dal Consiglio di Stato, le cause di
esclusione non hanno rilievo processuale in sé, ma confluiscono all'interno
del giudizio (ordinario) sull'aggiudicazione e pertanto possono e devono
essere impugnate unitamente a tale provvedimento nel termine decorrente,
appunto, dall’aggiudicazione (cfr.
da ultimo TAR Campania, sez. VI, 01.08.2018, n. 5148).
Invero nel caso di specie, secondo quanto risultante dal verbale relativo
alle operazioni della commissione di gara del 05.06.2017, nel corso della
prima seduta di gara non si è proceduto solamente al riscontro dei requisiti
di ammissione, ma si sono anche aperte le buste contenenti le offerte
tecniche ("La Commissione, procede, poi, ad aprire le buste B “Offerta
Tecnica” degli operatori economici ammessi, vistando tutti i documenti
tecnici in esse contenute").
Sennonché, rileva il Collegio, che la Commissione di gara non ha eseguito
alcun vaglio, pur provvisorio, dell'offerta tecnica e dell'offerta economica
delle concorrenti, ma si è svolta la sola apertura delle buste recanti
l’offerta tecnica, sicché, non essendoci stata alcuna “valutazione”
delle offerte stesse, non vi sarebbe la concorrenza dei due riti quello
relativo all’impugnazione delle ammissioni (super accelerato) e quello (“semplicemente”)
accelerato previsto per l’annullamento delle aggiudicazioni che giustifica,
secondo l’orientamento giurisprudenziale sopra riferito, l’applicazione del
termine di impugnazione “ordinario” quale rito prevalente.
In definitiva, il ricorso è tardivo e deve dichiararsi irricevibile ai sensi
dell’art. 35, co. 1, lett. a) c.p.a.. |
TRIBUTI: Indirizzo
Pec non valido e casella di posta satura, le possibili conseguenze.
Ancora un alert per i soggetti obbligati alla tenuta di un indirizzo di
posta elettronica certificata proviene dalla commissione provinciale di
Messina, che con la recente sentenza 27.02.2019 n. 1336/1/2019 e resa dalla
Sez. I, in linea con precedenti pronunce del medesimo
tenore, ha sostanzialmente ribadito il rischio per tali contribuenti, di
veder consolidata, a loro insaputa, la pretesa impositiva con successivo
pignoramento dei conti correnti.
E infatti, anche per i giudici messinesi non c'è dubbio che sia regolare la
notifica effettuata con deposito telematico presso la Camera di Commercio e
invio di raccomandata informativa, nei casi in cui la notifica a mezzo pec,
effettuata nei confronti di un'impresa individuale o costituita in forma
associata o di liberi professionisti iscritti in specifici albi o elenchi (o
nel caso di mancanza di pec per i soggetti a essa obbligati), sia rifiutata
dal sistema per la saturazione della casella o per l'indirizzo non valido.
In tali ipotesi, dunque, la notifica si perfeziona per il notificante al
momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione e per il
destinatario al momento di ricezione della raccomandata informativa o
decorsi 10 giorni dal deposito della stessa nella casa comunale in caso di
mancata consegna.
La norma
L'articolo 26 del Dpr 602/1973 (modificato prima dall'articolo 14 del Dlgs
159/2015 e, poi, dall'articolo 7-quater, comma 9, del Dl 193/2016,
convertito dalla legge n. 225/2016), contempla la facoltà (nella prima
modifica l'articolo 14 del Dlgs 159/2015 parlava di obbligatorietà) per
l'Agente della Riscossione (dal 01.07.2017) di effettuare la notifica
della cartella di pagamento all'imprese individuali o costituite in forma
societaria e per i professionisti iscritti in appositi albi o elenchi a
mezzo Pec all'indirizzo risultante dall'indice nazionale degli indirizzi di
posta elettronica certificata (INI-PEC).
Tuttavia, se l'indirizzo di posta elettronica del destinatario non risulta
valido e attivo o la casella di posta elettronica è satura, la notificazione
deve eseguirsi, mediante deposito dell'atto presso gli uffici della Camera
di Commercio competente per territorio e pubblicazione del relativo avviso
sul sito informatico della medesima, dandone notizia allo stesso
destinatario per raccomandata con avviso di ricevimento, senza ulteriori
adempimenti a carico dell'agente della riscossione, nel caso di casella
satura si dovrà procedere ad un secondo tentativo di notifica, da
effettuarsi decorsi almeno sette giorni dal primo invio (articolo 60 del Dpr
600/1973).
La sentenza
Nel dettaglio, la Ctp di Messina ha respinto il ricorso presentato da un
imprenditore avverso una cartella di pagamento con la quale si chiedeva il
pagamento di imposte Irap e Iva anno 2012 modello Unico/2013. A sostegno del
gravame era stata dedotta, tra l'altro, la decadenza dell'azione di
recupero, essendo stata notificata la cartella tramite Pec in data 21.01.2017, oltre il termine triennale previsto dalla norma.
Si costituiva, oltre all'Agenzia delle Entrate, l'Ente Riscossione Sicilia
spa che insisteva sulla regolarità e tempestività della notifica, così come
previsto dal Dpr 11.02.2005 n. 68 («Disposizioni per l'utilizzo della
posta elettronica certificata»), dal momento che il messaggio Pec inviato il
26.12.2016 risultava «rifiutato dal sistema per indirizzo non valido e
conseguentemente, come previsto dall'articolo 26 della Dpr 602/1973, la
notifica si è perfezionata con il deposito telematico presso gli uffici
della Camera di Commercio competente e la contestuale pubblicazione del
relativo avviso sul sito Internet della stessa Camera di Commercio e con
l'invio di una raccomandata informativa al destinatario del 31.01.2017.
Pertanto, la notifica si è perfezionata per il notificante al momento in cui
è stata generata la ricevuta di accettazione (26.12.2016) e per il
destinatario al momento di ricezione della raccomandata informativa».
Le difese della società di Riscossione sul punto specifico sono state
interamente recepite dalla Ctp adita. Si impone, dunque, per la citata
tipologia di contribuenti, la massima attenzione nel verificare regolarmente
la corretta funzionalità della propria casella di posta elettronica onde
evitare sgradite sorprese!
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.04.2019). |
URBANISTICA: Individuazione
degli ambiti di trasformazione .
L’interesse all’ordinato
sviluppo edilizio del territorio, in
considerazione delle diverse tipologie di
edificazione distinte per finalità e zone,
ben può essere soddisfatto anche includendo
in un ambito di trasformazione –in funzione
della successiva pianificazione attuativa–
aree non contigue tra loro, se specifiche
esigenze locali, ad esempio per la
riqualificazione di aree degradate, inducano
l’Amministrazione comunale ad operare scelte
urbanistiche che privilegino una disciplina
di unitaria definizione del loro assetto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2019 n. 425 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4.2 Il secondo motivo verte sulla
destinazione impressa all’area de qua dal PGT. In particolare i ricorrenti contestano
l’inclusione di aree disomogenee nello
stesso ambito, la modalità con cui è stata
applicata la perequazione, la previsione di
standard, la monetizzazione e la
destinazione impressa alla zona.
4.2.1 Partendo dal primo profilo, cioè
l’inclusione nell’ambito di trasformazione
di aree tra loro distanti e non omogenee,
secondo la tesi dei ricorrenti la
perimetrazione dell’ambito territoriale
assoggettata ad unitario studio di piano
esecutivo include illegittimamente aree non
adiacenti e di differenti caratteristiche.
Infatti nell’ambito AT2-C (che comprende le
aree dei ricorrenti, costituite da superfici
libere idonee a recepire nuovi insediamenti)
sono inserite anche aree esterne, distanti
circa 1 km, occupate da un campo nomadi, su
cui vi sarebbero anche opere abusive.
Il motivo non è fondato.
L’interesse all’ordinato sviluppo edilizio
del territorio, in considerazione delle
diverse tipologie di edificazione distinte
per finalità e zone, ben può essere
soddisfatto anche accorpando –in funzione
della successiva pianificazione attuativa–
aree non contigue tra loro, se specifiche
esigenze locali, ad es. per la
riqualificazione di aree degradate, inducano
l’Amministrazione comunale ad operare scelte
urbanistiche che privilegino una disciplina
di unitaria definizione del loro assetto. |
URBANISTICA:
La presenza di opere abusive su un’area
inclusa in un comparto non impedisce di
assegnare all’area una nuova volumetria,
sempre in funzione della riqualificazione
della zona.
Ciò non implica una sorta di
implicita sanatoria degli abusi esistenti,
essendo due procedimenti ben distinti:
l’uno, quello di vigilanza edilizia;
l’altro, quello del PGT, con cui si
disciplina l’uso del territorio.
---------------
Sostengono i ricorrenti che nello stesso
comparto vengono incluse non solo aree
distanti, differenti morfologicamente, ma
anche sottoposte ad un diverso regime
giuridico: infatti l’area occupata dal campo
nomadi non è commerciabile, in quanto
interessata da opere abusive. Per detta area
verrebbe illegittimamente prevista una
volumetria, nuova, che sostituisce quella
abusiva: in tal modo la perequazione viene
utilizzata per “sanare abusi edilizi”.
La tesi dei ricorrenti non può essere
condivisa.
La presenza di opere abusive su un’area
inclusa in un comparto non impedisce di
assegnare all’area una nuova volumetria,
sempre in funzione della riqualificazione
della zona. Ciò non implica una sorta di
implicita sanatoria degli abusi esistenti,
essendo due procedimenti ben distinti:
l’uno, quello di vigilanza edilizia;
l’altro, quello del PGT, con cui si
disciplina l’uso del territorio.
Rispetto al primo procedimento, emerge dagli
atti come l’Amministrazione sia consapevole
della situazione di abusivismo edilizio e
non abbia in alcun modo, né esplicitamente
né implicitamente, rinunciato ad esercitare
i poteri di controllo e di repressione degli
abusi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2019 n. 425 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La
giurisprudenza ha chiarito che i Comuni
hanno titolo ad operare scelte di
pianificazione funzionali al corretto
insediamento delle strutture di vendita con
riferimento anche agli aspetti connessi
all’ambiente urbano, sicché le prescrizioni
contenute nei piani urbanistici, rispondendo
all’esigenza di assicurare un ordinato
assetto del territorio, ben possono porre
limiti agli insediamenti degli esercizi
commerciali e dunque alla libertà di
iniziativa economica.
---------------
4.2.4 Con
l’ultimo profilo di doglianza i
ricorrenti lamentano la scelta di limitare
la destinazione commerciale della zona:
mentre in base alla pregressa disciplina era
consentito lo sviluppo di un plesso
commerciale per mq 2.966, attualmente la
superficie insediabile sarebbe di soli mq.
1.231, con destinazioni commerciali per
medie strutture di vendita nella superficie
massima di mq. 600.
Si tratterebbe di una limitazione che non
trova giustificazione in oggettivi
impedimenti di ordine urbanistico o
territoriale, in contrasto con i principi di
libertà di stabilimento e libera
prestazione, di cui alla direttiva
comunitaria Bolkestein.
Sempre secondo parte ricorrente non si
ricavano dagli atti del P.G.T. ragioni per
introdurre detta limitazione, soprattutto
perché la progettata attività commerciale
ricadrebbe in zona nella quale si prevede di
realizzare un ampio parcheggio pubblico di
oltre 3.200 mq. (cui si aggiungerebbe quello
proprio e pertinenziale al punto di vendita)
e inoltre sarebbe servita dalla viabilità
locale e dalla ferro-tranvia che si prevede
di ristrutturare e rendere maggiormente
funzionale al trasporto locale.
Anche sotto questo profilo gli atti
impugnati non presentano profili di
illegittimità.
Si tratta di scelte pianificatorie
discrezionali, non censurabili sotto il
profilo di erroneità o manifesta
irrazionalità; né la previsione precedente
più favorevole ha conferito una posizione di
aspettativa qualificata, tale da imporre una
motivazione pregnante.
La nuova disciplina introduce una
prescrizione che non pone un divieto
assoluto di insediamento di nuove strutture
di vendita, ma una limitazione per un
preciso ambito di trasformazione, introdotta
in base a valutazioni urbanistiche, connesse
in particolare alle criticità in tema di
viabilità (v. 2° Fascicolo obiettivi
strategici del P.G.T., pag. 32).
La
giurisprudenza ha chiarito che i Comuni
hanno titolo ad operare scelte di
pianificazione funzionali al corretto
insediamento delle strutture di vendita con
riferimento anche agli aspetti connessi
all’ambiente urbano, sicché le prescrizioni
contenute nei piani urbanistici, rispondendo
all’esigenza di assicurare un ordinato
assetto del territorio, ben possono porre
limiti agli insediamenti degli esercizi
commerciali e dunque alla libertà di
iniziativa economica (v. Cons. Stato, Sez.
IV, 06.06.2017 n. 2699)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2019 n. 425 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Non
c'è legame con le spese di giudizio.
È illegittima la norma del regolamento di organizzazione dell'avvocatura
provinciale, secondo la quale il pagamento degli onorari degli avvocati,
relativi alle controversie definite con esito favorevole per l'Ente, è
limitato ai soli casi in cui la controparte sia condannata al pagamento
delle spese di giudizio e ne sia stato ottenuto il relativo recupero.
Così il TAR Campania-Salerno, Sez. I con
sentenza
25.02.2019 n. 332.
Alcuni avvocati, pubblici dipendenti della provincia di Avellino, con
ricorso avevano impugnato il regolamento di organizzazione della Avvocatura
provinciale.
Più precisamente avevano ritenuto illegittimo l'art. 16, comma
7, nella parte in cui aveva previsto che «i compensi professionali, nel caso
di pronuncia che lo ponga in tutto o in parte a carico della controparte
soccombente, confluiscono nell'apposito competente capitolo di bilancio
denominato «compensi professionali» ex art. 37 e 27 Ccnl e saranno
corrisposti, laddove effettivamente recuperate. Gli stessi avvocati
cureranno il recupero delle somme poste a carico della controparte
soccombente e, nel caso in cui tale recupero risulti impossibile, non
potranno pretenderne il pagamento a carico dell'amministrazione
provinciale».
Tale norma, secondo i ricorrenti, contrasterebbe con l'art. 27
Ccnl 14/09/2000, in virtù del quale, a differenza dalla previgente
disciplina, le spettanze professionali non sono più subordinate agli importi
«recuperati» a seguito di condanna della parte avversa. Il Tar accoglie il
ricorso.
I giudici amministrativi rilevano, infatti, come in tema di propine
dovute agli avvocati degli Enti pubblici, per ragioni di parità di
trattamento di cui all'art. 45, comma 2, dlgs 165/2001, attualmente è
previsto un sistema retributivo analogo a quello in vigore per l'Avvocatura
dello Stato. Tale sistema prevede la debenza di tali compensi semplicemente
alla ricorrenza di sentenze favorevoli.
In tal modo, come hanno sostenuto
correttamente i ricorrenti, si è superata la previgente disciplina specifica
di settore, propria del Comparto enti locali, che ne subordinava la
spettanza agli importi «recuperati»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Al compenso basta la sentenza. Non rileva che la controparte
debba pagare le spese. AVVOCATI/ Tar Campania su un
caso riguardante due legali dipendenti pubblici.
L'ente locale non può subordinare il compenso dovuto al legale della propria
avvocatura alla duplice condizione che la controparte in giudizio sia
condannata al pagamento delle spese e risultino pure recuperati gli importi.
E ciò perché anche nel comparto del pubblico impiego che riunisce Comuni e
Province si applica il miglioramento introdotto dai nuovi contratti
collettivi secondo cui a far scattare le propine bastano semplicemente le
sentenze favorevoli all'amministrazione.
È quanto emerge dalla
sentenza
25.02.2019 n. 332, della
I Sez. del TAR Campania-Salerno.
Equiparazione decisiva.
Il regolamento adottato dal commissario dell'ente è
annullato in più punti grazie al ricorso proposto da due avvocati
dipendenti. Si applicava in passato la regola secondo cui ai componenti le
avvocature degli enti locali i compensi spettavano unicamente sugli importi
recuperati dopo la condanna alle spese della parte avversa soccombente in
giudizio. La contrattazione collettiva, infatti, le ha equiparate agli
avvocati dello Stato sul piano retributivo.
Decurtazione illegittima.
I legali delle amministrazioni, d'altronde, hanno
uno status particolare: da un lato sono dipendenti pubblici come gli altri,
dall'altro sono professionisti iscritti all'albo e accanto allo stipendio tabellare hanno diritto a una quota di retribuzione a titolo di onorario per
le prestazioni quantificata in base ai parametri forensi.
Non c'è dubbio,
poi, che le propine facciano parte della retribuzione
dell'avvocato-dipendente invece di costituire compenso incentivante. E
dunque la determinazione della retribuzione risulta rimessa alla
contrattazione collettiva. Il regolamento dell'ente, allora, non può
stabilire in modo unilaterale un taglio del 20% rispetto agli standard
forensi che non è stato frutto dell'accordo fra le parti sociali.
Senza condizionamenti.
Di più. È illegittimo inquadrare nell'ente
l'avvocatura come unità organizzativa di staff nell'ambito della direzione
generale: si tratta di un assetto organizzativo che può inficiare il libero
e sereno esercizio delle attività difensive demandate all'avvocatura, in
quanto delicati compiti di natura professionale che non tollerano
condizionamenti. Spese di giudizio compensate per la complessità delle
questioni (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019). |
TRIBUTI: Soggettività
passiva ICI-IMU: fanno fede le risultanze catastali salvo prova contraria.
L'intestazione catastale di un immobile a un determinato soggetto fa sorgere
solo una presunzione de facto sulla veridicità di queste risultanze, ponendo
a carico del contribuente l'onere di fornire la prova contraria.
Così la Sez. V civile della Corte di Cassazione con l'ordinanza
22.02.2019 n. 5316, molto interessante non solo per la
qualificazione di rilevanza come mera presunzione delle risultanze catastali
in tema di intestatario di ditta, ma per la disciplina del riparto
dell'onere probatorio allorquando si controverte sulla soggettività passiva,
nella specie per l'Ici ma valevole anche per l'Imu e la Tasi.
Il riparto dell'onere probatorio tra i soggetti d'imposta
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento, in base all'articolo 2697 del codice civile,
mentre chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero che il diritto si è
modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
Per cui, in linea generale per i giudizi che concernono una maggiore o una
pretesa tributaria, compete al soggetto attivo del rapporto di imposta
allegare i fatti costitutivi della sua pretesa espressa nell'atto impositivo
e ciò attraverso un'adeguata motivazione che indichi le fonti in fatto e in
diritto della sua richiesta (in quanto l'allegazione dei fatti costitutivi
va ricercata nell'atto impositivo) e la successiva produzione in giudizio
delle prove descritte, essendo oramai tramontata la presunzione di
legittimità dell'atto amministrativo e assumendo nel processo tributario
l'ente impositore la posizione sostanziale di attore.
Di contro, il contribuente, benché ricorrente e quindi formalmente attore,
ma nella sostanza convenuto in giudizio, (salvo che nei giudizi di rimborso
nei quali il contribuente è attore sia in senso formale che sostanziale)
deve allegare e comprovare quei fatti modificativi, impeditivi o estintivi
della pretesa fiscale a esso rivoltagli, pur essendo egli la parte che
attraverso il ricorso adisce l'organo giurisdizionale. Spetterà poi al
giudice adito la valutazione dello spessore dei fatti giuridici e elementi
probatori offerti dalle parti per la individuazione del soggetto onerato
dell'obbligazione tributaria.
Tra gli elementi costitutivi l'obbligazione tributaria, l'individuazione
della soggettività passiva è quindi un onere che grava sul soggetto attivo
del rapporto di imposta.
La questione
La controversia concernente l'impugnazione di avvisi di accertamento Ici per
are edificabili, il cui possessore veniva indentificato dall'ente impositore
nel soggetto che nelle visure catastali risultava esserne il proprietario.
Secondo la Ctr gli immobili risultavano di proprietà della società
ricorrente come da intestazioni catastali e che le volture dell'atto di
vendita risultavano predisposte successivamente alla notifica degli atti
impositivi.
Si lagna, la supposta società proprietaria della decisione dei giudici
regionali che avrebbero disatteso la documentazione notarile prodotta nel
giudizio di merito dalla quale si evinceva l'identità dell'effettivo
titolare delle aree, nonché per aver il decidente attribuito prevalenza
probatoria alle visure catastali piuttosto che agli atti di vendita
allegati, omettendo di valutare la documentazione proveniente dai pubblici
uffici, (nella specie il contratto di compravendita) e attribuendo valenza
di piena prova, invece, alle visure catastali in ordine alla titolarità del
diritto reale in contrasto con le prove acquisite al processo, dalle quali
emergeva che la proprietà dei suoli oggetto di accertamento era stata
trasferita in epoca antecedente alle annualità oggetto di accertamento.
Le premesse ermeneutiche della Cassazione
Il giudice di legittimità, dopo aver riaffermato che pur se il catasto è
preordinato a fini essenzialmente fiscali, il diritto di proprietà, al pari
degli altri diritti reali, non può -in assenza di altri e più qualificanti
elementi e in considerazione del rigore formale prescritto per tali diritti- essere provato in base alla mera annotazione di dati nei registri
catastali, che hanno in concrete circostanze soltanto il valore di semplici
indizi.
Pertanto, l'intestazione di un immobile a un determinato soggetto fa sorgere
solo una presunzione de facto sulla veridicità di tali risultanze (Cass. n. 14420/2010),
ponendo a carico del contribuente l'onere di fornire la prova contraria.
Il giudicato, quindi, ritiene che per individuare la soggettività passiva,
l'ente impositore può adoperare le risultanze catastali e che quindi grava
sul contribuente l'onere della prova diretta all'esenzione dal pagamento
dell'imposta e cioè la carenza del possesso che ne costituisce la condizione
di fatto.
Chiarisce la Corte, però, che se per un verso le risultanze catastali sono
considerate (finché non modificate in seguito a contenzioso con l'Agenzia
del Territorio) vincolanti per quanto attiene alla natura e alla rendita
catastale del bene immobile (sentenze Cassazione n. 15321/2008 e n.
8845/2010; Sezioni Unite n. 18565/2009), relativamente, invece, agli aspetti
che ineriscono alla titolarità e alla natura del diritto, hanno, però, una
valenza meramente indiziaria, destinata a cedere in presenza di un titolo,
giuridicamente valido, di segno contrario (sentenze Cassazione n.
16094/2003, n. 14420/2010; n. 13061/2017).
In buona sostanza, una volta rilevata dalle risultanze catastali la
titolarità dell'immobile in capo a un soggetto, il Comune può legittimamente
chiedere a esso il pagamento dell'imposta, ove il contribuente non vinca il
valore indiziario dei dati contenuti nei registri catastali, dando adeguata
dimostrazione di quanto diversamente sostenuto al riguardo.
La decisione
Nella sentenza impugnata, rileva la Corte di cassazione, i giudici regionali
hanno attribuito rilevanza esclusiva alle risultanze catastali e quindi
all'epoca della trascrizione degli atti, avvenuta successivamente all'anno
di imposizione (le «volture»), a fronte di una normativa specifica e di atti
ufficiali (come i rogiti notarili), che avrebbero dovuto essere esaminati al
fine accertare il superamento della presunzione di veridicità delle visure
catastali, da qui il rinvio alla Commissione tributaria regionale, che dovrà
valutare la titolarità dei beni immobili indicati negli avvisi impugnati
attraverso gli atti di trasferimento immobiliari prodotti dal ricorrente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.03.2019). |
TRIBUTI: Esenzioni
Imu, conta la dimora. Coniugi non separati non possono abitare in case
diverse. La Cassazione fissa i requisiti per usufruire del beneficio fiscale:
non basta la residenza.
Esenzione Imu, la dimora è un requisito essenziale.
Moglie e marito non separati legalmente non hanno diritto a fruire
dell'esenzione dalle imposte locali sull'abitazione principale. Non basta
avere la residenza nella prima casa per avere diritto all'esenzione. La
dimora è un requisito essenziale. Pertanto, se i coniugi non dimorano nello
stesso immobile viene meno il presupposto per fruire del beneficio fiscale.
È
quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
22.02.2019 n. 5314.
Per i giudici di piazza Cavour, «un'unità immobiliare può essere
riconosciuta abitazione principale solo se costituisca la dimora abituale
non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari». Il trattamento
agevolato non può essere riconosciuto qualora questo «requisito sia
riscontrabile solo nel ricorrente e invece difetti nei familiari». Marito e
moglie non possono dimorare abitualmente in due immobili diversi, se non
sono separati legalmente.
Con l'ordinanza 12050/2018 aveva già chiarito che
nessuno dei coniugi ha diritto a fruire dell'esenzione Ici, in assenza della
destinazione dell'immobile a dimora abituale della famiglia. Sulla
questione, però, si sono espressi in maniera diversa giudici di legittimità
e di merito.
Per esempio, la commissione tributaria regionale dell'Abruzzo,
quarta sezione, con la sentenza 692/2017, ha stabilito che se uno dei
coniugi risiede per motivi di lavoro in un comune diverso da quello in cui
dimorano i propri familiari, non perde il diritto all'esenzione Ici per
l'immobile adibito ad abitazione principale. Gli impegni di lavoro, infatti,
giustificano una frattura della convivenza abituale all'interno della stessa
casa, ma non fanno venir meno la destinazione ad abitazione principale della
famiglia dell'unità immobiliare.
L'esenzione Ici e Imu.
L'articolo 8 decreto legislativo 504/1992, che disciplinava l'esenzione Ici,
riconosceva l'esenzione per l'immobile adibito a dimora del contribuente e
dei suoi familiari. Anche per l'Imu il legislatore richiede il doppio
requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale ancorché, con
una formulazione letterale infelice, sembra riconoscere il beneficio a
entrambi i coniugi nel caso in cui i due immobili siano ubicati in comuni
diversi.
Interpretazione alquanto discutibile, atteso che anche per l'Imu è
richiesto che l'immobile costituisca la dimora abituale del nucleo
familiare. In base a quanto disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per
abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel
catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il
possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente.
Tuttavia, nel caso in cui i componenti del nucleo familiare
abbiano fissato la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili
diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione
principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si
applicano per un solo immobile. Ecco perché si ritiene che se gli immobili
sono ubicati in comuni diversi, non sussiste alcun impedimento a fruire
dell'esenzione per entrambi i coniugi.
In presenza delle condizioni di legge gli immobili adibiti ad abitazione
principale sono esenti, tranne quelli iscritti nella categorie catastali A1,
A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il
trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione. Sono esenti
anche le pertinenze dell'abitazione principale, classificate nelle categorie
catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di una per ciascuna
categoria, anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad
abitazione.
L'utilizzo di diversi immobili come prima casa.
Dibattuta è anche la questione dell'utilizzo di più immobili come abitazione
principale. La Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza 2830/2018)
ha stabilito che i contribuenti che intendono fruire dell'esenzione per
l'abitazione principale devono presentare al comune un'apposita
dichiarazione se utilizzano due o più immobili come unica unità immobiliare
destinata a prima casa, per consentire all'ente di poter controllare la
sussistenza dei requisiti.
Per il giudice d'appello, «è da accogliere
l'eccezione del comune secondo cui il ricorrente, al fine di beneficiare di
tale esenzione per i due appartamenti, che avrebbero dovuto costituire
un'unica un'unità immobiliare, doveva fame apposita richiesta con variazione
della dichiarazione, al fine di consentire i controlli per la verifica dei
requisiti previsti».
In ordine alla spettanza dei benefici fiscali c'è stata una differente presa
di posizione tra Cassazione e Ministero dell'economia e delle finanze
sull'utilizzo di due o più immobili come unica unità immobiliare destinata
ad abitazione principale. Il problema si è posto per l'Ici e si pone per l'Imu.
Il Ministero ha sostenuto che l'esenzione può essere riconosciuta solo per
un immobile. Secondo la Cassazione (sentenze 25902/2008; 3339 e 12269/2010),
invece, quello che conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione
principale dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere dal
numero delle unità catastali.
Non importa, peraltro, che gli immobili
distintamente iscritti in catasto siano di proprietà non di un solo coniuge
ma di ciascuno dei due in regime di separazione dei beni. A patto che «il
derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale
delle unità che lo compongono». Per i giudici di legittimità,
un'interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della finalità
legislativa di ridurre il carico Ici sugli immobili adibiti a «prima casa»,
confermata dalla previsione dell'esenzione totale dal 2008. Non c'è alcun
motivo per ritenere che la stessa regola non sia applicabile all'Imu.
La tesi della Cassazione, però, contrasta con quanto sostenuto dal Ministero
dell'economia (risoluzione 6/2002), il quale ha precisato che due o più
unità immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a
imposizione, «ciascuna per la propria rendita». Dunque, solo una può essere
considerata ai fini Ici come abitazione principale.
L'interessato dovrebbe
richiedere l'accatastamento unitario degli immobili, presentando all'ente
una denuncia di variazione. Allo stesso modo si è espresso con la circolare
3/2012 per limitare l'esenzione Imu. Dalla formulazione letterale della
norma di legge (articolo 13 dl 201/2011) emergerebbe che l'abitazione
principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o
iscrivibile in catasto, a prescindere dalla circostanza che, di fatto, venga
utilizzato più di un fabbricato distintamente iscritto in catasto.
In questo
caso le singole unità immobiliari dovrebbero essere assoggettate
separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita. L'interessato
può scegliere quale destinare ad abitazione principale. Secondo il
Ministero, le altre unità immobiliari «vanno considerate come abitazioni
diverse da quella principale con l'applicazione dell'aliquota deliberata dal
comune per tali tipologie di fabbricati».
La tesi ministeriale non può essere condivisa, poiché anche per l'Imu il
contribuente dovrebbe avere diritto al trattamento agevolato qualora
utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come prima casa, considerato
che l'articolo 13 richiede che si tratti di un'unica unità immobiliare
iscritta o «iscrivibile» come tale in catasto. E' sufficiente che sussistano
due requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo. Nello specifico, le
diverse unità immobiliari devono essere possedute da un unico titolare e
devono essere contigue.
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Decisivi i consumi elettrici.
Se i consumi elettrici sono bassi, l'amministrazione comunale può
disconoscere l'agevolazione Ici per l'abitazione principale. La presunzione
di residenza effettiva in un comune, certificata dai dati anagrafici, può
essere superata dai consumi elettrici se ritenuti modesti. Lo ha precisato
la Corte di cassazione con l'ordinanza 14793/2018.
I giudici hanno sostenuto
che per l'immobile adibito ad abitazione principale, le risultanze
anagrafiche hanno un valore presuntivo riguardo al luogo di residenza
effettiva «e possono essere superate da prova contraria, desumibile da
qualsiasi fonte di convincimento e suscettibile di apprezzamento riservato
alla valutazione del giudice di merito». E i bassi consumi elettrici nel
corso di un triennio sono da ritenere una prova sufficiente per superare la
presunzione di residenza effettiva nel comune, «fondata sulle risultanze
anagrafiche, in quanto elemento sintomatico di una presenza nell'abitazione
oggetto d'imposizione non abituale».
Lo stesso criterio è applicabile anche
alle imposte locali attualmente vigenti (Imu e Tasi), per contestare la
presenza abituale del contribuente nell'immobile adibito a prima casa
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019). |
TRIBUTI: La residenza non sempre dà diritto.
ESENZIONE IMU.
La
residenza nell'abitazione non sempre dà diritto all'esenzione dell'Imu. La
perde infatti la moglie se il marito usufruisce del bonus per un'altra casa.
Solo uno dei due beni può infatti essere deputato a dimora reale della
famiglia.
Con
l'ordinanza 22.02.2019 n. 5314 destinata a far
discutere, la Corte di Cassazione -Sez. V civile- ha accolto il ricorso di un Comune toscano
presentato contro una coppia che usufruiva dell'agevolazione, ciascuno nel
suo appartamento di residenza.
La difesa dell'ente aveva lamentato che, dato
il carattere eccezionale della deroga, la stessa dovesse essere limitata al
nucleo familiare nel suo complesso. La tesi ha vinto.
Per gli Ermellini, in
sostanza, la casa principale e della famiglia che è l'unica a usufruire del
bonus. La residenza è un parametro che passa in secondo piano. Ad avviso del
Collegio di legittimità, «in tema di Ici (oggi Imu), ai fini della spettanza
della detrazione e dell'applicazione dell'aliquota ridotta prevista per le
abitazioni principali dall'art. 8 del dlgs n. 504/1992, un'unità immobiliare
può essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisca la dimora
abituale non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari, non potendo
sorgere il diritto alla detrazione nell'ipotesi in cui tale requisito sia
riscontrabile solo nel ricorrente e invece difetti nei familiari».
Nel caso
sottoposto all'esame della Corte, è stato accertato che solo la ricorrente
aveva la propria residenza anagrafica nel Comune di Castiglione della
Pescaia mentre il proprio coniuge, non legalmente separato, non solo aveva
residenza e dimora abituale in Firenze ma aveva usufruito in tale Comune
dell'agevolazione in materia di Ici. La Ctr, ritenendo possibile che ogni
coniuge, anche non separato, potesse avere una propria «abitazione
principale» non si è uniformato al principio di diritto ricordato in
motivazione.
Il sipario sulla vicenda si è concluso definitivamente di
fronte ai Supremi giudici. Infatti la Cassazione ha accolto nel merito il
ricorso del Comune e, non ritenendo necessari ulteriori accertamenti di
fatto, ha condannato la contribuente a versare la differenza d'imposta
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il comandante della polizia locale non ha diritto alla riconferma del posto.
Il dirigente che svolge le funzioni di comandante della Polizia locale non
ha nessun diritto soggettivo a essere riconfermato nella stessa posizione.
Esiste, infatti, una scissione tra instaurazione del rapporto di lavoro
dirigenziale e conferimento dell'incarico, tale da giustificare anche
l'inapplicabilità dell'articolo 2103 del codice civile al passaggio dall'uno
all'altro incarico dirigenziale.
Queste le ragioni per le quali la Corte di
Cassazione - Sez. lavoro (ordinanza 21.02.2019 n. 5191) non ha accolto il ricorso di un
dirigente comandante della Polizia locale che, alla scadenza del suo
incarico, è stato assegnato alla conduzione di un altro settore
dell'amministrazione.
La vicenda
Il caso riguarda il ricorso di un dirigente della Polizia locale che, alla
scadenza del suo incarico, è stato assegnato dall'ente alla conduzione di un
altro settore. La Corte d'appello ha ritenuto l'operato del Comune corretto
e non oggetto di censure, dal momento che, nella contrattualizzazione del
pubblico impiego, l'ente nel conferire gli incarichi dirigenziali li adotta
con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro, sottraendoli a
tutte le disposizioni che la legge 241/1990 prevede per i provvedimenti
amministrativi.
Il comandante ha, allora, adito la Cassazione evidenziando
come la Corte d'appello non avesse tenuto conto del regolamento della
polizia locale -disapplicandolo in quanto adottato in violazione delle
disposizioni previste dal Dlgs 165/2001- quale parte del regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, dove è precisato che il
Comandante della Polizia municipale, stante il ruolo e il rapporto con
l'autorità giudiziaria, risulta essere figura dirigenziale specialistica,
che non rientra nei sistemi di rotazione del personale dirigente.
L'ex comandante ha stigmatizza, inoltre, che la Corte d'appello non avrebbe
valorizzato la differenza tra il settore di provenienza della Polizia locale
con il nuovo assegnato, anche in considerazione della differenza tra numero
dei dipendenti diretti, in qualità di comandante, e quello degli impiegati
coordinati dopo l'assegnazione al nuovo servizio. Infine, nel ricorso in
Cassazione, l'ex comandante ha sottolineato il mancato adeguamento da parte
dell'ente ai principi del testo unico dei pubblici impiegati con la
conseguente inapplicabilità dell'articolo 2103 del codice civile.
La conferma della Cassazione
I giudici di legittimità non hanno accolto le indicazioni del ricorrente. La
riforma della dirigenza pubblica, infatti, ha da tempo evidenziato che la
stessa non esprime una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una
carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì
esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente a svolgerle
concretamente, per effetto del suo conferimento a termine.
In altri termini,
si è in presenza di una scissione tra instaurazione del rapporto di lavoro
dirigenziale e conferimento dell'incarico, scissione che giustifica anche la
ritenuta inapplicabilità dell'articolo 2103 del codice civile al passaggio
dall'uno all'altro incarico.
Quindi, il dirigente non matura alcun diritto
soggettivo al conferimento dell'incarico dirigenziale, per cui va escluso
che si sia in presenza di un illegittimo demansionamento avvenuto con
l'assegnazione del ricorrente, sempre con funzioni dirigenziali, al settore
gestione dei cimiteri cittadini, canile municipale e randagismo, servizi
generali, spettando all'ente il potere di mutare l'incarico, una volta
venuto a scadenza l'incarico originario
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.02.2019).
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MASSIMA
8. sono infondati il secondo, il terzo ed il quarto
motivo di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro
connessione logico-giuridica;
8.1. occorre premettere che la giurisprudenza di questa Corte è ormai
consolidata nell'affermare che «nel lavoro pubblico alle dipendenze di un
ente locale, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine
professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e
non consente, perciò, -anche in difetto della espressa previsione di cui
all'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilita per le Amministrazioni
statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 c.c., risultando la regola del
rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile
con lo statuto del dirigente pubblico» (Cass. n. 4621/2017; negli stessi
termini Cass. n. 19442/2018; Cass. n. 3451/2010; Cass. n. 23760/2004);
8.2. a detto orientamento il Collegio intende dare continuità, non essendo
condivisibile il diverso principio, invocato dal ricorrente ed affermato
solo da Cass. n. 17095/2004, secondo cui l'inapplicabilità dell'art. 2103
cod. civ. sarebbe condizionata dalla prova dell'avvenuto adeguamento
dell'organizzazione dell'ente ai principi dettati in tema di dirigenza
pubblica dal d.lgs. n. 29/1993, come modificato dal d.lgs. n. 80/1998, e poi
trasfusi nel d.lgs. n. 165/2001;
8.3. ne discende l'infondatezza di tutte le censure che muovono dalla
ritenuta sussistenza di un diritto soggettivo del dirigente a conservare
l'incarico o, quantomeno, ad essere assegnato a mansioni di natura
dirigenziale che siano equivalenti a quelle in precedenza svolte;
8.4. nel ribadire i principi recentemente affermati da Cass. n. 8674/2018,
rileva il Collegio che la riforma della dirigenza pubblica è stata
caratterizzata dal passaggio da una concezione della dirigenza intesa come
status, quale momento di sviluppo della carriera dei funzionari pubblici, ad
una concezione della stessa dirigenza di tipo funzionale;
8.5. in ragione di tale inquadramento giuridico è stato da tempo evidenziato
(Cass. n. 27888/2009 e Cass. n. 29817/2008) che la qualifica dirigenziale
non esprime una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una carriera e
caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì
esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente (che tale qualifica
ha acquisito mediante contratto di lavoro stipulato all'esito della
procedura concorsuale) a svolgerle concretamente per effetto del
conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale;
8.6. l'insussistenza di un diritto soggettivo del dirigente pubblico al
conferimento di un incarico dirigenziale è stata desunta da tale scissione
tra instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e conferimento
dell'incarico, scissione che giustifica anche la ritenuta inapplicabilità
dell'art. 2103 cod. civ. al passaggio dall'uno all'altro incarico;
8.7. a detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte
territoriale nell'escludere che costituisse illegittimo demansionamento
l'assegnazione del ricorrente, sempre con funzioni dirigenziali, al settore
"gestione dei cimiteri cittadini; canile municipale e randagismo; servizi
generali", assegnazione disposta una volta venuto a scadenza l'incarico
originario; |
VARI: Account col trucco. Reato utilizzare generalità altrui.
La
Corte di cassazione: è sostituzione di persona.
Costituisce reato di sostituzione di persona la condotta di colui che crei e
utilizzi un account internet utilizzando le generalità di un'altra persona,
inducendo in errore altri utenti nei confronti dei quali le false generalità
siano utilizzate.
Questo il principio applicato dalla Corte di Cassazione, Sez. V penale, nella
sentenza
20.02.2019 n. 7808 con cui ha legittimato la condanna di un imputato
sostituitosi a mezzo account ad altra persona di cui aveva inoltre
utilizzato la carta pay-pal.
Già nel 2007 la Cassazione aveva ritenuto
legittima la condanna di un imputato, per aver inserito su un sito di
incontri il numero di telefono di un'altra persona che si era ritrovata a
ricevere telefonate a scopo sessuale.
Nel 2011 la Cassazione aveva ritenuto
integrante reato di sostituzione di persona la condotta di un imputato che
aveva utilizzato una casella e-mail con i dati anagrafici di un'altra
persona, inconsapevole, al fine di far ricadere sulla stessa gli adempimenti
di aste di rete.
Nel 2014 la Corte aveva ravvisato gli estremi del reato di
sostituzione di persona nella condotta di un calciatore che, al fine di
prendere parte ad una partita nonostante la squalifica, si era attribuito
l'identità di altro giocatore.
Come nei precedenti, nel caso in esame la
Cassazione ha dedotto che ai fini della configurabilità del reato di
sostituzione di persona è sufficiente la mera induzione in errore. Non è
scriminante il fatto che l'apertura del nuovo account sia avvenuta col
consenso iniziale dell'intestatario, avendo l'imputato proseguito
nell'utilizzo all'insaputa dell'intestatario e soprattutto per fini (gioco
d'azzardo) completamente diversi da quelli originariamente pattuiti.
L'eventuale consenso mai potrebbe evitare il reato. Non rilevano né
l'eventuale intesa iniziale né i motivi sottostanti, perché ciò che conta è
la creazione di un'apparenza nei rapporti tra le persone, idonea a trarre in
inganno terzi e realizzata con la finalità di trarre un vantaggio o un
danno. Piuttosto il consenso può rilevare sotto il profilo del concorso
dell'intestatario formale nel reato di sostituzione di persona
(articolo ItaliaOggi del 06.03.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Assistenza disabili, sì agli 007. Abusare dei permessi ex lege 104 può
costare il lavoro. Lecito per la Corte di cassazione
incaricare un investigatore per spiare i dipendenti.
I
lavoratori dipendenti che prestano assistenza al familiare disabile (c.d. «caregivers»),
sfruttando la possibilità riconosciuta dalla Legge 104, possono essere
spiati durante la fruizione dei permessi riconosciuti dall'art. 33 della
predetta legge. Infatti, sono assolutamente leciti i controlli, demandati
dal datore di lavoro ad agenzie investigative, laddove non riguardino
l'adempimento della prestazione lavorativa, ma siano finalizzati a
verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente
rilevanti o integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore
medesimo. Pertanto, in caso di indebito utilizzo delle giornate di assenza
destinate alla cura della persona con disabilità, il datore di lavoro può
adottare l'extrema ratio del licenziamento.
A stabilirlo è la Corte di
Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
18.02.2019 n. 4670, che individua i
confini entro i quali è possibile controllare il lavoratore al di fuori dei
locali aziendali, senza interferire con la sfera privato dello stesso.
Il caso. La vicenda trae origine da un licenziamento intimato a un
lavoratore che aveva utilizzato in maniera indebita i permessi ex legge
104/1992, in sei giorni durante i mesi di dicembre 2014 (coincidenti con le
festività natalizie), gennaio e febbraio 2015. Il comportamento illecito del
lavoratore era emerso a seguito di quanto appreso dalla società datrice per
il tramite di un'agenzia di investigazione privata.
Dall'attività di spionaggio è stato rilevato che, durante i giorni di
permesso goduti per Legge 104, il lavoratore, anziché prestare assistenza al
proprio familiare per il quale usufruiva delle giornate di assenza, aveva
svolto attività varie di tipo personale (presso esercizi commerciali ed
altri luoghi comunque diversi da quello deputato all'assistenza).
Ciò ha spinto la società ad adottare nei confronti del lavoratore, l'estremo
provvedimento del licenziamento.
Il lavoratore decide di ricorrere per vie legali, ma vede soccombere la
pretesa di ottenere la declaratoria d'illegittimità del licenziamento, sia
in primo che in secondo grado di giudizio.
Infatti, la Corte d'appello di Napoli confermava in pieno la pronuncia del
Tribunale partenopeo, che riteneva pienamente legittimo il controllo
finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio dei permessi. Infatti,
pur scorporando dalla contestazione i tre giorni fruiti nel mese di dicembre
durante le festività natalizie, nei quali l'azienda aveva deciso di
sospendere l'attività lavorativa, la Corte territoriale riteneva, comunque,
che i fatti accaduti durante la fruizione dei permessi nei mesi seguenti
(gennaio e febbraio), erano così gravi da giustificare la massima sanzione
espulsiva.
L'attività investigativa, tra l'altro, non avveniva durante l'adempimento
della prestazione, essendo la stessa effettuata al di fuori dell'orario di
lavoro e in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere tale
prestazione. In conseguenza di ciò, la Corte Territoriale riteneva
utilizzabili gli esiti di tale investigazione e così anche delle
dichiarazioni testimoniali rese dagli investigatori.
Il lavoratore ha così impugnato nuovamente la sentenza ricorrendo in
Cassazione.
La sentenza. La Suprema Corte ritiene i motivi del ricorso proposto
infondati e conferma il licenziamento del lavoratore. Secondo gli Ermellini,
infatti, a nulla rileva la fattispecie sollevata dal ricorrente secondo il
quale si sarebbe dovuta produrre la nullità delle indagini investigative,
poiché svolte da soggetti privi delle licenze prefettizie. Inoltre è stato
affermato che non viene violato né il principio di buona fede né il divieto
di cui all'art. 4 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), ben potendo
il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il
controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare
diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro.
I limiti. Dalla sentenza emergono, dunque, i limiti entro i quali i datori
di lavoro possono lecitamente controllare i lavoratori, anche con agenzie
investigative, per assicurarsi la corretta fruizione dei permessi per Legge
104, senza sconfinare nella violazione della privacy.
In particolare, i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie
investigative, riguardanti l'attività lavorativa del prestatore svolta anche
al di fuori dei locali aziendali, sono leciti laddove:
• non riguardino l'adempimento della prestazione lavorativa;
• siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare
ipotesi penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente (cfr. Cass. 12.09.2018, n. 22196; Cass. 11.06.2018, n. 15094; Cass. 22.05.2017, n. 12810).
Quindi, affinché le agenzie investigative operino lecitamente, le loro
indagini non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera
e propria. Tale attività infatti, è riservata, dall'art. 3 dello Statuto dei
Lavoratori, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori,
restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta
perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche
in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in
corso di esecuzione (v. Cass. 14.02.2011, n. 3590; Cass. 20.01.2015, n. 848).
Giurisprudenza di merito.
Sul tema dei controlli durante i periodi di
sospensione del rapporto, la giurisprudenza di merito si è più volte
espressa, giudicando possibile per il datore di lavoro, anche, ad esempio,
durante i periodi di malattia, acquisire conoscenza di comportamenti del
lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa,
siano rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni
derivanti dal rapporto di lavoro medesimo (cfr. Cass. 26.11.2014, n. 25162 e
Cass. 22.05.2017, n. 12810) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).
---------------
MASSIMA
2.1. con il secondo motivo il ricorrente deduce l'illegittimità
delle indagini investigative compiute dalla parte avversa, la violazione del
principio di libertà e della riservatezza del lavoratore (art. 360, co. 1,
n. 3 cod. proc. civ.);
2.2. il motivo è infondato;
- come da questa Corte già affermato, i controlli,
demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, riguardanti
l'attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali
aziendali, non sono preclusi ai sensi degli artt. 2 e 3 st. lav., laddove
non riguardino l'adempimento della prestazione lavorativa, ma siano
finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi
penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per
il datore medesimo (v. Cass.
12.09.2018, n. 22196; Cass. 11.06.2018, n. 15094; Cass. 22.05.2017, n.
12810);
- è stato precisato che le dette agenzie per
operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività
lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto,
direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando
giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione
di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione
del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di
esecuzione (v. Cass. 14.02.2011,
n. 3590; Cass. 20.01.2015, n. 848);
- né a ciò ostano sia il principio di buona fede
sia il divieto di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo
il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il
controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare
diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro
(cfr. 10.07.2009, n. 16196);
- è stato in particolare ritenuto legittimo tale
controllo durante i periodi di sospensione del rapporto al fine di
consentire al datore di lavoro di prendere conoscenza di comportamenti del
lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa,
siano rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni
derivanti dal rapporto di lavoro, che permane nonostante la sospensione
(si vedano con riferimento ai controlli disposti nel corso di una malattia
Cass. 26.11.2014, n. 25162 e Cass. 22.05.2017, n. 12810 e con riferimento
alla fruizione dei permessi ex legge n. 104 del 1992, Cass. 06.05.2016, n.
9217 e Cass. 04.03.2014, n. 4984; quest'ultima ha in particolare evidenziato
che il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione
al permesso ex art. 33 l. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per
l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra
l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei
confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo
ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento
riposto nel dipendente ed integra nei confronti dell'Ente di previdenza
erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità
ed uno sviamento dell'intervento assistenziale); |
TRIBUTI: Accertamento
Imu con perizia allegata.
È nullo per difetto di motivazione l'avviso di accertamento per imposta Imu
se manca l'allegazione a esso della perizia alla quale l'atto fa espresso
richiamo nelle valutazioni e nei calcoli volti alla determinazione di
maggiori importi del tributo in parola.
È quanto osservato dalla Ctp di Latina (presidente Costantino Ferrara,
relatore Portaro Antonino) con la
sentenza 18.02.2019
n. 156/6/2019.
Oggetto della vertenza era un avviso di accertamento con cui il comune di
Pontinia recuperava maggiori importi a titolo di Imu rifacendosi a nuovi
valori attraverso i quali aveva determinato l'imposta in misura maggiore e
che la contribuente contestava ritenendoli non applicabili retroattivamente.
D'altro canto, inoltre, la stessa rilevava che l'accertamento notificatole
fosse viziato dal punto di vista motivazionale: l'eccepito difetto di
motivazione derivava infatti dalla mancata allegazione di una perizia alla
quale, come si evinceva dall'atto, l'amministrazione comunale si era rifatta
per i calcoli del tributo.
Tale rilievo, appurato dai giudici di Latina,
risultava decisivo nel giudizio, durante il quale la commissione, come
chiarito nella sentenza in commento, ricordava che non sono ammesse
integrazioni motivazionali da parte dell'ufficio rispetto all'atto che si
dimostri carente e quindi irrispettoso dei canoni prescritti dall'art. 42
del dpr n. 600/1973. La mancanza non è dunque suscettibile di sanatoria o
integrazione in giudizio poiché, costituendo la motivazione, anche se per relationem, un requisito essenziale dell'atto già
ab origine, il suo difetto
comporterà automaticamente nullità dell'atto stesso.
Nel caso di specie, il provvedimento con cui il comune richiedeva un'Imu
maggiore si legava, ai fini del calcolo, a una perizia acquisita agli atti
dell'ente, che, tuttavia, non veniva allegata all'accertamento. Nemmeno
poteva essere invocato l'atteggiarsi della motivazione come fornita per relationem dal momento che quel documento, richiamato ma non allegato, non
era stato mai comunicato né era conosciuto alla contribuente.
Per questi
motivi, in assenza della suddetta relazione alla quale comunque l'ufficio
dell'ente comunale si era rifatto per la determinazione del valore delle
aree, mancando ogni indicazione dell'iter tecnico e giuridico che aveva
portato il comune a quella nuova determinazione ai fini della maggior
pretesa Imu, il ricorso veniva accolto.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La Signora B.T., come in atti generalizzata, proponeva ricorso RGR n. (…)
depositato alla Ctp di Latina il 15/03/2018, avverso avviso di accertamento
(…) notificato il 22/12/2017 per imposta Imu relativa all'anno 2012, in cui
il comune ha rettificato d'ufficio, la dichiarazione Imu richiedendo
ulteriore importo di euro 6.114,00 oltre sanzioni per un totale di euro
8.261,00.
