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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MAGGIO 2019

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aggiornamento al 20.05.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 20.05.2019

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Anche le manutenzioni ordinarie e straordinarie possono essere oggetto di incentivazione, a patto che siano di particolare complessità.
Beh, è ora che anche la Corte dei Conte (con tutto rispetto) "si dia una regolata": non sono più ammissibili incertezze ovvero (pseudo)certezze che -successivamente- non si rivelano tali andando, poi, a mettere le mani nelle tasche dei dipendenti per rifondere le casse comunali in ordine all'indebita erogazione dell'incentivo.
Ma cosa significa esattamente di "particolare complessità"?
  Vero è che la Corte scrive letteralmente che "L’attività manutentiva ... deve risultare caratterizzata da problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all’amministrazione affinché il procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia della spesa".
Ma è altrettanto vero che, diversamente opinando, si perverrebbe all'aberrante conclusione che la "normale" e necessaria diligenza di un pubblico dipendente, nello svolgimento degli affari correnti, non sarebbe di per sé sufficiente -"se non assistita da un supplemento di attività"- affinché "il procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia della spesa".
Stiamo scherzando, vero?
Al riguardo, risulta opportuno qui ricordare quanto evidenziavamo con l'AGGIORNAMENTO AL 16.10.2015 laddove la Suprema Corte ha statuito (ovviamente) che il "modello" di Pubblica Amministrazione, tra l'altro, "è composta di funzionari preparati, efficienti, prudenti e zelanti (art. 98 cost.)".
E allora, prepariamoci a fiumi, inondazioni di parole, commenti, interpretazioni che dir si voglia...
Altresì, la fantasia italica non tarderà a manifestarsi:
scommettiamo che vedremo regolamenti comunali che statuiranno, per esempio, quale "manutenzione ordinaria particolarmente complessa" anche la semplice sostituzione di una lampadina del WC?

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Ok dalla sezione Autonomie agli incentivi tecnici anche per le manutenzioni ordinarie e straordinarie «complesse».
In modo simile all'estensione degli incentivi agli appalti di servizi e forniture, che la legge limita alla sola presenza del direttore dell'esecuzione e per importi non inferiori ai 500mila euro o di particolare complessità, anche le manutenzioni ordinarie e straordinarie possono essere oggetto di incentivazione, a patto che siano di particolare complessità.
Sono queste le indicazioni della Corte dei conti, sezione delle Autonomie, nella deliberazione 09.01.2019 n. 2.
Il contrasto tra le sezioni regionali
La Sezione di controllo per l'Umbria ha rimesso la questione di massima alla Sezione delle Autonomie, per capire se, nel nuovo quadro legislativo, rientrassero o meno gli incentivi tecnici legati ad attività di manutenzioni ordinarie e straordinarie (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 16 ottobre) in considerazione del contrasto di soluzioni tra Sezioni di controllo.
Si ricorda come il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia (parere 16.03.2018 n. 121) ne aveva delimitato il possibile ambito di applicazione alle sole manutenzioni straordinarie, escludendo quelle ordinarie.
Il percorso logico della Sezione Autonomie
Secondo la Sezione delle Autonomie, il legislatore, con le nuove disposizioni del Dlgs 50/2016 (articolo 113), ha ritenuto incentivabili le attività compiute, dai diversi profili tecnici e amministrativi, del personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all'esecuzione del contratto, consentendo l'erogazione degli incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture e non più, come in passato, per i soli appalti di lavori.
Tuttavia, per evitare una erogazione indiscriminata per gli appalti di servizi e forniture, ha stabilito che questi ultimi potranno essere oggetto di incentivazione solo in presenza della nomina del direttore dell'esecuzione, obbligatoria per appalti di importo superiore a 500.000 euro ovvero qualora di particolare complessità.
Sicuramente la manutenzione straordinaria presenta caratteristiche particolari potendo rientrare nel novero delle attività complesse, tali da richiedere, da parte del personale tecnico-amministrativo, un'attività di programmazione della spesa, di valutazione del progetto o di controllo delle procedure di gara e dell'esecuzione del contratto rispetto ai termini del documento di gara, esattamente come qualunque altro appalto di lavori, servizi o forniture.
A differenza delle manutenzioni straordinarie, quelle ordinarie possono essere di semplice realizzazione, in quanto spesso prive di un progetto da attuare o perché l'amministrazione procede all'affidamento con modalità diverse dalla gara che costituisce presupposto indefettibile della norma ai fini della determinazione del fondo vincolato.
Conclusioni
In definitiva per la Sezione delle Autonomie anche le attività di manutenzione straordinaria o ordinaria potrebbero rientrare, a pieno titolo, tra le funzioni incentivabili purché caratterizzate da problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all'amministrazione affinché il procedimento, che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali, si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l'efficienza e l'efficacia della spesa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.01.2019).

INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHE: Possibilità di riconoscere gli incentivi previsti dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) anche per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici in relazione ai lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria.
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Gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) possono essere riconosciuti, nei limiti previsti dalla norma, anche in relazione agli appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria di particolare complessità.

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PREMESSO
Con nota dell’11.07.2018, la Provincia di Perugia ha rivolto alla Sezione regionale di controllo per l’Umbria, per il tramite del Consiglio delle Autonomie locali, una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, in merito alla possibilità di riconoscere gli incentivi previsti dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) anche per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici in relazione ai lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Nel rilevare che in due precedenti occasioni, precisamente nel parere 14.05.2015 n. 71 e parere 26.04.2017 n. 51,
la Sezione regionale di controllo per l’Umbria aveva escluso l’attività manutentiva dal regime di incentivazione previsto, rispettivamente, dall’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e dal citato art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, il Presidente della Provincia di Perugia osservava come sulla medesima questione la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con parere 09.06.2017 n. 190, avesse espresso un parere contrario, nel senso che l’art. 113 non sembrerebbe “delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime”.
In ragione del fatto nuovo costituito dalla sopravvenienza del parere reso dalla Sezione di controllo Lombardia, la Provincia di Perugia sollecitava una revisione dell’orientamento espresso dalla Sezione Umbria, chiedendo di pronunciarsi “sull’inclusione o esclusione delle attività tecniche di programmazione, verifica, appalto, di responsabile unico di procedimento e direzione dei lavori connesse con i lavori di manutenzione, ordinaria e straordinaria, nella o dall’incentivazione prevista dall’art. 113 del d.lgs. 50/2016”.
Con la deliberazione 08.10.2018 n. 103, la Sezione regionale di controllo per l’Umbria, richiamata in premessa la predetta richiesta di parere e valutati positivamente i profili di ammissibilità soggettiva ed oggettiva della questione, ha individuato i punti di convergenza e di contrasto fra i diversi approdi ermeneutici delle Sezioni regionali di controllo, ripercorrendone le motivazioni alla luce del mutato quadro normativo.
In particolare, la Sezione remittente ha osservato come il dubbio interpretativo origini dal raffronto tra la nuova disciplina dettata dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 e quella previgente (contenuta nell’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006), la quale aveva espressamente escluso la possibilità di ripartire gli incentivi per le attività manutentive, esclusione che la nuova norma non ripete (almeno in maniera esplicita).
Ed invero, mentre il comma 7-ter dell’art. 93, nel definire le modalità di riparto delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione, stabiliva che: “
… Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”, il vigente art. 113, rubricato “Incentivi per funzioni tecniche”, al terzo comma dispone che: “L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”.
Inoltre, mentre il comma 7-ter recitava: “L’80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori”, l’attuale dettato normativo di cui al secondo comma dell’art. 113 dispone che: “… le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. […] La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Ciò premesso, ad avviso della Sezione remittente
appare dirimente stabilire, in primo luogo, se le “attività manutentive” non siano incentivabili in quanto non rientranti tra le funzioni tecniche indicate dalla norma, il cui elenco è da considerare tassativo.
In secondo luogo,
andrebbe stabilito se l’esclusione degli incentivi in questione trovi fondamento nella definizione di “appalti pubblici di lavori”, la quale, a giudizio della Sezione regionale per l’Emilia-Romagna (parere 07.12.2016 n. 118), non consentirebbe di includervi le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Dubbi nascerebbero anche dal fatto che, secondo l’indirizzo seguito dalla Sezione di controllo Toscana (parere 14.12.2017 n. 186),
le attività manutentive sarebbero caratterizzate, per lo più, dalla loro semplicità, laddove l’incentivazione de qua mirerebbe a premiare lo svolgimento di funzioni tecniche di una certa complessità.
Infine,
andrebbe accertato se l’esistenza di un divieto alla concessione dell’incentivazione per gli appalti di manutenzione possa desumersi in ragione di una comune ratio ispiratrice tra nuova e previgente normativa in materia di incentivi, come rappresentato dalla Sezione di controllo Veneto (parere 12.05.2017 n. 338).
In diverso avviso rispetto a quanto osservato dalle altre Sezioni di controllo, si è espressa la Sezione regionale per la Lombardia, la quale, con il richiamato parere 09.06.2017 n. 190, nel sottolineare come “gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture”, aveva ritenuto che “l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni indicate nell’art. 113”.
Per altro verso, la Sezione remittente ha osservato come, in realtà, il rischio che gli incentivi siano concedibili anche per attività manutentive di contenuto semplice sarebbe ridotto, ove si consideri che, secondo il citato parere della Sezione Lombardia, sono incentivabili “le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara”, essendo gli incentivi in questione riconosciuti “esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa”.
Alla luce di dette considerazioni, la Sezione regionale di controllo per l’Umbria, preso atto del contrasto giurisprudenziale esistente, ha sospeso la pronuncia ed ha rimesso la questione di massima alle valutazioni del Presidente della Corte dei conti con riferimento al medesimo quesito proposto dal Presidente della Provincia di Perugia.
Il Presidente della Corte, con ordinanza n. 25 del 27.11.2018, ha deferito alla Sezione delle autonomie l’esame e la pronuncia in ordine alla prospettata questione di massima.
CONSIDERATO
La Sezione è chiamata ad esprimere il proprio avviso in merito alla questione di massima sollevata, ai sensi dell'art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, dalla Sezione regionale di controllo per l’Umbria con deliberazione 08.10.2018 n. 103, incentrata sull’interpretazione dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) ed, in particolare, sulla possibilità che gli incentivi per funzioni tecniche siano riconosciuti in relazione anche agli appalti di lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Questione analoga è stata già affrontata da questa Sezione in sede nomofilattica e risolta in senso negativo con deliberazione 23.03.2016 n. 10, in riferimento, però, all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006.
Gli aspetti innovativi della formulazione della norma sull’incentivazione del personale delle amministrazioni pubbliche contenuta nell’art. 113 richiedono, tuttavia, un nuovo esame della questione alla luce dei più recenti indirizzi interpretativi elaborati dalle Sezioni regionali di controllo.
Come già evidenziato nella deliberazione 06.04.2017 n. 7, “
il compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice degli appalti non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato”.
La discontinuità della ratio della nuova normativa rispetto alla precedente è chiaramente percepibile dai principi contenuti nella legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr, della legge n. 11/2016), dove si precisa che il compenso per le attività tecniche è finalizzato ad “incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera … escludendo l'applicazione degli incentivi alla progettazione”.
Tale evoluzione normativa è stata lucidamente sintetizzata dalla Sezione di controllo per la Toscana nella seguente espressione: “L’originaria ratio –rappresentata dalla volontà di spostare all’interno degli uffici attività di progettazione e capacità professionali di elevato profilo e basata su un nesso intrinseco tra opera e attività creativa di progettazione, di tipo libero-professionale (“prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati” come diceva la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite della Corte dei conti)- è stata gradualmente affiancata e poi sostituita con quella invece rappresentata dalla volontà di accrescere efficienza ed efficacia di attività tipiche dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso d’opera” (parere 14.12.2017 n. 186).
Come esattamente rilevato,
la nuova disciplina mira a stimolare, valorizzare e premiare i diversi profili, tecnici e amministrativi, del personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all’esecuzione del contratto, consentendo l’erogazione degli incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici (ex multis, Sezione di controllo Emilia-Romagna, parere 07.12.2016 n. 118).
L’inserimento tra le attività “incentivabili” previste dal secondo comma dell’art. 113 delle “verifiche di conformità”, che rappresentano le modalità di controllo dell’esecuzione dei contratti di appalto di servizi e forniture (cfr. art. 102, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016), costituisce ulteriore elemento dal quale è possibile inferire una voluntas legis tesa a stimolare, attraverso gli incentivi, una più attenta gestione delle fasi della programmazione e dell’esecuzione anche dei contratti pubblici di appalto di servizi e forniture (benché per questi ultimi l’incentivo risulti applicabile solo “nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”, nomina richiesta, secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità).
Il fatto, poi, che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture, comporta che gli stessi si configurino, non più solo come spesa finalizzata ad investimenti, ma anche come spesa di funzionamento e, dunque, come spesa corrente. In tal senso depone la novella introdotta al comma 5-bis dell’art. 113 ad opera dell’art. 1, comma 526, della legge di bilancio n. 205/2017, secondo la quale gli oneri relativi agli incentivi per le funzioni tecniche vanno imputati allo stesso capitolo del bilancio che finanzia i singoli lavori, servizi e forniture, in modo che l’impegno di spesa vada assunto, a seconda della natura (corrente o in c/capitale), nel Titolo I o nel Titolo II dello stato di previsione del bilancio (deliberazione 26.04.2018 n. 6).
In questa rinnovata prospettiva,
la circostanza che, nella nuova disciplina, il legislatore non abbia riproposto il divieto, introdotto dal comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, di ripartire l’incentivazione per le attività manutentive, è ancor più indicativo di una voluntas legis tesa a segnare il superamento del precedente sistema con l’individuazione di margini applicativi più ampi e la rinuncia ad intervenire sulle modalità di riparto del fondo.
Una soluzione interpretativa che impedisse di destinare le risorse del fondo a favore del personale interno impegnato nelle attività tecniche connesse a lavori di manutenzione favorirebbe, per questo genere di attività, una realizzazione dell’opera, paradossalmente, meno attenta all’osservanza delle regole dell’arte, dei tempi di esecuzione e dei costi prestabiliti, in antitesi con il principio ispiratore dell’art. 113.
Deve peraltro riconoscersi che l’esclusione delle attività manutentive dal criterio di valutazione della complessità delle opere, prevista dal comma 7-ter dell’art. 93, non era dettata da ragioni di ordine sistematico, tant’è che le opere di manutenzione non erano escluse dal comma 7-bis dello stesso art. 93, benché questo, ai fini della determinazione della percentuale effettiva del fondo, ribadisse (senza esclusione alcuna) gli stessi criteri “dell’entità e della complessità dell’opera da realizzare” già previsti dalla legge n. 109/1994 e riprodotti al comma 5 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 (comma, a sua volta, abrogato dall’art. 13 del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito in legge n. 114/2014).
Occorre, quindi, prendere atto che
nel mutato quadro normativo non vi sono motivi ostativi ad includere nell’incentivazione prevista dall’art. 113 anche le attività tecniche strettamente connesse a lavori di manutenzione, svolte cioè all’interno delle fasi procedimentali che connotano gli affidamenti dei contratti pubblici di manutenzione ordinaria e straordinaria (programmazione, progettazione, selezione degli operatori economici, stipulazione ed esecuzione del contratto).
Per loro natura,
i lavori di manutenzione consistono in un’opera volta a rimediare al degrado strutturale, tecnologico o impiantistico di un manufatto o di sue componenti, quindi ad un recupero di valore e funzionalità attraverso un’azione riparativa che rientra nel genere dei “lavori” (come previsto dalla lettera nn) dell’art. 3, del d.lgs. n. 50/2016) e, più in particolare, nel quadro degli “appalti pubblici di lavori” (quand’anche l’attività manutentiva risulti estranea alle costruzioni edili di cui all’Allegato I).
Non si pone, in questo caso, neppure un problema di numerus clausus delle “funzioni tecniche”, oggetto di incentivo secondo il principio di tassatività affermato e ribadito dalla Corte, con riferimento anche al secondo comma dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, argomentando dall’avverbio “esclusivamente” che precede l’elenco delle attività incentivabili. Infatti,
le attività manutentive non rientrano tra le “funzioni tecniche” che i dipendenti pubblici svolgono ai fini dell’incentivazione prevista dall’art. 113, in quanto la manutenzione costituisce, appunto, l’oggetto di un appalto di lavori rispetto al quale il personale dell’Amministrazione può svolgere una o più “funzioni tecniche” ad esso correlate.
Negli appalti di lavori di manutenzione è possibile realizzare, in astratto, tutte le attività tecniche previste dal secondo comma dell’art. 113, anche se, in concreto, le stesse risultano compatibili con interventi di manutenzione (soprattutto straordinaria) contrassegnati da elevata complessità, i quali possono richiedere, da parte del personale tecnico-amministrativo, un’attività di programmazione della spesa, di valutazione del progetto o di controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto rispetto ai termini del documento di gara, esattamente come qualunque altro appalto di lavori, servizi o forniture.
Per gli interventi di manutenzione ordinaria di più semplice realizzazione, invece, la possibilità di svolgere le funzioni tecniche è esclusa, il più delle volte, o dall’assenza di un progetto da attuare o perché l’amministrazione procede all’affidamento con modalità diverse dalla gara, la quale costituisce presupposto indefettibile della norma ai fini della determinazione del fondo vincolato (facendo l’art. 113 espresso riferimento all’“importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”).
Presupposto ulteriore per il riconoscimento degli incentivi, oltre al rispetto del tetto annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo ed alla previa adozione di un atto interno di natura regolamentare diretto a stabilire criteri e modalità di ripartizione delle risorse tra gli aventi diritto, è che le funzioni tecniche svolte dai dipendenti siano “necessarie” per consentire “l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
L’attività manutentiva, pertanto, deve risultare caratterizzata da problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all’amministrazione affinché il procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia della spesa.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per l’Umbria con la deliberazione 08.10.2018 n. 103, enuncia il seguente principio di diritto: “
Gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) possono essere riconosciuti, nei limiti previsti dalla norma, anche in relazione agli appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria di particolare complessità.”
La Sezione regionale di controllo per l’Umbria si atterrà al principio di diritto enunciato nel presente atto di orientamento, al quale si conformeranno tutte le Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213 (Corte dei Conti, Sez. autonomie, deliberazione 09.01.2019 n. 2).

Ed altro, ancora, in materia di incentivo...

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGiro contabile per incentivi e fondo innovazione.
Incentivi tecnici e fondo innovazione con giro contabile. È questa la soluzione al rebus sulla corretta registrazione a bilancio delle due voci incentivanti individuata dalla Commissione Arconet.

L'organismo che sovrintende all'applicazione del nuovo ordinamento contabile degli enti territoriali ha affrontato la questione nella riunione del 20 marzo scorso, il cui resoconto è stato appena pubblicato. Sugli incentivi tecnici, la Commissione recepisce e integra quanto già previsto dall'art. 113, comma 5-bis, del dlgs 50/2016, ai sensi del quale le relative spese vanno imputate al medesimo capitolo previsto per l'appalto. Quest'ultimo andrà collocato nel titolo II, ove si tratti di opere, o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture. L
'impegno è registrato, con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.00 Fondi incentivanti il personale (legge Merloni).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita dall'accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Ricordiamo che, in base alla deliberazione 26.04.2018 n. 6 della sezione autonomie, gli incentivi non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dall'art. 23, comma 2, del dlgs 75/2017. Le stesse modalità di registrazione sono adottate anche per la quota del 20% prevista dal comma 4 dell'art. 113 (c.d. «fondo innovazione») destinata all'acquisto beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di orientamento.
Tale quota è quindi impegnata anche tra le spese correnti o di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile della competenza finanziaria (articolo ItaliaOggi del 04.05.2019).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEArconet, incentivi tecnici e fondo innovazione sempre in parte corrente.
Gli incentivi tecnici e il fondo innovazione devono sempre essere contabilizzati nella parte corrente del bilancio.

Il tema, molto attuale per gli enti locali in un periodo di espansione degli investimenti, spunta nelle carte di lavoro appena pubblicate della Commissione Arconet (resoconto della riunione del 20 marzo scorso) che approva la modifica dei principi contabili finalizzata a chiarire le modalità di registrazione degli incentivi tecnici sia nella contabilità finanziaria (paragrafo 5.2), sia in quella economico-patrimoniale (paragrafo 3).
Gli incentivi tecnici
Gli impegni riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche previsti dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 (compresi i relativi oneri contributivi ed erariali) devono essere assunti all'interno degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono.
Sono dunque contabilizzati nel titolo II della spesa per le opere pubbliche o nel titolo I per servizi e forniture. L'impegno è registrato, con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio, nel rispetto dell'articolo 113, comma 2 e seguenti, ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.00 Fondi incentivanti il personale.
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita dall'accertamento di entrata di cui sopra, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando effetti di duplicazione della spesa.
Il fondo innovazione
Tali modalità di registrazione si applicano anche per la quota del 20% prevista dal comma 4 dell'articolo 113 («fondo innovazione») destinata all'acquisto beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti d'innovazione, nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di orientamento.
A seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio, nel rispetto dell'articolo 113, comma 2 e seguenti, la spesa è impegnata a carico degli stanziamenti di uscita riguardanti i lavori, servizi e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.». Tale quota del 20% è poi impegnata anche tra le poste correnti o di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile della competenza finanziaria.
La copertura finanziaria è costituita dall'accertamento di entrata di cui sopra, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Risvolti economico-patrimoniali
È puntualizzato, poi, che in contabilità economico-patrimoniale gli accertamenti effettuati a valere della voce del piano finanziario E.3.05.99.02.001 «Fondi incentivanti il personale (legge Merloni)» non determinano la formazione di ricavi. La liquidazione degli impegni correlati a tali entrate, assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti gli incentivi tecnici e il fondo risorse finanziarie previsti dall'articolo 113, comma 2, del Dlgs n. 50/2016 non determina la formazione di costi.
Fra le novità, infine, la ridenominazione della voce del piano dei conti 3.05.99.02.00, dove viene inserito il riferimento all'articolo 113 del Dlgs 50/2016 (al posto del richiamo della legge Merloni) e la conseguente modifica del glossario SIOPE (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Le condizioni di carattere generale che devono sussistere ai fini dell’incentivabilità delle funzioni tecniche sono così riassumibili:
   1.
che l’Amministrazione sia dotata di apposito regolamento interno essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogati. Occorre a tal proposito rilevare che il comma 3 dell’art. 113 fa obbligo all'Amministrazione aggiudicatrice di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”: una condizione, questa, che secondo la Sezione delle Autonomie, collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti;
   2.
che le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi dell’art. 113, comma 2, siano ripartite, per ciascuna opera, lavoro, servizio e fornitura, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
   3.
che negli appalti relativi a servizi o forniture sia nominato il direttore dell'esecuzione;
   4.
che il relativo impegno di spesa sia assunto a valere sulle risorse stanziate nel quadro economico dell’appalto, attraverso la costituzione di un apposito fondo vincolato non superiore al 2% dell’importo dei lavori di manutenzione posti a base di gara;
   5.
che l’incentivo spettante al singolo dipendente non ecceda il tetto annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo.
----------------
Negli appalti di lavori di manutenzione è possibile realizzare tutte le attività tecniche previste dal secondo comma dell’art. 113, purché gli interventi manutentivi siano contrassegnati da quella elevata complessità che rappresenta il presupposto per lo svolgimento di dette funzioni.

Per gli interventi di manutenzione ordinaria di più semplice realizzazione, tuttavia, la possibilità di svolgere le funzioni tecniche potrebbe essere esclusa in concreto dall’assenza di un progetto da attuare, o dalla circostanza che l’Amministrazione proceda all’affidamento con modalità diverse dalla gara.
Il secondo comma dell’art. 113 richiede infatti che l’incentivazione sia destinata a quelle funzioni tecniche svolte dai dipendenti “ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Si presuppone pertanto che a monte vi sia una “gara”, cui del resto è parametrato il limite percentuale massimo dell’incentivo, ed in assenza della quale esso risulta pertanto non quantificabile, ed inoltre che l'attività sia caratterizzata da “problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all’Amministrazione affinché il procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia della spesa”
.
Permane poi necessario anche nella fattispecie il rispetto dei requisiti di ordine generale già precedentemente richiamati, in risposta al primo quesito (par. III in diritto).
Le ulteriori condizioni, che si cumulano alle suddette di carattere generale, affinché le attività tecniche, svolte in funzione di una corretta e spedita esecuzione delle attività di manutenzione ordinaria, possano costituire oggetto di incentivazione, sono quindi così riassumibili:
   1.
che alla base dell’affidamento vi sia una procedura di gara;
   2.
che l’attività manutentiva risulti caratterizzata da particolare complessità, tale da necessitare di uno sforzo supplementare affinché l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, il progetto, i tempi e i costi prestabiliti;
   3.
che le attività tecniche, amministrative e contabili svolte dai dipendenti, previamente accertate, siano strettamente collegate ai lavori manutentivi da eseguire.
----------------
Il fatto che si proceda mediante Consip non è di per sé preclusivo al riconoscimento di incentivi per funzioni tecniche, come d'altra parte si evince anche dalla norma contenuta nel secondo comma dell'art. 113, per la quale “Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale” che implicitamente prevede la possibilità di destinare quota del fondo ai dipendenti interni, ove ne ricorrano le condizioni.
Va tuttavia evidenziato come la medesima giurisprudenza consultiva si sia premunita di specificare come permanga anche in questo caso indefettibile il presupposto che vi sia a monte una “gara”, poiché in mancanza di tale requisito non può esservi l’accantonamento delle risorse nel fondo, ai sensi del secondo comma dell’art. 113.