La ricorrente eccepisce: (…) 1) Difetto/carenza di motivazione.
L'Ente resistente pur facendo riferimento a una perizia acquisita agli atti
comunali non ha provveduto ad allegarla. (…) Il comune di Pontinia nelle
controdeduzioni presentate il 21.05.2018 rileva: 1) La ricorrente era ed
è a perfetta conoscenza che l'area di proprietà ha la destinazione
edificatoria. Il piano regolatore generale del comune di Pontinia è stato
adottato con deliberazione del Consiglio comunale n. (…) e formalmente
pubblicata nell'Albo Pretorio. 2) La ricorrente non offre alcuna prova a
supporto del preteso valore agricolo usato nel procedere alla tassazione di
un'area fabbricabile.
Il ricorso è meritevole di accoglimento.
La Commissione esaminati gli atti
osserva: Il provvedimento oggetto della presente impugnazione, pur facendo
espresso richiamo ai fini della quantificazione della imposta Ici alla
su indicata perizia tuttavia la documentazione afferente alla stessa non è
stata allegata all'accertamento. Sul punto va rilevato che l'avviso di
accertamento non è atto avente natura processuale, ma sostanziale, in quanto
esplicativo della potestà impositiva dell'Amministrazione finanziaria, che
deve indicare ex art. 42, dpr 600/1973 i presupposti di fatto e le ragioni
giuridiche che lo giustificano.
La motivazione, pertanto, non può essere
integrata in corso di giudizio, in quanto costituisce un requisito di
legittimità dell'avviso di accertamento, richiesto a pena di nullità. La
motivazione può assolvere la funzione informativa, che le è propria facendo
riferimento a elementi di fatto offerti da documenti diversi, solo tali
documenti sono allegati o sono comunicati al contribuente, ovvero per altro
verso da lui conosciuti.
Nel caso di specie tale perizia non è stata
allegata all'accertamento, pertanto, il ricorso deve essere accolto mentre
restano assorbiti gli ulteriori profili di censura non espressamente
esaminati. A ciò consegue l'accoglimento del ricorso. La natura controversa
della causa ed il suo andamento processuale costituiscono giusto motivo per
la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019). |
SEGRETARI COMUNALI: Il
pensionamento non salva il segretario dal recupero del «galleggiamento»
illegittimo.
Il contratto dei segretari comunali prevede due possibilità di maggiorazione
della retribuzione di posizione: quella per incarichi aggiuntivi attribuiti
dall'ente e quella del «galleggiamento», il meccanismo che riallinea la
retribuzione di posizione a quella del dirigente apicale. È invece
illegittima l'attribuzione del riallineamento se, con l'applicazione delle
maggiorazioni, la retribuzione di posizione già supera quella del dirigente
apicale. Nel caso in cui ciò sia accaduto, le differenze di retribuzione
attribuite sono soggette al recupero, anche a valere sulla pensione del
segretario cessato dal servizio, senza che possa rilevare l'atto
deliberativo o la buona fede dell'interessato.
Questo l'indirizzo fissato
dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza
15.02.2019 n. 4619.
Il caso
Un'amministrazione ha corrisposto al segretario comunale la maggiorazione
della retribuzione di posizione (articolo 41, comma 4, del contratto
nazionale del 16.05.2001), prevista quale facoltà di maggiorare i
compensi per le funzioni aggiuntive, e successivamente ha disposto anche il
riallineamento alla retribuzione del dirigente apicale con più alta
retribuzione di posizione (comma 5). Accortosi dell'errore, l'ente ha
recuperato le differenze pagate in eccesso, con una parte residua da
recuperare sulle retribuzioni corrisposte dall'Inps dopo la cessazione dal
servizio per pensionamento del segretario.
Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d'appello hanno giudicato
legittimo il recupero delle somme disposte dal Comune, evidenziando che alla
comparazione tra la retribuzione goduta dal segretario comunale e quella
percepita dal dirigente con retribuzione più elevata si doveva procedere
solo dopo aver inserito, nella retribuzione del segretario comunale, anche i
compensi aggiuntivi; il galleggiamento sarebbe potuto intervenire solo se la
retribuzione del segretario fosse stata inferiore a quella prevista per la
funzione dirigenziale più elevata.
Secondo la difesa del segretario, se le
maggiorazioni stipendiali previste dall'articolo 41, comma 4, del contratto
fossero assorbite dal riallineamento previsto dal quinto comma, verrebbero
penalizzati i funzionari più gravati di compiti. Inoltre è lo stesso regime
previdenziale a fare la differenza sui due aumenti retributivi, perché le
maggiorazioni sono in quota B (regime contributivo) mentre il
riallineamento, avendo natura perequativa, rientrerebbe nella quota A
(regime retributivo).
L'ultima parola della Cassazione
I giudici di Piazza Cavour hanno confermato il proprio precedente
orientamento (si veda il Quotidiano degli enti enti locali e della Pa 09.03.2018) rigettando il ricorso. In particolare, le norme contrattuali
convergono verso una particolare valorizzazione del ruolo del segretario
che, oltre a svolgere compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa, sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei
dirigenti e ne coordina l'attività; compiti che per le responsabilità che ne
discendono giustificano il riconoscimento di un' indennità di posizione
almeno pari a quella del dirigente sottoposto al potere di coordinamento e
controllo.
Ma se al segretario è stata disposta una maggiorazione della
retribuzione di posizione, tale da superare quella del dirigente apicale,
allora non potrà essere applicato alcun ulteriore riallineamento
stipendiale, anche se ciò comporta una peggioramento del suo regime
previdenziale.
Il recupero delle somme attivate dall'ente locale è quindi legittimo, a
nulla rilevando la buona fede del ricorrente. Né è possibile dare risalto
all'atto deliberativo che ne avesse disposto un compenso diverso da quello
stabilito dal contratto nazionale, stante la nullità di questo atto, con
conseguente obbligo da parte della Pa al ripristino della legalità violata,
mediante il recupero delle somme disposte in assenza del titolo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
No al voto di laurea minimo. CONCORSI/
TAR DEL LAZIO SUI REQUISITI DI PARTECIPAZIONE.
Annullato. Scatta lo stop al concorso pubblico per ottava qualifica
funzionale se il bando prevede un voto minimo di laurea per poter
partecipare. E ciò perché l'amministrazione che apre la tornata di
reclutamento introduce un «indice selettivo» non previsto dalla legge senza
motivare le peculiari funzioni che saranno svolte dagli «ingegneri
professionisti» dopo l'assunzione. Si tratta peraltro di un criterio «non
attendibile»: la valutazione dei docenti all'esito del percorso
universitario dipende da vari fattori, in primis il tipo di diploma
conseguito e qual è l'Ateneo che lo rilascia.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.02.2019 n.
2112, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso
dei due ingegneri interessati al posto nell'ente: fanno annullare il bando
che prevede un minimo di 105/110 per poter prendere parte alle selezioni.
L'amministrazione non contesta che il profilo professionale messo a concorso
sia assimilabile all'ottava qualifica funzionale, per la quale è richiesto
il solo diploma di laurea in base all'articolo 2, comma sesto, del dpr
487/1994 che regola la materia.
Fissare un punteggio minimo equivale a
introdurre un requisito ulteriore, mentre il secondo comma della
disposizione stabilisce che altri paletti possono essere messi soltanto
quando si ricercano particolari profili. Insomma: per giustificare lo
sbarramento preselettivo del voto minimo l'ente deve fornire un'adeguata
motivazione per derogare alla regola generale. Nel nostro caso viene meno
all'obbligo perché si limita a sottolineare «l'importanza e la delicatezza
del ruolo che i professionisti esplicano attraverso la prestazione degli
apporti specialistici».
Non basta che l'amministrazione a caccia di
ingegneri svolga attività di particolare rilievo per la comunità. Cade
allora lo sbarramento fissato a quota 105 perché la deroga non può essere
fondata sulla mera volontà dell'ente di ridurre il numero dei partecipanti
al concorso. L'obiettivo predeterminato di preparazione culturale dei
concorrenti, che esclude coloro che hanno avuto una carriera universitaria
meno brillante, viene bocciato in quanto parametrato a un indice come il
voto che può dipendere da un alto numero di variabili. L'ente paga le spese
di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 06.03.2019).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato e deve, pertanto, essere accolto.
Il d.P.R. n. 487/1994, avente ad oggetto il “Regolamento recante norme
sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di
svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di
assunzione nei pubblici impieghi”, all’articolo 2 (rubricato “Requisiti
generali”), dispone testualmente al comma 6, che “per l'accesso a profili
professionali di ottava qualifica funzionale è richiesto il solo diploma di
laurea” e al precedente comma 2 che “per l'ammissione a particolari profili
professionali di qualifica o categoria gli ordinamenti delle singole
amministrazioni possono prescrivere ulteriori requisiti”.
Premessa la riferibilità del citato comma 6 al profilo professionale in
questione (“Ingegnere Professionista”) in ragione della sua assimilabilità
alla qualifica funzionale ivi indicata (l’ottava) -circostanza in alcun modo
contestata in punto di fatto dall’ente resistente- il Collegio è, quindi,
chiamato a verificare, in via preliminare, se da quanto stabilito al comma 6
possa effettivamente trarsi il principio, invocato dalla ricorrente, di
inammissibilità, in linea generale, della previsione di un voto minimo di
laurea ai fini dell’accesso alla partecipazione ad un concorso pubblico
nonché, in caso affermativo, la riconducibilità alla deroga di cui al comma
2 della contestata disposizione del bando di concorso impugnato.
Quanto alla prima questione, ritiene il Collegio che, indubbiamente, il
disposto di cui al comma 6 dell'articolo 2, nella parte in cui prevede che
“è richiesto il solo diploma di laurea”, non possa che essere interpretato
se non nel senso che il possesso del titolo della laurea sia di per sé
requisito sufficiente ai fini della partecipazione al concorso ivi
disciplinato indipendentemente dal voto finale riportato e, che, pertanto,
il comma 6 esprima effettivamente un principio di ordine generale in subiecta materia.
Ciò posto, il Collegio è, inoltre,
dell’avviso, anche in ragione del tenore
testuale delle disposizioni richiamate, che -in generale- la previsione di
un voto minimo di laurea ai fini dell’accesso alla procedura concorsuale
effettivamente finisca per interferire con detto principio, conformemente a
quanto già affermato dalla giurisprudenza di questo TAR secondo cui “il
possesso del titolo della laurea con un punteggio minimo è evidentemente
diverso dal mero possesso del titolo della laurea e, proprio in quanto il
voto minimo di laurea si aggiunge al requisito generale, questo finisce per
acquisire la valenza di requisito ulteriore” (Sezione II, sentenze n.
1491/2015 e n. 1493/2015).
Passando, quindi, a verificare se, in concreto, un siffatto requisito possa
legittimamente essere previsto nel concorso per cui è causa in ragione della
sua riconducibilità al citato comma 2, occorre premettere come la deroga ivi
prevista, operando in relazione ad un principio di valenza generale, trovi -dunque- applicazione solo nei ristretti e circoscritti limiti nei quali è
prevista, con la conseguenza che la “particolarità” del profilo
professionale di qualifica o di categoria debba essere necessariamente
intesa ed interpretata in senso non ampliativo.
Orbene, l’ENAC sostiene al riguardo che nella fattispecie sussisterebbe
effettivamente ed in pieno la predetta particolarità, alla luce delle
peculiari funzioni svolte dagli ingegnere professionisti.
L’assunto non è condivisibile.
Assume, innanzi tutto, rilievo in tal senso come manchi in seno al bando
impugnato e negli atti ad esso presupposti ogni, seppur minimo, riferimento
puntuale alla specificità delle funzioni che i vincitori della procedura
saranno chiamati a svolgere a seguito della loro assunzione nel profilo
professionale in questione.
Ritiene, infatti,
il Collegio che la discrezionalità dell’amministrazione di
richiedere il conseguimento di un determinato punteggio di laurea ai fini
dell’accesso ad una procedura concorsuale per l’assunzione in un profilo
professionale quale quello di cui si discorre, pari o assimilabile
all’ottava qualifica funzionale, incontri un limite nella necessità di
giustificare la razionalità di uno sbarramento preselettivo di tale fatta,
attraverso un’adeguata motivazione a supporto della disposta deroga al
principio generale di cui al richiamato art. 2, comma 6, del d.P.R. n.
487/1994, vigente in materia (in tal senso, sempre questo Tribunale, Sezione
I, n. 13180/2015). |
APPALTI FORNITURE: Il bando di gara è rigido. La caratteristica del prodotto è vincolante.
Sentenza del Consiglio di stato sul caso di esclusione dell’azienda.
Se la caratteristica di un prodotto viene indicata nel bando di
gara, la sua mancanza costituisce valida ragione per escludere l'azienda che
l'ha proposta dall'aggiudicazione del bando. Ciò in quanto essendo tale
caratteristica inserita nei c.d. requisiti minimi, non costituisce una mera
indicazione bensì un elemento fondamentale ai fini della partecipazione (ed
auspicata aggiudicazione) alla gara di appalto.
È
questo il principio stabilito dal Consiglio di Stato, III Sez. (sentenza
15.02.2019 n. 1071), che ha confermato quanto definito in
primo grado dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria.
Secondo il
Consiglio di stato, infatti, la sentenza di primo grado aveva correttamente
interpretato sia la lex specialis, sia le previsioni dell'art. 1362 e
seguenti c.c. sulla interpretazione dei negozi giuridici, statuendo circa la
necessità di sanzionare con l'esclusione la mancata offerta, da parte
dell'appellante, della «cintura pluriuso» espressamente prevista dalla
stazione appaltante quale requisito minimo della fornitura richiesta.
Secondo i supremi giudici amministrativi, infatti, i requisiti di minima non
sono «mere indicazioni» ma rappresentano gli elementi fondamentali ai fini
della partecipazione la cui mancanza, quindi, non può che comportare
l'esclusione dalla procedura di gara. Secondo il Cds l'art. 83, comma 8°,
rappresenta la norma del Codice appalti che impone la vincolatività delle
specifiche tecniche di gara in forza della quale «Le stazioni appaltanti
indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere
espresse come livelli minimi di capacità», definendo il livello della
prestazione richiesto in gara, e non riferendosi dunque alla capacità
dell'offerente ma a quello della sua offerta che, qualora manchi di dette
condizioni minime, non può di conseguenza essere legittimamente ammessa.
Viene così a cadere la c.d tassatività delle cause di esclusione da una
procedura di gara in quanto «la richiesta di determinate specifiche tecniche
per la partecipazione risulta espressamente prevista da detto art. 83, comma
8°, ragion per cui la loro mancata presenza configura direttamente una
violazione di legge, che ne giustifica pienamente l'esclusione».
La valenza
della sentenza citata ridiede quindi nel fatto che in tema di appalti la
definizione dell'oggetto di gara, tramite specifiche tecniche definite
obbligatorie (o di minima), non comporta sempre l'esclusione del
concorrente la cui offerta sia priva di dette caratteristiche.
Questo in
ragione del fatto che è possibile si verifichi da un lato che, nell'ipotesi
di mancata espressa comminatoria in lex specialis per tale carenza, la
suddetta mancanza non consenta l'automatica estromissione dalla gara, mentre
dall'altra, anche ammesso che la mancata presenza di requisiti di minima sia
sanzionata con l'esclusione, venga comunque invocata la «tassatività delle
cause d'esclusione», principio che esclude la facoltà d'introdurre nuovi
motivi d'esclusione non espressamente previsti dal Codice appalti o da altre
disposizioni di legge vigenti.
In conclusione, per partecipare ad una
pubblica gara, o si possiedono i requisiti tecnici obbligatoriamente
richiesti oppure si deve impugnare la definizione stessa dell'oggetto nella
lex specialis, a nulla valendo l'ipotesi di presentare un'offerta
equivalente ed, ancora meno, pretendere poi di non essere esclusi in assenza
di una chiara prescrizione d'espulsione in caso di offerte non soddisfacenti
i requisiti di minima (articolo ItaliaOggi del 30.04.2019). |
ENTI LOCALI: L'annullamento
del Dup per violazione del regolamento di contabilità travolge anche il
bilancio di previsione.
Il regolamento di contabilità scandisce le fasi per l'approvazione del
documento unico di programmazione cui gli enti locali sono obbligati a
conformarsi. La violazione di quelle regole determina una lesione alle
prerogative dei consiglieri comunali tale da rendere l'approvazione del
bilancio di previsione annullabile, in modo non diverso dalla mancata
approvazione del bilancio di previsione nei termini di legge.
Sono questi
gli effetti dell'annullamento del Dup stabiliti dal TAR Puglia-Bari, Sez. I, nella
sentenza
15.02.2019 n. 241.
La vicenda
Alcuni consiglieri comunali di opposizione avevano lamentato davanti al Tar
la violazione delle loro peculiari funzioni nel procedimento di approvazione
del bilancio di previsione, per aver l'ente bypassato il procedimento di
approvazione del documento unico di programmazione che, secondo il
regolamento di contabilità, avrebbe previsto la presentazione in consiglio
del Dup con convocazione di una ulteriore seduta consiliare, non oltre i 45
giorni successivi alla presentazione, per consentire ai consiglieri la
proposizione di integrazioni e modifiche e sottoporle all'approvazione dello
stesso organo consiliare.
Nel caso di specie, invece, la giunta comunale
avrebbe fatto direttamente approvare dal consiglio comunale sia il Dup sia
lo schema di bilancio, senza alcuna fase intermedia di sottoposizione di
questi atti ai consiglieri comunali, a questi ultimi così precludendo, in
radice, ogni possibile contributo partecipativo e controllo.
In propria difesa il Comune ha precisato che, in materia di bilancio
comunale, non sarebbero previsti termini perentori per gli adempimenti di
carattere preliminare, salvo quello connesso all'approvazione del bilancio
di previsione e, in ogni caso, i consiglieri ricorrenti non avrebbero
formulato alcuna proposta di modifica, integrazione o emendamento.
La decisione del tribunale amministrativo
Il collegio amministrativo ha precisato che il legislatore ha previsto una
cadenza di presentazione del Dup ben precisa, stabilendo che entro il 31
luglio di ciascun anno la giunta presenti al consiglio il documento, a
seguito variazioni del quadro normativo di riferimento. Successivamente
l'organo esecutivo presenta all'organo consiliare emendamenti allo schema di
bilancio e alla nota di aggiornamento al documento unico di programmazione
in corso di approvazione.
Il regolamento di contabilità del Comune prevede che la presentazione del
Dup può essere effettuata in una seduta apposita oppure tramite deposito
presso l'ente con avviso dato mediante comunicazione affissa all'albo
pretorio dell'ente, pubblicata sul sito internet dell'ente e notificata ai
capigruppo consiliari, ovvero mediante una successiva seduta da tenersi non
oltre i 45 giorni successivi a quella di presentazione, al fine di approvare
integrazioni e modifiche al Dup, che costituiscono un atto di indirizzo
politico nei confronti della giunta, per la successiva nota di
aggiornamento.
Nel caso di specie, invece, nel medesimo giorno la giunta comunale ha
approvato, con due deliberazioni separate, sia il Dup sia lo schema di
bilancio, con fissazione nella medesima seduta di consiglio comunale per la
loro approvazione, violando la sfera d'interesse e di esercizio della
funzione di tutti i consiglieri comunali, a nulla rilevando la mancata
formulazione di emendamenti. In altri termini, è stata esclusa la
possibilità ai consiglieri ricorrenti di presentare integrazioni e modifiche
al Dup, documento che «costituisce atto presupposto indispensabile per
l'approvazione del bilancio di previsione» (articolo 170, comma 5).
Le conseguenze
L'annullamento del Dup quale atto principiale trascina, a cascata, anche gli
atti derivati dell'approvazione del bilancio e dei documenti successivi
(assestamento generale e successive variazioni di bilancio). L'annullamento,
incidendo in via retroattiva sull'efficacia degli atti impugnati, determina
conseguenze analoghe all'ipotesi di mancata approvazione del bilancio di
previsione nei termini di legge, con l'obbligo da parte dell'ente a
rinnovare il procedimento di approvazione del bilancio comunale in modo
conforme al regolamento di contabilità
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.03.2019).
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MASSIMA
Preliminarmente, è infondata l’eccezione di difetto di legittimazione a
ricorrere, opposta dal Comune resistente nella memoria del 14.06.2018 (cfr.
pag. 5).
A tal riguardo, la giurisprudenza maturata sulla legittimazione attiva dei
consiglieri comunali ha evidenziato che, di norma, difetterebbe la
legittimazione ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza, a meno che
vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio e,
quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di
consigliere.
Ciò esclude, per un verso, che qualsiasi violazione di forma o di sostanza
nell’adozione di un provvedimento illegittimo (che in ipotesi potrebbe
essere impugnato dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal
medesimo) debba tradursi in un’automatica lesione dello ius ad officium; ma,
per altro verso, la legittimazione attiva dev’essere riconosciuta laddove
sia precluso in tutto o in parte l’esercizio delle funzioni relative
all’incarico rivestito (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
07.07.2014, n.
3446; TAR Campania–Napoli, I, 05.06.2018, n. 3710; TAR Lombardia–Milano, 25.01.2019, n. 153).
La violazione delle prerogative dei consiglieri ricorrenti è, indubbiamente,
da annoverare nell’ambito dei provvedimenti incidenti sul loro munus
publicum.
Essi hanno, infatti, censurato la violazione delle disposizioni che
disciplinano il procedimento di approvazione del bilancio di previsione
nella prospettiva della lesione del loro diritto a partecipare attivamente
alla discussione sul merito di tale provvedimento: un pregiudizio
sostanziato, nella specie, dal mancato rispetto della disciplina contenuta
nel regolamento comunale di contabilità (art. 37), cui fa rinvio la
disciplina nazionale trasfusa nel d.lgs. 267/2000 (testo unico degli enti
locali).
Nel merito, il ricorso va accolto in ragione della fondatezza dei tre motivi
proposti, i quali sono tematicamente connessi e possono essere, pertanto,
esaminati congiuntamente.
La disciplina sull’approvazione del bilancio di previsione è incentrata su
alcune, chiare, disposizioni:
a) ai sensi dell’art. 170, comma 1, del d.lgs. 267/2000, “entro il
31 luglio di ciascun anno la Giunta presenta al Consiglio il Documento unico
di programmazione per le conseguenti deliberazioni”;
b) ai sensi del successivo art. 174 “lo schema di bilancio di
previsione finanziario e il Documento unico di programmazione sono
predisposti dall’organo esecutivo e da questo presentati all'organo
consiliare unitamente agli allegati entro il 15 novembre di ogni anno
secondo quanto stabilito dal regolamento di contabilità” (comma 1); e,
inoltre, “il regolamento di contabilità dell’ente prevede per tali
adempimenti un congruo termine, nonché i termini entro i quali possono
essere presentati da parte dei membri dell'organo consiliare e dalla Giunta
emendamenti agli schemi di bilancio. A seguito di variazioni del quadro
normativo di riferimento sopravvenute, l'organo esecutivo presenta
all'organo consiliare emendamenti allo schema di bilancio e alla nota di
aggiornamento al Documento unico di programmazione in corso di approvazione”
(comma 2).
Nella specie, l’art. 37 del regolamento comunale di contabilità prevede: che
“la Giunta presenta il DUP al Consiglio entro e non oltre il 31 luglio. La
presentazione può essere effettuata in apposita seduta oppure tramite
deposito presso l'ente con avviso dato mediante comunicazione affissa
all'albo pretorio dell'ente, pubblicata sul sito internet dell'ente e
notificata ai capigruppo consiliari” (comma 2); che in esito a tale –alternativa– modalità di presentazione “il Consiglio, in una successiva
seduta da tenersi non oltre i 45 giorni successivi a quella di
presentazione, approva integrazioni e modifiche al DUP, che costituiscono un
atto di indirizzo politico nei confronti della Giunta, ai fini della
predisposizione della successiva nota di aggiornamento” (comma 3).
Ciò premesso, risulta pacifico che lo stesso giorno, con deliberazioni di
Giunta comunale nn. 21 e 22 del 07.02.2018, sono stati approvati il DUP e lo
schema di bilancio, disponendosi, nel primo caso, di “presentare il DUP al
Consiglio comunale per le conseguenti deliberazioni” e, nel secondo, di
“presentare all’organo consiliare per la loro approvazione gli schemi di
bilancio, unitamente agli allegati, secondo i tempi e le modalità previste
dal vigente regolamento comunale di contabilità”.
Nella specie la stessa Amministrazione resistente ha ammesso che
“dell’avvenuto deposito delle predette deliberazioni e dei relativi allegati
è stata data comunicazione ai ricorrenti mediante mail del 12.02.2018”,
sostenendosi la legittimità di tale procedura sull’assunto che “all’esito
della predetta comunicazione i ricorrenti non hanno proposto integrazioni,
modifiche e/o emendamenti né al DUP né allo schema di bilancio” (cfr. pag. 4
della memoria di costituzione).
La presentazione del DUP per l’approvazione del Consiglio comunale è stata,
invece, fissata –con convocazione ai ricorrenti del 07.03.2018– per la
seduta del 20.03.2018, la medesima nella quale il bilancio è stato
approvato.
È, altresì, dimostrato, dall’esame del preambolo delle impugnate
deliberazioni consiliari, che il Collegio dei revisori ha reso il proprio
parere in data 06.03.2018 (cfr. verbale n. 9).
È, inoltre, provato in atti che nell’intertempo tra la mail inviata ai
ricorrenti (a prescindere dai profili di illegittimità specificamente
dedotti con il secondo motivo) e la sopra citata seduta del 20.03.2018, in
esito alla quale il DUP è stato approvato, non è stata indetta né svolta
alcuna seduta del Consiglio comunale.
Alla luce delle illustrate circostanze, è manifesta la violazione dell’art.
37, commi 2 e 3, del regolamento comunale di contabilità, di cui più sopra
si è riportata la disciplina.
Indipendentemente dalla modalità eletta per la presentazione del DUP al
Consiglio comunale, è dirimente rilevare che si sarebbe dovuta svolgere
un’altra e diversa seduta, riservata alla discussione degli emendamenti
(“integrazioni e modifiche al DUP”, suscettibili di comportare un’eventuale
nota di aggiornamento a cura della Giunta) che investono la sfera
d’interesse e di esercizio della funzione di tutti i consiglieri comunali
(sia di maggioranza che di opposizione); non è, pertanto, fondatamente
contestabile ai ricorrenti di non aver formulato i propri emendamenti
all’indomani della conoscenza (che sarebbe stata acquisita via mail) delle
deliberazioni assunte dalla Giunta in data 07.02.2018, dovendosi ritenere che
l’assise consiliare è stata eletta dalla legge quale sede naturale del
confronto e della decisione sul contenuto del DUP.
Peraltro, il documento depositato dall’Amministrazione a comprova della mail
trasmessa in data 12.02.2018 evidenzia un carattere generico (se non proprio
indeterminato e comunque sviato rispetto alla peculiare finalità dettata dal
regolamento comunale di contabilità), essendo consistito nell’invio, privo
di un testo di accompagnamento, di un elenco di varie deliberazioni
concernenti materie tra loro eterogenee (oltre alle due deliberazioni nn. 21
e 22 del 2018, è stata trasmessa una deliberazione riguardante un piano
operativo nazionale – PON ed una deliberazione sulla regolazione della
propaganda elettorale); una comunicazione inidonea a sollecitare –fosse
anche in modo irrituale– la trasmissione di emendamenti al DUP da parte dei
consiglieri comunali.
Di contro, occorre rilevare che gli incombenti previsti dal citato art. 37 –i quali altro non riflettono che il contenuto delle disposizioni di cui agli artt. 170 e 174 del d.lgs. 267/2000– individuano dei subprocedimenti del
più generale procedimento di approvazione del bilancio e costituiscono
espressione di una disciplina che il legislatore ha intenzionalmente
articolato in maniera puntigliosa per consentire un esercizio effettivo
della funzione del Consiglio comunale come “organo di indirizzo e di
controllo politico–amministrativo” (art. 42, comma 1, del d.lgs. 267/2000).
Nella specie è stata, perciò,
pretermessa la possibilità dei consiglieri
ricorrenti –facenti parte dell’opposizione, ma l’argomento sarebbe
estensibile in via analogica anche ai consiglieri di maggioranza– di
presentare integrazioni e modifiche al DUP, che “ha carattere generale e
costituisce la guida strategica ed operativa dell'ente” (art. 170, comma 2)
e “costituisce atto presupposto indispensabile per l'approvazione del
bilancio di previsione” (art. 170, comma 5).
La fondatezza dei motivi proposti determina l’annullamento degli atti
impugnati con il ricorso principale e, per illegittimità derivata, di quelli
impugnati con i motivi aggiunti depositati in data 13.11.2018 e 16.01.2019,
con cui sono stati impugnati gli atti adottati in via sopravvenuta, ossia,
per quanto più interessa, l’assestamento generale e le successive variazioni
di bilancio.
Per l’effetto, l’Amministrazione resistente dovrà provvedere a rinnovare il
procedimento di approvazione del bilancio comunale, garantendo –sul piano
procedurale e sostanziale– le prerogative dei consiglieri comunali, e ciò
alla luce delle statuizioni contenute nella presente sentenza, la quale,
incidendo in via retroattiva sull’efficacia degli atti impugnati, determina
conseguenze analoghe all’ipotesi di una mancata approvazione del bilancio di
previsione nei termini di legge.
In conclusione, il ricorso ed i motivi aggiunti vanno accolti. |
APPALTI: Nessun
obbligo di impugnare subito la nomina della commissione.
L'appaltatore non ha alcun onere di impugnare immediatamente l'atto di
nomina della commissione di gara in quanto non automaticamente lesivo delle
proprie prerogative.
In questo senso si è espresso il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza
15.02.2019 n. 207.
Le censure
Il ricorrente (tredicesimo classificato nella graduatoria di aggiudicazione)
si lamentava dell'illegittima composizione della commissione di gara
pretendendo l'annullamento dell'aggiudicazione. La stazione appaltante ha
evidenziato che l'impugnazione dell'atto di nomina della commissione avrebbe
dovuto avvenire immediatamente e non a conclusione della procedura. La tesi
difensiva viene respinta dal collegio veneto sul presupposto che, in base al
pacifico orientamento giurisprudenziale (e anche all'intervento
dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2018), non è
configurabile un onere di immediata impugnazione della nomina dei componenti
della commissione.
Al riguardo, in particolare, si è evidenziato che «nelle gare pubbliche
l'atto di nomina della Commissione giudicatrice, al pari degli atti da
questa compiuti nel corso del procedimento, non produce di per sé un effetto
lesivo immediato, e comunque tale da implicare l'onere dell'immediata
impugnazione nel prescritto termine decadenziale».
Pertanto, la nomina del
collegio valutatore può essere posposta al «momento in cui, con
l'approvazione delle operazioni concorsuali, si esaurisce il relativo
procedimento amministrativo e diviene compiutamente riscontrabile la lesione
della sfera giuridica dell'interessato (cfr. C.d.S., Sez. III, 11.05.2018, n. 2835; v. altresì C.d.S., Sez. V, 18.10.2018, n. 5958 e TAR
Campania, Salerno, Sez. I, 07.05.2018, n. 706)».
Alla luce di questo
orientamento, i bandi, i disciplinari, gli atti costitutivi della lex
specialis di gara «sono immediatamente impugnabili solo se contengano
clausole chiaramente impeditive dell'ammissione dell'interessato alla
selezione» altrimenti «sono impugnabili solo con gli atti che degli stessi
fanno applicazione».
La prova di resistenza
Altro particolare di rilievo, e in questo caso il giudice ha ritenuto
persuasive le argomentazioni della stazione appaltante, riveste la
riflessione sui rapporti tra le pretese del ricorrente e la posizione in
graduatoria finale.
Il ricorrente risultava collocato solamente al tredicesimo posto della
graduatoria, circostanza che ha sostanziato un «mediocre piazzamento» e le
censure proposte (la pretesa illegittimità della composizione della
commissione di gara), quindi, esigevano la cosiddetta prova di resistenza
ovvero la dimostrazione di qualche utile elemento tale da far almeno
ipotizzare una ragionevole possibilità di ottenere l'utilità richiesta.
Ovvero aspirare all'aggiudicazione.
Nel caso di specie, l'indirizzo giurisprudenziale da preferire è quello per
cui «anche ove siano dedotti vizi di legittimità della nomina della
Commissione, l'interesse strumentale alla riedizione della gara rimane
subordinato al presupposto che vi siano, in concreto, ragionevoli
possibilità di ottenere l'utilità richiesta (TAR Lazio, Roma, Sez.
III-quater, 02.03.2018, n. 2399), dovendosi evitare la soddisfazione di
aspettative meramente ipotetiche o del tutto eventuali».
Nel caso trattato,
evidentemente, queste ipotesi erano men che remote per la posizione "mediocre"
del ricorrente, pertanto le istanze non hanno potuto essere accolte
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.02.2019).
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MASSIMA
Ritenuto, in via pregiudiziale, di dover respingere l’eccezione di tardività
del ricorso, sollevata sia dal Comune di Venezia, sia dalla CO.L.SER., per
le seguenti ragioni:
- tanto il Comune quanto la controinteressata sostengono che,
poiché Pa. censura l’illegittimità della nomina dei componenti della
Commissione di gara, detta pretesa illegittimità avrebbe dovuto essere
rilevata e fatta valere sin dalla conoscenza dei provvedimenti di nomina,
essendone percepibile immediatamente la lesività: quindi, o dalla seduta
della Commissione dell’08.05.2018 (a cui era presente un delegato della
Papalini), o al più tardi dalla pubblicazione dei provvedimenti di nomina
nel “sito web” della stazione appaltante, avvenuta il 10.05.2018,
sarebbe decorso il termine di impugnativa per far valere dette censure, con
conseguente tardività del ricorso, in quanto notificato oltre tale termine;
- in contrario, tuttavia, va richiamato l’insegnamento della
giurisprudenza più recente, la quale, sulla scorta della recente decisione
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 26.04.2018 (che ha
circoscritto l’alveo degli atti di gara da impugnare immediatamente), ha
escluso l’esistenza di un onere di immediata impugnazione della nomina dei
componenti della commissione;
- è stato, in particolare, evidenziato che “nelle
gare pubbliche l’atto di nomina della Commissione giudicatrice, al pari
degli atti da questa compiuti nel corso del procedimento, non produce di per
sé un effetto lesivo immediato, e comunque tale da implicare l’onere
dell’immediata impugnazione nel prescritto termine decadenziale; la nomina
dei componenti della Commissione può essere impugnata dal partecipante alla
selezione, che la ritenga illegittima, solo nel momento in cui, con
l’approvazione delle operazioni concorsuali, si esaurisce il relativo
procedimento amministrativo e diviene compiutamente riscontrabile la lesione
della sfera giuridica dell’interessato”
(cfr. C.d.S., Sez. III, 11.05.2018, n. 2835; v. altresì C.d.S., Sez. V,
18.10.2018, n. 5958 e TAR Campania, Salerno, Sez. I, 07.05.2018, n. 706);
- una recentissima decisione, richiamata dalla ricorrente nella
memoria conclusiva (v. C.d.S., Sez. V, 09.01.2019, n. 193), nel confermare
la soluzione della non impugnabilità immediata della nomina dei commissari,
ha disatteso l’opposta argomentazione fondata sulle esigenze di
concentrazione del processo (inferibili dal rito “super-speciale” ex
art. 120, comma 2-bis, c.p.a.) e sul rispetto dei principi di buona fede e
leale collaborazione che devono presiedere ai rapporti tra il concorrente e
la stazione appaltante, osservando che: “l’appellante
richiama le esigenze di concentrazione del processo che presidiano il rito
superspeciale di cui all’art. 120, comma 2-bis, Cod. proc. amm., ma è
evidente che, a fronte di una disciplina speciale, non applicabile
analogicamente, occorre anche tenere conto delle regole processuali di un
sistema di giurisdizione soggettiva, ed anzitutto di quella per cui il
presupposto processuale dell’interesse al ricorso richiede i requisiti
dell’immediatezza, concretezza ed attualità. Per tale ragione i bandi, i
disciplinari, gli atti costitutivi della lex specialis di gara sono
immediatamente impugnabili solo se contengano clausole chiaramente
impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione, laddove, sotto
ogni altro aspetto, sono impugnabili solo con gli atti che degli stessi
fanno applicazione; pertanto è escluso che debbano essere immediatamente
impugnate le clausole del bando o della lettera di invito che non incidono
direttamente ed immediatamente sull’interesse del soggetto a partecipare
alla selezione comparativa e che dunque non determinano un immediato arresto
procedimentale, come pure, per la stessa ragione, quelle riguardanti la
composizione della Commissione giudicatrice”;
- di qui, in definitiva, l’infondatezza della suesposta eccezione
di tardività;
Ritenuto, sempre in via pregiudiziale, di dover invece accogliere
l’eccezione –sollevata dal Comune e dalla controinteressata– di
inammissibilità del ricorso per carenza di interesse alla sua proposizione,
sulla base delle medesime ragioni già esposte in sede cautelare, da cui, pur
al più approfondito esame proprio della fase di merito del giudizio, non si
ravvisano elementi per discostarsi;
Considerato, in particolare, che:
- nella gara per cui è causa, Pa. si è classificata al 13° posto
della graduatoria (su n. 19 offerenti) con punti 71,34, mentre
l’aggiudicataria CO.LSER. ha ottenuto il punteggio di 93,43, cosicché tra le
rispettive offerte vi è stato un distacco complessivo di 22,09 punti. A
fronte di simili dati, di per sé molto eloquenti, la ricorrente si è
nondimeno limitata a censurare la nomina dei commissari, senza muovere
alcuna critica all’operato degli stessi;
- il Comune di Venezia e CO.L.SER. hanno, quindi, eccepito
l’inammissibilità del ricorso, in difetto della prova, da parte della
ricorrente, di ottenere l’utilità richiesta, o almeno della fornitura di
elementi da cui si potesse ricavare una concreta possibilità di ottenere una
qualche utilità dall’accoglimento del ricorso;
- il Comune intimato e la controinteressata hanno eccepito,
inoltre, l’inammissibilità della domanda di riedizione della gara, atteso
che l’eventuale accoglimento del gravame non potrebbe comportare
l’annullamento degli atti di gara anteriori agli impugnati atti di nomina
dei commissari e, quindi, non potrebbe determinare l’integrale travolgimento
della procedura;
- nella memoria conclusiva Pa. replica all’eccezione di
inammissibilità insistendo sull’interesse strumentale da essa fatto valere
alla riedizione della gara, alla luce del vizio radicale della procedura di
gara che viene denunciato. In particolare, la tipologia del vizio lamentato
–per cui la gara sarebbe stata condotta in spregio alle regole di
trasparenza nella nomina della Commissione ed al principio di imparzialità
di giudizio, ontologicamente caratterizzante una Commissione di gara–
porterebbe ad escludere che dalla ricorrente possa pretendersi la cd. prova
di resistenza. Ciò, tenuto altresì conto del fatto che la propria posizione
deteriore in graduatoria ben potrebbe essere il riflesso della valutazione
delle offerte in gara compiuta da una Commissione (pretesamente)
incompetente e illegittimamente nominata;
- viene invocata, sul punto, la giurisprudenza secondo cui, ove i
vizi dedotti portino all’annullamento dell’intera procedura e non al
conseguimento di un’immediata collocazione utile in graduatoria, non
sussiste in capo al deducente l’onere di fornire alcuna prova di resistenza;
- quanto, poi, all’impossibilità di ottenere la riedizione
dell’intera gara, Pa. obietta che la regola per cui la caducazione di un
atto inserito in una serie procedimentale comporta la rinnovazione dei soli
atti successivi, va armonizzata, nella materia degli appalti pubblici, con
il principio di segretezza delle offerte: principio, in base al quale le
offerte economiche devono restare segrete fino al termine della fase di
valutazione di quelle tecniche e che, però, sarebbe vulnerato qualora –come
nel caso qui in esame– la Commissione, della cui nomina si contesta la
legittimità, proceda non solo a conoscere, ma altresì a valutare le offerte
tecniche ed economiche;
- in ogni caso –conclude Pa.– anche ove si ritenesse che
l’accoglimento del ricorso non possa implicare il travolgimento dell’intera
gara, resterebbe fermo il suo interesse a vedere la propria offerta valutata
da una Commissione legittimamente nominata e competente: il travolgimento,
oltre agli atti di nomina dei commissari, delle operazioni da questi svolte,
sarebbe, perciò, pienamente satisfattivo dell’interesse azionato;
- le su esposte repliche della ricorrente, tuttavia, non sono
convincenti e non bastano –come da essa richiesto– a far rimeditare
l’orientamento espresso in sede cautelare;
- ad avviso del Collegio, di fronte al mediocre piazzamento
ottenuto in gara (13° posto su 19) ed al forte distacco dalla prima in
graduatoria (22,09 punti), Papalini non può trincerarsi dietro la tipologia
delle censure proposte, che la esonererebbero dal dover fornire la cd. prova
di resistenza, ma avrebbe dovuto fornire qualche elemento tale da far almeno
ipotizzare una ragionevole possibilità di ottenere l’utilità richiesta.
In particolare, Pa. non si sarebbe dovuta limitare a formulare censure
avverso la nomina dei commissari, ma avrebbe dovuto avanzare critiche sulla
legittimità del loro operato e, inoltre, avrebbe dovuto evidenziare profili
di pregio della sua offerta ingiustamente obnubilati dalla Commissione, in
modo da far presumere che l’eventuale ripetizione della gara porterebbe ad
un esito completamente diverso di questa, favorevole alla stessa ricorrente;
- nulla di tutto ciò è stato fatto, invece, dalla società, la quale
si è limitata a lamentare l’illegittimità degli atti di nomina dei
commissari, dal punto di vista procedimentale e della (presunta) mancanza di
competenza in capo agli stessi, ma senza addurre alcun vizio concreto in cui
si sarebbe tradotta l’ora vista mancanza di competenza. La stessa
affermazione contenuta nella memoria finale di Papalini, secondo cui la
propria posizione deteriore in graduatoria potrebbe dipendere dalle
valutazioni di una Commissione incompetente e illegittimamente nominata, non
è suffragata da nessun indizio concreto circa eventuali illegittimità/errori
da cui sarebbero affette dette valutazioni;
- alla luce di quanto esposto, non pare perciò applicabile –almeno
nel caso qui in esame– l’indirizzo giurisprudenziale per il quale la
deduzione di un vizio relativo alla composizione della Commissione rende
impossibile la dimostrazione di ragionevoli probabilità di conseguire
l’aggiudicazione; invece, va preferito l’orientamento secondo cui,
anche ove siano dedotti vizi di legittimità della nomina della
Commissione, l’interesse strumentale alla riedizione della gara rimane
subordinato al presupposto che vi siano, in concreto, ragionevoli
possibilità di ottenere l’utilità richiesta
(TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 02.03.2018, n. 2399),
dovendosi evitare la soddisfazione di aspettative meramente ipotetiche o del
tutto eventuali;
- invero, il rischio di dare soddisfazione ad aspettative di questo
tipo –in tal modo non rispettando la ratio della regola di cui all’art. 100 c.p.c.– appare assai elevato in una situazione qual è quella ora in esame,
caratterizzata, si ripete, dalla mediocrità del piazzamento in graduatoria
della ricorrente e dal suo significativo distacco dalle altre imprese
classificate in graduatoria, e non solo dalla prima: basti pensare che, a
fronte dei punti 71,34 riportati da Papalini, la settima in graduatoria (PFE
S.p.A.) ha ottenuto un punteggio (80,55) di più di nove punti superiore (cfr.
l’allegato 2 al verbale di gara n. 8 del 13.06.2018, all. 15 al ricorso);
- almeno nella fattispecie ora analizzata, quindi, appare
condivisibile l’affermazione del Comune di Venezia, secondo cui la
contestazione della nomina e della composizione della Commissione di gara
non è di per sé sufficiente a fondare la sussistenza dell’interesse ad
agire, perché non accompagnata da specifiche contestazioni dello svolgimento
delle operazioni di gara. Ne discende, in ultima analisi, la fondatezza
della suesposta eccezione di inammissibilità del ricorso;
Ritenuto, in conclusione, alla stregua di tutto quanto esposto, che il
ricorso debba essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse; |
PUBBLICO IMPIEGO: Polizia locale, l'agente stressato perde il porto della pistola.
L'operatore di polizia locale che richiede la verifica dello stress
lavoro-correlato non può lagnarsi se a seguito della certificazione medica
di non idoneità temporanea alla mansione scatta anche la revoca della
qualifica di pubblica sicurezza. E il ritiro temporaneo dell'arma fino alla
completa guarigione.
Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza
15.02.2019 n. 197.
Un agente di polizia municipale ha richiesto
una visita ottenendo una certificazione di temporanea inidoneità alla
mansione. All'esito di questa verifica sanitaria il comandante ha ritirato
l'arma all'agente e ha informato la prefettura. Che ha adottato un
provvedimento di revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Contro questo provvedimento l'interessato ha proposto censure al collegio ma
senza successo. Anche se l'art. 5 della legge n. 65/1986 elenca
tassativamente i requisiti richiesti per il rilascio e il mantenimento della
qualifica di ps a parere del collegio l'autorità prefettizia conserva ampia
discrezionalità in materia.
E se un operatore non risulta idoneo al maneggio
delle armi deve intervenire prontamente a tutela della sicurezza e
dell'incolumità pubblica
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019).
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MASSIMA
3. I motivi di ricorso –che possono essere trattati unitariamente–
sono infondati.
3.1. Giova premettere che l’art. 3 della legge 07.03.1986, n. 65 (Legge-quadro
sull'ordinamento della polizia municipale), prevede che “Gli addetti al
servizio di polizia municipale esercitano nel territorio di competenza le
funzioni istituzionali previste dalla presente legge e collaborano,
nell'ambito delle proprie attribuzioni, con le Forze di polizia dello Stato,
previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche
operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità”.
Il successivo art. 5 della medesima legge dispone che <<[…] 2. A tal fine il
prefetto conferisce al suddetto personale, previa comunicazione del sindaco,
la qualità di agente di pubblica sicurezza, dopo aver accertato il possesso
dei seguenti requisiti: a) godimento dei diritti civili e politici; b) non
aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere
stato sottoposto a misura di prevenzione; c) non essere stato espulso dalle
Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici
uffici. 3. Il prefetto, sentito il sindaco, dichiara la perdita della
qualità di agente di pubblica sicurezza qualora accerti il venir meno di
alcuno dei suddetti requisiti […]>>.
Ciò premesso, ben conosce il Collegio l’orientamento giurisprudenziale
secondo il quale ai sensi del su indicato art. 5 della legge n. 65/1986
l'attribuzione delle funzioni di pubblica sicurezza al personale addetto
alla polizia municipale è subordinato al mero accertamento dei predetti
requisiti tassativamente indicati, con la conseguenza che il conferimento da
parte dell'Autorità prefettizia della relativa qualità di agente di pubblica
sicurezza, così come la perdita di detta qualità, costituiscono atti di
natura vincolata privi di qualsiasi margine di discrezionalità.
E tuttavia il Collegio ritiene che le ipotesi previste dal comma 3 del cit.
art. 5 della legge n. 65/1986 (in relazione ai requisiti fissati dal
precedente comma 2, id est: godimento dei diritti civili e politici; non
aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere
stato sottoposto a misura di prevenzione; non essere stato espulso dalle
Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici
uffici) non esauriscono i casi in cui si può verificare la perdita della
qualifica di agente di pubblica sicurezza a carico dell’appartenente al
Corpo di polizia municipale poiché, in virtù dei principi generali cui deve
attenersi l’attività amministrativa, il Prefetto conserva il potere di
verificare la persistenza in capo al dipendente dell’indefettibile
presupposto per l'attribuzione della qualifica in questione e cioè per lo
svolgimento di funzioni di pubblica sicurezza, consistente nel possesso dei
necessari requisiti psico-fisici per l'esercizio di tale attività, come pure
quello inerente all'idoneità tecnica all'uso delle armi, la cui mancanza può
far venir meno la qualifica, incidendo sulla possibilità stessa del soggetto
di essere adibito allo svolgimento di attività di pubblica sicurezza (cfr.
TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 15.01.2015, n. 86).
In altri termini detto, al di fuori delle ipotesi di cui al cit. art. 5
della legge n. 65/1986, la revoca della qualifica di agente di pubblica
sicurezza può essere disposta allorché siano venuti meno i requisiti di
idoneità psicofisica del soggetto ovvero costui non dia più affidamento del
buon uso del titolo di polizia, secondo la valutazione latamente
discrezionale dell’Autorità prefettizia (TAR Calabria, Catanzaro, sez. I,
03.01.2018, n. 5; cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 02.08.2010, n. 2603; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 23.03.2010, n.
1560).
Anche più di recente è stato evidenziato come, ai fini di interesse, non
possa non assumere rilievo l’aspetto del possesso dei necessari requisiti
psico-fisici per l'esercizio dell'attività di pubblica sicurezza (cfr.
TAR Campania, Napoli, sez. V, 31.01.2019, n. 468).
Nel caso di specie risulta che l’esponente in data 17.03.2017 è stato
giudicato dallo specialista in medicina del lavoro -con validità del
giudizio di 12 mesi- temporaneamente non idoneo alla mansione specifica
(Agente di Polizia Municipale).
Detto presupposto risulta chiaramente sia dall’impugnato provvedimento
prefettizio, sia dalla nota prot. n. 6577 del 04.04.2017 del -OMISSIS-,
sia, naturaliter, dallo stesso giudizio medico.
In tale contesto, quindi, l’avversata revoca prefettizia esula dalle ipotesi
previste dal cit. art. 5 della n. 65/1986; nel caso di specie, infatti, la
revoca è stata posta in essere per una ragione differente, ovverosia la
temporanea non idoneità alla mansione specifica del ricorrente, ed è stata
adottata dal Prefetto in base al principio del contrarius actus (spettando
al medesimo Prefetto l’attribuzione della qualifica de qua) e sulla scorta
dell’accertamento medico in questione (che peraltro non risulta criticato
dall’esponente).
Del tutto inconferente è, pertanto, il richiamo alle previsioni
costituzionali di cui agli artt. 3 e 32 Cost., non risultando vulnerato in
alcun modo né il diritto alla salute né il principio di eguaglianza (neppure
potendosi ravvisare una discriminazione consumata ai danni del ricorrente).
Parimenti inconferente è la lagnanza con la quale il ricorrente evidenzia
che anche senza la dotazione di un’arma ben può essere svolta la mansione
relativa alla qualifica di agente di pubblica sicurezza; ed invero, dalla
piana lettura del provvedimento avversato si ricava che l’Autorità
prefettizia ha sì richiamato la circostanza dell’avvenuta riconsegna
dell’arma assegnata all’esponente, ma ha posto alla base dell’avversata
revoca il solo giudizio di temporanea non idoneità (RITENUTO che il giudizio
di inidoneità sopra menzionato non consenta il mantenimento della qualifica
in argomento a favore del Signor -OMISSIS-, non potendo lo stesso svolgere
le mansioni assegnategli).
Ed inoltre, la motivazione del provvedimento avversato consente la piena
ricostruzione dell'iter logico-giuridico attraverso cui l'Amministrazione si
è determinata ad adottare l’atto, palesando le ragioni giustificatrici della
decisione, sì da consentire il controllo del corretto esercizio del potere.
Non è dirimente neppure la circostanza dell’aver consigliato lo stesso
specialista la “valutazione sanitaria da parte della commissione medica”, da
un lato perché si trattava di un mero suggerimento (<<Consiglio valutazione
sanitaria da parte della commissione medica di verifica ex art 5>>) e
dall’altro perché detto consiglio non rimuove affatto il giudizio di
temporanea non idoneità alla mansione specifica reso dallo stesso
specialista.
Il provvedimento impugnato, dunque, si sottrae alle censure articolate dalla
parte ricorrente. |
PUBBLICO IMPIEGO: La
prescrizione evita il recupero sul dipendente delle spese legali anticipate.
La prescrizione del reato non abilita l'ente locale ad
attivare un decreto ingiuntivo nei confronti del dipendente per il recupero
delle somme, a suo tempo corrisposte, per sollevarlo dalle spese legali
sostenute per la sua difesa in giudizio. Il contratto degli enti locali,
infatti, non prevede che la restituzione degli importi anticipati debba
avvenire in mancanza dell'assoluzione piena, come previsto dalla legge e nel
contratto delle amministrazioni statali, ma solo nel caso in cui l'ente
dimostri e provi la presenza sin dall'inizio di un conflitto di interessi.
È la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- nell'ordinanza
14.02.2019 n. 4500.
La vicenda
Il Comune ha emesso un decreto ingiuntivo, nei confronti di un proprio
dipendente, per la ripetizione delle somme a lui anticipate per la difesa
legale in un procedimento penale. A supporto del credito, ritenuto certo,
liquido ed esigibile, l'ente ha motivato la ripetizione degli importi
corrisposti a causa della mancanza di una sentenza di assoluzione piena,
essendo il reato estinto per prescrizione.
Pertanto, nessuna spesa poteva
essere posta in capo al Comune con obbligo di ripetizione di quanto ricevuto
dal dipendente. Questa motivazione è stata ritenuta sufficiente dal
Tribunale di primo grado, ma la Corte d'appello, successivamente adita dal
dipendente, ha riformato la sentenza.
Secondo i giudici di secondo grado,
non c'erano i presupposti del credito recuperatorio, mancando nel caso di
specie una sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o
colpa grave, ovvero la dimostrazione di un conflitto di interessi, elementi
questi richiesti dalla normativa contrattuale degli enti locali (articolo 28
del contratto 14.09.2000).
Contro la sentenza della corte territoriale l'ente ha proposto ricorso in
Cassazione evidenziando che la normativa contrattuale deve essere integrata
con le altre disposizioni previste per i dipendenti pubblici in generale,
con la conseguente errata conclusione cui sono pervenuti i giudici di
appello secondo cui ai dipendenti spetterebbe il rimborso delle spese legali
anche in assenza di una sentenza assolutoria come quella che accerti
l'esistenza di una causa di estinzione del reato per intervenuta
prescrizione.
Le motivazioni della Cassazione
Secondo i giudici di Piazza Cavour è manifestamente infondata la posizione
dell'ente locale rispetto alla chiara lettura delle disposizioni
contrattuali, le quali non postulano in modo assoluto la presenza di una
assoluzione piena per poter procedere al rimborso delle spese legali
sostenute dal dipendente per la sua difesa in giudizio, ma solo che non vi
sia una sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi dal dipendente con
dolo e colpa grave.
Resta inteso, in ogni caso, il «no» al rimborso delle spese legali
qualora l'ente accerti (secondo una valutazione ex ante)
l'insussistenza di un genetico e originario conflitto di interessi, che
permane anche in caso di successiva assoluzione del dipendente (esempio in
caso di costituzione di parte civile). Non è, inoltre, possibile rinviare
per analogia alle disposizioni contrattuali o legislative valide per le sole
amministrazioni statali, mancando uno specifico riferimento al rinvio nelle
disposizioni contrattuali previste per gli enti locali.
In conclusione, non avendo l'ente fornito prova dello specifico conflitto di
interessi, anzi avendo consentito il rimborso anticipato delle spese
sostenute dimostrando per questi versi la mancanza ex ante del
conflitto, il ricorso dell'ente deve essere rigettato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.02.2019).
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MASSIMA
Considerato che:
a) con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell'art. 360,
primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 28 del
CCNL Regioni e Autonomie locali del 14.09.2000 e dell'art. 129, comma 2,
c.p.p.; parte ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui
sostiene che, ai sensi dell'art. 28 CCNL, la ripetizione degli oneri
sostenuti dall'Ente per spese legali relativi a procedimenti di
responsabilità civile o penale nei confronti dei propri dipendenti per fatti
o atti direttamente commessi nell'esercizio delle loro funzioni possa essere
attuata soltanto in presenza di una sentenza di condanna esecutiva per fatti
commessi con dolo o colpa grave.
Diversamente, alla luce della normativa vigente, gli enti pubblici sarebbero
legittimati a chiedere la ripetizione di tali somme non solo in presenza di
una sentenza di condanna per fatti commessi con dolo o colpa grave, ma anche
quando siano state emesse sentenze che non escludono l'assenza di
responsabilità dell'imputato (quali la pronuncia che accerti l'esistenza di
una causa di estinzione del reato, come l'intervenuta prescrizione), pur
avendo riscontrato elementi dai quali desumere la natura gravemente colposa
della condotta del dipendente, come nel caso di specie;
a1) il motivo è in parte manifestamente infondato e in parte
inammissibile.
E' manifestamente infondato là dove si duole dell'esegesi dell'art. 28 CCNL,
pacificamente applicabile alla fattispecie, operata dal giudice di appello (cfr.
punto 3 innanzi riportato), che, invece, risulta coerente con la portata
complessiva della citata disposizione contrattuale, che consente la
ripetizione delle spese legali anticipate dall'ente territoriale in presenza
di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi dal dipendente con dolo
e colpa grave (non postulando la necessità di una assoluzione con formula
piena), dovendo, però, accertarsi in ogni caso (secondo una valutazione
ex ante) l'insussistenza di un genetico ed originario conflitto di
interessi, che permane anche in caso di successiva assoluzione del
dipendente (Cass. n. 18256/2018).
Non è, quindi, pertinente il richiamo di parte ricorrente ad altra normativa
e, segnatamente, all'art. 18 del d.l. n. 67/1997 (convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 135/1997), che riguarda i dipendenti delle
amministrazioni statali e non quelli del comparto autonomie locali, cui si
riferisce specificamente la disposizione dell'art. 28 CCNL rilevante nella
fattispecie.
E' inammissibile là dove manca di censurare, in modo specifico e congruente,
la ratio decidendi che evidenzia l'assenza di prova in ordine al
conflitto di interessi tra il Comune ingiungente e il Fo.. |
ENTI LOCALI: Omesso
esercizio dei poteri di socio, decide la Corte dei Conti anche se la società
non è in house.
In tema di giurisdizione contabile, l'azione di responsabilità per danno
erariale si configura nei confronti di colui che, nella veste di
rappresentante dell'ente pubblico o comunque titolare del potere di decidere
per esso, abbia trascurato colpevolmente l'esercizio dei poteri di socio
pregiudicando il valore della partecipazione, a prescindere dalla natura (in
house o meno) della società partecipata.
Questo il principio affermato dalla
Corte di Cassazione, a Sezz. unite civili, con la
sentenza
12.02.2019 n. 4132, per
ribadire la giurisdizione della Corte dei conti in ordine al danno derivante
da 2 operazioni illecite di finanziamento per l'importo complessivo di
700mila euro, operazioni effettuate, in entrambi i casi, da una società
interamente partecipata da un Comune nei confronti di una controllata di
secondo grado, a titolo di aumento in conto futuro di capitale sociale.
Le decisioni dei giudici contabili
Ad avviso del procuratore contabile che ha citato in giudizio il Sindaco,
alcuni consiglieri comunali e il dirigente al bilancio del Comune, il primo
finanziamento erogato risultava in contrasto con i principi di buona
amministrazione, mentre il secondo veniva disposto dall'ente in violazione
dell'articolo 6, comma 19, del Dl 78/2010 convertito dalla legge 122/2010
(divieto di erogare risorse a società con perdite reiterate di bilancio).
In primo grado, la sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti
ha rigettato la domanda di condanna per danno erariale sulla base della
considerazione che la società in mano all'ente locale non aveva i requisiti
della società in house, dichiarando competente per il giudizio il giudice
ordinario.
Di contro, la prima Sezione giurisdizionale centrale d'Appello della Corte
dei conti ha affermato la giurisdizione del giudice contabile, rinviando gli
atti a questo per la pronuncia sul merito.
La decisione della Cassazione
I supremi Giudici hanno confermato quest'ultima decisione affermando che la
distinzione tra società in house e società non in house ha rilievo sotto il
profilo della qualificazione del danno, che si configura come danno erariale
solo in caso di pregiudizio cagionato al patrimonio della società in house,
dacché altrimenti il danno, anche se in presenza di una partecipazione
pubblica totalitaria, esula dalla nozione di Pa e resta confinato nel
patrimonio sociale, per l'assenza di un rapporto di delegazione
interorganica tra l'ente e l'organismo partecipato.
In questa logica, il danno arrecato dagli organi della società al patrimonio
sociale non è idoneo, di regola, a radicare l'azione di responsabilità
presso la Corte dei conti, fatta salva l'ipotesi della società in house, che
non si pone in rapporto di alterità con la Pubblica amministrazione ma opera
come longa manus di quest'ultima, per cui il danno sofferto dalla società è
direttamente riferibile all'ente pubblico.
Va pur detto che l'azione di responsabilità è stata esercitata dalla procura
contabile non già contro gli organi di una partecipata, bensì nei confronti
del Sindaco, dei consiglieri e del dirigente comunale per i danni arrecati
al patrimonio dell'ente in termini di minori dividendi maturati dalla
società e da questa distribuiti al socio unico.
Le sezioni unite hanno affermato che la competenza giurisdizionale della
Corte dei conti prescinde dalla natura in house o meno della partecipata, in
quanto –secondo la ratio legis cui si ispira l'articolo 12 del Dlgs
175/2016– il raggio d'azione del giudice contabile si estende a qualsiasi
condotta che, con colpa grave, abbia intaccato l'integrità delle risorse
amministrate dalla Pa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.02.2019). |
SEGRETARI COMUNALI: Compensi
come da regolamento al segretario nominato presidente del nucleo di
valutazione.
Per lo svolgimento delle attività di presidente del nucleo di valutazione,
al segretario comunale spetta il compenso previsto dal regolamento
dell'ente.
La conferma di questo indirizzo arriva dalla Corte di Cassazione - Sez.
lavoro
(sentenza 06.02.2019 n. 3484).
La vicenda
Il segretario di un Comune di piccole dimensioni ha chiesto invano al
proprio ente la liquidazione dei compensi per aver svolto l'incarico di
presidente del nucleo di valutazione, conferitogli dalla giunta comunale
quale incarico aggiuntivo alle sue funzioni. La pretesa economica era
direttamente legata ai contenuti del regolamento dell'ordinamento degli
uffici e servizi, secondo il quale tra i compiti del direttore generale,
rientrava anche quello di presiedere il nucleo di valutazione, precisando
che spetta alla giunta, su proposta del sindaco, fissare i compensi
aggiuntivi da corrispondere al direttore generale, ovvero al segretario
comunale.
Il tribunale di primo grado ha confermato la posizione dell'ente
sulla non remuneratività dell'incarico, mentre la Corte d'appello, in
riforma della sentenza, ha condannato l'ente a corrispondere la retribuzione
dovuta al segretario. Secondo i giudici di appello, infatti, le disposizioni
del regolamento non lasciano spazio a interpretazioni diverse, in quanto una
volta conferito l'incarico al segretario comunale, il compito della giunta
era solo quello di stabilire l'entità dei compensi.
In particolare, il
segretario non avrebbe potuto reclamare alcune retribuzione in presenza di
nomina da parte del sindaco delle funzioni di direttore generale, mentre nel
caso di assegnazione solo di alcune delle funzioni proprie direttore
generale, come quella di presidente del nucleo di valutazione, il compito
(residuale) della giunta era solo quello di fissare la misura del compenso
aggiuntivo.
Il Comune si è difeso in Cassazione, ritenendo non corrette le motivazioni
dei giudici di secondo grado, per aver omesso di considerare le disposizioni
inserite nel testo unico del pubblico impiego, secondo il quale dal
segretario comunale sono in ogni caso esigibili le funzioni di direttore
generale, in mancanza di nomina di quest'ultimo.
La conferma della sentenza
Secondo i giudici di legittimità l'interpretazione fornita dal Comune, di
non conformità a legge del regolamento comunale, per violazione
dell'articolo 97 del Tuel, non è condivisibile. Nel caso di specie, il
Comune non contesta le disposizioni del regolamento dell'ordinamento degli
uffici e dei servizi, ma aggiunge elementi di recessività del regolamento
rispetto alle disposizioni di legge, fornendo anche una interpretazione
difforme e non accettata dalla Corte d'appello.
I giudici di secondo grado
hanno avuto modo di precisare che le disposizioni regolamentari conducevano
a ritenere corretta la remunerazione aggiuntiva, senza alcuna influenza alle
contestazioni dell'ente sulla ritenuta incongruità della flessibilità del
suo orario lavoro che ben avrebbe potuto assorbire anche quelle scolte in
qualità di presidente del nucleo di valutazione. La Cassazione, pertanto,
conferma anche la corretta determinazione dell'importo dovuto, basato in via equitativa,
sui compensi successivamente corrisposti al presidente del nucleo di
valutazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.02.2019). |
APPALTI SERVIZI: Requisiti
dell'in house, per la verifica occorre un approccio sostanziale.
La pronuncia della Corte di Cassazione, Sezz. riunite civili, con la
sentenza
05.02.2019 n.
3330 (sul Quotidiano degli enti locali del 20 febbraio), impone oggi
una riflessione su quello che debba essere la sostanza e la forma nel caso
particolare dell'in house providing ma merita una riflessione forse ancora
più generale.
Anzitutto ricordiamo la questione. La Corte dei conti aveva ritenuto che Trambus (oggi Atac) fosse una società
in house providing, in quanto
interamente del Comune di Roma, aveva in affidamento diretto il servizio di
trasporto pubblico locale del Comune e aveva sì previsto nello statuto la
possibilità di apertura ai privati, ma questa eventualità non si era mai
realizzata.
Per la Cassazione, invece, di per sé «la partecipazione
pubblica, anche totalitaria, di una società di capitali non radica la
giurisdizione della Corte dei conti e la precisazione che vi sia
giurisdizione della Corte dei conti per la responsabilità degli organi
sociali per danno solo nelle società in house providing, nelle quali, in
ragione delle loro particolari caratteristiche, la distinzione tra socio
pubblico e società non si realizza in termini di alterità soggettiva (Cass.,
Sez. U., n. 26283 del 2013, cit.)».
Secondo la Cassazione dunque, la verifica della ricorrenza dei requisiti
propri dell'in house, deve compiersi con riguardo alle norme e alle
previsioni statutarie vigenti alla data del fatto illecito.
Nel caso di
specie, pertanto, «la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, che ha modificato sensibilmente i suddetti requisiti, non può
essere applicata, al fine di affermare la giurisdizione contabile, nei casi
in cui i fatti generatori del presunto danno erariale si siano svolti, non
solo prima della sua pubblicazione nella G.U. dell'Unione europea (24.03.2014), ma anche prima del suo recepimento in Italia, trattandosi di
direttiva non immediatamente esecutiva, ma da attuarsi entro il termine di
recepimento dalla stessa previsto (18.04.2016), rispettato dallo Stato
italiano con l'adozione del d.lgs. n. 50 del 2016 (Cass., Sez. U.,
28/06/2018, n. 17188)».
Su queste considerazioni generali è difficile non essere
d'accordo.
Il dissenso che ci sentiamo di esprimere, però, riguarda l'approccio con cui
si va a verificare l'esistenza o meno dei requisiti dell'in house providing,
viste le conseguenze che questo può avere in concreto.
Avrebbe senso,
ribaltando la situazione, parlare di in house, a fronte di uno statuto
formalmente perfetto, anche nel caso di una società che abbia soci privati
(perché magari una società partecipante un tempo pubblica è stata dismessa e
ha mantenuto la partecipazione), non venga in alcun modo esercitato il
controllo analogo dovuto e che abbia un fatturato sensibilmente influenzato
da attività commerciali neppure statutariamente previste?
Senza un vaglio
dei contenuti sostanziali e non solo formali dell'inquadramento delle
società diventa, in sostanza, fin troppo facile far rientrare od escludere,
per comodità magari contingenti, una azienda dalla giurisdizione della Corte
dei Conti o da altri effetti normativi.
Con un approccio formale, invece, il rischio, è di fare prevalere i
comportamenti opportunistici. In certi casi, ad esempio, può essere ritenuto
vantaggiosa presenza di della giurisdizione contabile, perché di fatto
concentra la sua azione su amministratori e dipendenti della azienda, e non
sui soci; in altri quella civilistica, perché al contrario rende più
difficile l'azione risarcitoria sugli amministratori societari.
Dalle future elaborazioni giurisprudenziali e, se del caso, dai prossimi
interventi legislativi, ci aspettiamo invece un insieme di regole che
responsabilizzi, in concreto, tutti a svolgere con correttezza il proprio
ruolo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.03.2019).
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MASSIMA
2.1. La giurisprudenza di queste sezioni unite è ormai consolidata
nell'affermazione dei seguenti principi.
In primo luogo, la partecipazione pubblica, anche
totalitaria, di una società di capitali non radica la giurisdizione della
Corte dei conti, la quale sussiste nei soli casi in cui sia prospettato un
danno arrecato dal rappresentante della società partecipata al socio
pubblico in via diretta (non, cioè, quale mero riflesso della perdita di
valore della partecipazione sociale), o sia contestato al rappresentante del
socio pubblico di aver colpevolmente trascurato di esercitare i propri
diritti di socio, così pregiudicando il valore della partecipazione
(cfr., per tutte, Cass., Sez. U., 19/12/2009, n. 26806 e 25/11/2013, n.
26283), o, infine, sia configurabile la speciale natura
dello statuto legale di alcune società partecipate
(cfr. Cass., Sez. U., 09/07/2014, n. 15594; 13/11/2015, n. 23306).
Vi è, invece, la giurisdizione della Corte dei conti per la
responsabilità degli organi sociali per danni cagionati al patrimonio delle
società cosiddette in house providing, nelle quali, in ragione delle
loro particolari caratteristiche, la distinzione tra socio pubblico e
società non si realizza più in termini di alterità soggettiva
(Cass., Sez. U., n. 26283 del 2013, cit.).
I requisiti per la configurabilità di una società in
house e le modalità del loro accertamento sono i seguenti:
a) il capitale sociale deve essere integralmente detenuto da uno o
più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e lo statuto deve
vietare la cessione delle partecipazioni a soci privati;
b) la società deve esplicare statutariamente la propria attività
prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l'eventuale
attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e
rivesta una valenza meramente strumentale;
c) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo
analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici -al punto
che gli organi amministrativi della società vengano a trovarsi in posizione
di vera e propria subordinazione gerarchica- e quindi con modalità e
intensità di comando non riconducibili alle facoltà normalmente spettanti al
socio in base alle regole del codice civile;
d) i detti requisiti devono sussistere tutti contemporaneamente e
risultare da precise disposizioni statutarie, e la loro verifica deve essere
svolta avendo riguardo al momento in cui risale la condotta ipotizzata come
illecita (tra altre, oltre a Cass.,
Sez. U., n. 26283/13, cit., Cass., Sez. U., 10/03/2014, n. 5491; 26/03/2014,
n. 7177; 24/03/2015, n. 5848; 13/04/2016, n. 7293; 08/07/2016, n. 14040;
22/12/2016, n. 26643 e n. 26644; 17/01/2017, n. 962; 18/01/2017, n. 1091;
27/12/2017, n. 30978; 13/09/2018, n. 22409).
Si è poi ulteriormente precisato che la verifica della
ricorrenza dei requisiti propri della società in house, dovendo
compiersi con riguardo alle norme ed alle previsioni statutarie vigenti alla
data del fatto illecito, comporta che la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, che ha modificato sensibilmente i suddetti
requisiti, non può essere applicata, al fine di affermare la giurisdizione
contabile, nei casi in cui i fatti generatori del presunto danno erariale si
siano svolti, non solo prima della sua pubblicazione nella G.U. dell'Unione
europea (24.03.2014), ma anche prima del suo recepimento in Italia,
trattandosi di direttiva non immediatamente esecutiva, ma da attuarsi entro
il termine di recepimento dalla stessa previsto (18.04.2016), rispettato
dallo Stato italiano con l'adozione del d.lgs. n. 50 del 2016
(Cass., Sez. U., 28/06/2018, n. 17188). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Bastone
in ufficio, l'agente finisce nei guai.
Esibire un bastone estensibile con i propri colleghi può fare scattare la
sospensione dal servizio. A prescindere dall'uso effettivo dello strumento
in attività esterne di istituto.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
05.02.2019 n. 3316.
Un operatore di polizia municipale è stato sospeso dal servizio per aver
detenuto un bastone estensibile non previsto dal regolamento comunale.
Contro questa severa misura punitiva l'interessato ha percorso tutti i gradi
di giudizio ma senza successo.
A parere degli ermellini è sintomatico di una
grave violazione del regolamento avere a disposizione strumenti pericolosi
come un bastone estensibile. Nell'ambito della capacità di adempiere
correttamente agli obblighi di servizio a parere del collegio va ricompreso
il rispetto delle dotazioni di ordinanza trattandosi di regole delicate
connesse allo svolgimento delle funzioni di polizia locale.
In buona sostanza se un operatore di polizia non rispetta il regolamento
sulle armi commette una grave violazione che può determinare effetti anche
sulla sicurezza. Per questo motivo non importa se l'agente ha sfoderato il
bastone in servizio o solo in comando
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI - VARI: La
scuola di danza richiede la Scia al comune.
La compagnia di danza che vuole attivare corsi in una palestra deve
presentare preventivamente una segnalazione certificata di inizio attività
in comune. Per evitare guai con i controlli della polizia locale e gli
uffici municipali.
Lo ha evidenziato il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, con la
sentenza 04.02.2019 n. 312.
Una palestra ha attivato anche una scuola di danza senza comunicare nulla al
comune. Al controllo dei vigili sono scattate le sanzioni cui ha fatto
seguito anche un provvedimento di sospensione dell'attività fisico-motoria
per 90 giorni.
Contro queste misure punitive l'interessato ha proposto
ricorso al collegio ma senza successo. Mentre le attività sportive in senso
lato possono essere esercitate liberamente dalle società affiliate alle
federazioni sportive nazionali le attività da svolgere all'interno delle
palestre sono regolamentate diversamente, dalla legge 29.12.2014, n.
29.
Quindi per attivare una scuola di danza all'interno di una palestra
servirà sempre presentare al comune una Scia con tutte le ulteriori
certificazione necessarie di corredo. Non basta attivare il corso,
recuperare iscritti e reclamizzare l'attività sportiva
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti,
l’onere va ai liquidatori. Prevale la prevenzione di rischi per salute ed
eco-sistema. Il Tar Toscana interviene in materia di
messa in sicurezza di residui di impresa inattiva.
Il curatore dell'azienda sottoposta a liquidazione e non
più attiva può essere obbligato dalla p.a. alla messa in sicurezza dei
rifiuti precedentemente prodotti dall'imprenditore ove emerga l'esigenza di
prevenire danni a salute ed ambiente.
A
evidenziare la preminenza del principio di precauzione sotteso al diritto
ambientale nell'ambito delle procedure concorsuali è la
sentenza 04.02.2019 n. 166 del TAR Toscana,
Sez. II; e questo secondo una argomentazione logica che
appare valida non solo sotto l'uscente disciplina fallimentare ex storico Rd
267/1942 ma (considerata la continuità normativa che accompagna alcune
fattispecie) anche alla luce del neo dlgs 14/2019 sulla «liquidazione
giudiziale» delle imprese (in vigore dal 16.03.2019).
La pronuncia del tribunale toscano consente di effettuare anche una
ricognizione delle differenti ipotesi nelle quali al curatore dell'azienda
congelata non può invece (in base al diverso principio del «chi inquina
paga») essere imposto alcun onere gestorio per i rifiuti riconducibili alla
precedente attività imprenditoriale.
La responsabilità per i rifiuti altrui.
Per consolidata giurisprudenza il curatore non è rappresentante né
successore del soggetto sottoposto a procedura concorsuale, ma terzo
subentrante esclusivamente nell'amministrazione del suo patrimonio per
l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge.
Ciò comporta che in
relazione a rifiuti già presenti sulle aree di pertinenza dell'azienda
all'apertura della procedura concorsuale il curatore che non li acquisisce
all'attivo è, in assenza di pericolo di danni per salute e ambiente, libero
da oneri gestori poiché non rientra tra i soggetti obbligati ad agire ai
sensi del Codice ambientale (dlgs 152/2006).
Infatti: in primo luogo il
curatore non può essere considerato un «detentore» di rifiuti ai sensi
dell'articolo 188 del dlgs 152/2006 e quindi destinatario degli obblighi di
smaltimento o recupero ex Codice ambientale (come recentemente confermato
dal Tribunale di Milano, sezione fallimentare, con decreto 08/06/2017); il
secondo luogo il curatore non può neppure essere considerato ex articolo 192
del dlgs 152/2006 un «subentrante» della persona giuridica responsabile
dell'eventuale abbandono o deposito incontrollato dei rifiuti, e di
conseguenza sfugge alla responsabilità solidale con quest'ultimo e quindi
alla connessa ordinanza del sindaco per loro rimozione e avvio a
smaltimento/recupero (Cassazione, sentenza 3274/2014).
L'obbligo delle misure di prevenzione.
Diversa, come accennato, è però l'ipotesi in cui la presenza dei rifiuti
genera rischi per salute ed eco-sistema. In questo caso l'obbligo di
adottare le misure di prevenzione ambientale previste dall'articolo 240 del
dlgs 152/2006 (quali iniziative finalizzate a impedire o minimizzare il
realizzarsi di eventi minacciosi per persone e ambiente) può infatti essere
imposto dal comune al curatore in virtù del generale potere di ordinanza
conferitogli dall'articolo 50 del dlgs 267/2000 (T.u. Enti locali) al fine
di eliminare gravi pericoli.
Il Tar Toscana con la sentenza 166/2019 ha così
confermato la bontà dell'agire di un ente territoriale che con ordinanza
contingibile e urgente aveva imposto alla curatela della liquidazione di una
industria del settore edile la rimozione dell'amianto presente e la messa in
sicurezza di rifiuti abbandonati in vista del loro successivo allontanamento
dall'area di deposito, poco tempo prima interessata anche da un incendio.
Infatti, sebbene la curatela non sia chiamata a succedere in obblighi e
responsabilità del fallito (e alla stessa non sia dunque imponibile la più
onerosa e complessa bonifica del sito) essa è comunque tenuta
all'adempimento degli obblighi di custodia, manutenzione e messa in
sicurezza correlati alla sua situazione di attuale possessore o detentore
del bene.
Il caso dell'autorizzazione integrata ambientale...
La responsabilità della curatela in relazione alle misure preventive emerge
ancor più chiaramente qualora i rifiuti abbandonati dalla pregressa attività
industriale siano stati generati da un'impresa sottoposta alla stringente
autorizzazione integrata ambientale prevista dal Codice ambientale.
In tal
caso infatti, come da ultimo stabilito dal Consiglio di stato con sentenza
3672/2017, le prescrizioni a tutela dell'ambiente contenute nell'Aia devono,
in virtù di quanto disposto dall'articolo 29-bis e seguenti del dlgs
152/2006, essere rispettate anche nella fase successiva alla cessazione
dell'attività d'impresa.
Ragion per cui, emerge dalla pronuncia, la p.a. ben
può (al fine di evitare pericoli per salute ed eco-sistema) imporre
l'osservanza delle condizioni contenute nell'Aia anche ai gestori post
chiusura dei siti interessati. Legittima è dunque l'ordinanza sindacale che
sulla base della disciplina Aia impone al curatore la messa in sicurezza dei
rifiuti presenti.
...e di bonifica.
La legittimità dell'ordine di messa in sicurezza dei rifiuti non giustifica
invece l'ulteriore pretesa della p.a. di procedere a bonifica del sito
inquinato (Consiglio di stato, sentenza 5668/2017).
Con tale pronuncia il
giudice amministrativo ha sottolineato come la messa in sicurezza
costituisca (anche alla luce dei principi comunitari) misura di prevenzione
dei danni rientrante nel genus delle precauzioni che gravano anche sul
detentore del sito da cui possano scaturire danni all'ambiente e, non avendo
finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone l'accertamento di
dolo o colpa.
E questo a differenza delle misure con finalità sanzionatoria
o ripristinatoria (recupero o risanamento, come la bonifica), che essendo
fondate sul diverso principio «chi inquina paga» possono invece essere
imposte solo a coloro che abbiano responsabilità diretta sull'origine del
fenomeno contestato (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Recupero
cani randagi e trasporto pubblico fai-da-te.
L'amministrazione comunale può decidere di trasferire il servizio di
recupero dei cani randagi e il trasporto pubblico locale in capo alla
polizia municipale. Che deve solo prendere atto di questa scelta
riorganizzativa e non può lamentarsi della decisione assunta.
Lo ha evidenziato il TAR Basilicata, Sez. I, con la
sentenza
04.02.2019 n. 148.
Un piccolo comune ha deciso di modificare il suo assetto organizzativo
trasferendo alla polizia locale la gestione del contratto di trasporto
pubblico e il ricovero dei cani randagi.
Contro questa determinazione il
comandante della municipale ha proposto doglianze al collegio ma senza
successo. Nessuna disposizione normativa a parere del Tar impedisce di
ampliare i compiti della polizia locale. E non è evidente alcuna antinomia
tra la gestione dei contratti di trasporto pubblico e quelli di ricovero dei
cani randagi.
In buona sostanza a parere del collegio la polizia municipale
può gestire tranquillamente anche il canile comunale e il servizio di
trasporto pubblico locale. Anche se in precedenza i funzionari della
municipale avevano indagato penalmente sulla gestione di questi servizi notiziando
in tal senso la procura
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019). |
APPALTI SERVIZI: Accordi
tra PA, servizi senza gara se c’è l'interesse pubblico.
Le amministrazioni pubbliche possono sviluppare servizi a favore di altre
amministrazioni al di fuori delle regole del codice dei contratti pubblici
solo in base ad accordi che rispondano a esigenze connesse al perseguimento
di obiettivi d'interesse pubblico.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la
sentenza
01.02.2019 n. 548 ha chiarito i
profili applicativi dell'articolo 5, comma 6, del Dlgs 50/2016 e le
condizioni perché sia possibile definire il particolare tipo di rapporto.
Le condizioni
La disposizione stabilisce che un accordo concluso esclusivamente tra due o
più amministrazioni aggiudicatrici non rientra nell'ambito di applicazione
del codice dei contratti pubblici quando sono soddisfatte (contestualmente)
tre condizioni.
Il primo presupposto è che l'accordo stabilisca o realizzi una cooperazione
tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti,
finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono tenuti a
svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che essi
hanno in comune.
Il secondo elemento necessario è che l'attuazione della cooperazione sia
retta esclusivamente da considerazioni inerenti all'interesse pubblico.
In terzo luogo, le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori
partecipanti all'accordo devono svolgere sul mercato aperto meno del 20 per
cento delle attività interessate dalla cooperazione.
Le regole europee
I giudici amministrativi hanno fatto rilevare che secondo la giurisprudenza
della Corte di giustizia (sentenza 19.12.2012 - causa n. C159/11),
l'affidamento di un contratto senza gara da parte di un'amministrazione aggiudicatrice a un'altra pubblica amministrazione contrasta con le norme e
i principi sull'evidenza pubblica comunitaria quando ha a oggetto servizi i
quali, pur riconducibili ad attività di ricerca scientifica, ricadono,
secondo la loro natura effettiva, nell'ambito dei servizi di ricerca e
sviluppo.
L'obbligo di gara
L'obbligo della gara può escludersi solo in caso di contratti che
istituiscono una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire
l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune. La situazione è
configurabile quando queste forme di cooperazione siano rette unicamente da
considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi
d'interesse pubblico.
Si tratta dell'istituto del cosiddetto partenariato pubblico-pubblico a
carattere orizzontale, realizzato tramite accordi tra diverse
amministrazioni, codificato dalle direttive Ue del 2014 e riportato
nell'articolo 5, comma 6, del Dlgs 50/2016. Il sistema ammette che le
amministrazioni pubbliche possano, in base al diritto europeo, agire sul
mercato e competere con altri operatori economici pubblici o privati, ma
devono farlo su di un piano di parità senza cioè godere di alcun vantaggio
competitivo, per questo motivo la deroga all'applicazione delle norme
sull'evidenza pubblica, anche nei rapporti negoziali tra amministrazioni,
soggiace alle condizioni restrittive.
Nell'ordinamento nazionale è riconosciuta alle amministrazioni pubbliche la
possibilità di concludere fra loro accordi per disciplinare lo svolgimento
in collaborazione di attività di interesse comune che dunque deve essere
letta alla luce del quadro normativo europeo: si ha quindi una
sovrapposizione tra l'articolo 15 della legge 241/1990 e l'articolo 5, comma
6, del Dlgs 50/2016. La disposizione, peraltro, individua le condizioni in
base alle quali l'accordo può essere sottratto all'applicazione del codice
dei contratti, configurandole come molto restrittive.
Al di fuori di questi
casi, ogni accordo con contenuto patrimoniale e astrattamente contendibile
soggiace alle regole dell'evidenza pubblica dovendosi anche le
amministrazioni pubbliche includere nel novero degli operatori economici
sottoposti alle regole della concorrenza (articolo 3, lettera p) del Dlgs
50/2016. Pertanto, se un'amministrazione stipula una convenzione con
un'altra amministrazione aggiudicatrice con finalità apparentemente
cooperativa, ma solo nel proprio interesse e non anche in quello della
controparte, il servizio oggetto dell'intesa deve essere posto a gara, in
quanto non sussiste l'interesse comune.
Se non ricorrono quindi i presupposti normativi dettati dal comma 6
dell'articolo 5 del Dlgs 50/2016 per la conclusione degli accordi tra
amministrazioni si determina la stipula di un vero e proprio contratto
remunerativo di un servizio contendibile e astrattamente suscettibile di
essere reperito sul mercato, con la conseguenza che questi servizi devono
essere affidati mediante una procedura comparativa e trasparente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019). |
APPALTI: Il
frazionamento in lotti dipende dai casi.
Il principio della suddivisione in lotti può essere derogato, seppur
attraverso una decisione adeguatamente motivata dal momento che essa è
espressione di scelta discrezionale, sindacabile soltanto nei limiti della
ragionevolezza e proporzionalità, oltre che dell'adeguatezza
dell'istruttoria, in ordine alla decisione di frazionare o meno un appalto
«di grosse dimensioni» in lotti.
L'adozione dell'opzione del lotto unico
risulta ragionevole qualora la commessa riveste carattere unitario, in
quanto sia il servizio di gestione e controllo sia il servizio complementare
hanno ad oggetto le medesime aree di parcheggio e i medesimi impianti di
risalita.
La scelta di non frazionare l'appalto in lotti, nel caso in cui
l'unitarietà sia imposta dall'oggetto dell'appalto e dalle modalità
esecutive scaturenti dalla situazione materiale e giuridica dei luoghi entro
cui operare può ritenersi ragionevole e non illogica o arbitraria: non può
sottacersi infatti, sotto altro concorrente profilo, che le attività prestazionali oggetto dei suddetti servizi non esigono specializzazioni, né
qualifiche particolari che impongano, giustificano o rendano anche solo
opportuna una suddivisione in lotti.
È questo il passaggio centrale della
sentenza
31.01.2019 n. 2044
del Consiglio di Stato, Sez. VI, con la quale è stata fatta chiarezza sul delicato
tema della suddivisione in lotti da parte delle stazioni appaltanti.
Secondo l'art. 51 del Codice appalti, il comma 1 stabilisce che, sia nei
settori ordinari che in quelli speciali, le Stazioni appaltanti debbano
suddividere, allo scopo di favorire l'accesso delle microimprese, piccole e
medie imprese, tutti gli appalti in «lotti funzionali» o «prestazionali», in
conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi
e forniture. La norma detta altresì che le p.a. appaltanti debbano, in caso
di mancata suddivisione in lotti, dare una congrua motivazione nel bando di
gara, nella lettera di invito o nella relazione unica di cui agli artt. 99 e
139.
Secondo il Consiglio di stato, «la scelta di non frazionare l'appalto
in lotti nel caso in cui l'unitarietà sia imposta dall'oggetto dell'appalto
e dalle modalità esecutive scaturenti dalla situazione materiale e giuridica
dei luoghi entro cui operare, può ritenersi ragionevole e non illogica o
arbitraria: non può sottacersi infatti, sotto altro concorrente profilo, che
le attività prestazionali oggetto di certi servizi non esigono
specializzazioni, né qualifiche particolari che impongano, giustifichino o
rendano, anche solo opportuna, una suddivisione in lotti».
L'equilibrio che il frazionamento in lotti di un appalto crea tra la
promozione della concorrenza nella misura più ampia possibile e il
coesistente interesse pubblico al migliore utilizzo possibile delle risorse
finanziarie della collettività è quindi estremamente labile e può facilmente
essere travolto, nel peggiore dei casi, da un illecito frazionamento da
parte della p.a. che perfeziona il reato di abuso d'ufficio.
Il principio della suddivisione in lotti può, dunque, essere derogato,
secondo una scelta discrezionale dell'Amministrazione, ma la decisione di
frazionare o meno un appalto di «grosse dimensioni» in lotti deve risultare
adeguatamente motivata
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Risarcibile
il danno da mancata assunzione se il bando di concorso è illegittimo.
L'annullamento del bando di concorso per selezionare personale destinato
alla Provincia di Campobasso, ritenuto illegittimo, può determinare la
condanna della pubblica amministrazione al risarcimento per perdita di
chance soprattutto nel caso in cui risulti fondata la possibilità di
accedere (anche per i curricula dei partecipanti) all'assunzione.
Questo, in sintesi, l'importante approdo al quale giunge il TAR Molise con la
sentenza
31.01.2019 n. 46.
La richiesta di risarcimento
Il giudice molisano ha affronta la questione della legittimità della
richiesta di risarcimento danni per mancata assunzione. Nel caso specifico,
i ricorrenti hanno impugnato innanzi al Capo dello Stato un bando di
assunzione a tempo determinato (indetto dalla Provincia di Campobasso)
annullato per la presenza di una clausola (illegittima) che impone il
requisito della residenza in un Comune della Regione.
Successivamente, su ricorso della Provincia, il decreto presidenziale è
stato annullato in primo grado, mentre il Consiglio di Stato (appello
promosso dai ricorrenti) ha ribadito l'illegittimità del bando. Il lungo
decorso dei tempi, però, ha impedito ai ricorrenti di partecipare alle
selezioni e per effetto di quanto, gli stessi, si sono determinati a
chiedere il risarcimento dei danni per mancata assunzione.
La Provincia, chiamata in causa, nelle proprie memorie ha chiesto al giudice
di respingere l'istanza stante il «mancato assolvimento dell’onere della
prova sulla condotta illegittima e sul danno ingiusto» nonché per «mancanza
di una perdita di chance risarcibile, stante la non elevata possibilità dei
ricorrenti di risultare vincitori nella selezione, trattandosi, (…), di una
mera aspettativa di fatto».
La decisione
Il giudice accoglie invece le istanze risarcitorie fondando il proprio
ragionamento sulla circostanza per cui «l’imposizione quale requisito» di
partecipazione alla selezione della «residenza dei concorrenti (…),
censurata perché contraria alla legge e ai principi costituzionali, è
rilevante ai fini dell’invocata tutela e spiega il nesso di causalità tra la
condotta antigiuridica (colposa o dolosa) e il procurato pregiudizio patito
dagli aspiranti che hanno subito l’esclusione dal bando per via della
mancanza del requisito di residenza».
«Tale pregiudizio, si legge in sentenza, deve ritenersi sicuramente
risarcibile ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile norma che impone
il dovere primario di non cagionare danni ingiusti».
L'elemento soggettivo della responsabilità civile, prosegue il giudice, deve
ritenersi «insito nel comportamento colpevole, derivato dalla scelta
inopinata di violare, nella procedura, i fondamentali parametri della
Costituzione e della legge (art. 1 legge n. 241/1990), vale a dire i
principi di uguaglianza, imparzialità, trasparenza, pari opportunità,
proporzionalità, ragionevolezza, adeguatezza, non discriminazione, nonché il
principio di legalità di cui all’articolo 51, comma primo, della
Costituzione, a tenore del quale tutti i cittadini italiani possono accedere
agli uffici pubblici, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
L'utilizzo del requisito della residenza –pur consentito in limitatissime
ipotesi dal decreto legislativo 165/2001– nel caso di specie è stato
utilizzato in maniera fuorviante e non appropriata in quanto non necessario
«all’assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili
con identico risultato».
Il risarcimento
L'accertata illegittimità dell'azione amministrativa, integra pertanto «ex
se l’illiceità della condotta» (Cassazione civile, sezioni unite n.
500/1999, n. 13164/2005; n. 20358/2005; Cons. Stato n. 3169/2001, n.
1261/2004, n. 5500/2004, n. 478/2005) aprendo al risarcimento per danno
ingiusto.
In questo senso, il danno da perdita di chance «si verifica tutte le volte
in cui il venir meno di un’occasione favorevole, cioè la perdita della
possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato
dell’adozione di un atto illegittimo da parte della Pa determinando un
mancato guadagno». Nel caso di specie, in base ai curricula risultava
«provata» l'elevata possibilità di risultare vincitori della selezione.
Il giudice, infine, non condivide però il calcolo del quantum del
risarcimento fondato sulla mancata percezione delle retribuzioni dovendo
questa, caso mai, essere ricalibrata tenendo conto del numero degli
aspiranti che –senza il criterio della residenza– avrebbero potuto essere
più numerosi. Pertanto, conclude il giudice, la determinazione del
risarcimento deve avvenire «secondo una valutazione equitativa, ex articolo
1226 del codice civile, commisurandola ove possibile al grado di probabilità
che quel risultato favorevole avrebbe potuto essere conseguito»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Risarcimento
per perdita di chance all'escluso dal concorso per il requisito della
residenza in Regione.
Va risarcito a titolo di perdita di chance il concorrente escluso da una
selezione per mancanza del requisito della residenza in un Comune della
Regione, requisito dichiarato illegittimo a seguito della decisione di
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Lo ha stabilito il TAR
Molise con la
sentenza
31.01.2019 n. 46.
Si trattava di bando della Provincia di Campobasso per l'istaurazione di
rapporti di lavoro a tempo determinato per il profilo professionale di
istruttore direttivo - categoria D1.
La prova del danno
Secondo il Tar non vi è necessità di una ulteriore prova della condotta che
ha causato il danno ingiusto (articolo 2043 del codice civile) né sussiste
margine per la scusabilità dell'errore della Pa dal momento che non poteva
giustificabilmente sfuggire all'Amministrazione (e ai suoi funzionari) il
dato palese e inequivocabile dell'illegittimità radicale della clausola di
preclusione territoriale contenuta nel bando.
È evidente e non necessita di
prova il fatto che dal comportamento illegittimo della Provincia sia
derivato un danno patrimoniale, qualificabile in termini di pregiudizio per
la perdita di chance, da parte dei ricorrenti. È palese la sussistenza del
rapporto causale tra il fatto ostativo (l'esclusione dalla selezione) e il
pregiudizio della perdita di una ragionevole probabilità di conseguimento
del risultato atteso dai ricorrenti, di collocarsi, previo superamento della
prova, in una posizione non solo idonea ma utile nello scorrimento di una
delle sei graduatorie di concorso definitivamente approvate.
La perdita di chance
I giudici molisani hanno poi ricordato che il danno da perdita di chance si
verifica tutte le volte in cui il venir meno di un'occasione favorevole,
cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è
determinato e causato dell'adozione di un atto illegittimo da parte della Pa,
determinando un mancato guadagno. La chance è un bene giuridico autonomo,
integrante il patrimonio del soggetto.
Va così risarcita la perdita di
chance, ove sussista la lesione di un interesse giuridicamente tutelato,
avendo la pretesa di risarcimento a oggetto non un danno futuro e incerto ma
un danno attuale, quale è appunto la perdita dell'occasione favorevole. La
lesione della chance, quindi, comporta un danno valutabile in relazione alla
probabilità perduta, piuttosto che al vantaggio sperato.
No al danno esistenziale
Il Tar ha poi considerato che non può essere, nella fattispecie,
riconosciuta la sussistenza di un danno esistenziale, poiché non vi è prova
alcuna che dall'evento dannoso (l'esclusione dal concorso) sia derivata una
compromissione dell'integrità psico-fisica dei ricorrenti e, non essendo
stato provato alcun danno emergente (quale potrebbe essere stata, ad
esempio, un'eventuale spesa sostenuta da ciascun ricorrente per acquisire la
possibilità di partecipare alla selezione), il Tar ha quindi verificato la
misura del mancato guadagno
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'assoluzione
piena del dipendente pubblico non basta da sola per il rimborso delle spese
legali.
La costituzione dell'ente come parte civile e la tipologia di reato
contestato contrario ai doveri d’ufficio possono essere rilevanti per
escludere il rimborso delle spese legali sostenute per la difesa del
dipendente pubblico, perché da sola sufficiente l'assoluzione piena non è
sufficiente.
Queste in sintesi le conclusioni della Corte di Cassazione - Sez. I civile
(ordinanza
29.01.2019 n. 2475).
I fatti
La vicenda riguarda l'assoluzione piena, disposta dal giudice penale, per il
reato di corruzione e con costituzione di parte civile da parte dell'ente.
Pur riguardando un amministratore regionale, la disciplina applicabile, per
espressa previsione delle legge regionale, è quella dei dipendenti delle
amministrazioni statali (articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997). La richiesta
di rimborso delle spese legali sostenute da parte dell'amministratore ha
fatto seguito alla piena assoluzione del dipendente ma con rifiuto da parte
dell'ente.
Il Tribunale di primo grado ha confermato la non rimborsabilità delle spese
legali, in considerazione del conflitto di interessi reso evidente dalla
costituzione di parte civile dell'ente. Sulla stessa linea la sentenza della
Corte d’appello che, nonostante la piena formula assolutoria dai reati
ascritti, ha ritenuto che il reato di corruzione non potesse avere alcun
riferimento diretto a un espletamento di un servizio o all'assolvimento di
obblighi istituzionali. Infatti, il reato di corruzione è di per sé
sufficiente a ritenere che si versasse in una condotta contraria ai doveri
d'ufficio, di qui il conflitto di interessi con l'ente di appartenenza che
esclude la rimborsabilità delle spese.
Il ricorso in Cassazione è stato motivato per una non corretta
interpretazione, a dire dell'amministratore regionale, della normativa sul
conflitto di interessi, dove l'assoluzione piena nel giudizio penale ne
cancella sin dall'origine gli effetti, a nulla rilevando la costituzione di
parte civile dell'ente. Se ciò non fosse vero le funzioni del dipendente
verrebbero incise sin dall'inizio a prescindere dall'esito del procedimento
penale.
Le precisazioni della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità il rimborso delle spese legali, reclamate
dal dipendente all'ente di appartenenza, devono obbligatoriamente trovare la
loro causa in un interesse della pubblica amministrazione. Questo interesse
si realizza solo qualora sussista un legame inscindibile con l'attività
espletata dal dipendente pubblico e un fine pubblico della funzione svolta.
Questo principio implica, pertanto, che ci sia un nesso di strumentalità tra
l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il
dipendente non avrebbe assolto i suoi compiti se non compiendo quel fatto o
quell'atto.
In conclusione, se l'accusa è quella di aver commesso un reato che contempli
l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva situazione di
conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge affatto,
escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il dipendente sia
stato, in ipotesi, assolto dall'accusa.
Anche a voler escludere la costituzione di parte civile dell'ente, il
rimborso delle spese è stato negato in quanto l'imputazione penale ha
riguardato fatti di grave violazione dei doveri d'ufficio -delitto di
corruzione- che avrebbero potuto, qualora accertati positivamente,
legittimare l'ente a chiedere il risarcimento dei danni al dipendente.
L'assoluzione piena ha, invece, impedito che l'ente potesse reclamare un
risarcimento, non potendo in questo caso il dipendente chiedere anche il
rimborso delle spese sopportate in presenza di questi interessi contrapposti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.02.2019).
---------------
MASSIMA
I primi due motivi, da esaminare congiuntamente poiché connessi,
sono infondati.
La Corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi in materia a
tenore dei quali (v. Cass. n. 2366/2016) l'Amministrazione è legittimata a
contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento
penale sempre che sussista un interesse specifico al riguardo e tale
interesse è ravvisabile qualora sussista l'imputabilità dell'attività
all'Amministrazione stessa e dunque una diretta connessione di tale attività
con il fine pubblico (così anche Cass. n. 5718/2011; n. 24480/2013; Cass. n.
27871/2008; Cass., n. 20561/2018).
La connessione dei fatti con l'espletamento del servizio o con
l'assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e
fatti devono essere riconducibili all'attività funzionale del dipendente
stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri
obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano
all'esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia
un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento
dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti
se non compiendo quel fatto o quell'atto (Consiglio di Stato, 26.02.2013, n.
1190, e 22.12.1993, n. 1392).
Quanto all'ulteriore requisito costituito dall'assenza di un conflitto di
interessi con l'Amministrazione di appartenenza, preme rilevare che questa
Corte ha affermato che il conflitto d'interessi è rilevante
indipendentemente dall'esito del giudizio penale e dalla relativa formula di
assoluzione; ne consegue che al dipendente comunale, assolto
dall'imputazione, non compete il rimborso delle spese legali qualora il
giudice penale abbia evidenziato che i fatti ascrittigli esulavano dalla
funzione svolta e costituivano grave violazione dei doveri d'ufficio (Cass.
n. 2297/2014).
Pertanto, i motivi in esame non hanno fondamento in quanto vertono
esclusivamente sulla censura della decisione impugnata che non avrebbe
tenuto conto dell'assoluzione con la formula "perché il fatto non
sussiste", formula ritenuta erroneamente, di per sé, legittimante il
rimborso delle spese legali della difesa nel processo penale; invece, il
presupposto cui è subordinato tale rimborso consiste nel fatto che la
condotta di reato, come ascritta all'imputato, si ponga in violazione dei
doveri d'ufficio, con conseguente dissoluzione del rapporto
d'immedesimazione organica del dipendente con l'Ente di appartenenza.
In altri termini, ai fini del rimborso richiesto è necessario che il fatto
di reato oggetto dell'imputazione penale non configuri una fattispecie
ontologicamente in conflitto con i doveri d'ufficio che determini ipso facto
la legittimazione dello stesso Ente di costituirsi parte civile.
Da tale argomentazione discende che l'assoluzione, ancorché con la formula "piena",
non legittima il richiesto rimborso; il principio è stato ribadito da questa
Corte, secondo il cui orientamento se l'accusa è quella di aver commesso un
reato che contempli l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva
situazione di conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge
affatto, escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il
dipendente sia stato, in ipotesi, assolto dall'accusa (Cass., ord. n.
18256/2018; in termini anche Cass. S.U., 04.06.2007 n. 13048). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza
di demolizione va notificata all’autore dell’abuso e al proprietario del
terreno.
L’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, in base all’articolo 31 del
Dpr 380/2001 (testo unico in materia di edilizia), dev’essere notificata
all’autore dell’abuso e al proprietario del terreno se non sono la stessa
persona. In difetto di notifica è illegittimo il successivo provvedimento di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale del manufatto e dell’area di
sedime, in caso di inottemperanza all'ordinanza di demolizione.
Così ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, con la
sentenza 28.01.2019 n. 1053.
Il caso
Ai ricorrenti è stata notificata la determinazione dirigenziale che dispone
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera abusiva e
dell'area di sedime per non essere stata eseguita l’ordinanza di
demolizione.
Nell’impugnare il provvedimento al Tar, i ricorrenti precisano, tra l'altro,
di essere divenuti proprietari del terreno sul quale è costruito il
manufatto illegale, in quanto eredi di chi era proprietario e autore
dell'abuso. Il Comune, però, ha notificato l'ordinanza di demolizione, atto
presupposto rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale,
soltanto al precedente proprietario che realizzò l'abuso (e che non effettuò
la demolizione) e non anche agli attuali proprietari: da qui, a giudizio dei
ricorrenti, l'illegittimità del successivo provvedimento di acquisizione al
patrimonio comunale.
La decisione
Il Tar accoglie la tesi dei ricorrenti e annulla il provvedimento impugnato.