Va inoltre evidenziato come, in termini più generali,
le previsioni legislative inerenti all’acquisto di beni e servizi mediante strumenti di e-procurement (quali convenzioni Consip, MEPA, eccetera) rispondano ad esigenze di semplificazione e razionalizzazione del procedimento di provvista della Pubblica Amministrazione. Pertanto, come già correttamente rilevato in sede consultiva, laddove l’ente sia tenuto o decida di far ricorso a tali modalità di approvvigionamento, le attività indicate nell’art. 113 potrebbero, in concreto, non realizzarsi, con conseguente impossibilità di procedere alla erogazione dei connessi incentivi.
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Posto che ricorra lo svolgimento di una delle attività elencate dal secondo comma dell’art. 113 e che vi sia a monte una gara, l’incentivo può essere riconosciuto anche in relazione ad un appalto di servizi, ove, in analogia alle altre casistiche esaminate, ciò sia richiesto dalla particolare complessità dell’appalto, entro i limiti, anch’essi già qui analizzati, che possono essere così riassunti:
   1. che l’Amministrazione sia dotata di apposito regolamento interno;
   2. che le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi dell’art. 113, comma 2, siano ripartite con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
   3. che sia stato nominato il direttore dell'esecuzione;
   4. che il relativo impegno di spesa sia assunto attraverso la costituzione di un apposito fondo vincolato non superiore al 2% dell’importo posto a base di gara;
  5. che l’incentivo spettante al singolo dipendente non ecceda il tetto annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo;
   6. che l’attività risulti caratterizzata da particolare complessità, tale da necessitare di uno sforzo supplementare affinché l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, i tempi ed i costi prestabiliti.
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La normativa contabile non pone di per sé un limite inferiore alla quota di incentivi
(sempre determinata a partire dall’importo posto a base di gara e dal trattamento economico in godimento) ma soltanto limiti superiori. Tuttavia, come già evidenziato, la previsione di funzioni incentivate è intrinsecamente legata alla esigenza di razionalizzazione della spesa pubblica, attuata nello specifico attraverso la valorizzazione delle risorse interne, in quanto si tratti di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio, per le quali diversamente le Amministrazioni pubbliche dovrebbero ricorrere a professionisti esterni sul mercato, con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato.
Pur non essendovi alcuna norma che espressamente imponga all’ente di utilizzare appieno gli incentivi per funzioni tecniche, l’eventuale “riconoscimento di una percentuale anche molto inferiore al 2% previsto dall'art. 113” deve essere valutato attentamente dall’Amministrazione, affinché esso non sia associato a situazioni di sottoutilizzazione delle risorse interne tali da potersi indirettamente ripercuotere in senso negativo sui costi complessivamente sostenuti, eventualità che la ratio della norma vuole invece scongiurare.
La previsione di incentivi, purché contenuta nei limiti richiamati, non è dunque foriera di effetti che il legislatore giudica necessariamente negativi per la finanza pubblica, ed in tal senso il ricorso allo strumento andrà attentamente ponderato, tenuto conto di tutti gli interessi in gioco. In ciò si sostanzia però in ultima analisi la discrezionalità amministrativa dell’ente, nell’esercizio della quale questa Sezione di controllo non può sostituirsi al Comune.
Spetterà dunque necessariamente al Comune stesso
la valutazione in concreto circa l’opportunità, o meno, di ricorrere a detta forma d’incentivazione in misura sensibilmente inferiore a quella massima consentita dalla legge.
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Il Sindaco del Comune di Spinea (VE) ha posto a questa Sezione, con un’unica richiesta di parere, sei distinti quesiti in merito alla corretta destinazione e contabilizzazione degli incentivi di funzioni tecniche, di cui all’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), chiedendo se:
   1. la spesa per il pagamento di tali incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche rientri o meno nell'ammontare complessivo della spesa del personale ai fini dell’applicazione del limite di cui all'art. 1, co. 557, della legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007);
   2. l'incentivo in oggetto possa essere riconosciuto per la gestione di opere di manutenzione straordinaria ricomprese all'interno del Piano triennale delle opere pubbliche dell'ente, e dunque di importo rilevante per l'Amministrazione comunale;
   3. l'incentivo in oggetto possa essere riconosciuto a fronte di manutenzioni ordinarie che comunque prevedono lo svolgimento di alcune delle attività previste dal richiamato art. 113, co. 2, del Codice dei contratti pubblici, come, ad esempio, l'attività svolta dai dipendenti comunali per la predisposizione e controllo delle procedure di gara e l'esecuzione dei contratti pubblici riferiti alla riasfaltatura di una strada (manutenzione ordinaria);
   4. l'incentivo possa essere riconosciuto a fronte della gestione di un appalto di fornitura di servizi affidato mediante adesione ad una convenzione Consip già attiva. Nella fattispecie specifica la fornitura di energia elettrica e la manutenzione degli impianti di pubblica illuminazione, convenzione attiva in Consip, al quale l'ufficio tecnico del Comune ha intenzione di aderire;
   5. l'incentivo possa essere riconosciuto a fronte della gestione di un appalto di fornitura di servizi di assistenza domiciliare, che verrà assegnato a seguito dell'esperimento di apposita gara;
   6. l'Amministrazione comunale possa destinare, per l'erogazione di tutti gli incentivi in questione, un budget annuo complessivo che potrebbe comportare il riconoscimento di una percentuale anche molto inferiore al 2% previsto dall'art. 113 o l'esclusione di alcuni appalti dall'incentivazione.
...
Tutto ciò premesso in ordine ai requisiti di ammissibilità in senso oggettivo, la Sezione ritiene che i primi cinque quesiti posti dal Sindaco del Comune di Spinea siano tutti ammissibili, vertendo in ordine all’interpretazione della normativa vincolistica in materia di spesa per il personale, in relazione a quanto disposto dall’art. 113 del Codice dei contratti pubblici, mentre il sesto quesito è solo parzialmente ammissibile, in quanto esorbitante i limiti dianzi esposti. Ragioni di ordine logico-sistematico ed espositivo inducono tuttavia a definire l'ambito di ammissibilità del sesto quesito, e la risposta allo stesso entro i limiti così chiariti, solo dopo aver proceduto alla disamina dei precedenti cinque, che come si è detto risultano tutti ammissibili.
II. Occorre rammentare brevemente l'evoluzione della normativa e della giurisprudenza consultiva della Corte dei conti che hanno contraddistinto la materia degli incentivi per funzioni tecniche ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni.
L’introduzione nell’ordinamento di detti incentivi risale, com’è noto, alla legge 11.02.1994, n. 109 (c.d. legge Merloni), che prevedeva la ripartizione a favore di determinati soggetti (il responsabile unico del procedimento, gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, ed i loro collaboratori) di un incentivo a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, fissato entro il limite massimo del 1,5% dell'importo posto a base di gara.
La ratio della norma, come evidenziato dalle Sezioni riunite in sede di controllo con deliberazione 04.10.2011 n. 51, era quella di destinare una quota di risorse pubbliche “a incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche, in quanto in tal caso si tratta all’evidenza di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’Amministrazione pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato”.
La previsione di funzioni incentivate è dunque intrinsecamente legata, sin dal suo esordio nell’ordinamento, alla esigenza di razionalizzazione della spesa, attuata nello specifico attraverso la valorizzazione delle risorse interne. Il legislatore, al fine di non contraddire gli scopi dell’istituto, ha posto attenzione ai vincoli di natura contabile entro cui rendere utilizzabile lo strumento. Il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice degli appalti) innovò alla previgente normativa, portando il limite delle risorse destinabili all’incentivo al 2% dell’importo a base di gara, ma prevedendo allo stesso tempo un vincolo ulteriore, per il quale l’incentivo erogato non doveva comunque superare l’importo del trattamento complessivo annuo lordo già in godimento dal singolo dipendente. Detto limite risulta peraltro ridotto oggi al 50% del medesimo trattamento.
La legge 11.08.2014, n. 114, di conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90, istituì il “fondo per la progettazione e l’innovazione”, a valere sugli stanziamenti destinati a finanziare gli incentivi, e da ripartirsi secondo percentuali prestabilite: l’80% destinato agli incentivi per il responsabile unico del procedimento e gli altri soggetti che svolgono le funzioni tecniche, nonché i loro collaboratori, ed il restante 20%, destinato invece all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione e di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa.
Con il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) si è passati dal suddetto “fondo per la progettazione e l’innovazione” al fondo incentivante “le funzioni tecniche”, che ora includono, a norma dell’art. 113 dell’articolato, anche le attività di “programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici” oltre a quelle, già incentivate in passato, riferibili al responsabile unico del procedimento, alla direzione dei lavori ed al collaudo tecnico-amministrativo; l’incentivo invece non è più destinabile agli incaricati della redazione del progetto e del piano della sicurezza, com’era nella previgente disciplina.
È evidente lo scopo del legislatore di estendere l’incentivo anche ad attività dirette ad assicurare l’efficacia della spesa e l’effettività della programmazione, attraverso l’ampliamento del novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati ora anche nel personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all’esecuzione del contratto (come già evidenziato dalla Sezione di controllo per la Toscana con parere 14.12.2017 n. 186).
Ad integrazione della predetta norma è intervenuto l’art. 76 del decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, che ha riferito l’imputazione degli oneri per le attività tecniche ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della spesa, non solo con riguardo agli appalti di lavori (come da formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di beni e di servizi, confermando un indirizzo già emerso nella giurisprudenza consultiva regionale (Sezione di controllo per la Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333).
L’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio per il 2018) ha poi specificato che il finanziamento del fondo per gli incentivi tecnici grava sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi o forniture. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 113 in esame, introdotto da detta norma, precisa infatti che “gli incentivi [di cui al presente articolo] fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Quest’ultimo intervento normativo ha richiesto l’intervento nomofilattico della Sezione delle Autonomie, che con deliberazione 26.04.2018 n. 6 ha chiarito come la contabilizzazione prescritta ora dal legislatore consenta di desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e dalla spesa per il trattamento accessorio, affermando che “la ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”.
III. Ricostruita sinteticamente come sopra l'evoluzione della normativa e della giurisprudenza consultiva, è possibile ora esaminare i singoli quesiti.
Con il primo quesito il Comune chiede se la spesa per il pagamento degli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche rientri o meno nell'ammontare complessivo della spesa del personale ai sensi dell'art. 1, co. 557, della L. n. 296/2006.
In merito alla questione questa Sezione si è già espressa con parere 25.07.2018 n. 265 e parere 14.11.2018 n. 429, dove, richiamando la deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle Autonomie, è stato chiarito che l’onere relativo ai compensi incentivanti le funzioni tecniche non transita nell’ambito dei capitoli dedicati alla spesa del personale, e dunque non può essere soggetto ai vincoli posti alla relativa spesa da parte degli enti territoriali (in senso conforme anche Sezione regionale di controllo per il Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).
Le condizioni di carattere generale che devono sussistere ai fini dell’incentivabilità delle funzioni tecniche, già ribadite qui in premessa (par. II in diritto) e nel corso di precedenti pronunciamenti di questa Sezione, sono così riassumibili:
   1.
che l’Amministrazione sia dotata di apposito regolamento interno (come evidenziato da questa Sezione già con parere 07.09.2016 n. 353, e da ultimo ribadito con parere 07.01.2019 n. 1) essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogati. Occorre a tal proposito rilevare che il comma 3 dell’art. 113 fa obbligo all'Amministrazione aggiudicatrice di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”: una condizione, questa, che secondo la Sezione delle Autonomie, collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti (deliberazione 26.04.2018 n. 6);
   2.
che le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi dell’art. 113, comma 2, siano ripartite, per ciascuna opera, lavoro, servizio e fornitura, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale (SRC Veneto parere 07.01.2019 n. 1);
   3.
che negli appalti relativi a servizi o forniture sia nominato il direttore dell'esecuzione (SRC Veneto parere 07.01.2019 n. 1);
   4.
che il relativo impegno di spesa sia assunto a valere sulle risorse stanziate nel quadro economico dell’appalto, attraverso la costituzione di un apposito fondo vincolato non superiore al 2% dell’importo dei lavori di manutenzione posti a base di gara;
   5.
che l’incentivo spettante al singolo dipendente non ecceda il tetto annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo.
IV. Il secondo ed il terzo quesito possono essere esaminati congiuntamente; con essi il Comune chiede se sia possibile riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche anche in relazione ad attività manutentive, distinguendo tra manutenzione straordinaria (secondo quesito) ed ordinaria (terzo quesito).
Occorre prendere le mosse dalle definizioni che il Codice dei contratti pubblici, all'art. 3, antepone alla disciplina dei vari istituti contrattuali:
   • alla lettera oo-quater, introdotta dal decreto legislativo 19.04.2017 (cosiddetto I correttivo al Codice dei contratti) nel corpo dell'unico comma del citato articolo 3, la manutenzione straordinaria è definita come: “le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione necessarie per eliminare il degrado dei manufatti e delle relative pertinenze, al fine di conservarne lo stato e la fruibilità di tutte le componenti, degli impianti e delle opere connesse, mantenendole in condizioni di valido funzionamento e di sicurezza, senza che da ciò derivi una modificazione della consistenza, salvaguardando il valore del bene e la sua funzionalità”.
   • alla lettera oo-quinquies, introdotta anch'essa dal I correttivo, la manutenzione ordinaria è definitiva come: “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali dei manufatti e delle relative pertinenze, per adeguarne le componenti, gli impianti e le opere connesse all'uso e alle prescrizioni vigenti e con la finalità di rimediare al rilevante degrado dovuto alla perdita di caratteristiche strutturali, tecnologiche e impiantistiche, anche al fine di migliorare le prestazioni, le caratteristiche strutturali, energetiche e di efficienza tipologica, nonché per incrementare il valore del bene e la sua funzionalità”.
La manutenzione, sia ordinaria che straordinaria, si sostanzia dunque generalmente in un’opera, cioè nel risultato di un insieme di lavori volti a rimediare al degrado di un manufatto o di sue componenti per conservarne intatte le condizioni di sicurezza e di funzionamento. L'attività manutentiva rientrerà quindi generalmente nei “lavori” e, più in particolare, nel quadro degli “appalti pubblici di lavori”, ma non è da escludersi che attività di manutenzione straordinaria possano essere associate ad appalti di forniture (definiti dalla lettera tt come "i contratti tra una o più stazioni appaltanti e uno o più soggetti economici aventi per oggetto l'acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l'acquisto a riscatto, con o senza opzione per l'acquisto, di prodotti" con la precisazione che "un appalto di forniture può includere, a titolo accessorio, lavori di posa in opera e di installazione"). A tale ultimo proposito, va nuovamente rammentato che, ai sensi dell’ultimo inciso dell’art. 113, l’applicabilità della normativa sulle funzioni incentivanti agli appalti relativi a servizi o forniture è limitata al caso in cui sia nominato il direttore dell'esecuzione.
In ogni caso, non si pone nella fattispecie un problema di numerus clausus delle funzioni tecniche incentivate (derivante dall' uso dell'avverbio "esclusivamente" che accompagna l'elencazione di dette funzioni) in quanto in esse non rientrano le attività manutentive, che costituiscono invece l’oggetto di un appalto, rispetto al quale il personale dell’Amministrazione può svolgere una o più funzioni tecniche ad esso correlate.
Questione analoga a quella oggetto del presente parere era stata invero già affrontata dalla Sezione delle Autonomie, e risolta in senso negativo con deliberazione 23.03.2016 n. 10, in riferimento però all’incentivo per la progettazione di cui all’abrogato art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006. Gli aspetti innovativi della formulazione della norma sull’incentivazione contenuta nell’art. 113 del Codice dei contratti hanno tuttavia condotto ad un nuovo, differente indirizzo, espresso dalla Sezione della Autonomie con deliberazione 09.01.2019 n. 2.
Come già ricordato, la nuova disciplina mira a stimolare, valorizzare e premiare i diversi profili, tecnici e amministrativi, del personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all’esecuzione del contratto, e consente l’erogazione degli incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture. Di talché
gli incentivi di funzioni tecniche si configurano "non più solo come spesa finalizzata ad investimenti, ma anche come spesa di funzionamento e, dunque, come spesa corrente (deliberazione 09.01.2019 n. 2). In tal senso depone anche, secondo l'insegnamento della Sezione delle Autonomie, la novella introdotta al comma 5-bis dell’art. 113 ad opera dell’art. 1, comma 526, della legge 27/12/2017 n. 205 (legge di bilancio per il 2018), secondo la quale gli oneri relativi agli incentivi per le funzioni tecniche vanno imputati allo stesso capitolo del bilancio che finanzia i singoli lavori, servizi e forniture, in modo che l’impegno di spesa vada assunto, a seconda della natura (corrente o in c/capitale), nel Titolo I o nel Titolo II dello stato di previsione del bilancio (deliberazione 26.04.2018 n. 6 già richiamata in par. II in diritto).
In questa rinnovata prospettiva, la circostanza che, nella nuova disciplina, il legislatore non abbia riproposto il divieto (di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del Codice degli appalti) di ripartire l’incentivazione per le attività manutentive, è ancor più indicativo di una voluntas legis tesa a segnare il superamento del precedente sistema con l’individuazione di margini applicativi più ampi e la rinuncia ad intervenire sulle modalità di riparto del fondo (deliberazione 09.01.2019 n. 2).
Negli appalti di lavori di manutenzione è pertanto possibile realizzare tutte le attività tecniche previste dal secondo comma dell’art. 113, purché gli interventi manutentivi siano contrassegnati da quella elevata complessità che rappresenta il presupposto per lo svolgimento di dette funzioni.
IV.1.
Per gli interventi di manutenzione ordinaria di più semplice realizzazione, tuttavia, la possibilità di svolgere le funzioni tecniche potrebbe essere esclusa in concreto dall’assenza di un progetto da attuare, o dalla circostanza che l’Amministrazione proceda all’affidamento con modalità diverse dalla gara.
Il secondo comma dell’art. 113 richiede infatti che l’incentivazione sia destinata a quelle funzioni tecniche svolte dai dipendenti “ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”. Si presuppone pertanto che a monte vi sia una “gara”, cui del resto è parametrato il limite percentuale massimo dell’incentivo, ed in assenza della quale esso risulta pertanto non quantificabile, ed inoltre che l'attività sia caratterizzata da “problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all’Amministrazione affinché il procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia della spesa (deliberazione 09.01.2019 n. 2).
Permane poi necessario anche nella fattispecie il rispetto dei requisiti di ordine generale già precedentemente richiamati, in risposta al primo quesito (par. III in diritto).
Le ulteriori condizioni, che si cumulano alle suddette di carattere generale, affinché le attività tecniche, svolte in funzione di una corretta e spedita esecuzione delle attività di manutenzione ordinaria, possano costituire oggetto di incentivazione, sono quindi così riassumibili:
   1.
che alla base dell’affidamento vi sia una procedura di gara;
   2.
che l’attività manutentiva risulti caratterizzata da particolare complessità, tale da necessitare di uno sforzo supplementare affinché l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, il progetto, i tempi e i costi prestabiliti;
   3.
che le attività tecniche, amministrative e contabili svolte dai dipendenti, previamente accertate, siano strettamente collegate ai lavori manutentivi da eseguire.
Ciò posto, spetta all’ente la valutazione dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivabili.
V. Con il quarto quesito, il Comune chiede se l'incentivo possa essere riconosciuto a fronte della gestione di un appalto di fornitura di servizi affidato mediante adesione ad una Convenzione Consip già attiva.
Occorre qui preliminarmente ribadire che l’elencazione delle funzioni incentivabili (di cui al secondo comma dell’art. 113) è riferita a particolari attività, il cui espletamento sia richiesto dalla complessità del procedimento cui esse attengono, quindi non ad una particolare categoria di contratti.
Secondo la giurisprudenza consultiva che si è espressa sul tema, una volta ammesso il ricorso a tali forme d’incentivazione anche per gli appalti di servizi e forniture, ciò che rileva, ai fini della riconduzione o meno della fattispecie entro lo spazio di applicabilità della norma, non è l’utilizzo di determinati meccanismi di approvvigionamento, quanto l’effettiva occorrenza di una delle attività incentivate, vale a dire: programmazione della spesa per investimenti, verifica preventiva dei progetti, predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, responsabile unico del procedimento, direzione dei lavori, direzione dell’esecuzione, collaudo tecnico amministrativo, verifica di conformità, collaudatore statico (Sezione di controllo per la Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185 e Sezione di controllo per la Toscana parere 27.03.2018 n. 19).
Il fatto che si proceda mediante Consip non è dunque di per sé preclusivo al riconoscimento di incentivi per funzioni tecniche, come d'altra parte si evince anche dalla norma contenuta nel secondo comma dell'art. 113, per la quale “Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale” che implicitamente prevede la possibilità di destinare quota del fondo ai dipendenti interni, ove ne ricorrano le condizioni.
Va tuttavia evidenziato come la medesima giurisprudenza consultiva si sia premunita di specificare come permanga anche in questo caso indefettibile il presupposto che vi sia a monte una “gara”, poiché in mancanza di tale requisito non può esservi l’accantonamento delle risorse nel fondo, ai sensi del secondo comma dell’art. 113.

Va inoltre evidenziato come, in termini più generali,
le previsioni legislative inerenti all’acquisto di beni e servizi mediante strumenti di e-procurement (quali convenzioni Consip, MEPA, eccetera) rispondano ad esigenze di semplificazione e razionalizzazione del procedimento di provvista della Pubblica Amministrazione. Pertanto, come già correttamente rilevato in sede consultiva, laddove l’ente sia tenuto o decida di far ricorso a tali modalità di approvvigionamento, le attività indicate nell’art. 113 potrebbero, in concreto, non realizzarsi, con conseguente impossibilità di procedere alla erogazione dei connessi incentivi (SRC Toscana parere 27.03.2018 n. 19).
Occorre tenere a mente che Consip mette a disposizione delle Pubbliche Amministrazioni un’ampia gamma di differenziati strumenti d’acquisto e di negoziazione. La sussistenza del requisito della “gara” dipenderà quindi dal tipo di strumento adottato, ed una volta chiarito come spetti di conseguenza all’ente la valutazione circa l’occorrenza in concreto di attività effettivamente incentivabili (SRC Lombardia parere 09.06.2017 n. 185, SRC Toscana parere 27.03.2018 n. 19) si deve anche affermare come, nello specifico, l’adesione ad una convenzione Consip già attiva non sia di per sé sufficiente ad integrare il requisito della gara, ed atto a giustificare l’incentivazione delle connesse funzioni amministrative svolte dal personale interno.
VI. Con il quinto quesito, il Comune chiede se l'incentivo possa essere riconosciuto a fronte della gestione di un appalto di fornitura di servizi di assistenza domiciliare, che verrà assegnato a seguito dell'esperimento di apposita gara.
Le considerazioni svolte finora consentono di rispondere in modo consequenziale al quesito.
Posto infatti che ricorra lo svolgimento di una delle attività elencate dal secondo comma dell’art. 113 e che vi sia a monte una gara, l’incentivo può essere riconosciuto anche in relazione ad un appalto di servizi, ove, in analogia alle altre casistiche esaminate, ciò sia richiesto dalla particolare complessità dell’appalto, entro i limiti, anch’essi già qui analizzati, che possono essere così riassunti:
   1. che l’Amministrazione sia dotata di apposito regolamento interno;
   2. che le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi dell’art. 113, comma 2, siano ripartite con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
   3. che sia stato nominato il direttore dell'esecuzione;
   4. che il relativo impegno di spesa sia assunto attraverso la costituzione di un apposito fondo vincolato non superiore al 2% dell’importo posto a base di gara;
  5. che l’incentivo spettante al singolo dipendente non ecceda il tetto annuo lordo del 50% del trattamento economico complessivo;
   6. che l’attività risulti caratterizzata da particolare complessità, tale da necessitare di uno sforzo supplementare affinché l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, i tempi ed i costi prestabiliti.

Spetterà dunque all’ente la valutazione dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivabili.
VII. Con il sesto quesito, il Comune chiede se “l'Amministrazione comunale possa destinare, per l'erogazione di tutti gli incentivi in questione, un budget annuo complessivo che potrebbe comportare il riconoscimento di una percentuale anche molto inferiore al 2% previsto dall'art. 113 o l'esclusione di alcuni appalti dall'incentivazione”.
In base ad un consolidato principio più volte ribadito da questa Sezione, ai fini dell'ammissibilità dell’esercizio della funzione consultiva, il parere non deve indicare soluzioni alle scelte operative discrezionali dell’ente o determinare una sorta di inammissibile sindacato in merito ad un’attività amministrativa in fieri, ma deve individuare o chiarire regole di contabilità pubblica.
La normativa contabile non pone di per sé un limite inferiore alla quota di incentivi (sempre determinata a partire dall’importo posto a base di gara e dal trattamento economico in godimento) ma soltanto limiti superiori. Tuttavia, come già evidenziato, la previsione di funzioni incentivate è intrinsecamente legata alla esigenza di razionalizzazione della spesa pubblica, attuata nello specifico attraverso la valorizzazione delle risorse interne, in quanto si tratti di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio, per le quali diversamente le Amministrazioni pubbliche dovrebbero ricorrere a professionisti esterni sul mercato, con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato.
Pur non essendovi alcuna norma che espressamente imponga all’ente di utilizzare appieno gli incentivi per funzioni tecniche, l’eventuale “riconoscimento di una percentuale anche molto inferiore al 2% previsto dall'art. 113” deve essere valutato attentamente dall’Amministrazione, affinché esso non sia associato a situazioni di sottoutilizzazione delle risorse interne tali da potersi indirettamente ripercuotere in senso negativo sui costi complessivamente sostenuti, eventualità che la ratio della norma vuole invece scongiurare.
La previsione di incentivi, purché contenuta nei limiti richiamati, non è dunque foriera di effetti che il legislatore giudica necessariamente negativi per la finanza pubblica, ed in tal senso il ricorso allo strumento andrà attentamente ponderato, tenuto conto di tutti gli interessi in gioco. In ciò si sostanzia però in ultima analisi la discrezionalità amministrativa dell’ente, nell’esercizio della quale questa Sezione di controllo non può sostituirsi al Comune.
Spetterà dunque necessariamente al Comune stesso
, anche sulla base delle indicazioni esposte in risposta ai precedenti quesiti, la valutazione in concreto circa l’opportunità, o meno, di ricorrere a detta forma d’incentivazione in misura sensibilmente inferiore a quella massima consentita dalla legge.
La “esclusione di alcuni appalti dall'incentivazione”, cui si riferisce il Comune nella seconda parte del quesito, rappresenta a maggior ragione una scelta discrezionale, riservata al Comune sulla base di valutazioni sue proprie, finalizzate al miglior bilanciamento degli interessi in gioco, che qui comprendono anche la scelta, da operarsi a monte, in ordine alla migliore modalità di approvvigionamento o di esecuzione di un’opera o un lavoro, in base alle specifiche esigenze e finalità del Comune stesso.
Il quesito, a ben vedere, può considerarsi in verità mal posto. Da un punto di vista di legittimazione oggettiva, sotto il profilo cioè dell’attinenza alla materia contabile, esso avrebbe dovuto essere formulato chiedendo non se un appalto si possa escludere, ma a quali condizioni le funzioni ad esse connesso possano essere incentivate. In tal senso, il quesito trova risposta nei precedenti, riferiti alle fattispecie specifiche portate all’attenzione di questa Sezione (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 09.04.2019 n. 72).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli incentivi alla progettazione spettano al personale dipendente che abbia svolto la prestazione nel periodo che va dalla vigenza del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modificazioni, dalla legge n. 114/2014 all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, sebbene il regolamento regionale (reg. n. 2 del 30.12.2016) e il conseguente accordo sindacale decentrato si siano perfezionati successivamente all’entrata in vigore del nuovo regime introdotto dal codice degli appalti.
Per i profili strettamente contabili, sono utilizzabili le risorse di bilancio accantonate e già impegnate. Non sono invece da ritenere più disponibili per la corresponsione delle indennità le risorse di bilancio ormai passate in economia.
---------------

Il Presidente della Regione Emilia Romagna formula seguente richiesta di parere, articolata su due quesiti:
   a) se il regolamento regionale 30.12.2016 n. 2, che disciplina la materia degli incentivi di progettazione e di pianificazione svolta da personale regionale, emanato a seguito dell’entrata in vigore del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014 -superando così la pregressa disciplina di cui al regolamento regionale 31.07.2006, n. 5, applicato fino all’entrata in vigore del precitato d.l. n. 114 del 2014-, in concreto applicabile solo dopo la definizione dell’accordo sottoscritto tra le Regioni e le organizzazioni sindacali in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, possa ritenersi comunque ancora suscettibile di applicazione per l’attribuzione di detti incentivi dell’attività di progettazione e pianificazione svolta dal personale regionale ratione temporis e cioè fino all’entrata in vigore dell’ulteriore diversa disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del 2016.
La richiesta di parere circa l’applicazione della citata disciplina delle modalità di corresponsione degli incentivi in questione, dopo l’entrata in vigore del Codice degli appalti pubblici, muove dal dubbio originato dall’orientamento espresso dalla stessa Corte dei conti (cfr. parere 09.10.2017 n. 177 della Sezione regionale di controllo per il Piemonte), secondo cui all’attuazione delle previsioni del d.lgs. n. 163/2006, come riformate dalla l. n. 114/2014, potrebbe essere ostativo, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, il principio dell’irretroattività dei regolamenti amministrativi, in particolare del citato regolamento n. 2 del 2016, emanato successivamente all’entrata in vigore del citato Codice degli appalti;
   b) la Regione distingue, poi, nell’ipotesi di una risposta affermativa al quesito, due casi diversi:
      a) che le somme riguardanti gli importi per gli incentivi siano già stati accantonati ed impegnati su capitoli di spesa riferiti alle opere;
      b) che le somme riguardanti gli importi per gli incentivi siano già stati accantonati ma non impegnati su capitoli di spesa riferiti alle opere, confluendo tra le “economie.
...
2.1. La risposta al primo quesito è affermativa.
Infatti, il titolo giuridico ad ottenere l’incentivo si fonda sulla fonte primaria, e cioè, nella specie, sul d.l. n. 90 del 2014, conv., con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014; sicché, il regolamento e il successivo citato accordo di contrattazione decentrata trovano sicura applicazione, pur essendo, medio tempore, entrata in vigore la nuova disciplina di cui al Codice degli appalti. Infatti, detta disciplina, a formazione giuridica successiva, è applicabile laddove sussistano posizioni giuridiche soggettive del personale dipendente in relazione ad attività di progettazione e pianificazione prestata nell’arco di tempo che, nella specie, va dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. 90/2014 -che ha introdotto i commi da 7-bis a 7-quinquies nell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006- fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016 (in materia, cfr., Corte conti, Sez. Autonomie deliberazione 24.03.2015 n. 11;
deliberazione 08.05.2009 n. 7).
Il fatto, dunque, che il regolamento regionale sia stato definito successivamente all’entrata in vigore di una fonte normativa sovraordinata ma che non regola la disciplina per il passato non impedisce, anzi impone, che quelle posizioni giuridiche soggettive maturate in vigenza della normativa successivamente abrogata (e dunque con operatività ex nunc, ad opera del d.lgs. n. 50/2016), siano regolate propriamente sulla base della disciplina applicabile ratione temporis, di cui quella regolamentare e negoziata citate costituiscono completamento, operando, come detto, quale fattispecie normativa a formazione progressiva.
2.2. La risposta al secondo quesito è più articolata.
2.2.1. Deve certamente ritenersi consentita l’assegnazione delle somme accantonate ed impegnate in bilancio; sicché, per questa parte, dette somme possono essere erogate per soddisfare le pretese maturate all’ottenimento dell’incentivo, nel periodo considerato, dal personale che abbia effettuato le prestazioni di progettazione e pianificazione delle opere pubbliche.
2.2.2. Ostativa, invece, all’accoglimento della seconda prospettata ipotesi, e cioè della ancora attuale possibilità di disporre di somme accantonate ma non impegnate, è costituita dell’evento contabile qualificato dalla stessa Regione quale “economia” di somme, cioè, medio tempore non impegnate, poiché dette somme, pur originariamente accantonate, sono oramai confluite tra le economie di fine esercizio: come tali definite e quantificate nel rendiconto non possono per definizione ritenersi più disponibili.
La Regione valuterà, dunque, laddove quelle risorse già accantonate e non impegnate non si rivelino sufficienti a soddisfare le legittime pretese dei dipendenti regionali, i presupposti per lo stanziamento di apposite risorse finanziarie sul nuovo bilancio  (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 05.04.2019 n. 26).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Ai fini della applicabilità delle disposizioni relative ai pregressi ed abrogati incentivi alla progettazione e quindi in relazione ai rapporti intertemporali fra l’art. 92 del d.lgs. 163/2006 e l’art. 93, commi 7-bis, ter e quater, del medesimo decreto, modificato nel 2014, si deve far riferimento alla data di effettivo espletamento delle funzioni progettuali.
Gli emolumenti de quibus sono connessi ad un’attività che normalmente non si esaurisce uno acto ma si articola in un procedimento complesso e durevole nel tempo per cui mancando un criterio normativo ad hoc come quello di cui all’art. 216 del D.Lgs. 50/2016, non può che farsi riferimento al generale principio di irretroattività della legge in combinato disposto con il principio tempus regit actum.
Ne consegue che se l’attività del dipendente è stata realizzata prima dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte dalla l. n. 114/2014, continua ad applicarsi la disciplina pregressa (art. 92 del d.lgs. 163/2006), se, invece, l’attività è stata realizzata dopo l’entrata in vigore della novella del 2014 si applicherà l’art. 93, comma 7-bis e ss., del medesimo decreto.
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... il Sindaco del Comune di Gravellona Toce (VCO), dopo aver premesso che il Comune ha adottato il Regolamento sulla distribuzione degli incentivi per la progettazione ai sensi del previgente art. 93, comma 7-bis, del D.Lgs. 163 del 2006 come modificato dal D.L. 90 del 2014 conv. in L. 114 del 2014, chiede di sapere se “è possibile procedere alla liquidazione dei c.d. incentivi alla progettazione di cui all’art. 93, comma 7, del D.Lgs. 163 del 2006 e s.m.i, per lavori effettuati e con somme accantonate all’uopo alla luce della normativa e delle successive pronunce delle sezioni regionali della Corte dei conti che in questi anni si sono susseguite.
...
La richiesta in esame attiene sostanzialmente all’individuazione della disciplina intertemporale applicabile nell’ipotesi di attività incentivanti realizzate nella vigenza dell’art. 93 del D.Lgs. 163 del 2006. Tale questione si pone come particolarmente rilevante e frequente in considerazione del fatto che spesso le procedure relative alla realizzazione di lavori pubblici si protraggono per diverso tempo e pertanto si espongono allo ius superveniens. L’analisi del quesito proposto, pertanto, non può che muovere da un approccio diacronico all’istituto in esame.
In origine gli incentivi tecnici erano riconosciuti in correlazione alle funzioni progettuali, in forza del principio per il quale gli enti devono provvedere alla progettazione con l’impiego di risorse interne, costituendo l’affidamento esterno una mera eccezione (art. 18 della L. n. 190 del 1994 cd. Legge Merloni ed ancor prima dall’art. 1 del R.D. 1923 n. 422).
Dopo l’abrogazione della Legge Merloni l’istituto degli incentivi c.d. “alla progettazione” ha trovato una disciplina ad hoc nell’ambito dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006, con la definizione di un tetto massimo al compenso che non poteva superare quello del complessivo trattamento annuo lordo del dipendente che lo percepiva.
Successivamente con gli articoli 13 e 13-bis del D.L. n. 90 del 2014 convertito nella L. n. 114 del 2014, la disciplina degli incentivi alla progettazione interna di opere o lavori è stata profondamente innovata. Abrogato con effetto dal 19/08/2014, il comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006, la disciplina dell’istituto è stata riproposta con rilevanti modifiche, nel successivo art. 93, escludendosi:
   a) la categoria dirigenziale dall’erogazione dei compensi incentivanti per il principio di onnicomprensività del trattamento economico percepito (comma 6-bis, aggiunto all’art. 92), con eccezione reiterata in modo espresso nell’ultimo inciso del terzo comma dell’art. 113 del nuovo Codice;
   b) le attività di pianificazione urbanistica, nonché quelle di progettazione riguardante attività di manutenzione straordinaria e ordinaria, dal novero delle attività tecniche incentivabili.
Infine, con il nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 50/2016) il Legislatore delegato ha scelto di non prevedere più la remunerazione dell’attività di progettazione interna bensì di incentivare specifiche attività –di natura eminentemente tecnica– svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle di programmazione, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara, nonché di esecuzione del contratto.
Venendo più nello specifico all’esame del quesito posto dall’Ente comunale è da ricordare che il nuovo Codice dei contratti pubblici, il D.lgs. 50 del 2016 espressamente all’art. 216 prevede un criterio intertemporale ritenuto, per consolidato orientamento di questa Corte (cfr. ex multis Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 09.10.2017 n. 177 nonché parere 23.05.2018 n. 54, parere 23.05.2018 n. 56 e parere 19.03.2019 n. 25, Sezione regionale di controllo per il Lazio, parere 06.07.2018 n. 57) applicabile anche all’istituto in esame e che consente di definire i perimetri cronologici tra gli incentivi ex art. 93 comma 7 e s.m.i. dell’abrogato D.Lgs. 163 del 2006 e l’art. 113 del D.lgs. 50 del 2016.
In particolare al I comma è disposto che “Fatto salvo quanto previsto nel presente articolo ovvero nelle singole disposizioni di cui al presente codice, lo stesso si applica alle procedure e ai contratti per le quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”. Per effetto di tale previsione il nuovo art. 113 trova applicazione a decorrere dal 19.04.2016, data di entrata in vigore del Codice (ex art. 220, dal giorno stesso della sua pubblicazione nella G.U.).
Ai fini della applicabilità delle disposizioni disciplinanti, invece, i pregressi ed abrogati incentivi alla progettazione, e quindi in relazione ai rapporti intertemporali fra l’art. 92 del d.lgs. 163/2006 e l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. 163/2006, come modificato nel 2014, si deve far riferimento –secondo il vincolante orientamento nomofilattico espresso dalla Sezione Autonomie– alla data di effettivo espletamento delle funzioni progettuali (Sezione Autonomie (
deliberazione 08.05.2009 n. 7; deliberazione 24.03.2015 n. 11 e deliberazione 13.05.2016 n. 18).
Infatti, in considerazione del fatto che gli emolumenti in parola sono connessi ad un’attività che normalmente (anzi il più delle volte) non si esaurisce uno acto ma si articola in un procedimento complesso e durevole nel tempo e mancando un criterio normativo ad hoc come quello di cui al citato art. 216, non può che farsi riferimento al generale principio di irretroattività della legge (cfr. Corte dei Conti Sezione delle autonomie
deliberazione 24.03.2015 n. 11) in combinato disposto con il principio tempus regit actum, secondo cui ogni atto viene disciplinato dalla legge in vigore nel momento in cui lo stesso viene posto in essere.
Non a caso nella
deliberazione 08.05.2009 n. 7, la Sezione delle Autonomie, nel dar rilievo al momento di “compimento effettivo dell’attività”, aveva specificato che “per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività” (Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie deliberazione 08.05.2009 n. 7).
Tale ricostruzione, come affermato dalla stessa Sezione Autonomie nella successiva pronuncia n. 11 del 2015, conserva la sua validità ed attualità anche all’indomani della novella del 2014 che ha modificato i cd. incentivi alla progettazione. Ne consegue che se l’attività del dipendente è stata realizzata prima dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte dalla l. n. 114/2014 (di conversione con modifiche del D.L. 90/2014), continua ad applicarsi la disciplina pregressa (art. 92 del d.lgs. 163/2006), se, invece, l’attività è stata realizzata dopo l’entrata in vigore della novella del 2014 non potrà che trovare applicazione l’art. 93, comma 7-bis e ss., del medesimo decreto.
Individuato il criterio di gestione dello ius superveniens spetta all’Ente in concreto verificare la presenza degli altri requisiti legittimanti la liquidazione dell’emolumento ed in particolare, giova qui ricordare, l’esistenza di un regolamento interno dell’Ente erogatore che preveda la misura dell’incentivo secondo i criteri fissati in contrattazione decentrata e l’accantonamento al Fondo dedicato (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 04.04.2019 n. 28).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIl regolamento sugli incentivi tecnici assorbe il passato con la retroattività «debole»
Il principio della cosiddetta retroattività «debole» rende legittima la disciplina del regolamento degli incentivi tecnici che disponga il pagamento, oltre che per il futuro, anche per le attività svolte prima della sua approvazione. L'inclusione o esclusione dal fondo delle risorse decentrate di questi incentivi (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), tuttavia, dovrà confrontarsi con la normativa vigente all'epoca delle attività espletate divenute remunerabili solo a regolamento approvato.