Secondo i giudici, infatti, la notifica dell'ordine di demolizione al
soggetto che risulti proprietario al momento dell'adozione del provvedimento
ripristinatorio, oltre che all'autore dell'abuso edilizio, è il presupposto
necessario per il successivo atto di acquisizione gratuita dell'opera e del
sedime al patrimonio comunale.
In assenza di notifica, gli attuali proprietari non sono stati messi in
condizione di dare esecuzione all'ordine di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi entro il termine previsto dall'articolo 31 del Dpr
380/2001 (novanta giorni dall'ingiunzione) e dunque agli stessi non può
essere comminata la sanzione prevista per l'inottemperanza all'ordine di
demolizione, vale a dire l'acquisizione gratuita del manufatto e dell'area
di sedime al patrimonio comunale.
La predetta acquisizione gratuita, afferma il Tar, sarebbe dunque effettuata
al di fuori delle modalità previste dalla Legge e poste dall'ordinamento a
tutela del diritto di proprietà inciso dal provvedimento sanzionatorio.
Inevitabile, pertanto, l'accoglimento del ricorso e l'annullamento della
determinazione dirigenziale.
La sentenza appare condivisibile e in linea con l’articolo 31, comma 2, del
Dpr 380/2001 che esplicitamente afferma: «il dirigente o il responsabile
del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in
assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con
variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi
del comma 3» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.02.2019).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato e va accolto.
I ricorrenti, in punto di fatto, precisano di essere diventati proprietari
del terreno in quanto eredi del precedente proprietario, autore dell’abuso,
a cui il Comune aveva notificato l’ordinanza di demolizione dei manufatti
eseguiti senza titolo, laddove la medesima ordinanza, atto presupposto
rispetto all’atto di acquisizione al patrimonio comunale, non gli è mai
stata comunicata né notificata. In ciò si sostanzierebbe l’illegittimità
contestata.
Il Collegio ritiene fondata la censura proposta con il secondo motivo
di ricorso per la violazione dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, risultando
dirimente il profilo, già rilevato in sede di ordinanza cautelare, della
mancata notifica ai proprietari dell’ordine di demolizione e della natura
punitiva dell’ordinanza di acquisizione.
La notifica dell'ordine di demolizione al proprietario,
oltre che all'autore dell'abuso edilizio, è il presupposto necessario per il
successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale, in quanto
questo secondo atto costituisce una sanzione per l'inottemperanza alla
demolizione, che non può essere pronunciata nei confronti di chi non sia
stato destinatario dell'ordine di demolizione, per cui la mancata notifica
al proprietario dell'ordine di demolizione non inficia la legittimità dello
stesso, ma preclude l'emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita
al patrimonio comunale ex art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380/2001
(ex multis TAR Basilicata, Sez. I, 21.04.2016, n. 402; TAR
Calabria-Reggio Calabria, 26.01.2016, n. 83; TAR Lombardia Milano Sez. II,
14.01.2016, n. 76; TAR Campania Napoli Sez. III, 22.12.2015, n. 5876).
In assenza quindi di contestazioni da parte dell’amministrazione non
costituita in giudizio, in merito agli elementi di fatto e di diritto della
causa, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale deve avvenire secondo
le modalità previste dalla legge, che costituiscono un presidio
irrinunciabile di garanzia del diritto di proprietà inciso dal provvedimento
sanzionatorio.
Di conseguenza, pur essendo in ipotesi legittima
l’acquisizione nei confronti di proprietari che, seppure non responsabili
dell’abuso, siano comunque venuti a conoscenza dell’intervenuta esistenza di
un ordine demolitorio, affinché scatti la conseguenza acquisitiva è
necessario che l’ordine di demolizione sia stato notificato formalmente al
soggetto proprietario al momento dell’adozione del provvedimento
ripristinatorio e, conseguentemente, che sia stato concesso, anche
formalmente, il termine di novanta giorni per demolire, ai sensi degli art.
31, commi 2 e 3, che prevedono rispettivamente che il provvedimento di
riduzione in pristino sia ingiunto “al proprietario e al responsabile
dell'abuso” e che sia concesso all’interessato un termine di novanta
giorni dall'ingiunzione per procedere alla demolizione e al ripristino dello
stato dei luoghi.
Nel caso di specie tale notifica non risulta essere stata effettuata.
Pertanto, assorbiti per motivi di economia processuale gli ulteriori profili
dedotti, il ricorso è da accogliere, con salvezza degli eventuali ulteriori
provvedimenti emanati da parte dell’amministrazione, anche nelle more della
presente decisione. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Il
locale notturno ha licenza di suonare.
Il comune non può ordinare la chiusura di un pubblico esercizio notturno
solo perché ritenuto rumoroso. Specialmente se si tratta di un locale
posizionato lontano dalle abitazioni in una zona industriale che ha
solamente ecceduto con il volume musicale.
Lo ha stabilito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la
sentenza 26.01.2019 n. 85.
Il comune di Bergamo ha accertato che un lounge bar posizionato nei pressi
dell'aeroporto e conosciuto per l'intrattenimento serale e notturno ha
ecceduto con il volume musicale e per questo motivo ha ordinato la chiusura
anticipata del locale alle 00,30. Praticamente dichiarando la cessazione
dell'attività.
Contro questa severa determinazione l'interessato ha proposto
doglianze al collegio evidenziando che nel locale non si sono mai verificati
episodi di cronaca o altre irregolarità e che l'unica violazione contestata
è stata quella del volume musicale.
Il Tar ha accolto le censure
dell'imprenditore evidenziando che la determinazione comunale è eccessiva e
sproporzionata. Al massimo si sarebbe potuto ordinare all'esercente di
adottare limitazioni alle immissioni sonore. Non certo disporre la chiusura
anticipata del bar
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Il
consigliere comunale può impugnare una delibera solo se lede direttamente il
suo mandato.
Non sussiste legittimazione dei consiglieri comunali a impugnare atti che
non siano direttamente lesivi dell'ufficio ricoperto.
Un consigliere di minoranza di un Comune alle porte di Milano aveva
impugnato di fronte al Tar la delibera di adozione del Piano di governo del
territorio, chiedendone l'annullamento, in quanto alla seduta del consiglio
comunale aveva espresso il proprio voto favorevole anche un consigliere in
conflitto di interessi, che, se si fosse astenuto, avrebbe determinato il
venir meno del numero legale.
Si era costituito il Comune eccependo
l'inammissibilità del ricorso, in quanto il ricorrente, nella qualità di
consigliere comunale, non sarebbe stato legittimato a impugnare le
deliberazione dell'organo di cui faceva parte.
Con la
sentenza
25.01.2019 n. 153, il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ha rigettato il ricorso.
Il
collegio ha affermato che i consiglieri comunali non sono legittimati ad
agire contro l'Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio
amministrativo, di regola, non è aperto alle controversie tra organi o
componenti di organi dello stesso ente.
Si può ipotizzare il ricorso dei singoli consiglieri comunali solo quando
«vengano in rilievo atti incidenti in via diretta su un diritto spettante
alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che
ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione,
che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai diretti
destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica
lesione dello ius ad officium».
Infatti il consigliere comunale gode di legittimazione attiva contro
l'organo di cui fa parte solo quando eccepisce vizi che attengano:
1) a erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare
2) alla violazione dell'ordine del giorno
3) all'inosservanza del deposito della documentazione necessaria
per poter consapevolmente deliberare
4) in generale, quando gli sia precluso, in tutto o in parte,
l'esercizio delle funzioni
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).
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MASSIMA
2. A questo punto devono essere esaminate le eccezioni formulate dalla
difesa del Comune e, in particolare, quella che assume l’inammissibilità
dell’intero gravame sul presupposto che il ricorrente, agendo nella qualità
di consigliere comunale, non risulterebbe legittimato ad impugnare le
delibere assunte dall’organo consiliare di cui fa parte.
2.1. L’eccezione è fondata.
Il ricorrente ha agito nella veste di consigliere comunale di minoranza per
censurare la legittimità di alcune deliberazioni –relative all’adozione e
all’approvazione del P.G.T.– non deducendo tuttavia la lesione del proprio
munus, ma evidenziando un asserita violazione della normativa
contenuta nel Testo Unico degli Enti Locali (art. 78, comma 2, del D.Lgs. n.
267 del 2000) sulla prevenzione dei conflitti di interessi tra gli
amministratori e gli amministrati.
Tuttavia, secondo una consolidata giurisprudenza, non sussiste alcuna
legittimazione in capo ai consiglieri comunali ad impugnare atti che non
risultano direttamente lesivi del proprio munus. Difatti i
consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro
l’Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è
di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello
stesso ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive.
Pertanto, l’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto
quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto
all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona
investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni
violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di
per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti
destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica
lesione dello ius ad officium.
Ne deriva che la legittimazione al
ricorso può essere riconosciuta al consigliere solo quando i vizi dedotti
attengano (a) ad erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare,
(b) alla violazione dell’ordine del giorno, (c) alla inosservanza del
deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e
consapevolmente deliberare e (d) più in generale, laddove sia precluso in
tutto o in parte l’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito
(ex multis, Consiglio di Stato, V, 07.07.2014, n. 3446; TAR Campania,
Napoli, I, 05.06.2018, n. 3710).
Nella fattispecie de qua, non si sono prodotte lesioni rientranti nelle
categorie in precedenza indicate e, quindi, sia il ricorso introduttivo che
il ricorso per motivi aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per
difetto di legittimazione del ricorrente.
2.2. In senso contrario non rileva nemmeno la circostanza –addotta peraltro
soltanto in sede di memoria di replica dalla difesa attorea– che la coniuge
del ricorrente sarebbe proprietaria di un mappale confinante con quello del
sig. Sa., considerato che nessun ulteriore elemento è stato addotto per
procedere ad una verifica in ordine alla sussistenza di una qualsivoglia
lesione in capo al ricorrente, a prescindere dalla tempestività degli
eventuali rilievi e dalla legittimazione ad agire in giudizio di un soggetto
in sostituzione del proprio coniuge.
2.3. In conclusione, sia il ricorso introduttivo che il ricorso per motivi
aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per difetto di
legittimazione del ricorrente. |
TRIBUTI:
TOSAP, tocca alle Sezioni unite sciogliere il rebus sul soggetto
passivo.
Riguardo il contrasto sorto su estensione e attribuzione della soggettività
passiva della tassa sull'occupazione di suolo pubblico (Tosap), cioè
sull'interpretazione dell'articolo 39 del Dlgs 507/1993, con l'ordinanza
interlocutoria 24.01.2019 n. 2008 la Sez. V civile della Corte di
Cassazione ha rimesso gli atti al primo presidente della stessa.
La vicenda
La commissione tributaria di prima istanza riteneva corretto l'operato della
società di riscossione che per conto del Comune azionava la pretesa
impositiva nei confronti del concessionario per la gestione delle reti
idriche, applicando l'articolo 39 del Dlgs 507/1993, in forza del contratto
di affitto di ramo di azienda della gestione della rete idrica che aveva col
proprietario della rete.
Viceversa, il contribuente opponeva alla propria legittimazione passiva
tributaria il non essere né il proprietario della rete idrica né il titolare
della concessione di occupazione del suolo pubblico, qualità sussistenti in
capo alla società proprietaria della rete.
A parere della Cassazione, i
giudici tributari hanno indebitamente attribuito qualità soggettiva
individuabile in capo alla titolare della concessione di gestione della rete
idrica comunale, a seguito di contratto di affitto di ramo di azienda,
quando esso, tuttavia, non è idoneo a trasferire anche la diversa
concessione o autorizzazione già rilasciata alla proprietaria della rete
idrica per l'occupazione del suolo pubblico.
La concessione Tosap è contenuta in un atto amministrativo, emesso da un
ente locale a favore di un soggetto ben determinato, il proprietario della
rete, il cui trasferimento in capo a un soggetto diverso non presuppone
l'espletamento di un'attività negoziale, ma funzione provvedimentale della
pubblica amministrazione, esternata previa verifica dei presupposti di
legge, individuando altro soggetto titolare della concessione o
autorizzazione occupativa.
È da censurare, pertanto, a parere del giudice di legittimità, la
conclusione raggiunta dalla commissione tributaria, che identifica proprio
nel contratto di fitto di ramo di azienda, la legittimazione passiva al
tributo, equiparabile al concessionario dell'occupazione di suolo pubblico
di cui all'articolo 39.
Ponendosi, piuttosto, il dubbio se tenuta al pagamento fosse ugualmente la
società quale concessionaria della gestione della rete idrica, in qualità di
occupante di fatto del suolo pubblico di insistenza della rete idrica.
Esistono almeno tre orientamenti, comunque, che non consentono una chiara
individuazione del soggetto passivo obbligato al pagamento del tributo.
Primo orientamento...
Deve attribuirsi valore alla sussistenza di concessione o autorizzazione,
essendo rilevante l'occupazione di fatto soltanto quando sia constatato che
l'occupazione del suolo sia avvenuta in assenza di titolo abilitativo in via
di mero fatto e quindi abusivamente.
...secondo...
La Tosap deve essere pagata da chi occupa il suolo pubblico,
indipendentemente dell'esistenza della concessione o autorizzazione.
...e terzo
Tenuto al tributo è il soggetto titolare di concessione o autorizzazione
occupativa, salvo ammettere l'eventualità di una responsabilità solidale
anche in capo all'occupante di fatto. In realtà, la solidarietà passiva non
è prevista dall'articolo 39, mentre la regola generale stabilita
dall'articolo 1294 del codice civile presuppone una fattispecie co-debitoria
originaria.
In conclusione
La risoluzione della questione interpretativa è dirimente anche per le
implicazioni di sistema e le interferenze di principio in rapporto alle
caratteristiche di necessaria tassatività e determinatezza che la norma
impositiva deve necessariamente avere e che non può consentire di colpire
soggetti non precisamente ed espressamente individuati.
Per di più, casi come quelli che vedono, da parte di una medesima
infrastruttura l'occupazione di suolo o sottosuolo pubblico della società
proprietaria della rete, solitamente anche concessionaria, affidata alla
simultanea gestione di plurime società erogatrici-occupanti di fatto (come
trasporti, telecomunicazioni, energia) non è disciplinata né con riferimento
al quantum dovuto da ogni singolo operatore, né in ordine all'imputazione
soggettiva della Tosap.
Pertanto, vista la presenza di orientamenti tra loro opposti che coinvolgono
la tassatività e determinatezza della norma impositiva, sussistono i
presupposti per un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sull'esatta
interpretazione dell'articolo 39 Dlgs 507/1993 e, segnatamente,
sull'estensione della soggettività passiva Tosap, a seconda che l'occupante
di fatto di suolo pubblico possa essere chiamato a rispondere del tributo
anche in presenza, ovvero solo in mancanza, di un soggetto titolare di
concessione o autorizzazione all'occupazione, chiarendo, poi, se tale
responsabilità operi in via esclusiva, assorbente o solidale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019). |
APPALTI: Gare,
le omissioni retributive dei precedenti contratti legittimano l'esclusione.
Le accertate omissioni retributive costituiscono ragione sufficiente ai fini
dell’apprezzamento di inaffidabilità della concorrente integrando a tal fine
l’ipotesi prescritta dal comma 5, lett. a) dell’articolo 80 del Dlgs n. 50
del 2016.
Tanto è stato stabilito dalla Sez. V del Consiglio di Stato con la
sentenza
24.01.2019 n. 586.
Per il Supremo consesso amministrativo, infatti, l’elencazione dei gravi
illeciti contenuta nella richiamata norma a fini dell’esclusione dalle gare
d’appalto non è tassativa, ma esemplificativa, nel senso che la stazione
appaltante può ben desumere da altre circostanze, purché puntualmente
identificate, il compimento di gravi illeciti preclusivi della
partecipazione alle pubbliche gare.
I fatti di causa
In una gara avente ad oggetto il «servizio di gestione degli interventi di
accoglienza integrata» un concorrente veniva escluso per il venir meno del
requisito dell’affidabilità –in relazione al combinato disposto di cui
all’articolo 80, comma 5, lett. a), e comma 6, del Dlgs n. 50/2016– per
l’asserito inadempimento agli obblighi relativi ai rapporti di lavoro
nell’ambito del precedente rapporto contrattuale intercorso con la medesima
Amministrazione.
La legittimità del provvedimento di esclusione veniva confermata dal Giudice
amministrativo di prime cure con la sentenza che veniva dunque impugnata
innanzi al Consiglio di Stato.
L’iter logico seguito dal Consiglio di Stato
La conclusione cui è giunto il Consiglio di Stato si fonda sul seguente iter
logico argomentativo.
Nel caso sottoposto al vaglio del Giudice amministrativo, infatti,
l’Amministrazione ha condotto una sostanziale ed effettuale delibazione di
rilevanza e gravità dell’inadempimento, avendo puntualmente verificato,
prima di procedere alla esclusione, il numero dei dipendenti che non erano
stati retribuiti e delle mensilità arretrate, obiettivamente non esigue né
irrilevanti.
Detta attività è perfettamente speculare con la prescrizione normativa
contenuta nel comma 5, lett. a), dell’articolo 80 del Dlgs n. 50 del 2016 a
mente del quale «Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla
procedura d'appalto un operatore economico (…) nel caso in cui (…) la
stazione appaltante possa dimostrare con qualunque mezzo adeguato la
presenza di gravi infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di
salute e sicurezza sul lavoro nonché agli obblighi di cui all'articolo 30,
comma 3, del presente Codice» e legittima pertanto l’esclusione del
concorrente dalla gara.
Ma il buon operato della stazione appaltante, sempre ad avviso del Consiglio
di Stato, riposa altresì sulla circostanza, in forza della quale, le cause
di esclusione indicate nella norma contenuta nel comma 5 dell’articolo 80
non sarebbero tassative ma, al contrario, esemplificative
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.02.2019).
---------------
MASSIMA
5.- Le doglianze, così come articolate, non appaiono persuasive.
Vale, all’uopo, osservare:
a) che, per comune e consolidato intendimento, l’elencazione dei
gravi illeciti professionali contenuta nell’art. 80, comma 5, lett. c), del
Codice dei contratti a fini dell’esclusione dalle gare d’appalto non è
tassativa, ma esemplificativa (Cons. Stato, sez. V,
02.03.2018, n. 1299),
nel senso che la stazione appaltante può ben desumere da altre circostanze,
purché puntualmente identificate, il compimento di gravi illeciti
professionali;
b) che, per tal via, anche le accertate omissioni retributive
(avuto riguardo alla previsione di cui all’art. 30, comma 3 del Codice, che
rende doveroso il rispetto della normativa a tutela delle posizioni
lavorative) costituiscono (di là dal meccanismo di cui all’art. 30, comma 6,
privo di pertinenza, in quanto non riferito alle condizioni di ammissione
alla procedura evidenziale, operando in executivis a maggior tutela dei
lavoratori a fronte di ritardo nel pagamento delle spettanze
contrattualmente dovute) ragione sufficiente ai fini dell’apprezzamento di
inaffidabilità della concorrente;
c) che l’Amministrazione, a dispetto della apparenze, non si è, in
realtà, sottratta ad una sostanziale ed effettuale delibazione di rilevanza
e gravità dell’inadempimento, avendo puntualmente verificato, prima di
procedere alla esclusione, il numero dei dipendenti che non erano stati
retribuiti e delle mensilità arretrate, obiettivamente non esigue né
irrilevanti (al qual fine, con ogni evidenza, la circostanza che alcuni di
essi fossero, all’esito della espletata procedura, transitati alle
dipendenze della nuova aggiudicataria non può sortire rilievo, ai fini dello
strumentale apprezzamento di serietà, puntualità ed affidabilità
dell’impresa concorrente);
d) che alla determinazione espulsiva, ancorché assunta
successivamente all’aggiudicazione a terzi, non può annettersi la sostanza
di una risoluzione rimotiva, in autotutela, dei pregressi atti di gara (per
tal via legittimandosi l’auspicata applicazione della norma limitativa del
relativo potere ex art. 21-nonies l. n. 241/9909), essendo l’esclusione
sempre possibile (e dovuta, in presenza di presupposti) “in qualunque
momento della procedura”, id est fino alla stipula del contratto oggetto di
affidamento (arg. ex art. 80, comma 6 d.lgs. n. 50/2016).
Quanto, infine, al principio secondo cui l’Amministrazione non può, in
conseguenza dei suoi stessi ritardi nel pagamento dei corrispettivi posti a
suo carico in relazione a pendenti e pregresse vicende contrattuali, opporre
ai propri contraenti, quale ragione espulsiva, il mancato pagamento dei
dipendenti, vale osservare che, beninteso, il principio, già affermato da
questo Collegio, non merita di essere disatteso: nondimeno, nel caso di
specie, i ritardi in questione, ammesso che fossero effettivamente tali e
non fossero, in realtà, dovuti alla ordinaria tempistica contrattualmente
prefigurata, non risultavano -come che sia- idonei (trattandosi di pochi
mesi e, per giunta, difettando di appositi atti di impulso) a giustificare
il mancato pagamento delle retribuzioni, se del caso programmando l’uso
razionale delle proprie risorse economiche (che si deve pretendere da ogni
avveduto operatore economiche) e stante la facoltà di ricorso al credito
bancario per le eventuali e proporzionate anticipazioni.
6.- Per le esposte considerazioni, assorbenti di ogni altro rilievo,
l’appello va disatteso. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Assenteisti,
truffa aggravata anche se il danno è lieve.
È configurabile il reato di truffa aggravata per il dipendente che attesti
la sua presenza malgrado si sia allontanato dall'ufficio, anche se il danno
economico causato all'ente sia di per sé poco rilevante dal punto di vista
economico. Difatti, la condotta incide sull'organizzazione dell'ente stesso
e lede gravemente il rapporto fiduciario tra il singolo impiegato e il
datore di lavoro pubblico. In queste ipotesi può, eventualmente,
configurarsi l'attenuante della speciale tenuità del danno.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la
sentenza
23.01.2019 n. 3262.
Il caso
Al centro della vicenda c'è l'ennesimo caso di furbetti del cartellino.
Questa volta il protagonista è un solo dipendente pubblico, indagato per
truffa aggravata perché quasi quotidianamente, aggirando il sistema di
rilevazione dell'orario di presenza, decurtava minuti dalle sue giornate
lavorative. Per questo motivo il Gip aveva disposto la misura interdittiva
della sospensione dall'esercizio dei pubblici uffici per la durata di due
mesi.
Il dipendente pubblico però ha impugnato la decisione ottenendo dal
tribunale del riesame la revoca della misura. Per quest'ultimo, infatti, il
raggiro contestato era sì quasi quotidiano, ma di fatto inconsistente perché
avrebbe prodotto nel complesso assenze di pochi minuti quantificabili in
termini retributivi in poco più di 50 euro, traducendosi perciò in un danno
poco apprezzabile per la pubblica amministrazione.
La decisione
La Cassazione, con una sentenza concisa e ben argomentata, boccia totalmente
la decisione del riesame. Il Tribunale, infatti, ha escluso la
configurabilità della truffa valorizzando elementi che, al più, evidenziano
la sua non particolare gravità ma non ne impediscono la configurabilità. La
Corte ricorda che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa
alla sua presenza in ufficio, in qualunque modo essa avvenga, integra il
reato di truffa aggravata, sempre che i periodi di assenza siano
economicamente apprezzabili.
In quest'ottica, anche una indebita percezione
di poche centinaia di euro costituisce un danno economicamente apprezzabile
per il datore di lavoro pubblico, potendo l'esiguità della somma integrare
l'attenuante della speciale tenuità (articolo 62, comma 4, codice penale)
non certo impedire la configurabilità del reato previsto dall'articolo 640,
comma 2, n. 1, del codice penale.
Il Collegio rincara poi la dose affermando che per valutare l'entità del
danno non basta avere riguardo alla perdita economica ma assume rilievo
anche l'incidenza della condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente
pubblico, il quale potrebbe aver subito un pregiudizio rilevante per effetto
delle pur minime assenze, non tanto sotto un profilo quantitativo, ma sul
piano dell'efficienza degli uffici.
Per i giudici di legittimità, infatti, le singole assenze incidono
sull'organizzazione dell'ufficio «alterando la preordinata dislocazione
delle risorse umane» e «modificando arbitrariamente le prestabilite modalità
di prestazione della propria opera».
In sostanza, chiosa il Collegio, lo svolgimento della quotidiana attività
amministrativa è «messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei
dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza
in ufficio» e che forniscono una «prestazione diversa da quella
doverosa»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019).
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MASSIMA
2. Ciò premesso, come osservato dal P.M. ricorrente, il Tribunale ha
erroneamente escluso la configurabilità della contestata truffa,
valorizzando elementi atti ad evidenziarne la non particolare gravità, ma
che non ne impedivano la configurabilità.
2.1. Questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rv.
258987 - 01) ha già osservato che la falsa attestazione del
pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui
cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa
aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili, osservando che
anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente
alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione
lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per
l'amministrazione pubblica.
2.2. L'affermazione può essere condivisa, ma con la
precisazione che la speciale tenuità del danno arrecato alla PA potrebbe al
più legittimare il riconoscimento della circostanza attenuante di cui
all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p. (tenuto anche conto dell'entità del
profitto percepito), non certo impedire la configurabilità del reato.
2.3. Questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 30177 del 04/06/2013, Rv. 256643) ha
già chiarito che, anche ai fini della configurabilità della
circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, rilevano,
oltre al valore economico del danno, anche gli ulteriori effetti
pregiudizievoli cagionati alla persona offesa dalla condotta delittuosa
complessivamente valutata (fattispecie relativa ad una truffa commessa in
danno di Poste Italiane S.p.A. attraverso l'utilizzo abusivo dei cartellini
di ingresso e la conseguente alterazione dei dati sulle presenze in ufficio,
in cui è stata esclusa l'attenuante, richiamando la grave lesione del
rapporto fiduciario determinata dalla condotta delittuosa).
2.4. Osserva, in proposito, il collegio che assume all'uopo
rilievo anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa
sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito
pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus,
poiché esse (ed il danno che ne consegue a carico della PA interessata)
vanno valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al
quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor,
ma anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole
assenze incidono, infatti, sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la
preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo
funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite
modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di
presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici è,
infatti, predisposta dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e
razionale impiego delle risorse disponibili, al fine di assicurare la
proficuità (anche in favore dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana
attività amministrativa, certamente messa a repentaglio dalle personali
iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti
orari di presenza in ufficio (con il rischio di creare nocive scoperture ed
inutili accavallamenti, e comunque fornendo una prestazione diversa da
quella doverosa, non soltanto per durata, ma anche quanto all'orario di
inizio e di fine).
3. Il provvedimento impugnato va, pertanto, annullato, con rinvio per nuovo
esame al Tribunale di Reggio Calabria (Sezione per il riesame delle misure
coercitive), che valuterà nuovamente gli elementi acquisiti, uniformandosi
al seguente principio di diritto: «la falsa attestazione
del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui
cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa
aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
che rilevano di per sé -anche a prescindere dal danno economico cagionato
all'ente truffato fornendo una prestazione nel complesso inferiore a quella
dovuta- in quanto incidono sull'organizzazione dell'ente stesso, modificando
arbitrariamente gli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e ledono
gravemente il rapporto fiduciario che deve legare il singolo impiegato
all'ente; di tali ultimi elementi è necessario tenere conto anche ai fini
della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui
all'art. 62, comma 1, n. 4 c.p.». |
APPALTI: Rotazione
obbligatoria anche nelle gare riservate alle coop sociali.
Il principio di rotazione si applica anche alle procedure di gara riservate
alle cooperative sociali in quanto deve ritenersi implicitamente richiamato
nell'articolo 30, comma 1, del codice dei contratti nel punto in cui fa
riferimento al principio di libera concorrenza di cui costituisce
espressione.
Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza
17.01.2019 n. 435.
Il caso
Una cooperativa sociale ha impugnato gli atti di una gara telematica sotto
soglia riservata alle cooperative sociali per l'affidamento del servizio di
pulizia degli immobili comunali, alla quale si era classificata seconda,
lamentando l'illegittimità dell'ammissione della prima classificata
ritenendola violativa del principio di rotazione. Ricorso accolto dal Tar,
essendosi la stazione appaltante autovincolata alla conduzione della
procedura secondo le regole ordinarie di cui all'articolo 36, comma 2, del
Codice dei contratti, che richiama il rispetto del principio di rotazione.
Il Comune ha proposto appello deducendo la violazione dei principi
comunitari e costituzionali di libera concorrenza, parità di trattamento,
non discriminazione, libera iniziativa economica e il contrasto con
l'articolo 5 della legge 381/1991 che consente la deroga alle regole
ordinarie per le cooperative sociali e non menziona il principio di
rotazione. Principio che, non essendo incluso tra quelli generali di cui
all'articolo 30 del codice né contemplato dal diritto comunitario, non
potrebbe essere applicato se non espressamente richiamato.
Il principio di rotazione
Per la quinta sezione del Consiglio di Stato l'appello è infondato alla luce
dell'articolo 36 del codice, che espressamente esige, per i contratti sotto
soglia, il rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli
affidamenti, in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione
delle microimprese, piccole e medie imprese. Il principio di rotazione trova
infatti fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di
posizione in capo al gestore uscente, la cui posizione di vantaggio deriva
dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento, soprattutto
nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Pertanto, la rotazione comporta che l'invito all'affidatario uscente riveste
carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo
al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di
soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale
ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento. Questo
comporta per il concorrente la possibilità di impugnare il provvedimento di
ammissione del gestore uscente, «che concreta a suo danno –affermano i
giudici– in via immediata e diretta, la paralisi di quell'ampliamento delle
possibilità concrete di aggiudicazione che il principio di rotazione mira ad
assicurare».
La deroga per le cooperative sociali
Relativamente all'articolo 5 della legge 381/1991 che rende possibile per
gli enti pubblici la stipula, previa procedura selettiva, di convenzioni con
le cooperative per la fornitura di alcuni beni e servizi finalizzate a
creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate, i giudici di
Palazzo Spada hanno evidenziato che la norma facoltizza ma non impone la
stipula delle convenzioni in deroga alla disciplina in materia di contratti
pubblici.
In più, nel caso di specie l'amministrazione, nel regolare la procedura, non
si è avvalsa della deroga prevista dall’articolo 5 nel momento in cui ha
rinviato all'articolo 36, comma 2, del codice che appunto prevede
l'applicazione del principio di rotazione. Né nell'articolo 5 è rinvenibile
una qualche facoltà di deroga al principio medesimo, perché costituisce uno
dei capisaldi del principio di non discriminazione.
La prova del vantaggio
C'è un ulteriore aspetto interessante nella sentenza che è quello relativo
al fatto che, essendo il principio di rotazione finalizzato a evitare che la
gara possa essere falsata dalla partecipazione di un soggetto che vanta
conoscenze acquisite durante il precedente affidamento, l'esclusione di
quest'ultimo «non richiede alcuna prova della posizione di vantaggio da
questi goduta, che è presupposta direttamente dalla legge».
A meno che l'amministrazione motivi in ordine alla ricorrenza di specifiche
ragioni a sostegno della determinazione di invitarlo comunque a partecipare
alla gara. Regola a cui non può opporsi l'ampiezza della platea dei
candidati invitati, in quanto in tema di deroga al principio di rotazione
rileva solo il numero eventualmente ridotto di operatori presenti sul
mercato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019). |
APPALTI: Mancata
rotazione: si può contestare già impugnando il provvedimento di ammissione
dei concorrenti.
La violazione del principio di rotazione può essere fatta valere già contro
il provvedimento di ammissione dei concorrenti alla gara –che non può
essere considerato un mero atto endoprocedimentale- senza che sia
necessario attendere il provvedimento definitivo di aggiudicazione.
È la conclusione del Consiglio di Stato, Sez. V, espressa con la
sentenza
17.01.2019 n. 435.
La querelle sulla rotazione
Nel caso trattato dal giudice di Palazzo Spada, un Comune è insorto contro
la sentenza di primo grado (Tar Lombardia, sezione II, n. 354/2018) di
annullamento dei propri atti di gara (per il servizio di pulizia di immobili
comunali) per violazione del criterio della rotazione (articolo 36 del
codice dei contratti).
L'appalto risultava aggiudicato a una cooperativa di tipo B (interamente
riservato secondo l'articolo 1, lettera b), della legge 08.11.1991 n.
381). La stazione appaltante ha cercato di rilevare una pretesa
incompatibilità del criterio della rotazione rispetto ai «principi del
trattato dell'Unione europea, dell'art. 41 Costituzione, dell'art. 5 della
l. 08.11.1991, n. 381 e per inosservanza delle Linee guida Anac nn.
4/2016 e 32/2016».
Il preteso contrasto veniva fondato, in particolare, sul fatto che la
finalità specifica e particolare dell'appalto «consistente nel reinserimento
lavorativo di soggetti svantaggiati» avrebbe consentito la deroga alle
regole ordinarie dettate dal codice dei contratti per gli appalti sotto
soglia. Il principio, sempre secondo il ricorrente, «non essendo incluso tra
quelli generali di cui all'art. 30 del d.lgs. 50/2016 né contemplato dal
diritto comunitario, non potrebbe essere applicato se non espressamente
richiamato».
Ulteriore aspetto, di particolare rilievo, è la richiesta di ritenere
inammissibile il ricorso dell'appaltatore considerato che lo stesso ha
riguardato non l'aggiudicazione dell'appalto ma l'atto –ritenuto endoprocedimentale- di ammissione dei concorrenti in gara.
La sentenza
Il giudice ha ritenuto non fondato il ricorso sia per l'errata
considerazione sulla intensità della rotazione sia in relazione alla
configurazione del provvedimento di ammissione dei concorrenti come mero
atto endoprocedimentale (non impugnabile).
In relazione alla rotazione, il giudice ha rammentato che il criterio
dell'alternanza, negli appalti sotto soglia comunitaria, deve essere
applicato dal responsabile unico del procedimento fin dalla fase degli
inviti. Pertanto, laddove si lamenti la mancata applicazione del principio
di rotazione, «il concorrente può ricorrere già avverso il provvedimento di
ammissione del gestore uscente, che concreta a suo danno, in via immediata e
diretta, la paralisi di quell'ampliamento delle possibilità concrete di
aggiudicazione che il principio di rotazione mira ad assicurare».
Se si opinasse diversamente, prosegue la sentenza «ovvero se non vi fosse la
possibilità di ricorrere avverso il provvedimento di ammissione del gestore
uscente», la previsione contenuta nell'articolo 36, comma 1, del codice dei
contratti per cui il principio di rotazione opera già nella fase degli
inviti sarebbe priva di ratio.
La tutela connessa al principio di rotazione negli affidamenti sotto soglia,
infatti, è quella di evitare «che la gara possa essere falsata, a danno
degli altri partecipanti», dalla partecipazione di un soggetto che vanta
conoscenze acquisite durante il precedente affidamento. Pertanto, la
decisione eventuale del reinvito del precedente gestore avrebbe dovuto
essere supportata da idonea motivazione non esigendo, il ricorso, alcuna
dimostrazione della posizione di vantaggio del precedente appaltatore «che è
presupposta direttamente dalla legge».
Né si può ritenere che il vincolo della rotazione nasca solo nel caso in cui
la legge di gara lo richiami espressamente considerato che in tema già
dispone il codice dei contratti così come non è apparsa condivisibile la
pretesa affermazione secondo cui l'affidamento riservato a cooperative
sociali di tipo b, secondo l'articolo 5 della legge 381/1991, introdurrebbe
una deroga alla applicazione il principio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.01.2019).
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MASSIMA
1. L’atto di appello in esame è infondato.
2. Con il primo motivo di appello sostiene il Comune di Viadana che la
sentenza appellata avrebbe errato ritenendo l’ammissibilità del ricorso di
primo grado sulla base dell’art. 120, comma 2-bis, del Codice del processo
amministrativo, non vertendosi nelle fattispecie per le quali la
disposizione prevede l’immediata impugnazione (“esclusioni dalla procedura
di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei
requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali”): ogni
questione relativa all’ammissione alla gara per cui è causa della
Cooperativa Sociale L’In. Onlus avrebbe indi dovuto essere proposta,
secondo le regole ordinarie, in sede di impugnazione dell’aggiudicazione,
mentre il ricorso è stato rivolto avverso l’atto meramente
endoprocedimentale costituito dalla comunicazione relativa agli esiti dei
lavori e delle valutazioni della commissione giudicatrice, avverso cui non
vi è interesse a ricorrere, vieppiù considerato che l’atto rappresentava che
l’offerta della controinteressata sarebbe stata sottoposta a verifica di
congruità.
2.1. Il motivo va respinto.
L’odierna appellante ha impugnato il provvedimento n. 749 del 28.11.2017 di ammissione della controinteressata alla procedura di affidamento
c.d. “sotto soglia” di cui in fatto, contenuto in un provvedimento titolato
“ammissione concorrenti”, sostenendo che la medesima avrebbe dovuto essere
esclusa dalla gara in forza dell’applicazione del principio di rotazione.
L’art. 36 del d.lgs. 18.04.2018 n. 50, “Contratti sotto soglia”,
stabilisce al comma 1 che “L’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e
forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono
nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché
del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e
in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle
microimprese, piccole e medie imprese”.
Negli affidamenti “sotto soglia” il principio, per espressa disposizione di
legge, opera quindi già in occasione degli inviti.
In tema, questo Consiglio di Stato ha affermato che “Il principio di
rotazione -che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni
appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da
consultare e da invitare a presentare le offerte- trova fondamento nella
esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al
gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle
informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei
mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato. Pertanto,
al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel
tempo che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese, e di favorire
la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli
operatori potenzialmente idonei, il principio di rotazione comporta in linea
generale che l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale
e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di
operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a
conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle
caratteristiche del mercato di riferimento”, con la conseguenza che “La
regola della rotazione degli inviti e degli affidamenti -il cui fondamento,
come si è visto, è quello di evitare la cristallizzazione di relazioni
esclusive tra la stazione appaltante ed il precedente gestore- amplia le
possibilità concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti, anche
(e a maggior ragione) quelli già invitati alla gara, i quali sono lesi in
via immediata e diretta dalla sua violazione” (Cons. Stato, VI, 31.08.2017, n. 4125).
Laddove si lamenti la mancata applicazione del principio di rotazione, il
concorrente può indi ricorrere già avverso il provvedimento di ammissione
del gestore uscente, che concreta a suo danno, in via immediata e diretta,
la paralisi di quell’ampliamento delle possibilità concrete di
aggiudicazione che il principio di rotazione mira ad assicurare.
Diversamente opinando, ovvero se non vi fosse la possibilità di ricorrere
avverso il provvedimento di ammissione del gestore uscente, la
specificazione operata dall’art. 36, comma 1, del Codice dei contratti
pubblici che il principio di rotazione opera già nella fase degli inviti
sarebbe priva di ratio.
In tal senso, pertanto, non può essere posto in dubbio il collegamento con
l’impugnazione immediata delle ammissioni disciplinata dall’art. 120, comma
2-bis, del Codice del processo amministrativo, rinvenuto dalla sentenza
appellata.
Questa Sezione ha già messo in luce tale collegamento, rammentando che,
per
la giurisprudenza amministrativa, il principio di rotazione determina
l’obbligo per le stazioni appaltanti, al fine di evitare il consolidamento
di rendite di posizione in capo al gestore uscente, di non invitarlo nelle
gare di lavori, servizi e forniture degli appalti “sotto soglia”, ovvero, in
alternativa, di invitarlo previa puntuale motivazione in ordine alle
relative ragioni (Cons. Stato, V, 13.12.2017, n. 5854; VI, n. 4125 del
2017, cit.), e riconoscendo, per l’effetto, la ritualità dell’immediata
impugnazione dell’ammissione del concorrente per violazione del principio di
rotazione, verificandosi “la condizione prevista dall’art. 120, comma 2-bis,
c.p.a., il quale individua nella data di pubblicazione dell’atto di
ammissione, ex art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, il dies a quo di
proposizione del ricorso, o comunque nel giorno in cui l’atto stesso è reso
in concreto disponibile, secondo la nuova formulazione dell’art. 29, comma
1, d.lgs. n. 50/2016, introdotta dall’art. 19 d.lgs. n. 56/2017” (Cons.
Stato, V, sentenza breve 03.04.2018 n. 2079).
3. Con altro motivo l’appellante sostiene che la sentenza appellata non
avrebbe fatto buon governo dei principi comunitari e costituzionali di
libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, libera
iniziativa economica, né della previsione di cui all’art. 5 della l. 08.11.1991 n. 381, ai sensi del quale è stata espletata la procedura per
cui è causa, che, tenuto conto della particolare finalità di carattere
sociale dell’affidamento, consente la deroga alle regole ordinarie dettate
dal Codice dei contratti per gli appalti c.d. “sotto soglia” e non menziona
il principio di rotazione.
A sostegno dell’assunto, l’appellante evidenzia
che il principio di rotazione non è incluso tra quelli generali richiamati
dall’art. 30 del d.lgs. 50/2016 né contemplato dal diritto comunitario, con
la conseguenza che esso non potrebbe essere applicato laddove non
espressamente richiamato. Infine, afferma che la procedura negoziata in
parola, improntata al pieno rispetto dei principi di cui al predetto art. 5,
nell’invitare alla procedura tutti gli operatori che hanno chiesto di
parteciparvi, tra cui il gestore uscente, si sarebbe attenuta a principi di
non discriminazione e di garanzia di uguaglianza di informazioni e di
opportunità di aggiudicazione.
3.1. Le predette argomentazioni, tutte volte a concludere che
nell’affidamento in esame, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 381 del 1991,
non trova applicazione il principio di rotazione, non possono essere
condivise.
Per quanto qui di interesse, la l. 381 del 1981, recante “Disciplina delle
cooperative sociali”, all’art. 5 stabilisce che “Gli enti pubblici, compresi
quelli economici, e le società di capitali a partecipazione pubblica, anche
in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica
amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative che
svolgono le attività di cui all'articolo 1, comma 1, lettera b), ovvero con
analoghi organismi aventi sede negli altri Stati membri della Comunità
europea, per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari
ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli
importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti
pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di
lavoro per le persone svantaggiate di cui all'articolo 4, comma 1. Le
convenzioni di cui al presente comma sono stipulate previo svolgimento di
procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei princìpi di
trasparenza, di non discriminazione e di efficienza”.
Dunque la norma facoltizza, e non impone, per la stipula delle convenzioni
in parola, la deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica
amministrazione,
Sulla base di questo presupposto, fatto palese dalla lettera della legge, la
sentenza appellata ha concluso per l’applicabilità alla procedura in esame
del principio di rotazione in forza di due elementi.
Il primo, di carattere dirimente, è fondato sull’accertamento della
circostanza che l’Amministrazione, nel regolare la procedura di affidamento
in esame, non si è avvalsa, come pure avrebbe potuto fare, della possibilità
di deroga prevista dal citato art. 5, come testimoniato dall’espresso
richiamo da parte della lex specialis dell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 50
del 2016, prevedente, appunto, l’applicazione del principio di rotazione.
Il secondo, che assume nell’andamento argomentativo della sentenza un
carattere incidentale, è la non rinvenibilità nell’art. 5 della l. n. 381
del 1991 della facoltà di deroga al principio di rotazione, perché
costituente uno dei precipitati del principio di non discriminazione
richiamato all’ultimo periodo del comma 1.
Il primo elemento è oggetto del successivo motivo di appello, il quale, per
le ragioni di seguito espresse, non merita accoglimento.
Il secondo elemento costituisce invece oggetto di critica nel motivo in
esame.
Ne deriva che, poiché quest’ultimo assume, come detto, carattere
incidentale, anche l’eventuale accoglimento del motivo in parola non sarebbe
idoneo a determinare la riforma della sentenza appellata. In altre parole,
anche laddove dovesse convenirsi con la conclusione, cui tende l’intero
motivo, che il principio di rotazione non potrebbe essere applicato se non
espressamente richiamato dalle disposizioni cui la procedura di affidamento
si riferisce, dovrebbe pur sempre riconoscersi che di un siffatto approdo
non può giovarsi il Comune appellante, che ha improntato la procedura per
cui è causa alla previsione di cui all’art. 36, comma 2, del Codice dei
contratti, che richiama il principio di rotazione.
Basti pertanto rilevare, per respingere il motivo, che l’affermazione della
sentenza appellata secondo cui il principio di rotazione costituisce uno dei
precipitati del principio di non discriminazione richiamato all’ultimo
periodo del citato comma 1 della l. n. 281 del 1991 trova eco nella
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato.
E’ stato infatti affermato che “anche nell’art. 30, 1 comma, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il principio della rotazione deve ritenersi
implicitamente richiamato, attraverso il riferimento più generale al
principio di libera concorrenza di cui il criterio in esame costituisce
espressione” (Cons. Stato, VI, n. 4125 del 2017, cit.; nello stesso senso,
V, n. 2079/2018, cit.), principio nell’ambito del quale si pone
decisivamente il canone della non discriminazione richiamato dal ridetto
art. 5 della l. 381/1991.
4. Con
altro motivo il Comune di Viadana sostiene l’erroneità della sentenza
appellata in quanto la gara sarebbe stata svolta ai sensi dell’art. 5 della
l. 381/1991, in deroga alla disciplina generale in tema di contratti pubblici,
mentre l’art. 36, comma 1, del d.lgs. 50/2016, che sancisce il principio di
rotazione degli inviti e degli affidamenti, non sarebbe mai stato richiamato
nei relativi atti e vieppiù introdotto successivamente alla pubblicazione
dell’avviso di manifestazione di interesse. Sostiene ancora l’appellante la
valenza non decisiva del richiamo da parte dell’atto di indizione della gara
dell’art. 36, comma 2, lett. b), in quanto volto esclusivamente
all’indicazione della tipologia della procedura prescelta (negoziata e non
ordinaria) e pertanto non implicante l’applicazione del criterio di
rotazione.
Il motivo deve essere respinto, in forza degli elementi di seguito esposti.
La gara è stata indetta con determinazione dirigenziale n. 680 del 06.11.2017.
Tale determinazione ha richiamato, tra altro, sia nel preambolo che nella
conseguente determina l’art. 5 della l. 381 del 1991 e l’art. 36, comma 2, del
Codice dei contratti pubblici.
Tale secondo richiamo non è stato corredato dall’indicazione di una delle
lettere di cui si compone il comma 2. L’indicazione della lett. b) del comma
2 si rinviene invece all’interno dell’avviso di procedura negoziata.
Nell’atto di indizione della gara e nell’allegata lettera invito-disciplinare non vi è alcuna rappresentazione dell’intendimento
dell’Amministrazione di derogare alle norme del Codice dei contratti
pubblici ai sensi dell’art. 5 della l. n. 381 del 1991. E’ detto
esclusivamente, con intento chiaramente descrittivo della disposizione, che
l’art. 5 della l. 381 del 1991 consente la deroga al Codice.
Nel descritto contesto, deve escludersi che il mero richiamo al predetto
art. 5 possa avere la valenza derogatoria invocata dal Comune di Viadana,
ciò che avrebbe necessitato la chiara esplicitazione della relativa
determinazione e delle sottostanti motivazioni.
Ne consegue che lo stesso richiamo ha unicamente l’effetto di precisare la
peculiare tipologia di selezione cui è preordinata la procedura, con
esclusione della possibilità che tale precisazione possa influire
sull’individuazione del meccanismo selettivo, che è stato inequivocamente
ricondotto al comma 2 dell’art. 36 del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre, il soddisfacimento della necessità di indicare il carattere
negoziato della procedura risulta compiutamente realizzato dal riferimento,
pure recato dal bando, alla “procedura telematica negoziata ai sensi
dell’art. 3, co. 1, lett. uuu) … del d.lgs. 50/2016”.
Alla luce di tutto quanto sopra, ben ha fatto la sentenza appellata a
escludere che l’Amministrazione abbia manifestato l’intendimento di voler
derogare alle previsioni di cui all’art. 36 del Codice e a incentrare la
decisione del ricorso sulla disposizione del comma 2 dell’art. 36, restando
indifferente che nella motivazione del punto sia stata riportata per esteso
la relativa lettera c) anziché la lettera b), atteso che ambedue le
previsioni richiamano il principio di rotazione: va ribadito, pertanto, in
uno alla sentenza gravata, che il Comune si è autovincolato all’applicazione
nella gara in esame del principio in parola, richiamato per il tramite di
una delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici che espressamente
lo contempla.
Né l’insorgenza di tale autovincolo richiedeva, come sembra ritenere
l’Amministrazione appellante, il richiamo specifico del comma 1 dell’art.
36, che sancisce in via generale che gli affidamenti “sotto soglia” sono
retti anche dal principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti,
atteso che, come visto, lo stesso principio di rotazione è richiamato anche
nel comma 2 indicato dal bando.
Inoltre, per la giurisprudenza, per le gare di lavori, servizi e forniture
negli appalti “sotto soglia” è indubbia l’obbligatorietà del principio di
rotazione (Cons. Stato, VI, n. 4125 del 2017, cit.; V, n. 5854 del 2017, cit.).
La chiara impostazione impressa, nei sensi appena esposti, alla disciplina
della procedura, quale diretta conseguenza dell’applicazione della ivi
richiamata normativa legale di riferimento, rende poi irrilevante ogni
questione, pure introdotta dall’appellante, in ordine all’individuazione di
quale sia la precipua funzione del criterio di rotazione e del suo ambito
applicativo come delineato dall’ ANAC.
5. Va respinto anche l’ultimo motivo di appello.
La precipua tutela connessa al principio di rotazione negli affidamenti
“sotto soglia” è quella, anticipata, mirante all’obiettivo di evitare che la
gara possa essere falsata, a danno degli altri partecipanti, dalla
partecipazione di un soggetto che vanta conoscenze acquisite durante il
pregresso affidamento. Ne deriva che, contrariamente a quanto ritenuto nel
motivo, l’esclusione del gestore uscente, ove l’Amministrazione, come nel
caso di specie, non abbia motivato in ordine alla ricorrenza di specifiche
ragioni a sostegno della determinazione di invitarlo comunque a partecipare
alla gara, non richiede alcuna prova della posizione di vantaggio da questi
goduta, che è presupposta direttamente dalla legge.
Né vale opporre, come fa il Comune, l’ampiezza della platea dei candidati
cui è stato trasmesso l’invito a seguito della manifestazione di interesse
espressa in esito all’avviso pubblicato dall’Amministrazione, o il documento
con cui il RUP ha espressamente richiesto alla Centrale di committenza di
ammettere tutti i candidati, ivi compreso il gestore uscente, che avessero
chiesto di partecipare alla gara, e, più in generale, la circostanza che
l’Amministrazione non si sia avvalsa della potestà di operare limitazioni al
numero di operatori tra cui effettuare la selezione.
Difatti, anche in disparte l’evidente rilievo che la motivazione richiesta
per derogare al principio di rotazione si incentra non su tutti i
concorrenti, ma solo sul gestore uscente, e gli elementi di cui sopra non
attengono a tale ambito, la sola considerazione dell’ampiezza della platea
dei concorrenti non comporta la mancata applicazione del principio di
rotazione, essendo, piuttosto e di contro, il numero eventualmente ridotto
di operatori presenti sul mercato a rilevare in tema di deroga al principio
(Cons. Stato, V, 13.12.2017, n. 5854).
Deve ancora aggiungersi che la posizione del gestore uscente non può essere
equiparata, quanto all’applicazione del principio di rotazione a esso
specificamente rivolto, a quella di una impresa, quale l’appellata, che
abbia, nel tempo, svolto lo stesso servizio, come evocato dal Comune.
6. Per tutto quanto precede l’appello in esame va respinto. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dirigenti,
niente compenso extra per gli incarichi in più.
Gli incarichi aggiuntivi che comportano la reggenza ad interim di altre
unità organizzative diverse da quella di cui il dirigente è titolare non
implicano la duplicazione della retribuzione, trattandosi di funzioni
rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di
funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica
previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso
aggiuntivo.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
15.01.2019 n. 836 .
Il caso
Il caso riguarda il dirigente di una Asl il quale aveva chiesto in sede
giudiziale il riconoscimento, in aggiunta al trattamento retributivo
percepito, dell'indennità di posizione e di risultato per il periodo in cui
aveva ricoperto altri incarichi dirigenziali in aggiunta a quello di cui era
titolare. Richiesta accolta dal Tribunale, secondo cui l’attività non
rientra nei compiti e nelle funzioni proprie del dirigente.
L'appello proposto dall'Asl, che ha invocato l'applicazione del principio di
onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti, è stato rigettato dalla
Corte d'appello, la quale ha a sua volta ritenuto che l'attività svolta dal
dirigente non rientrava tra i compiti istituzionali strettamente connessi
all'incarico conferito, per cui non avrebbe potuto trovare applicazione il
principio di onnicomprensività.
L'onnicomprensività
Di tutt'altro avviso la Corte di cassazione, chiamata in causa dalla Asl
secondo cui il contratto ha definito la struttura della retribuzione
prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la retribuzione di
posizione e di risultato, per cui anche in relazione al conferimento di
incarichi ad interim deve valere il principio di onnicomprensività.
La Suprema Corte ha richiamato il principio ormai consolidato secondo cui
nel pubblico impiego privatizzato vige il principio di onnicomprensività
della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento
economico remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti
secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico
conferito dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della
stessa.
Nel caso specifico, anche se la reggenza ad interim comportasse
contemporaneamente l'assunzione di responsabilità di due distinte unità
operative, secondo i giudici della Cassazione non può spettare la
duplicazione della retribuzione, trattandosi sempre di funzioni rientranti
nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse
ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che
attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
La posizione dell'Aran
Più aperta la posizione dall'Aran, espressa più volte in sede di
orientamenti applicativi dei contratti della dirigenza. L'Agenzia sostiene
che è da escludere radicalmente che a un dirigente possano essere erogate
due o più retribuzioni di posizione. Tuttavia, sfruttando le clausole
contrattuali che impongono di utilizzare integralmente le risorse destinate
al finanziamento della retribuzione di posizione e destinare quelle
eventualmente residue per la retribuzione di risultato, l'Agenzia ritiene
che sia possibile utilizzare tali risorse per valorizzare il risultato dei
dirigenti incaricati ad interim in modo da tenere conto anche delle
responsabilità connesse alla gravosità della situazione determinatasi per
effetto dell'affidamento di più incarichi contemporaneamente.
La valorizzazione deve essere realizzata tenendo conto dei criteri di
determinazione del valore della retribuzione di risultato adottati dai
singoli enti che tengano conto anche del “peso” dell'incarico ad interim e
del maggiore impegno che complessivamente grava sul dirigente per effetto
del doppio incarico.
La retribuzione di risultato erogata al dirigente dovrà
dunque tenere conto della valutazione complessiva dei risultati conseguiti
dallo stesso nell'espletamento degli incarichi conferiti, secondo le
modalità stabilite dal sistema di valutazione adottato, escludendo che si
possa operare un semplice riproporzionamento del maggiore importo della
retribuzione di risultato stabilito in relazione alla durata temporale
dell'incarico ad interim
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.02.2019).
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MASSIMA
1. Con unico motivo di ricorso la Asl denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 2, terzo comma, e 24, terzo comma, e dell'art. 58
d.lgs. 165/2001 in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. per erronea
applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici.
Sostiene che la pronuncia impugnata si pone in contrasto con l'indirizzo
consolidato sia della giurisprudenza ordinaria che di quella contabile, che
proprio nella specifica materia si è più volte pronunciata in relazione al
profilo del danno erariale conseguente all'illegittima duplicazione della
retribuzione di posizione in favore del dirigente.
In particolare, la contrattazione collettiva dirigenziale del comparto
sanità ha definito la struttura della retribuzione prevedendo, oltre allo
stipendio tabellare, solo la retribuzione di posizione e di risultato, per
cui anche in relazione al conferimento di incarichi ad interim vige il
principio di onnicomprensività. In ogni caso, poi, gli incarichi di
dirigenza ad interim affidati al dott. Sa. mai potrebbero ritenersi
incarichi extraistituzionali, ai sensi e per gli effetti dell'art. 58 d.lgs.
165 del 2001.
2. Il ricorso merita accoglimento.
3. In via generale, va osservato che la giurisprudenza di legittimità
formatasi negli ultimi anni ha affermato il principio -da ritenere ormai
consolidato- secondo cui nel pubblico impiego privatizzato vige il principio
di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale
il trattamento economico dei dirigenti remunera tutte le funzioni e i
compiti loro attribuiti secondo il contratto individuale o collettivo,
nonché qualsiasi incarico conferito dall'amministrazione di appartenenza o
su designazione della stessa. Così è stato ritenuto che
il dirigente
ministeriale, cui sia stato conferito un incarico aggiuntivo di reggenza
presso un altro ufficio pubblico, non ha diritto ad una maggiore
remunerazione, né, in caso di conferimento illegittimo di tale incarico, può
trovare applicazione l'art. 2126 cod. civ., riferibile alle ipotesi in cui
la prestazione lavorativa sia eseguita in assenza di titolo per la nullità
del rapporto di lavoro e non a quelle in cui i compiti attribuiti, sia pure
sulla base di determinazioni amministrative illegittime, siano comunque
riconducibili alla qualifica posseduta (Cass. n. 3094 del 2018).
3.1. Specificamente, quanto alla dirigenza medica, è stato chiarito che il
principio dì onnicomprensività della retribuzione, affermato dagli artt. 24,
comma 3, e 27, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché dall'art. 60,
comma 3, del c.c.n.l. comparto dirigenza sanitaria dell'08.06.2000, opera
inderogabilmente in tutti i casi in cui l'attività svolta sia riconducibile
a funzioni e poteri connessi all'ufficio ricoperto, ed a mansioni cui il
dirigente è obbligato rientrando nei normali compiti di servizio, salvi i
soli incarichi retribuiti a titolo professionale dall'Amministrazione sulla
base di una norma espressa che gliene attribuisca il potere, sempre che ciò
non costituisca comunque espletamento di compiti di istituto (Cass. n. 8261
del 2017).
4. Poiché nel caso in esame è pacifico che gli incarichi aggiuntivi
concernevano la reggenza ad interim di altre unità operative diverse da
quella di cui il Santoro era titolare, ancorché ciò comportasse
contemporaneamente l'assunzione di (responsabilità di due distinte unità
operative, non può 'spettare la duplicazione della retribuzione, trattandosi
sempre di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente
pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una
precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda
un compenso aggiuntivo.
5. Il ricorso va dunque accolto e la sentenza va cassata. |
APPALTI: Solidarietà,
onere alleggerito. Lavoratore esonerato dal provare l'entità di singoli
crediti. La Cassazione in tema di omessa retribuzione dalla ditta
appaltatrice o subappaltatrice.
Il lavoratore è esonerato dall'onere di provare
l'entità dei debiti gravanti, rispettivamente, su committente, appaltatore e
subappaltatore, in base al principio di solidarietà, sancito dal decreto
legislativo n. 276 del 2003, che garantisce al lavoratore il pagamento dei
trattamenti retributivi in relazione all'appalto nell'ambito del quale ha
prestato la propria attività.
A statuire tale principio è stata la
sentenza 15.01.2019 n. 834 della Corte di
Cassazione, Sez. lavoro.
I fatti. La
vicenda processuale prende le mosse dal ricorso proposto, presso il
Tribunale di Alessandria, da un lavoratore che ricopriva la qualifica di
operaio guardafili e svolgeva le mansioni di addetto al servizio di
installazione e manutenzione delle linee di telefonia alle dipendenze di
un'azienda che riceveva, quotidianamente, indicazioni relative ai luoghi di
lavoro in cui andavano effettuati gli interventi da altre due ditte,
appaltatrici di un noto operatore telefonico.
Il ricorrente esponeva che il
proprio impegno lavorativo era suddiviso, in parti uguali, tra i due
subappalti. Oggetto del contendere è il mancato pagamento di parte della
retribuzione e delle relative competenze, nel periodo immediatamente
precedente alla cessazione del rapporto di lavoro. Il lavoratore chiamava,
quindi, in giudizio le tre società, chiedendone la condanna in solido al
pagamento della somma pretesa.
Il giudice, preso atto della rinuncia alla
domanda nei confronti della ditta presso cui erano assunto il ricorrente,
medio tempore fallita, rigettava il ricorso. Decisione che veniva confermata
anche dalla Corte di appello di Torino. La Corte di merito, nello specifico,
deduceva che il gravame proposto avverso la decisione del giudice di primo
grado presentava profili di inammissibilità in quanto mentre in primo grado
era stata chiesta, genericamente, la condanna in solido delle società, in
sede di appello era stata, invece, prospettata una differente ripartizione
dell'attività lavorativa nell'ambito dei due appalti.
Tale diversa prospettazione, accompagnata dalla richiesta di accertamento circa il
distinto svolgimento di attività in favore di ciascuna delle società e,
pertanto, di una correlata diversa quantificazione dei crediti vantati nei
confronti di ciascuna di esse, era da qualificarsi, secondo il giudice
d'appello, come ipotesi di «mutatio libelli», ossia formulazione di una
domanda nuova, fondata su fatti costitutivi radicalmente diversi e confliggenti rispetto a quelli oggetto del primo grado di giudizio.
In ogni
caso, nel merito, secondo l'opinione della corte territoriale il gravame era
da ritenersi infondato, a causa della carenza di prova adeguata, sia sotto
il profilo quantitativo, sia in riferimento ai servizi ai quali il
ricorrente era stato addetto o alle opere commissionate in favore dei
committenti, in conseguenza dei quali era maturato il credito retributivo e
contributivo rivendicato.
Nessuna mutatio libelli.
Preliminarmente, la sentenza emessa dai giudici di piazza Cavour accoglie il
primo motivo su cui si fonda il ricorso. La motivazione del provvedimento
sottolinea che risulta incontrastato l'enunciato della giurisprudenza di
legittimità secondo cui «si ha «mutatio libelli» quando si avanzi una
pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel
processo un «petitum» diverso e più ampio oppure una «causa petendi» fondata
su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto
costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un
nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con
l'effetto di disorientare la difesa della controparte e alterare il regolare
svolgimento del processo».
Pertanto, gli Ermellini ritengono che
l'appellante si sia limitato a proporre una mera rinnovata ripartizione del
medesimo quantum debeatur mentre la causa petendi era rimasta immutata, così
come il petitum, integrato dalle retribuzioni non percepite, e i fatti
costitutivi del diritto azionato, essendo stata suddivisa la somma richiesta
fra i due subappaltatori.
La motivazione precisa, quindi, che si ha semplice
«emendatio» quando «si incida sulla «causa petendi», in modo che risulti
modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto
costitutivo del diritto, oppure sul «petitum», nel senso di ampliarlo o
limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento
della pretesa fatta valere». Quindi, la diversa quantificazione o
specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi di essa, non
comporta prospettazione di una nuova «causa petendi», in aggiunta a quella
dedotta in primo grado, e pertanto non dà luogo a una domanda nuova, come
tale inammissibile in appello.
Nel caso di specie, la sentenza rileva che
«il lavoratore ha semplicemente enunciato un criterio di interna divisione
del credito vantato nei confronti delle società convenute senza apportare
alcuna modifica all'originario petitum». Domanda riproposta dal ricorrente
in grado di appello il quale, senza immutare i fatti costitutivi del diritto
azionato né le situazioni giuridiche prospettate in atto introduttivo, ha
indicato lo stesso petitum mediato formulato in prime cure, limitandosi a
prospettarne una mera ripartizione interna fra i diversi condebitori
solidali.
Responsabilità solidale senza oneri probatori per il
lavoratore. La Cassazione
interpreta in maniera favorevole al ricorrente anche quanto disposto dal
secondo comma dell'articolo 29 del decreto legislativo numero 276 del 2003.
Tale norma prevede la responsabilità solidale del committente e
dell'appaltatore, entro il limite di due anni dalla cessazione del rapporto.
Ovviamente, l'obiettivo è quello di garantire il lavoratore circa il
pagamento dei trattamenti retributivi dovuti in relazione all'appalto cui ha
personalmente dedicato le proprie energie lavorative, con particolare
riferimento ai lavoratori delle piccole e microimprese subappaltatrici.
La sentenza osserva che «il regime della solidarietà sancito dalla
disposizione richiamata, presuppone solo l'accertamento dell'inadempimento
dell'obbligazione a carico dei coobbligati solidali, la ripartizione interna
dei debiti attenendo solo al rapporto intercorrente fra gli stessi».
Pertanto, il Supremo collegio ritiene non condivisibili «gli approdi ai
quali è pervenuta la Corte distrettuale, laddove ha posto a carico del
creditore, ritenendolo non assolto, l'onere di provare l'entità dei debiti
gravanti su ciascuna delle società appaltatrici convenute in giudizio».
In sostanza, l'eventuale incertezza di attribuzione dell'opera in termini
quantitativi fra le società appaltatrici non può trasferirsi a carico del
lavoratore, considerato il vincolo di solidarietà che avvince il
committente, l'appaltatore e il subappaltatore in base al quale ciascuno di
essi può essere costretto all'adempimento per la totalità.
Il provvedimento evidenzia, quindi, che «ogni questione inerente alla
divisione fra condebitori interessati del peso dell'adempimento, va
declinata nel diverso ambito dell'azione di regresso». La Corte ha, quindi,
cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d'appello di
Torino in diversa composizione
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.01.2019). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Danno
di ritardo anche se d’ufficio. Una recente pronuncia del Consiglio di Stato.
Il danno da ritardo di cui all'art. 2-bis, legge 07.08.1990 n. 241, può configurarsi anche nei casi in cui il procedimento
debba essere avviato d'ufficio.
Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, Sez. IV, con
sentenza 15.01.2019 n. 358.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, alcuni lavoratori impugnavano
il silenzio serbato dall'amministrazione sull'istanza volta ad ottenere
l'emanazione del decreto interministeriale per il riconoscimento della
posizione di comando ai fini della corresponsione della relativa indennità,
così come previsto dall'art. 10, legge n. 78/1983 per il personale
dell'esercito e della marina, chiedendo la condanna della p.a. al
risarcimento del relativo danno.
Chiamato a decidere la controversia, il
collegio precisa che perché possa parlarsi di una condotta della p.a.
causativa di danno, occorre che esista un obbligo dell'amministrazione di
provvedere entro un termine definito dalla legge a fronte di una fondata
posizione di interesse legittimo a ottenere il provvedimento tardivamente
emanato.
Tale obbligo sussiste, ai sensi dell'art. 2, comma 1, legge n.
241/1990, laddove vi sia un obbligo di procedere entro un termine definito
(«ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un'istanza, ovvero debba
essere iniziato d'ufficio»), così legittimando la configurabilità del danno
da ritardo, di cui all'art. 2-bis, legge n. 241/1990, anche nei casi in cui
il procedimento debba essere avviato di ufficio e, dunque, vi sia l'obbligo
di concluderlo.
Ciò si desume, oltre che da ragionevoli argomentazioni di
ordine generale, dalla evidente differenza letterale tra i primi due commi
dell'art. 2-bis, dove solo il secondo di essi (comma 1-bis), si riferisce
espressamente al procedimento ad istanza di parte.
In questo caso, però, occorre sia chiara la previsione normativa di un
termine per l'avvio e per la conclusione del procedimento, sia l'esistenza
di una posizione di interesse legittimo che, come tale, presuppone la natura
provvedimentale dell'atto medesimo. In difetto, le istanze risarcitorie
avanzate dai privati non possono trovare accoglimento
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2019).
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MASSIMA
6.1. Come è noto, l’art. 2-bis l. n. 241/1990 prevede
due distinte
ipotesi di risarcimento del danno:
- la prima afferente al “danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine del procedimento” (art.
2-bis, co. 1, l. n. 241/1990);
- la seconda afferente al danno derivante di per sé dal fatto
stesso di non avere l’amministrazione provveduto entro il termine
prescritto, nelle ipotesi e alle condizioni previste (art. 2-bis, co.
1-bis).
6.1.1. Orbene, l’art. 2-bis, co. 1, prevede la possibilità di risarcimento
del danno da ritardo/inerzia dell’amministrazione nella conclusione del
procedimento amministrativo non già come effetto del ritardo in sé e per sé,
bensì per il fatto che la condotta inerte o tardiva dell’amministrazione sia
stata causa di un danno altrimenti prodottosi nella sfera giuridica del
privato che, con la propria istanza, ha dato avvio al procedimento
amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2016 n. 4028).
Il danno prodottosi nella sfera giuridica del privato, e del quale quest’ultimo
deve fornire la prova sia sull’an che sul quantum (Cons. Stato, sez. V, 11.07.2016 n. 3059), deve essere riconducibile, secondo la verifica del
nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all’adozione tardiva del
provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell’amministrazione. E
ciò sempre che, nell’ipotesi ora considerata, la legge non preveda, alla
scadenza del termine previsto per la conclusione del procedimento,
un’ipotesi di silenzio significativo (Cons. Stato, sez. III, 18.05.2016
n. 2019).
In particolare, come la giurisprudenza ha avuto modo di osservare (cfr.
C.g.a., 16.05.2016 n. 139; Cons. Stato, sez. VI, 05.05.2016 n. 1768;
sez. V, 09.03.2015 n. 1182; sez. IV, 22.05.2014 n. 2638):
“l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono in linea di
principio presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al
ritardo o al silenzio nell’adozione del provvedimento amministrativo, ma il
danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi
della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere
oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso,
nesso causale), sia di quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del
danneggiante)”.
In definitiva, benché l’art. 2-bis cit., rafforzi la tutela risarcitoria del
privato nei confronti della pubblica amministrazione, “la domanda deve
essere comunque ricondotta nell’alveo dell’art. 2043 c.c. per
l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità”.
Tale impostazione ha ricevuto l’avallo indiretto della Corte di Cassazione (cfr.
Sezioni unite civili, ordinanza 17.12.2018, n. 32620 che hanno
confermato la sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, 22.09.2016,
n. 3920); nella fattispecie è stato chiarito, sia pure nella peculiare
prospettiva del giudizio su questione di giurisdizione, che:
a) il riconoscimento del danno da ritardo -relativo ad un interesse
legittimo pretensivo- non è avulso da una valutazione di merito della
spettanza del bene sostanziale della vita e, dunque, dalla dimostrazione che
l'aspirazione al provvedimento fosse probabilmente destinata ad un esito
favorevole, posto che l'ingiustizia e la sussistenza del danno non possono
presumersi iuris tantum in relazione al mero fatto temporale del ritardo o
del silenzio nell'adozione del provvedimento;
b) l’ingiustizia del danno non può prescindere dal riferimento alla concreta
spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è
finalizzato (nella specie era incontroverso che l'originario progetto non
era stato autorizzato e non avrebbe potuto esserlo stante il negativo
giudizio su di esso espresso dalla direzione regionale per i beni culturali
e paesaggistici del Molise).
6.1.2. Tale configurazione del danno da ritardo non muta alla luce della
recente sentenza dell’Adunanza Plenaria 04.05.2018 n. 5, secondo la
quale, con l’art. 2-bis cit. “il legislatore –superando per tabulas il
diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza
plenaria 15.09.2005, n. 7– ha introdotto la risarcibilità (anche)
del c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla
spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo
su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di
conclusione del procedimento (ad esempio, il diniego di autorizzazione o di
altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i
termini di conclusione del procedimento).
Il danno deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione
negoziale: il ritardo nell’adozione del provvedimento genera, infatti, una
situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte
negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni)
che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione
del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione.
Anche in questo caso viene, quindi, in rilievo un danno da comportamento,
non da provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul
procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del
provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di
termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto
dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque,
interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato,
eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali.
Non si tratta, a differenza, dell’indennizzo forfettario introdotto in via
sperimentale dal comma 1-bis dello stesso articolo 2-bis (inserito dall’art.
28, comma 9, del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni
dalla legge 09.08.213, n. 98), di un ristoro automatico (collegato alla
mera violazione del termine): è, infatti, onere del privato fornire la
prova, oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del rapporto di
causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il
compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti
posto in essere……
….l’articolo 2 della legge n. 241 del 1990 ... sottrae il tempo del
procedimento alla disponibilità dell’amministrazione e, di conseguenza,
riconosce che la pretesa al rispetto del termine assume la consistenza di un
diritto soggettivo (un modo di essere della libertà di autodeterminazione
negoziale) a fronte della quale l’amministrazione non dispone di un potere
ma è gravata da un obbligo”.
Come è dato osservare, l’Adunanza plenaria riconosce il danno da ritardo “a
prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di
interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione
del termine di conclusione del procedimento”, ricollegandolo alla “lesione
del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale” e subordinandolo,
comunque, a rigorosi oneri di allegazione e prova dell’elemento soggettivo e
del nesso di causalità.
Tale ricostruzione presuppone di regola, come è evidente, la natura
imprenditoriale del soggetto che assume essere stato leso dal ritardo
dell’amministrazione nell’emanazione del provvedimento (ancorché
legittimamente di segno negativo), dovendosi invece ritenere che, negli
altri casi, sia indispensabile la prova della spettanza del bene della vita
cui si ricollega la posizione di interesse legittimo (Cons. Stato, sez. IV,
06.11.2018 n. 6266; Sez. VI, 02.05.2018, n. 2624, Sez. IV, 17.01.2018, n. 240, 23.06.2017, n. 3068,
02.11.2016, n. 4580, 06.04.2016, n. 1371).
6.1.3. Perché, dunque, possa parlarsi di una condotta della Pubblica
Amministrazione causativa di danno da ritardo, oltre alla concorrenza degli
altri elementi costitutivi della responsabilità ex art. 2043 c.c., occorre
che esista, innanzi tutto, un obbligo dell’amministrazione di provvedere
entro un termine definito dalla legge a fronte di una fondata posizione di
interesse legittimo ad ottenere il provvedimento tardivamente emanato.
E tale obbligo di provvedere sussiste, ai sensi del comma 1 dell’art. 2, l.
n. 241/1990, laddove vi sia un obbligo di procedere entro un termine
definito (“ove il provvedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza,
ovvero debba essere iniziato d’ufficio ...”).
Al contempo, deve ritenersi che –sussistendo i suddetti presupposti– il
danno da ritardo, di cui all’art. 2-bis l. n. 241/1990, può configurarsi
anche nei casi in cui il procedimento debba essere avviato di ufficio (e,
dunque, vi sia l’obbligo di concluderlo).
Ciò si desume, oltre che da ragionevoli argomentazioni di ordine generale,
dalla evidente differenza letterale tra i primi due commi dell’art. 2-bis,
dove solo il secondo di essi (co. 1-bis), si riferisce espressamente al
procedimento ad istanza di parte.
Ma, in questo caso, occorre sia la chiara previsione normativa di un termine
per l’avvio e per la conclusione del procedimento (supplendo in questo
secondo caso, in difetto di previsione, il termine generale di cui all’art.
2, co. 2, l. n. 241/1990), sia l’esistenza di una posizione di interesse
legittimo che, come tale, presuppone la natura provvedimentale dell’atto
medesimo. |
APPALTI: No
all'accesso civico generalizzato in materia di appalti.
L’accesso civico generalizzato non trova applicazione con riferimento agli
«atti di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici».
Tanto è stato
stabilito dalla Sezione II del Tar Lazio, Roma, con la
sentenza
14.01.2019 n. 425.
Per il Giudice amministrativo romano, infatti, ai sensi dell’articolo 5-bis,
comma 3, del Dlgs n. 33 del 2013 l’accesso civico generalizzato è escluso,
tra l’altro, nei casi «in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina
vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi
quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990».
Ad
avviso del Tar Lazio, dunque, nel combinato disposto tra l’articolo 53,
comma 1, del Codice degli appalti e l’articolo 5-bis, comma 3, del Dlgs n. 33
del 2013, riposa il divieto di accesso generalizzato in questo specifico
ambito disciplinare e ciò perché, ai sensi della richiamata norma contenuta
del Codice degli appalti, «il diritto di accesso agli atti delle procedure
di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le
candidature e le offerte, è disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della
legge 07.08.1990, n. 241».
I fatti di causa
Nell’ambito di una gara il secondo classificato, con una specifica istanza
di accesso, chiedeva di prendere visione ed estrarre copia degli atti di
subaffidamento e/o subappalto richiesti e autorizzati all’aggiudicatario.
La stazione appaltante negava l’accesso alla documentazione richiesta così
motivando: «Si fa presente che, con riferimento a quanto richiesto nel punto
c) della Vostra istanza di accesso agli atti, non si ravvisano i presupposti
previsti dall’articolo 22, comma 1, lett. b), della legge 241/1990 nonché
dall’articolo 2 del Dpr n. 184 del 2006. Segnatamente, non si è riscontrata
in capo all’istante –in relazione agli atti di subaffidamento e subappalto– la presenza dell’’interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso’, che costituisce presupposto giuridico necessario per
l’accesso agli atti».
Avverso il diniego di accesso l’impresa istante proponeva ricorso innanzi al
Tar del Lazio che, con la sentenza oggetto del presente commento, lo
rigettava.
La posizione del Tar Lazio
Per il Giudice amministrativo romano l’accesso agli atti concernenti le gare
d’appalto e l’esecuzione dei contratti pubblici è oggetto di una disciplina
ad hoc, costituita dalle apposite disposizioni contenute nel Codice dei
contratti pubblici e, ove non derogate, da quelle in tema di accesso
ordinario recate dalla legge n. 241 del 1990. In tale ambito non trova
perciò applicazione l’istituto dell’accesso civico generalizzato, stante la
clausola di esclusione contenuta nell’articolo 5-bis, comma 3, del Dlgs n.
33/2013.
Ad avviso del Tar Lazio, l’esclusione dell’applicazione dell’accesso
generalizzato alla materia degli appalti manifesta una propria e ben precisa
ratio, tenuto conto della circostanza che la disciplina dell’affidamento e
dell’esecuzione dei contratti pubblici costituisce un complesso normativo
chiuso, in quanto espressione di precise direttive europee volte alla
massima tutela del principio di concorrenza e trasparenza negli affidamenti
pubblici, che dunque attrae a sé anche la regolamentazione dell’accesso agli
atti connessi alle specifiche procedure espletate.
La scelta del legislatore è, perciò, giustificata dalla considerazione che
si tratta pur sempre di documentazione che, da un lato, subisce un forte e
penetrante controllo pubblicistico da parte di soggetti istituzionalmente
preposti alla specifica vigilanza di settore (Anac), e, dall’altro,
coinvolge interessi privati di natura economica e imprenditoriale di per sé
sensibili (e quindi astrattamente riconducibili alla causa di esclusione di
cui al comma 2, lett. c), dell’articolo 5-bis del Dlgs n. 33 del 2013),
specie quando tali interessi, dopo l’aggiudicazione, vanno a porsi su di un
piano pari ordinato -assumendo la connotazione di veri e propri diritti
soggettivi- rispetto a quelli della stazione committente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.01.2019).
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MASSIMA
11. Nel merito, il ricorso è, tuttavia, infondato.
11.1. La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che l’istituto
dell’accesso civico generalizzato non trova applicazione con riferimento
agli “atti di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici”, secondo
la formulazione utilizzata dall’articolo 53, comma 1, del Codice dei
contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016 (cfr. TAR
Emilia Romagna, Parma, 18.07.2018, n. 197; nello stesso senso TAR
Marche, 18.10.2018, n. 677).
11.2. Deve, infatti, osservarsi che l’articolo 5-bis, comma 3, del decreto
legislativo n. 33 del 2013 stabilisce espressamente che “Il diritto di cui
all’articolo 5, comma 2” –ossia, come detto, l’accesso civico generalizzato– è escluso, tra l’altro, nei casi “in cui l’accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti,
inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del
1990”.
La suddetta previsione si lega con quella contenuta all’articolo 53 del
decreto legislativo n. 50 del 2016, ove –riproducendo, sul punto, la
formulazione dell’articolo 13 del previgente decreto legislativo n. 163 del
2006– si stabilisce che “Salvo quanto espressamente previsto nel presente
codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di
esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte,
è disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n.
241”.
In altri termini, l’accesso agli atti concernenti la procedura di
affidamento e la fase di esecuzione dei contratti pubblici è oggetto di una
disciplina ad hoc, costituita dalle apposite disposizioni contenute nel
Codice dei contratti pubblici e, ove non derogate, da quelle in tema di
accesso ordinario recate dalla legge n. 241 del 1990. In tale ambito non
trova perciò applicazione l’istituto dell’accesso civico generalizzato,
stante la clausola di esclusione contenuta nel richiamato articolo 5-bis,
comma 3, del decreto legislativo n. 33 del 2013.
11.3. Né potrebbe obiettarsi –come fa la ricorrente– che alla data
dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, emanato con
il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, l’accesso civico generalizzato
non era stato ancora introdotto, trattandosi di istituto previsto per la
prima volta dal successivo decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha
sostituito l’articolo 5 del decreto legislativo n. 33 del 2013. Come,
infatti, condivisibilmente evidenziato nei precedenti sopra richiamati “è lo
stesso legislatore del 2016 a considerare e regolamentare l’ipotesi di
discipline sottratte per voluntas legis, anche se precedente
all’introduzione del nuovo istituto, alla possibilità di accesso
generalizzato” (così TAR Parma, n. 197 del 2018, cit.).
11.4. D’altro canto, come pure rimarcato nella pronuncia ora richiamata,
l’esclusione dell’applicazione dell’accesso generalizzato manifesta una
propria e ben precisa ratio, tenuto conto della circostanza che la
disciplina dell’affidamento e dell’esecuzione dei contratti pubblici
costituisce un “complesso normativo chiuso, in quanto espressione di precise
direttive europee volte alla massima tutela del principio di concorrenza e
trasparenza negli affidamenti pubblici, che dunque attrae a sé anche la
regolamentazione dell’accesso agli atti connessi alle specifiche procedure
espletate”.
La scelta del legislatore è, perciò, giustificata dalla
considerazione che “si tratta pur sempre di documentazione che, da un lato,
subisce un forte e penetrante controllo pubblicistico da parte di soggetti
istituzionalmente preposti alla specifica vigilanza di settore (ANAC), e,
dall’altro, coinvolge interessi privati di natura economica e
imprenditoriale di per sé sensibili (e quindi astrattamente riconducibili
alla causa di esclusione di cui al comma 2, lett. c), dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013), specie quando tali interessi, dopo l’aggiudicazione,
vanno a porsi su di un piano pari ordinato – assumendo la connotazione di
veri e propri diritti soggettivi - rispetto a quelli della stazione
committente” (così ancora TAR Parma, n. 197 del 2018, cit.).
11.5 Il diniego implicitamente opposto da Consip all’istanza di accesso
della ricorrente è, perciò, sorretto dal quadro normativo sopra illustrato.
12. Alla luce di quanto sin qui illustrato, il ricorso deve essere respinto. |
APPALTI: Appalto
valido anche se l’atto di nomina e i curricula della commissione non sono
pubblicati.
Per il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
14.01.2019
n. 283, il mancato adempimento degli obblighi di pubblicazione
dell'atto di nomina della commissione di gara e dei curricula dei commissari
non integra una illegittimità tale da determinare l'annullabilità (o la
nullità) degli atti del procedimento di gara.
Questo perché le forme di
pubblicità (stabilite dal decreto legislativo 33/2013 e dalla stessa legge
anticorruzione 190/2012) non devono essere intese come adempimenti
costitutivi dell'efficacia degli atti.
La vicenda
Risulta di grande importanza pratica la decisione della quinta sezione del
Consiglio di Stato in tema di obblighi di trasparenza degli atti di gara.
Nel caso trattato, il ricorrente pretendeva l'annullamento degli atti
relativi a una procedura di appalto per l'affidamento del servizio di
raccolta differenziata.
Tra le varie doglianze, l'impresa aveva eccepiva
l'illegittimità degli atti adottati (e della stessa aggiudicazione) per il
fatto che il responsabile unico del procedimento avesse omesso di
ottemperare, in primo luogo, agli obblighi di trasparenza previsti, in
particolare dall'articolo 29 del codice dei contratti.
La norma impone la pubblicazione di «Tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici (…) relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e
forniture, nonché alle procedure per l'affidamento di appalti pubblici di
servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di progettazione,
di concorsi di idee e di concessioni».
L'adempimento prevede anche la pubblicazione degli atti relativi alla nomina
e composizione della commissione giudicatrice e ai curricula dei suoi
componenti, sul profilo del committente e nella sezione «Amministrazione
trasparente».
Gli atti in argomento –in particolare quelli relativi alla commissione di
gara– risultavano pubblicati solamente all'albo pretorio online della
stazione appaltante.
Per l'impianto accusatorio, il vizio dedotto –ovvero l'omessa pubblicazione
dei curricula e delle dichiarazioni di assenza di cause di incompatibilità-
avrebbe impedito «di verificare le effettive competenze dei commissari
chiamati in qualità di esperti a partecipare alla commissione, l'esistenza
di cause di incompatibilità (ai sensi dell'art. 77, comma 9, codice dei
contratti pubblici), nonché di conflitti di interesse ai sensi dell'art. 42
del codice, o, ancora di cause di inconferibilità di cui all'art. 35-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 77, comma 6, del codice e 51 cod. proc. civ.»
determinando l'illegittimità dell'intera procedura di gara. Da ciò, sempre
secondo il censurante, gli atti avrebbero dovuto essere considerati «nulli
per violazione dell'art. 1, comma 15, della legge n. 190 del 2012 e degli
artt. 19 e 23 del d.lgs. n. 33 del 2013, i quali fissano obblighi di
pubblicazione che sarebbero “elemento essenziale degli atti della PA, nel
caso specifico, del provvedimento di nomina della commissione”».
La decisione
Il ragionamento espresso dal ricorrente non ha persuaso il giudice che si è
soffermato sulla ratio (e sugli effetti) delle forme di pubblicità previste
in tema di trasparenza e anticorruzione.
Si legge nella sentenza, «nessuna delle forme di pubblicità richieste dalla
legge, ai diversi fini perseguiti dalle norme in tema di trasparenza nella
p.a. (…), costituisce “elemento essenziale” dell'atto di nomina dei
commissari di gara, la cui mancanza –analogamente alla violazione degli
obblighi di forma prescritti appunto per gli atti formali- ne causi
l'illegittimità o, addirittura, la nullità».
Gli adempimenti, pertanto, non incidono sulla efficacia degli atti adottati
ma rappresentano una delle modalità per rendere trasparente, visibile e,
soprattutto, conoscibile l'attività della pubblica amministrazione.
Una procedura di gara, in sostanza, può ritenersi realmente viziata
«soltanto dall'effettiva esistenza, in concreto, delle situazioni di
incompatibilità o di conflitto di interessi che l'adempimento» degli
obblighi predetti «di trasparenza e di pubblicità mira soltanto a prevenire,
favorendo la conoscenza (o conoscibilità) delle diverse situazioni ivi
considerate».
Inoltre, nella situazione concreta, la conoscenza del provvedimento di
nomina della commissione di gara risultava assicurata mediante la
pubblicazione sull'Albo pretorio on line della stazione appaltante
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019).
---------------
MASSIMA
10. Col quinto motivo è dedotto il vizio di “omessa
pubblicazione dei curricula dei commissari”, nonché delle dichiarazioni
di assenza di cause di incompatibilità, con asserita violazione dell’art. 29
del d.lgs. n. 50 del 2016 e del d.lgs. n. 33 del 2013.
Secondo l’appellante, tale omissione -impedendo di verificare le effettive
competenze dei commissari chiamati in qualità di esperti a partecipare alla
commissione, l’esistenza di cause di incompatibilità (ai sensi dell’art. 77,
comma 9, codice dei contratti pubblici e 22 regolamento C.U.C.), nonché di
conflitti di interesse ai sensi dell’art. 42 del codice, o, ancora di cause
di inconferibilità di cui all’art. 35-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, art.
77, comma 6, del codice e 51 cod. proc. civ.- determinerebbe l’illegittimità
dell’intera procedura di gara. Gli atti sarebbero inoltre nulli per
violazione dell’art. 1, comma 15, della legge n. 190 del 2012 e degli artt.
19 e 23 del d.lgs. n. 33 del 2013, i quali fissano obblighi di pubblicazione
che sarebbero “elemento essenziale degli atti della PA, nel caso
specifico, del provvedimento di nomina della commissione”.
10.1. Il motivo è infondato.
Nessuna delle forme di pubblicità richieste dalla legge, ai
diversi fini perseguiti dalle norme in tema di trasparenza nella p.a.
richiamate dall’appellante, costituisce “elemento essenziale”
dell’atto di nomina dei commissari di gara, la cui mancanza –analogamente
alla violazione degli obblighi di forma prescritti appunto per gli atti
formali- ne causi l’illegittimità o, addirittura, la nullità.
La procedura di gara può essere inficiata soltanto
dall’effettiva esistenza, in concreto, delle situazioni di incompatibilità o
di conflitto di interessi che l’adempimento dei detti obblighi di
trasparenza e di pubblicità mira soltanto a prevenire, favorendo la
conoscenza (o conoscibilità) delle diverse situazioni ivi considerate.
Peraltro, nel caso di specie, la conoscenza del provvedimento di nomina
della commissione di gara è stata assicurata mediante la pubblicazione
sull’Albo pretorio dell’Unione dei Comuni del Tappino.
Il quinto motivo va respinto. |
ENTI LOCALI:
Circolazione stradale, ultime dalla giurisprudenza.
Circolazione stradale, ultime dalla giurisprudenza. L'autovelox non può
servire per fare cassa.
Il mancato rinnovo del decreto prefettizio necessario per il posizionamento
degli strumenti elettronici che controllano automaticamente la velocità dei
veicoli in transito sulle strade è un provvedimento difficilmente
impugnabile dal comune. Anche se è evidente che la diminuzione delle
sanzioni e degli accertamenti conseguente allo spegnimento dello strumento
deputato al controllo dell'eccesso di velocità comporterà un danno
importante alle casse comunali.
Lo ha evidenziato il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con l'ordinanza
14.01.2019 n. 83.
Il comune di Garlasco si è rivolto al
collegio evidenziando che la prefettura non ha rinnovato il decreto che
autorizzava l'installazione di un misuratore automatico dell'eccesso di
velocità.
Il Tar ha negato la sospensiva del provvedimento limitativo
adottato dal rappresentante governativo evidenziando che lo spegnimento di
un autovelox non determina automaticamente un aumento del pericolo stradale.
E il danno patito dal comune per il mancato introito di sanzioni
amministrative non può essere oggetto di valutazioni visto che il controllo
della circolazione stradale non può avere finalità di carattere economico
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019). |
VARI: Non
perde la licenza il cacciatore che reagisce ai ladri.
Sparare in aria dal terrazzo per scongiurare un tentativo di furto
nell'appartamento può mettere in discussione la licenza di caccia. Ma in una
zona di campagna senza abitazioni attorno nessun problema.
Lo ha chiarito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la
sentenza 14.01.2019 n. 30.
Un cacciatore è stato sorpreso dai rumori di un tentativo di scasso
percepiti al piano inferiore in orario serale. Ha quindi chiamato i
carabinieri ma contemporaneamente ha esploso dei colpi di fucile in aria. Al
ricevimento della segnalazione dell'arma la prefettura ha ritenuto non più
idoneo il titolare della licenza di porto di fucile ordinandogli il divieto
di detenzione di armi.
Contro questo severo provvedimento l'interessato ha
proposto con successo censure al collegio. È evidente che un cacciatore che
impugna con facilità un fucile può essere pericoloso. Ma in questo caso si
tratta in un episodio particolare, avvenuto in orario serale in una zona di
campagna praticamente disabitata.
Quindi non è possibile classificare questo
comportamento non adeguato senza articolare bene le motivazioni nel
successivo ordine dell'autorità di pubblica sicurezza
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019). |
APPALTI: Il
Tar Milano esce dal coro: accesso civico generalizzato sugli atti di gara.
Gli atti di gara possono essere oggetto di accesso civico generalizzato.
Questo scrivono i giudici del Tar Milano -Sez. IV- nella
sentenza
11.01.2019 n. 45, che si distingue in un panorama
giurisprudenziale non ancora assestato su tale soluzione.
Avendo indetto una procedura negoziata, andata deserta la precedente
ristretta, per affidare in concessione mista di beni e servizi alcuni
interventi per migliorare l'efficienza energetica sugli edifici di proprietà
comunale, la Provincia di Lecco ha respinto l’istanza di accesso agli atti,
anche con valenza di accesso civico, di un impresa che non aveva partecipato
alla gara. L’esclusa si è opposta rivendicando il diritto di accesso con
riguardo alla legge 241/1990, all'articolo 53 del Dlgs 50/2016 e
all’articolo 5, comma 2, del DLgs 33/2013.
L’accesso civico generalizzato
L’accesso a dati e documenti della pubblica amministrazione, anche ulteriori
rispetto a quelli per i quali sussiste un obbligo giuridico di
pubblicazione, è diritto riconosciuto a tutti dall’articolo 5, commi 2 e 3,
del Dlgs 33/2013. Non è necessario, quindi, provare una particolare
legittimazione e né motivare l’istanza.
Nella sentenza del Tar Milano 45/2019 i giudici hanno ritenuto illegittimo
il diniego, motivato in base all'articolo 5-bis, comma 2, lettera c) del Dlgs 33/2013, che esclude tale accesso per evitare un pregiudizio concreto
agli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica. La
stazione appaltate non aveva menzionato le circostanze fattuali e giuridiche
impeditive; non aveva interpellato le due imprese interessate alla domanda
di accesso civico, come prescrive il Dpr 184/2006, né ha valutato l'istanza
subordinata di accesso parziale, circoscritto alle parti delle offerte non
coperte da segreto.
Le eccezioni alla regola generale dell'accesso civico fissata dal Dlgs
33/2013 sono da interpretare in modo restrittivo. Ma l’articolo 53 del Dlgs
50/2016 non è una disciplina speciale che deroga alla legge 241/1990 e tale
da escluderlo definitivamente. Può essere vietato a tempo, negli stessi
limiti validi per i partecipanti alla gara, fino alla conclusione di questa,
e precluso secondo quanto prescritto da altre disposizioni, tra le quali
l’articolo 5, comma 2, del Dlgs 33/2013.
La sentenza del Tar Bari 41/2019 ha rimarcato che l'articolo 21 della
Direttiva 24/2014 tutela la riservatezza dei partecipanti alle gare, in
ordine alla informazioni da loro comunicate e considerate riservate
«compresi anche, ma non esclusivamente, segreti tecnici o commerciali,
nonché gli aspetti riservati delle offerte». Prevale la trasparenza,
insomma, se lo consente la legislazione nazionale cui è soggetta
l'amministrazione aggiudicatrice. Invero, il legislatore italiano punta
sulla trasparenza, che diventa recessiva solo in caso di segreti tecnici e
commerciali. Di qui deriva la peculiare legittimazione prevista
dall'articolo 53 del Dlgs 50/2016 e dall'articolo 22, comma, 1 lettera b),
della legge 241/1990.
I segreti, invece, sebbene presi in considerazione nella direttiva 24/2014,
non esauriscono l'insieme degli atti per i quali va garantito diritto alla
riservatezza, che prevale sul principio di trasparenza.
I precedenti
Per il Tar Ancona 677/2018, l’articolo 53 del Dlgs 50/2016 detta una
disciplina speciale che rinvia alle regole sul diritto di accesso ordinario
(così anche la decisione del Tar Parma 197/2018). Tale articolo integra un
caso di esclusione della disciplina dell'accesso civico in base all'articolo
5-bis, comma 3, del Dllgs 33/2013, che stabilisce come il diritto di accesso
civico generalizzato sia escluso nei casi in cui è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti.
Con queste motivazioni è stata rigettata l'istanza di accesso civico
generalizzato alla documentazione inerente a una gara di appalto, già
espletata, perché ricade nell'ambito di applicazione dell'articolo 53, comma
1, del Dlgs 50/2016. Nel caso specifico il richiedente non intendeva
controllare il perseguimento di funzioni istituzionali o l'utilizzo di
risorse pubbliche, ma acquisire informazioni utili sull'esecuzione
dell'appalto, per i quali è riconosciuto il diritto alla visione e
all’estrazione di copia (legge 241/1990).
Secondo il Tar Palermo 1905/2018, l’istanza di accesso al contratto pubblico
stipulato dalla stazione appaltante e allla documentazione successiva
all'aggiudicazione, presentata dal concorrente e fondata sia sull'articolo
22 della legge 241/1990, sia sull'articolo 5 del Dlgs 33/2013, deveessere
trattata in base alle norme sull'accesso generalizzato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.01.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pubblicità ammessa su protezioni pedonali.
Se un impianto pubblicitario non interferisce con la segnaletica stradale
può essere installato anche sulle transenne pedonali che vengono normalmente
utilizzate dalle amministrazioni comunali nei centri abitati per mettere in
sicurezza le persone.
Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. I, con il
parere
10.01.2019 n. 144.
Un'azienda
ha richiesto al comune di Pescia il rinnovo dell'autorizzazione al
posizionamento di 4 impianti pubblicitari su transenne pedonali.
Contro il
rigetto della domanda l'interessato ha proposto con successo ricorso
straordinario al Presidente della repubblica. I giudici di palazzo Spada
hanno evidenziato che non sussiste un generale divieto all'installazione di
impianti pubblicitari sulle transenne pedonali del centro urbano. Anche se
collocate in centro abitato in prossimità di incroci.
L'importante è che la
pubblicità non arrechi interferenza con la segnaletica stradale e non rechi
quindi pregiudizio alla sicurezza generale della circolazione.
Nel caso in
specie inoltre si tratta di impianti già in precedenza autorizzati
posizionati nello stesso punto del centro abitato da tanti anni senza
particolari problemi
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Incarichi
a contratto, niente spoils system nei Comuni.
L'incarico dirigenziale a contratto secondo quanto
previsto dall'articolo 110 del Tuel deve avere durata minima triennale e non
cessa automaticamente alla scadenza del mandato elettivo del sindaco o del
presidente della Provincia.
Lo sostiene il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, con l'ordinanza
09.01.2019 n. 14.
La questione
Il ricorrente ha chiesto l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
dell'avviso pubblico di selezione indetta dalla Provincia di Taranto per il
conferimento di incarico a tempo determinato di un dirigente secondo
l’articolo 110, comma 1, del Tuel. Sulla materia esistono due riferimenti
normativi:
• quello generale, applicabile a tutte le Pa, espresso
dall'articolo 19 del Dlgs 165/2001, il cui comma 6 dispone che la durata
degli incarichi non può eccedere il termine di tre per quelli di livello
generale anni, di cinque per gli altri;
• e quello speciale per gli enti locali, contenuto all'articolo 110
del Tuel, che al comma 3 lega la durata degli incarichi dirigenziali al
mandato elettivo del sindaco o del presidente della Provincia in carica.
Il termine
Facendo riferimento a un apparato giurisprudenziale espresso dalla sezione
lavoro della Cassazione, il Tar Puglia rammenta che negli enti locali si
deve applicare il Dlgs 165/2001 e non già il Tuel. E questo perché la
disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la
predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta a evitare il
conferimento di incarichi troppo brevi e a consentire al dirigente di
esercitare il mandato per un tempo sufficiente a esprimere le sue capacità e
a conseguire i risultati per i quali l'incarico gli è stato affidato; la
seconda ha la funzione di fornire al sindaco/presidente uno strumento per
affidare incarichi di rilievo sulla base dell'intuitus personae, anche al di
fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche e
di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il
periodo del mandato, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo
nell'ipotesi di cessazione di tale mandato.
Questo è tanto più vero alla luce delle modifiche introdotte all'articolo
110, comma 1, dall'articolo 11, comma 1, lettera a), del Dl 90/2014, in base
al quale gli incarichi a contratto devono essere conferiti previa selezione
pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di
comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie
oggetto dell' incarico.
Niente spoils system
Sulla base di questa posizione espressa dalla Suprema Corte, i giudici del
Tar Puglia concludono che l'incarico dirigenziale deve avere durata minima
triennale e non può interrompersi automaticamente alla scadenza del mandato
elettivo del presidente della provincia, come diretta applicazione
dell'articolo 19 del Dlgs 165/2001, applicabile agli enti locali anche nel
caso degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni in base all’articolo
110.
Rilevano dunque i presupposti per la sospensione dell'efficacia dell'avviso
pubblico di selezione per il conferimento dell'incarico e disapplicano, in
via incidentale e cautelare, il decreto di nomina. Per la sentenza occorrerà
attendere il prossimo 2 ottobre, data fissa dal collegio per la trattazione
di merito del ricorso
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.01.2019).
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MASSIMA
Ritenuto, ad una sommaria delibazione propria della presente fase cautelare
del giudizio:
- che non sembrano fondate le eccezioni preliminari formulate dalla
Provincia di Taranto e che, in particolare, appare sussistere la
giurisdizione del Giudice Amministrativo, in quanto, nella fattispecie
concreta in esame, la gravata determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018 (di approvazione dell’avviso pubblico per il conferimento di
incarico a tempo determinato, ex art. 110 del Decreto Legislativo n.
267/2000) e, quindi, il relativo avviso pubblico sono stati adottati in data
successiva e non già antecedente rispetto agli atti impugnati connessi
(decreto del Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018 e atto dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018), sicché i
provvedimenti macro-organizzativi in questione, in quanto consequenziali,
non possono configurarsi quali atti presupposti degli atti gestionali di che
trattasi;
- che il ricorso risulta assistito dal necessario fumus boni iuris,
considerato:
- che “In tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi
dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione si applica il D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 19, nel testo modificato dal D.L. n. 155 del 2005, art.
14-sexies, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, secondo
cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né
eccedere il termine di cinque, e non già il D.Lgs. n. 257 del 2000, art.
110, comma 3 (T.U. Enti locali), il quale stabilisce che la incarichi a
contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco
in carica. La disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima,
con la predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta ad
evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al
dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le
sue capacità ed a conseguire i risultati per i quali l’incarico gli è stato
affidato; la seconda ha la funzione di fornire al Sindaco uno strumento per
affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitus personae, anche al di
fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche, e
di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il
periodo del mandato del Sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto
termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato” (Cassazione
Civile, Sezione Lavoro, 13.01.2014, n. 478, tuttora e vieppiù
condivisibile alla luce delle modifiche introdotte al testo del citato art.
110 T.U.E.L. dall’art. 11, comma 1, lett. a), del Decreto Legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n.
114 - obbligo di previa selezione pubblica; si veda, anche, per analoghe
considerazioni, Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 05.05.2017, n. 11015);
- che, quindi, appare fondata ed assorbente la prima censura, in
quanto l’incarico dirigenziale del ricorrente (dirigente del Settore
Pianificazione e Ambiente, incarico non apicale, ma di tipo tecnico-professionale, involgente lo svolgimento di funzioni gestionali e di
esecuzione rispetto agli indirizzi politici deliberati dagli Organi di
governo degli Enti di riferimento, pure attribuito all’esito di selezione
pubblica) deve avere durata minima triennale (e, pertanto, con scadenza il
20.11.2020), anziché (automaticamente) alla scadenza del mandato
elettivo del Presidente della Provincia, ai sensi dell’art. 19 del Decreto
Legislativo n. 165/2001 e successive modifiche ed integrazioni, applicabile
agli Enti Locali anche nel caso degli incarichi dirigenziali a soggetti
esterni ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000;
- sussistono, pertanto, i presupposti per la invocata sospensione
dell’efficacia della determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018
della Provincia di Taranto e del relativo avviso pubblico di selezione per
il conferimento di incarico a tempo determinato di Dirigente, ex art. 110,
comma 1, del Decreto Legislativo n. 267/2000, con disapplicazione, in via
incidentale e cautelare, ai sensi dell’art. 8, comma 1 del c.p.a., dell’atto
dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018 e del Decreto del
Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018, in parte
qua e nei limiti dell’interesse del ricorrente (e, peraltro, con ordinanza
n. 174/2019, il Tribunale Civile di Taranto - Sezione Lavoro ha accolto il
ricorso proposto ex art. 700 c.p.c., ordinando, per l’effetto, in via
provvisoria alla Provincia di Taranto di riconoscere al ricorrente il
diritto a svolgere, fino al 20.11.2020, l’incarico di Dirigente del
Settore Pianificazione e Ambiente, conferitogli ex art. 110 del Decreto
Legislativo n. 267/2000);
Rilevata, altresì, la sussistenza del danno grave ed irreparabile; |
APPALTI SERVIZI: In
house, alla Corte Ue stabilire i limiti tra partecipazione e posizione di
controllo congiunto.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la
questione se il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche
e il principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di
affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni
pubbliche osti a una normativa nazionale (come quella dell'articolo 192,
comma 2, del vigente codice dei contratti pubblici) il quale colloca gli
affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli
affidamenti tramite gara di appalto: consentendo questi affidamenti soltanto
in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché imponendo
comunque all'amministrazione che intenda operare un affidamento in regime di
delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i
benefìci per la collettività connessi a questa forma di affidamento (si veda
anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 14 gennaio).