Queste sono le indicazioni della Corte dei conti della Liguria (parere 03.04.2019 n. 31).
Il principio della retroattività «debole»
I giudici contabili liguri danno risposta positiva alla possibilità, da parte del regolamento dell'ente, di poter attrarre quali attività incentivabili anche quelle espletate prima della sua approvazione. Questo è possibile grazie al principio della cosiddetta retroattività «debole» che produce i suoi effetti dalla data di approvazione anche sulla base di una fattispecie realizzatasi nel passato, a differenza della retroattività «forte» che riguarda una espressa previsione della norma intesa a comprendere, dalla sua entrata in vigore, anche le fattispecie e gli effetti avvenuti nel passato.
La retroattività «debole» vale anche per gli incentivi tecnici i cui effetti sono validi per il futuro ma che possono attrarre anche gli accantonamenti ai fondi destinati agli incentivi effettuati prima della disciplina regolamentare. Al medesimo ragionamento, secondo il collegio contabile ligure, si giunge anche per altra via. Infatti, ove la legge disciplina per il passato anche l'eventuale fonte regolamentare potrebbe disciplinare ora per allora situazioni pregresse.
Nel caso degli incentivi tecnici, infatti, le disposizioni del Dlgs 50/2016 disciplinano situazioni del passato in due commi dell'articolo 216. Al comma 1 dove la nuova disciplina «si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla sua data di entrata in vigore nonché, in caso di pubblicazione di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare offerte». Al comma 3 quando si precisa che «Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all'articolo 21, comma 8, si applicano gli atti di programmazione già adottati ed efficaci …».
Le regole da rispettare
Per i giudici contabili liguri una cosa sono gli effetti retroattivi del regolamento, altra cosa è la legge applicabile alla distribuzione degli incentivi che non può che essere quella vigente al momento delle attività espletate dai dipendenti (nel caso di specie il precedente codice dei contratti Dlgs 163/2006). Le medesime regole troveranno applicazione anche alle nuove disposizioni della legge di bilancio 2018 che, inserendo all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, il comma 5-bis, ha posto gli incentivi fuori dai limiti e vincoli del salario accessorio (articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017).
Alle medesime conclusioni giunge anche la Corte dell'Umbria (parere 28.03.2019 n. 56) che, dopo aver condiviso la possibilità che i regolamenti possono attrarre anche accantonamenti già effettuati, precisano che l'impegno di spesa sugli incentivi tecnici potrà essere assunto solo a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento, con la sola precisazione che gli incentivi prima del 2018 dovranno essere considerati quali spese del personale (soggetti ai vincoli del fondo) mentre quelli successivi a questa data dovranno essere afferenti al medesimo capitolo degli appalti, servizi o forniture (fuori dai limiti del fondo) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Distribuzione incentivi tecnici per problematiche concernenti la possibile retroattività del relativo Regolamento.
La Sezione esprime i seguenti principi di diritto all’esito del quesito scrutinato:
   1)
il regolamento può disciplinare con effetto retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime normativo antecedente il D.Lgs. 50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, D.Lgs. 50/2016;
   2)
il regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva;
   3)
è escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo dell’attività incentivabile.
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Con nota acquisita al protocollo della Corte dei conti, Sezione Regionale di Controllo per la Liguria, 1541-5/3/2019-SC—LIG-T85-A, ritualmente trasmessa dal Consiglio delle Autonomie Locali della Liguria, il Comune di Sanremo (IM) ha inoltrato istanza di parere alla medesima Sezione Regionale ai sensi dell’art. 7, comma 8, L. 131/2003.
Nella istanza in questione si chiede se, nel caso in cui un’amministrazione –nel periodo precedente l’abrogazione del D.Lgs. 163/2006 ad opera del D.Lgs. 50/2016 (in particolare, nel periodo dal 19/08/2014 al 18/04/2016)- non abbia adottato alcun regolamento ex D.L. 90/2014, sia possibile adottarne uno con valenza retroattiva al fine di ripartire gli incentivi regolarmente accantonati in bilancio e maturati dai dipendenti per l’attività svolta nel periodo ricompreso tra l’entrata in vigore dell’art. 13-bis del D.L. 90/2014 (che ha introdotto il comma 7-bis e ss. nell’art. 93) e l’entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016.
In caso di esito sfavorevole al precedente quesito, si chiede, altresì, se si possa procedere alla compensazione dell’attività svolta dal personale nel periodo sopra citato in base al previgente regolamento, adottato sulla base del D.Lgs. 163/2006.
Poiché l’amministrazione rappresenta come sussistano orientamenti dissonanti, che riporta (in senso sfavorevole alla retroattività Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 07.09.2016 n. 353; Sez. regionale di controllo per la Toscana, parere 26.10.2017 n. 177; in senso favorevole Sez. regionale di controllo per il Piemonte, parere 09.12.2018 n. 135), la medesima chiede quale di essi vada seguito.
...
Il parere deve stabilire se la distribuzione degli incentivi tecnici, previsti da ultimo dall’art. 113 D.Lgs. 50/2016, per attività espletate nel sistema precedente a quello vigente, in assenza di regolamento, possa essere disciplinata ora per allora, vale a dire con effetto retroattivo, da un regolamento nuovo.
In linea generale, va detto che il regolamento costituisce fonte normativa subordinata alla legge (artt. 1 e 4, 1° comma, Preleggi).
Disponendo la legge solo per l’avvenire, ex nunc, (art. 11, 1° comma, Preleggi), il regolamento non può, pertanto, assumere efficacia retroattiva (ex tunc) per ragioni di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento dei destinatari della norma (Cons. St. 882/2016).
Su tale argomentazione si attestano gli orientamenti giurisprudenziali (menzionati in “fatto”) per fornire risposta negativa alla presente questione.
Orbene, la Sezione diversamente ritiene di dover distinguere tra retroattività cosiddetta “forte” e retroattività cosiddetta “debole”, categorie queste puntualmente distinte da parte della dottrina.
Alla retroattività “forte” corrisponde il caso della norma produttiva di effetti giuridici che vengono innestati nel passato, nel senso che la legge retroattiva colloca prima della sua entrata in vigore sia la fattispecie sia i suoi effetti.
Alla retroattività “debole” corrisponde la produttività di effetti attuali ma sulla base di una fattispecie realizzatasi nel passato.
Quest’ultima situazione, ricorrente nel caso di specie, essendosi già consumato nel passato l’accantonamento dei fondi destinati agli incentivi tecnici, non subisce, ad avviso di questa Sezione, il divieto di retroattività ex art. 11, 1° comma, Preleggi.
Difatti, quando l’ordinamento ha voluto escludere la retroattività “debole”, lo ha detto espressamente.
La predetta dottrina offre l’esempio dell’art. 2 c.p. per il quale nessuno può essere punito (oggi) per un fatto che, al momento della commissione (ossia nel passato) non costituiva reato.
Si tratta di un divieto espresso della retroattività “debole”. Ma tale divieto non avrebbe dovuto essere espresso se l’art. 11, 1° comma, Preleggi già avesse escluso tale forma di retroattività.
Secondo tale prospettazione, dunque, costituendo l’accantonamento degli incentivi tecnici un fatto già realizzatosi nel passato, il regolamento potrebbe disciplinare retroattivamente la fattispecie atteso che, trattandosi di retroattività “debole”, essa non incontra i limiti dell’art. 11, 1° comma, Preleggi.
Per completezza va detto che, qualora si negasse la distinzione retroattività forte/retroattività debole e si ritenesse che la presente tematica coinvolga, invece, l’art. 11, 1° comma, Preleggi, occorrerebbe considerare che tale disposizione è pur sempre contenuta in una legge ordinaria (il codice civile) ed è perciò derogabile da altra legge di pari grado (cfr. Corte cost. 118/1957; 199/1986; 385/1995).
Né il principio d’irretroattività della legge trova alcuna copertura costituzionale, se non per il caso circoscritto della legge penale (art. 25, 2° comma, Cost.).
Ne deriva, sul piano generale, che ove la legge disponga per il passato, anche l’eventuale fonte regolamentare potrebbe disciplinare ora per allora situazioni pregresse.
In detto ambito, nel caso di specie, va evidenziata la disposizione di diritto transitorio di cui al D.Lgs. 50/2016, art. 216, 1° comma, secondo cui siffatta normativa “si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla sua data di entrata in vigore nonché, in caso di pubblicazione di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare offerte”.
Il 3° comma del citato art. 216 aggiunge che “Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 21, comma 8, si applicano gli atti di programmazione già adottati ed efficaci (…)”.
La disposizione richiamata va letta nel senso che il D.Lgs. 50/2016 trova applicazione limitatamente alle fattispecie concrete, inclusive degli incentivi tecnici, verificatesi dopo la sua entrata in vigore.
Ne deriva che le fattispecie concrete verificatesi prima di tale vigenza, sempre inclusive degli incentivi tecnici, restano regolate dalla normativa (legislativa e regolamentare) precedente (Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per il Lazio, parere 06.07.2018 n. 57) in conformità al principio tempus regit actum (Cons. St. 5231/2017).
Più precisamente, “l’espressione letterale utilizzata dall’art. 216, 1° comma, deve intendersi riferita a tutte le previsioni normative contenute nel provvedimento normativo nel quale la relativa previsione transitoria risulta inserita” (Cons. St., sez. III, 25/11/2016 n. 4994; in senso conforme: TAR Toscana 12/12/2016 n. 1756).
Là dove, infatti, l’art. 216, 1° comma, si riferisce “al presente Codice”, esso intende, evidentemente, comprendere entro il suo ambito applicativo tutte le disposizioni del D.Lgs. 50/2016, compreso l’art. 113 che regola gli incentivi tecnici, con le uniche eccezioni stabilite dalla norma transitoria (Cons. St. 4994/2016 cit.)
Non è, perciò, inibito alla norma regolamentare sopravvenuta disciplinare, nei limiti che si diranno, tali fattispecie pregresse, proprio perché riferite ad ambiti temporali ai quali il D.Lgs. 50/2016 non si applica per effetto della ridetta disposizione di diritto transitorio.
Quest’ultima dispone per il passato nei limiti in cui rimette espressamente alla normativa previgente la disciplina delle fattispecie pregresse.
Più precisamente, l’art. 216, 1° e 3° comma, D.Lgs. 50/2016 detta una disposizione per il passato quando rinvia materialmente alla normativa precedente, incorporandola così nella norma di richiamo.
Tali conclusioni sono valorizzate dal richiamo dell’art. 216, 1° comma, D.Lgs. 50/2016 ai “bandi (…) pubblicati successivamente alla sua entrata in vigore”, quale condizione di applicabilità dello stesso D.Lgs. 50/1016.
Ne deriva, a contrariis, che i bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore sono regolati dalla normativa pregressa.
A rafforzare il dato normativo, va rilevato, poi, che il bando costituisce lex specialis della procedura di evidenza pubblica, regolandone le modalità di attuazione (Cons. St. 2423/2007), anche correlate alla materia degli incentivi tecnici. E proprio in quanto lex specialis, il bando non può essere disapplicato dall’amministrazione (Cons. St. 6530/2002). E il divieto di disapplicazione opera anche in caso di precedente o successiva abrogazione delle norme richiamate dal bando (TAR Lazio, Roma, Sez. II-ter, 616/2007; Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per l’Emilia Romagna, delib. 306/2011/PAR) disponendo in tal caso l’amministrazione soltanto dell’autotutela attraverso l’annullamento del medesimo bando.
Venendo al punto centrale costituito dai limiti che siffatta retroattività nella specie incontra, va puntualizzato che il regolamento sopravvenuto potrà disciplinare le situazioni pregresse, nel caso di specie la ripartizione degli incentivi tecnici, nel rigoroso rispetto, tuttavia, dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva: si deve, infatti, categoricamente escludere “che lo stesso possa oggi disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non uniformi a quelli in vigore al momento dell’attività incentivabile” (Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per il Piemonte, parere 09.12.2018 n. 135).
La Sezione ritiene così di privilegiare, ai fini della soluzione del quesito, l’imprescindibile dato normativo coincidente, nel caso di specie, con il richiamato art. 216, 1° e 3° comma, D.Lgs. 50/2010, perché esso, come detto, ammette la retroattività del regolamento nel rigoroso rispetto delle condizioni che precedono.
Infatti, “il legislatore del 2016 si è fatto carico delle disposizioni di diritto transitorio e le ha chiaramente risolte scegliendo e utilizzando (tra quelle astrattamente disponibili) l’opzione dell’ultrattività, mediante cioè la previsione generale che le disposizioni introdotte dal D.Lgs. 50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo l’entrata in vigore del nuovo “Codice” (…)” (Cons. St. 4994/2016 cit.)
Secondo la giurisprudenza, pertanto, l’adozione del regolamento è condizione essenziale per il legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate nel fondo per incentivi tecnici, essendo esso destinato ad individuare le modalità e i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge (Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per il Veneto, parere 07.09.2016 n. 353).
Cosicché non può aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non dopo l’adozione del predetto regolamento. Tuttavia, ciò non esclude che quest’ultimo –nel rispetto dei suddetti limiti e parametri del tempo– possa disporre la ripartizione di incentivi per funzioni tecniche espletate prima dell’adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel preesistente quadro economico riguardante la singola opera (sul punto cfr. Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per la Lombardia, parere 07.11.2017 n. 305).
L’irretroattività degli atti normativi non significa, pertanto, che “il Regolamento non possa disciplinare anche il riparto delle risorse del fondo per prestazioni rese precedentemente alla sua approvazione. Ed invero, posto che i criteri di assegnazione e di riparto del fondo devono, di regola, essere determinati in sede decentrata con contrattazione integrativa per essere, poi, recepiti dal Regolamento, ne consegue che quest’ultimo è solo un contenitore (…), mentre sul piano sostanziale resta immutata la natura pattizia della disposizione che regola l’incentivo (…)” (Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per la Basilicata
parere 08.03.2017 n. 7).
Quanto al rapporto giuridico sotteso agli incentivi tecnici, non va sottaciuto che la Sezione Autonomie, con deliberazione 26.04.2018 n. 6, ha stabilito che sussiste “(…) una diretta corrispondenza tra incentivo e attività corrispondente in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure”.
In tale prospettiva va evocato quell’orientamento del giudice nomofilattico che qualifica come diritto risarcitorio la situazione giuridica soggettiva di chi ha espletato le attività di cui all’art. 113 D.Lgs. 50/2016, cui corrispondono gli incentivi tecnici, e si vede negati tali incentivi perché l’amministrazione non ha adottato il regolamento (Cass., sez. lav., sent. 13937/2017; Cass., sez. civ., ord. n. 3779/2012; Cass., sez. lav. sent. 13384/2004).
Atteso il contenuto favorevole del parere in ordine al primo quesito (ammissibilità della retroattività), rimane assorbita la questione inerente al secondo quesito posto in via subordinata (compensazione).
In conclusione,
la Sezione esprime i seguenti principi di diritto all’esito del quesito scrutinato:
   1)
il regolamento può disciplinare con effetto retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime normativo antecedente il D.Lgs. 50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, D.Lgs. 50/2016;
   2)
il regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva;
   3)
è escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo dell’attività incentivabile (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 03.04.2019 n. 31).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Distribuzione incentivi tecnici per problematiche concernenti la possibile retroattività del relativo Regolamento.
L’obbligazione dell’ente nei confronti del personale incentivato si perfeziona nel momento in cui, con il relativo regolamento dell’amministrazione, vengono individuati i soggetti incaricati di svolgere le attività che, in base all’articolo 113 del Codice dei contratti pubblici, danno luogo alle incentivazioni ivi previste, in relazione ai singoli appalti di lavori, servizi e forniture.
Con l’atto dell’amministrazione, infatti, vengono ad esistenza tutti gli elementi che debbono sussistere per la formazione dell’impegno di spesa, ai sensi dell’articolo 183 del Tuel, tra cui la somma da pagare e il soggetto creditore.
Per quanto concerne l’imputazione della spesa, essa deve essere effettuata, in osservanza al principio della competenza finanziaria potenziata, nell’esercizio in cui si prevede che la spesa divenga esigibile.
A questo riguardo, considerato che le spese in questione afferiscono ad appalti, la temporizzazione dei relativi impegni non può che seguire lo sviluppo dei lavori, servizi e forniture nel cui ambito l’attività incentivata viene svolta.
La scadenza di ogni obbligazione, pertanto, andrà individuata nel momento in cui, secondo lo sviluppo temporale dell’appalto, si prevede che la singola attività incentivata sarà portata a compimento, con conseguente diritto del creditore di esigere il pagamento dell’incentivo a fronte dell’eseguita prestazione.
Tale momento non deve ovviamente essere confuso con quello della liquidazione, la quale comporta che l’amministrazione accerti il corretto svolgimento dell’attività incentivata, operando, quando ne ricorrano i casi, le eventuali riduzioni o esclusioni del compenso previste dal Regolamento.
Come evidenziato dai magistrati contabili, in presenza di accantonamenti già effettuati, nelle more di approvazione del regolamento, l’impegno di spesa dovrà essere assunto, a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento, anche per attività svolte in precedenza, con l’unico limite di quelle relative ad appalti che si siano già conclusi prima dell’adozione del regolamento stesso.
Infine, come evidenziato dai magistrati contabili, gli incentivi per funzioni tecniche non sono soggetti al vincolo del trattamento accessorio solo se relativi a contratti pubblici il cui progetto dell’opera o del lavoro siano stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento del contratto sia stato deliberato dopo tale data.
Ciò in quanto la norma contenuta all’articolo 113, comma 5-bis, del d.lgs. 50/2016, introdotta dalla legge di bilancio per il 2018, non è norma interpretativa, ma innovativa e dunque non può produrre alcun effetto retroattivo (in tal senso, sez. Lombardia,
parere 27.09.2018 n. 258; in senso contrario, sez. Veneto, parere 14.11.2018 n. 429) (commento tratto da www.self-entilocali.it).
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Il Sindaco del Comune di Città di Castello (PG) ha richiesto un parere di questa Sezione ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, nei termini di cui appresso.
Come noto, il comma 5-bis, dell'articolo 113 del D.Lgs. 113/2016, in materia di incentivi per funzioni tecniche, come introdotto dall'art. 1 della L. 27.12.2017 n. 205, prevede che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”. A parere della Sezione Autonomie della Corte dei Conti -
deliberazione 26.04.2018 n. 6- gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'art. 113 citato, non soggiacciono al vincolo posto al complessivo trattamento accessorio dei dipendenti previsto dall'art. 23, comma 2, del D.Lgs. 75/2017.
È altresì noto che gli incentivi previsti dal nuovo codice ineriscono, essenzialmente, due fasi del procedimento: la programmazione e l'esecuzione dell'appalto, senza tuttavia che sia esattamente individuato, ai fini del computo del fondo per il salario accessorio del personale dipendente, l'esercizio di imputazione.
Questo Comune ha adottato, con Deliberazione di Giunta Comunale n. 48, del 12/03/2018, il regolamento previsto dal citato art. 113, accantonando le risorse per il pagamento degli incentivi nel quadro o prospetto dei lavori o servizi già nel corso dell'esercizio 2017, nelle more di approvazione del regolamento.
Ciò premesso si chiede di sapere:
   1. quale sia il momento giuridicamente rilevante ai fini dell'imputazione al fondo del salario accessorio del personale dipendente, delle quote di incentivazione previste nei quadri economici di spesa dei singoli programmi di acquisizione di lavori, beni o servizi. In particolare, anche in relazione al diverso regime contabile applicabile alle spese in conto capitale e a quelle di parte corrente, in quale esatto momento deve individuarsi il perfezionamento dell’obbligazione dell’ente nei confronti del personale incentivato (esempio approvazione del progetto/programma di acquisizione, determinazione a contrarre, determinazione di aggiudicazione);
   2. alla luce del punto precedente, se gli incentivi per funzioni tecniche di competenza dell'anno 2017 -siano essi di parte capitale o di parte corrente- debitamente accantonati nelle more di adozione del regolamento, soggiacciano o meno al vincolo posto al complessivo trattamento accessorio previsto dall'art. 23, comma 2, del D.Lgs. 75/2017 (si richiamano al riguardo i pareri della Corte dei Conti sezione delle Autonomie
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24, della Corte dei Conti sezione regionale di controllo per la Lombardia parere 27.09.2018 n. 258 e l'opposto parere della Corte dei Conti sezione regionale di controllo per il Veneto parere 14.11.2018 n. 429)”.
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Nel merito, per quanto attiene al primo quesito, va intanto osservato che le spese in questione sono state oggetto di accantonamento, secondo quanto riferito dall’ente, nel corso del 2017. Esse afferiscono sicuramente al Fondo destinato al pagamento del salario accessorio del personale dipendente e, conseguentemente, debbono essere considerate, a tutti gli effetti, alla stregua di spese per il personale.
La relativa obbligazione si perfeziona nel momento in cui, con atto dell’amministrazione, vengono individuati i soggetti incaricati di svolgere le attività che, in base all’art. 113 del Codice dei contratti pubblici, danno luogo alle incentivazioni ivi previste, in relazione ai singoli appalti di lavori, servizi e forniture. Nel caso specifico del Comune di Città di Castello, tale individuazione è prevista, nel regolamento approvato, all’art. 3, paragrafo 1 (“Individuazione del gruppo di lavoro”).
Con l’atto dell’amministrazione, infatti, vengono ad esistenza tutti gli elementi che debbono sussistere per la formazione dell’impegno di spesa, ai sensi dell’art. 183 del TUEL, tra cui la somma da pagare e il soggetto creditore.
Per quanto concerne l’imputazione della spesa, essa deve essere effettuata, in osservanza al principio della competenza finanziaria potenziata, nell’esercizio in cui si prevede che la spesa divenga esigibile.
A questo riguardo, considerato che le spese in questione afferiscono ad appalti, la temporizzazione dei relativi impegni non può che seguire lo sviluppo dei lavori, servizi e forniture nel cui ambito l’attività incentivata viene svolta. La scadenza di ogni obbligazione, pertanto, andrà individuata nel momento in cui, secondo lo sviluppo temporale dell’appalto, si prevede che la singola attività incentivata sarà portata a compimento, con conseguente diritto del creditore di esigere il pagamento dell’incentivo a fronte dell’eseguita prestazione.
Tale momento non deve ovviamente essere confuso con quello della liquidazione, la quale comporta che l’amministrazione accerti il corretto svolgimento dell’attività incentivata, operando, quando ne ricorrano i casi, le eventuali riduzioni o esclusioni del compenso, secondo le previsioni del regolamento approvato dall’ente (v. art. 4 “Modalità di liquidazione dell’incentivo”).
Va soggiunto che, nella fase di prima attuazione della norma, deve considerarsi che non è però possibile procedere ad impegno della spesa prima dell’avvenuta approvazione del regolamento, essendo lo stesso un elemento essenziale della fattispecie.
Poiché i regolamenti non possono disporre che per il futuro, in presenza di accantonamenti già effettuati, come nel caso del Comune di Città di Castello, l’impegno di spesa, nel concorso delle condizioni sopra evidenziate, dovrà essere assunto, a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento, anche per attività svolte in precedenza, con l’unico limite di quelle relative ad appalti che si siano già conclusi prima dell’adozione del regolamento stesso (in senso conforme, v. parere Sezione regionale di controllo Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).
Venendo ora al secondo quesito, la Sezione non può, sul punto, che seguire l’orientamento assunto dalla Sezione delle Autonomie nella deliberazione 06.04.2017 n. 7, deliberazione 10.10.2017 n. 24 e, da ultimo,
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
Come è noto, nella prima versione della norma nulla era specificato in ordine alla natura degli incentivi in questione. La Sezione delle Autonomie, nella prima delle deliberazioni citate, confermata dalla seconda, è giunta alla conclusione che tali incentivi fossero da considerare alla stregua di spese di funzionamento e, dunque, spese correnti (e di personale), come tali da includere nel tetto dei trattamenti accessori.
Introdotto dall’art. 1 della L. 27.12.2017, n. 205 il comma 5-bis dell’articolo 113 del D.Lgs. 113/2016, il quale ha previsto che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”, la Sezione delle Autonomie ha rivisto il proprio orientamento, affermando che “il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale. Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Nella deliberazione
è stato quindi rilevato come la norma che ha introdotto il comma 5-bis non abbia natura di norma interpretativa, bensì innovativa. Ne deriva che la nuova forma di copertura delle spese in questione da essa prevista possa trovare applicazione solo a partire dal 01.01.2018, data della sua entrata in vigore.
Come affermato dalla Sezione regionale di controllo Lazio nel parere 06.07.2018 n. 57 già citata, pertanto,
essa inizierà ad applicarsi “ai contratti pubblici il cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data”. Infatti, secondo la citata deliberazione, risulta logico ritenere che la fonte di copertura inizi a variare per tutte le procedure la cui programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti”.
Tale orientamento, fatto proprio dalla Sezione Lombardia nella parere 27.09.2018 n. 258, è condiviso anche da questa Sezione, apparendo ben più motivato e persuasivo rispetto all’opposto avviso cui perviene il parere della Sezione regionale Veneto parere 14.11.2018 n. 429 (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 28.03.2019 n. 56).

INCARICHI PROGETTUALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEProgettazione, la modifica al principio chiarisce la contabilizzazione.
La modifica al principio applicato della contabilità finanziaria decisa da Arconet nella seduta del 09.01.2019 e destinata a dare attuazione a quanto previsto dalla legge 145/2018 (articolo 1, comma 910) in materia di costituzione del fondo pluriennale vincolato in relazione alla gestione degli investimenti, ha il merito di chiarire anche il trattamento contabile delle progettazioni.
In proposito, si manifestano alcune incertezze, anche in funzione delle casistiche che la prassi propone, in ordine alla collocazione contabile delle spese tra parte corrente e parte conto capitale, con i conseguenti effetti e impatti in termini di modalità di finanziamento e di risorse concretamente utilizzabili.
Progettazione interna o esterna
È così chiarito, ora, che la spesa riguardante il livello minimo di progettazione richiesto ai fini dell'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici è, ovviamente, registrata nel bilancio di previsione prima dello stanziamento per l'opera.
In questo caso, nondimeno, l'iscrizione della spesa nella parte investimenti (conto capitale) è condizionata all'individuazione, da parte dei documenti di programmazione dell'ente concernenti la realizzazione delle opere pubbliche (Dup), in modo specifico, dell'investimento da eseguire con le correlate modalità di copertura finanziaria. Questa indicazione vale naturalmente per la spesa che riguarda la progettazione esterna la cui contabilizzazione avverrà mediante l'utilizzo della voce U.2.02.03.05.001 concernente «Incarichi professionali per la realizzazione di investimenti».
Nel caso di progettazione interna, invece, la contabilizzazione seguirà la natura economica dei fattori, con la conseguenza che la spesa di personale sarà classificata nell'ambito della parte corrente, mentre eventuali attrezzature saranno classificate nell'ambito delle spese in capitale. Fermo restando questo trattamento nel quadro della contabilità finanziaria, è comunque necessario procedere, nella contabilità economico-patrimoniale, alla capitalizzazione dei costi mediante apposita registrazione in fase di scrittura di assestamento.
Il finanziamento in attesa della contribuzione
È anche da segnalare che è pure chiarito, opportunamente, che, nel caso in cui la copertura dell'intervento sia costituita da un contributo per il finanziamento dell'opera (comprensivo della spesa di progettazione) concesso nell'esercizio successivo a quello in cui è stata impegnata la spesa concernente la progettazione, la quota riguardante la progettazione deve essere gestita quale entrata libera, considerando che il vincolo è già stato rispettato.
Si tratta del caso, piuttosto frequente, nel quale l'ente finanzia autonomamente (con risorse proprie) la progettazione in attesa della contribuzione (la cui richiesta implica, ad esempio, la partecipazione ad un apposito bando) e che comporta, successivamente, l'esigenza di ripristinare la disponibilità delle risorse medio-tempore impiegate con la medesima natura (libera o vincolata).
I piccoli importi
Peraltro, la modifica al principio si occupa anche del trattamento degli interventi di importo inferiore a 100.000 euro che non implicano la preventiva attività di programmazione dei lavori pubblici, con la conseguenza che lo stanziamento a bilancio può avvenire pure in caso di mancato inserimento nel programma triennale.
In questa fattispecie, la spesa di progettazione è registrata nel Titolo II della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione esterna, sulla base dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016.
Quest'ultimo, in particolare, prevede che «gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti».
Anche in questa ipotesi, nondimeno, seguendo la natura economica, gli stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione devono essere classificati tra le spese di personale, con la conseguente capitalizzazione nell'ambito della contabilità economico-patrimoniale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: In ordine alle modalità per il riconoscimento degli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50/2016 in caso di concessione di servizi, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia delibera di sottoporre al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie o alle Sezioni Riunite in sede di controllo le seguenti questioni di massima aventi carattere di interesse generale:
  
se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni e se, in siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone concessorio”;
e, in via subordinata:
  
quali siano le corrette modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione ad una procedura di aggiudicazione di un contratto di concessione”;
e, sempre in via subordinata:
  
se gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e individuali, che devono essere osservati nell’erogazione possano essere esclusi dal vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 anche laddove alimentati non già dalle risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis del d.lgs. 50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di concessione, da uno specifico stanziamento previsto nel bilancio dell’Amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 1 dello stesso art. 113 .
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Il Sindaco del Comune di Voghera (PV) ha inviato la richiesta di parere sopra indicata vertente sulle modalità per il riconoscimento degli incentivi per funzioni tecniche nel caso di concessione di servizi.
In particolare, il Sindaco del Comune di Voghera, premessa l’intenzione di affidare in concessione, mediante procedura ad evidenza pubblica, la gestione della segnaletica direzionale, di impianti pubblicitari di servizio, di impianti pubblicitari e di cartellonistica stradale sul suolo pubblico, chiede:
   1. “se anche nel caso in cui il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, l’incentivo per funzioni tecniche debba essere determinato sul valore posto a base di gara e quindi sul fatturato presunto”;
   2. “in caso affermativo, considerato che il canone è versato in quote annuali nella misura di € 20.500 e che l’incentivo, pari a € 62.500, deve invece essere riconosciuto in correlazione all’esigibilità della prestazione effettivamente svolta, se è corretto che l’Ente anticipi, a valere sulle risorse correnti di bilancio, l’importo da erogare al personale dipendente”;
   3. «considerato che l’art. 113, comma 5-bis, D.Lgs. 50/2016 prevede che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavoro, servizi e forniture” quale condizione per poter considerare detti importi esclusi dal limite di cui all’art. 23, comma 2, D.Lgs. 75/2017 (Corte Conti Sezione delle Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6), e che in questo caso non vi è un capitolo di spesa in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla gestione della concessione, in questo caso come occorre contabilizzare l’importo per incentivi per soddisfare la condizione necessaria all’esclusione dal limite previsto per il salario accessorio»;
   4. "se stante il combinato disposto degli articoli 31, comma 5 e 113, comma 2, ult. Cpv. del D.Lgs. 50/2016 e viste le Linee guida ANAC n. 3, approvate con deliberazione n. 1007 dell’11/10/2017, con cui al punto 10.2 è stato definito l’importo massimo e la tipologia dei servizi e forniture per le quali il RUP può coincidere con il direttore dell’esecuzione del contratto, è legittimo, nel caso prospettato, riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche nel caso in cui, con provvedimento dirigenziale, sia nominato direttore dell’esecuzione il RUP. In caso affermativo se è corretto corrispondere al medesimo dipendente l’incentivo sia per le funzioni di RUP che di direttore dell’esecuzione del contratto”.
...
Sotto questo profilo risulta inammissibile il quesito di cui al n. 4 con cui l’Ente chiede se sia legittimo riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche al RUP nominato, con provvedimento dirigenziale, direttore dell’esecuzione del contratto e se sia possibile riconoscere al medesimo dipendente l’incentivo tanto per le funzioni di RUP che per quelle di direttore dell’esecuzione.
Si tratta, difatti, di specifica questione relativa alla corresponsione degli incentivi in parola di ordine meramente gestionale e, come tale rimessa, alla discrezionalità e responsabilità dell’ente istante.
Sul tema, tuttavia, la Sezione rileva, in ottica collaborativa, come, per effetto delle modifiche apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 56 del 2017,
i compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore dell’esecuzione, nomina richiesta -come recentemente osservato dalla Sezione delle Autonomie nella precitata deliberazione 09.01.2019 n. 2- “secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità”.
L’art. 111, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e s.m.i. prevede che, di norma, il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture coincida il responsabile unico del procedimento, ma la disciplina di attuazione contenuta nelle Linee guida A.N.AC. n. 3 – par. 10.2 sopra richiamate individua espressamente i casi in cui il direttore dell’esecuzione del contratto non può coincidere con il responsabile del procedimento (tra cui proprio quelli di prestazioni di importo superiore a 500.000 euro e interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico).
Dal disposto normativo sopra richiamato risulta, dunque, che,
nei suddetti casi, anche ai fini dell’erogazione dei predetti compensi incentivanti nell’ambito di servizi e forniture, la figura del direttore dell’esecuzione del contratto deve essere diversa da quella del responsabile unico del procedimento: diversamente opinando, in siffatte ipotesi, “nessun dipendente svolgente le funzioni enumerate dal comma 2 dell’articolo 113 può percepire compensi incentivanti (in questi termini cfr. Sezione regionale controllo Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).