Inoltre, deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il
diritto dell'Unione europea osti a una disciplina nazionale (come quella
dell'articolo 4, comma 1, del testo unico delle società partecipate,
approvato con Dlgs n. 175 del 2016) che impedisce a un'amministrazione
pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da altre
amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire
controllo o potere di veto) laddove l’amministrazione intende comunque
acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la
possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell'organismo
pluripartecipate.
Così si è espressa la V Sez. del Consiglio di Stato che con l’ordinanza
07.01.2019 n. 138 ha sollevato questione pregiudiziale alla Corte di
giustizia dell'Unione europea.
Il fatto
Un'impresa operante nel settore dell'igiene urbana, interessata ad acquisire
con gara, la gestione del servizio del Comune di Lanciano, ha chiesto
l'annullamento degli atti del 2017 con cui quel Comune, in quanto socio di
minoranza della partecipata, aveva approvato l'adeguamento dello statuto e i
relativi patti parasociali, in tal modo rendendo possibile l'affidamento
diretto del servizio in favore della stessa in quanto società in house pluripartecipata anche dallo stesso Comune e in regime di controllo analogo
congiunto.
Il Tar ha respinto il ricorso, ritenendo che il Comune aveva
ampiamente ottemperato all'onere di motivazione imposto dall'articolo 192
del Dlgs n. 50 sui benefici della modalità di gestione in house prescelta,
in termini di efficienza, economicità e qualità del servizio, nonché di
ottimale impegno delle risorse pubbliche a beneficio della collettività.
La decisione
La sentenza di primo grado è stata impugnata e il Consiglio di Stato ha
ritenuto necessario coinvolgere la Corte di giustizia dell'Unione europea,
in quanto si è posto un duplice ordine di interrogativi. Il collegio dubita
che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in
house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre
modalità di affidamento, siano autenticamente compatibili con le
disposizioni del diritto primario e derivato dell'Unione europea.
In particolare, l'articolo 192, comma 2, del codice degli appalti pubblici
impone che l'affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia
assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre
forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla
messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale
fra amministrazioni).
La prima condizione consiste nell'obbligo di motivare le condizioni che
hanno comportato l'esclusione del ricorso al mercato. Condizione che muove
dal carattere secondario e residuale dell'affidamento in house, che appare
poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di dimostrato
fallimento del mercato rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a
gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e
di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche,
cui la società in house invece supplirebbe.
La seconda condizione consiste nell'obbligo di indicare, a quegli stessi
propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all'opzione
per l'affidamento in house. Anche in questo caso la previsione
dell'ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare
gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli
affidamenti diretti in regime di delegazione interorganica e li relega a un
ambito subordinato ed eccezionale rispetto all’ipotesi di competizione
mediante gara tra imprese.
La materia è di peculiare interesse e chi scrive rammenta che già nel
novembre 2018, il Tar Liguria ha interpellato la Corte costituzionale
sollevando questione di costituzionalità dell'articolo 192, comma 2 del
codice dei contratti, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti
diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in house
delle ragioni del mancato ricorso al mercato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.01.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Depositi tempestivi riferiti al giorno (e non all'ora).
Con l'entrata a regime del processo amministrativo telematico, gli atti in
scadenza possono essere depositati con modalità telematica fino alle ore
24,00 dell'ultimo giorno utile, laddove nel regime del processo cartaceo il
termine era stabilito alle ore 12,00.
Così si è pronunciato il TAR Toscana, Sez. III,
con la
sentenza 04.01.2019 n. 7.
Nel caso portato all'attenzione del
collegio, un ricorrente eccepiva la tardività della produzione documentale
della p.a. resistente, poiché eseguita oltre le ore 12 dell'ultimo giorno
utile ai sensi dell'art. 73 c.p.a.
Chiamato a pronunciarsi sul punto, il Tar
rappresenta come la questione sia oggetto di un contrasto interpretativo,
registrandosi pronunce secondo le quali il deposito effettuato oltre le ore
12,00 dell'ultimo giorno utile dovrebbe considerarsi eseguito il giorno
successivo; ed altre, invece, secondo le quali la possibilità di eseguire il
deposito telematico sarebbe sempre assicurata fino alle ore 24,00
dell'ultimo giorno utile, dovendosi il deposito telematico considerare
perfezionato e tempestivo con riguardo al giorno senza rilevanza preclusiva
con riguardo all'ora.
L'art. 4, comma 4, delle norme di attuazione del c.p.a., osserva il
collegio, dispone che: «È assicurata la possibilità di depositare con
modalità telematica gli atti in scadenza fino alle ore 24:00 dell'ultimo
giorno consentito», precisando che «agli effetti dei termini a difesa e
della fissazione delle udienze camerali e pubbliche il deposito degli atti e
dei documenti in scadenza effettuato oltre le ore 12,00 dell'ultimo giorno
consentito si considera effettuato il giorno successivo».
Ritiene il
collegio che detta ultima precisazione, che fa slittare al giorno successivo
i depositi effettuati oltre le ore 12,00, non riguarda la parte che esegue
il deposito, ma le controparti, cui –nell'ipotesi di deposito telematico
oltre le ore 12,00 in vista dell'udienza pubblica– garantisce il
differimento della decorrenza dei termini per le eventuali repliche dal
giorno successivo, a garanzia del loro diritto di difesa
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019).
---------------
MASSIMA
2. In via pregiudiziale, il ricorrente eccepisce la tardività della
produzione documentale eseguita dal Comune di Signa oltre le ore 12.00 del
03.10.2018, ultimo giorno utile ai sensi dell’art. 73 c.p.a..
L’eccezione è infondata.
L’art. 4, co. 4, delle norme di attuazione del c.p.a. (allegato 2 del d.lgs.
n. 104/2010) così stabilisce: “È assicurata la possibilità di depositare
con modalità telematica gli atti in scadenza fino alle ore 24:00 dell'ultimo
giorno consentito. Il deposito è tempestivo se entro le ore 24:00 del giorno
di scadenza è generata la ricevuta di avvenuta accettazione, ove il deposito
risulti, anche successivamente, andato a buon fine. Agli effetti dei termini
a difesa e della fissazione delle udienze camerali e pubbliche il deposito
degli atti e dei documenti in scadenza effettuato oltre le ore 12:00
dell'ultimo giorno consentito si considera effettuato il giorno successivo”.
La disposizione è oggetto in giurisprudenza di un contrasto interpretativo,
registrandosi pronunce secondo le quali il deposito effettuato oltre le ore
12.00 dell’ultimo giorno utile ai fini del rispetto dei termini stabiliti
dall’art. 73 c.p.a. dovrebbe considerarsi eseguito il giorno successivo, e
sarebbe dunque tardivo (in questo senso, Cons. Stato, sez. III, 24.05.2018,
n. 3136; C.G.A.R.S., sez. giurisd., 07.06.2018, n. 344); ed altre, secondo
cui la possibilità di eseguire il deposito telematico sarebbe invece sempre
assicurata fino alle ore 24.00 dell’ultimo giorno utile, dovendosi dunque il
deposito telematico considerare perfezionato e tempestivo con riguardo al
giorno senza rilevanza preclusiva con riguardo all'ora, mentre la previsione
che fa slittare al giorno successivo i depositi effettuati oltre le ore
12.00 dell’ultimo giorno starebbe solo a significare che, per le
controparti, i termini per contestare gli atti depositati oltre le 12.00
decorrono dal giorno successivo, a garanzia del loro diritto di difesa (così
Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2018, n. 3309; id., sez. III, 06.08.2018, n.
4833).
Posto che l’esistenza stessa di così marcate –e ravvicinate– oscillazioni
interpretative giustificherebbe di per sé la rimessione in termini del
Comune resistente, ai sensi dell’art. 37 c.p.a., ad avviso
del collegio è preferibile ritenere che, con l’entrata a regime del processo
amministrativo telematico, gli atti in scadenza possano essere depositati
con modalità telematica fino alle ore 24.00 dell’ultimo giorno, ai sensi del
primo periodo del citato art. 4, co. 4 ,dell’allegato 2 al d.lgs. n.
104/2010, laddove nel regime del processo “cartaceo” il termine era
stabilito alle ore 12.00 (si ricorda che la norma vigente è stata introdotta
dal d.l. n. 168/2016, convertito con modificazioni in legge n. 197/2016).
La conferma se ne trae, a contrario, dalla previsione
dettata dal precedente comma 2 del medesimo art. 4, che ha mantenuto fermo
il termine delle ore 12.00 dell’ultimo giorno utile per i soli casi in cui
il codice prevede il deposito di atti o documenti sino al giorno precedente
la trattazione di una domanda in camera di consiglio; e che ben si coordina
con il terzo periodo del comma 4 in questione, laddove prevede che il
deposito telematico effettuato oltre le ore 12.00 si considera effettuato il
giorno successivo ai fini della fissazione dell’udienza camerale.
Né la regola che permette il deposito telematico fino alle ore 24.00
dell’ultimo giorno utile è derogata dalla contestuale previsione che “agli
effetti dei termini a difesa” sposta al giorno successivo i depositi
effettuati oltre le 12.00. Questa non riguarda, infatti, la parte che esegue
il deposito, ma le controparti, cui –nell’ipotesi di deposito telematico
oltre le ore 12.00 in vista dell’udienza pubblica– garantisce il
differimento della decorrenza dei termini per le eventuali repliche.
Nell’assetto attuale del processo telematico manca, in altri termini, la
previsione di un obbligo di depositare entro le ore 12.00 in vista
dell’udienza pubblica, in analogia a quanto sancito dal citato comma 2
dell’art. 4 per i depositi in vista della trattazione camerale già fissata.
E del resto, come detto, l’espressione utilizzata dal legislatore per
esplicitare le ragioni del differimento al giorno successivo degli effetti
dei depositi effettuati oltre le ore 12.00 non appare riferibile alla parte
depositante.
Si aggiunga che, nel caso in esame, il deposito documentale eseguito dal
Comune di Signa risponde alla richiesta di chiarimenti formulata dal TAR con
l’ordinanza cautelare del 12.12.2017, e risulta perciò necessario ai fini
della decisione, senza peraltro che, al di là della formale proposizione
dell’eccezione di tardività, il ricorrente abbia dimostrato di avere
sofferto un qualche pregiudizio del proprio diritto di difesa (il signor Al.
ha ampiamente replicato alle produzioni e alle difese comunali). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sottoposizione di un immobile a
sequestro penale non ne impedisce in assoluto la demolizione, sempre che il
giudice penale lo consenta, incombendo pertanto sul destinatario dell’ordine
di demolizione l’onere di attivarsi diligentemente a riguardo.
Invero, la sottoposizione a sequestro non determina la mancanza materiale e
giuridica dell’oggetto del provvedimento, vale a dire dell’immobile da
demolire, e neppure si traduce nell’imposizione di una condotta priva di
fondamento positivo, che continua a rinvenirsi nel citato art. 31 d.P.R. n.
380/2001 e ad essere unicamente costituita dalla realizzazione di interventi
edilizi privi di titolo; mentre le esigenze di tutela di cui intende farsi
carico l’innovativo indirizzo giurisprudenziale del 2017 appaiono
efficacemente tutelabili sul piano della momentanea inefficacia dell’ordine
di demolizione quanto al decorso del termine per l’esecuzione, destinato a
riattivarsi in via automatica con il venir meno del sequestro.
---------------
3. Nel merito, con il primo motivo di impugnazione il ricorrente
deduce la nullità dell’ordine di demolizione e ripristino pronunciato nei
suoi confronti, trattandosi di opere già sottoposte a sequestro penale.
La censura si sostanzia nell’invocazione di una recente decisione del
Consiglio di Stato, che, in consapevole dissenso dal prevalente orientamento
della giurisprudenza, ha sostenuto che “l'ingiunzione che impone un
obbligo di facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un
immobile che è stato sottratto alla disponibilità del destinatario del
comando (il quale, se eseguisse l'ordinanza, commetterebbe il reato di cui
all'art. 334 c.p.), difetta di una condizione costituiva dell'ordine, e
cioè, l'imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S., Sezioni Riunite,
parere n. 1175 del 09.07.2013-20.11.2014, sull'affare n. 62/2013). In quest'ordine
di idee, l'ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela,
quindi, privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità
radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a produrre
qualsivoglia effetto di diritto […] L'affermazione dell'eseguibilità
dell'ingiunzione di demolizione di un bene sequestrato, per quanto
tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza amministrativa, non può,
infatti, essere convincentemente sostenuta sulla base dell'assunto della
configurabilità di un dovere di collaborazione del responsabile dell'abuso,
ai fini dell'ottenimento del dissequestro e della conseguente attuazione
dell'ingiunzione” (Cons. Stato, sez. VI, 17.05.2017, n. 2337).
Allo stato, la tesi della nullità del provvedimento demolitorio adottato
dall’autorità amministrativa in presenza di un sequestro penale non sembra
tuttavia aver trovato stabile seguito, alla luce di successive decisioni che
hanno riaffermato il principio in forza del quale la sottoposizione di un
immobile a sequestro penale non ne impedisce in assoluto la demolizione,
sempre che il giudice penale lo consenta, incombendo pertanto sul
destinatario dell’ordine di demolizione l’onere di attivarsi diligentemente
a riguardo (così Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2018, n. 2700); ovvero, hanno
mostrato di condividere le affermazioni contenute nella pronuncia invocata
dall’odierno ricorrente nei soli limiti in cui la pendenza del sequestro
penale impedisce che l’ordine di demolizione produca i suoi effetti sino a
quando il bene sequestrato non rientri nella disponibilità dell’interessato,
con particolare riferimento alla decorrenza del termine di novanta giorni
stabilito dall’art. 31, co. 3, del d.P.R. n. 380/2001 per l’esecuzione e, in
difetto, per l’acquisto della proprietà del bene stesso da parte
dell’amministrazione procedente (si veda Cons. Stato, sez. VI, 20.07.2018,
n. 4418).
Come si vede, il rifiuto dell’idea che il proprietario del bene sia
obbligato ad attivarsi presso il giudice penale onde eseguire l’ordine di
demolizione non implica necessariamente il riconoscimento della nullità di
quest’ultimo per mancanza di un elemento essenziale, ai sensi dell’art.
21-septies della legge n. 241/1990.
D’altronde, la sottoposizione a sequestro non determina la mancanza
materiale e giuridica dell’oggetto del provvedimento, vale a dire
dell’immobile da demolire, e neppure si traduce nell’imposizione di una
condotta priva di fondamento positivo, che continua a rinvenirsi nel citato
art. 31 d.P.R. n. 380/2001 e ad essere unicamente costituita dalla
realizzazione di interventi edilizi privi di titolo; mentre le esigenze di
tutela di cui intende farsi carico l’innovativo indirizzo giurisprudenziale
del 2017 appaiono efficacemente tutelabili sul piano della momentanea
inefficacia dell’ordine di demolizione quanto al decorso del termine per
l’esecuzione, destinato a riattivarsi in via automatica con il venir meno
del sequestro (TAR Toscana, Sez. III,
con la
sentenza 04.01.2019 n. 7
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Centrali
di committenza, l'autonomia statale va sacrificata in nome della concorrenza.
Questa è la conclusione «forte» alla quale si arriva leggendo l'ordinanza
03.01.2019 n. 68 del Consiglio di Stato di rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia europea nell'ambito della singolare causa che vede
contrapposti l'Anac e l'Asmel società consortile a.r.l. di diritto privato.
Singolare è l'oggetto del contendere che ruota intorno al diniego dell'Anac
di riconoscere al consorzio la qualifica di centrale di committenza da
esercitarsi nel territorio italiano. Nell'occasione, il Consiglio di Stato
dubita che sia conforme al diritto europeo la disciplina dell'articolo 33
del Dlgs 163/2006 (ex codice dei contratti pubblici) in materia di centrali
di committenza.
Si chiede alla Corte Europea se osta al diritto comunitario ed ai principi
di libera circolazione dei servizi e di tutela della concorrenza la norma di
specie che limita l'autonomia dei Comuni nella gestione dei servizi di
committenza a due soli modelli organizzativi (l'unione e il consorzio
pubblico ), escludendo la possibilità di ricorrere ad altri modelli (per
esempio consorzio di diritto comune con partecipazione di soggetti privati),
nonché la possibilità di operare al di fuori del territorio dei comuni
aderenti.
Attacco frontale all'autonomia istituzionale
Dunque, in nome del ritenuto effetto espansivo del principio di tutela della
concorrenza, si tratta di un attacco frontale all'autonomia istituzionale e
organizzativa garantita a favore degli Stati membri dell'Unione
dall'articolo 5 del Trattato dell'Unione Europea (Tue).
Invero, non è nuovo il tema del rapporto conflittuale tra tutela della
concorrenza, di competenza dell'Unione europea, e l'autonomia istituzionale
riconosciuta ai singoli Stati membri.
La questione è stata affrontata più
volte dalla Corte europea con l'arduo obiettivo di individuare un punto di
equilibrio tra gli opposti interessi in gioco. Al riguardo, occorre tenere a
mente che, nella ratio del Tue, gli Stati membri sottoscrittori, quali
soggetti autodeterminati e quindi titolari originari di tutti i poteri, con
l'articolo 5 del Trattato, hanno inteso riservare a se una competenza
generale a fronte del rilascio all'Unione europea, soggetto da essi
derivato, della delega eccezionale di specifiche materie tra le quali quella
della tutela della concorrenza.
Perciò, la Corte di giustizia, pur valorizzando la tutela della concorrenza,
ha concluso sempre fin dagli anni ‘70 per riconoscere una riserva di
autonomia istituzionale a favore degli Stato membri (sent. CGCE, 13/05/1971,
C-51/70). Dunque, gli Stati sono liberi di decidere e regolare se e come
organizzare e gestire funzioni e servizi pubblici senza dover rendere conto
al diritto comunitario fintanto che non sia prevista l'esternalizzazione degli
stessi ricorrendo ad operatori economici esterni. Di qui, in ragione del
diffusa plurisoggettività che caratterizza l'organizzazione della pubblica
amministrazione degli Stati moderni, la questione del contendere si è
spostata attorno ai concetti di esternalizzazione e di operatore economico.
Società in house providing
Esempio del primo aspetto è la giurisprudenza e la normativa che si è
formata intorno al concetto di società in house providing (sentenza CGE
18/11/1999, C-107/98); nonché intorno al concetto di organismo di diritto
pubblico ed ai necessari requisiti di influenza pubblica dominante e del
perseguimento di interessi generali extra economici ovvero dell'operatività
nell'ambito di un mercato non concorrenziale (sentenza CGCE, 03/10/2000,
C-380/98; sentenza CGCE, 15/5/2003, C-214/00).
Esempio del secondo aspetto è la giurisprudenza che si è formata intorno
agli accordi di cooperazione diretti tra enti pubblici (paternariato
pubblico-pubblico) nell'esercizio di funzioni e servizi pubblici senza dover
ricorrere alle regole dell'evidenza pubblica ed al mercato (sentenza CGE,
09/06/2009, C-480/06).
Giurisprudenza, quest'ultima che è stata recepita nelle
direttive sui contratti di appalto e concessioni pubblici tanto in senso
generale (articolo 18 della Direttiva n. 04/18/CE; art. 17 Dir. n. 2014/23/UE;
articoli 10 e 17 Direttiva n. 2014/24/UE) quanto nella specifica materia
delle centrali di committenza (artt. 1 e 10 Dir. n. 04/18/CE; articoli 2 e 37
Direttiva n. 2014/24/UE).
Quadro normativo europeo dal quale non sembra essersi discostato il
legislatore italiano tanto meno nel disciplinare le centrali di committenza
con l'articolo 33 del Dlgs n. 163/2006. Sotto questo profilo, l'ordinanza del
Consiglio di Stato del 03.01.2019 n. 68 solleva più di una perplessità. Ma
c'è di più. Al di la dell'esito che potrà sortire la richiesta del giudice
italiano, si pone il problema della effettiva pregiudizialità della
questione sollevata in riferimento al caso specifico.
Dagli atti di causa, infatti, emerge che la centrale di committenza, e
quindi il relativo modello organizzativo, non sono stati oggetto di una
volontaria iniziativa dei singoli Comuni aderenti (fatta eccezione per il
Comune di Caggiano): nessun potere di controllo analogo o di influenza
dominante è esercitato da questi ultimi. Inoltre, gli affidamenti del
servizio di committenza da parte dei comuni al consorzio Asmel avvengono
direttamente previa adesione all'associazione omonima, con una delibera di
giunta, senza ricorrere ad alcuna procedura ad evidenza pubblica.
L'aggio dell'1,5%
A favore del consorzio Asmel, infine, è previsto un aggio del 1,5% calcolato
sulla base di gara di ogni procedura gestita, imposto unilateralmente
all'operatore aggiudicatario.
Aggio che può generare ingenti compensi (stando ai dati sulle gare
effettuate risultanti dal provvedimento Anac impugnato) senza che sia dato
sapere quale pubblica autorità l'abbia determinato su quali basi di costi
del servizio e in ragione di quale disposizione normativa o amministrativa.
Dunque, nel caso di specie, al di la della problematica del rispetto della
normativa comunitaria e italiana in materia di tutela della concorrenza
nell'affidamento dei servizi, si pone la questione della legittimità di
prestazioni imposte agli operatori economici in violazione dell'articolo 23
della Costituzione.
Si pone, inoltre, la questione del rispetto della normativa europea in
materia di divieto di aiuti di stato nell'ambito della remunerazione del
servizio pubblico a rilevanza economica di committenza ovvero si pone il
problema del rispetto del «pacchetto SIEG 2011-12» costituito dagli atti
della Commissione europea (Comunicazione n. 2012/C 8/02; Decisioni n. 20/12/2011,
n. 2012/21/UE e n. 2012/C n. 8/03; Regolamento 25/04/2012 n. 360/2012). Al
riguardo, non è dato sapere dagli atti che si è potuto leggere se l'aggio
dell'1,5% sia giustificato dalla copertura dei costi inerenti al servizio e
di un utile ragionevole ovvero generi sovracompensazioni in violazione del
divieto di aiuti di stato.
Questione che il Consiglio di Stato non può non
affrontare anche d'ufficio (Consiglio di Stato, adunanza plenaria del
25.06.2018 n. 9; sentenze Corte Costituzionale 10.11.1994, n. 384 e
07.11.1995 n. 482) tanto più essendo giudice di ultima istanza soggetto
al giudizio diretto della Corte di giustizia europea (Cge sentenza 13.06.2006
C-173/03)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.03.2019). |
APPALTI: Affidamento
di servizi, «sistema Asmel» all'esame della Corte di giustizia europea.
La normativa italiana limiterebbe l'autonomia dei Comuni nell'affidamento a
una centrale di committenza facendo ricorso a due soli modelli organizzativi
(unione di Comuni e consorzio tra Comuni), escludendo la possibilità di
costituire consorzi con privati e limitando l'operatività territoriale della
centrale di committenza.
Sono le questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di giustizia Ue dal
Consiglio di Stato con l'ordinanza
03.01.2019 n. 68,
nel giudizio d'appello proposto dall'Asmel avverso la sentenza del Tar Lazio
n. 2339/2016.
La vicenda
Si tratta dell'ennesima tappa della vicenda che ha coinvolto la società
consortile Asmel, nata per aggregare gli appalti dei Comuni, da alcuni anni
al centro di una intricata controversia.
La vicenda nasce nel 2013 da numerosi esposti, pervenuti all'Autorità
guidata da Cantone, tra cui quello dell'Anacap (associazione nazionale
aziende concessionarie entrate locali). Ad aprile 2015 l'Anac, con la
delibera 32/2015, chiude un'articolata istruttoria e boccia in pieno il
«sistema Asmel», non avendo i requisiti per essere un soggetto aggregatore.
A giugno 2015 il Tar Lazio, con l'ordinanza 2544/2015, conferma il
provvedimento dell'Anac ma il Consiglio di Stato inverte la rotta
sospendendo l'efficacia della delibera Anac, seppure limitatamente alle gare
in corso e non anche a quelle nuove bandite dall'Asmel (ordinanze n.
4016/2015 e 5042/2015).
Tuttavia con sentenza n. 2339 del 2016, il Tar Lazio conferma in pieno la
validità della delibera Anac circa la non conformità alla legge del modello
Asmel, non riconducibile ad alcuno dei modelli legali di «soggetti aggregatori», stante la presenza nella compagine consortile di
un'associazione di diritto privato, che resta tale anche se gli associati
sono dei Comuni. Inoltre, non è possibile che una centrale di committenza
svolga la propria attività oltre l'ambito provinciale di competenza ovvero
sull'intero territorio nazionale.
Sul punto il Tar evidenzia che anche con riferimento al sistema oggi in
vigore può affermarsi l'esistenza di limiti territoriali, per alcuni casi
già definiti a livello di legislazione primaria (Consip e centrali di
acquisto regionali) e altri rimessi a un Dpcm attuativo, anche al fine di
evitare sovrapposizioni e interferenze di ruoli. In conclusione il Tar Lazio
boccia il «sistema Asmel», in quanto eccentrico e non riconducibile ad
alcuno dei modelli ammessi dalla legge.
Il rinvio alla Corte Ue
L'Asmel decide però di difendere in tutte le sedi, compresa la Corte di
giustizia Ue, le proprie scelte associative e presenta appello al Consiglio
di Stato, chiedendo il rinvio pregiudiziale previsto dal Trattato sul
funzionamento dell'Unione europea. Richiesta che viene accolta dai giudici
di Palazzo Spada i quali sottopongono alla Corte Ue tre quesiti circa la
conformità con il diritto comunitario della normativa italiana nella parte
in cui:
1) limita l'autonomia dei Comuni nell'affidamento a una centrale di
committenza facendo ricorso a due soli modelli organizzativi (unione di
Comuni e consorzi tra Comuni);
2) esclude i consorzi di diritto comune non consentendo la
partecipazione anche di soggetti privati;
3) prevede una limitazione territoriale della centrale di
committenza che può operare al massimo nel suo ambito provinciale.
Ora la palla passa alla Corte di Lussemburgo che dovrà rispondere ai quesiti
formulati dal Consiglio di Stato. Nel frattempo l'Asmel ha modificato il
proprio statuto escludendo l'ipotesi che nella compagine sociale possano
entrare anche soggetti privati. Resta comunque il fatto che per il Tar Lazio
l'Asmel non è un organismo di diritto pubblico e non è possibile peraltro
configurare un controllo dei piccoli Comuni che indirettamente vi
partecipano
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.01.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: La
carica di consigliere comunale non dà diritto di accesso agli atti della
magistratura contabile.
Non è sufficiente rivestire la carica di Consigliere per essere legittimati
sic et simpliciter all’accesso documentale ad atti, pur rivolti all’Ente
rappresentato, delle Procure regionali della Corte dei conti, occorrendo
dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame
di questioni proprie dell’assemblea consiliare. Invero, la finalizzazione
dell’accesso ai documenti in relazione all’espletamento del mandato
costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso,
configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
È quanto afferma il Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza
02.01.2019 n. 12.
Il caso
La vicenda trae origine dall’impugnazione dinnanzi al Tar, da parte di un
Consigliere comunale in carica presso un Comune veneto, di un provvedimento
del Comune con cui si negava l’accesso agli atti afferenti ad una richiesta
inoltrata al Comune dalla Procura della Corte dei conti regionale, nonché
alla successiva risposta dell’Amministrazione alla Procura.
L’istanza di accesso, spiegata nella sua qualità di Consigliere comunale,
era giustificata in quanto utile all’espletamento del proprio mandato,
poiché attinente a questioni che in ipotesi avrebbero potuto incidere, sotto
il profilo finanziario, sulla corretta tenuta del bilancio dell’Ente.
L’Amministrazione negava però l’accesso, eccependo tra l’altro
l’assoggettamento degli atti richiesti a segreto istruttorio.
Il Tar respingeva il ricorso, sul presupposto –da un lato– che non fosse
stato dimostrato l’effettivo interesse all’accesso, ossia un’esigenza
collegata all’esame di questioni di bilancio o altre questioni poste
all’ordine del giorno di una seduta del Consiglio e che comunque –dall’altro– la sussistenza dell’eccepito segreto istruttorio, atteso che la
documentazione della quale era stata chiesta l’ostensione non riguardava un
atto prodotto nell’esercizio delle competente proprie dell’Amministrazione
comunale, bensì una documentazione proveniente dalla Procura della Corte dei
conti afferente ad un’indagine promossa dalla stessa Procura.
Il Consiglio di Stato, adito in seconde cure, rigettava anch’esso il
ricorso, ha affermato che non sia sufficiente rivestire la carica di
consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso,
occorrendo dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata
all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
In tal guisa, infatti, la finalizzazione dell’accesso ai documenti in
relazione all’espletamento del mandato costituisce il presupposto
legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale
allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
La decisione
Come visto, il Consiglio di Stato parte dall’assunto per cui la carica di
Consigliere comunale non attribuisca al singolo Consigliere un generale
diritto di accesso agli atti, anche interni, formati dall’Amministrazione o
comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa in ragione del sol
fatto di rivestire detta carica istituzionale; bensì, strumentalmente, lo
riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di
cui fa parte.
Detto in altri termini, non appare sufficiente rivestire la carica di
Consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma
occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata
all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
Il Collegio, infatti, fa notare come la finalizzazione dell'accesso ai
documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il
presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi
come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
Partendo da questi presupposti, la richiesta, nel caso di specie, non aveva
ad oggetto degli atti interni dell’Amministrazione comunale (ovvero da
questi utilizzati ai fini dello svolgimento della propria attività
istituzionale), bensì una nota della Procura regionale della Corte dei conti
con la quale venivano chiesti all’Amministrazione alcuni riscontri
nell’ambito di uno specifico procedimento istruttorio. Pertanto, la
documentazione richiesta atteneva ad un procedimento aperto dalla
magistratura contabile, ancorché tale indagine fosse collegata ad una
determinata attività dell’Ente territoriale.
Nella vicenda de qua, dunque, fuoriusciva dal perimetro di applicazione
dell’art. 43 Tuel (il cui secondo comma recita testualmente: «I Consiglieri
comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del Comune e della Provincia, nonché dalle loro aziende ed
enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla legge»). Di guisa che, nel caso di specie,
le eccezionali prerogative riconosciute da tale norma ai Consiglieri
comunali erano da considerarsi inapplicabili, tanto più a fronte di
previsioni di legge che prevedessero invece un regime speciale di segretezza
o riservatezza, nell’interesse generale o di terzi.
Conclusioni
Nel rigettare il ricorso, dunque, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, nel
caso di specie, il regime speciale di segretezza, fosse rinvenibile nelle
disposizioni del Dlgs 26.08.2016, n. 174 (Codice della giustizia
contabile) che disciplina –nell’ambito delle attività di indagine della
Procura contabile– le ipotesi di accesso al fascicolo istruttorio (articolo
71), la riservatezza della fase istruttoria (articolo 57) e le comunicazioni
dell’archiviazione dei procedimenti istruttori (articolo 69).
Nel primo caso, in particolare, solamente il destinatario dell'invito a
dedurre ha diritto di visionare e di estrarre copia di tutti documenti
inseriti nel fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria della
Procura regionale.
Alla luce di tali disposizioni, il Collegio ha concluso che la possibilità
dell’accesso alla documentazione istruttoria è riservata ai soli soggetti
interessati dall’attività inquirente (in particolare, quelli invitati a
dedurre), nel rispetto dei principi del Dlgs 30.06.2003, n. 196 (Codice
in materia di protezione dei dati personali) e ciò all’evidente fine di
evitare che la gestione della documentazione contenuta nel fascicolo
istruttorio possa in concreto comportare nocumento alla riservatezza dei
soggetti coinvolti negli accertamenti.
Alla luce di quanto precede il Consiglio di Stato ha ritenuto corretta la
conclusione del primo Giudice, secondo cui alla vicenda per cui è causa
doveva applicarsi la disciplina generale sull’accesso agli atti di cui alla
legge 07.08.1990, n. 241; in particolare, veniva in considerazione
l’articolo 24, comma 1, di tale legge, per cui gli atti in esame dovevano
rimanere riservati, non avendo l’istante addotto alcuna esigenza di
difendere i propri interessi giuridici, in forza del comma 7 dello stesso
articolo 24
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.02.2019).
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Ad un complessivo esame degli atti di causa, il Collegio ritiene che il
gravame non sia fondato.
Con il primo motivo viene eccepita la contraddizione, da parte della
sentenza impugnata, della ratio sottesa al diritto di accesso agli atti di
cui sono titolari i consiglieri comunali, ai sensi dell’art. 43 Tuel, ai
quali non potrebbe essere negato l’accesso utile all’esercizio del mandato,
durante il cui espletamento sarebbero peraltro vincolati al segreto
d’ufficio.
Per l’effetto, l’odierno appellante non sarebbe stato gravato da alcun onere
motivazionale in occasione della proposizione di istanza di accesso, anche
alla luce degli artt. 52 e 54 del Regolamento per la disciplina dei
procedimenti amministrativi e per il diritto di accesso ai documenti del
Comune di Cassola, vigente all’epoca dei fatti, in applicazione dei quali
era legittimamente consentito allo stesso richiedere la documentazione
ritenuta “utile” all’espletamento delle proprie funzioni.
L’art. 52, in particolare, prevedeva che “I consiglieri comunali hanno
diritto di ottenere dagli uffici e dagli enti e aziende dipendenti dal
Comune tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, nello stato in
cui sono disponibili, utili all'espletamento del mandato”, laddove il primo
comma dell’art. 54 (“Accesso agli atti riservati”) stabiliva che “Non può
essere inibito ai consiglieri l’esercizio del diritto di accesso agli atti
interni di cui all’art. 41, ai documenti dichiarati riservati e agli atti
preparatori di cui all’art. 45”.
Per contro, nessuna rilevanza poteva attribuirsi, nel caso di specie, alle
norme del nuovo Codice di giustizia contabile richiamate in sentenza (artt.
71, 57 e 69 del d.lgs. n. 174 del 2016), così come all’art. 24 della l. n.
241 del 1990, giacché –richiamando il precedente della Sezione 11 dicembre
2013, n. 5931– con riferimento all'esercizio del diritto di accesso dei
consiglieri comunali, tale esigenza sarebbe salvaguardata dall'art. 43 comma
2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, che impone ad essi il segreto ove accedano
ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
Né sussistevano, nel caso di specie, esigenze di riservatezza istruttoria,
dal momento che il fascicolo della Corte dei Conti indicato dall’appellante
nella richiesta di accesso era già stato archiviato.
Il motivo non è fondato.
Va in primo luogo considerato, come del resto fatto dal primo giudice, che
il richiamato art. 52 del Regolamento per la disciplina dei procedimenti
amministrativi e per il diritto di accesso non attribuisce al singolo
consigliere comunale un generale diritto di accesso in ragione del sol fatto
di rivestire detta carica istituzionale, bensì, strumentalmente, lo
riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di
cui fa parte.
Detto in altri termini, non appare sufficiente rivestire la carica di
consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma
occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata
all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
Del resto, la finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione
all'espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma
anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo
svolgimento dei compiti del consigliere (Cons. Stato, V, 26.09.2000,
n. 5109).
Il diritto di accesso di cui trattasi, comunque, riguarda esclusivamente gli
“atti, anche interni, formati dall’amministrazione o comunque utilizzati ai
fini dell’attività amministrativa” (art. 31, comma 2, del Regolamento cit.),
non essendo previste specifiche deroghe per i consiglieri comunali (comma
4).
Ciò premesso, la richiesta a suo tempo inoltrata dall’odierno appellante non
aveva ad oggetto degli atti interni dell’amministrazione comunale (ovvero da
questi utilizzati ai fini dello svolgimento della propria attività
istituzionale), bensì, innanzitutto, una nota della Procura regionale della
Corte dei Conti con la quale venivano chiesti all’amministrazione alcuni
riscontri nell’ambito di uno specifico procedimento istruttorio. In breve,
la documentazione richiesta, come ben sintetizzato in sentenza, atteneva ad
un procedimento aperto dalla magistratura contabile, ancorché tale indagine
fosse collegata ad una determinata attività dell’Ente territoriale.
La vicenda per cui è causa, dunque, fuoriusciva dal perimetro di
applicazione dell’art. 52 del citato Regolamento comunale (e, più in
generale, dall’art. 43 Tuel), con l’effetto che le eccezionali prerogative
riconosciute da tale norma ai consiglieri comunali dovevano considerarsi
inapplicabili, tanto più a fronte di previsioni di legge che prevedessero
invece un regime speciale di segretezza o riservatezza, nell’interesse
generale o di terzi.
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, un regime di tale natura,
avente tra l’altro carattere speciale, sia rinvenibile nelle disposizioni
del d.lgs 26.08.2016, n. 174 (Codice della giustizia contabile) che
disciplinano –nell’ambito delle attività di indagine della Procura
contabile– le ipotesi di accesso al fascicolo istruttorio (art. 71), la
riservatezza della fase istruttoria (art. 57) e le comunicazioni
dell’archiviazione dei procedimenti istruttori (art. 69).
Nel primo caso, in particolare, solamente il destinatario dell'invito a
dedurre ha diritto di visionare e di estrarre copia di tutti documenti
inseriti nel fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria della
procura regionale, previa presentazione di domanda scritta, salva comunque
la tutela della riservatezza di cui all’articolo 52, comma 1 (relativa
all’obbligo di segretezza delle generalità del pubblico dipendente
denunziante).
Alla luce di tali disposizioni, come ben nota il giudice di prime cure, deve
concludersi che la possibilità dell’accesso alla documentazione istruttoria
è riservata ai soli soggetti interessati dall’attività inquirente (in
particolare, quelli invitati a dedurre), nel rispetto dei principi del
d.lgs. 30.06.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati
personali) e ciò all’evidente fine di evitare che la gestione della
documentazione contenuta nel fascicolo istruttorio possa in concreto
comportare nocumento alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli
accertamenti; del resto, ad ulteriormente ribadire tale esigenza, lo stesso
provvedimento di archiviazione viene inoltrato solamente a chi abbia assunto
formalmente la veste di “invitato a dedurre” (ex art. 69, comma 4, d.lgs. n.
174 del 2016), dovendo in linea di principio rimanere ignoto ai terzi.
Tale ultimo rilievo vale anche a smentire l’eccezione di parte appellante,
secondo cui nessuna esigenza di riservatezza avrebbe più potuto essere
opposta, dal momento che il fascicolo della Corte dei Conti indicato nella
richiesta di accesso era stato archiviato.
Alla luce di quanto precede appare dunque corretta la conclusione del primo
giudice, secondo cui alla vicenda per cui è causa doveva applicarsi la
disciplina generale sull’accesso agli atti di cui alla legge 07.08.1990,
n. 241; in particolare, veniva in considerazione l’art. 24, comma 1, di tale
legge, per cui gli atti in esame dovevano rimanere riservati, non avendo
l’istante addotto alcuna esigenza di difendere i propri interessi giuridici,
in forza del comma 7 dello stesso art. 24. |
APPALTI SERVIZI: Contratti, ammessi i mini-scostamenti.
Lo ha sancito il Tar della Toscana.
Non
è ammessa la rinegoziabilità dei contratti della p.a., ma possono al massimo
essere ammessi piccoli scostamenti rispetto al prezzo convenuto.
Lo ha
sancito il TAR Toscana, Sez. III, con la
sentenza
29.12.2018 n. 1696.
Una società di assicurazioni si era aggiudicata la gara indetta dalla
Regione Toscana per l'affidamento del servizio di brokeraggio a favore di
tutte le amministrazioni presenti sul territorio regionale, comprese le
aziende sanitarie e ospedaliere, le quali avevano la facoltà di aderirvi.
La
società vincitrice aveva, poi, ripetutamente segnalato la possibilità per
tutte le aziende sanitarie di aderire a questa nuova convenzione, usufruendo
di condizioni vantaggiose e di un cospicuo risparmio rispetto al contratto
in essere con un'altra compagnia assicurativa, che sarebbe scaduto a breve.
Tuttavia le sollecitazioni non avevano avuto alcun seguito ma, anzi, veniva
comunicata la scelta di procedere al rinnovo del precedente contratto. La
società aggiudicataria aveva così impugnato tale decisione, dal momento che
il rinnovo era illegittimo perché disposto all'esito di una vera e propria rinegoziazione delle condizioni contrattuali in modo da renderle di fatto
sovrapponibili a quelle, molto più convenienti, previste dalla convenzione
regionale.
Il Tar ha accolto il ricorso. Dalla documentazione prodotta dalle parti è
pacifico che al rinnovo contrattuale, contestato dalla società ricorrente,
le aziende sanitarie sono giunte solo dopo aver rinegoziato le originarie
condizioni economiche dell'affidamento, ottenendo il duplice impegno del
broker a garantire una diminuzione dei premi assicurativi sulle polizze in
corso e sui relativi rinnovi e, per il futuro, a praticare sulle nuove
polizze provvigioni equivalenti a quelle previste dalla convenzione
regionale.
Non vi è dubbio che si sia trattato, come correttamente sostenuto
dalla società ricorrente, di un affidamento diretto, scelta illegittima e
non consentita: le aziende ospedaliere avrebbero potuto, semmai, rinnovare
il contratto alle stesse condizioni originariamente pattuite.
I giudici
amministrativi rilevano come, in linea generale, deve ritenersi non ammessa
la rinegoziabilità di contratti aggiudicati all'esito di procedure aperte,
perché in violazione del principio concorrenziale. L'unica ipotesi ammessa è
quella di contratti nei quali vengono concordati con l'aggiudicatario degli
scostamenti rispetto al prezzo offerto in gara, tali da non dare luogo a un
affidamento nuovo e diverso
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.01.2019). |
APPALTI: Omissioni
e bugie pari sono. La dichiarazione veritiera è a tutela della trasparenza.
APPALTI/ Il Consiglio di stato accoglie le tesi dell’Authorià nazionale
anticorruzione.
L'omissione di un obbligo dichiarativo palese nella
sostanza integra una dichiarazione mendace, tanto più ove si consideri, come
rilevato dall'Anac, l'Authority anticorruzione, che la stessa
inscindibilmente si accompagna a una dichiarazione consapevolmente
incompleta circa il possesso dei requisiti di cui all'art. 38, comma 1, del
dlgs n. 163/2006, resa dal procuratore speciale della società in sede di
dichiarazione sostitutiva ai fini della partecipazione alla gara. Inoltre,
la completezza e veridicità della dichiarazione sostitutiva di notorietà sui
requisiti per la partecipazione all'evidenza pubblica sono a tutela
dell'interesse pubblico alla trasparenza e, al tempo stesso, alla
semplificazione della procedura di gara, rappresentando due aspetti
complementari ed inscindibili della stessa.
È questo il passaggio fondamentale della motivazione con la quale il
Consiglio di Stato - Sez. V (sentenza
27.12.2018 n. 7271) ha
accolto il ricorso presentato da Anac nei confronti di una sentenza del Tar
Lazio con la quale era stata bloccata la delibera Anac sul presupposto che
la norma che fonda il potere sanzionatorio di cui al provvedimento impugnato
facesse espresso riferimento al caso di presentazione di falsa dichiarazione
o falsa documentazione e non anche a quello di mera omissione di
dichiarazione o documentazione.
Secondo il Consiglio di stato, sono diverse le conseguenze sanzionatorie se
l'operatore economico presenti false dichiarazioni o falsa documentazione
nel corso della procedura. Tra le ipotesi più dibattute di falsità vi è
certamente quella che investe la dichiarazione di assenza di condanne penali
per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla
moralità professionale. Il Consiglio ha affrontato il tema se le parole
previste dalla norma (presentazione di falsa dichiarazione o falsa
documentazione) siano riferibili unicamente ad un ipotetico comportamento
attivo dell'operatore oppure ascrivibili anche nel caso di un comportamento
omissivo.
L'espressione «presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione»
di cui all'art. 38, comma 1-ter, del dlgs n. 163/2006 ricomprende non
solamente l'ipotesi del falso commissivo tradizionalmente inteso, ma pure
quella del falso c.d. omissivo, laddove la mancata dichiarazione, in virtù
della consapevolezza dell'omissione da parte del soggetto tenuto a renderla,
sia idonea ad indurre in errore la stazione appaltante circa il possesso, da
parte del dichiarante medesimo, dei requisiti di ordine generale di cui
all'art. 38, comma 1, del medesimo decreto o, comunque, a precluderle una
rappresentazione genuina e completa della realtà.
Tale omissione comporta la
non corrispondenza al vero della dichiarazione resa dalla concorrente e,
pertanto, un'ipotesi di dichiarazione/documentazione non veritiera sulle
condizioni rilevanti per la partecipazione alla gara (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).
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MASSIMA
Il motivo è fondato, nei termini che di seguito si precisano.
La fattispecie omissiva attualmente in esame è analoga a quella già
scrutinata dalla IV Sezione di questo Consiglio con sentenza 26.05.2014, n.
4305, laddove veniva chiaramente evidenziata “la natura imperativa
dell’obbligo dichiarativo in capo anche ai procuratori speciali muniti di
tali poteri rappresentativi da potersi considerare veri e propri
amministratori della società, ai sensi e per gli effetti dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, la cui efficacia cogente si estende anche a tali
figure, per quanto non espressamente contemplate dalla disposizione, per le
ragioni ben chiarite dall’Adunanza Plenaria nelle sentenze n. 23 del 2013 e
n. 9 del 2014, con conseguente esclusione, per i rilevanti interessi in
gioco, dei concorrenti che abbiano omesso di presentare le dichiarazioni di
cui all’art. 38 relative alla moralità professionale di tali soggetti”.
Ritiene il Collegio che l’omissione di un obbligo dichiarativo così palese
nella sostanza integri, con ogni evidenza, una dichiarazione mendace, tanto
più ove si consideri –come rilevato dall’Anac– che la stessa
inscindibilmente si accompagnava ad una dichiarazione consapevolmente
incompleta circa il possesso dei requisiti di cui all’art. 38, comma 1, del
d.lgs. n. 163 del 2006, resa dal procuratore speciale della società in sede
di dichiarazione sostitutiva ai fini della partecipazione alla gara.
Come ricordato da pacifico insegnamento giurisprudenziale (ex multis, Cons.
Stato, V, 29.04.2016, n. 1641; VI, 02.07.2014, n. 3336), completezza
e veridicità della dichiarazione sostitutiva di notorietà sui requisiti per
la partecipazione all’evidenza pubblica sono posti a tutela dell’interesse
pubblico alla trasparenza e, al tempo stesso, alla semplificazione della
procedura di gara, rappresentando due aspetti complementari ed inscindibili
della stessa.
Per l’effetto, deve concludersi che in materia di partecipazione alle gare
pubbliche d’appalto, una tale consapevole “omissione” non può essere
distinta, quanto agli effetti distorsivi nei confronti della stazione
appaltante che la disposizione in esame (l’art. 38, comma 1-ter del d.lgs.
n. 163 del 2006) mira a prevenire e reprimere, dalla tradizionale forma di
mendacio commissivo.
Invero (ex multis, Cons. Stato, IV, 08.06.2017, n. 2771),
nelle procedure
di evidenza pubblica l’incompletezza delle dichiarazioni lede di per sé il
principio di buon andamento dell'amministrazione, inficiando ex ante la
possibilità di una non solo celere ma soprattutto affidabile decisione in
ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara; una dichiarazione
inaffidabile, perché falsa o incompleta, è già di per sé stessa lesiva degli
interessi tutelati, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti o no di
partecipare alla procedura competitiva; peraltro l'omessa dichiarazione ha
il grave effetto di non consentire proprio all'Amministrazione una
valutazione ex ante.
Alla luce di quanto precede, ritiene quindi il Collegio che l’espressione
“presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione” di cui
all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 ricomprenda non
solamente l’ipotesi del falso “commissivo” tradizionalmente inteso, ma pure
quella del falso cd. “omissivo”, laddove la mancata dichiarazione, in virtù
della consapevolezza dell’omissione da parte del soggetto tenuto a renderla,
sia idonea ad indurre in errore la stazione appaltante circa il possesso, da
parte del dichiarante medesimo, dei requisiti di ordine generale di cui
all’art. 38, comma 1, del medesimo decreto o, comunque, a precluderle una
rappresentazione genuina e completa della realtà.
Una tale omissione, infatti, comporta la non corrispondenza al vero della
dichiarazione resa dalla concorrente e, pertanto, un’ipotesi di
dichiarazione/documentazione non veritiera sulle condizioni rilevanti per la
partecipazione alla gara.
In questi termini, non è decisiva –ai fini dell’integrazione o meno dei
presupposti di cui all’art. 38, comma 1-ter cit.– la circostanza che a
carico della procuratrice coinvolta in concreto non risultasse poi alcun
precedente penale (e che quindi non risultassero eventuali condizioni
ostative rispetto ai requisiti richiesti dall’art. 38): la condotta
sanzionata, infatti, nulla aveva a che fare con l’esistenza o meno di
precedenti penali in capo ai soggetti tenuti a rendere la dichiarazione di
cui trattasi, attenendo al (diverso) fatto storico della mancata
dichiarazione sul possesso dei requisiti di cui all’art. 38, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 da parte di uno dei soggetti a ciò tenuti secondo la
lett. c) del medesimo articolo.
Neppure può configurarsi, nel caso di specie, un’ipotesi di “falso innocuo”
–in conformità, tra l’altro, a quanto già accertato dal precedente di Cons.
Stato, III, 27.10.2017, n. 4514, relativo proprio alla vicenda di gara
di cui si tratta e dal quale non vi è ragione di discostarsi– dal momento
che “nell’ipotesi di mancata dichiarazione di precedenti penali non può
operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di
dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione
(Cons. St., sez. V, 27.12.2013, n. 6271; Cons. St., sez. III, 05.10.2016, n. 4118),
come nel caso di specie per tutte le ragioni vedute,
esulando del resto la vicenda qui esaminata dall’ipotesi in cui la
dichiarazione sia resa dal concorrente sulla base di modelli predisposti
dalla stazione appaltante e questi sia indotto in errore dalla formulazione
ambigua o equivoca del bando (Cons. St., sez, III, 04.02.2014, n. 507)
[…]”. |
PUBBLICO
IMPIEGO: L'ispettore che fuma spinelli dice addio al posto di lavoro.
L'utilizzo prolungato e documentato di sostanze stupefacenti da parte di un
ispettore della polizia di stato determina la sanzione disciplinare di non
idoneità permanente ai servizi di istituto.
Lo ha evidenziato il Consiglio
di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
05.12.2018 n. 6892.
Un ispettore
di polizia è stato valutato dalla commissione medica interforze come un
consumatore abituale di cannabis e per questo sanzionato con
l'allontanamento forzato dai ruoli operativi. Contro questa decisione
l'interessato ha proposto censure ma senza successo. In sede d'appello
infatti il collegio ha evidenziato la legittimità delle determinazioni
assunte in sede disciplinare.
Ai fini dell'applicazione della sanzione,
specifica la sentenza, risulta importante aver individuato un uso non
terapeutico di sostanze stupefacenti per un periodo prolungato. Non importa
la quantità di valori accertati.
Quello che rileva è che i residui di
sostanze sono tali da escludere il semplice fumo passivo e pertanto le
decisioni della commissione medica non possono essere smentite da una
consulenza tecnica. Anche perché la commissione ha ampio potere tecnico
discrezionale in materia
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Modifica
ai luoghi autorizzata. Basta l’inerzia colposa del soggetto a configurare
reato. Una rassegna di alcune decisioni della Corte di cassazione in materia
ambientale.
Le modifiche alla situazione dei luoghi debbono essere
oggetto di apposita autorizzazione e comunque effettuate conformemente alle
prescrizioni di legge o regolamentari pena l'applicazione di sanzioni penali
apposite.
Questo è il principio posto attraverso numerosi provvedimenti legislativi
dal cui esame si evince che, al fine di potere ritenere che legittima
l'esecuzione di un'opera essa deve essere effettuata secondo certe modalità
e sotto le verifiche dell'amministrazione. La prassi dei tribunali si
concentra assai spesso sulle figure di reato collegate a questa particolare
tutela.
La Corte di Cassazione enuncia una serie di principi sul punto
dell'applicabilità delle sanzioni penali e delle loro modalità di
esecuzione.
Si segnala, ad esempio una recente sentenza della corte (07.11.2018
n. 50138) la
quale considera l'aspetto dell'oggetto della condotta del reato di cui
all'art. 44 del dpr 380/2001, il quale viene delineato in modo piuttosto
esteso dato che esso può consistere non solo nella realizzazione della
condotta ma anche in una semplice modifica di altre già esistenti.
La normativa prevede che a seguito dell'accertamento di reati urbanistici,
debba essere emesso un ordine che impone la demolizione del manufatto
abusivo: di tale aspetto, si sono occupati i giudici della Cassazione,
valutandolo come un provvedimento la cui efficacia permanga nell'ordinamento
senza potere essere oggetto di prescrizione (sentenza
29.11.2018 n. 53661) e che
dalla sua esecuzione, da parte del reo, dipenda l'effettiva applicazione
della sospensione condizionale della pena, la quale, nel caso di mancata
ottemperanza perde la propria efficacia (sentenza n. 25930/2018).
Per quel che riguarda invece l'elemento psicologico, che deve caratterizzare
la condotta del reo, la Cassazione ritiene sufficiente la sola colpa, che si
configura nel caso di specie, nell'inerzia del reo, il quale prima di
intraprendere l'esecuzione dell'opera non abbia assunto le necessarie
informazioni dall'amministrazione circa lo stato del luogo ove doveva essere
svolta l'opera. Non viene considerato necessario il dolo, ovvero la
consapevolezza da parte dell'agente della presenza del divieto (sentenza
n. 41225/2018) (articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2018). |
APPALTI:
Gara non aggiudicata, motivare convenienza. In relazione al
futuro contratto.
La facoltà di non aggiudicare un appalto va esercitata in
relazione a un giudizio di convenienza, motivato, sul futuro contratto.
Lo ha affermato il
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 27.11.2018 n.
6725 in merito alla non aggiudicazione di una gara. I giudici hanno
richiamato innanzitutto l'articolo 95, comma 12, del codice del 2016 (decreto
n. 50) che attribuisce alla stazione appaltante, e non alla commissione
giudicatrice, nota la sentenza, la facoltà di non aggiudicare la gara quando
nessuna offerta sia ritenuta, a giudizio discrezionale dell'amministrazione
«conveniente o idonea».
L'unica condizione che pone la norma è che questa
facoltà sia indicata espressamente nel bando di gara o nella lettera
d'invito. Il codice, dicono i giudici, non ha previsto quanto già era
stabilito nel decreto 163/2006 e cioè (art. 55, comma 4) l'automatismo della
non aggiudicazione in caso di una sola offerta valida.
La sentenza affronta quindi l'argomento principale del ricorso affermando «ciò
nondimeno
non appaiono sussistere ostacoli all'applicazione dell'art. 95, comma 12,
anche in caso di unica offerta, purché ricorrano i presupposti ivi previsti,
che consentono il rispetto dei parametri comunitari come richiesto dalla
Corte di giustizia in caso di decisione di non aggiudicazione all'unico
concorrente rimasto in gara: cfr. Corte giust. Ue, 11.12.2014, n.
440-13».
Quindi, se la facoltà di non aggiudicazione rientra nei poteri discrezionali
della stazione appaltante e la decisione è conseguenza di un apprezzamento
di merito riservato a quest'ultima, di conseguenza la decisione non può che
essere sindacabile in sede giurisdizionale nei limiti in cui sia
manifestamente illogico o viziato da travisamento dei fatti.
La valutazione,
dicono i giudici, deve essere compiuta nei termini di un giudizio di
convenienza (adeguatamente motivato, ndr) sul futuro contratto, che «consegue,
tra l'altro, ad apprezzamenti sull'inopportunità economica del rapporto
negoziale per specifiche e obiettive ragioni di interesse pubblico ed anche
alla luce, se del caso, di una generale riconsiderazione dell'appalto,
nell'esercizio ampi di poteri in funzione di controllo, non condizionati,
quindi, dalle valutazioni tecniche del seggio di gara»
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2018). |
APPALTI: Gare, consorziata senza requisiti è sostituibile.
Cooperative di produzione e lavoro.
È illegittimo escludere da una gara un consorzio di produzione e
lavoro se una consorziata perde i requisiti; è sufficiente la sua
sostituzione con altra impresa consorziata e la perdita dei requisiti è
irrilevante per il consorzio.
Lo
ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 23.11.2018 n. 6632 che ha
analizzato la fattispecie in cui una società consorziata appartenente ad un
consorzio di cooperative di produzione e lavoro era stata posta in
liquidazione coatta amministrativa. La stazione appaltante aveva disposto
l'esclusione dalla gara del consorzio e degli altri soggetti raggruppati, ma
il consorzio aveva promosso ricorso.
Respinto in primo grado, in appello i giudici hanno dato ragione al
consorzio premettendo che i consorzi di cui alla legge 422 del 1909 «sono
soggetti giuridici a se stanti distinti, dal punto di vista organizzativo e
giuridico, dalle cooperative consorziate che ne fanno parte. Infatti
partecipano alla procedura di gara utilizzando requisiti loro propri, e,
nell'ambito di questi, facendo valere i mezzi nella disponibilità delle
cooperative che costituiscono articolazioni organiche del soggetto
collettivo».
Pertanto, in virtù di questo rapporto, l'attività compiuta dalle consorziate
è imputata unicamente al consorzio, così come il concorrente è solo il
consorzio, mentre non assumono tale veste le sue consorziate, nemmeno quella
designata per l'esecuzione della commessa. Da ciò consegue che l'impresa che
esegue la commessa all'occorrenza può sempre essere estromessa o sostituita
senza che ciò si rifletta sul rapporto esterno tra consorzio concorrente e
stazione appaltante.
Inoltre, dicono i giudici, la circostanza che anche la consorziata indicata
quale esecutrice debba dichiarare il possesso dei requisiti di
partecipazione di ordine generale (oltre che speciale), non è idonea a
giustificare una diversa conclusione, atteso che il detto possesso è
richiesto al solo fine di evitare che soggetti non titolati possono eseguire
la prestazione. Quindi la perdita dei requisiti da parte della consorziata
esecutrice (sottoposta nel caso di specie a liquidazione) comporta
semplicemente l'onere di estrometterla o sostituirla con altra consorziata,
ma non incide sul possesso dei requisiti di partecipazione del consorzio
concorrente
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2018). |
TRIBUTI: Avvisi
di accertamento con firma a stampa.
Gli avvisi di accertamento emanati dagli enti locali possono essere
sottoscritti con la firma a stampa del funzionario responsabile e hanno la
stessa validità di quelli sottoscritti con firma autografa. Per la validità
degli atti di accertamento è richiesto che gli stessi siano emessi da
sistemi automatizzati. La firma a stampa deve essere autorizzata con
provvedimento di livello dirigenziale, i cui estremi devono essere riportati
negli atti impositivi. Non c'è alcun motivo per escludere che la firma a
stampa possa essere apposta anche sugli atti emanati dai concessionari,
autorizzata con un apposito atto adottato dalla società affidataria. Non
serve alcun provvedimento se gli atti vengono sottoscritti dal legale
rappresentante, perché non c'è una delega di funzioni.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, con la
sentenza 21.11.2018 n. 30050.
La questione della firma degli atti impositivi viene spesso sollevata dai
contribuenti e ha creato tanto contenzioso. Per i giudici di piazza Cavour,
la firma autografa prevista dalle norme che disciplinano i tributi regionali
e locali sugli atti di liquidazione e accertamento può essere sostituita
dall'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, nel caso
in cui siano prodotti da sistemi informativi automatizzati.
Hanno chiarito
che la disposizione che consente la firma a stampa, vale a dire l'articolo
1, comma 87, della legge 549/1995, è una «norma speciale, non abrogata, la
quale, pertanto, conserva la sua efficacia», purché il nominativo del
funzionario responsabile venga individuato con un provvedimento di livello
dirigenziale. Questa regola si applica «non solo nel caso di gestione
diretta, ma anche nel caso di gestione in concessione della potestà impositiva».
Infatti, nonostante ex lege il richiesto provvedimento di
livello dirigenziale si riferisca a un atto della pubblica amministrazione,
secondo la Cassazione, lo stesso principio vale nel caso in cui l'imposta
sia gestita da un concessionario. In questo caso sugli atti la firma
autografa può essere sostituita dall'indicazione a stampa del nominativo del
soggetto responsabile, «purché tale nominativo, nonché la fonte dei dati,
risultino indicati in un apposito atto sottoscritto dal concessionario (o da
altro soggetto che da questi abbia ricevuto il relativo potere)».
All'atto
del concessionario deve essere riconosciuta la stessa funzione assolta nelle
ipotesi di gestione diretta dell'imposta da parte dell'ente pubblico. Non è
richiesta una nomina ad hoc, però, qualora il legale rappresentante della
società concessionaria abbia «mantenuto la responsabilità direttamente su di
sé» della relativa procedura automatizzata (articolo ItaliaOggi del 07.12.2018). |
APPALTI: Appalti, nei subentri serve un piano di compatibilità. Parere Cds contrario alle linee guida Anac sulle clausole sociali.
Quando un'impresa subentra a un'altra in un contratto di appalto,
l'appaltatore uscente deve mettere a disposizione, in modo completo e
trasparente, le informazioni sul costo del personale; è sempre necessario
predisporre un «piano di compatibilità» o un «progetto di assorbimento».
Sono queste alcune delle indicazioni che fornisce all'Anac il Consiglio di
Stato,
parere 21.11.2018 n. 2703,
rispetto alle linee guida (non vincolanti) in materia di clausole sociali,
previste dall'art. 50 del codice dei contratti pubblici, messe in
consultazione prima dell'estate scorsa.
Si tratta delle linee guida sugli affidamenti dei contratti di concessione e
di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura
intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad
alta intensità di manodopera (più del 50% dell'importo del contratto), per
promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato; per questi
casi si prevede l'applicazione da parte dell'aggiudicatario, dei contratti
collettivi di settore di cui all'articolo 51 del decreto legislativo 15.06.2015, n. 81.
Con il parere, di carattere «semplicemente interpretativo», i magistrati
della sezione consultiva premettono di non condividere la scelta compiuta
dall'Anac di trattare nelle linee guida le «clausole sociali» e le «clausole
sociali diverse» perché «solleverebbero problematiche a sé stanti, il cui
rilievo richiederebbe, se mai, di predisporre linee guida ad esse
specificamente dedicate». Da qui la richiesta di espungere dalla bozza
l'intero capitolo 6 intitolato «le clausole sociali diverse dal
riassorbimento del personale» e di mantenere soltanto il rinvio generale
alla loro liceità e possibilità.
Nel merito, il parere ha precisato innanzitutto che occorre eliminare
«l'asimmetria informativa fra i potenziali imprenditori entranti,
l'imprenditore entrante e l'imprenditore uscente, che è titolare,
nell'ambito che interessa, di una posizione dominante, o comunque di
vantaggio informativo». L'obiettivo è mettere in condizione il concorrente
di essere nella stessa condizione dell'appaltatore uscente cosicché il primo
possa formulare una «offerta sostenibile».
Se poi l'impresa uscente non
mettesse a disposizione (anche tramite la stazione appaltante) tutte le
informazioni questo comportamento potrebbe costituire anche «grave errore
professionale». Ottenute le informazioni il Consiglio di stato ha prescritto
che i concorrenti predispongano un «piano di compatibilità o progetto di
assorbimento» dal quale si evinca come «concretamente l'offerente intenda
rispettare la clausola sociale, o, detto altrimenti, spiegare come e in che
limiti la clausola sia compatibile con l'organizzazione aziendale da lui
prescelta».
Nel parere si suggerisce alle stazioni appaltanti anche di valutare questi
piani «assegnando tendenzialmente un punteggio maggiore, per tale profilo,
all'offerta che maggiormente realizzi i fini cui la clausola tende».
Rispetto al rapporto fra clausola sociale e contratti collettivi il parere
ha precisato che se una impresa non ha firmato il Ccnl deve applicare la
clausola sociale, ma se lo ha firmato dovrà invece applicare la clausola
sociale prevista nel contratto
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2018). |
TRIBUTI: La
Cassazione conferma la linea sulla prescrizione dei crediti comunali in
cinque anni.
La Corte di Cassazione -Sez. VI civile- continua a ritenere che le cartelle di pagamento
riguardanti i tributi comunali, come l'Ici e la Tarsu, si prescrivono in 5
anni, principio questo ribadito di recente con l'ordinanza
05.11.2018 n. 28173 e l'ordinanza
20.11.2018 n. 29996.
Si tratta di un principio che desta qualche perplessità, fondato più su una
pigra conferma di sentenze che richiamano a loro volta altre sentenze, nelle
quali però si è omesso di verificare in modo approfondito il regime di
prescrizione dei tributi comunali e, anzi, da ultimo, si è arrivati a
sostenere, senza spiegarne le ragioni, che al contrario di quelli comunali i
tributi erariali sono soggetti a prescrizione decennale.
Nella sentenza n. 29996/2018 la Corte sentenzia che «nel caso di specie,
trattandosi di tributo locale secondo la giurisprudenza di questa Corte tali
tributi (a differenza di quelli erariali) - sono “prestazioni periodiche” e,
come tali, rientrano nell'ambito di applicazione dell'articolo 2948, comma 4
cod. civ., che stabilisce appunto la prescrizione quinquennale (Cass. sent
n. 4283 del 23.02.2010, 10344/2015, 4322/2015, 22543/2017)».
Pagamento periodico
Tuttavia, in nessuna sentenza la Corte di cassazione si è fermata ad
argomentare le ragioni che inducono a qualificare il pagamento di un
accertamento Ici o Tarsu come «pagamento periodico» soggetto a prescrizione
quinquennale. E, in effetti, l'interrogativo se la «pretesa isolata»
avanzata con un atto di accertamento a un contribuente che ha omesso di
versare l'imposta Ici per un anno possa essere qualificata come prestazione
periodica meritava forse una risposta più argomentata e non un mero rinvio
seriale. Anche in considerazione del fatto che l'articolo 2946 del codice
civile prevede la prescrizione ordinaria nei casi in cui la legge non
disponga diversamente.
L'articolo 2948 del codice civile prevede la prescrizione quinquennale per
tutto ciò che «deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi».
Ora, è pur vero che in costanza di base imponibile l'Imu, l'Ici o la Tarsu/Tari
si pagano annualmente, ma a ogni anno corrisponde un autonomo anno
d'imposta. Peraltro, ben può accadere che un determinato soggetto passivo
sia tale per un Comune solo per un anno o per una frazione di anno, perché
magari ha acquistato e venduto l'immobile nel corso dello stesso anno o
perché ha condotto in locazione un appartamento per solo 10 mesi.
Il termine prescrizionale
Ma l'errore di fondo, sembra essere quello di agganciare il termine
prescrizionale alle date di versamento ordinario, che in costanza di base
imponibile, si ripetono di anno in anno, senza considerare l'intero processo
di accertamento. In realtà, per recuperare quel credito derivante
dall'omesso versamento l'attività del Comune è regolata da termini
decadenziali, visto che deve notificare un atto di accertamento entro il 31
dicembre del quinto anno successivo a quello in cui doveva essere pagato il
tributo.
La riscossione coattiva è anch'essa regolata da termini decadenziali, visto
che occorre notificare la cartella entro il 31 dicembre del terzo anno
successivo a quello di definitività dell'atto di accertamento. Notificata la
cartella o l'ingiunzione di pagamento si abbandona il campo della decadenza
per entrare in quello della prescrizione. Ma qui le norme tacciono, perché
disciplinano solo i termini decadenziali.
E allora, seguendo quanto affermato dalle sezioni unite nella sentenza n.
23397/2016, e dato per assodato che la mancata impugnazione della cartella
non produce l'effetto della conversione del termine di prescrizione breve in
quello ordinario decennale, così come previsto, ad esempio, per le sentenze,
occorre chiedersi se esiste per i tributi comunali una norma che preveda
espressamente per i propri «atti di accertamento» un termine di prescrizione
più breve di quello decennale, perché in assenza di tale norma, le stesse
sezioni unite hanno affermato, nella sentenza citata, che il termine di
prescrizione decennale «è quello che si applica ordinariamente all'esercizio
del potere di riscossione fiscale».
In conclusione, l'errore di fondo sui cui si basano le sentenze ancora le
sue radici alle modalità di versamento ordinario dei tributi comunali,
quando in realtà oggetto di verifica è il termine di pagamento
dell'accertamento, che ovviamente non può considerarsi termine periodico,
forse fatta eccezione per gli evasori seriali.
E allora, non essendo previsto per legge un termine di prescrizione, e non
potendosi considerare un credito da accertamento come prestazione periodica,
non rimane da concludere che la riscossione coattiva degli atti di
accertamento comunali è soggetta a prescrizione decennale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di indici di edificabilità, il Consiglio di
Stato ha enucleato nel tempo una serie di principi, tutti
ispirati alla logica (di sistema) del contrasto dei
tentativi di elusione posti in essere dai privati per
cercare di aggirare le sempre più stringenti normative
conformative del diritto di proprietà in senso restrittivo
sotto il profilo edilizio.
Queste le principali coordinate esegetiche:
1) Il d.m. 02.04.1968, che fissa gli standards di
edificabilità delle aree, distingue la densità edilizia in
densità territoriale e densità fondiaria. La densità
territoriale è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce
il complessivo carico di edificazione che può gravare
sull'intera zona e, pertanto, il relativo indice è
rapportato all'intera superficie della zona, ivi compresi
gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità e
simili. La densità fondiaria è invece riferita alla singola
area e definisce il volume massimo consentito su di essa, ed
il relativo indice (cd. indice di fabbricabilità) va
applicato all'effettiva superficie suscettibile di
edificazione, con esclusione delle aree destinate ad uso
pubblico;
2) In relazione ad immobili edificati prima dell'emanazione
del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e, comunque, nei casi in cui
difetti legittimamente un provvedimento edilizio abilitativo,
è in facoltà delle amministrazioni comunali dettare una
disciplina urbanistico-edilizia che attribuisca rilievo, ai
fini della identificazione dell'asservimento pertinenziale
e, quindi, ai fini della determinazione della volumetria
assentibile, a elementi, anche provenienti dai privati
richiedenti, in grado di consentire una ricognizione della
reale situazione dei luoghi e del concreto carico
edificatorio esistente;
3) L'istituto dell'asservimento si è configurato per effetto
dell'entrata in vigore del d.m. 02.04.1968 n. 1444, con il
quale sono stati introdotti nell'ordinamento, in attuazione
dei precetti recati dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765,
limiti inderogabili di densità edilizia;
4) In sede di determinazione della volumetria assentibile su
una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria
in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata
prima della l. 17.08.1942 n. 1150, quando cioè lo "ius
aedificandi" era considerato pura estrinsecazione del
diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente
in sede di commisurazione della volumetria assentibile in
base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla
singola area e che individua il volume massimo consentito su
di essa, il che comporta la necessità di tener conto del
dato reale costituito dagli immobili che su detta area si
trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente
circostante. Qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il
prescritto titolo, concorre al computo complessivo della
densità territoriale;
5) Nel caso in cui un lotto urbanisticamente unitario sia
già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua, o la superficie coperta residua, va
calcolata previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo;
6) Nel caso in cui l'originario lotto urbanistico abbia
acquisito una maggiore potenzialità edificatoria in
dipendenza di modifiche alla disciplina urbanistica e,
quindi, la parte rimasta inedificata sia suscettibile di
edificazione, per verificare la sua effettiva potenzialità
edificatoria occorre sempre partire dalla considerazione
che, in virtù del carattere «unitario» dell'originario
lotto interamente asservito alla precedente costruzione, non
possono non computarsi le volumetrie realizzate sul lotto
urbanistico originario (considerato complessivamente), il
quale è l'unico ad aver acquisito e mantenuto una "propria"
potenzialità edificatoria; conseguentemente la verifica
dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificata
e la quantificazione della volumetria su di essa
realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla
predetta potenzialità (computata alla luce della densità
edilizia consentita dalla normativa urbanistica vigente al
momento del rilascio delle concessioni di cui si
controverte), diminuita della volumetria dei fabbricati già
realizzati sull'unica, complessiva area.
L’operatività dei suddetti, consolidati principi
dipende, dunque, dall’accertamento delle seguenti
concorrenti circostanze:
a) che il lotto o l’area siano unitari e unitariamente
utilizzati, restando irrilevante l’assetto della situazione
proprietaria (atti di trasferimento) e catastale
(frazionamenti, piani particellari, accatastamenti);
b) che esista una norma di piano o venga altrimenti
individuato un vincolo di asservimento pertinenziale di
un’area rispetto alla costruzione a suo tempo realizzata.
---------------
10. In disparte tale assorbente rilievo, il ricorso è comunque
infondato nel merito.
10.1. In materia di indici di edificabilità, il Consiglio di
Stato ha enucleato nel tempo una serie di principi, tutti
ispirati alla logica (di sistema) del contrasto dei
tentativi di elusione posti in essere dai privati per
cercare di aggirare le sempre più stringenti normative
conformative del diritto di proprietà in senso restrittivo
sotto il profilo edilizio.
Queste le principali coordinate esegetiche:
1) Il d.m. 02.04.1968, che fissa gli standards di
edificabilità delle aree, distingue la densità edilizia in
densità territoriale e densità fondiaria. La densità
territoriale è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce
il complessivo carico di edificazione che può gravare
sull'intera zona e, pertanto, il relativo indice è
rapportato all'intera superficie della zona, ivi compresi
gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità e
simili. La densità fondiaria è invece riferita alla singola
area e definisce il volume massimo consentito su di essa, ed
il relativo indice (cd. indice di fabbricabilità) va
applicato all'effettiva superficie suscettibile di
edificazione, con esclusione delle aree destinate ad uso
pubblico (Consiglio di Stato sez. IV 22.02.1993 n.
182);
2) In relazione ad immobili edificati prima dell'emanazione
del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e, comunque, nei casi in cui
difetti legittimamente un provvedimento edilizio abilitativo,
è in facoltà delle amministrazioni comunali dettare una
disciplina urbanistico-edilizia che attribuisca rilievo, ai
fini della identificazione dell'asservimento pertinenziale
e, quindi, ai fini della determinazione della volumetria
assentibile, a elementi, anche provenienti dai privati
richiedenti, in grado di consentire una ricognizione della
reale situazione dei luoghi e del concreto carico
edificatorio esistente (Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria 23.04.2009 n. 3);
3) L'istituto dell'asservimento si è configurato per effetto
dell'entrata in vigore del d.m. 02.04.1968 n. 1444, con
il quale sono stati introdotti nell'ordinamento, in
attuazione dei precetti recati dall'art. 17 l. 06.08.1967
n. 765, limiti inderogabili di densità edilizia (Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria 23.04.2009 n. 3);
4) In sede di determinazione della volumetria assentibile su
una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria
in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata
prima della l. 17.08.1942 n. 1150, quando cioè lo "ius
aedificandi" era considerato pura estrinsecazione del
diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente
in sede di commisurazione della volumetria assentibile in
base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla
singola area e che individua il volume massimo consentito su
di essa, il che comporta la necessità di tener conto del
dato reale costituito dagli immobili che su detta area si
trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente
circostante. Qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il
prescritto titolo, concorre al computo complessivo della
densità territoriale (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria
23.04.2009 n. 3);
5) Nel caso in cui un lotto urbanisticamente unitario sia
già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua, o la superficie coperta residua, va
calcolata previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n. 2941);
6) Nel caso in cui l'originario lotto urbanistico abbia
acquisito una maggiore potenzialità edificatoria in
dipendenza di modifiche alla disciplina urbanistica e,
quindi, la parte rimasta inedificata sia suscettibile di
edificazione, per verificare la sua effettiva potenzialità
edificatoria occorre sempre partire dalla considerazione
che, in virtù del carattere «unitario» dell'originario
lotto interamente asservito alla precedente costruzione, non
possono non computarsi le volumetrie realizzate sul lotto
urbanistico originario (considerato complessivamente), il
quale è l'unico ad aver acquisito e mantenuto una "propria"
potenzialità edificatoria; conseguentemente la verifica
dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificata
e la quantificazione della volumetria su di essa
realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla
predetta potenzialità (computata alla luce della densità
edilizia consentita dalla normativa urbanistica vigente al
momento del rilascio delle concessioni di cui si
controverte), diminuita della volumetria dei fabbricati già
realizzati sull'unica, complessiva area (Consiglio di Stato,
sez. IV, 29.07.2008, n. 3766).
10.2. L’operatività dei suddetti, consolidati principi
dipende, dunque, dall’accertamento delle seguenti
concorrenti circostanze:
a) che il lotto o l’area siano unitari e unitariamente
utilizzati, restando irrilevante l’assetto della situazione
proprietaria (atti di trasferimento) e catastale
(frazionamenti, piani particellari, accatastamenti);
b) che esista una norma di piano o venga altrimenti
individuato un vincolo di asservimento pertinenziale di
un’area rispetto alla costruzione a suo tempo realizzata.
10.3. Nel caso di specie, quanto all’aspetto sub a), è
rimasto accertato che il lotto non apparteneva più all’unico
originario proprietario a far data dal 1951 e dal 1958 è
stato oggetto di frazionamento; l’edificio esistente nel
quale abitano gli appellati è stato edificato con le licenze
del 1951, 1954, 1955 e del 1956; il piano regolatore
comunale adottato nel 1959 ha regolato l’edificazione senza
stabilire alcun indice di fabbricabilità (i soli indici
costruttivi afferivano al numero dei piani, all’altezza
massima, alla lunghezza minima e massima dei fronti, alle
distanze dai confini e dalle strade); detto indice è stato
introdotto per la prima volta nel comune di Matera col piano
del 1975; le concessioni impugnate sono state rilasciate nel
1998 e nel 1999.
10.4. In relazione, invece, all’aspetto sub b), seguendo le
fondamentali coordinate esegetiche di cui alla richiamata
Adunanza plenaria n. 3/2009, l’amministrazione comunale
avrebbe potuto, al momento dell’adozione del piano
regolatore, procedere all’individuazione delle aree in fatto
asservite, valutando l’area circostante e qualificandola
come entità immobiliare unitaria.
Nel calcolo della volumetria assentibile, infatti, quel che
conta è il fatto oggettivo della utilizzazione edificatoria
dell’area.
Nel fare ciò, avrebbe potuto conferire specifico rilievo
(rispetto al momento dell’entrata in vigore del D.M. 02.04.1968, n. 1444 o dell’adozione del piano) ai rapporti pertinenziali determinati da atti e negozi privati, anche
non necessariamente preordinati all’asservimento in senso
tecnico dell’area o di una parte di essa (per esempio, la
destinazione a pertinenza ex art. 817 c.c., la costituzione
di servitù prediali ex art. 1027 c.c. e ss. del c.c.).
Detti atti, infatti, sono astrattamente idonei a produrre
effetti sulla concreta edificabilità dell’area, determinando
la perdita o la riduzione della capacità edificatoria di un
fondo a vantaggio di un altro fondo.
Tanto si afferma –ha precisato la Plenaria n. 3/2009- in
ragione del principio di immediata evidenza logica secondo
il quale la determinazione della volumetria consentita in
un'area deve pur sempre tener conto del dato reale, di come,
cioè, gli immobili si trovano e delle relazioni che
intrattengono con l'ambiente circostante in virtù del
complesso di effetti riconducibili ad atti di soggetti
pubblici e privati nonché a fatti della più varia natura, ma
idonei, in ogni caso, ad incidere sull'edificabilità.
10.4. Nel caso di specie, tuttavia, diversamente rispetto a
quello esaminato dalla Plenaria, tale individuazione non è
avvenuta per il tramite della pianificazione generale.
10.5. Per effetto della carenza di regolazione, il problema
della valutazione della situazione di fatto e di diritto
creatasi nel fondo sul quale è previsto l'intervento
edilizio è stato “spostato” al momento del rilascio del
singolo permesso di costruire.
10.6. Non si ravvisa, nel caso in questione, alcuna
illogicità o irrazionalità nel comportamento tenuto
dall’amministrazione comunale, tenuto conto delle previsioni
del vigente (ratione temporis) p.r.g. e delle allegate
N.T.A. nonché del concreto stato dei luoghi, interessato da
una edificazione certamente risalente e anteriore
cronologicamente rispetto all’introduzione dell’indice
stesso di edificabilità.
10.7. Alla luce delle suesposte considerazioni, resta dunque
assorbita l’eccezione sollevata dagli appellati in ordine
alla pretesa formazione del giudicato interno sul calcolo
delle superfici realizzate e di quelle (non più, a loro
dire) assentibili: in assenza di una norma di piano ad hoc o
di un atto equipollente di asservimento, la volumetria
realizzabile è quella prevista dallo strumento urbanistico
al tempo del rilascio del titolo edilizio.
10.8. Resta, invece, precluso a questo giudice, lo scrutinio
del contenuto degli atti privati posti in essere dalle
parti.
Col secondo motivo di ricorso, infatti, i ricorrenti avevano
sostenuto che dall’art. 3 del regolamento di condominio
approvato l’08.10.1958 potesse evincersi che la
particella 617 (così come anche quelle nn. 510, 511, e 616)
avevano una destinazione pertinenziale “a cortile” rispetto
al manufatto costruito sulla particella 509, ove risiedono
gli odierni appellati.
Il motivo, tuttavia, è stato espressamente respinto dal
primo giudice e il relativo capo di sentenza non è stato
fatto oggetto di impugnazione, sicché lo stesso deve
considerarsi passato in cosa giudicata.
11. In definitiva, l’appello va accolto e, per l’effetto, in
riforma della sentenza di primo grado, va respinto il
ricorso introduttivo del giudizio (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 13.11.2018 n. 6397 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La voce del portiere non basta.
Il messo deve verificare la sede del destinatario dell’atto. La Cassazione
distingue, nell’ordinanza 27035/2018, tra irreperibilità relativa e
assoluta.
Il
messo notificatore non può fidarsi solo della parola del portiere. Deve,
infatti, svolgere accurate ricerche per verificare l'irreperibilità assoluta
della società contribuente, ossia che quest'ultima non abbia più né
l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune sede del proprio domicilio
fiscale, non potendosi ritenere sufficiente, a tal fine, la generica
dichiarazione rilasciata dal portiere dello stabile.
A statuire il principio
è stata la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
24.10.2018 n. 27035.
Provvedimento risulta utile per delineare contorni giuridici e
disciplina delle due possibili ipotesi di irreperibilità: quella relativa e
quella assoluta.
Il caso. La controversia sottoposta al giudizio del supremo collegio ha a
oggetto l'impugnazione proposta dal contribuente avverso un avviso di
intimazione di pagamento notificato dall'agente della riscossione alla
società per omessa notifica della prodromica cartella di pagamento, recante
l'iscrizione a ruolo dell'Iva dovuta a seguito di controllo automatizzato
della dichiarazione per l'anno di imposta 2003.
La società, in particolare,
ha richiesto il giudizio degli ermellini, sulla scorta di un unico motivo,
per cassare la sentenza della Commissione tributaria regionale con cui era
stato rigettato l'appello, dalla medesima proposto, nei confronti della
sfavorevole sentenza di primo grado.
La Ctr aveva, infatti, ritenuto
regolare la notifica della cartella di pagamento in base a quanto sancisce
l'art. 60 del dpr n. 600 del 1973 che non prevede l'invio della raccomandata
informativa di cui all'articolo 140 del codice di procedura civile,
nell'ipotesi, come quella presuntivamente verificatasi nella fattispecie, di
irreperibilità assoluta del destinatario.
Irreperibilità relativa e assoluta. La Cassazione, nel rigettare,
preliminarmente, l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata
dall'Agenzia delle entrate, considerato che la stessa è stata parte nei
giudizi di merito in cui la società contribuente aveva contestato anche la
fondatezza della pretesa erariale, ha effettuato una nitida e netta
distinzione tra le due ipotesi di irreperibilità.
Infatti, nel caso di
specie, non si è verificato, a differenza di quanto sostiene l'ufficio
notificante, un caso di irreperibilità assoluta, in cui, legittimamente, non
è previsto l'invio della raccomandata informativa, ma un'ipotesi di
irreperibilità relativa: come sostenuto dal ricorrente, il messo
notificatore non ha svolto tutte le ricerche dirette a verificare
l'irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che quest'ultima
non avesse più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune già sede
del proprio domicilio fiscale, limitandosi ad attenersi, ritenendola
sufficiente ai fini della corretta notifica, alla generica dichiarazione
acquisita direttamente dal portiere dello stabile.
La decisione. La Ctr aveva ritenuto idonee a giustificare il ricorso alla
notifica a soggetto assolutamente irreperibile, di cui alla lett. e), primo
comma, dell'art. 60, dpr n. 600 del 1973, la dichiarazione del portiere
dello stabile ove era ubicato il domicilio fiscale della società
contribuente. Il custode aveva, infatti, dichiarato di non conoscere la
società oggetto della controversia.
Dichiarazione riconosciuta dai giudici
di legittimità non idonea allo scopo, circostanza, anzi, che avrebbe dovuto
spingere, a maggior ragione, l'ufficiale notificante a compiere ulteriori e
specifiche verifiche per accertare se l'indicazione del domicilio della
società destinataria dell'atto fosse corretto o se lo stesso non fosse
mutato. Verifiche che nella fattispecie concreta, risultanze processuali
alla mano, erano state del tutto omesse.
Sulla base di tali considerazioni,
il ricorso è stato accolto, senza rinvio, non ricorrendo l'esigenza del
compimento di ulteriori accertamenti di fatto né quella di procedere
all'esame di altre questioni che la nullità della notifica della cartella di
pagamento, prodromica all'avviso di intimazione di pagamento, anch'esso
impugnato, ha reso del tutto superflue.
L'agente della riscossione controricorrente, peraltro, è stato condannato al pagamento in favore della
ricorrente delle spese del giudizio di legittimità, mentre sono state
compensate le spese processuali con l'Agenzia delle entrate e quelle dei
giudizi di merito.
Notifica da codice di procedura civile nell'ipotesi di irreperibilità
relativa. La notifica degli atti impositivi va effettuata in base
all'articolo 140 del codice di procedura civile nelle ipotesi di
irreperibilità relativa. Ossia, nei casi in cui non sia possibile eseguire
la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto, l'ufficiale
giudiziario è tenuto a depositare la copia nella casa del comune dove la
notificazione deve eseguirsi, affiggere avviso del deposito in busta chiusa
e sigillata alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del
destinatario, deve, infine, dare notizia di tali adempimenti tramite
raccomandata con avviso di ricevimento.
La Corte di cassazione aveva già in passato giudicato sul tema, sancendo
tale principio.
In particolare, la suprema corte, con sentenza n. 16696 del
03/07/2013, confermata anche dalla sentenza n. 5374 del 18/03/2015, aveva
chiarito che «la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, nel sistema delineato dall'art. 60 del dpr 29.09.1973, n.
600, va effettuata secondo il rito previsto dall'art. 140 cod. proc. civ.
quando siano conosciuti la residenza e l'indirizzo del destinatario, ma non
si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile
consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi
temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di
cui all'art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non
reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo sconosciuto,
accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato
ricerche nel comune dov'è situato il domicilio fiscale del contribuente, per
verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero
mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso comune».
Tale sentenza
ricorda anche che «rispetto a tali principi, nulla ha innovato la sentenza
della Corte costituzionale del 22.11.2012, n. 258 la quale nel
dichiarare «in parte qua», con pronuncia di natura «sostitutiva»,
l'illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente
all'attualmente vigente quarto comma) dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, ovvero la disposizione concernente il procedimento di notifica
delle cartelle di pagamento, ha soltanto uniformato le modalità di
svolgimento di detto procedimento a quelle già previste per la notificazione
degli atti di accertamento, eliminando una diversità di disciplina che non
appariva assistita da alcuna valida «ratio» giustificativa e non risultava
in linea con il fondamentale principio posto dall'art. 3 della
Costituzione».
Altro provvedimento da ricordare in materia è l'ordinanza della Cassazione
n. 24260 del 13/11/2014 secondo cui «è illegittima la notificazione degli
avvisi e degli atti tributari impositivi (nella specie, cartella di
pagamento) effettuata ai sensi dell'art. 60, primo comma, lett. e), del dpr
29.09.1973, n. 600, laddove il messo notificatore abbia attestato la
sola irreperibilità del destinatario nel comune ove è situato il domicilio
fiscale del contribuente, senza ulteriore indicazione delle ricerche
compiute per verificare che il trasferimento non sia un mero mutamento di
indirizzo all'interno dello stesso comune, dovendosi procedere secondo le
modalità di cui all'art. 140 cod. proc. civ. quando non risulti
un'irreperibilità assoluta del notificato all'indirizzo conosciuto, la cui
attestazione non può essere fornita dalla parte nel corso del giudizio».
Tali principi sono stati ribaditi dalla recente ordinanza della Cassazione
n. 2877 del 07/02/2018 che ha affermato che «in tema di notificazione degli
atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità
previste dall'art. 60, comma 1, lett. e), del dpr n. 600 del 1973 in luogo
di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l'ufficiale
giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l'irreperibilità
assoluta del contribuente, ossia che quest'ultimo non abbia più né
l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune già sede del proprio
domicilio fiscale» (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
TRIBUTI: Tasse
immobiliari, paga l'intestatario catastale.
Tasse immobiliari, paga l'intestatario catastale È tenuto a pagare l'Ici e
le altre imposte locali il soggetto che risulta titolare dell'immobile dai
registri catastali. L'iscrizione in catasto, però, rappresenta una mera
presunzione, che può essere superata da chi è apparentemente titolare
dell'immobile, purché fornisca una prova contraria per ottenere l'esonero
dal pagamento dei tributi.
Lo ha stabilito la Ctr di Roma, sezione XVI, con la sentenza 23.10.2018
n. 7330/16/2018.
Per i giudici d'appello, nonostante il catasto abbia prettamente finalità
fiscali, sia il diritto di proprietà sia gli altri diritti reali possono
essere provati «in base alla mera annotazione di dati nei registri
catastali, che hanno in concrete circostanze soltanto il valore di semplici
indizi». Come sostenuto anche in passato dalla Cassazione (sentenza
14420/2010), l'intestazione in catasto di un immobile a un soggetto «fa
sorgere comunque una presunzione de facto sulla veridicità di tali
risultanze».
È posto a carico del contribuente l'onere di fornire la prova
contraria. Della stessa idea è la commissione regionale, secondo cui grava
sui titolari degli immobili il compito di dimostrare la carenza del possesso
di diritto. Qualora ciò avvenga, la «situazione di fatto prevale sulla
presunzione iuris tantum collegata al dettato catastale».
Va ricordato che
l'Imu, così come l'Ici, è dovuta dai contribuenti per anni solari,
proporzionalmente alla quota di possesso dell'immobile e in relazione ai
mesi dell'anno per i quali il bene è stato posseduto. Se il possesso si è
protratto per almeno 15 giorni, il mese deve essere computato per intero. La
prova della proprietà o della titolarità dell'immobile non dovrebbe essere
data dalle iscrizioni catastali, ma dalle risultanze dei registri
immobiliari. In caso di difformità è tenuto al pagamento dell'Imu il
soggetto che risulti titolare da questi registri (Ctr Roma, prima sezione,
sentenza 90/2006).
Quindi, per l'assoggettamento agli obblighi tributari non è probante
l'iscrizione catastale. All'iscrizione in catasto non può che essere
riconosciuto il valore di mero indizio o semplice presunzione
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Inidoneità alle mansioni e possibilità ricollocamento interno.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza
22.10.2018 n. 26675 ha
accolto il ricorso di una lavoratrice contro il licenziamento intimatogli
dal datore di lavoro, per sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento
delle mansioni ascritte. Alla lavoratrice non era stata offerta nessuna
alternativa di posti di lavoro, neanche in termini di demansionamento o
trasferimento presso altra sede, così ritenendo integrata la violazione
dell'obbligo di repechage.
La Corte, quindi, sintetizza che in caso di sopravvenuta inidoneità fisica o
psichica del lavoratore, prima di procedere al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l'obbligo di
verificare la possibilità di repechage e, cioè, la possibilità di
ricollocare all'interno dell'assetto organizzativo aziendale il lavoratore
in mansioni compatibili con il suo stato di salute, anche se inferiori
rispetto a quelle in precedenza ascritte
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.11.2018). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il difensore punta al rialzo.
Possibile chiedere più di quanto fissato in sentenza.
COMPENSI AVVOCATI/ Una ordinanza della Cassazione ricorda il principio.
In
materia di compenso per prestazioni professionali, l'avvocato può sempre
richiedere al cliente onorari maggiori rispetto a quelli liquidati in
sentenza: lo hanno chiarito i giudici della VI-2
Sez. civile della
Corte di Cassazione nell'ordinanza
17.10.2018 n. 25992.
Intervenuti sul ricorso di un legale, il quale lamentava il fatto che la
liquidazione operata in sede di merito non poteva dirsi vincolante né tale
da impedire la richiesta di un compenso maggiore rispetto a quello indicato
in sentenza, «dovendosi ritenere che la liquidazione operata dal giudice
attiene ai rapporti tra le parti, ma non vincola la determinazione del
compenso professionale nei rapporti tra l'avvocato e il cliente», i giudici
hanno ricordato l'«incontrastato» principio secondo il quale «la misura
degli onorari dovuti dal cliente al proprio avvocato prescinde dalle
statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte
alle spese ed agli onorari di causa e deve essere determinata in base a
criteri diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese tra le
parti».
Se è vero, infatti, che nella liquidazione degli onorari a carico del
cliente può aversi riguardo anche al risultato del giudizio; ai vantaggi, di
natura patrimoniale e non, conseguiti; al valore effettivo della
controversia nelle ipotesi nelle quali risulti manifestamente diverso da
quello presunto a norma del codice di procedura civile; è, tuttavia,
altrettanto vero che la misura di tali onorari può anche prescindere da
quanto stabilito nella sentenza che condanna l'altra parte al pagamento
delle spese e degli onorari di causa, in ragione del fatto che il legale
«non è parte del giudizio».
Questo significa che solo la sua «inequivoca
rinuncia» al maggiore compenso può impedirgli di pretendere onorari maggiori
e diversi da quelli liquidati in sentenza. Tali principi –continuano–
vanno confermati anche dopo l'entrata in vigore della nuova legge
professionale che ha determinato il passaggio dal sistema tariffario a
quello dei parametri: hanno, quindi, accolto il ricorso e cassato la
sentenza impugnata rinviando la decisione al tribunale competente in diversa
composizione per un nuovo esame
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti abbandonati, è stretta.
Il proprietario del sito rischia per la condotta di terzi. La Cassazione si
sofferma su deposito illecito e inosservanza dell’ordine di rimozione.
Proprietari e titolari di diritti di godimento su beni immobili non
rispondono dell'illecito abbandono di rifiuti effettuato sul proprio sito da
terzi, ma se intimati da un'ordinanza sindacale alla loro rimozione hanno
l'onere di ottenerne la disapplicazione al fine di non integrare il diverso
reato di inosservanza dell'atto impositivo.
A effettuare una ricognizione
sulla complessa disciplina prevista dal Codice ambientale (decreto
legislativo n. 152/2006) sulla posizione dei soggetti che vantano diritti
reali o personali su aree interessate da depositi illeciti di rifiuti
effettuate da altri è la Corte di cassazione, che con due sentenze del
settembre 2018 ne ha delineato il rapporto con i diversi reati di abbandono
di rifiuti da un lato e di inosservanza dell'ordinanza di rimozione
dall'altro.
Il contesto normativo.
A livello generale, il Codice ambientale prevede il divieto di abbandono
rifiuti nonché il conseguente obbligo di rimozione a carico dei soggetti cui
la condotta illecita sia imputabile, prevedendo sanzioni per l'inosservanza
dei due diversi precetti.
In particolare, è l'articolo 192 del dlgs 152/2006 a stabilire il divieto di
abbandono, prevedendo parallelamente:
- l'obbligo di procedere a rimozione, avvio a recupero/smaltimento e
ripristino dello stato dei luoghi a carico sia di chi abbia violato tale
divieto che (a titolo solidale) del proprietario e dei titolari di diritti
reali/personali sull'area cui tale violazione sia imputabile a titolo di
dolo o colpa in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo;
- il potere/dovere del sindaco di disporre con ordinanza le operazioni di
rimozione/trattamento/ripristino e, in caso di inosservanza dei termini
fissati, procedere in esecuzione della stessa in danno dei soggetti
intimati.
Gli articoli 255 e 256 del dlgs 152/2006 prevedono invece: le sanzioni per
l'abbandono dei rifiuti (amministrative, che diventano penali nel caso di
condotta riconducibile a ente o impresa); le sanzioni (sempre penali) per
l'omessa ottemperanza dell'ordinanza del sindaco.
Le nuove pronunce della Cassazione.
In tale contesto normativo interviene la recente sentenza della Suprema
corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi in relazione a una fattispecie
vertente proprio sulla inosservanza entro i termini previsti della citata
ordinanza sindacale ex articolo 192 del dlgs 152/2006.
Con la
sentenza 03.09.2018 n. 39430 il giudice di legittimità ha
sottolineato come l'obbligo di rimozione dei rifiuti sorga in capo al
responsabile dell'abbandono in conseguenza della sua condotta e nei
confronti degli obbligati in solido quando sia dimostrata la sussistenza del
dolo o almeno della colpa, mentre i soggetti destinatari dell'ordinanza
sindacale sono obbligati in quanto tali.
In caso di inosservanza del provvedimento sindacale, si sottolinea nella
sentenza, i destinatari ne subiscono perciò solo le conseguenze se non hanno
provveduto a impugnarlo per ottenerne l'annullamento oppure non forniscono
al giudice penale dati significativi valutabili ai fini di una eventuale
disapplicazione dell'atto impositivo dell'obbligo.
Sul diverso reato di abbandono di rifiuti lo stesso giudice di legittimità
si è invece espresso con la successiva
sentenza 26.09.2018 n. 41676.
Mediante il provvedimento, la Suprema corte ha ricordato come il citato
reato non sia configurabile in forma omissiva nei confronti dei meri
titolari di diritti reali o personali sul fondo interessato dall'abbandono,
divenendo questi obbligati a impedire la realizzazione dell'evento lesivo o
il mantenimento dello stesso solo ove compiano atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti.
La giurisprudenza sulla responsabilità solidale del proprietario. Sulla
responsabilità del proprietario e dei titolari di diritti di godimento
sull'area interessata di rifiuti depositati da terzi si sono copiosamente
pronunciate sia la magistratura ordinaria che quella amministrativa.
Sul necessario elemento soggettivo del dolo o della colpa ex citato articolo
192, comma 3, dlgs 152/2006 si sono in particolare espresse con sentenza
4472/2009 le sezioni unite della Cassazione, le quali hanno stabilito che il
requisito della colpa postulato dalla norma può ben consistere
nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza
suggerisce per un'efficace custodia e protezione dell'area così impedendo
l'indebito deposito di rifiuti.
Sul fronte amministrativo il Consiglio di stato con sentenza n. 705/2016 ha
ricordato come non sia configurabile una responsabilità oggettiva fondata
sulla mera disponibilità delle aree e stabilito altresì come il dovere di
diligenza debba essere interpretato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che vada esclusa la responsabilità per colpa
quando l'abbandono sarebbe stato evitato solo sopportando un sacrificio
obiettivamente sproporzionato.
Su tale scia, il Tar Puglia con la recente sentenza n. 888/2018 ha
evidenziato come non sia sufficiente una mera e semplice «culpa in
vigilando» non accompagnata da comportamenti omissivi/negligenti da
verificare caso per caso tenendo conto delle obiettive circostanze,
occorrendo considerare anche l'oggettiva ubicazione del fondo (come
l'eventuale particolare esposizione a comportamenti di abbandono rifiuti),
considerando che la mancanza di recinzione dello stesso non costituisce di
per sé prova di colpevolezza del proprietario.
Sulla necessità, sempre ex articolo 192 del dlgs 152/2006, del preventivo
contraddittorio tra soggetti imputabili e soggetti preposti al controllo si
è invece recentemente pronunciato il Consiglio di stato con sentenza
1301/2016, in base alla quale costituisce adempimento indispensabile al fine
dell'instaurazione del suddetto contraddittorio la formale comunicazione (al
proprietario e/o titolari di diritti di godimento sul sito) dell'avvio del
procedimento ex articolo 7 della legge 241/1990.
Sulla indefettibilità dell'ordinanza sindacale che dispone invece rimozione,
gestione dei rifiuti e ripristino dei luoghi si ricorda invece la sentenza
23911/2014 della Corte di cassazione.
Dalla pronuncia del giudice di legittimità emerge come l'obbligo giuridico
di eliminare i rifiuti in capo al proprietario del terreno che non abbia
concorso con gli autori materiali può sorgere solo a seguito della suddetta
ordinanza impositiva in parola, nell'ambito della quale ciò che rileva non è
tanto la disponibilità dell'area ma una concreta responsabilità che deve
essere motivata. E come ha sottolineato il citato Tar Puglia con sentenza
888/2018, è attraverso detta motivazione che l'amministrazione preposta al
controllo deve esaurientemente dare conto di aver svolto una completa e
adeguata istruttoria di accertamento del comportamento doloso o colposo dei
soggetti in questione.
E sul reato di abbandono di rifiuti.
Al di fuori del reato di inosservanza dell'ordinanza sindacale di rimozione,
con la stessa sentenza 23911/2014 la Corte di cassazione aveva invece
ricordato come il diverso reato di abbandono di rifiuti ex citato articolo
256, comma 2 (e 255, comma 1, per soggetti diversi dalle imprese) del Codice
ambientale non è contestabile al proprietario o titolare di diritti di
godimento sull'area sulla base della mera consapevolezza che terzi abbiano
effettuato tale deposito illecito, non sussistendo in sostanza a suo carico
alcuna posizione di garanzia che lo obblighi a impedire l'evento.
Orientamento, questo, confermato da ultimo proprio dalla recente e citata
sentenza 41676/2018
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.10.2018). |
TRIBUTI:
Terreni ex agricoli, per l'Ici conta il Prg.
Ai fini dell'assoggettamento a Ici di un terreno destinato ad attività
estrattiva, prevalgono, sui dati catastali, le situazioni di fatto e di
destinazione che possono evincersi dal Piano regolatore generale a partire
dalla concreta capacità edificatoria dello stesso, che comportano quindi
l'escludersi della sua esenzione.
A fornire indicazioni sul tipo di imposizione in parola annessa ai terreni
adibiti a cave, è stata la Ctr del Lazio con la
sentenza 19.09.2018 n. 6206/16/2018.
Era stato impugnato un avviso di accertamento emesso dall'ente comunale di
Guidonia a fronte di omessa dichiarazione Ici per l'anno 2008 per aree
ritenute fabbricabili e adibite ad attività estrattive, rispetto al quale la
ricorrente deduceva l'errata qualificazione delle stesse e l'assenza del
presupposto impositivo.
Accolto il ricorso in primo grado, l'ufficio
proponeva appello insistendo sulla imponibilità ai fini Ici sussistente
anche per le aree utilizzate per le attività di cava. La Commissione
regionale laziale, ripercorsa la normativa in materia a partire dal dlgs n.