La risposta nel merito agli altri quesiti presuppone una sintetica disamina del quadro normativo di riferimento, tralasciando i profili di non immediato interesse nel caso in esame, salvo richiamare, in seguito, gli orientamenti della giurisprudenza contabile in materia funzionali a fornire il riscontro richiesto.
L’art. 113 del menzionato d.lgs. n. 50/2016 fissa la possibilità di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Amministrazioni pubbliche espletante attività tecniche e amministrative nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
Nello specifico la norma in discorso prevede che, a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici possano destinare ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2% modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse ivi espressamente indicate (programmazione della spesa per investimenti, valutazione preventiva dei progetti, predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, funzioni di RUP, direzione dei lavori o direzione dell’esecuzione e collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti).
La costituzione del fondo non è prevista da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale.
Rispetto alla normativa previgente (art. 93, comma 7-bis e ss., del d.lgs. 12.04.2006, n. 163) la disposizione in esame trova espressa applicazione non solo per gli appalti di lavori, ma anche per quelli relativi a servizi o forniture nel caso in cui (secondo le integrazioni apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56) sia stato nominato il direttore dell’esecuzione: il tenore letterale della norma, che fa espresso riferimento all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una procedura di gara (cfr., ex multis, di questa Sezione
parere 09.06.2017 n. 190; Sez. controllo Puglia deliberazione 09.02.2018 n. 9; Sez. controllo Marche parere 08.06.2018 n. 28).
Il ricorso al predetto meccanismo premiale è subordinato alla preventiva approvazione, da parte dell’Amministrazione, di un regolamento interno e alla conclusione di un accordo di contrattazione decentrata in cui vanno regolati i criteri di ripartizione fra i dipendenti interessati.
Nel succitato regolamento -la cui adozione è considerata, nella giurisprudenza contabile (cfr., ex multis, Sez. controllo Veneto
parere 07.09.2016 n. 353; Sez. controllo Regione autonoma Friuli Venezia Giulia parere 02.02.2018 n. 6) condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo- vanno individuate le modalità ed i criteri della ripartizione dei compensi incentivanti, oltre alla percentuale, che, comunque, non può superare i limiti quantitativi posti dalla medesima norma. In particolare il comma 3 dell’art. 113 prevede che “l’ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2” possa essere ripartito, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, con le modalità sopra indicate, “tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”. Il restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto dal successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture; attivazione di tirocini formativi e di orientamento; svolgimento di dottorati di ricerca etc.).
La norma fissa, inoltre, un limite individuale alla corresponsione degli incentivi in parola, stabilendo che, complessivamente, nel corso dell’anno, un singolo dipendente non possa percepire emolumenti di importo superiore al 50% del proprio trattamento economico annuo lordo. Il comma 3 precisa, inoltre, che gli importi indicati devono essere “comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione”.
L’art. 1, comma 526, della legge 27.12.2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) ha introdotto il comma 5-bis all’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 il quale prevede testualmente che «Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Il nuovo intervento normativo ha definitivamente chiarito che gli incentivi per le funzioni tecniche non fanno carico ai capitoli della spesa del personale, ma devono essere ricompresi nel quadro economico del singolo contratto: com’è noto, sulla base dello ius superveniens, la Sezione delle Autonomie (intervenendo nuovamente sulla questione alla luce del mutato contesto normativo di seguito alla
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24) ha affermato che “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017” (Corte Conti, Sezione delle Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Con il primo quesito, preso atto dell’orientamento delle Sezioni regionali di controllo (cfr. Sez. controllo Veneto,
parere 21.06.2018 n. 198 e parere 27.11.2018 n. 455) che estende la possibilità di riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche ex art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 anche con riferimento alle concessioni (e ai contratti di partenariato), si chiede se anche nell’ipotesi in cui il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nell’esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, l’incentivo per funzioni tecniche debba essere determinato sul valore posto a base di gara e, quindi, sul fatturato presunto generato dalla fornitura del servizio alla massa degli utenti.
Al riguardo, preliminarmente, il Collegio ritiene di doversi soffermare sulla questione relativa all’applicabilità dell’incentivo per funzioni tecniche ex art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 anche con riferimento al settore delle concessioni.
Si tratta di una problematica venuta solo recentemente in emersione e affrontata funditus nelle delibere della Sezione di controllo per il Veneto sopra richiamate nelle quali si ammette che, attraverso il regolamento di cui all’art. 113, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, gli enti locali possano procedere all’estensione dell’istituto in esame anche alle procedure di aggiudicazione regolate dalla parte III del codice (concessione di lavori pubblici o di servizi) e dalla parte IV (partenariato pubblico o/e privato) nei limiti, naturalmente, delle specifiche e tassative attività prescelte dal legislatore come meritevoli di premialità.
La questione è solo lambita dalla Sezione regionale controllo Lazio col
parere 06.07.2018 n. 57 dove si esclude che tali incentivi possano erogarsi nei casi che l’art. 17 del codice dei contratti pubblici fa oggetto di “Esclusioni specifiche” (ad es. servizi legali connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri), ma si tratta, a ben vedere, di casi di inoperatività delle disposizioni del codice dei contratti pubblici, valevoli tanto per i contratti di appalto che per le concessioni.
L’approccio ermeneutico seguito dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto (in particolare nel
parere 21.06.2018 n. 198) muove dalle difficoltà legate ad un’interpretazione estensiva dell’istituto premiale in ragione, anzitutto, della sedes materiae (l’art. 113 è collocato nella parte II del codice, dedicata alla disciplina dei contratti di appalto per lavori, servizi e forniture); a ciò si unisce la difficoltà di interpretare la portata del rinvio alle disposizioni codicistiche in tema di appalto contenuto all’art. 164, comma 2, del medesimo codice relativamente alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi, con particolare riguardo al problema se detto «rinvio vada inteso esclusivamente con riferimento agli aspetti prettamente procedurali dell’esecuzione del contratto o, in senso più ampio, a tutte le norme, con l’unico limite della “compatibilità”, che disciplinano la fase dell’esecuzione, ivi compresa la disposizione sull’incentivabilità delle funzioni tecniche».
Nondimeno, la tesi estensiva è suffragata da ampiezza di argomenti testuali e logico-sistematici da cui si evince che “quando il legislatore abbia inteso non incentivabili attività annoverabili tra le funzioni tecniche svolte nell’ambito di certi contratti pubblici lo ha fatto esplicitamente”; inoltre l’incentivabilità delle funzioni tecniche è prevista in altre disposizioni del codice espressamente applicabili anche alle concessioni o indistintamente riferite a tutti i contratti pubblici: è il caso dell’art. 31, comma 12, su ruolo e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni e dell’art. 102, comma 6, a mente del quale il compenso spettante per l’attività di collaudo sull’esecuzione dei contratti pubblici (senza alcuna distinzione) è contenuto, per i dipendenti della stazione appaltante, nell’ambito dell’incentivo di cui all’art. 113.
Così, secondo quanto affermato nel succitato
parere 21.06.2018 n. 198, rileva, ai fini dell’applicazione della disciplina in tema di incentivi per funzioni tecniche, una nozione unitaria di contratti pubblici imposta dal diritto positivo (cfr. art. 3, comma 1, lett. dd) del Codice) e comprensiva sia dei contratti di appalto che di concessione, con la fondamentale differenza del c.d. rischio operativo insito nella concessione che giustifica la diversa forma di remunerazione accordata, in tale caso, all’operatore economico.
Tanto premesso, il Collegio non rinviene, in linea di principio, ragioni per discostarsi dall’orientamento assunto in merito dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto in materia di riconoscibilità dell’incentivo per le funzioni tecniche per le ipotesi di concessioni.
Ciò soprattutto alla luce della ratio sottesa al riconoscimento del meccanismo premiale in discorso, strumentale ad accrescere, nell’esecuzione delle commesse pubbliche, “efficienza ed efficacia di attività tipiche dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente rilevanti” (così Sezione regionale di controllo Toscana,
parere 10.10.2018 n. 63).
Nella prospettiva del miglioramento della qualità spesa pubblica in un settore fondamentale per gli investimenti e la crescita economica, il riconoscimento di compensi incentivanti esprime, sotto questo profilo, esigenze comuni alla materia della contrattualistica pubblica relativa ad appalti e concessioni, salve le peculiarità disciplinari che connotano tradizionalmente quest’ultimo istituto.
Del resto, come recentemente osservato (cfr. Sezione regionale controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57) “la ratio dei nuovi incentivi è, infatti, anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale utilizzo delle professionalità interne, rispetto al ricorso all’affidamento all’esterno di incarichi professionali, che sarebbero comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente, con aggravio della spesa complessiva”.
Tale lettura appare anche in linea con la portata estensiva di alcune recenti pronunce che hanno caratterizzato la materia, emblematiche di un sempre più ampio “approccio funzionale” nell’ermeneusi delle regole relative ad una premialità, quale quella in esame, collegata all’accrescimento di efficienza ed efficacia di attività tipiche dell’amministrazione.
È il caso, tra l’altro, del recente
parere 12.12.2018 n. 162 della Sezione di controllo per la Puglia -in cui l’incentivo viene ammesso, a certe condizioni, anche in riferimento a varianti contrattuali di lavori, forniture e servizi di appalti comunque affidati mediante gara o procedure competitive– e della deliberazione 09.01.2019 n. 2 della Sezione delle Autonomie che ha riconosciuto, nei limiti previsti dalla norma, l’incentivabilità delle funzioni tecniche negli appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria di particolare complessità.
Il Collegio, pur aderendo, sostanzialmente, all’approdo ermeneutico venutosi a delineare nella giurisprudenza contabile sopra richiamata, ritiene opportuno sollecitare, in assenza di un dato positivo univoco, una pronuncia di orientamento generale in ordine all’incentivabilità delle funzioni tecniche in materia di concessioni.
Tale soluzione appare imposta dalla specialità che contraddistingue la disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche rispetto al principio generale della onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici in forza del quale, ad esempio, l’espressa possibilità di applicare detta normativa ai casi di appalti relativi a servizi o forniture è stata sancita, come detto, solo da un’apposita modifica normativa.
Sotto altro profilo un intervento nomofilattico su una questione ancora non consolidata appare indispensabile per prevenire incertezze applicative in una materia contrassegnata, nel tempo, da notevoli oscillazioni e contrasti interpretativi, determinati da una normativa sovente carente e ondivaga, causa del frequente ricorso all’intervento pretorio.
Non può essere trascurata, poi, la possibile ricaduta, in termini di programmazione e impatto sul bilancio degli enti locali, legata al riconoscimento dell’incentivo per le funzioni tecniche in ipotesi di concessioni.
Anzitutto, a monte, appare necessario che il ricorso alla prestazione incentivante risulti coerente con gli strumenti di programmazione economico-finanziaria dell’ente, con particolare riguardo al programma biennale degli acquisti di beni e servizi e alla programmazione dei lavori pubblici di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Inoltre, se pure la corresponsione dell’incentivo è assoggettata, anche in questo caso, ai suddetti limiti normativi, non può non cogliersi un’importante differenza -palesata dalla richiesta di parere in esame- rispetto al caso dei contratti di appalto.
In tali ipotesi gli incentivi di che trattasi gravano sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture: pertanto, già nell’ambito delle risorse destinate al contratto pubblico, una parte viene accantonata, a monte, per la specifica finalità dell’erogazione del compenso incentivante quale premialità per la realizzazione della procedura competitiva e la corretta esecuzione del contratto.
Discorso diverso è quello in cui non vi sia un capitolo di spesa dedicato in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla gestione del contratto, come avviene per le concessioni: in siffatta ipotesi l’ente è chiamato necessariamente ad impiegare, ai suddetti fini, risorse proprie parametrate sulle entrate derivanti dal canone concessorio che potrebbero, tuttavia, risultare non calibrate alla misura che può concretamente assumere l’incentivo.
Tale evenienza emerge, in modo emblematico, dalla disamina del primo quesito posto dal Comune in ordine al quale il Collegio ritiene, in linea con quanto ulteriormente osservato dalla Sez. controllo Veneto nella parere 27.11.2018 n. 455 (anche alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa) che l’incentivo per funzioni tecniche in caso di concessioni, una volta che se ne ammetta l’assentibilità, risulti determinabile non già con riferimento al canone dovuto dal concessionario, ma solo con riguardo al valore posto a base di gara.
Tale lettura appare necessitata dal combinato disposto dell’art. 113 -nella misura in cui fissa l’ammontare del Fondo in misura non superiore al 2% dell’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di gara”– e dell’art. 167 dello stesso codice dei contratti pubblici che ricollega indefettibilmente il valore di una concessione al fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto nei termini ivi specificati.
Sotto questo profilo appare irrilevante, ai suddetti fini, che il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nell’esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario se solo si ha riguardo alla particolare forma di remunerazione che connota tale tipologia contrattuale in cui il trasferimento della gestione del servizio all’operatore economico (con diritto ai relativi proventi) è bilanciato dall’assunzione, in capo allo stesso, del c.d. “rischio operativo” legato alla gestione dello stesso servizio.
In questo senso, per l’Amministrazione che intenda prevedere compensi incentivanti ex art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 in caso di concessione, risulta, anche a tali fini, fondamentale un’attendibile previsione del fatturato generato del contratto, secondo quanto più volte rimarcato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, 18.10.2016, n. 4343) e in linea con il metodo di calcolo oggi fissato dal suddetto art. 167 del d.lgs. n. 50/2016: ciò, soprattutto laddove, nella decisione dell’Ente, la corresponsione degli incentivi in questione sia stata correlata alle previsioni di entrata derivante dal canone previsto a carico del concessionario.
Uno spunto in questo senso è già ricavabile dalla ridetta pronuncia della Sezione di controllo per il Veneto parere 21.06.2018 n. 198 ove si lascia impregiudicata la libertà contrattuale dell’Amministrazione di ipotizzare, in sede di corrispettivo, una modalità di finanziamento degli oneri connessi, così avvalorando, implicitamente, soluzioni negoziali che pongano di fatto a carico del concessionario la quota di compenso incentivante da riconoscere al personale dell’Ente.
Tuttavia, da tutto quanto precede risulta che, in particolar modo nei casi di concessioni relative a lavori o servizi con elevato volume d’affari, un incentivo per funzioni tecniche rapportato al valore posto a base di gara, pur modulato dall’Amministrazione nei limiti consentiti dalla norma sopra richiamata, potrebbe rivelarsi non sostenibile, soprattutto ove l’Ente interessato, in sede di programmazione, non abbia adeguatamente ponderato e parametrato, anche a tali fini, il canone dovuto dal concessionario, quale unica entrata destinata al finanziamento della premialità.
Le inevitabili ricadute sotto il profilo disciplinare della questione in esame involgono l’interesse non solo del Comune istante, ma di tutte le “amministrazioni aggiudicatrici” (ministeri, enti pubblici non economici, università, aziende sanitarie etc.) soggette all’applicazione del codice dei contratti pubblici.
Conseguentemente
la scrivente Sezione regionale di controllo ritiene opportuno deferire al Presidente della Corte dei conti la seguente questione interpretativa di massima di carattere generale:
  
se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni e se, in siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone concessorio”.
Nell’ipotesi in cui la questione di massima sopra illustrata venga definita nel senso dell’ammissibilità degli incentivi per funzioni tecniche in ipotesi di concessioni, la Sezione ritiene che le problematiche poste dal Comune, in particolare con il terzo e il quarto quesito, possano dare luogo ad ulteriori questioni di massima, dirimenti ai fini della necessità di orientare in termini generali l’autonomia regolamentare dei soggetti interessati.
In particolare, con il terzo quesito, stante il disposto dell’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs. n. 50/2016 in forza del quale gli incentivi in parola gravano sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture, con conseguente esclusione dal vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici dall’art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017 secondo quanto statuito dalla Sezione delle Autonomie nella deliberazione 26.04.2018 n. 6, l’ente chiede come occorre contabilizzare l’importo per incentivi per soddisfare la condizione necessaria all’esclusione dal limite previsto per il salario accessorio nel caso in cui non vi sia un capitolo di spesa in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla gestione della concessione.
La questione è connessa a quella posta con il secondo quesito con cui si chiede se è corretto che l’Ente anticipi, a valere sulle risorse correnti di bilancio, l’importo da erogare al personale dipendente per le prestazioni incentivate sopra richiamate.
Al riguardo, come già osservato in altra circostanza (cfr. deliberazione n. 312/2017/PAR) si fa notare che risulta precluso a questa Corte fornire dettagliate indicazioni operative finalizzate a supportare specifici comportamenti amministrativi e gestionali dell’Ente istante, spettando a quest’ultimo individuare le concrete modalità di specifica quantificazione e liquidazione del predetto Fondo incentivante.
Ai suddetti fini l’Ente dovrà procedere nell’osservanza dei limiti normativi posti dall’art. 113 e dei principi contabili, con particolare riguardo al principio di competenza finanziaria potenziata e alle regole che presiedono alla costituzione del fondo pluriennale vincolato in presenza di risorse accertate che, in quanto destinate al finanziamento di obbligazioni passive dell’ente già impegnate, ma esigibili in esercizi successivi, richiedono un periodo di tempo pluriennale per il loro effettivo impiego e utilizzo per le finalità programmate.
Sul punto è d’uopo rilevare, inoltre, il costante orientamento della giurisprudenza contabile (cfr. Sezione regionale di controllo Toscana,
parere 10.10.2018 n. 63; Sezione regionale di controllo Liguria, parere 21.12.2018 n. 136) che rimarca come l’articolo 113 del d.lgs. n. 50/2016, allo scopo di erogare l’incentivo, richieda l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di riferimento.
Difatti (cfr. Sezione regionale di controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57) gli incentivi devono essere correlati allo svolgimento delle prestazioni tecniche realmente svolte, in modo da remunerare il concreto carico di responsabilità e di lavoro assunto dai dipendenti; sotto questo profilo la norma, al comma 3, prevede che la corresponsione dell’incentivo sia disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai dipendenti.
Inoltre, seppure, in via generale, l’accantonamento –a monte– degli stanziamenti finalizzati a costituire ed impinguare il Fondo è frutto di una discrezionale ed unilaterale scelta dell’Ente (così Sezione regionale di controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57) per l’Amministrazione che intenda prevedere compensi incentivanti ex art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 in caso di concessione (ove se ne ammetta la praticabilità per tutto quanto sopra evidenziato) appare necessaria un’attenta valutazione in ordine alle risorse all’uopo devolvibili e in merito all’opportunità di adottare specifiche misure prudenziali rispetto al rischio di mancata riscossione del canone da parte del concessionario.
In ordine al terzo quesito sopra richiamato va osservato come la stessa pronuncia nomofilattica ivi menzionata abbia rilevato come, con l’inserimento del predetto comma 5-bis all’interno dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, il legislatore abbia inteso compiere “un intervento volto a tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli incentivi per le funzioni tecniche” all’esito del quale permane, tuttavia, “l’esigenza di chiarire le specifiche modalità operative di contabilizzazione”.
Sempre subordinatamente alla risoluzione della questione principale sopra descritta, la predetta pronuncia reca dei principi di fondo che sembrano utilizzabili per una corretta impostazione della problematica in termini generali anche in ordine alla contabilizzazione di compensi incentivanti da riconoscere in caso di concessioni.
Anzitutto, in forza del predetto orientamento, gli incentivi in parola, anche alla luce del precipuo regime vincolistico cui sono assoggettati, devono necessariamente gravare su risorse autonome e predeterminate del bilancio dell’Ente interessato, con un chiaro riferimento sinallagmatico tra le fasi di programmazione ed esecuzione della commessa pubblica e l’appostamento delle risorse destinate alla corresponsione degli incentivi.
In questo senso, “l’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale” (cfr. sempre
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Va, tuttavia, ricordato come il comma 1 dello stesso articolo preveda che gli oneri in questione facciano carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o, comunque, “nei bilanci delle stazioni appaltanti”.
Tale previsione normativa sembra, così, consentire sempre alle Amministrazioni l’allocazione, nel proprio bilancio, di specifiche risorse destinate alla corresponsione dei suddetti compensi: anche in siffatte ipotesi gli incentivi risultano erogabili nel rispetto dei suddetti limiti normativi posti dall’art. 113 più volte citato e in presenza di una sicura copertura, come più volte ribadito dalla giurisprudenza contabile (cfr. la deliberazione di questa Sezione parere 06.11.2018 n. 304; Sez. Liguria deliberazione 29.06.2017 n. 58 e Sezione Toscana, parere 14.12.2017 n. 186 e parere 27.03.2018 n. 19).
Del resto -come rimarcato sempre dalla Sez. controllo Veneto nel parere 21.06.2018 n. 198- la contabilizzazione, la gestione e l’onere finanziario dei benefici in esame, che costituiscono eccezione al principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente in funzione di incentivazione dell’efficienza e dell’efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell’esecuzione a regola d’arte, sono oggetto di esclusivo adempimento in capo all’amministrazione.
Anche sul piano dell’assunzione degli impegni di spesa finalizzati all’erogazione dei compensi in parola la Sezione non può che conformarsi alla giurisprudenza di questa Corte e, in particolare, alla pronuncia nomofilattica della Sezione delle Autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6, ampiamente richiamata, da ultimo, dalla summenzionata deliberazione 09.01.2019 n. 2) ove si osserva che “il fatto, poi, che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture, comporta che gli stessi si configurino, non più solo come spesa finalizzata ad investimenti, ma anche come spesa di funzionamento e, dunque, come spesa corrente”, con la conseguenza che l’impegno di spesa vada assunto, a seconda della natura (corrente o in c/capitale), nel Titolo I o nel Titolo II dello stato di previsione del bilancio.
Posto quanto sopra, anche su questo aspetto si ravvisa l’esigenza di una chiarimento nomofilattico non solo con riguardo al fatto che gli incentivi erogati in caso di concessione possano essere contabilizzati nei termini sopra richiamati, ma anche sulla circostanza che gli stessi possano reputarsi esclusi dal limite previsto per il salario accessorio; ciò anche laddove non vadano, giocoforza, a gravare sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture, ma su altro stanziamento appositamente previsto nel bilancio comunale quale costo inerente alla gestione della concessione.
In altri termini risulta necessario chiarire se l’inclusione dell’incentivo nel medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture si ponga sempre come condicio sine qua non ai fini dell’esclusione dal limite normativo previsto per il salario accessorio dall’art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017.
La questione risente, inevitabilmente, della difficoltà di coordinamento di norme diverse, stratificate nel tempo quali quelle contenute oggi al comma 1 e al comma 5-bis del più volte citato art. 113.
Tale chiarimento sembra motivato anche da un’analisi della recente legislazione in materia di compensi incentivanti in cui l’esclusione dal suddetto tetto risulta il frutto di un’espressa scelta in tal senso da parte del legislatore.
È il caso dei compensi incentivanti previsti ai fini del potenziamento della riscossione delle entrate locali dall’art. 1, comma 1091, della legge 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019).
La norma in parola consente ai comuni che hanno approvato il bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, di prevedere, con proprio regolamento, che il maggiore gettito accertato e riscosso, relativo agli accertamenti dell’imposta municipale propria e della TARI, nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia destinato, limitatamente all’anno di riferimento, al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di qualifica dirigenziale.
In siffatta ipotesi la norma prevede espressamente l’erogazione dell’emolumento in deroga al limite di cui all’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75.
Ciò posto, il Collegio ritiene che, una volta ammessa l’operatività del compenso premiale in parola anche in caso di concessioni, permangano le ragioni sostanziali analiticamente descritte nella deliberazione di questa Sezione
deliberazione 16.02.2018 n. 40, fondate sulla natura dell’emolumento e sul peculiare statuto disciplinare vincolistico che lo governa, per ritenere i compensi in parola esclusi dal limite complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
Tale ricostruzione pare avvalorata dalla previsione normativa sopra richiamata che consente sempre alle Amministrazioni aggiudicatrici l’allocazione, nel proprio bilancio, di specifiche risorse destinate alla corresponsione dei suddetti compensi diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di emolumenti accessori al personale.
Del resto, diversamente opinando, potrebbe addivenirsi al paradosso di considerare alcuni incentivi, previsti pur sempre nell’ambito di procedure competitive finalizzate all’aggiudicazione di contratti pubblici e remunerativi delle medesime attività, irrilevanti ai fini del rispetto del vincolo di finanza pubblica ove erogati a valle di un contratto di appalto e rilevanti, invece, in caso di concessione.
Sulla base delle considerazioni esposte,
la scrivente Sezione regionale di controllo intende, pertanto, sottoporre, in subordine alla prima, le seguenti ulteriore questioni di massima:
  
quali siano le corrette modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione ad una procedura di aggiudicazione di un contratto di concessione”;
  
se gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e individuali, che devono essere osservati nell’erogazione possano essere esclusi dal vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 anche laddove alimentati non già dalle risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs. 50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di concessione, da uno specifico stanziamento previsto nel bilancio dell’Amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 1 dello stesso art. 113”.
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia dichiara il quesito in parte inammissibile e, per la restante parte, alla luce degli approdi ermeneutici evidenziati, attesa la rilevanza sistematica della questione nell’ambito della materia dei contratti pubblici, sospende la pronuncia e delibera di sottoporre al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie, ai sensi dell’art. 6, co. 4, del d.l. 174/2012, o alle Sezioni Riunite in sede di controllo, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. 78/2009, le seguenti questioni di massima aventi carattere di interesse generale:
  
se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni e se, in siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone concessorio”;
e, in via subordinata:
  
quali siano le corrette modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione ad una procedura di aggiudicazione di un contratto di concessione”;
e, sempre in via subordinata:
  
se gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e individuali, che devono essere osservati nell’erogazione possano essere esclusi dal vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 anche laddove alimentati non già dalle risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis del d.lgs. 50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di concessione, da uno specifico stanziamento previsto nel bilancio dell’Amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 1 dello stesso art. 113” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, deliberazione 14.03.2019 n. 96).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Progettazioni, no incentivi per lavori fuori programma.  Deliberazione Corte dei conti sul 2% ai tecnici della p.a..
Senza programmazione degli interventi risulta impossibile applicare l'incentivo pari al 2% del valore dell'opera concesso ai tecnici delle pubbliche amministrazioni; non è infatti possibile provvedere alla verifica di conformità che misura come il personale interno alla stazione appaltante procede con il controllo sullo stato di avanzamento dei lavori, sui tempi e sui costi dell'opera.
Lo ha precisato la Corte dei conti con il parere 19.03.2019 n. 25 della sezione regionale di controllo per il Piemonte  relativa all'applicazione dell'articolo 113 del codice dei contratti pubblici, una delle norme che dovrebbero essere riviste, almeno stando alle bozze del decreto «sblocca cantieri» circolate in queste ultime due settimane.
In attesa di conoscere il testo definitivo del decreto, che sarà poi trasmesso alle camere, assume un certo rilievo la delibera della magistratura contabile che mette in stretta relazione l'applicazione della norma con la previa effettuazione delle attività di programmazione degli interventi.
La Corte era stata interpellata da un sindaco per sapere se, rispetto ai servizi e alle forniture per i quali non è stato approvato il progetto e il quadro economico, fosse possibile post-aggiudicazione finanziare gli incentivi delle funzioni tecniche se nel capitolo di spesa dell'appalto erano disponibili risorse.
I giudici hanno precisato innanzitutto che la «necessità che l'affidamento di un appalto di servizi o di forniture sia preceduta da un'attività di programmazione e di progettazione rappresenta un'esigenza immanente nell'ordinamento a prescindere dal valore del contratto. Per avvalorare questa impostazione i giudici hanno ricordato che in ogni caso «seppur con strumenti più duttili e semplificati» ogni amministrazione deve sempre procedere a una puntuale individuazione «dei bisogni onde procedere all'affidamento di appalti volti al soddisfacimento quali-quantitativo degli stessi».
In assenza di programmazione e di una procedura comparativa non è quindi possibile remunerare gli incentivi: infatti risulta compromessa la stessa possibilità di determinare il valore del relativo fondo e quindi diviene di fatto impraticabile la funzione di controllo e verifica intestata al direttore dell'esecuzione (alla cui nomina è subordinata, ex art. 113, comma 2, la possibilità di remunerare le funzioni tecniche ivi tassativamente previste).
In altre parole, il Rup non potrebbe mai riuscire a svolgere le «verifiche di conformità» che rappresentano le modalità attraverso cui il personale interno procede al controllo sull'avanzamento delle fasi contrattuali nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati.
Pertanto, per i giudici contabili, è necessario che sia avvenuto l'accantonamento delle risorse anche solo sulla scorta del dato normativo di cui al secondo comma dell'art. 113 del codice dei contratti pubblici. In assenza di un accantonamento, relativo almeno all'esercizio in cui si è svolta l'attività «incentivabile», infatti, non è possibile impegnare ex post, ossia in un successivo esercizio, risorse riferibili ad obbligazioni già scadute in quanto di competenza dell'esercizio precedente (articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La necessità che l’affidamento di un appalto di servizi o di forniture sia preceduta da un’attività di programmazione e di progettazione rappresenta un’esigenza immanente nell’Ordinamento a prescindere dal valore del contratto. Sicché, seppur con strumenti più duttili e semplificati le stazioni appaltanti sono tenute a svolgere concretamente l’analisi dei bisogni onde procedere all’affidamento di appalti volti al soddisfacimento quali-quantitativo degli stessi.
In assenza di programmazione e di una procedura comparativa:
   - non è possibile remunerare gli incentivi,
   - è compromessa la stessa possibilità di determinare il valore del relativo fondo,
   - diviene di fatto impraticabile la funzione di controllo e verifica intestata al direttore dell’esecuzione (alla cui nomina è subordinata, ex art. 113 comma II, la possibilità di remunerare le funzioni tecniche ivi tassativamente previste),
   - sono impedite le “verifiche di conformità” che rappresentano le modalità attraverso cui il personale interno procede al controllo sull’avanzamento delle fasi contrattuali nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati.
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In considerazione della natura sinallagmatica dell’incentivo assume autonomo rilievo, rispetto alla stipula del contratto, il momento di effettivo svolgimento dell’attività ed è necessario che sia avvenuto l’accantonamento delle risorse anche solo sulla scorta del dato normativo di cui al II comma dell’art. 113 del D.lgs. 50 del 2016 ss.mm.ii.
In assenza di un accantonamento, relativo almeno all’esercizio in cui si è svolta l’attività “incentivabile”, infatti, non è possibile impegnare ex post, ossia in un successivo esercizio, risorse riferibili ad obbligazioni già scadute in quanto di competenza dell’esercizio precedente. Tale operazione si configurerebbe elusiva del principio della competenza finanziaria potenziata, che impone di imputare gli impegni e gli accertamenti all’esercizio in cui viene a scadere l’obbligazione giuridicamente perfezionata, e che si configura come regola a garanzia dell’effettività del principio dell’equilibrio dinamico di bilancio elevato dall’art. 81 Cost. a principio di sana amministrazione.
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Con nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Verbania (VCO), dopo aver richiamato il primo ed il secondo comma dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 2016 relativi alla disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti ha chiesto alla Sezione di pronunciarsi in ordine ai due quesiti di seguito riportati:
   1. “in merito ai servizi ed alle forniture per i quali non è stato approvato il progetto ed il quadro economico è possibile post-aggiudicazione finanziare gli incentivi delle funzioni tecniche se nel capitolo di spesa dell’appalto sono disponibili risorse";
   2. "se gli incentivi per le funzioni tecniche relativi a forniture e servizi possono essere erogati per contratti stipulati prima del 01.01.2018 per le funzioni svolte dopo l’01.01.2018 e dopo l’approvazione del Regolamento e se in caso di mancato accantonamento delle risorse è possibile prevederle.”
...
La richiesta in esame attiene sostanzialmente all’interpretazione delle previsioni normative che regolamentano la possibilità, di remunerare lo svolgimento delle funzioni tecniche, tassativamente previste dall’art. 113 del D.Lgs. 50 del 2016 e ss.mm.ii., effettivamente svolte dai dipendenti pubblici in relazione ad appalti di servizi e forniture.
In particolare con il primo dei due quesiti formulati, il Sindaco del Comune di Verbania chiede di sapere se “in merito ai servizi ed alle forniture per i quali non è stato approvato il progetto ed il quadro economico è possibile post-aggiudicazione finanziare gli incentivi delle funzioni tecniche se nel capitolo di spesa dell’appalto sono disponibili risorse".
Giova premettere che la programmazione degli interventi è un’attività indispensabile per un’amministrazione orientata al risultato ed ispirata al principio costituzionale del buon andamento di cui all’art. 97 della Cost. La rilevanza e la centralità dell’attività programmatica la si rinviene anche nell’Allegato 4/1 al D.lgs. 118 del 2011 definisce la programmazione come “il processo di analisi e valutazione che, comparando e ordinando coerentemente tra loro le politiche e i piani per il governo del territorio, consente di organizzare, in una dimensione temporale predefinita, le attività e le risorse necessarie per la realizzazione di fini sociali e la promozione dello sviluppo economico e civile delle comunità di riferimento”.
Più nello specifico in relazione all’oggetto del quesito richiesto, l’art. 21 del Codice dei contratti pubblici declina l’obbligo di programmazione stabilendo la necessità per le amministrazioni aggiudicatrici di adottare il programma biennale degli acquisti di beni e servizi ed il programma triennale dei lavori pubblici (nonché i relativi aggiornamenti annuali) da includere nel Documento unico di programmazione (D.U.P.).
Il successivo articolo 23, al comma 14 prevede che “la progettazione di servizi e forniture è articolata, di regola, in un unico livello ed è predisposta dalle stazioni appaltanti, di regola, mediante propri dipendenti in servizio”. Ed al successivo comma 15 precisa che “per quanto attiene agli appalti di servizi, il progetto deve contenere: la relazione tecnico-illustrativa del contesto in cui è inserito il servizio; le indicazioni e disposizioni per la stesura dei documenti inerenti alla sicurezza di cui all'articolo 26, comma 3, del decreto legislativo n. 81 del 2008; il calcolo degli importi per l'acquisizione dei servizi, con indicazione degli oneri della sicurezza non soggetti a ribasso; il prospetto economico degli oneri complessivi necessari per l'acquisizione dei servizi; il capitolato speciale descrittivo e prestazionale, comprendente le specifiche tecniche, l'indicazione dei requisiti minimi che le offerte devono comunque garantire e degli aspetti che possono essere oggetto di variante migliorativa e conseguentemente, i criteri premiali da applicare alla valutazione delle offerte in sede di gara, l'indicazione di altre circostanze che potrebbero determinare la modifica delle condizioni negoziali durante il periodo di validità, fermo restando il divieto di modifica sostanziale. Per i servizi di gestione dei patrimoni immobiliari, ivi inclusi quelli di gestione della manutenzione e della sostenibilità energetica, i progetti devono riferirsi anche a quanto previsto dalle pertinenti norme tecniche”.
La necessità che l’affidamento di un appalto di servizi o di forniture sia preceduta da un’attività di programmazione e di progettazione, volte a definire i bisogni della collettività, ad approntare le necessarie misure per soddisfarli ed a consentire la verifica della congruità, proporzionalità, dell’efficienza dei risultati raggiunti, rappresenta un’esigenza immanente nell’Ordinamento a prescindere dal valore del contratto.
Il principio del buon andamento dell’azione amministrativa, seppur necessariamente bilanciato con il criterio della proporzionalità, dell’adeguatezza e dell’efficacia delle scelte amministrative, non può essere derogato in relazione al valore dell’appalto. Sicché, seppur con strumenti più duttili e semplificati le stazioni appaltanti, a prescindere dal valore del contratto, sono tenute a svolgere concretamente l’analisi dei bisogni onde procedere all’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture effettivamente tesi al soddisfacimento quali-quantitativo degli stessi.
Orbene, venendo al quesito in esame, in assenza della descritta e necessaria fase della programmazione e di una procedura comparativa, ritiene questa Sezione regionale che non sia possibile procedere alla remunerazione degli incentivi per le funzioni tecniche. Lo stesso articolo 113, più volte richiamato, al II comma espressamente prevede “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Dall’esame di tale disposizione è di palmare evidenza come in assenza di un quadro economico, che definisca nel dettaglio ogni singola voce del corrispettivo relativo al servizio o alla fornitura, sia addirittura compromessa la stessa possibilità di determinare il valore del fondo volto a remunerare gli incentivi de quibus (che ai sensi del II comma dell’art. 113 deve essere “in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture posti a base di gara”). Analogamente l’assenza di un progetto, come pure di una relazione tecnico-illustrativa, o di ogni altro strumento ad esso assimilabile, rende di fatto impraticabile la funzione di controllo e verifica intestata al direttore dell’esecuzione, alla cui nomina è subordinata, dalla Legge (art. 113, comma II, ultimo periodo), la possibilità di remunerare le funzioni tecniche tassativamente previste dal medesimo comma (cfr. in termini le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2).
D’altronde l’impossibilità di determinare l’importo da mettere a base di gara si configura come un concreto ostacolo alla remunerabilità delle funzioni tecniche anche in considerazione della necessità di circoscrivere l’incentivo de quoesclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa” (in termini Sezione Autonomie deliberazione 09.01.2019 n. 2 e Sezione regionale di controllo per Piemonte parere 09.10.2017 n. 177).
Un’ulteriore conferma della voluntas legis di circoscrivere la remunerazione degli incentivi a funzioni tecniche “complesse” riconducibili ad una più attenta gestione delle fasi della programmazione e dell’esecuzione, in relazione agli appalti di servizi e forniture, si invera anche nel richiamo alle “verifiche di conformità” che rappresentano le modalità attraverso cui il personale interno procede al controllo sull’avanzamento delle fasi contrattuali nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l’efficienza e l’efficacia della spesa (cfr. art. 113, II comma, ed art. 102, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016). Attività di controllo e verifica anch’essa preclusa nel caso in cui manchino documenti di natura programmatica e progettuale.
Quanto al secondo quesito, il Sindaco del Comune di Verbania chiede di conoscere “Se gli incentivi per le funzioni tecniche relativi a forniture e servizi possono essere erogati per contratti stipulati prima del 01.01.2018 per le funzioni svolte dopo l’01.01.2018 e dopo l’approvazione del Regolamento e se in caso di mancato accantonamento delle risorse è possibile prevederle.”
In ordine al primo interrogativo questa Sezione, richiamando propri precedenti (cfr. Corte Conti parere 09.10.2017 n. 177) oltre che pronunce consolidate sul punto della Sezione delle Autonomie (Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie deliberazione 24.03.2015 n. 11 e
deliberazione 08.05.2009 n. 7) ed in considerazione della natura sinallagmatica dell’emolumento de quo, ritiene di riconoscere autonomo rilievo, rispetto alla stipula del contratto, al momento di effettivo svolgimento dell’attività prevista dalla Legge dal quale sorge il conseguente incentivo del dipendente, purché però sia stato previsto l’accantonamento delle risorse anche solo sulla scorta del dato normativo di cui al II comma dell’art. 113 del D.lgs. 50 del 2016 ss.mm.ii.
In assenza di un accantonamento relativo almeno all’esercizio in cui si è svolta l’attività “incentivabile”, infatti, non è possibile impegnare ex post, ossia in un successivo esercizio, risorse riferibili ad obbligazioni già scadute in quanto di competenza dell’esercizio precedente. Tale operazione si configurerebbe quantomeno elusiva del principio della competenza finanziaria potenziata, che impone di imputare gli impegni e gli accertamenti all’esercizio in cui viene a scadere l’obbligazione giuridicamente perfezionata, e che si configura come regola gestionale fondamentale per la realizzazione per l’effettività del principio dell’equilibrio dinamico di bilancio elevato dall’art. 81 Cost. a principio di sana amministrazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 19.03.2019 n. 25).

ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHESpesa di personale, revisori obbligati ai controlli anche sugli incentivi per funzioni tecniche.
La verifica del rispetto delle disposizioni in materia di personale è sempre stato un tema molto sentito dagli organi di revisione economico finanziaria, anche per la complessità della normativa.
Il documento n. 6 (Controlli sui vincoli di assunzione e sulle spese di personale) dei principi di revisione approvati dal Cndcec (e si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 28 febbraio, del 1° marzo e del 4 marzo) ricorda in proposito che «L'obiettivo di contenimento delle spese di personale è un punto fermo della disciplina vincolistica ispirata al riequilibrio della finanza pubblica ed è annoverato tra gli obiettivi prioritari di intervento anche per il quadro sanzionatorio da cui è assistito».
Per questo motivo gli organi di revisione sono tenuti a verificare:
   • il rispetto del limite di spesa di personale in base ai commi 557 e 562 della legge 296/2006, mediante confronto di serie storiche omogenee. In particolare, la verifica dovrà riguardare:
      1. in sede di bilancio di previsione, il rispetto programmatico del vincolo di contenimento delle spese di personale oltre che il rispetto tendenziale del limite nell'esercizio precedente, dandone atto nell'ambito del parere richiesto dall'articolo 239 del Tuel;
      2. durante la gestione, il permanere del rispetto programmatico del vincolo di contenimento delle spese di personale, soprattutto in relazione ai provvedimenti (come le variazioni di bilancio) che sono destinati a produrre un impatto su queste ultime anche in modo prospettico;
      3. in sede di rendiconto, l'effettivo rispetto del vincolo di contenimento delle spese di personale, dandone atto nell'ambito della relazione al rendiconto prevista dall'articolo 239 del Tuel;
      4. nell'esercizio successivo a quello di mancato rispetto del vincolo di contenimento delle spese di personale, l'effettiva applicazione dei meccanismi sanzionatori previsti.
   • il rispetto del limite di spesa per lavoro flessibile, secondo la disciplina contenuta nell'articolo 9, comma 28, del decreto legge 78/2010, che abbraccia tutte le forme contrattuali (tempi determinati, Co.co.co., somministrazione, convenzioni o comandi, contratti di formazione e lavoro o tirocini formativi);
   • il rispetto del limite di spesa delle risorse destinate al salario accessorio del personale fissato dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 nell'ammontare corrisposto per l'anno 2016 e la conformità delle clausole dei contratti decentrati integrativi (normativi ed economici) alla disciplina sovraordinata. L'organo di revisione dovrà in particolare verificare la corretta applicazione degli istituti previsti dalla contrattazione nazionale, la compatibilità dei costi della contrattazione decentrata con gli stanziamenti del bilancio di previsione, la conformità delle risorse riportate nel fondo per il trattamento accessorio (distintamente per la dirigenza e per il comparto) con le disposizioni che ne disciplinano la costituzione, la sussistenza delle condizioni che legittimano l'inserimento di risorse aggiuntive. Il parere dovrà essere reso sulla base della relazione illustrativa e tecnico finanziaria, presupposti imprescindibili per l'attività di controllo;
   • il rispetto dei vincoli in materia di turn-over, determinati in funzione delle caratteristiche dell'ente locale, dell'evoluzione normativa e di alcuni elementi di premialità.
Gli incentivi per funzioni tecniche
Sebbene rubricati in documento diverso da quello dedicato alle spese di personale [documento n. 2 (pag. 84) - Funzioni dell’Organo di revisione: attività di collaborazione, pareri obbligatori e vigilanza], i principi demandano all'organo di revisione anche il controllo e la vigilanza in materia di incentivi per funzioni tecniche. Il fatto che questi incentivi non siano più considerati spesa di personale e assoggettati ai limiti delle risorse destinate al salario accessorio non fa spegnere i riflettori su questa delicata materia.
Più che al rilascio del parere sul regolamento di disciplina degli incentivi, da approvare previa stipula di un accordo di contrattazione decentrata (parere non esplicitamente previsto né dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 né tanto meno dai principi di revisione), il controllo verte piuttosto –secondo un approccio sostanzialistico- sulla verifica della corretta gestione del ciclo degli incentivi.
L'organo di revisione deve infatti accertare:
   • in sede di quantificazione:
      1. che sia stata calcolata e finanziata la percentuale degli incentivi da accantonare nel fondo in coerenza con i tempi di esecuzione del contratto, riportati nel cronoprogramma di attività e di spesa;
      2. che l'accantonamento venga riportato nello stesso capitolo di spesa delle altre voci del quadro economico previsto;
      3. che sia stato costituito il gruppo di lavoro.
   • in fase di liquidazione, se:
      1. è stato adempiuto l'onere della preventiva fissazione dei criteri e della modalità di distribuzione delle risorse ad esso specificamente "destinate" in sede di contrattazione collettiva decentrata;
      2. l'ente abbia disciplinato e modulato (comma 2 dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016) con apposito regolamento la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche con l'obiettivo di premiare i dipendenti che concretizzano l'esecuzione dell'opera, del servizio o della fornitura nel rispetto di importi e tempi programmati;
      3. la determina di approvazione del dirigente/responsabile del servizio documenti il completamento delle attività e le persone impegnate nello svolgimento dell'attività;
      4. i singoli importi per gli incentivi rispettino i limiti fissati nel regolamento approvato dalla giunta;
      5. le somme complessivamente erogate al personale rispettino i due limiti finanziari di contenimento: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell'importo posto a base di gara, senza considerare eventuali ribassi) e l'altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente);
      6. gli incentivi sono destinati solo ai componenti del gruppo di lavoro, gia formalmente individuato a monte dal dirigente o dal responsabile del servizio su proposta del responsabile unico del procedimento, tenendo presente le attività realmente svolte, la spesa sostenuta rispetto a quella prevista, nonché i tempi di realizzazione rispetto a quelli previsti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.03.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Fuori dagli incentivi tecnici il responsabile del piano della sicurezza poiché figura non contemplata dalla legge. Invero, nel procedere all’interpretazione del dettato normativo non si può non rilevare il carattere tassativo dell’elencazione fatta dal legislatore, elencazione preceduta, infatti, dall’avverbio esclusivamente che, inevitabilmente, porta ad una lettura testuale della disposizione non suscettibile di interpretazioni estensive.
Appare, pertanto, di chiara evidenza la volontà del legislatore di attribuire gli incentivi di che trattasi esclusivamente per le funzioni espressamente indicate e qualsiasi diversa soluzione interpretativa verrebbe a violare i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato in tema di interpretazione della legge: l’art. 12 disp. att. recita, infatti, che nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dell’intenzione del legislatore.

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Con nota prot. n. 98591 del 21/12/2018 il sindaco del Comune di Agrigento inoltrava richiesta di parere ex art. 7, VIII c., l. 131 del 2003, formulando due specifici quesiti in tema di individuazione dei soggetti beneficiari degli incentivi per funzioni tecniche ex art. 113 d.lvo 50 del 2016; ulteriore quesito veniva formulato in tema di possibilità di riconoscere compensi ai responsabili di programmi integrati e/o complessi, nell’ambito del quadro economico dell’iniziativa.
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Orbene, l’art. 113 del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con d.l.vo 50 del 2016, al II c., dispone che “A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Rispetto al dettato normativo previgente, di cui all’art. 93, c. 7-ter, d.lgs. 163 del 2006, il quale indicava quali figure professionali cui ripartire le risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l’innovazione “il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e i loro collaboratori”,
il nuovo testo normativo non contempla la figura del responsabile del piano della sicurezza: orbene, nel procedere all’interpretazione del dettato normativo, questa Sezione non può non rilevare il carattere tassativo dell’elencazione fatta dal legislatore, elencazione preceduta, infatti, dall’avverbio esclusivamente che, inevitabilmente, porta ad una lettura testuale della disposizione non suscettibile di interpretazioni estensive.
Sul punto già diverse deliberazioni emesse da Sezioni regionali di controllo e dalla Sezione Autonomie, hanno affermato e ribadito come il legislatore del 2016 abbia individuato le varie fasi procedimentali che portano all’affidamento di un contratto pubblico, valorizzando le figure espressamente indicate al II comma dell’art. 113.

Detta scelta è, peraltro, in linea con i criteri dettati in sede di legge di delega –n. 11 del 2016- laddove si disponeva che “al fine di incentivare l’efficienza e l’efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell’esecuzione a regola d’arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d’opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell’importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
Appare, pertanto, di chiara evidenza la volontà del legislatore di attribuire gli incentivi di che trattasi esclusivamente per le funzioni espressamente indicate e qualsiasi diversa soluzione interpretativa verrebbe a violare i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato in tema di interpretazione della legge: l’art. 12 disp. att. recita, infatti, che nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dell’intenzione del legislatore.
In tal senso si sono espresse recenti deliberazioni delle Sezioni regionali della Corte dei conti le quali, in tema di tassatività della previsione normativa, ribadiscono il principio che la suddetta tassatività che connota la dimensione oggettiva della fattispecie non può che riverberarsi sul piano soggettivo, in quanto i destinatari degli incentivi sono individuati o individuabili con riferimento alle attività incentivate; l’ambito soggettivo dei destinatari viene, pertanto, delimitato per relationem con riferimento ai soggetti che svolgono le attività tecniche indicate nel citato art. 113 (Sez. Aut., deliberazione 26.04.2018 n. 6; Sez. controllo Liguria, parere 06.12.2018 n. 131).
Il Collegio, pertanto, rilascia in base alle considerazioni sopra esposte il parere richiesto dal Comune di Agrigento.
Il terzo quesito riguarda la possibilità riconoscere compensi ai responsabili di programmi integrati e/o complessi, nell’ambito del quadro economico dell’iniziativa. Ritiene il Collegio che, detto quesito sia inammissibile sotto il profilo oggettivo, trattandosi di fattispecie inerente assetti di tipo normativo-regolamentare, con refluenze sul piano contabile solo eventuali e, comunque, successive alla disciplina di carattere sostanziale.
Si richiamano, al riguardo, le già citate deliberazioni delle SS.RR. n. 54 del 17/11/2010 ove si precisa che non sono condivisibili linee interpretative che ricomprendano nel concetto di contabilità pubblica qualsivoglia attività degli Enti che abbia, comunque, riflessi di natura finanziaria, comportando, direttamente o indirettamente, una spesa, con susseguente fase contabile attinente all’amministrazione ed alle connesse scritture di bilancio e della Sezione Autonomie 5/2006 laddove precisa che la disciplina contabile si riferisce solo alla fase discendente, distinta da quella sostanziale, antecedente non disciplinata da normativa di carattere contabilistico (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 04.03.2019 n. 54).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Sussiste la possibilità di incentivare gli appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria, ai sensi dell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, a condizione che siano caratterizzati da particolare complessità.
La Corte dei conti dell'Umbria, con la parere 01.02.2019 n. 7 ha esaminato il quesito posto dalla Provincia di Perugia circa la possibilità di erogare gli incentivi di cui all'articolo 113 del Dlgs 50/2016 per appalti per attività manutentiva.
Secondo i magistrati contabili, gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti anche per appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all'amministrazione affinché il procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l'efficienza e l'efficacia della spesa.
In particolare, uniformandosi al principio espresso dalla Sezione per le Autonomie con deliberazione 09.01.2019 n. 2Gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall'art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) possono essere riconosciuti, nei limiti previsti dalla norma, anche in relazione agli appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria di particolare complessità»), il Collegio umbro ha sottolineato che gli incentivi in questione, fermi restando i limiti posti dalla normativa, debbono essere destinati ai soli interventi manutentivi che presentino le caratteristiche evidenziate (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.03.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEAppare compatibile l’attuale corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche riferiti a procedimenti di gara avviati prima del 2018 purché erogati nel rispetto dei criteri e con i presupposti di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2017.
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Il Comune di Rovigo, con nota prot. n. 74513 del 23.11.2018, a firma del Sindaco, formula a questa Corte una richiesta di parere, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131 volto a chiarire l’attuale assoggettabilità o meno degli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 ai limiti del salario accessorio di cui all’art. 23, c. 2, del d.lgs. 75/2017 a seguito dell’intervenuto art. 1, c. 526, della legge n. 205 del 2017 e della deliberazione 26.04.2018 n. 6
della Sezione Autonomie.
In particolare il Comune chiede se la suddetta deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle Autonomie, volta ad interpretare in modalità univoca la portata del dettato normativo che ha introdotto all’art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016 il comma 5-bis (“Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”) apra “una nuova questione di diritto intertemporale tra i contratti pubblici approvati od affidati prima o dopo il primo gennaio 2018, ai fini della sottoposizione ai limiti” e se veramente gli incentivi per funzioni tecniche sin dalla loro nascita non sono assoggettati ai limiti di spesa in concorso con il restante trattamento accessorio.
...
Venendo al merito, la citata deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione Autonomie è completamente esaustiva nel dichiarare gli incentivi per funzioni tecniche non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, c. 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, avendo il legislatore, con l’introduzione all’art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016 dell’art. 5-bis, voluto considerare la spesa per lavori, servizi e forniture in modo globale, ovvero comprensiva anche delle risorse finanziarie destinate agli incentivi tecnici i quali, previsti da una legge speciale, esulano così dalle regole degli emolumenti accessori aventi fonte nei contratti collettivi.
La Sezione Autonomie ha conseguentemente enunciato in modo chiaro il seguente principio di diritto: ”
Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Ovviamente l’erogazione degli incentivi di che trattasi resta subordinata ai vincoli di contenimento espressamente previsti dall’art. 113, con particolare riferimento al rispetto dei tetti (2% dell’importo posto a base di gara e 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettanti al singolo dipendente) ed alla previa emanazione del Regolamento di cui al comma 3 del citato art. 113, che definisce criteri e modalità per la corresponsione delle somme di che trattasi, e che quindi costituisce indispensabile presupposto della liquidazione.
Per quanto riguarda le norme ratione temporis applicabili con riferimento alla nuova interpretazione emersa in materia di corresponsione di incentivi tecnici dal 2018, questa Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi col parere 25.07.2018 n. 264, intervenendo su di un quesito interpretativo volto a conoscere la legittimità della liquidazione di somme accantonate prima della adozione del Regolamento. In quel contesto la Sezione ha concluso come
l’irretroattività del Regolamento “…non preclude …. la ripartizione delle risorse in precedenza accantonate e ciò rende legittimo l’accantonamento, in misura ovviamente conforme al limite normativo, nelle more dell’adozione di tale atto”.
Con riferimento a quanto prospettato dal Comune di Rovigo,
appare quindi compatibile l’attuale corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche riferiti a procedimenti di gara avviati prima del 2018 purché erogati nel rispetto dei criteri e con i presupposti di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2017 precedentemente richiamati (Corte dei Conti, Sez. controllo veneto, parere 24.01.2019 n. 17).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi per funzioni tecniche, sull'IRAP decide l'Ente.
Con il parere 15.01.2019 n. 2 la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Sardegna, pur avendo deciso per l’inammissibilità della richiesta di parere non vertendosi su questioni generali attinenti alla finanza pubblica, rassegna una serie di conclusioni esegetiche che vale la pena esporre e considerare, vista la notevole importanza che rivestono per la gestione degli Enti locali.
In particolare, l’Ente richiedente faceva istanza per conoscere quale indirizzo giurisprudenziale valga per i crediti derivanti dagli incentivi decurtati dall’Irap, prima del
parere 29.03.2012 n. 27 della Corte dei Conti.
La questione afferisce all’applicazione dell’articolo 113 del Codice dei contratti pubblici, di cui al Dlgs 50/2016, che prevede, come il codice previgente, il pagamento delle cd incentivazioni per funzioni tecniche. La tematica attiene, quindi, all’inclusione, o meno, dell’Irap ai fini della determinazione dei compensi dovuti ai dipendenti di profilo tecnico per l’attività di progettazione e direzione lavori, ai sensi dell’art. 92, comma 5, del Dlgs 163/2006, (Codice dei contratti pubblici per lavori, servizi e forniture) e, in ultima analisi, sul quesito se detta imposta debba rimanere, per tali incentivi, a carico del lavoratore ovvero dell’Amministrazione.
Infatti, mentre la previgente normativa codicistica meglio e più ampiamente disciplinava la questione, quella attualmente in vigore lascia aperte varie soluzioni, riaccendendo il dibattito interpretativo in passato sopito.
Sia per un argomento letterale (non essendo l’Irap ricomprensibile tra gli oneri cd riflessi) che per un approccio sistematico (realizzandosi il presupposto impositivo di tale onere fiscale non sul lavoratore bensì sull’Ente), si deve giungere alla conclusione per la quale mentre sul piano dell’obbligazione giuridica rimane chiarito che l’Irap grava sull’Amministrazione, su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’Amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico.
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’Amministrazione.
La Corte conclude osservando che le disponibilità di bilancio da destinare ai “fondi” da ripartire non possono che essere quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che gravano sull’Amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto comma, Cost.).
Infatti, se si considera che l’Irap viene commisurata per le Amministrazioni pubbliche alla spesa per il personale, l’incremento della retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche l’espansione dell’imposta che deve, comunque, trovare copertura nell’ambito delle risorse quantificate e disponibili, in linea con l’obiettivo del contenimento di ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti sui bilanci degli Enti pubblici.
Pertanto, ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull’Ente per oneri fiscali, nella specie, a titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli “oneri assicurativi e previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non includono, per le ragioni sopra indicate, l’Irap.
In conclusione, pertanto, la Corte, ribadita la inammissibilità oggettiva della richiesta che potrebbe investire l’aspetto relativo alle concrete modalità di difesa dell’Ente avverso una pretesa afferente a un credito di lavoro vantato dal dipendente, anche in sede giudiziaria, e tanto sia per la concretezza dell’eventuale siffatto quesito che per la possibile commistione della soluzione offerta con le competenze di altri plessi giurisdizionali ivi compresi quelli della Corte dei conti non in sede di controllo, richiama il contenuto della
deliberazione 30.06.2010 n. 33 della Sezione delle Autonomie, rimanendo in capo al Comune richiedente, nell’ambito della propria discrezionalità amministrativa, le scelte da adottare in ordine all’eventuale maturare del termine prescrizionale per la quota di crediti afferente all’IRAP non corrisposta ai beneficiari degli incentivi alla progettazione che attivino una pretesa di corresponsione di tali importi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.02.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHESia per un argomento letterale (non essendo l’IRAP ricomprensibile tra gli oneri c.d. riflessi) che per un approccio sistematico (realizzandosi il presupposto impositivo di tale onere fiscale non sul lavoratore bensì sull’ente), si deve giungere alla conclusione per la quale “mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (…), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico (…). Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione”.
Si conclude osservando “
che le disponibilità di bilancio da destinare ai “fondi” da ripartire non possono che essere quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che gravano sull’amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto comma, Cost.). Infatti, se si considera che l’Irap viene commisurata per le amministrazioni pubbliche alla spesa per il personale, l’incremento della retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche l’espansione dell’imposta che deve, comunque, trovare copertura nell’ambito delle risorse quantificate e disponibili, in linea con l’obiettivo del contenimento di ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti sui bilanci degli enti pubblici. Pertanto, ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali, nella specie, a titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli “oneri assicurativi e previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non includono, per le ragioni sopra indicate, l’Irap.”.
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Il Consiglio delle Autonomie Locali della Regione Autonoma della Sardegna ha trasmesso a questa Sezione una richiesta di parere del 21.05.2018, n. 271, formulata dal Sindaco del Comune di Uras (OR) ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, ritenendola ammissibile.
L’Ente domanda alla Sezione di esprimersi “sulla liquidazione dei crediti da lavoro inerenti all’IRAP trattenuta nell’ambito degli incentivi per la progettazione in riferimento agli anni 2008-2012 ovvero prima del
parere 29.03.2012 n. 27 della Corte dei Conti Sardegna. La disposizione di legge di cui si chiede l’interpretazione è l’art. 92, c. 5, del Dlgs 163/2006 in combinato disposto con l’art. 2946 c.c..
A tale proposito, il Comune propone una ricostruzione delle disposizioni normative che si sono susseguite in materia e delle interpretazioni in argomento rese dalla giurisprudenza contabile, anche in sede nomofilattica, e precisa che “solo a seguito del
parere 29.03.2012 n. 27 della Corte dei Conti Sardegna gli Enti locali che non avevano adottato un regolamento di liquidazione dell’incentivo tecnico prevedendo lo scorporo dell’IRAP, hanno provveduto alla liquidazione dell’incentivo medesimo al netto dell’IRAP ponendola a carico dell’Ente”.
L’istante conclude richiedendo, in tema di prescrizione dei “crediti da lavoro ivi compresi gli incentivi decurtati dall’IRAP”, una pronuncia avente a oggetto l’individuazione di “quale indirizzo giurisprudenziale vale per i crediti derivanti dagli incentivi decurtati dall’IRAP, prima del
parere 29.03.2012 n. 27 della Corte dei Conti .
...
La questione prospettata è relativa alla corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche attualmente regolati dall’art. 113, D.lgs. 50/2016, recante la “Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”.
Trattasi di materia attinente alla gestione della spesa di personale del Comune, che può essere fatta rientrare nella nozione di contabilità pubblica che qui rileva, allorché venga interessata dall’applicazione di norme vincolistiche finalizzate al coordinamento della finanza pubblica, quali i limiti alla determinazione dei fondi per il trattamento accessorio.
Si ricorda, d’altra parte, che la funzione consultiva attribuita alle Sezioni regionali di controllo non può concernere fatti gestionali specifici del soggetto istante, ma ambiti e oggetti di portata generale, rimanendo nella piena discrezionalità e responsabilità dell’ente la scelta amministrativa e gestionale da adottare nella fattispecie concreta.
Nel caso in esame l’oggetto della sollecitata funzione consultiva della Sezione sembra essere la sorte dei crediti dei lavoratori che hanno subìto la decurtazione dell’IRAP nella corresponsione degli emolumenti in parola, per tale parte di incentivo trattenuta dall’amministrazione, con particolare riferimento al maturare del termine prescrizionale.
Si tratta di questione, quindi, da risolvere secondo canoni dell’ordinamento civile, che prescinde dall’applicazione di limiti imposti per esigenze di coordinamento della finanza pubblica e dalla quale possono derivare contenziosi rimessi alla competenza di giudice diverso dalla Corte dei conti.
La Sezione, pertanto, rileva che
il parere richiesto è inammissibile dal punto di vista oggettivo, e, pertanto, di seguito ci si limiterà a un breve richiamo degli aspetti salienti della disciplina considerata, tra l’altro richiamati dal Comune medesimo.
Come è noto, l’istituto degli incentivi alle funzioni tecniche ha conosciuto molteplici e complessi interventi normativi spesso forieri di dubbi interpretativi.
Tralasciando i profili di non immediato interesse per la risoluzione del quesito posto dal Comune, si ricorda che la norma attualmente vigente, contenuta nell’art. 113 del “Codice dei contratti pubblici” di cui al D.lgs. 50/2016, prevede che, a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture, negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie, in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara, per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Il successivo comma 3 dell’articolo in commento stabilisce che l’ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche nonché tra i loro collaboratori e che “Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione”.
La disciplina di cui all’art. 92, comma 5, del D.lgs. 163/2006, contenente il previgente Codice dei contratti, sulla quale si appunta espressamente il quesito interpretativo mosso dal Comune, prevedeva, analogamente, che il fondo degli incentivi alla progettazione fosse alimentato con una somma non superiore al due per cento dell'’importo posto a base di gara di un’opera o di un lavoro, somma “comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione”; ai fini della ripartizione del fondo, si disponeva che l’80 per cento delle risorse finanziarie d fosse ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati con apposito regolamento, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori e, anche in tal caso, che gli importi fossero “comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione” (art. 93, comma 7-bis, del vecchio Codice).
Occorre ricordare che il D.lgs. 163/2006 è stato abrogato dall’art. 217, comma 1, lett. e), D.Lgs. 50/2016, recante il nuovo Codice dei contratti, a decorrere dal 19.04.2016, ai sensi di quanto disposto dal successivo art. 220 del medesimo decreto.
Ripercorrendo a ritroso la normativa in argomento, si rammenta, altresì, che il menzionato art. 92, comma 5, riprendeva il dettato dell’art. 18 della L. 109/1994, come interpretato, a sua volta, dall’art. 3, comma 29, della L. 350/2003, secondo il quale detti compensi “si intendono al lordo di tutti gli oneri accessori connessi alle erogazioni, ivi compresa la quota di oneri accessori a carico degli enti stessi” e dall’art. 1, comma 207, della L. 266/2005, per il quale detti emolumenti sono comprensivi “degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione”.
Come peritamente evidenziato dal Comune di Uras, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, con
deliberazione 30.06.2010 n. 33, si è espressa sulla “inclusione, o meno, dell’Irap ai fini della determinazione dei compensi dovuti ai dipendenti di profilo tecnico per l’attività di progettazione e direzione lavori, ai sensi dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici per lavori, servizi e forniture)” e, in ultima analisi, sul quesito se detta imposta dovesse rimanere, per tali incentivi, a carico del lavoratore ovvero dell’amministrazione.
Sinteticamente ripercorrendo l’iter motivazionale della pronuncia testé citata, alla quale si rimanda per l’ampia ricostruzione del contrasto interpretativo risolto, si evidenzia che
sia per un argomento letterale (non essendo l’IRAP ricomprensibile tra gli oneri c.d. riflessi) che per un approccio sistematico (realizzandosi il presupposto impositivo di tale onere fiscale non sul lavoratore bensì sull’ente), si deve giungere alla conclusione per la quale “mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (…), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico (…). Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione”.
Snodo essenziale della descritta soluzione interpretativa è rappresentato dall’individuazione, nell’ambito dell’art. 1 della L. 266/2005, di due “blocchi di norme”, tra loro ritenute “coerenti”.
Il primo, che comprende i commi dal 176 al 206, regolamenta i fondi per il finanziamento dei contratti collettivi integrativi e le connesse modalità di copertura degli oneri ovvero la provvista delle risorse finanziarie “per far fronte a “tutti gli oneri” derivanti dalle spese di personale, ivi inclusi i fondi “per l’incentivazione alla progettazione” ivi compresa “la quota parte occorrente all’amministrazione per fronteggiare gli oneri che sulla stessa gravano a titolo di Irap”, costituendo, pertanto, “le disponibilità complessive massime e, pertanto, non superabili”.
Il secondoblocco” di norme, composto dai commi 207 e 208, disciplina i compensi professionali ovvero il trattamento economico dei lavoratori, senza che si faccia riferimento all’IRAP “costituendo un onere fiscale che grava sull’ente datore di lavoro”; detti compensi, difatti, “concorrono alla determinazione della base imponibile dell’ente, ai sensi dell’art. 10-bis del d.lgs. 15.12.1997, n. 446, secondo cui le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30.05.2001, n. 165, ai fini della determinazione della base imponibile Irap, devono tenere conto anche delle retribuzioni da erogare al personale dipendente (Agenzia delle entrate, Risoluzione n. 327/E del 14.11.2007)”.
Si conclude osservando “
che le disponibilità di bilancio da destinare ai “fondi” da ripartire non possono che essere quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che gravano sull’amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto comma, Cost.). Infatti, se si considera che l’Irap viene commisurata per le amministrazioni pubbliche alla spesa per il personale, l’incremento della retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche l’espansione dell’imposta che deve, comunque, trovare copertura nell’ambito delle risorse quantificate e disponibili, in linea con l’obiettivo del contenimento di ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti sui bilanci degli enti pubblici. Pertanto, ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali, nella specie, a titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli “oneri assicurativi e previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non includono, per le ragioni sopra indicate, l’Irap.”.
Tale impostazione è stata assunta dalla scrivente Sezione quale supporto argomentativo delle valutazioni espresse con il
parere 29.03.2012 n. 27, in riscontro al contenuto del parere richiesto in detta sede, pur reso in materia distinta (diritti di rogito dei segretari comunali).
A tale proposito, in ossequio alla finalità della funzione attivata in tal sede, occorre ricordare che i pareri offerti dalle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti ai sensi dell’art. 7, comma 8, L. 131/2003, rappresentano l’esito di una funzione tipicamente di ausilio all’ente locale in chiave collaborativa intestata alla Corte dei conti quale organo neutrale in materia di finanza pubblica e non possono essere considerati altro che apporti interpretativi, ma non come uno “spartiacque” temporale ai fini della determinazione di diritti derivanti dal rapporto di servizio.
In disparte il valore attribuito dagli artt. 95, comma 4, e 69, comma 2, del Codice di giustizia contabile di cui al D.lgs. 174/2016, altri effetti non sono evidentemente ascrivibili alle pronunce rese in tal sede che solo si propongono di fornire elementi chiarificatori dei precetti dettati dal legislatore di talché la menzionata deliberazione della Sezione che, tra l’altro incidentalmente in via analogica e in punto di motivazione, tratta della problematica dell’IRAP nei termini descritti, non può essere considerata che foriera di indicazioni di orientamento nei confronti degli enti che versavano, prima di essa, secondo asserito dall’istante, in una situazione di incertezza.
Del resto, detto parere riprende, come detto, la deliberazione resa in sede nomofilattica dalla Sezione delle Autonomie nel 2010, decisione, anch’essa, giova ribadirlo, che si innesta, a garanzia dell’unità e coerenza interpretativa della Corte dei conti, e con effetto conformativo delle (sole) Sezioni regionali di controllo, nella funzione consultiva della Corte medesima.
La Sezione, pertanto, ribadita la inammissibilità oggettiva della richiesta che potrebbe investire l’aspetto relativo alle concrete modalità di difesa dell’Ente avverso una pretesa afferente a un credito di lavoro vantato dal dipendente, anche in sede giudiziaria, e tanto sia per la concretezza dell’eventuale siffatto quesito che per la possibile commistione della soluzione offerta con le competenze di altri plessi giurisdizionali ivi compresi quelli della Corte dei conti non in sede di controllo (Sezione delle Autonomie, deliberazione n. 5/AUT/2006 e n. 3/SEZAUT/2014/QMIG), richiama il contenuto della
deliberazione 30.06.2010 n. 33 della Sezione delle Autonomie, rimanendo in capo al Comune richiedente, nell’ambito della propria discrezionalità amministrativa, le scelte da adottare in ordine all’eventuale maturare del termine prescrizionale per la quota di crediti afferente all’IRAP non corrisposta ai beneficiari degli incentivi alla progettazione che attivino una pretesa di corresponsione di tali importi.
DELIBERA
l’inammissibilità della richiesta di parere alla stregua delle considerazioni che precedono (Corte dei Conti, Sez. controllo Sardegna, parere 15.01.2019 n. 2).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici, dalla Corte dei Conti Veneto un riepilogo dei limiti soggettivi e oggettivi.
Con il parere 07.01.2019 n. 1 la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto, ha evaso la richiesta di parere di un ente locale in ordine alla spettanza degli incentivi al personale individuato per tutte le attività contemplate nel comma 2 dell’articolo 113 del Dlgs n. 50/2016 e, in particolare, se spettino gli incentivi, di cui sopra, anche per le altre figure individuate e coinvolte nelle procedure, oltre al direttore dell’esecuzione.
L’approfondimento
La Corte procede, dapprima, con un excursus normativo, dal quale emerge che la norma, oggetto del parere, sostituisce le analoghe disposizioni previgenti e, nello specifico, l’articolo 18 della legge n. 109 del 1994 e l’articolo 92, commi 5 e 6, del Dlgs n. 163 del 2006, confluito in seguito nell’articolo 93, commi 7-bis e seguenti, del medesimo decreto legislativo.
Le norme vigenti e le previgenti autorizzano l’erogazione di emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un Accordo di contrattazione decentrata.
Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge o il regolamento dell’Ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa. Nell’elencazione delle attività per le quali spettano gli incentivi per le funzioni tecniche la norma parla di attività svolte dai dipendenti, non limitandosi alla sola figura del direttore dell’esecuzione (coincidente in molti casi con la figura del Rup), ma ponendo la nomina di questa figura quale presupposto necessario affinché possano essere erogati gli incentivi per funzioni tecniche anche in relazione agli appalti di servizi o di forniture.
Appurata la presenza di questi presupposti di legittimità, la norma prevede esplicitamente che l’ottanta per cento del fondo sia ripartito tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le cosiddette funzioni tecniche. Del resto, non si può non sottolineare che già in vigenza del precedente Codice degli appalti (Dlgs n. 163/2006) la Corte dei conti, Sezione delle autonomie, con la deliberazione 13.05.2016 n. 18, si era espressa stabilendo l’imprescindibilità dell’adozione di un regolamento interno ai fini dell’erogazione dei predetti emolumenti.
Quanto alla nozione di collaboratori, la Sezione delle Autonomie si è espressa ritenendo che nella citata nozione –in astratto ‘atecnica’ e priva di un’autonoma portata qualificatrice– possano essere ricompresi i soggetti in possesso anche di profili professionali non tecnici, purché necessari ai compiti da svolgere e sempre che il regolamento interno all’Ente ripartisca gli incentivi in modo razionale equilibrato e proporzionato alle responsabilità attribuite; inoltre, statuiva che l’accezione di ‘collaboratore’, ai fini della ripartizione degli incentivi, non può essere aprioristicamente delimitata in relazione al bagaglio professionale –tecnico od amministrativo– posseduto, ma deve necessariamente porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere.
A tal proposito, non discostandosi dalla precedente giurisprudenza contabile, si ritiene che la regolamentazione interna delle singole Amministrazioni, attuativa della disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche, debba delimitare la portata definitoria del termine ‘collaboratori’, al fine di evitare un ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo stesso, prevedendo, altresì, una gradazione di riparto degli incentivi rispettosa dei criteri di proporzionalità, logicità, congruenza e ragionevolezza, il tutto nell’ottica di valorizzazione delle figure professionali in servizio.
Tra l’altro, appare opportuno rammentare che l’articolo 113 Dlgs n. 50/2016 contiene un sistema compiuto di vincoli per l’erogazione degli incentivi stessi, soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente). Pertanto, tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’Ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (‘tecniche’) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme).
Conclusioni
Conclusivamente, affinché possa procedersi legittimamente all’erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche a favore dei dipendenti, devono essere soddisfatti i seguenti requisiti:
   a) l’ente deve avere adottato idoneo regolamento, il quale dovrà prevedere tra l’altro la delimitazione del concetto di collaboratore in stretto collegamento funzionale alle attività da svolgere nell’ambito dei singoli procedimenti;
   b) le risorse finanziarie del fondo, costituito ai sensi dell’articolo 113, comma 2, dovranno essere ripartiti, per ciascuna opera/lavoro, servizio e fornitura, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
   c) la disposizione di cui all’articolo 113, comma 2, si applica agli appalti relativi a servizi o forniture esclusivamente nel caso in cui sia stato nominato il direttore dell’esecuzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.01.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L'Ente, nel premettere che l'incentivo per le funzioni tecniche ex art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 "Codice degli appalti" può essere erogato solo per quei lavori, servizi e forniture per i quali è stato nominato il direttore dell'esecuzione, chiede se tale incentivo spetti anche per le altre figure individuate e coinvolte nelle procedure, oltre al direttore dell'esecuzione.
A
ffinché possa procedersi legittimamente all’erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche a favore dei dipendenti dell’amministrazione comunale devono essere soddisfatti i seguenti requisiti:
   a) l’ente deve avere adottato idoneo regolamento il quale dovrà prevedere tra l’altro la delimitazione del concetto di “collaboratore” in stretto collegamento funzionale alle attività da svolgere nell’ambito dei singoli procedimenti;
   b) le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi dell’art. 113, comma 2, dovranno essere ripartiti, per ciascuna opera/lavoro, servizio, e fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
   c) la disposizione di cui all’art. 113, comma 2, si applica agli appalti relativi a servizi o forniture esclusivamente nel caso in cui sia stato nominato il direttore dell'esecuzione.