504/1992, accoglieva l'appello dal momento che l'attività estrattiva non
poteva essere ricompresa nelle attività agricole proprie di cui all'art.
2135 c.c. pertanto l'area doveva essere considerata nella sua potenzialità
funzionale e reddituale.
In questo senso, i giudici riprendevano il filone
seguito sul punto dalla Corte di cassazione (sent. n. 27065/2008) la quale,
proprio considerando i cosiddetti terreni ex agricoli, quelli destinati a
cave appunto, reputava che gli stessi, dotati di autonomia funzionale e
redditualità propria, come sottoponibili a un criterio di valutazione che
prescindesse dall'accatastamento e desse maggior rilievo alla situazione di
fatto.
Da tali considerazioni la Corte (ex multis sent. n. 5485/2008)
ribadisce che ai fini Ici deve rilevare il tipo di attività cui l'immobile è
adibito e lo stesso non può dirsi esente laddove quella su di esso
esercitata, come nel caso di specie quella estrattiva, sia un'attività
commerciale: il terreno adibito a cava, pertanto, non può essere esente da
Ici.
L'operato dell'Ufficio era infatti ritenuto legittimo anche in
considerazione del fatto che lo stesso si era rifatto alle risultanze del
Piano regolatore generale dal quale emergeva che il terreno era classificato
come area fabbricabile, dato che superava le mere risultanze catastali
valorizzando anche solo potenzialmente l'immobile. Sempre la Cassazione (sent.
21764/2009) ha evidenziato l'importanza di quanto desumibile dal Prg anche a
prescindere dall'adozione di strumenti dello stesso attuativi.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(…) L'appello dell'Ufficio va accolto in considerazione della fondatezza
delle argomentazioni esposte. Orbene prima di entrare nel merito della
questione è bene evidenziare che in riferimento all'Ici sulle attività
estrattive il dlgs 504/1992 afferma che il presupposto dell'imposta è il
possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli e
l'attività estrattiva in terreni agricoli non è ricompresa nelle attività di
cui all'art. 2135 c.c., che appunto descrive e individua le attività che
devono considerarsi agricole.
Per tale motivo il terreno destinato ad
attività estrattiva, che non è appunto qualificabile come agricola, perde
conseguentemente qualifica di terreno agricolo e, quindi, in base all'art. 2
del decreto del ministero delle finanze n. 28/1998 diventa unità immobiliare
ovvero da un'area che, allo stato in cui si trova presenta potenzialità di
autonomia funzionale e reddituale. (…)
L'ordinanza n. 285/2000 della Corte
costituzionale, avente a oggetto la determinazione del valore su cui
applicare l'imposta di registro a seguito della vendita di un terreno
agricolo utilizzato a «cava» per l'estrazione e per la commercializzazione
ha confermato il principio legislativo sopra richiamato, ovvero che
l'attività estrattiva è attività industriale, concludendo che l'imposta di
registro va liquidata non sul valore catastale, cioè in base alla rendita
dominicale attribuita, ma con il criterio del valore reale, cioè come si fa
con i terreni agricoli destinati ad area fabbricabile. (…)
La sentenza della
Corte di cassazione n. 27065/2008 conferma che i fabbricati e le aree munite
di autonomia funzionale e atte a produrre reddito come i terreni ex agricoli
(destinati a cave), ai fini dell'applicazione dell'Ici, si distinguono
secondo il criterio differenziale dell'attribuzione o non attribuzione della
rendita catastale e non dalla iscrizione o non iscrizione del fabbricato al
catasto. (…)
E ancora le sentenze della Corte di cassazione n. 20776 del
26/10/2005, n. 23703 del 15/11/2007, n. 5485 del 29/08/2008 che ribadiscono
il principio che, ai fini Ici, per la sua esenzione rileva il tipo di
attività cui l'immobile è destinato e cioè che detta attività non sia svolta
in concreto con le modalità di una attività commerciale quale quella
estrattiva. Stante tali affermazioni di principi l'unità immobiliare (il
terreno) adibito a cava non può essere esente da Ici.
Nel caso che ci riguarda (…) questo collegio non intende discostarsi dal
deciso dei primi giudici i quali per ritenere fondato l'accertamento operato
dal comune hanno fatto riferimento al piano Regolatore Generale (…) e quindi
ha ritenuto il terreno edificabile soggetto all'imposta Ici. (…)
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.01.2019). |
TRIBUTI: Unità collabenti non tassabili come terreni.
Il fabbricato censito nella categoria F/2, unità collabenti, non è soggetto
al pagamento dell'imposta comunale sugli immobili, poiché privo di rendita
e, di conseguenza, di base imponibile. Neppure può essere consentito tassare
l'area di sedime, ancorché in zona edificabile, fino a quando il fabbricato
non venga demolito.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza
17.09.2018 n. 980/6/2018 della Ctp di Latina (presidente estensore
Costantino Ferrara).
La vertenza aveva a oggetto una richiesta di Ici
relativa a un'area sulla quale insistevano dei fabbricati fatiscenti,
iscritti in categoria catastale F/2 (collabenti): in particolare, il comune
aveva inteso tassare l'area di insistenza di detti fabbricati, secondo il
criterio di determinazione della base imponibile proprio delle aree
edificabili, attesto che, sulla base del Prg, tale area aveva destinazione
urbanistica produttiva.
Il collegio pontino ha accolto il ricorso,
condannando la parte resistente alle spese di giudizio. L'esistenza del
fabbricato, seppur irrimediabilmente fatiscente, non altera la natura del
bene, che resta, concordemente a quanto individuato in catasto, pur sempre
un fabbricato. Dunque, la pretesa impositiva non può trovare ragion d'essere
proprio perché tale fabbricato è privo di rendita, con effetto di
azzeramento della base imponibile su cui calcolare l'imposta. Né, tanto meno,
si può stravolgere il presupposto impositivo, considerando l'area
sottostante al fabbricato, poiché si tratterebbe di introdurre,
arbitrariamente, un nuovo elemento da assumersi come presupposto per
l'imposta, ossia l'area «fabbricata».
Pertanto, spiega la Ctp di Latina, l'area può diventare suscettibile di
tassazione soltanto dopo una eventuale demolizione del fabbricato
fatiscente, mentre anticipare tale momento rappresenterebbe un mero
escamotage che non trova fondamento giuridico.
Analoghi principi venivano affermati dalla Corte di cassazione nella
sentenza n. 17815/2017, con cui il Collegio di Piazza Cavour cassava una
sentenza della Ctr di Palermo e, decidendo nel merito, accoglieva il ricorso
introduttivo proposto da una società di capitali siciliana, condannando la
controparte (un comune della provincia di Palermo) al pagamento di ingenti
spese di giudizio. Anche in quel caso era stata sottoposta a tassazione
l'area di insistenza su cui era situato il collabente.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La R.B. srl, rappresentata e difesa come in atti, impugna l'avviso di
accertamento n. 2166 del 25/10/2016 emesso dal comune di Latina, in
relazione all'imposta Ici per l'annualità 2011. Le ragioni della pretesa
riguardano un immobile accatastato come «unità collabente», sul quale il
comune richiede l'Ici considerando le potenzialità edificatorie dell'area su
cui lo stesso insiste.
In sostanza, atteso che il fabbricato compreso nella
categoria unità collabente è privo di rendita, il comune applica la
tassazione considerando il terreno edificabile su cui esso insiste. La
ricorrente sostiene che le aree accatastate come unità collabenti non siano
imponibili ai fini Ici e aggiunge che, comunque, da anni sta corrispondendo
l'imposta su tale immobile, in misura ridotta rispetto a quanto preteso con
l'avviso di accertamento oggetto dell'impugnazione, di cui chiede
l'annullamento con vittoria di spese.
Si costituisce in giudizio il comune
di Latina, sostenendo la piena legittimità del proprio operato, poiché il
fabbricato collabente non può essere considerato un «fabbricato» secondo la
normativa dell'Imu, essendo privo di rendita. Pertanto, il valore dei
fabbricati stessi viene a coincidere con la capacità di sfruttamento
edilizio dell'area sottostante, modalità in cui il bene deve essere
consequenzialmente tassato.
Conclude perciò per la conferma
dell'accertamento.(…) La tesi giuridica su cui è fondata la posizione del
comune di Latina e in cui trova causa la pretesa fiscale oggetto
dell'odierna vertenza è infondata. Deve richiamarsi in tal senso il
principio espresso a più riprese dalla giurisprudenza tributaria di
legittimità secondo cui il fabbricato accatastato come unità collabente
(categoria F/2), oltre a non essere tassabile come fabbricato, in quanto
privo di rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino a
quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile,
che da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al subentro della
imposta sul fabbricato ricostruito (art. 5, comma 6, dlgs n. 504 del 1992:
Cass. 19.07.2017, n. 23801).
La sottrazione a imposizione del fabbricato collabente, iscritto nella
conforme categoria catastale F/2, in ragione dell'azzeramento della base
imponibile, non può essere recuperata prendendo a riferimento la diversa
base imponibile prevista per le aree edificabili, costituita dal valore
venale del terreno sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge
prevede l'imposizione Ici per le aree edificabili, e non per quelle già
edificate (Cass. 19.07.2017, n. 17815).
L'applicazione dei suddetti
principi al caso di specie rende illegittima la pretesa fiscale, allorché il
comune di Latina intende tassare un'unità collabente quale terreno
edificabile.(…)
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.10.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Valida la voltura con semplice Scia.
IMPIANTI EOLICI/ Atto p.a. non necessario.
Valida
la voltura di un'autorizzazione unica per un impianto eolico effettuata
mediante una semplice Scia senza quindi la necessità di un atto di voltura
emesso dall'amministrazione. Ciò in quanto il trasferimento, costituendo una
novazione soggettiva del titolo abilitativo, non richiede un'ulteriore
valutazione circa il possesso dei requisiti né tanto meno un provvedimento
espresso e/o una presa d'atto da parte dell'ente.
Il principio già affermato dal TAR del Lazio, sez. III (sentenza
n. 7276/2014) è stato confermato anche dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
14.09.2018 n. 5412, secondo cui «al fine di favorire il
principio generale della circolazione giuridica dei beni e dei titoli, sono
utilizzabili istituti di semplificazione amministrativa per le successive
modificazioni dal lato soggettivo dei medesimi».
Il tema della voltura degli atti amministrativi per la costruzione e la
gestione di impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile è
divenuto di grande attualità. In molti casi infatti il Gestore dei servizi
energetici Spa ha revocato gli incentivi pubblici, di cui godono tale
tipologia di impianti, proprio sul presupposto della mancanza della voltura
dell'autorizzazione unica, del permesso di costruire o della Dia, con
conseguente recupero di tutte le somme già erogate secondo quanto previsto
dall'art. 42, dlgs n. 28/2011.
Secondo la prospettiva dei giudici di Palazzo
Spada, l'istituto della Scia è quello volto alla maggiore semplificazione
possibile. La pronuncia si distanzia dall'orientamento maggioritario secondo
cui la voltura espressa è un requisito sostanziale per il mantenimento degli
incentivi e non una mera formalità (cfr. Tar Lazio, sez. III, n. 212/2015;
Cons. Stato Sez. IV, n. 5106/2018).
Infine si segnala che, sempre
nell'ottica della semplificazione, la Regione Lombardia, con la d.d.u.o. 02.10.2018 n. 13953, ha previsto un modulo standard di istanze di voltura
su tutto il territorio lombardo e ha imposto che la procedura avvenga telematicamente. Tuttavia la Regione Lombardia non ha semplificato fino al
punto di ammettere un silenzio-assenso
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2018).
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8.3. Migliore favore non incontra nemmeno il secondo motivo di appello, con
il quale si assume l’inutilizzabilità della scia per la voltura
dell’autorizzazione unica.
L’art. 19 della legge n. 241/1990 è chiaro nello stabilire, al suo primo
comma, che l’istituto della segnalazione certificata di inizio di attività
(salve le esclusioni ivi riportate) sostituisce “Ogni atto di
autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta
comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli
richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o
artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di
requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a
contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente
complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il
rilascio degli atti stessi”.
La norma non pone distinzione alcuna tra primo rilascio del titolo e sua
successiva eventuale voltura (cd. novazione soggettiva), sicché nel silenzio
della norma (chiaramente ispirata alla maggiore semplificazione possibile
dei procedimenti amministrativi) ogni tentativo di creare in via
interpretativa limiti o condizioni alla libera presentazione della scia,
anche per le successive volture del titoli acquisiti, appare anzi tradire lo
spirito e la ratio legis dell’introduzione dell’istituto nella legge
generale sul procedimento amministrativo.
Detta soluzione esegetica trova peraltro un’importante conferma nel
successivo comma 2 del medesimo art. 19 cit., il quale fa riferimento
esplicito all’attività oggetto della segnalazione (quindi, l’attività nel
suo complesso, anche quella svolta dal cessionario cui è stato eventualmente
volturato il titolo), senza distinzioni di sorta tra primo rilascio e
successivi trasferimenti.
In tal senso, del resto, si era già orientato il Consiglio di Stato
(ordinanza n. 3524/2013, poi confermata dall’ordinanza n. 4376/2013 in sede
di esecuzione), sebbene con sommaria delibazione, nell’ambito dell’appello
cautelare proposto avverso l’ordinanza cautelare del Tar adottata nel
medesimo giudizio, di iniziale reiezione dell’incidente cautelare proposto
dalla società ricorrente: il Consiglio di Stato, infatti, aveva ritenuto che
“il ricorso all’istituto della scia sembrerebbe esperibile nel
procedimento di cui è causa, concernente la voltura della titolarità di un
impianto alimentato da fonti rinnovabili”. |
TRIBUTI: Esonero
Tari a oneri invertiti. Spetta al contribuente provare il diritto alla
esenzione. Lo ha chiarito la Cassazione: va dimostrato che l’immobile non è
idoneo a produrre rifiuti.
Onere della prova a carico del contribuente per dimostrare che un immobile
non sia soggetto al pagamento della tassa rifiuti o che abbia diritto a
un'esenzione o a un trattamento agevolato.
La Corte di Cassazione (Sez. V civile -
ordinanza
07.09.2018 n. 21780)
di recente ha chiarito che non deve essere l'amministrazione comunale a
provare che un garage, un'autorimessa o altro immobile siano produttivi di
rifiuti. Ex lege, il comune si avvale di una presunzione legale di
produzione di rifiuti per tutti gli immobili occupati, salvo prova
contraria.
In deroga alle regole generali spetta all'interessato dimostrare,
anche in sede processuale, le cause di esclusione o di esonero dipendenti
dall'inidoneità degli immobili occupati alla produzione di rifiuti per la
loro natura o per il loro particolare uso. Dunque, secondo la Cassazione,
compete al contribuente e non all'ente fornire la prova della fonte
dell'obbligazione tributaria.
Peraltro non si può escludere il pagamento
della tassa per la «mera destinazione dell'immobile ad autorimessa, in
assenza del concreto accertamento dell'improduttività di rifiuti». Va invece
dimostrato che locali e aree sono inidonei alla produzione di rifiuti «per
loro natura o per il particolare uso». Prova che può essere fornita anche in
sede giudiziale.
La Cassazione (ordinanza 22124/2017) ha addirittura sostenuto che non sono
esclusi dal prelievo neppure i parcheggi sotterranei. Anche questi immobili
sono soggetti al pagamento della tassa rifiuti. L'area del sottosuolo
adibita a posto auto non è esente. La possibilità di produrre rifiuti,
infatti, non può essere esclusa dall'inesistenza di muri perimetrali che
delimitano la singola area adibita a parcheggio.
In particolare ha posto in
rilievo che «l'area del sottosuolo, adibita a posto auto, non è esente da
tassazione, posto che non sono ravvisabili ragioni che possano escludere la
possibilità di produrre rifiuti, laddove, nella specie, l'inesistenza di
muri perimetrali, che delimitano la singola area adibita a parcheggio,
appare irrilevante, in quanto le aree a ciò utilizzate sono aree,
esattamente individuabili ed esclusivamente a disposizione
dell'utilizzatore, e quindi frequentate da persone e, come tali, produttive
di rifiuti in via presuntiva».
Nell'ordinanza vengono richiamate altre
pronunce emanate su garage, autorimesse e box, perché ritengono i giudici
che non vi sia alcuna differenza di trattamento fiscale rispetto ai
parcheggi sotterranei.
Il presupposto per la tassazione.
L'articolo 1, comma 641, della legge 147/2013 prevede che il presupposto
della Tari sia il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di
aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti
urbani. Sono però esonerate dal pagamento della tassa le aree scoperte
pertinenziali o accessorie a locali tassabili, non operative, e le aree
comuni condominiali di cui all'articolo 1117 del codice civile che non siano
detenute o occupate in via esclusiva. La stesa regola valeva per la Tarsu.
Non sono soggetti a imposizione i locali e le aree che non possono produrre
rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente
destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità
nel corso dell'anno, sempre che queste circostanze siano indicate nella
denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad
elementi obiettivi direttamente rilevabili o a idonea documentazione.
Tra i
locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la natura delle loro
superfici rientrano quelli situati in luoghi impraticabili, interclusi o in
stato di abbandono. Pertanto, la legge prevede una presunzione relativa di
produzione dei rifiuti che ammette la prova contraria. La sussistenza delle
condizioni che fanno venir meno la presunzione di legge della potenziale
produzione di rifiuti devono essere provate dal contribuente e riscontrabili
da parte dell'amministrazione.
Sono sottratti all'imposizione solo i locali
e le aree che sono oggettivamente inutilizzabili o insuscettibili di
produrre rifiuti, e non quelli lasciati in concreto inutilizzati. Anche la
scelta soggettiva del titolare di non usare l'immobile non assume alcuna
rilevanza. La Cassazione ha ripetutamente ribadito che anche gli immobili
vuoti, vale a dire privi di allacci alle reti idriche, elettriche, o di
mobili, sono soggetti al prelievo.
Del resto, il principio che tutti gli
immobili devono essere tassati non subisce alcuna deroga neanche nei casi in
cui il servizio di raccolta dei rifiuti non venga svolto
dall'amministrazione comunale o venga svolto in modo inefficiente. Anche
quando vengono meno le condizioni che consentono di poter fruire del
servizio, i contribuenti sono tenuti al pagamento del tributo, seppure in
misura ridotta. In questi casi la tassa è dovuta in misura non superiore al
40%. Per affermare questo diritto alla riduzione non è richiesto che gli
interessati debbano dimostrare una precisa responsabilità
dell'amministrazione.
L'agevolazione spetta per il semplice fatto che il servizio non viene svolto
secondo i criteri previsti dalla legge e dal regolamento comunale. Al
riguardo la Cassazione, con l'ordinanza 22531/2017, ha giudicato infondata
la decisione della commissione regionale, laddove non aveva riconosciuto il
diritto del contribuente alla riduzione tariffaria poiché aveva escluso la
responsabilità del comune di Napoli per il disservizio. E ha precisato che
non ha alcuna rilevanza la responsabilità dell'amministrazione.
In base alla
disciplina Tarsu, ma la stessa regola vale oggi per la Tari, il diritto alla
riduzione sorge «per il solo fatto che il servizio di raccolta, debitamente
istituito ed attivato, non venga poi concretamente svolto, ovvero venga
svolto in grave difformità rispetto alle modalità regolamentari relative
alle distanze e capacità dei contenitori, e alla frequenza della raccolta;
così da far venir meno le condizioni di ordinaria ed agevole fruizione del
servizio da parte dell'utente».
Il trattamento agevolato non è un risarcimento del danno per la mancata
raccolta dei rifiuti, né costituisce una sanzione per l'amministrazione
inadempiente.
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Anche l'inagibilità va documentata.
Un immobile destinato ad attività commerciale su una parte del quale vengono
eseguiti lavori di ristrutturazione è soggetto integralmente al pagamento
della tassa rifiuti, se il titolare non dimostri con apposita documentazione
l'inagibilità dell'immobile che lo rende inutilizzabile, nonché la durata e
le modalità di esecuzione dei lavori. In questo senso si è espressa la
Cassazione (sentenza 8910/2018), secondo la quale è importante dimostrare
«se la ristrutturazione ha interessato l'intera unità immobiliare,
impedendone quindi l'utilizzazione, o solo una parte».
L'obiettiva inutilizzabilità «ricorre non già quando i locali sono stati
lasciati, per una qualsiasi ragione, inutilizzati, ma quando sono in
condizioni che ne impediscono l'utilizzabilità, solo in tal caso le
superfici possono essere sottratte alla tassazione». Tra l'altro, poi,
l'inutilizzabilità «deve essere univocamente accertabile». La contribuente,
invece, «non ha prodotto documentazione comprovante l'avvenuta
ristrutturazione e attestante durata e modalità di esecuzione dei lavori»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018). |
TRIBUTI: Alloggi
contigui, solo uno non paga l'Imu.
Con l'ordinanza 31.07.2018 n. 20368 la
Corte di Cassazione, Sez. VI civile, interviene sulla possibilità o meno di estendere la
nozione di abitazione principale, nell'Imu, agli alloggi contigui per i
quali la Corte aveva espresso parere favorevole in diverse occasioni in
ambito Ici.
Ricordiamo, infatti, che con le pronunce dal 2008 al 2017, la Corte aveva
ritenuto ammissibile la qualificazione di abitazione principale Ici a tutte
le unità abitative contigue utilizzate dal medesimo nucleo familiare
giudicando del tutto irrilevante il fatto che esse fossero censite
separatamente, ovvero intestate a soggetti diversi (n. 12269/2010).
Con
l'avvento dell'Imu la Corte rileva, nella pronuncia in commento, che lo
scenario normativo è profondamente cambiato e, dovendo applicare il
principio inderogabile di stretta interpretazione delle norme agevolative
(tra le molte in tema di Ici: Cassazione nn. 23833/2017, 3011/2017), non si
può non rilevare la diversa definizione di abitazione principale dettata
dall'articolo 13, comma 2, decreto-legge n. 201/2011, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 214/2011, e successive modifiche ed
integrazioni.
In particolare la Corte si sofferma sull'inciso normativo
dell'Imu, del tutto assente nell'Ici, che qualifica come abitazione
principale «l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano
come unica unità immobiliare, nel quale il possessore ed il suo nucleo
familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente».
Tale nuova
formulazione della definizione impedisce, di fatto, l'applicabilità all'Imu
della giurisprudenza formatasi nell'Ici in riguardo alle unità immobiliari
contigue che, pur diversamente accatastate, siano destinate ad essere di
concreto utilizzate come abitazione principale dall'intero nucleo.
Questa prima pronuncia dei giudici ha il pregio di confermare in toto la
tesi degli enti locali i quali, in presenza di unità contigue occupate dal
medesimo nucleo, attribuiscono la qualifica di abitazione principale a una
sola delle unità occupate, pretendendo il versamento dell'Imu ordinaria
dalle altre. Resterà da verificare se siffatta tesi potrà essere assunta e
ribadita dalla Corte anche nel caso in cui i contribuenti abbiano provveduto
alla fusione catastale ai fini fiscali delle due o più unità contigue
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2019).
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MASSIMA
4. Il secondo motivo è invece manifestamente fondato.
Giova premettere in fatto che la presente controversia trae origine da
istanza di rimborso formulata dai contribuenti sul presupposto che
dovessero entrambi beneficiare dell'agevolazione prevista dall'art. 13,
comma 2, del d.l. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, nella l. 24.12.2011, n. 214, in relazione al fatto
che essi, padre e figlia, possedessero come abitazione principale, ivi
dimorandovi stabilmente ed avendo lì la propria residenza anagrafica,
l'unità immobiliare di proprietà l'una dell'altro.
4.1. Osserva la Corte che il tenore letterale della norma in esame è
chiaro, diversificandosi in modo evidente dalla previsione in tema di
ICI in tema di agevolazione relativa al possesso di abitazione
principale, oggetto di diversi interventi normativi.
L'art. 13, comma 2, del citato d.l. n. 201/2011, per quanto qui rileva,
statuisce che «L'imposta municipale propria non si applica al possesso
dell'abitazione principale e delle pertinenze della stessa, ad eccezione di
quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 [... J. Per
abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel
catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il
possessore ed il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e
risiedono anagraficamente».
Ciò comporta, per un verso, la non applicabilità della giurisprudenza
della Corte formatasi in tema di ICI, riferita, peraltro, ad unità
immobiliari contigue che, pur diversamente accatastate, fossero
destinate ad essere in concreto utilizzate come abitazione principale del
compendio nel suo complesso (cfr. Cass. sez. 5, 29.10.2008, n. 25902;
Cass. sez. 5, 09.12.2009, n. 25279; Cass. sez. 5, 12.02.2010, n. 3393; Cass. sez. 6-5, ord.
03.02.2017, 3011), per
altro la necessità che in riferimento alla stessa unità immobiliare tanto
il possessore quanto il suo nucleo familiare dimorino ivi stabilmente e
vi risiedano anagraficamente.
4.2. Ciò, d'altronde, è conforme all'orientamento costante espresso da
questa Corte, in ordine alla natura di stretta interpretazione delle
norme agevolative (tra le molte, in tema di ICI, più di recente, cfr.
Cass. sez. 5, 11.10.2017, n. 23833; Cass. sez. 6-5, ord. 03.02.2017, n. 3011), condiviso anche dalla Corte costituzionale (cfr. Corte
cost. 20.11.2017, n. 242).
4.3. D'altronde, come indiretta conferma di quanto sopra osservato,
rileva anche la modifica introdotta, nel contesto del citato 13 del d.l. n.
201/2011, con l'aggiunta, ad opera dell'art. 1, comma 10, della 1. n.
208/2015, della previsione, al comma 3, del comma Oa), secondo cui,
solo con decorrenza dal 01.01.2016, la base imponibile
dell'imposta municipale propria è ridotta del 50% «per le unità
immobiliari, fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie
catastali A/1, A/8 e A/9, concesse in comodato dal soggetto passivo
ai parenti in linea retta entro il primo grado che le utilizzano come
abitazione principale, a condizione che il contratto sia registrato e che
il comodante possieda un solo immobile in Italia e risieda
anagraficamente nonché dimori stabilmente nello stesso comune in cui
è situato l'immobile concesso in comodato [...]». |
TRIBUTI: Cabine
per fototessere senza imposta.
La cabina per fare le fototessere automatiche costituisce una sorta di
succursale dell'azienda; così che le affissioni sulle stesse automatiche,
rappresentano l'insegna dell'azienda e hanno lo scopo di indicare il luogo
dove si svolge l'attività e si può usufruire dei servizi offerti. A ciò
consegue che se le affissioni rispettano il limite dimensionale di 5 mq, pur
riportando dei messaggi astrattamente configurabili come «pubblicitari», non
è comunque dovuto il pagamento dell'imposta comunale sulla pubblicità.
Ad affermarlo è la Ctr della Lombardia-Milano nella
sentenza 26.06.2018 n. 2928/7/2018.
Il concessionario per la riscossione delle imposte per il comune Olgiate
Olona (in provincia di Varese) avanzava una richiesta relativa all'imposta
sulla pubblicità, diretta a una società operante nel campo della fotografia.
In particolare, l'imposta veniva richiesta per i manifesti, ritenuti a scopo
pubblicitario, affissi sulle cabine per le fototessere, solitamente ubicate
in luoghi di transito (tipo stazioni ferroviarie o uffici pubblici).
La contribuente invocava l'esenzione di cui all'articolo 17, comma 1-bis, dl
n. 507/1993, secondo cui l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio
di attività commerciali che contraddistinguono la sede in cui viene svolta
l'attività, a condizione che l'affissione rispetti il limite di 5 mq.
Il
collegio di primo grado aveva annullato l'atto accertativo, con decisione
confermata dalla Ctr della Lombardia nella sentenza in commento: la cabina
fotografica, benché renda un servizio automaticamente attivato dall'utente,
costituisce una sorta di sede succursale dell'azienda e, comunque, un luogo
dove è possibile fruire dei servizi resi da questa. Così che, le affissioni,
a prescindere dal messaggio pubblicitario, hanno lo scopo di indicare il
luogo di svolgimento dell'attività e, nei limiti dimensionali predetti,
debbono considerarsi insegna esente dall'imposta sulla pubblicità.
A sostegno, si può citare l'orientamento della Corte di Cassazione, secondo
cui la norma invocata «non consente di introdurre distinzioni in relazione
al concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell'insegna,
purché la stessa, oltre a essere installata nella sede dell'attività a cui
si riferisce o nelle pertinenze accessorie, e ad avere la funzione di
indicare il luogo di svolgimento dell'attività, si mantenga nel predetto
limite dimensionale» (Cass. n. 5337/2013).
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(…) Con avviso di accertamento n. 21, anno 2015, la I. srl richiedeva alla
D.A. srl il pagamento di complessivi 157,12 per impianti pubblicitari di
superficie complessiva inferiore a 5 mq. posti nel territorio del comune di
Olgiate Olona.
Avverso il predetto atto impositivo D. proponeva ricorso
avanti la competente Commissione tributaria provinciale di Varese deducendo
che tale avviso risultava errato e contrario alla normativa vigente per
essere insegna di esercizio di superficie inferiore a 5 mq e come tale
esclusa dall'obbligo impositivo. I giudici provinciali accoglievano il
ricorso. (…)
Le affissioni sulle cabine fotografiche, all'interno delle quali è possibile
fare le fototessere automatiche, rappresentano l'insegna dell'azienda e
hanno lo scopo di indicare il luogo (o i luoghi succursali) ove viene in
concreto svolta l'attività.
Di conseguenza se dette affissioni rispettano il limite dimensionale di 5 mq
per le stesse non è dovuta alcuna imposta comunale sulla pubblicità. Vale
infatti l'esenzione di cui all'articolo 17, comma 1-bis, dlgs. n. 507/1993
secondo cui l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività
commerciali che contraddistinguono la sede in cui viene svolta L'attività a
condizione che l'affissione rispetti il limite di 5 mq come nella
fattispecie.
La cabina fotografica benché renda un servizio automaticamente attivato
dall'utente costituisce una sorta di sede succursale dell'azienda e comunque
un luogo dove è possibile fruire dei servizi resi da onesta. Così che le
affissioni a prescindere dal messaggio pubblicitario hanno lo scopo di
indicare il luogo di svolgimento dell'attività e nei limiti dimensionali
predetti debbono considerarsi insegna esente dall'imposta sulla pubblicità.
Tuttavia la novità delle questioni trattate l'incertezza giurisprudenziale e
motivi di equità sono gravi ed eccezionali ragioni di compensazione
integrale delle spese di entrambi i gradi del giudizio.
P.Q.M.
La Commissione respinge l'appello. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Rettifica
catastale, motivazione specifica.
Quando l'ufficio notifica al contribuente un avviso di accertamento in
rettifica dei dati sul classamento e sulla rendita catastale inizialmente
presentati dallo stesso all'esito della procedura di Do.c.fa., dovrà
specificatamente esporre le ragioni per cui abbia ritenuto doveroso non
attenersi a quei dati, rideterminandoli. In mancanza, si imporrà
l'annullamento dell'atto per carenza di motivazione.
Sono questi i chiarimenti che si leggono nella
sentenza 21.06.2018 n. 375/02/2018 della Ctp di Brescia.
Nel caso di specie aveva proposto ricorso contro un avviso di classamento e
rettifica della rendita catastale su un immobile sito nel comune di Lonato
del Garda, una associazione impegnata nel campo delle attività religiose e
di assistenza disabili. Questa, in precedenza, aveva già rappresentato al
competente ufficio delle Entrate un classamento e una rendita proprie, a
seguito di presentazione della dichiarazione attraverso l'ordinaria
procedura Do.c.fa.
Su tali dati, quindi, interveniva l'accertamento
dell'ufficio bresciano, il quale li rideterminava, attribuendo diversa
categoria e diversa rendita. Tra i motivi di ricorso esaminati dalla
Commissione, merita particolare attenzione quello sollevato in ordine al
difetto di motivazione dell'atto impugnato, ritenendo la ricorrente che,
dallo stesso, non si evinceva alcuna ragione a fronte della quale l'ufficio
avesse ritenuto non attendibili i dati riportati con la denuncia
originariamente presentata.
Sul punto, i giudici di Brescia osservavano che
l'accertamento catastale in esame, al pari di ogni altro atto emesso
dall'amministrazione finanziaria, deve rispettare i canoni motivazionali
prescritti dall'art. 7 della legge n. 212/2000, rendendosi pertanto
necessario che con lo stesso l'ufficio, nell'illustrare presupposti di fatto
e ragioni di diritto della pretesa, prenda posizione anche su quei motivi a
fronte dei quali abbia deciso di disattendere le risultanze di rendita e classamento offerte in prima battuta dalla contribuente.
Nel caso di specie,
tale ulteriore aspetto motivazionale non era ravvisabile nell'atto, motivato
superficialmente e dal quale, quindi, la Commissione non riteneva possibile
rilevare le ragioni della diversa qualificazione operata dall'ufficio, il
quale, certamente, non poteva a quel punto più addurre le stesse in fase
contenziosa (in tal senso anche Cass. n. 5580/2015). La Ctp, quindi,
constatato l'effettivo difetto motivazionale e tenuto conto
dell'impossibilità di integrazione dello stesso in sede di giudizio,
decideva di annullare l'accertamento impugnato dall'associazione.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Con il richiamato avviso l'Ufficio, a fronte della prodotta rendita
proposta, dall'Associazione a mezzo di procedura Do.c.fa. all'esito di una
ristrutturazione con la quale indicava il classamento in categoria B/l,
classe 1 con R.C. di 2.244,00, accertava in luogo di questi, una diversa
categoria con associata altrettanta diversa rendita ( ) Avverso il descritto
atto, l'Associazione i R. in persona del suo presidente C. E. ( ) proponeva
tempestivo ricorso ( ).
L'accertamento catastale, come ogni atto emesso dalla Pubblica
amministrazione deve avere i requisiti previsti dall'art. 7 della legge n.
212/2000 in virtù del quale devono essere indicati i presupposti di fatto e
le ragioni giuridiche che hanno determinato la emissione del provvedimento.
In particolare sull'accertamento, a natura e contenuto catastale, derivato
dalla procedura Do.c.fa., la Suprema corte di cassazione, con ordinanza 20.06.2013, n. 15495 che richiama altre pronunce quanto al principio in
diritto ivi contenuto, ha evidenziato come la specificità della procedura,
che ha un avvio eminentemente officioso, è connotata da peculiari profili
che richiedono, nel momento terminale della procedura (l'accertamento), un
dettagliato e motivato provvedimento da parte dell'Ufficio in termini
concreti e non meramente enunciativi se si vuole disattendere l'anteriore
formulata proposta. ( )
Dalla lettura della motivazione dell'avviso di
accertamento impugnato emerge che l'Ufficio ha attribuito all'immobile di
proprietà dell'Ente la categoria catastale D/8 con questa motivazione:
«Considerate le caratteristiche dell'immobile, proprie delle categorie
speciali ( ), si attribuisce la cat. D8. Il classamento è avvenuto a seguito
di stima diretta». Soggiunge, la motivazione, che il costo del fabbricato è
stato conteggiato con riferimento a richiami di prassi reperibili sul sito
dell'Agenzia oltre alla determinazione del costo secondo diversa
configurazione.
Tuttavia, dalla telegrafica motivazione non si ricavano le
ragioni in virtù delle quali l'ufficio disattende la proposta (Do.c.fa.)
formulata dalla ricorrente e per tale motivo non ha messo in condizioni la
difesa, e questa Commissione, di comprendere la ragioni di una diversa
qualificazione che non può essere esplicitata nel corso del giudizio.
In
tale senso la Suprema Corte di cassazione, oltre agli arresti richiamati,
con sentenza Sez. VI - 5, 19.03.2015, n. 5580 ha ribadito che la
motivazione deve mettere «in chiaro» le ragioni che hanno indotto
l'Amministrazione a respingere il contenuto della Do.c.fa. e non è possibile
la sua integrazione successiva. Per questo motivo l'accertamento deve essere
annullato.( )
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2018). |
TRIBUTI: Rettifica
catastale, obbligo di motivazione.
Gli avvisi di accertamento in rettifica della rendita catastale non si
sottraggono al rispetto dell'obbligo di motivazione sancito dall'art. 7
della legge n. 212 del 27.07.2000. Tale norma dello Statuto dei diritti
del contribuente impone, pertanto, la necessaria indicazione dei presupposti
di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell'amministrazione anche con riguardo alle attribuzioni di una nuova
rendita.
È il principio che si ricava dalla
sentenza 18.06.2018
n. 341/1/2018 emessa dalla I Sez. della Ctp di Bergamo.
Nel caso di specie il ricorso si prestava all'accoglimento in quanto era
facilmente rilevabile dai giudici la carenza motivazionale che traspariva
dall'accertamento impugnato. La Ctp bergamasca osservava infatti che l'atto
in esame non poteva dirsi validamente motivato esclusivamente attraverso un
generico richiamo al decreto ministeriale senza che si offrisse al
contribuente la descrizione esatta, applicata al caso concreto, dei metodi
di accertamento utilizzati per le rettifiche. La mera indicazione della
categoria, della classe e della rendita non è sufficiente all'idonea
motivazione dell'atto, nemmeno rispetto al metodo comparativo utilizzato
avente a oggetto fabbricati similari.
Anche la Cassazione (ex multis Cass.
ord. n. 2357 del 03/02/2014) si è dimostrata contraria agli accertamenti
catastali «indiscriminati» affermando che quando procede all'attribuzione
d'ufficio di un nuovo classamento, l'Agenzia deve specificare se esso sia
dovuto a trasformazioni specifiche subite dalla unità immobiliare in
questione oppure a una risistemazione dei parametri relativi alla microzona,
in cui si colloca l'unità immobiliare, occorrendo indicare le trasformazioni
edilizie intervenute nonché l'atto con cui si è provveduto alla revisione
dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti
miglioramenti del contesto urbano; rendendo così possibile la conoscenza dei
presupposti del riclassamento da parte del contribuente.
Dalla motivazione
dell'atto devono emergere le modalità di rilevazione dei valori medi, gli
atti di trasferimento monitorati e rilevati, la metodologia e la bontà dei
sistemi di rilevazione, la specifica menzione dei rapporti e del relativo
scostamento, in mancanza siamo in presenza di una totale carenza di
motivazione e quindi nullità dell'atto per violazione dell'art. 7, legge n.
212/2000. In definitiva, un accertamento catastale non poteva che essere
annullato per difetto di motivazione, non idonea a garantire al contribuente
la possibilità di spiegare un'adeguata difesa.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Il ricorso merita accoglimento. Deve, invero, essere solo evidenziato che
l'Ufficio resistente non ha neppure formalmente rispettato il disposto di
cui ali' art. 7 della legge 27.07.2000, n. 212, nella parte in cui
impone alla Amministrazione Finanziaria la motivazione dei provvedimenti
amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che
determinano la decisione dell'amministrazione.
Nulla di tutto ciò, infatti,
risulta dall'avviso di accertamento impugnato, in cui il semplice richiamo
astratto al decreto ministeriale che detta i criteri applicativi
dell'accertamento, ha la pretesa di sostituire la concreta metodologia
operativa, che avrebbe dovuto essere offerta alla ricorrente.
Per modo che, in definitiva, lungi dal rendere edotta quest'ultima sul
metodo di stima, sui fabbricati in comparazione aventi natura analoga e
sulla loro ubicazione, l'Ufficio ha semplicemente indicato (seconda pagina
dell'avviso) una categoria, una classe e una rendita che ha la pretesa di
ritenere sufficienti per esporre i motivi dell'azione accertatrice. Ha, in
definitiva, così emesso un avviso nullo in quanto, all'evidenza, lo stesso
non ha messo in condizione la ricorrente di difendersi sul punto. Ex art. 15
dlgs 546/1992, alla soccombenza segue la condanna alle spese in favore della
ricorrente, nella misura indicata nel dispositivo.
P.Q.M.
visti gli artt. 15 e 35, dlgs 546/1992 dichiara la nullità
dell'avviso di accertamento e, per l'effetto, condanna l'Amministrazione
Finanziaria a rifondere alla ricorrente le spese di giudizio, che si
liquidano in euro duemilacinquecento (2.500), oltre agli accessori di legge
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018). |
TRIBUTI:
La bolletta giustifica l'agevolazione Ici.
In tema di agevolazioni Ici per l'abitazione principale, la mancanza del
requisito formale della residenza può essere superato mediante una
convincente prova fattuale, volta a dimostrare che l'immobile viene
effettivamente utilizzato come dimora abituale; in tal senso, le utenze e i
consumi di energia elettrica e gas, incompatibili con una prospettiva di
utilizzo secondario dell'abitazione, possono risultare utili per la conferma
del beneficio fiscale.
È quanto accaduto nella vertenza portata in decisione dalla Ctp di Viterbo,
con la
sentenza 12.06.2018 n. 302/02/2018.
Un contribuente della provincia laziale aveva impugnato l'avviso di
accertamento con cui gli venivano revocate le agevolazioni per l'abitazione
principale, con recupero ai fini Ici. Motivo della rettifica, il mancato
trasferimento della residenza nell'immobile indicato come prima casa.
Nel corso del giudizio, il contribuente sosteneva di abitare effettivamente
in quell'immobile, confermando la circostanza mediante l'allegazione di
copiosa documentazione.
Il collegio di Viterbo ha dapprima ricordato come, in materia di Ici, la
residenza anagrafica rivesta un valore presuntivo circa il luogo di
residenza effettivo e che la stessa possa essere superata da una prova
contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, il cui
apprezzamento è riservato alla valutazione del giudice di merito. Il
principio è stato affermato diverse volte dalla giurisprudenza di
legittimità, con pronunce citate nella motivazione della sentenza in
commento.
A tal proposito la Ctp ha analizzato le bollette per la fornitura di energia
elettrica, apprezzandole sotto un profilo quantitativo da cui si può
reputare incompatibile il consumo con l'ipotesi che l'abitazione non sia una
dimora abituale, bensì soltanto secondaria. Analogo ragionamento è stato
fatto in ordine alla fornitura di gas relativa alla medesima abitazione.
Queste ragioni fattuali hanno indotto il giudice tributario ad accogliere il
ricorso del contribuente, pur in mancanza della residenza anagrafica, che il
contribuente aveva provveduto comunque a trasferire, sebbene in anni
successivi rispetto a quello oggetto del recupero fiscale.
All'annullamento dell'atto impositivo, tuttavia, non è seguita la condanna
alle spese, che il collegio ha ritenuto di poter compensare tra le parti.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(…) In particolare, il comune di Viterbo emetteva l'avviso di accertamento
oggetto della impugnazione poiché, a seguito di verifiche eseguite
dall'Ufficio tributario, era emerso che la parte ricorrente non aveva
provveduto al versamento dell'imposta con riferimento all'immobile
identificato (…) per i mesi precedenti alla data in cui il soggetto vi aveva
stabilito la residenza anagrafica. Deduce il ricorrente la illegittimità
dell'atto impugnato per violazione di legge sotto il profilo del mancato
riconoscimento del beneficio della utilizzazione dell'immobile quale
abitazione principale. (…)
Il ricorso è fondato. Osserva il Collegio come la disciplina normativa in
materia, art. 8, 1 comma 2, dlgs 30.12.1992, n. 504, dispone che:
«Dalla imposta dovuta per l'unità immobiliare adibita ad abitazione
principale del soggetto passivo intendendosi per tale salvo prova contraria
quella di residenza anagrafica si detraggono fino a concorrenza del suo
ammontare L. 200.000 rapportate al periodo dell'anno durante il quale si
protrae tale destinazione; (...). Per abitazione principale si intende
quella nella quale il contribuente che la possiede a titolo di proprietà
usufrutto o altro diritto reale e i suoi familiari dimorano abitualmente».
(…) La Suprema corte, tuttavia, è orientata verso una impostazione
sostanziale, ritenendo che: «In tema di Ici l'agevolazione prevista
dall'art. 8 del dlgs n. 504 del 1992 per l'immobile adibito ad abitazione
principale non può essere negata a causa dell'omessa indicazione
dell'abitazione principale nella dichiarazione effettuata ai sensi dell'art.
11 del dlgs n. 504 del 1992, né per la divergenza tra il luogo indicato e la
residenza anagrafica del contribuente, in quanto la dichiarazione, quale
manifestazione di scienza, può essere liberamente modifìcata dal
contribuente in qualunque momento, anche in sede processuale, mentre le
risultanze anagrafiche rivestono un valore presuntivo e possono essere
superate da prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento
e suscettibile di apprezzamento riservato alla valutazione del giudice di
merito» (Cass. civ., sez. V, 28.05.2010, n. 13151). (…)
Rileva il
Collegio che dalla documentazione depositata in atti e, in particolare,
dalle bollette per la fornitura di energia elettrica (…) e dal contratto di
fornitura del gas presso l'immobile in oggetto a dar fata dal dicembre 2010
si evince in maniera chiara che l'odierno ricorrente aveva provveduto a
stabilire la propria dimora abituale nell'immobile in oggetto ben prima
della modifica formale della propria residenza, avvenuta in data 27.06.2011. Sotto tale profilo, dunque, il ricorso deve trovare accoglimento e,
per l'effetto, deve essere annullato l'avviso di accertamento impugnato. (…)
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2018). |
SICUREZZA LAVORO: Documento
di valutazione dei rischi non delegabile.
La redazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr) è compito
specifico del datore di lavoro e in quanto tale insuscettibile di formare
oggetto di delega.
Così si è espressa la Corte di Cassazione - Sez. IV penale (sentenza
14.06.2017 n.
29731).
La vicenda riguardava una società ritenuta responsabile, prima dal Tribunale
e successivamente dalla Corte d'appello, del reato di lesioni colpose (art.
590 cod. pen.) in danno di un lavoratore vittima di un infortunio mentre era
intento alle operazioni di sostituzione del tappeto della macchina rotativa.
La condotta del lavoratore consentiva alla società una riduzione dei costi
lavorazione e, conseguentemente, maggiori utili rispetto a quelli
realizzabili attraverso il rispetto della normativa antinfortunistica.
Da ciò ne era discesa la colpa d'organizzazione della società consistita
nella mancata adozione, in relazione alla specifica ipotesi delittuosa in
esame, di un modello organizzativo e gestionale nonché nella mancata
assicurazione di un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli
obblighi giuridici previsti dalla normativa in materia di salute e
sicurezza.
Al riguardo i giudici di legittimità, rigettando il ricorso presentato dalla
società, avevano confermato quanto statuito in primo e secondo grado
rilevando che, nel caso di specie, il documento di valutazione rischi, la
cui redazione è compito specifico del datore di lavoro e in quanto tale
insuscettibile di formare oggetto di delega, era stato stilato in maniera
incompleta.
Gli ermellini avevano ritenuto che proprio dalla suddetta lacuna era
susseguito l'infortunio del lavoratore rispetto al quale la società era
responsabile ai sensi dell'art. 590 c.p.
In particolare, la società aveva omesso di valutare adeguatamente i rischi
specifici per l'incolumità dei lavoratori insiti nelle attrezzature per il
sollevamento presenti in azienda e di predisporre misure di prevenzione e
protezione idonee a evitarne la concretizzazione, nonché procedure per
l'attuazione delle stesse ed adeguata formazione, informazione ed
addestramento del personale addetto. Inoltre aveva omesso di valutare il
rischio derivante dalle operazioni di manutenzione in generale, così
trascurando completamente quelle di sostituzione del tappeto della macchina
rotativa.
Ma non solo: il mancato rispetto della normativa antinfortunistica, dalla
quale ne è conseguito un vantaggio per la società derivante dal risparmio di
tempo, fonda la responsabilità amministrativa da reato di cui all'art. 5 del
dlgs 231/2001.
Si ricorda che il predetto articolo ritiene l'ente responsabile per i reati
commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
• da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di
amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa
dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che
esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
• da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei
soggetti appena menzionati
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019). |
TRIBUTI:
A fini fiscali è decisivo l'accatastamento.
Le imposte locali sui fabbricati sono dovute dal momento in cui vengono
accatastati. È decisivo l'accatastamento dei fabbricati ai fini fiscali.
Sono soggetti al pagamento di Ici, Imu e Tasi dal momento in cui risultano
iscritti in catasto, nonostante la legge fissi come criteri alternativi per
l'assoggettamento a imposizione o l'ultimazione dei lavori o l'utilizzazione
dei fabbricati.
Questi ultimi criteri, secondo la Corte di Cassazione - Sez. V civile (sentenza
16.12.2016 n. 26054), assumono rilievo solo nel caso in cui il
fabbricato di nuova costruzione non sia ancora iscritto in catasto. Per i
giudici di legittimità, ai fini dell'assoggettabilità a imposta di
fabbricati di nuova costruzione, il criterio alternativo previsto dalla
normativa Ici, che si applica anche a Imu e Tasi, «della data di
ultimazione dei lavori ovvero di quella anteriore di utilizzazione, acquista
rilievo solo quando il fabbricato medesimo non sia ancora iscritto al
catasto, realizzando tale iscrizione, di per sé, il presupposto principale
per assoggettare il bene all'imposta».
Va ricordato che per i fabbricati iscritti in catasto il valore
dell'immobile si ottiene facendo riferimento all'ammontare delle rendite
vigenti al 1° gennaio dell'anno di imposizione. Tuttavia, la rendita è solo
il parametro per la determinazione della base imponibile. Quindi, è
opinabile l'interpretazione della Suprema corte che identifica
nell'iscrizione in catasto il presupposto impositivo.
L'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992, infatti, fissa letteralmente
il presupposto per il pagamento delle imposte locali nella ultimazione dei
lavori del fabbricato o nel suo utilizzo, qualora preceda l'ultimazione. E
non è affatto previsto che questi criteri valgano solo per gli immobili di
nuova costruzione
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019).
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MASSIMA
Il motivo di ricorso principale è fondato.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello secondo cui "In
tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini dell'assoggettabilità
ad imposta di fabbricati di nuova costruzione, il criterio alternativo,
previsto dall'art. 2 del d.lgs. 30.12.1992, n. 504, della data di
ultimazione dei lavori ovvero di quella anteriore di utilizzazione, acquista
rilievo solo quando il fabbricato medesimo non sia ancora iscritto al
catasto, realizzando tale iscrizione, di per sé, il presupposto principale
per assoggettare il bene all'imposta"
(Cass. n. 15177/2010, 8781/2015, ord. n. 5372/2009, 24924/2008).
Nella vicenda, l'immobile risulta pacificamente accatastato dal 1999 e,
pertanto, da tale data risulta assoggettabile all'imposta ICI mentre, il
certificato di abitabilità non attesta alcuna agibilità dello stesso, ma la
sola idoneità-igienico sanitaria del manufatto atta a consentirne l'uso, che
non incide, però, sulla sua esistenza (in particolare, ai fini fiscali).
Pertanto, da una parte, l'iscrizione nel catasto
edilizio dell'unità immobiliare costituisce di per sé, presupposto
sufficiente perché l'unità sia considerata fabbricato e, di conseguenza,
assoggettabile all'imposta prevista, laddove per i fabbricati di nuova
costruzione i criteri alternativi dell'ultimazione dei lavori o di
utilizzazione del fabbricato assumono rilievo solo per l'ipotesi in cui il
fabbricato di nuova costruzione non sia ancora iscritto in catasto
(Cass. n. 24924/2008), mentre, d'altra parte,
l'inagibilità (che consente la riduzione d'imposta) è correlata alla
temporanea impossibilità di utilizzo dell'immobile, intesa come situazione
intrinseca di degrado dello stesso, superabile con interventi di
manutenzione straordinaria, e non come qualità giuridica superabile con il
rilascio del certificato di abitabilità
(secondo Cass. ord. n. 5372/2009 "...il rilascio del
certificato di abitabilità non costituisce presupposto per l'applicazione
dell'imposta, non potendosi desumere il contrario dal tenore dell'art. 8,
comma 1, del citato decreto, che si riferisce esclusivamente all'ipotesi di
fabbricati dichiarati inagibili e inabitabili a seguito di perizia
dell'ufficio tecnico comunale, e di fatto non utilizzati"). |
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