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Il Sindaco del Comune di San Bonifacio (VR) ha trasmesso una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, inerente gli incentivi per funzioni tecniche ex articolo 113, comma 2, del decreto legislativo 50/2016 recante il “Codice degli appalti”.
La citata nota prot. n. 31388/2018 premetteva che “l’Ente ha provveduto ad approvare con deliberazione della Giunta Comunale numero 75 del 27/06/2017 il Regolamento per la costituzione e ripartizione del fondo incentivi funzioni tecniche, comprendente, fra l'altro, la corresponsione degli incentivi al personale individuato per tutte le attività contemplate nel comma 2 dell'articolo 113 del D.Lgs. 50/2016 per lavori, servizi forniture di importo superiore ad € 40.000, per gli appalti relativi non solo alle spese di investimento in conto capitale, ma anche con imputazione alle spese correnti con individuazione dell'aggiudicatario in conformità a quanto stabilisce il D.Lgs. 50/2016 (capitolato d'appalto, etc.).", al fine di veder chiarito “(…) considerato che l'articolo 113 del D.Lgs. 50/2016 al comma 2 elenca tutte le attività per le quali è previsto l'incentivo, le cui modalità sono state fissate nel regolamento approvato da questo Ente, e al comma 3 indica che è possibile erogare tali compensi solo per quei lavori, servizi e forniture per i quali è stato nominato il direttore dell'esecuzione, (….) se spettano gli incentivi di cui sopra anche per le altre figure individuate e coinvolte nelle procedure oltre al Direttore dell'Esecuzione.”
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V. Nel merito, l’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, rubricato “Incentivi per funzioni tecniche” così come modificato dall’art. 76 del d.lgs. 56/2017 e da ultimo dall’art. 1, comma 526, della L. 205/2017, prevede che “1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2.
5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture
.”
La sopra riportata norma sostituisce le analoghe disposizioni previgenti: nello specifico l’art. 18 della legge n. 109 del 1994 e smi, e l’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, confluito in seguito nell’art. 93, commi 7-bis e ss, del medesimo decreto legislativo.
Tale disposizione autorizza l’erogazione di emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione decentrata.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in esame consente alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare -a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1- “ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”.
Tale fondo può essere finalizzato a premiare esclusivamente le funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai dipendenti interni quali sono le: “attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo, ovvero, di verifica di conformità, di collaudatore statico”. Il successivo comma 3 della medesima disposizione estende la possibilità di erogare gli incentivi anche ai rispettivi “collaboratori” ad esclusione, tuttavia, delle attività svolte dai dipendenti che rivestono la qualifica dirigenziale.
In altri termini,
gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla legge richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa (cfr. parere 09.06.2017 n. 190 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
In mancanza di una procedura di gara l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione (cfr. parere 09.06.2017 n. 185 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
Deve essere, dunque, evidenziato che “
La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale” (Sez. Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6).
VI. Ciò premesso, quanto alla richiesta specifica del comune di San Bonifacio, questa Sezione non può che ribadire che l’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 consente di erogare i predetti emolumenti economici a favore del personale interno alle Pubbliche Amministrazioni per attività tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, predisposizione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture, esclusivamente previa adozione di un regolamento interno e la stipula di un accordo di contrattazione decentrata integrativa, che deve determinarne le modalità ed i criteri.
Al fine di meglio analizzare il contenuto del citato articolo, è possibile evidenziare che, da un lato, il comma 1 inerente ai costi che gravano sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, dall’altro, i successivi commi che fissano i principi e i criteri per la modulazione e corresponsione dell’incentivo, dovranno essere declinati in appositi regolamenti degli enti che costituiranno la base sulla quale la contrattazione integrativa si svolgerà per disciplinare la ripartizione della quota dell’80% del fondo.
Il comma 2 elenca espressamente le attività per le quali spettano gli incentivi per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti, dunque non limitandoli alla figura del direttore dell’esecuzione (coincidente in molti casi con la figura del R.U.P.), ma ponendo la nomina di questa figura quale presupposto necessario affinché possano essere erogati gli incentivi per funzioni tecniche anche in relazione agli appalti di servizi o di forniture.
Appurata la presenza di questi presupposti di legittimità, la norma prevede esplicitamente che l’ottanta per cento del fondo (…) sia ripartito tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le cd. funzioni tecniche.
Del resto, non si può non sottolineare che già in vigenza del precedente codice degli appalti (Dlgs. 163/2006) la Corte dei Conti – Sezione delle Autonomie con la deliberazione 13.05.2016 n. 18 si era espressa stabilendo l’imprescindibilità dell’adozione di un regolamento interno ai fini dell’erogazione dei predetti emolumenti, affermando in tal senso che
il regolamento, “(…) nel quale trova necessario presupposto l’erogazione degli emolumenti in questione, ha rappresentato da sempre un passaggio fondamentale per la regolazione interna della materia, nel rispetto dei principi e canoni stabiliti dalla legge, e per tale motivo gli enti sono tenuti ad adeguarlo tempestivamente alle novità normative medio tempore intervenute.”
La citata delibera, inoltre, sottolinea che “
Analogo adempimento, pertanto (previa definizione dei nuovi criteri in sede di contrattazione decentrata integrativa), si renderà necessario anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, in attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014.”
Quanto alla nozione di collaboratori, la Sezione delle Autonomie si è in precedenza espressa (in vigenza dell’art. 93 del Dlgs 163/2006) ritenendo che nella citata nozione -in astratto “atecnica” e priva di un’autonoma portata qualificatrice- possano essere ricompresi i soggetti “in possesso anche di profili professionali non tecnici, purché necessari ai compiti da svolgere e sempre che il regolamento interno all’ente ripartisca gli incentivi in modo razionale equilibrato e proporzionato alle responsabilità attribuite”; inoltre statuiva che “l’accezione di “collaboratore”, ai fini della ripartizione degli incentivi, non può essere aprioristicamente delimitata in relazione al bagaglio professionale -tecnico od amministrativo- posseduto, ma deve necessariamente porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere”.
A tal proposito, non discostandosi dalla precedente giurisprudenza contabile
si ritiene che la regolamentazione interna delle singole amministrazioni, attuativa della disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche debba delimitare la portata definitoria del termine “collaboratori”, al fine di evitare un ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo stesso, prevedendo, altresì, una gradazione di riparto degli incentivi rispettosa dei criteri di proporzionalità, logicità, congruenza e ragionevolezza, il tutto nell’ottica di valorizzazione delle figure professionali in servizio.
Tra l’altro, appare opportuno rammentare che l’art. 113 D.lgs. n. 50/2016 contiene un sistema compiuto di vincoli per l’erogazione degli incentivi stessi soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente) (in questo senso Corte dei Conti sezione Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Questa Sezione, pertanto, non può che conformarsi alla giurisprudenza di questa Corte ed in particolare alla recente pronuncia della Sezione delle Autonomie, secondo cui “
tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia parere 16.11.2016 n. 333). Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (in senso conforme: SRC Puglia parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108). Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (in termini: SRC Veneto parere 07.09.2016 n. 353) e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogate”.
Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”. Una condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti.”
Conclusivamente
affinché possa procedersi legittimamente all’erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche a favore dei dipendenti dell’amministrazione comunale devono essere soddisfatti i seguenti requisiti:
   a) l’ente deve avere adottato idoneo regolamento il quale dovrà prevedere tra l’altro la delimitazione del concetto di “collaboratore” in stretto collegamento funzionale alle attività da svolgere nell’ambito dei singoli procedimenti;
   b) le risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi dell’art. 113, comma 2, dovranno essere ripartiti, per ciascuna opera/lavoro, servizio, e fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
   c) la disposizione di cui all’art. 113, comma 2, si applica agli appalti relativi a servizi o forniture esclusivamente nel caso in cui sia stato nominato il direttore dell'esecuzione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 07.01.2019 n. 1).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La sussistenza della procedura comparativa costituisce un presupposto indefettibile al fine dell’erogazione dell’incentivo.
L’art. 113 d.lgs. n. 50/2016, riferendosi genericamente agli “importi dei lavori, servizi e forniture, poste a base di gara”, non menziona la fonte (legale o volontaria) del vincolo di selezione comparativa, che, pertanto, non integra un presupposto di erogabilità dell’incentivo.
la questione non è tanto quella della sussistenza o meno dell’obbligo di gara o del meccanismo di valutazione comparativa degli offerenti effettivamente adottato, quanto dell’effettiva sussistenza di una delle attività incentivabili, tassativamente indicate dal più volte citato art. 113.

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Per l’erogabilità dell’incentivo, la sussistenza di una procedura di selezione comparativa degli offerenti è condizione necessaria, ma non sufficiente, dovendo ricorrere una delle attività contemplate dall’art. 113 con una elencazione -si ripete- tassativa e, quindi, insuscettibile di interpretazione analogica.
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Con la nota in epigrafe, il Comune di Recco (GE) chiede alla Sezione un parere in merito all’erogabilità degli incentivi previsti dall’art. 113 d.lgs. 50/2016 in caso di contratti di importo inferiore ai 40.000 euro contemplati dall’art 36, comma 2, lett. a), del medesimo decreto.
In particolare, l’Ente formula i seguenti quesiti:
   1) “se il regolamento comunale sugli incentivi tecnici possa prevedere il riconoscimento degli incentivi ai dipendenti” anche in relazione ad “affidamenti inferiori ai 40.000 euro in caso di procedura con richiesta di preventivi ad operatori di settore”;
   2) “se, sotto la soglia dei 40.000 euro, nel caso in cui venga seguita una procedura con pubblicazione di avviso pubblico per manifestazione di interesse aperto a tutti gli operatori, si possano riconoscere gli incentivi tecnici, così come, sempre sotto la soglia dei 40.000 euro, nel caso di procedura di gara su mercato elettronico MEPA con richiesta di offerta RDO senza individuazione preventiva delle ditte da invitare”.
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3. Passando al merito della richiesta, il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di erogare gli incentivi per funzioni tecniche per gli appalti sottosoglia di importo inferiore ai 40.000 euro, previsti dall’art 36, comma 2, lett. a), d.lgs. 50/2016, nel caso in cui il contraente venga selezionato a seguito di valutazione comparativa di preventivi oppure nel caso in cui venga utilizzata la procedura di gara su mercato elettronico MEPA con richiesta di offerte RDO senza individuazione preventiva delle ditte da invitare o nel caso in cui venga seguita una procedura con pubblicazione di avviso pubblico per manifestazione di interesse aperto a tutti gli operatori.
L’erogazione di incentivi per funzioni tecniche a favore dei dipendenti è disciplinata dall’art. 113 dlgs 50/2016, il quale sancisce che “le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture, poste a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
La giurisprudenza contabile, nel sottolineare la natura derogatoria dell’istituto rispetto al principio dell’onnicomprensività della retribuzione, ne ha circoscritto l’applicazione alle attività tassativamente previste, in quanto “si tratta nel complesso di compensi volti a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito affidato ai potenziali beneficiari dell’incentivo” (Sezione delle Autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6).
La disposizione individua nell’importo posto a base di gara il parametro per il calcolo della percentuale da destinare al fondo incentivi per funzioni tecniche, limitando, di conseguenza, l’ambito applicativo della previsione alle fattispecie in cui la scelta del contraente avvenga mediante valutazione comparativa formalizzata tra più operatori economici.
Per tali ragioni,
gli incentivi in esame possono essere riconosciuti “esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa (cfr. Sezione controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 190). Per contro, ove la gara manchi, non è previsto l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione (cfr. Sezione controllo Veneto, parere 27.11.2018 n. 455).
L’impossibilità di erogare l’incentivo in caso di affidamento diretto, disposto ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a), d.lgs. 50/2016, costituisce, pertanto, il logico corollario di quanto espressamente sancito dalla disposizione in esame, così come costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sezione controllo Lazio, parere 06.07.2018 n. 57, Sezione controllo Marche, parere 08.06.2018 n. 28). Solo in presenza di una procedura di gara o, in generale, di una procedura competitiva è possibile accantonare il fondo che viene successivamente ripartito sulla base di un regolamento adottato dall’amministrazione, mentre le procedure eccezionali e non competitive sono sottratte all’incentivazione.
Posto che la sussistenza della procedura comparativa costituisce un presupposto indefettibile al fine dell’erogazione dell’incentivo, il quesito del Comune di Recco impone di esaminare la particolare ipotesi in cui, pur vertendosi nella fattispecie di cui all’art. 36, comma 2, lett. a), dlgs 50/2016 (appalti di importo inferiore a 40.000 mila euro per cui è consentito l’affidamento diretto, ma per i quali lo stesso art 36, comma 2, fa salva la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie), l’Ente decida di selezionare il contraente mediante valutazione comparativa dei preventivi o con pubblicazione di avviso pubblico per manifestazione di interesse aperto a tutti gli operatori o attraverso il ricorso al MEPA.
In altri termini, si tratta di verificare se le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza sopra richiamata, sulla base dell’interpretazione letterale dell’art. 113, conservino validità anche nel caso in cui la selezione comparativa degli offerenti non sia imposta dalla legge, ma venga adottata volontariamente dall’amministrazione (cd. “autovincolo”).
Sotto tale profilo,
l’articolo in esame, riferendosi genericamente agli “importi dei lavori, servizi e forniture, poste a base di gara”, non menziona la fonte (legale o volontaria) del vincolo di selezione comparativa, che, pertanto, non integra un presupposto di erogabilità dell’incentivo [cfr., a contrario, l’art. 133, lett. e n. 1) c.p.a. che -nel riferirsi alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture svolte da soggetti comunque tenuti al rispetto delle procedure di evidenza pubblica previste dalla normativa statale o regionale- richiede espressamente, per radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che l’obbligo di gara discenda dalla legge].
La questione, tuttavia, non è tanto quella della sussistenza o meno dell’obbligo di gara o del meccanismo di valutazione comparativa degli offerenti effettivamente adottato, quanto dell’effettiva sussistenza di una delle attività incentivabili, tassativamente indicate dal più volte citato art. 113.
Ciò che rileva, in sostanza, è l’effettivo compimento di una delle attività contemplate dalla legge “nel caso di specie concretamente accertata come svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse possibili evenienze
(Sezione controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185), negli stessi termini, Sezione controllo Toscana, parere 14.12.2017 n. 186 e parere 27.03.2018 n. 19).
In conclusione,
per l’erogabilità dell’incentivo, la sussistenza di una procedura di selezione comparativa degli offerenti è condizione necessaria, ma non sufficiente, dovendo ricorrere una delle attività contemplate dall’art. 113 con una elencazione -si ripete- tassativa e, quindi, insuscettibile di interpretazione analogica.
L’accertamento della sussistenza in concreto dei presupposti sopra indicati rientra nell’ambito della discrezionalità dell’Ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 21.12.2018 n. 136).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEPer la determinazione del fondo incentivante, di cui al secondo comma dell’art. 113 del citato decreto, si deve far riferimento all’importo dei lavori stanziati in bilancio e oggetto di base d’asta e non all’importo dei lavori soggetto al ribasso (al netto degli importi relativi ai costi della sicurezza).
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Con nota acquisita al protocollo interno della Sezione al n. 7563 in data 08.12.2018, il Sindaco del comune di Civitella in Val di Chiana (AR) ha inoltrato, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, al fine di conoscere la corretta determinazione del fondo per i cd. incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016.
In particolare, il Comune, considerato che l’art. 23 del predetto decreto, al comma 16 dispone che “i costi della sicurezza sono scorporati dall’importo assoggettato a ribasso”, chiede di sapere se, al fine di calcolare il fondo di cui al comma 2 cit., si debba considerare l’importo relativo all’intero valore dell’appalto (importo a base d’asta) o il solo importo soggetto a ribasso.
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Venendo al quesito oggetto della presente richiesta, l’Ente richiama l’art. 23, comma 16, del codice degli appalti, il quale all’ultimo periodo dispone che i costi della sicurezza siano scorporati dal costo dell'importo assoggettato al ribasso. Da ciò il dubbio se, per la determinazione del fondo incentivante, di cui al secondo comma dell’art. 113 del citato decreto, si debba far riferimento all’importo dei lavori stanziati in bilancio e oggetto di base d’asta, o all’importo dei lavori soggetto al ribasso (al netto degli importi relativi ai costi della sicurezza).
In proposito, questa Sezione ritiene che il fondo per gli incentivi tecnici, debba essere calcolato facendo riferimento all’importo dello stanziamento di bilancio per ciascun lavoro, servizio o fornitura, nel limite massimo del 2% dei predetti stanziamenti.
Difatti, il comma 2 del cit. art. 113, nel prevedere il fondo per il riferimento ad un parametro oggettivo e ben individuato in base al quale calcolare l’ammontare delle risorse incentivanti: tale parametro è rappresentato dallo stanziamento di bilancio, ossia dall’importo dell’appalto posto a base d’asta. Non prevede, pertanto, alcuna distinzione o limitazione ulteriore sulle quali eventualmente parametrare l’incentivo.
Ciò, come detto, in quanto il comma 2 cit. dispone un criterio di calcolo mediante rinvio ad un dato finanziario oggettivo.
Di contro, il comma 16, ultimo periodo, ha una diversa finalità, rappresentata dalla necessità di tutelare la sicurezza sul lavoro di coloro che sono coinvolti nell’appalto. Sicurezza che non può essere oggetto di “trattativa” al fine di risultare vincitori dell’appalto in quanto costi oggettivi ed “essenziali” e, pertanto, non oggetto di ribasso.
Peraltro, tale norma è del tutto avulsa dalla disposizione che istituisce e finanzia il fondo incentivante mediante un criterio di calcolo, come già più volte osservato, oggettivo (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 20.12.2018 n. 140).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L'incentivo ex art. 113 del d.lgs. 50/2016 è ispirato a una logica di premialità dell'efficienza; pertanto, non ricorrono ostacoli alla sua erogazione in assenza di difformità da tale parametro, come nel caso delle circostanze impreviste e imprevedibili di cui alle varianti in corso d'opera o delle prestazioni supplementari.
Il presupposto indefettibile ai fini dell'erogazione dell'incentivo deve essere rinvenuto nell'effettivo espletamento, in tutto o in parte, di una o più attività afferenti alla gestione degli appalti pubblici; conseguentemente, deve ritenersi legittimo il riconoscimento dell'emolumento anche in ipotesi di affidamento all'esterno di una delle attività tassativamente elencate nell'art. 113 del d.lgs. 50/2016, purché venga remunerata solo l'attività di supporto a quest'ultima effettivamente svolta dai dipendenti dell'ente.
L'art. 113 del d.lgs. 50/2016 non contiene alcuna disposizione nel senso della necessaria previsione di un valore minimo d'importo a base di gara per l'applicazione degli incentivi.
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Con nota del 15/11/2018 il Vice Sindaco del Comune di Taranto ha formulato un’istanza di parere ex art. 7 della l. n. 131/2003 in ordine all’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016.
Con successiva nota del 29/11/2018 un’istanza di parere di tenore identico è stata avanzata dal Sindaco del medesimo Comune; quest’ultimo, nell’annullare la precedente richiesta, ne ha motivato la riproposizione con la rilevazione di problemi nell’originario invio.
L’istanza ha ad oggetto i seguenti quesiti:
   1) “se l’incentivo sia possibile anche in riferimento a varianti contrattuali di lavori, forniture e servizi di appalti comunque affidati mediante gara o procedure competitive e, in caso affermativo, se il valore di riferimento su cui calcolare l’incentivo debba essere l’importo a base di gara oppure quello conseguente al prezzo finale di aggiudicazione;
   2) se anche nel caso di affidamento all’esterno, mediante procedure comparative, del collaudatore dei lavori o di altra figura tecnica riguardante i lavori per cui la normativa consentirebbe l’incentivo a personale interno, ove non sia reperibile apposita professionalità nell’ambito dell’organizzazione dell’Ente attestata dal responsabile del procedimento, sia possibile prevedere l’incentivo a favore di quest’ultimo in riferimento alla procedura di affidamento predetta;
   3) se è necessario o facoltativo prevedere un valore minimo di importo a base di gara (come suggerito dall’ANCI), per l’applicazione degli incentivi de quibus.”

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Ciò posto e passando al merito, la risposta ai quesiti presuppone una sintetica ricognizione del quadro normativo di riferimento.
Riproducendo analoghe disposizioni previgenti, l’art. 113 d.lgs. n. 50/2016 (rubricato “Incentivi per funzioni tecniche”) consente –previe adozione di un regolamento interno e stipula di un accordo di contrattazione decentrata– di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
In dettaglio, come di recente chiarito da questa Sezione (parere 28.09.2018 n. 140), i commi 1 e 2 dell’art. 113, nel testo risultante dalle modifiche di cui all’art. 76 del d.lgs. 19/04/2017 n. 56, statuiscono che, a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale.
L’espresso riferimento all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di gara” induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara (Sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione 09.02.2018 n. 9), emergendo un inequivoco favor del legislatore verso dinamiche concorrenziali dei contratti pubblici.
La l. 27/12/2017 n. 205 (art. 1, comma 526) ha inserito all’art. 113 il comma 5-bis, alla stregua del quale i predetti incentivi “fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In tal modo il legislatore ha inteso chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente), ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto. Del resto, sia il comma 1 sia il comma 2 dell’art 113 già disponevano l’imputazione di tutte le spese afferenti agli appalti di lavori, servizi o forniture sugli stanziamenti previsti per i medesimi; il comma 5-bis rafforza tale previsione e individua come dirimente, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto (Sezione regionale di controllo per l’Umbria,
parere 05.02.2018 n. 14).
Con deliberazione 26.04.2018 n. 6 la Sezione delle Autonomie ha chiarito che “Anche se l’allocazione contabile degli incentivi di natura tecnica nell’ambito del “medesimo capitolo di spesa” previsto per i singoli lavori, servizi o forniture potrebbe non mutarne la natura di spesa corrente -trattandosi, in senso oggettivo, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale- la contabilizzazione prescritta ora dal legislatore sembra consentire di desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e dalla spesa per il trattamento accessorio.”
Tanto premesso, è possibile procedere all’esame dei quesiti posti dall’Ente locale.
In relazione a quello sub 1), viene in rilievo l’art. 106 del d.lgs. 50/2016 (rubricato “Modifica di contratti durante il periodo di efficacia”), che compendia in unico contesto normativo la disciplina in tema di modifiche contrattuali.
In sintesi, l’art. 106 (comma 1) contempla la possibilità di modificare i contratti di appalto senza l'espletamento di una nuova procedura di affidamento nelle seguenti ipotesi:
   a) modifiche contrattuali, a prescindere dal loro valore monetario, previste nei documenti di gara iniziali;
   b) modifiche resesi necessarie, non incluse nell’appalto iniziale, in relazione a lavori, servizi o forniture supplementari, qualora un cambiamento del contraente risulti impraticabile per motivi tecnico-economici e comporti notevoli disguidi o una consistente duplicazione di costi;
   c) modifiche imposte da circostanze impreviste e imprevedibili per l’amministrazione aggiudicatrice o per l’ente aggiudicatore (tra cui la sopravvenienza di nuove disposizioni legislative o regolamentari o provvedimenti di autorità od enti preposti alla tutela di interessi rilevanti), che assumono la denominazione di varianti in corso d'opera;
   d) sostituzione dell’aggiudicatario iniziale con un nuovo contraente, in presenza di determinate circostanze;
   e) modifiche non sostanziali ai sensi del comma 4 del medesimo articolo.
La lettura congiunta degli artt. 106 e 113 del d.lgs. 50/2016 consente di concludere nel senso della non incompatibilità tra le due disposizioni.
È vero, infatti, che la legge-delega per il riordino della disciplina in materia di contratti pubblici (l. 28/1/2016, n. 11) ha previsto che “al fine di incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi alla progettazione” (art, 1, comma rr).
Tale circostanza non sembra, tuttavia, ostativa in senso assoluto al riconoscimento degli incentivi nel caso di modifiche contrattuali.
L’analisi delle norme succedutesi nel tempo (art. 18 della l. n. 109/1994; art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163/2006, poi confluito nell’art. 93, commi 7-bis e ss. del medesimo decreto legislativo per effetto delle innovazioni di cui al d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 114/2014; da ultimo art. 113 del d.lgs. 50/2016) restituisce un progressivo mutamento della posizione del legislatore rispetto alla materia degli incentivi nell’ambito degli appalti pubblici: all’originaria volontà di spostare all’interno degli uffici attività di progettazione e capacità professionali di elevato profilo si è infatti affiancata e sostituita quella di accrescere efficienza ed efficacia di attività tipiche dell’amministrazione (Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 14.12.2017 n. 186).
In tale contesto, con riferimento al previgente quadro normativo che circoscriveva l’operatività degli incentivi agli appalti di lavori, la Corte dei conti ha ritenuto erogabile l’incentivo “qualora nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda necessario redigere, da parte del personale dipendente dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione delle varianti determinate da errori di progettazione, con la specificazione che l’incentivo stesso deve essere correlato all’importo della perizia di variante” (Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 21.05.2014 n. 97).
In altri termini, se l’incentivo è ispirato a una logica di premialità dell’efficienza non sembrano ricorrere ostacoli alla sua erogazione in assenza di difformità da tale parametro, come nel caso delle circostanze impreviste e imprevedibili di cui alle varianti in corso d’opera o delle prestazioni supplementari.
In tali evenienze l’incentivo andrà calcolato con riferimento al nuovo importo a base di gara, alla stregua di un esito interpretativo che sembra trovare conferma nel recente regolamento incentivi approvato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome nella seduta del 26 luglio u.s. (art. 9, comma 10: “Nel caso di varianti in corso d’opera in aumento o interventi supplementari, l’importo del fondo gravante sul singolo lavoro, servizio o fornitura viene ricalcolato sulla base del nuovo importo”).
Venendo al quesito sub 2), la formulazione delle disposizioni non sembra precludere, a determinate condizioni, la possibilità di prevedere l’incentivo a favore del responsabile unico del procedimento in caso di affidamento all’esterno, mediante procedure comparative, del collaudatore dei lavori o di altra figura tecnica riguardante i lavori per cui la normativa consente l’incentivo medesimo, ove il citato affidamento sia stato determinato dalla non reperibilità di apposita professionalità nell’ambito dell’organizzazione dell’Ente.
Come chiarito della Sezione delle Autonomie, la finalità della disciplina è quella di “erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture”; il fondo previsto dall’art. 113 “può essere finalizzato a premiare esclusivamente le funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai dipendenti interni”; “tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori" (deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Il presupposto indefettibile ai fini dell’erogazione dell’incentivo in esame deve allora essere rinvenuto nell’effettivo espletamento, in tutto o in parte, di una o più attività afferenti alla gestione degli appalti pubblici; conseguentemente, deve ritenersi legittimo il riconoscimento dell’emolumento anche in ipotesi di affidamento all’esterno di una delle attività tassativamente elencate, purché venga remunerata solo l’attività di supporto a quest’ultima effettivamente svolta dai dipendenti dell’ente.
Infine, con riferimento al quesito sub 3), l’art. 113 più volte citato non sembra contenere alcuna disposizione nel senso della necessaria previsione di un valore minimo d’importo a base di gara per l’applicazione degli incentivi de quibus.
È vero, come più volte osservato, che la finalità delle disposizioni in esame è quella -in linea con la legislazione degli ultimi anni– di incentivare l'efficienza e l'efficacia amministrative, mediante l’erogazione di emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture; ma tale finalità deve trovare un adeguato bilanciamento con altri valori ordinamentali, tra cui quelli della sana gestione finanziaria e del rispetto dei pertinenti vincoli di bilancio, che potrebbero in ipotesi risultare negativamente incisi dalla previsione obbligatoria di un valore minimo di importo a base di gara.
L’unica “necessità” prevista dal legislatore è quella di una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure; ne consegue il carattere meramente facoltativo di un eventuale valore minimo di importo a base di gara ai fini di che trattasi (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 12.12.2018 n. 162).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Per l’erogazione e la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche, l’ente Regione rimane libero, nell’esercizio della propria attività discrezionale oltre che del proprio potere regolamentare, quanto alle valutazioni pertinenti la stipulazione di un accordo con le Organizzazioni sindacali e con le RSU in relazione alla definizione del riparto delle risorse accantonate all’epoca dell’approvazione dei lavori e delle opere pubbliche in funzione dell’incentivazione delle funzioni tecniche svolte da dipendenti regionali dopo l’entrata in vigore –26.08.2014– della novella di cui al d.l. n. 90/2014, come convertito dalla legge n. 114/2014, e relative a bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs n. 50/2016.
Per l’utilizzo del fondo salariale accessorio da destinarsi al pagamento degli incentivi per funzioni tecniche, la Sezione si è pienamente uniformata all’orientamento espresso dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6, secondo la quale, posto che il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale, gli incentivi per le funzioni tecniche devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
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Con la nota in epigrafe il Presidente della Regione Piemonte ha formulato una richiesta di parere in relazione alla disciplina applicabile agli incentivi in favore dei dipendenti tecnici delle amministrazioni pubbliche a seguito delle modifiche introdotte dagli artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 90/2014, convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114, e successivamente dall’entrata in vigore dell’art. 113 d.lgs. 50/2016 e dall’abrogazione della pregressa disciplina.
La richiesta in esame è preceduta:
   1) dalla precisazione secondo cui la Regione Piemonte, dopo l’entrata in vigore dell’art. 13-bis, comma 1, del decreto legge 24.06.2014, n. 90, come convertito nella legge 11.08.2014, n. 114 –che ha inserito i commi da 7-bis a 7-quinquies all’art. 93 del d.lgs. 163/2006 dettando una nuova disciplina dell’incentivazione delle funzioni tecniche dei dipendenti delle p.a.– non ha disciplinato i criteri di riparto delle risorse destinate alla predetta incentivazione allo svolgimento delle dette funzioni dei dipendenti regionali;
   2) dalla ulteriore precisazione secondo cui la Regione Piemonte ha comunque accantonato somme da destinare all’incentivazione dello svolgimento di funzioni tecniche da parte dei dipendenti con l’approvazione dei quadri economici di plurimi interventi di lavori ed opere pubbliche, nel periodo di tempo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, con riferimento a prestazioni rese dopo l’entrata in vigore dei commi da 7-bis a 7-quinquies all’art. 93 del d.lgs. 163/2006 e relative a bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore del citato d.lgs. 50/2016;
   3) dalla conclusiva precisazione secondo cui le prestazioni consistenti nell’esercizio di funzioni tecniche –compiute dopo l’entrata in vigore del d.l. 90/2014, convertito nella legge 114/2014 ed inerenti a bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016– sono state effettivamente svolte dai dipendenti regionali incaricati.
Tutto ciò precisato e premesso, è stato chiesto un parere riguardo:
   1) alla stipulazione di un accordo tra la Regione Piemonte e le Organizzazioni sindacali e le RSU con ad oggetto la definizione delle regole di riparto delle risorse –già accantonate al momento dell’approvazione dei lavori e delle opere pubbliche e dei relativi quadri economici e tuttora presenti nel bilancio regionale– destinate all’incentivazione delle funzioni tecniche svolte da dipendenti regionali dopo l’entrata in vigore (26.08.2014) dei commi da 7-bis a 7-quinquies dell’art. 93 del d.lgs. 163/2006, come inseriti dall’art. 13-bis del d.l. 90/2014, convertito dalla legge 114/2014, e relative a bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016 (riparto comunque da disciplinare nell’accordo Regione –Organizzazioni sindacali– RSU nel rispetto delle disposizioni normative applicabili al momento del compimento delle attività incentivabili, e per tutte le attività compiute dopo il 26.08.2014 riferite a bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016);
   2) all’utilizzo di risorse rientranti nel fondo salario accessorio del personale di categoria, per il pagamento di incentivi alle funzioni tecniche, considerato che nel contratto decentrato, sottoscritto il 22.12.2017, è stata prevista, tra gli impieghi di detto Fondo, anche la destinazione agli incentivi tecnici di cui sopra.
In buona sostanza, con l’ultimo quesito si chiede se le risorse, da destinare agli incentivi delle funzioni tecniche, debbano o meno essere comprese nel fondo per il trattamento accessorio del personale di categoria, così come disposto nel contratto decentrato sottoscritto il 22.12.2017.
...
Preliminarmente, la Sezione ritiene di ribadire quanto già esplicitato attraverso il parere 09.10.2017 n. 177, adottata in occasione dello scrutinio di quesiti formulati sempre dalla Regione Piemonte in relazione alla disciplina applicabile agli incentivi in favore dei dipendenti tecnici delle amministrazioni pubbliche a seguito delle modifiche introdotte dagli artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 90/2014, convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114 e successivamente dall’entrata in vigore dell’art. 113 d.lgs. 50/2016 e dall’abrogazione della pregressa disciplina, vale a dire che la funzione consultiva è diretta a fornire un ausilio all’Ente richiedente per le determinazioni che lo stesso è tenuto ad assumere nell’esercizio delle proprie funzioni, restando ferma la discrezionalità dell’Amministrazione in sede di esercizio delle prerogative gestorie.
Sempre preliminarmente, giova rammentare che sulla materia degli incentivi tecnici il d.l. n. 90/2014 (come convertito dalla legge n. 114/2014) ha modificato la disciplina di cui al d.lgs. n. 163/2006, prevedendo la costituzione di un unico fondo per la progettazione e l’innovazione, nel quale far confluire risorse in misura non superiore al due per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, da destinare per l’80% ai dipendenti che avessero svolto funzioni tecniche, con esclusione dei dirigenti, e per il 20% all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie (nuova formulazione dell’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. 163/2006).
Più in particolare, come ricordato dal comune istante nella nota richiamata in premessa, l’art. 13 del decreto legge sopra citato ha abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante la previgente disciplina relativa agli incentivi spettanti a dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici per le attività di progettazione (comma 5) e pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede di conversione e in vigore dal 19.08.2014, ha poi dettato una nuova normativa in materia, confluita nell’art. 93, del codice dei contratti pubblici, ai commi da 7-bis a 7-quinquies.
La novella, in buona sostanza, ha confermato la possibilità di remunerare i dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate attività secondo i modi e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento dell’ente.
Ciò che, anche ai fini della presente pronuncia in ordine al primo quesito formulato, occorre evidenziare è il fatto che la novella del 2014 ha demandato ad un regolamento, da adottarsi dalle singole amministrazioni, il compito di fissare, nei limiti di legge, la percentuale effettiva di risorse da far confluire nel fondo e di determinare le modalità e i criteri di ripartizione delle stesse, per ciascuna opera o lavoro, fra le varie figure tecniche coinvolte (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori).
La Sezione prende atto che la Regione Piemonte, dopo l’entrata in vigore della disciplina normativa del 2014 -disciplina come noto successivamente abrogata dal nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) che con l’art. 113 ha dettato la vigente disciplina degli incentivi per funzioni tecniche– pur accantonando le somme da destinare all’incentivazione dello svolgimento di funzioni tecniche da parte dei dipendenti, nel periodo di tempo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, con riferimento a prestazioni rese dopo l’entrata in vigore dei commi da 7-bis a 7-quinquies all’art. 93 del d.lgs. 163/2006 (e relative a bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore del citato d.lgs. 50/2016), non ha disciplinato i criteri di riparto delle risorse destinate alla predetta incentivazione allo svolgimento delle funzioni dei dipendenti regionali.
Ciò nonostante, questa Sezione ritiene di dover ribadire l’orientamento già espresso, a fronte di richiesta in subiecta materia, con il parere 09.10.2017 n. 177, secondo il quale “…il diritto all’incentivo deve essere corrisposto sulla base della normativa vigente al momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle attività incentivate senza che possa essere modificato da disposizioni di legge successive che ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità”.
In effetti, la Regione, in precedenza, tra l’altro aveva chiesto se fosse possibile “disciplinare -anche dopo l'abrogazione dell'art. 93, commi da 7-bis a 7-quinquies, del d.lgs. 163/2006, e s.m.i e delle precedenti disposizioni riguardanti l'incentivazione allo svolgimento di funzioni tecniche- le modalità ed i criteri di riparto tra i dipendenti aventi diritto delle risorse già accantonate prima dell'entrata in vigore dei citati commi da 7-bis a 7-quinquies per attività incentivabili svolte nel periodo di vigenza delle disposizioni dettate dagli stessi commi da 7-bis a 7-quinquies dell'art. 93 del d.lgs. 163/2006 e s.m.i.
Al riguardo, la Sezione aveva rilevato che è ammessa la possibilità di “…disciplinare con regolamento la distribuzione di risorse, che siano state già accantonate, anche in favore di soggetti che abbiano svolto l’attività incentivabile prima dell’adozione del relativo Regolamento. In particolare, quanto ad attività incentivabili svolte nel periodo di vigenza della disciplina introdotta nel 2014, …ed a seguito della disciplina introdotta nel 2014, a differenza della disciplina pregressa, posto che l’accantonamento non è più legato alla singola opera o lavoro, ma confluisce in un unico fondo, di cui solo l’ottanta per cento dell’ammontare complessivo è destinato agli incentivi in favore dei dipendenti tecnici, sussiste una difformità fra i criteri in base ai quali la Regione avrebbe accantonato le risorse (ante 2014) ed i criteri di accantonamento delle risorse vigenti al momento di effettivo svolgimento dell’attività incentivabile (post 2014), che si riverbera inevitabilmente sulla base di calcolo del diritto all’incentivo del dipendente pubblico: di modo che, da una parte, è escluso che l’ente possa con regolamento incidere retroattivamente sulle modalità di accantonamento delle risorse, e, dall’altra, deve parimenti escludersi che lo stesso possa oggi disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non uniformi a quelli in vigore al momento di svolgimento dell’attività incentivabile”.
Sul punto, la Sezione, in accordo con l’indirizzo espresso dalla Corte di Cassazione (ex multis, Cass., Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004), secondo cui il diritto all’incentivo costituisce “un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso”, è dell’avviso che dal compimento dell’attività nasca il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive che non hanno alcuna efficacia retroattiva.
Ne discende che
la natura retributiva del diritto all’incentivo in parola, che matura con il compimento dell’attività richiesta senza poter subire modifiche in conseguenza di leggi sopravvenute prive di efficacia retroattiva, porta a ritenere che le attività compiute prima dell’entrata in vigore della riforma di cui sopra possano essere remunerate con gli incentivi fissati secondo le modalità e i criteri definiti nell’ambito del previgente quadro normativo anche se la liquidazione avvenga in data successiva.
Con le predette precisazioni in ordine alla possibilità di erogazione e ripartizione dell’incentivo,
l’ente rimane per il resto libero nell’esercizio della propria attività discrezionale oltre che del proprio potere regolamentare quanto alle valutazioni pertinenti la stipulazione di un accordo con le Organizzazioni sindacali e le RSU in relazione alla definizione del riparto delle risorse accantonate all’epoca dell’approvazione dei lavori e delle opere pubbliche in funzione dell’incentivazione delle funzioni tecniche svolte da dipendenti regionali dopo l’entrata in vigore –26.08.2014– della novella di cui al d.l. n. 90/2014, come convertito dalla legge n. 114/2014, e relative a bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016.
Quanto al secondo quesito, formulato con la presente richiesta di parere, in base al quale si chiede di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche, a seguito dell’accordo confluito nel contratto decentrato stipulato nel 2017, vale a dire in costanza della disciplina normativa di cui al d.lgs. n. 50/2016, debbano essere sostenuti o meno con ricorso a risorse rientranti nel trattamento salariale accessorio del personale di categoria, la Sezione osserva, preliminarmente, che modalità e criteri di ripartizione del fondo incentivante sono previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti. Detto regolamento è lo strumento utile al fine di verificare che gli incentivi non vengano distribuiti a pioggia ma realizzando una finalità realmente incentivante che tenga conto delle attività concretamente svolte: tanto è vero che, sempre ai sensi del terzo comma, la corresponsione dell'incentivo “è disposta dal dirigente o dal responsabile del servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Ebbene, secondo la giurisprudenza contabile, (v., ex multis, Sez. Controllo Lombardia, parere 07.11.2017 n. 305 e parere 21.03.2018 n. 93), posto che “la disciplina sugli incentivi tecnici prevista dal citato art. 113, comma 2, del nuovo codice dei contratti pubblici si applica alle procedure bandite successivamente all’entrata in vigore dello stesso, come fatto palese dall’art. 216, comma 1, l’adozione del regolamento di cui al successivo comma 3 rimane una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo. Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge” (Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 07.09.2016 n. 353).
Ciò premesso, la Sezione rileva che la legge di bilancio 2018 (legge 27.12.2017, n. 205), con il comma 526 dell’articolo 1, ha aggiunto all’articolo 113 del d.lgs. n. 75 del 2016, il comma 5-bis, il cui testo è il seguente: “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In tal modo il legislatore è intervenuto sulla questione della rilevanza degli incentivi tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il trattamento accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs. n. 75 del 2017 (vale a dire, che “...l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016.”).
Il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto.
Del resto, sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato, già disponevano che tutte le spese afferenti gli appalti di lavori, servizi o forniture, debbano trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il novellato comma 5-bis rafforza tale intendimento –incentivi tecnici collocati al di fuori del tetto di spesa del trattamento accessorio- ed individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto.
Tutto ciò premesso, in data 10.04.2018, la Sezione delle Autonomie, con deliberazione 26.04.2018 n. 6, rivisitato il nuovo assetto normativo, ha reso l’interpretazione di cui in appresso: “…Proprio alla luce dei suesposti orientamenti, va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere. La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale. Sulla questione è anche rilevante considerare che la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente). Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi tecnici al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture è da rilevare che tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia parere 16.11.2016 n. 333)”.
Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (in senso conforme: SRC Puglia parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (in termini: SRC Veneto parere 07.09.2016 n. 353) e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamente le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogate. Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”.
Una condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti. Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come configurato a seguito delle ultime modifiche normative intervenute, occorre prendere atto che l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici. Questi ultimi risultano previsti da una disposizione di legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.
In altre parole, con un intervento volto a tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli incentivi per le funzioni tecniche, si deve ritenere che il legislatore (che, in tal modo, ha reso “ordinamentale” il disposto di cui all’art. 113 citato) abbia voluto dare maggiore risalto alla finalizzazione economica degli interventi cui accedono tali risorse, nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero conseguire sul piano della gestione contabile. Pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità operative di contabilizzazione, la novella impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di riferimento.
Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale.
Ad avviso, quindi, della Sezione delle Autonomie, “…gli incentivi per le funzioni tecniche devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Tale principio di diritto, enunciato dalla Sezione delle Autonomie nell’esercizio della funzione nomofilattica di cui è investita per legge, deve ritenersi vincolante per le Sezioni regionali di controllo chiamate a rendere pareri sulla medesima questione, escludendo l’insorgenza di contrasti interpretativi in materia.
Questa Sezione, pertanto, nel dare risposta al quesito formulato con la presente richiesta di parere, non può che attenersi al predetto principio di diritto, confermando, in tema di incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, l’indirizzo già ampiamente rappresentato nei recenti parere 23.05.2018 n. 54 e parere 23.05.2018 n. 56 (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 09.12.2018 n. 135).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Richiesta di parere articolata in due quesiti: l’uno relativo alla possibilità di conferire a tecnici esterni all’ente incarichi di supporto alla progettazione definitiva, laddove quest’ultima venga affidata a personale interno; l’altro, relativo alla disciplina degli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 50 del 2016, anche con riferimento alle opere finanziate con fondi europei.
Nessuna figura di “supporto” o consulenza specialistica è prevista con riferimento all’attività di progettazione e ciò in forza del principio generale -alla base della regolamentazione del Codice degli appalti- secondo cui la responsabilità della progettazione deve potersi ricondurre ad un unico centro decisionale, ossia il progettista, individuato quale tecnico qualificato e dotato della professionalità necessaria per l’espletamento del servizio richiesto.
In tal senso si è espressa anche l’ANAC nelle linee guida sui servizi di ingegneria e architettura emanate in data 07.07.2017, laddove ha ribadito che
la “consulenza” di ausilio alla progettazione di opere pubbliche continua a non essere contemplata dal Codice che, invero, prevede siffatta attività di supporto solamente in ausilio del R.U.P. (art. 31 l. cit., commi 6-11), specialmente in quei casi in cui la figura dirigenziale incaricata di detta responsabilità non disponga delle adeguate competenze tecniche.
Il “supporto alla progettazione”, invece, è costituito da un insieme di attività meramente strumentali alla progettazione (indagini geologiche, geotecniche e sismiche, sondaggi, rilievi, misurazioni e picchettazioni, predisposizione di elaborati specialistici e di dettaglio, redazione grafica di elaborati progettuali) che devono ricondursi ai compiti e alla responsabilità del progettista tanto nell’ipotesi di tecnico esterno all’ente che di dipendente incaricato della progettazione.
In ordine alla specifica problematica sollevata dal sindaco del comune di Ganci, relativa alla eventualità che il comune non disponga di adeguate attrezzature tecniche in grado da consentire al tecnico qualificato di poter espletare l’incarico di progettista, il Collegio osserva che
è compito dell’Ente dotare il proprio ufficio tecnico di tutto quanto necessario per lo svolgimento delle normali funzioni istituzionali dei tecnici in servizio, all’uopo utilizzando anche la quota del 20 per cento del fondo per gli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 4, del citato Codice, destinato proprio “all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l’edilizia e le infrastrutture (…)”.
Pertanto, alla luce del vigente quadro normativo,
la Sezione ritiene che l’attività di consulenza o supporto alla progettazione debba ritenersi preclusa alle amministrazioni pubbliche.
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Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75 del 2017.

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In relazione ai lavori finanziati con risorse comunitarie, la Sezione non ha motivo di discostarsi dal seguente principio di diritto: “I compensi corrisposti a valere sui fondi strutturali e di investimento europei (SIE) in conformità con l’art. 15 del CCNL 01.04.1999 e con le norme del diritto nazionale e dell'Unione europea, per l’attuazione di progetti di valorizzazione della produttività individuale del personale regionale addetto alla gestione e al controllo dei fondi comunitari, selezionati dall’Autorità di gestione nel contesto degli accordi di partenariato al fine di migliorare la capacità di amministrazione e di utilizzazione dei predetti fondi, ai sensi degli artt. 5 e 59 del Reg. (UE) n. 1303/2013, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, a condizione che siano congruamente predeterminati nel loro ammontare e siano diretti ad incentivare l’impiego pertinente, effettivo e comprovabile di specifiche unità lavorative in mansioni suppletive rispetto all’attività istituzionale di competenza”. “Trattandosi di gestione vincolata, i compensi diretti ad incentivare la produttività ed il miglioramento dei servizi saranno riconosciuti nella misura dell’effettivo concorso dei Fondi SIE”.
Ne consegue, pertanto, l’esclusione dal limite del fondo per il trattamento accessorio del personale anche con riferimento agli incentivi finanziati con risorse comunitarie, fermo restando il divieto espressamente previsto dall’art. 113, comma 4, relativo alla quota del venti per cento del fondo di cui al comma 2, “destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli.(…)”
In tal caso, infatti, viene meno la correlazione tra risorsa comunitaria e vincolo di destinazione richiesta dalla disciplina dei fondi europei.
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Con la nota in epigrafe, il sindaco del comune di Gangi (PA) ha chiesto un parere articolato in due quesiti:
  
l’uno relativo alla possibilità di conferire a tecnici esterni all’ente incarichi di supporto alla progettazione definitiva, laddove quest’ultima venga affidata a personale interno;
  
l’altro, relativo alla disciplina degli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 50 del 2016, anche con riferimento alle opere finanziate con fondi europei.
...
In ordine al primo quesito, la Sezione di controllo osserva che l’art. 23 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, che reca la disciplina dei diversi livelli di progettazione e dei compiti del progettista, al comma 5, n. 3, recita: “Nella seconda fase di elaborazione, ovvero nell'unica fase, qualora non sia redatto in due fasi, il progettista incaricato sviluppa, nel rispetto dei contenuti del documento di indirizzo alla progettazione e secondo le modalità indicate dal decreto di cui al comma 3, tutte le indagini e gli studi necessari per la definizione degli aspetti di cui al comma 1, nonché elaborati grafici per l'individuazione delle caratteristiche dimensionali, volumetriche, tipologiche, funzionali e tecnologiche dei lavori da realizzare e le relative stime economiche, ivi compresa la scelta in merito alla possibile suddivisione in lotti funzionali. Il progetto di fattibilità deve consentire, ove necessario, l'avvio della procedura espropriativa”.
Nessuna figura di “supporto” o consulenza specialistica è prevista con riferimento all’attività di progettazione e ciò in forza del principio generale -alla base della regolamentazione del Codice degli appalti- secondo cui la responsabilità della progettazione deve potersi ricondurre ad un unico centro decisionale, ossia il progettista, individuato quale tecnico qualificato e dotato della professionalità necessaria per l’espletamento del servizio richiesto.
In tal senso si è espressa anche l’ANAC nelle linee guida sui servizi di ingegneria e architettura emanate in data 07.07.2017, laddove ha ribadito che
la “consulenza” di ausilio alla progettazione di opere pubbliche continua a non essere contemplata dal Codice che, invero, prevede siffatta attività di supporto solamente in ausilio del R.U.P. (art. 31 l. cit., commi 6-11), specialmente in quei casi in cui la figura dirigenziale incaricata di detta responsabilità non disponga delle adeguate competenze tecniche.
Il “supporto alla progettazione”, invece, è costituito da un insieme di attività meramente strumentali alla progettazione (indagini geologiche, geotecniche e sismiche, sondaggi, rilievi, misurazioni e picchettazioni, predisposizione di elaborati specialistici e di dettaglio, redazione grafica di elaborati progettuali) che devono ricondursi ai compiti e alla responsabilità del progettista tanto nell’ipotesi di tecnico esterno all’ente che di dipendente incaricato della progettazione.
In ordine alla specifica problematica sollevata dal sindaco del comune di Ganci, relativa alla eventualità che il comune non disponga di adeguate attrezzature tecniche in grado da consentire al tecnico qualificato di poter espletare l’incarico di progettista, il Collegio osserva che
è compito dell’Ente dotare il proprio ufficio tecnico di tutto quanto necessario per lo svolgimento delle normali funzioni istituzionali dei tecnici in servizio, all’uopo utilizzando anche la quota del 20 per cento del fondo per gli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 4, del citato Codice, destinato proprio “all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l’edilizia e le infrastrutture (…)”.
Pertanto, alla luce del vigente quadro normativo,
la Sezione ritiene che l’attività di consulenza o supporto alla progettazione debba ritenersi preclusa alle amministrazioni pubbliche e, in tal senso, esprime parere negativo in ordine al primo dei quesiti proposti.
Il secondo quesito attiene alla contabilizzazione degli oneri finanziari per gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113 l. cit., alla luce della novella normativa recata dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, che vi ha introdotto il comma 5-bis; in particolare, si chiede se dette spese possano essere escluse dal tetto di spesa previsto per i compensi del personale previsti dall’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75 del 2017 e se detta disciplina possa essere applicata anche alle opere finanziate con fondi europei.
Il Collegio precisa che la pronuncia sulla richiesta di parere, avanzata dal sindaco in data 14.02.2018, all’adunanza del 13.03.2018 è stata rinviata all’esito della questione di massima sollevata dalla sezione regionale di controllo per la Regione Puglia con parere 09.02.2018 n. 18
e dalla sezione regionale di controllo per la Lombardia con deliberazione 16.02.2018 n. 40, a seguito dell’entrata in vigore della disposizione di cui all’art. 1, comma 526, della legge 27.12.2017, n. 205 che, innovando rispetto alla previgente disciplina, ha previsto che tali incentivi “fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
La Sezione delle autonomie, adita in sede nomofilattica ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.12.2012, n. 213, con
deliberazione 26.04.2018 n. 6 ha enunciato il seguente principio di diritto: “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75 del 2017”.
Il Collegio, pertanto, con riferimento al secondo quesito, richiama la sopra citata deliberazione.
In relazione ai lavori finanziati con risorse comunitarie, la Sezione non ha motivo di discostarsi dall’orientamento espresso dalla Sezione delle autonomie con deliberazione 25.07.2017 n. 20, che ha enunciato il seguente principio di diritto: “
I compensi corrisposti a valere sui fondi strutturali e di investimento europei (SIE) in conformità con l’art. 15 del CCNL 01.04.1999 e con le norme del diritto nazionale e dell'Unione europea, per l’attuazione di progetti di valorizzazione della produttività individuale del personale regionale addetto alla gestione e al controllo dei fondi comunitari, selezionati dall’Autorità di gestione nel contesto degli accordi di partenariato al fine di migliorare la capacità di amministrazione e di utilizzazione dei predetti fondi, ai sensi degli artt. 5 e 59 del Reg. (UE) n. 1303/2013, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, a condizione che siano congruamente predeterminati nel loro ammontare e siano diretti ad incentivare l’impiego pertinente, effettivo e comprovabile di specifiche unità lavorative in mansioni suppletive rispetto all’attività istituzionale di competenza”. “Trattandosi di gestione vincolata, i compensi diretti ad incentivare la produttività ed il miglioramento dei servizi saranno riconosciuti nella misura dell’effettivo concorso dei Fondi SIE”.
Ne consegue, pertanto, l’esclusione dal limite del fondo per il trattamento accessorio del personale anche con riferimento agli incentivi finanziati con risorse comunitarie, fermo restando il divieto espressamente previsto dall’art. 113, comma 4, relativo alla quota del venti per cento del fondo di cui al comma 2, “destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli.(…)
In tal caso, infatti, viene meno la correlazione tra risorsa comunitaria e vincolo di destinazione richiesta dalla disciplina dei fondi europei
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 23.10.2018 n. 181).

...nonché qualche spunto interessante circa la corretta redazione del regolamento comunale disciplinante l'incentivo:

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: OGGETTO: Ministero della giustizia - Ufficio legislativo. Schema di regolamento concernente norme per la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche ai sensi dell'art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Consiglio di Stato, Sez. consultiva, parere 11.10.2018 n. 2324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Premesso:
Con nota n. prot. n. 7598 del 04.09.2018 il Ministero della Giustizia ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento, in oggetto indicato, da adottarsi in attuazione dell’articolo 113, comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante il “Codice dei contratti pubblici”.
Riferisce il Ministero proponente che lo schema di decreto reca, per il Ministero della giustizia, il regolamento concernente la ripartizione dell'incentivo per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche di cui all'articolo 113, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Evidenza il Ministero riferente che la disposizione anzidetta introduce delle rilevanti novità rispetto alla previgente normativa, in quanto il compenso incentivante riguarda l'espletamento di attività non più legate alla progettazione, come avveniva nel vigore dell'abrogato decreto legislativo 12.04.2006 n. 163 (articoli 92 e 93), ed è espressamente riconosciuto in relazione, oltre che alle opere ed ai lavori, anche ai contratti di servizi e forniture.
L’Amministrazione sottolinea altresì la ulteriore novità procedurale contenuta nella norma primaria del 2016, rispetto a quella del 2006, poiché la norma del previgente codice dei contratti pubblici (art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006) attribuiva al regolamento una funzione di recepimento dei criteri e delle modalità di riparto definiti in sede di contrattazione collettiva (“... le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione”), mentre la nuova norma assegna al regolamento una funzione antecedente di indirizzo della fonte contrattuale, che si colloca, nel sistema odierno, “a valle” e non più “a monte” del regolamento (l’art. 113, comma 3, del codice del 2016 prevede difatti che la ripartizione avviene “con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”).
Lo schema di regolamento consta di dieci articoli.
L'articolo 1 contiene le definizioni dei termini più ricorrenti nel provvedimento e ne definisce l'ambito di applicazione, prevedendo, in particolare, al comma 4, la costituzione, a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture, nell'ambito dei rispettivi quadri economici, di un apposito fondo, la cui misura è determinata dai successivi articoli 5, comma 1, e 6, comma 2, che non può in ogni caso superare il limite del due per cento degli importi posti a base di gara.
L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del Fondo è ripartito tra il personale del Ministero della giustizia, che, per ciascuna opera o lavoro, servizio o fornitura, è incaricato e svolge effettivamente le funzioni tecniche per le attività, anche in quota parte, elencate in maniera specifica nell'articolo 113, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Il comma 5 stabilisce che le attività incentivabili sono esclusivamente quelle stabilite dalla norma di rango primario (le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell'esecuzione dei contratti di servizi e forniture, di collaudo tecnico amministrativo o di certificato di regolare esecuzione, di verifica di conformità nei contratti di servizi e forniture, di collaudo statico).
Il restante 20 per cento del Fondo è invece destinato all'amministrazione in conformità a quanto previsto dall'articolo 113 del decreto legislativo predetto, comma 4, a norma del quale le anzidette residuali risorse, ad esclusione di quelle derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata, possono essere destinate all'acquisto, da parte dell'ente, di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione o essere in parte utilizzate per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici.
Il precedente comma 4 prevede inoltre che, nel caso in cui le risorse del Fondo derivino da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata, sia esclusa, come stabilito già dalla norma primaria, la destinazione del venti per cento ad impieghi dell’amministrazione e che in tal caso l’ammontare complessivo del fondo debba essere conseguentemente ridotto per corrispondere all’ottanta per cento attribuibile come incentivo si dipendenti.
L'articolo 2 individua i destinatari dell'incentivo, riconosciuto non solo ai dipendenti che svolgono le funzioni tecniche per le attività in precedenza indicate, ma anche ai dipendenti che collaborano direttamente al loro svolgimento.
E' in ogni caso escluso dalla ripartizione il personale con qualifica dirigenziale. I dipendenti sono individuati con provvedimento del Direttore generale o del dirigente preposto all'ufficio, i quali, oltre a designare il/i responsabile/i delle attività di cui all'articolo 1, comma 5, dello schema di regolamento in esame, individuano anche i relativi collaboratori.
Per la nomina del RUP, del direttore dei lavori e del direttore dell'esecuzione del contratto si applicano le disposizioni dettate all'uopo dal decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, in particolare gli articoli 31 e 101, che disciplinano modalità e tempi di nomina delle anzidette figure.
L'articolo 3 prevede le ipotesi di riduzione delle risorse finanziarie destinate alla ripartizione degli incentivi, legate agli incrementi, non giustificati, dei costi e dei tempi previsti dalla normativa vigente, dai contratti, dai provvedimenti emessi da dirigente della struttura nel conferimento degli incarichi per l'esecuzione delle attività oggetto di incentivo nonché dai provvedimenti emessi dal responsabile del procedimento.
In particolare i commi 3 e 4 indicano i criteri e le percentuali di riduzione rispettivamente per l'aumento ingiustificato dei costi e dei tempi, con esclusione delle ipotesi di incremento previste dagli articoli 106, comma 1, lettere a), b), c) ed e) e 107 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Analogamente non sono considerati i ritardi imputabili alla ditta soggetta a penale per ritardo. Il comma 5 prevede infine che l'importo corrispondente alle riduzioni di cui ai precedenti commi 3 e 4 incrementa la quota del fondo destinato all'amministrazione ai sensi dell'articolo 1, comma 6.
L'articolo 4 detta i criteri di liquidazione degli incentivi, stabilendo che la relativa corresponsione è disposta dal Direttore generale competente o dal dirigente eventualmente delegato a seguito di accertamento e riscontro positivo delle specifiche attività svolte dal soggetto avente diritto. Ai fini del relativo accertamento è previsto che siano tenute in considerazione la documentazione e la relazione prodotte dal responsabile del procedimento, il quale, tra i diversi compiti affidatigli, ha anche quello di curare il corretto e razionale svolgimento delle procedure ai sensi dell'articolo 31, comma 4, lettera c), del decreto legislativo n. 50 anzidetto.
Gli articoli 5 e 6 introducono una serie di disposizioni in tema di misura del Fondo, la cui percentuale è stabilita in relazione agli importi dei lavori o degli appalti di servizi e forniture nonché in tema di ripartizione delle risorse destinate agli incentivi per funzioni tecniche, con indicazione delle percentuali da attribuire tra i dipendenti in relazione all'attività o alle attività dagli stessi svolta/e.
L'articolo 7 contiene una previsione diretta a fornire al Direttore generale o al dirigente preposto all'ufficio criteri di massima per procedere alla ripartizione e alla suddivisione di ciascuna delle quote indicate negli articoli 5, comma 3 e 6, comma 4, ove nella ripartizione siano coinvolti più soggetti: in tal caso la ripartizione è effettuata sulla base del livello di responsabilità professionale connessa alla specifica prestazione svolta e al contributo apportato dai dipendenti coinvolti.
L'articolo 8, al comma 1, stabilisce i tempi, in relazione a ciascuna attività, in cui scatta il diritto al compenso incentivante. Il comma 2 fa salvo, nelle ipotesi di riduzione delle risorse finanziarie di cui all'articolo 1, comma 5, il diritto dell'amministrazione di effettuare un conguaglio e ripetere, a fine lavori, le somme che sono state corrisposte in eccedenza a titolo di incentivo per funzioni tecniche, ben potendo alcune somme essere erogate ben prima della fine dei lavori come stabilito dal comma precedente per le attività di cui alle lettere a) e c).
L'articolo 9 contiene una disposizione transitoria che, nel richiamare l'articolo 216 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, stabilisce che le disposizioni del regolamento, quando sono rispettate le condizioni di cui all'articolo 113 del medesimo decreto legislativo, si applicano alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente sono stati pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore dell'anzidetto decreto, nonché in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data suddetta, non sono ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
La norma transitoria è quindi finalizzata a consentire l'applicabilità, da parte dell'amministrazione, del regolamento alle ipotesi previste dall'articolo 216 del decreto legislativo n. 50 nel rispetto delle condizioni sancite dall'articolo 113 del medesimo decreto, vale a dire a consentire l'erogazione del compenso in relazione ad attività incentivabili svolte prima dell'emanazione del regolamento e ricandenti nell'ambito temporale dell'articolo 216 a condizione che il Fondo sia già stato costituito e le relative risorse siano già state accantonate.
L'articolo 10 reca la norma sull'entrata in vigore del decreto, fissata al trentesimo giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Considerato:
1. Il Ministero della Giustizia sottopone al parere di questo Consiglio lo schema di regolamento diretto a disciplinare la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche ai sensi dell'articolo 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Si tratta di uno dei primi casi applicativi dell’art. 113 del nuovo codice dei contratti pubblici del 2016, come modificato nel 2017 (constano, allo stato, quali unici precedenti, il regolamento adottato dalla Regione siciliana recante “Norme per la ripartizione degli incentivi da corrispondere al personale dell'Amministrazione regionale ai sensi dell'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recepito nella Regione Siciliana con legge regionale 12.07.2011, n. 12, come modificata dall'art. 24 della legge regionale 17.05.2016, n. 8”, su cui il CGARS si è espresso con parere n. 121/2018 reso nell’adunanza del 13.03.2018, spedito in data 16.03.2018, nonché l’ordinanza n. 57 del 04.07.2018 del Commissario straordinario per la ricostruzione delle zone colpite dal sisma del 2016, pubblicato nella G.U. n. 172 del 26.07.2018, che poggia però su una diversa e autonoma base giuridica, costituita dall’art. 2-bis del decreto-legge n. 148 del 2017, convertito, con modificazioni, nella legge n. 172 del 2017).
Lo schema di regolamento in esame, dunque, pur nella sua complessiva semplicità e sostanziale aderenza al dato normativo primario, riveste indubbiamente un considerevole rilievo, potendo costituire un primo esempio in vista della prossima adozione di analoghi atti da parte degli altri Ministeri e delle altre amministrazioni aggiudicatrici.
Considerazioni generali.
2. Sotto un primo profilo di carattere generale deve osservarsi che, pur nelle evidenti e già sopra rilevate novità del nuovo quadro normativo, rispetto a quello del previgente codice di settore del 2006 (artt. 92, comma 5, e 93, commi 7 ss., del d.lgs. n. 163 del 2006) -novità cui deve aggiungersi, oltre a quelle segnalate dal Ministero riferente, anche l’esclusione dei dirigenti dal beneficio del riparto, in ragione del principio di onnicomprensività della retribuzione composita loro riservata-, l’istituto della remunerazione incentivante del personale dipendente della stazione appaltante per le attività tecniche afferenti alla programmazione, alla progettazione, alla gestione delle procedure selettive e alla realizzazione e collaudo dell’opera, dei lavori e, nei casi previsti, anche degli appalti di servizi e di forniture, non risulta radicalmente mutato nelle sue linee portanti e nelle sue precipue finalità, sicché resta utile un attento raffronto con la normativa regolamentare previgente (nel caso del Ministero della Giustizia il d.m. 09.07.2008, n. 139, che aveva abrogato il precedente d.m. 20.04.2000, n. 134, recante il Regolamento recante norme per la ripartizione dell'incentivo economico di cui al comma 1 dell'articolo 18 della L. n. 109/1994 e successive modifiche ed integrazioni), rispetto alla quale sarebbe stato opportuno poter disporre di un’approfondita V.I.R. (valutazione dell’impatto della regolazione), così da poter trarre spunto dalle criticità pregresse incontrate nell’applicazione della normativa previgente per affinamenti, miglioramenti, indicazioni anche innovative da inserire nel nuovo testo regolamentare.
Se è vero che –in attuazione del criterio di delega contenuto nella lettera rr) dell’art. 1 della legge 28.01.2016, n. 11– si è esclusa l'applicazione degli incentivi alla progettazione, è vero che, nell’impostazione complessiva, l’istituto ha conservato le sue caratteristica essenziali.
A tale riguardo deve osservarsi che non si rinviene nella documentazione trasmessa (relazione illustrativa, relazione tecnica, AIR, ATN) un tale raffronto tra il regime anteriore e quello che verrà introdotto con il nuovo regolamento: sarebbe stato viceversa utile poter comprendere quali fossero state le eventualità criticità e lacune registrate nella pluriennale applicazione del regime odierno, basato sul codice del 2006, e se e in che misura la nuova disciplina se ne sia fatta carico e, se si, in quale modo intenderebbe farvi fronte.
Occorre pertanto che l’Amministrazione provveda a integrare sotto l’evidenziato profilo la documentazione qui trasmessa a corredo dello schema di regolamento.
3. Sempre sul piano di una prima osservazione di carattere generale, si deve rilevare che
lo schema proposto si sostanzia in larga parte di riproposizioni, spesso letterali, di disposizioni già contenute nella norma primaria.
Al riguardo questa Sezione ha in più occasioni criticato tale modus procedendi, evidenziando, tra l’altro, il rischio di incertezze applicative nel caso in cui la riproduzione testuale presenti anche lievi differenze rispetto al testo di rango legislativo, nonché di potenziale confusione nell’individuazione della disposizione applicabile nel caso in cui successive modifiche della norma primaria determinino un disallineamento dei testi.
D’altro canto non può non osservarsi, nel contempo, che, nel caso in esame, l’atto regolamentare previsto dalla norma primaria risulta “costretto” tra, da un lato, disposizioni del decreto legislativo già di per se stesse molto analitiche e in parte autoapplicative e, dall’altro lato, il rinvio che la stessa norma di livello primario opera “a valle” alla specificazione delle modalità e dei criteri di riparto da concordarsi nella sede (naturale, in materia di trattamento economico del personale) della contrattazione collettiva di settore.
Conseguentemente, una rigida applicazione del principio di disfavore per la ripetizione, nel testo regolamentare, di disposizioni già contenute nel testo di rango primario rischierebbe, nel caso concreto qui in esame, di “prosciugare” eccessivamente l’area di possibile svolgimento del testo regolamentare, che rischierebbe di risolversi in un mero rinvio alla contrattazione collettiva.
D’altro canto è pur vero che anche gli atti fonte che innovano l’ordinamento giuridico, sia pure di livello secondario, come i regolamenti, costituiscono dei testi giuridici, che devono come tali tendenzialmente possedere una loro propria compiutezza e complessiva “leggibilità”, al fine di una agevole comprensione ed efficace applicazione in sede amministrativa: a tal fine può presentare una sua utilità l’intrinseca completezza del testo regolamentare come strumento unitario e autosufficiente di guida all’operatore pratico.
In quest’ottica può rivelarsi in definitiva utile inglobare nel testo regolamentare termini, nozioni, definizioni e disposizioni già contenuti nella norma di rango primario, ma è bene che ciò avvenga con formule lessicali che privilegino il rinvio esplicito alla legge o all’atto di livello legislativo ed evitino ogni ambiguità riguardo alla corretta gerarchia delle fonti.

4. Riprendendo l’osservazione già anticipata supra,
la novità procedurale che caratterizza la norma del 2016 rispetto a quella del 2006, consistente nell’inversione del rapporto con la fonte di contrattazione collettiva, che, nel quadro normativo vigente, segue il regolamento come suo sviluppo specificativo di dettaglio anziché precederlo, imporrebbe un maggiore dettaglio precisante riguardo all’adempimento “Sentite le organizzazioni sindacali di settore” solo genericamente richiamato nella premessa.
Sotto un diverso, ma connesso profilo, il testo regolamentare proposto non sembra lasciare adeguato spazio, “a valle”, alla contrattazione sindacale, in particolare lì dove, ad esempio, negli articoli 5, 6 e 7, in tema di criteri di calcolo e di ripartizione del compenso ai soggetti aventi diritto, introduce disposizioni molto analitiche e ne demanda l’attuazione al dirigente competente per l’appalto, non prefigurando spazi di intervento per la contrattazione collettiva, che, invece, proprio in questo segmento della disciplina potrebbe rinvenire un suo spazio appropriato di esplicazione.
Alla pag. 5 dell’A.I.R., l’Amministrazione riferisce, nella sezione 5, che «Occorrerà poi adottare apposite determinazioni per specificare quanto disposto dalle nuove disposizioni del regolamento e dunque per definire concretamente modalità di accertamento per la liquidazione dell’incentivo, il criterio di calcolo e ripartizione dello stesso, la manutenzione del riconoscimento del diritto al compenso».
Sembra, in realtà, che i richiamati articoli da 5 a 7 del presente schema di regolamento esauriscano gli spazi di disciplina dei profili ora detti, lasciando a livello applicativo margini di intervento di tipo meramente provvedimentale, demandato dunque agli atti dirigenziali di gestione del singolo affare, senza consentire aspetti di possibile intervento della contrattazione collettiva.
5.
Non sembra, infine, adeguatamente trattato –né nell’articolato, né nelle relazioni a corredo dello schema di decreto– il tema posto dal penultimo periodo del comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo, riguardo ai casi in cui l’amministrazione costituisca o si avvalga di una centrale di committenza, ipotesi nella quale evidentemente occorre prevedere una disciplina particolare, che tenga conto del ruolo della centrale di committenza e dei suoi dipendenti.
Occorrerà a tal riguardo che, almeno nella relazione illustrativa e in quella tecnica, si dia conto di eventuali rapporti in corso con centrali di committenza per attività di programmazione, progettazione, gestione delle gare e per altre attività tecniche ausiliare in materia di forniture di lavori, beni, servizi, che possano incidere sulla disciplina oggetto del presente regolamento.
Osservazioni relative all’articolato.
6. Premesse.
Non si comprende il richiamo, nel secondo “visto”, della legge 15.12.1990, n. 395, recante "Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria”: tale legge non risulta altrove richiamata nel testo dell’articolato e non si evince, dunque, la ragione di tale richiamo, che andrebbe conseguentemente espunto.
L’Amministrazione ha probabilmente qui riprodotto il primo “visto” del d.m. n. 139 del 1998, che era riferito all’art. 35 (Edilizia penitenziaria. Personale e relative attribuzioni) della legge n. 359 del 1990, che interveniva sulla dotazione organica del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per far fronte alle esigenze di edilizia penitenziaria, per lo svolgimento di compiti inerenti le attività tecniche e amministrative di cui trattasi.
La norma del 1990, tuttavia, non reca specifiche previsioni in tema di attribuzione e riparto di incentivi, sicché non risulta necessario il suo richiamo, se non sotto il profilo puramente descrittivo, al fine di sottolineare la centralità dell’amministrazione penitenziaria nell’ambito del campo applicativo, per il Ministero della giustizia, degli istituti disciplinati dallo schema di decreto proposto. Ove l’Amministrazione dovesse comunque ritenere utile, in continuità del testo del 1998, mantenere questo richiamo, allora sarebbe preferibile riferirlo puntualmente al citato art. 35.
I “visti” quarto e sesto riguardano, rispettivamente, la legge di delega posta a base del codice dei contratti pubblici del 2016 e il decreto legislativo correttivo e integrativo del 2017. Tali richiami appaiono inutili, in quanto assorbiti nel richiamo del solo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, attuativo della delega e da intendersi “nel testo vigente”, ossia comprensivo delle modifiche successivamente intervenute (resta possibile, anche se non necessario, il ricorso alla formula standardizzata “e successive modificazioni”). Come già anticipato nel paragrafo relativo alle “osservazioni generali”, andrebbe integrato e precisato il richiamo “Sentite le organizzazioni sindacali di settore”.
7. Articolo 1.
7.1 Comma 2. Definizioni. Come anticipato nella parte generale di questo parere, occorre prestare la massima attenzione nell’introdurre nel testo regolamentare mere riproduzioni della norma di rango primario. Conseguentemente, l’utilità perseguita dall’introduzione di tali definizioni, utilità sicuramente apprezzabile sul piano dell’autosufficienza e della completezza del testo regolamentare, deve conseguirsi, ove possibile, mediante un richiamo diretto della norma primaria.
Nel caso in esame, dunque, parrebbe possibile e preferibile sostituire all’elenco delle definizioni una disposizione di carattere generale del seguente tenore: “Ai fini del presente regolamento trovano applicazione le definizioni contenute nel decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”.
Questa formulazione più sintetica sembra essere anche più esaustiva, poiché consente di chiarire che tutti gli istituti (nella loro definizione e nel loro regime giuridico) propri del codice dei contratti pubblici trovano la loro fonte di disciplina in tale ultimo atto normativo, chiarendo, dunque, che il presente regolamento si inscrive logicamente e giuridicamente in quel sistema normativo, cui opera un costante rinvio anche dinamico.
La soluzione qui suggerita consente, ad esempio, di risolvere un dubbio applicativo che potrebbe altrimenti incontrarsi già nel successivo comma 3 dell’art. 1, dove si disciplina, con il criterio della prevalenza, il caso degli appalti misti: è chiaro, con la formulazione qui proposta, che la nozione di contratto misto e il criterio di definizione in concreto della prevalenza devono essere ricercati nel codice dei contratti pubblici e non altrove.
La diversa esigenza, avuta di mira, ad esempio, dalla lettera a) del comma 2 in esame, non già di introdurre una “definizione”, ma di consentire nel prosieguo del testo l’uso di locuzioni abbreviate per motivi di concisione, può essere soddisfatta con la formula tradizionale: “d’ora in avanti «decreto legislativo»”.
Andrà conseguentemente espunto dalla rubrica il termine “definizioni”.
7.2. Quanto all’ambito di applicazione, qui da intendersi in senso “oggettivo”, ossia relativo alla tipologia di contratti e di appalti in relazione ai quali verrebbe a operare l’incentivo di cui trattasi, occorre evidenziare che il CGARS, nel già menzionato parere 16.03.2018 n. 121, traendo spunto dalla previsione contenuta nel testo regolamentare proposto dalla Regione siciliana di esclusione dei lavori di manutenzione dall’ambito applicativo dell’incentivo, ha richiamato un orientamento (non costante) della Corte dei conti (Corte conti, sez. contr. Veneto, parere 12.05.2017 n. 338; Corte conti, sez. contr. Marche, parere 27.04.2017 n. 52; Corte conti, sez. contr. Umbria, parere 26.04.2017 n. 51; Corte conti, sez. contr. Puglia, parere 24.01.2017 n. 5
) nel senso della negazione dell’incentivo anche nei casi di manutenzione straordinaria e ha lasciato dunque alla valutazione regionale la scelta se estendere l’esclusione anche a tale tipologia di lavori o se tacere del tutto sul punto, così rinviando all’assestamento della giurisprudenza e delle pronunce degli Organi di controllo contabile.
Il regolamento all’odierno esame di questo Consiglio, nell’operare un rinvio, per la definizione di “lavori”, alle attività come definite dalla lettera nn) del comma 1 dell’art. 3 del codice dei contratti, mostra di voler invece senz’altro includere, nell’ambito applicativo dell’incentivo, anche i meri lavori di manutenzione.
Ora,
se è vero che i lavori di manutenzione, anche ordinaria, rientrano nella suddetta nozione di “lavori” contenuta nell’art. 3 del codice di settore, sicché non sussisterebbe un impedimento formale nella lettera della legge a tale inclusione, è altrettanto vero che i lavori (puntuali) di manutenzione ordinaria (che non si collochino entro un più ampio quadro di global service e di facility management) non sembrano giustificare “attività tecniche” del tipo preso in considerazione dall’art. 113 del codice dei contratti tali da consentire l’applicazione degli incentivi.
Occorre dunque che l’Amministrazione fornisca, nel rispondere al presente parere interlocutorio, adeguate precisazioni al riguardo.
7.3. Comma 3. Rispetto al testo proposto –“disposizioni relative all’oggetto principale cui è destinato l’appalto”-, appare da preferire, anche perché più chiara e precisa, la formulazione adoperata al riguardo dal codice dei contratti pubblici, nell’art. 28, comma 1: “disposizioni (relative) al tipo di appalto che caratterizza l'oggetto principale del contratto in questione”.
7.4. Comma 4. Non risulta perspicua la disposizione contenuta nel secondo periodo: “Nel caso in cui le risorse del Fondo derivano da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata, il Fondo medesimo è ridotto ad una misura pari all'80% di quanto stabilito dai precedenti articoli 5, comma 1, e 6, comma 2, ed è integralmente destinato a soddisfare le esigenze di cui al quinto comma”.
Si intendeva evidentemente dare attuazione alla previsione all’esclusione, prevista dal comma dell’art. 113 del decreto legislativo, dell’impiego del restante 20 per cento del fondo per acquisti e servizi dell’amministrazione, come definiti dal medesimo 4, nel caso in cui si tratti di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata.
In tal caso, evidentemente, l’Amministrazione ritiene che il fondo non debba essere distribuito tra il personale dipendente nel suo ammontare totale (cento per cento), ma debba subire una decurtazione pari al venti per cento non assegnabile agli impieghi diretti dell’amministrazione.
Sembra dunque preferibile, a tal fine, per una maggiore chiarezza del testo, collocare tale previsione non già nell’articolo 1 sull’ambito applicativo, ma nell’art. 5, riguardante la “Misura del fondo”, dove potrebbe essere utilmente collocata in un apposito comma inserito dopo il comma 1, del seguente tenore: “
Nel caso in cui le risorse derivino da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata, il Fondo, come costituito ai sensi dell’articolo 1, comma 4, è ridotto del venti per cento ed è integralmente destinato a soddisfare le esigenze di cui al comma 5 del predetto articolo 1” (in tal modo si supera anche l’erroneo richiamo ai “precedenti articoli 5, comma 1, e 6, comma 2”, che sono evidentemente “successivi”).
Andrà conseguentemente soppresso il secondo periodo del comma 4 dell’art. 1.
8. Articolo 2.
8.1. Comma 1. Si suggerisce di evitare l’uso dell’ausiliare “possono” (percepire): trattandosi di diritti soggettivi dei dipendenti legati esclusivamente all’accertamento vincolato della sussistenza dei presupposti di legge e di regolamento, senza spazio per valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, risulta preferibile l’uso della locuzione “Percepiscono”.
8.2. Comma 2. Il comma in esame, così come formulato e collocato nel contesto complessivo del regolamento, sembra “ridurre” il diritto dei collaboratori ad un rango “subordinato” o “accessorio”, in qualche modo “minore”, il che non pare giustificabile, in considerazione della pari tutela del diritto soggettivo pure spettante a tali dipendenti, nella previsione stessa della norma primaria. Si suggerisce, pertanto, di eliminare l’avverbio “anche”.
8.3. Comma 3. Valuti l’amministrazione l’opportunità di specificare meglio il criterio di individuazione del Direttore generale (o del dirigente preposto all'ufficio) cui compete l’individuazione dei dipendenti destinatari dell’incentivo, eventualmente legandolo alla competenza ad adottare la delibera a contrattare e alla gestione del connesso centro di responsabilità amministrativa e di spesa.
8.4. Comma 4. Per migliore sintesi nella formulazione del testo, appare preferibile “spostare” questa disposizione all’interno del comma 1 dell’art. 2, inserendovi l’inciso “ad eccezione dei dirigenti”.
9. Articolo 3.
9.1. Comma 1. Il comma 1 –che è riferito all’appostazione contabile delle risorse finanziarie destinate agli incentivi e non alla riduzione di esse, che è invece l’oggetto dell’art. 3 in esame– sembra da collocare più coerentemente nel comma 4 dell’art. 1, dove si definisce il modo di costituzione del fondo e la sua consistenza. Conseguentemente occorre espungere dal testo del comma 2 il participio “anzidette”.
9.2. Nel complesso dell’art. 3 in esame, nei commi 2 e 4, le riduzioni delle risorse finanziarie del fondo per incrementi di costi e di tempi operano, nella formulazione del testo dei commi in esame, se i detti incrementi siano “ingiustificati”. Tale generale previsione, che introduce evidentemente una discrezionalità valutativa in capo all’amministrazione, non risulta presente nel testo della norma primaria (art. 113, comma 3, terzo periodo), che fa riferimento esclusivamente a “eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto”.
Orbene, mentre non v’è dubbio sul fatto che rientrano tra i tempi e i costi “conformi al presente decreto” (ossia al decreto legislativo n. 50 del 2016) anche quelli stabiliti “dai contratti, dai provvedimenti emessi dal dirigente della struttura nel conferimento degli incarichi per l'esecuzione delle attività di cui successivi articoli 5 e 6 e dai provvedimenti emessi dal responsabile del procedimento”, come esplicitato dal comma 2 dello schema di regolamento, l’aggiunta dell’aggettivo qualificativo “non giustificati” appare ridondante e apre la strada a una possibile interpretazione ampliativa, tale da consentire all’amministrazione la discrezionale valutazione, caso per caso, al di là dei casi di ritardi nei tempi e di incrementi nei costi ammessi dal decreto legislativo, anche altre ipotesi “atipiche”.
Inoltre, tale sintetica formulazione non consente di risolvere e di chiarire adeguatamente un presupposto indefettibile della riducibilità dell’incentivo, ossia la imputabilità degli incrementi almeno a titolo di colpa ai dipendenti preposti alle attività tecniche.
L’esigenza che tutti questi aspetti siano adeguatamente puntualizzati e definiti potrebbe utilmente essere soddisfatta aprendo, in questa materia, un apposito spazio alla contrattazione collettiva, cui andrebbe demandata la definizione di criteri e modalità di accertamento di siffatti presupposti, la cui variabilità ed eterogeneità mal si presta, probabilmente, a una definizione in astratto e in generale nella sede regolamentare, la quale dovrebbe limitarsi a enunciare il criterio giuridico dell’addebitabilità dei ritardi e degli incrementi dei costi, almeno a titolo di colpa, al non regolare svolgimento di quelle attività tecniche cui si ricollega l’attribuzione degli incentivi della cui riduzione si tratta.
La fonte sindacale ben potrebbe, tra l’altro, prevedere anche momenti concertativi o di arbitraggio volti a dirimere eventuali controversie su tali profili.
9.3. Comma 3. Secondo periodo. La disposizione per cui “Nell'incremento dei costi non sono considerate le varianti ai sensi dell'articolo 106, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e), del decreto legislativo” appare anch’essa ridondante e, nell’introdurre una non utile specificazione ed esplicita menzione di alcuni (soltanto) dei casi di possibile incremento (dei tempi e dei costi) “conformi” al decreto legislativo, potrebbe indurre un’interpretazione errata nel senso di escludere altri casi, non menzionati nel regolamento, ma pure “conformi” al decreto legislativo.
L’art. 106 del codice dei contratti pubblici reca una complessa ed esaustiva disciplina della “Modifica di contratti durante il periodo di efficacia”, prevedendo analiticamente i diversi casi ammessi di modifica del contratto e di varianti, anche in corso d’opera. Non può escludersi che altre ipotesi di “modifica” (incrementale) dei tempi di esecuzione e dei costi complessivi siano disciplinate e ammesse dal codice del 2016 (e siano, dunque, ad esso “conformi”).
Rispetto a questa complessa disciplina –alla stregua della quale occorrerà valutare la conformità o la non conformità degli incrementi di tempo e di costo rispetto al decreto legislativo- appare preferibile, nel caso in cui l’amministrazione intenda espressamente escludere talune di tali fattispecie dal novero di quelle “conformi” (e, dunque, non implicanti riduzioni sugli incentivi), optare per una redazione del testo regolamentare “in negativo”, che, cioè, fermo il rinvio alla disciplina generale del codice di settore, eccettui motivatamente solo talune ipotesi, sempre che tale eccezione risulti adeguatamente motivata secondo criteri di razionalità, proporzionalità e ragionevolezza.
9.4. Comma 5. La previsione del comma 5, in base alla quale l'importo corrispondente alle riduzioni di cui ai commi 3 e 4 incrementa la quota del fondo (venti per cento) destinata a usi dell’amministrazione non sembra trovare una base autorizzativa idonea nella norma primaria. In mancanza di una norma di rango primario che disponga in tal senso si ritiene che tali riduzioni debbano andare in economia e non possano essere destinate a incrementate altre voci di spesa.
10. Articolo 4.
10.1. Comma 1. Al secondo rigo va espunto, in quanto inutile, l’avverbio “eventualmente” riferito alla delega del direttore generale: è implicito che la delega è solo eventuale.
10.2. Comma 3. Valuti l’amministrazione l’opportunità di esplicitare l’effettuazione di adeguate misure di controllo a campione sulle autocertificazioni del personale relative al rispetto del limite dell’importo complessivo annuo lordo degli incentivi percepiti nel corso dell'anno anche da altre amministrazioni non superiore al 50 per cento del trattamento economico. Appare poi utile aggiungere un periodo diretto a recepire la nota giurisprudenza della Corte dei conti (Sezione delle Autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6) in tema di non assoggettabilità di tali emolumenti al tetto imposto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
10.3. Comma 5. Valgono per questa previsione le osservazioni già svolte supra a proposito del comma 5 dell’articolo 3 circa la mancanza di autorizzazione di legge allo storno, qui previsto, a favore della quota del venti per cento dell’amministrazione, delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione, ovvero svolte da personale escluso dall'incentivo ovvero relative ad attività per cui non è intervenuto accertamento positivo ai sensi del comma 1, nonché le quote eccedenti i limiti fissati dalla normativa vigente in materia di trattamento economico.
11. Articoli 5, 6, 7.
11.1. Riguardo alla “misura del Fondo”, pur trattandosi, nel limite del due per cento stabilito dalla legge, di scelta di merito rimessa alla valutazione dell’Amministrazione, appare necessario che siano meglio esplicitati e motivati, nelle relazioni a corredo del provvedimento, i criteri seguiti nella determinazione delle diverse misure prescelte in rapporto agli importi dei lavori (e dei servizi e forniture), avendo cura anche di chiarire se vi sono stati scostamenti sostanziali rispetto al sistema previgente e se tali misure siano congrue anche alla stregua di un comune parametro di riferimento, che può utilmente orientare la scelta dell’Amministrazione, costituito dalle quote percentuali generalmente ammesse a fini analoghi nella disciplina europea dei finanziamenti o co-finanziamenti dell’Unione.
Si rammenta poi quanto indicato sub par. 7 a proposito dell’art. 1, comma 4, dove si è suggerito di collocare la previsione ivi contenuta e relativa al caso in cui siano coinvolti fondi vincolati, nel secondo periodo del detto comma 4 in un apposito comma seguente il comma 1 dell’art. 5.
I successivi commi stabiliscono le quote percentuali di riparto del fondo tra i dipendenti che ne hanno diritto, indicando, per ciascuna tipologia di attività, una percentuale del fondo. La norma reca poi anche una quota di riserva per i collaboratori. Nell’art. 7 si demanda, quindi, al dirigente competente la ripartizione della percentuale del fondo corrispondente a ciascuna categoria di attività tra i soggetti aventi diritto che a quella tipologia di attività hanno partecipato.
In tal modo non residua alcuno spazio di determinazione delle modalità e dei criteri di riparto del Fondo per la sede della contrattazione decentrata integrativa del personale, che pure costituisce, come chiarito nella premessa generale, l’atto-fonte proprio indicato dalla norma primaria (comma 3 dell’art. 113) per la articolazione di dettaglio di tali criteri e modalità “sulla base di apposito regolamento”.
Il regolamento, dunque, in linea, del resto, con la sua natura di atto-fonte introduttivo di norme giuridiche e non di mere regole tecniche di calcolo, dovrebbe limitarsi a stabilire il criterio generale di indirizzo e orientamento per la successiva articolazione di dettaglio delle modalità e dei criteri al livello della contrattazione collettiva.
La Sezione comprende le ragioni pratiche, verosimilmente condivise dalla stessa rappresentanza sindacale (ma sul punto le relazioni illustrative non forniscono elementi di conoscenza utili), che consiglierebbero l’esaustività della disciplina regolamentare, per evitare, a livello applicativo, incertezze operative, eterogeneità di comportamenti, possibili disparità di trattamento, eventuali contenziosi.
È altresì noto che il modo di procedere dello schema di regolamento qui in esame ripercorre il modello dei precedenti regolamenti assunti sotto il previgente regime giuridico. Nondimeno non può giudicarsi legittima una scelta interpretativa che sostanzialmente vanifica e abroga la scelta del legislatore del 2016, scelta chiara, ancorché per certi versi opinabile o non condivisibile, di superare il precedente modello, che faceva rifluire nel regolamento la disciplina completa dell’istituto in recepimento della contrattazione, e che impone un nuovo modello, per cui il regolamento precede la contrattazione e la orienta.
Una soluzione alla problematica qui segnalata potrebbe consistere nell’eliminare l’elenco tipologico delle categorie di attività, con annessa quota percentuale, sostituendo tali previsioni di dettaglio con un enunciato normativo di carattere generale, volto a stabilire il criterio della rispondenza delle quote percentuali rispetto al ruolo e alla rilevanza, nonché alla difficoltà tecnico-amministrativa di ciascuna delle categorie tipologiche, anche in relazione alle specificità del singolo appalto, mantenendo un complessivo equilibrio di proporzionalità nella suddivisione in quote.
La norma regolamentare, quindi, potrebbe procedimentalizzare in qualche modo la successiva specificazione di dettaglio a livello di contrattazione decentrata, anche prevedendo, come già suggerito a proposito dell’art. 3, in tema di riduzione del fondo, luoghi e momenti di concertazione e di arbitraggio consensuale di eventuali controversie.
In questo quadro il potere del dirigente di suddivisione di ciascuna quota tra i soggetti aventi diritto potrebbe essere conservato, ma come atto sostanzialmente vincolato all’applicazione dei criteri dettagliati in sede contrattuale, non esclusa, al limite, una residua area di valutazione discrezionale sul “contributo in concreto apportato dai dipendenti coinvolti nella ripartizione”.
11.2. Più nel dettaglio, si deve segnalare il dubbio sulla possibilità –ammessa nella attuale formulazione della lettera g) del comma 3 dell’art. 5– di riconoscere l’incentivo anche per il caso di certificazione di regolare esecuzione, in luogo del collaudo tecnico-amministrativo. Tale possibilità è stata revocata in dubbio nel già ricordato parere 16.03.2018 n. 121 del CGARS, relativo allo schema di regolamento regionale, nei seguenti termini (par. 17.8): “Il comma 13 prevede l’incentivo, oltre che in caso di collaudo o verifica di conformità, anche nel caso in cui sia previsto in sostituzione il certificato di regolare esecuzione. Si osserva che l’art. 113 del codice è di stretta interpretazione e contempla tra le attività incentivate solo il collaudo e la verifica di conformità, e non anche i casi di modalità semplificate, vale a dire il certificato di regolare esecuzione. Tale ultima attività non forma oggetto di incentivazione e, pertanto, il comma 13 deve essere espunto”.
11.3. Si segnala, in ogni caso, anche in vista della definizione degli accordi sindacali integrativi decentrati, che la lettera h) dell’elenco del comma 3 dell’art. 5 e la lettera g) del comma 4 dell’art. 6 appaiono “spurie”, sul piano logico, rispetto all’elenco in cui si inseriscono, poiché seguono un criterio “soggettivo” (la considerazione dei soggetti coinvolti, i collaboratori) in luogo del criterio “oggettivo” di riparto del fondo in quote percentuali relative alle singole tipologie di attività tecniche.
Sarebbe pertanto più corretto collocare questa previsione in una disposizione a sé stante (un autonomo comma o un autonomo periodo), anziché in un’ulteriore classe tipologica che si aggiunge a quelle (riferite in realtà all’oggetto, ossia al tipo di attività svolta) elencate nei commi 3 e 4 in esame (la previsione potrebbe essere del seguente tenore: “Ai dipendenti che collaborano direttamente nello svolgimento delle funzioni di cui al comma 3, esclusi quelli specificamente rientranti nell'ufficio di direzione dei lavori, spetta una quota non superiore al X% -eventualmente 10%- di quella prevista per la relativa tipologia di attività tra quelle indicate nel predetto comma 3. L'importo percepito dal singolo collaboratore non può essere superiore al 70% dell'importo percepito dal responsabile delle attività di cui alle lettere precedenti”).
Questa diversa formulazione appare anche più efficace sul piano dell’applicazione pratica, poiché essa implica non già una riserva percentuale sull’intero fondo (dieci per cento, nel testo proposto) in favore dei collaboratori, indipendentemente del settore di attività in cui hanno operato, ma consente più razionalmente una riserva (se del caso, nella stessa percentuale del dieci per cento) a favore dei collaboratori all’interno di ciascuna voce percentuale di attività, tra quelle elencate nel comma 3.
12. Articolo 9.
Suscita perplessità la scelta, non adeguatamente motivata nelle relazioni illustrativa e tecnica, di anticipare l’applicabilità della nuova disciplina recata dal regolamento in esame già agli appalti banditi dopo l’entrata in vigore del codice dei contratti pubblici, ossia a procedure nate (in sostanza) nella seconda metà del 2016. Si introduce una sorta di retroattività della nuova disciplina, che non trova in realtà riscontro nel pure invocato articolo 216 del decreto legislativo, che ha invece previsto una generale continuità applicativa degli atti regolamentari adottati in base al d.lgs. n. 163 del 2006.
L’amministrazione giustifica questa scelta sostenendo che essa mira «a consentire l'erogazione del compenso in relazione ad attività incentivabili svolte prima dell'emanazione del regolamento e ricadenti nell'ambito temporale dell'articolo 216 a condizione che il Fondo sia già stato costituito e le relative risorse siano già state accantonate».
La Sezione ben conosce l’ampio dibattito che si è innestato, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice, sul tema se fosse o meno possibile applicare il nuovo regime alle procedure di appalto avviate dopo l’entrata in vigore del codice stesso, pur in mancanza dei (non ancora adottati) regolamento e accordi sindacali in sede decentrata (cfr. Corte conti, sez. contr. Piemonte, parere 09.10.2017 n. 177: “in materia d'incentivi per funzioni svolte dai dipendenti tecnici … i regolamenti attuativi adottati dall'ente non possono avere effetti retroattivi e la loro adozione è necessaria per distribuire gli incentivi fra i dipendenti tecnici. Se, tuttavia, l'ente ha provveduto ad accantonare le risorse economiche sulla base della norma di legge, è possibile con regolamento disciplinare la distribuzione delle risorse anche in relazione ad attività incentivabili svolte prima dell'emanazione del regolamento purché sussista uniformità fra la disciplina normativa circa l'accantonamento e quella sulla distribuzione delle risorse”; l’ANAC, per parte sua, con il comunicato del Presidente 06.09.2017, recante “Chiarimenti in ordine all’applicabilità delle disposizioni normative in materia di incentivi per le funzioni tecniche”, sembra consentire che: “… le disposizioni di cui all’art. 113 del nuovo codice dei contratti si applicano alle attività incentivate svolte successivamente all’entrata in vigore del Codice”, anche se sulla base di contratti banditi secondo la previgente disciplina).
In linea con quanto suggerito nel ripetuto parere 16.03.2018 n. 121 del CGARS, si ritiene conclusivamente che occorrerà integrare l’art. 9 nei seguenti termini: “
Il presente regolamento trova applicazione per le attività riferibili a contratti le cui procedure di affidamento sono state avviate successivamente alla data di entrata in vigore del codice dei contratti pubblici, anche se avviate prima dell’entrata in vigore del presente regolamento, a condizione che le stazioni appaltanti abbiano già provveduto ad accantonare le risorse economiche nel rispetto dell’art. 113 del decreto legislativo”.
12. Articolo 10.
12.1. La previsione dell’entrata in vigore del regolamento il trentesimo giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale deroga inammissibilmente, in mancanza di idonea autorizzazione in tal senso nella norma primaria, al disposto dell’art. 10 delle preleggi, che definisce l’inizio dell'obbligatorietà delle leggi e dei regolamenti (Le leggi e i regolamenti divengono obbligatori nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia altrimenti disposto, dove tale ultimo inciso -salvo che sia altrimenti disposto– è interpretato di regola nel senso che tale diversa disposizione spetta a una fonte di pari forza innovativa dell’ordinamento giuridico: si vedano anche le analoghe considerazioni contenute nel par. 24.3 del parere 16.03.2018 n. 121 del CGARS).
12.2. Manca, infine, la –forse necessaria– previsione di espressa abrogazione del previgente d.m. 20.04.2000, n. 134, recante il Regolamento recante norme per la ripartizione dell'incentivo economico di cui al comma 1 dell'articolo 18 della L. n. 109/1994 e successive modifiche ed integrazioni (da notare che l’ora richiamato regolamento del 2008 conteneva, invece, correttamente, nell’art. 8, la previsione di abrogazione dell’antecedente decreto del Ministro della giustizia 20.04.2000, n. 134, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 25.05.2000).
13. In conclusione,
considerata la particolare rilevanza delle tematiche sollevate dallo schema di regolamento in esame, anche per le considerazioni svolte in premessa, viste le plurime integrazioni e modificazioni richieste, sia nel testo dell’articolato, sia riguardo alle relazioni amministrative e tecniche esplicative a corredo del documento, la Sezione ritiene di esprimersi in questa sede in via interlocutoria, riservandosi una finale e conclusiva valutazione sulla base di testi adeguatamente riformulati alla luce delle indicazioni contenute nel presente parere.
P.Q.M.
Pronunciando in via interlocutoria, rinvia al Ministero della giustizia per delle le integrazioni richieste e per l’acquisizione dei documenti e chiarimenti sopra specificati (Consiglio di Stato, Sez. consultiva, parere 11.10.2018 n. 2324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: OGGETTO: Assessorato regionale delle infrastrutture e della mobilità - Schema di “Regolamento recante norme per la ripartizione degli incentivi da corrispondere al personale dell'Amministrazione regionale ai sensi dell'art. 113 del decreto legislativo 18.07.2016, n. 50, recepito nella Regione Siciliana con legge regionale 12.07.2011, n. 12, come modificata dall'art. 24 della legge regionale 17.05.2016, n. 8” (CGARS, parere 16.03.2018 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Premesso e considerato
Gli atti trasmessi
1. Insieme alla sopra citata nota dell’Assessore delle infrastrutture e della mobilità (nel prosieguo: Assessore) è pervenuta alla sezione la seguente documentazione:
   - la nota intitolata “Promemoria per l’On. Assessore” (d’ora in poi: Promemoria);
   - la nota n. 58324 del 03.12.2014 della Segreteria Generale della Presidenza della Regione Siciliana;
   - il verbale di contrattazione sindacale del 25.09.2017;
   - lo schema di regolamento, nella versione già modificata a seguito della contrattazione decentrata integrativa tenutasi in data 25.09.2017;
   - e, infine, lo schema di decreto presidenziale di emanazione del regolamento.
Successivamente è stato trasmesso il parere, prot. n. 2025/328.04, del 26.01.2018, reso dall’Ufficio legislativo e legale (di seguito: ULL).
2. Nel promemoria, che può essere considerato alla stregua di una relazione di accompagnamento allo schema di decreto, si riferisce, tra l’altro, quanto segue.
Con l'art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 sono state fissate le modalità di costituzione e gestione del "fondo risorse finanziarie" per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici esclusivamente per lo svolgimento delle attività elencate nel comma 2 del medesimo articolo.
Già con la predetta nota n. 58324 del 03.12.2014, con riferimento al precedente assetto normativo di cui al d.lgs. 12.04.2006, n. 163, la Segreteria Generale della Presidenza della Regione aveva suggerito la predisposizione di un atto regolamentare unico per tutta l'Amministrazione regionale, i cui criteri potessero costituire linee guida per gli enti di cui all'art. 2 della l.r. 12.07.2011, n. 12 presenti nel territorio della Regione stessa.
Stante la natura del provvedimento, esso dovrebbe rivestire la forma di un regolamento regionale.
L’attività istruttoria compiuta
3. Lo schema di regolamento è stato predisposto sulla falsariga del precedente regolamento adottato ai sensi dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, emanato con decreto presidenziale 05.12.2016, n. 3, pubblicato nella G.U.R.S. n. 8 del 24.02.2017, ed è stato sottoposto al parere delle Organizzazioni sindacali, come previsto dal comma 3 dell'art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nella riunione del 25.09.2017.
Su detto schema di regolamento è stato acquisito il parere di competenza dell'ULL. L’ULL ha indicato alcune integrazioni o rettifiche da apportare al testo, recepite nella versione inviata a questo Consiglio.
Il contenuto dello schema di regolamento
4. Lo schema di regolamento si compone di 10 articoli, così rispettivamente rubricati: art. 1 (Ambito d'applicazione e definizione), art. 2 (Destinazione delle somme per gli incentivi), art. 3 (Costituzione e quantificazione delle somme degli incentivi per attività tecniche), art. 4 (Ulteriori spese tecniche da prevedere nei quadri economici), art. 5 (Personale partecipante alla ripartizione delle somme per gli incentivi - Procedure), art. 6 (Onorari, distribuzione e ripartizione delle somme per gli incentivi), art. 7 (Sostituzione delle figure professionali e amministrative), art. 8 (Termine per le prestazioni), art. 9 (Penalità), art. 10 (Disposizioni transitorie e finali). Completano il regolamento due allegati, “A” e “B”, dedicati rispettivamente agli appalti di lavori e a quelli di servizi e forniture.
Il quadro normativo di riferimento
5. Come sopra riferito, lo schema di regolamento è stato predisposto sulla base dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (d’ora innanzi anche: codice dei contratti pubblici o codice), rubricato “Incentivi per funzioni tecniche”, come corretto dal Comunicato del 15.07.2016, pubblicato nella G.U.R.I. 15.07.2016, n. 164 e, successivamente, modificato, nella parte qui d’interesse, dall'art. 76, comma 1, lett. a), b) e c), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (c.d. “correttivo”).
I primi tre commi del sunnominato art. 113 dispongono: “1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
”.
6. L’art. 24 della l.r. 17.05.2016, n. 8 (Disposizioni per favorire l'economia. Norme in materia di personale. Disposizioni varie.), rubricato “Modifiche alla legge regionale 12.07.2011, n. 12 per effetto dell'entrata in vigore del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”, ha, per l’appunto, modificato la l.r. n. 12/2011 (Disciplina dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Recepimento del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive modifiche ed integrazioni e del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 e successive modifiche ed integrazioni. Disposizioni in materia di organizzazione dell'Amministrazione regionale. Norme in materia di assegnazione di alloggi. Disposizioni per il ricovero di animali.).
Il suddetto art. 24, al comma 1, ha disposto che il comma 1 dell'art. 1 della l.r. n. 12/2011 fosse sostituito, a decorrere dal 24.05.2016 (ai sensi di quanto stabilito dall'art. 32, comma 1, della medesima legge), dal seguente: "1. A decorrere dall'entrata in vigore del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, si applicano nel territorio della Regione le disposizioni in esso contenute e le successive modifiche ed integrazioni nonché i relativi provvedimenti di attuazione, fatte comunque salve le diverse disposizioni introdotte dalla presente legge." E, al comma 4, che: “Tutti i riferimenti al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive modifiche ed integrazioni, contenuti nella legge regionale n. 12/2011 e nel D.P.Reg. 31.01.2012, n. 13, si intendono riferiti alle omologhe disposizioni previste dal decreto legislativo n. 50/2016 e dai relativi provvedimenti di attuazione.”.
A seguito della riportata novella l’art. 1 della l.r. n. 12/2011, quindi, attualmente prevede: “1. A decorrere dall'entrata in vigore del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, si applicano nel territorio della Regione le disposizioni in esso contenute e le successive modifiche ed integrazioni nonché i relativi provvedimenti di attuazione, fatte comunque salve le diverse disposizioni introdotte dalla presente legge.
2. I riferimenti al "Bollettino Ufficiale della Regione" e alla "Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana" contenuti nel decreto legislativo n. 163/2006 devono intendersi riferiti alla "Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana"; nel caso di riferimenti ad organi ed istituzioni statali deve farsi riferimento ai corrispondenti organi ed istituzioni regionali.
3. Sono fatti salvi l'articolo 3 della legge regionale 21.08.2007, n. 20, e l'articolo 7 della legge regionale 03.08.2010, n. 16
.”.
7. Deve ritenersi che le riferite fonti regionali abbiano effettuato un pieno rinvio mobile alla disciplina statale contenuta nel d.lgs. n. 50/2016 e alle successive modifiche ed integrazioni di esso, nonché ai relativi provvedimenti di attuazione, fatte salve solo le diverse disposizioni introdotte dalla l.r. n. 12/2011, la quale, tuttavia, non contiene norme derogatorie al predetto art. 113 del codice. Tale ultima disposizione deve dunque considerarsi il parametro legislativo di riferimento dello schema di regolamento in esame.
Evidenzia e rafforza il rinvio mobile alla disciplina statale il comma 4 dell’art. 1 dello schema in esame, secondo cui ogni richiamo al codice e successive modifiche e integrazioni si debba intendere implicitamente esteso alle correlate linee guida emanate dall'Autorità Nazionale Anticorruzione ed ai decreti ministeriali di attuazione.
8. Giova aggiungere, per completezza del quadro normativo, che sull’oggetto dello schema fu adottato in pregresso, come già anticipato, il d.P.Reg. 05.12.2016, n. 3, recante il “Regolamento recante norme per la ripartizione degli incentivi di cui all'art. 93, commi 7-bis e 7-ter, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recepito nella Regione siciliana con legge regionale 12.07.2011, n. 12”, in relazione al cui schema questa Sezione rese, nell’adunanza del 07.07.2015, il parere 02.09.2015 n. 770.
Osservazioni di carattere generale
9. Il Collegio ritiene che l’atto di cui allo schema in esame presenti tutti requisiti, formali e sostanziali, di un atto regolamentare.
Sul piano formale, è esplicita la lettera del comma 3 dell’art. 113 del codice che rinvia a un “regolamento”.
Sul versante sostanziale non è dubbio che il futuro provvedimento, una volta entrato in vigore, sarà provvisto del carattere dell’innovatività, sarà cioè idoneo a modificare l’ordinamento giuridico, attraverso l’introduzione di norme generali e astratte, in grado di creare obblighi in capo alle amministrazioni e correlative situazioni giuridiche soggettive di pretesa nella sfera giuridica dei destinatari delle incentivazioni. Da ciò consegue, pertanto, sul crinale procedimentale, che il provvedimento dovrà essere adottato dal Presidente della Regione Siciliana, previa deliberazione della Giunta, a seguito del parere obbligatorio (il presente) di questo Consiglio, per esser poi sottoposto al controllo della Corte dei conti, siccome previsto dall'art. 2, comma 1, lett. a), n. 1), del d.lgs. 06.05.1948, n. 655 (Istituzione di Sezioni della Corte dei conti per la Regione siciliana), come sostituito dall'art. 2 del d.lgs. 18.06.1999, n. 200, secondo cui la sezione regionale di controllo della Corte dei conti, esercita, tra l’altro il controllo di legittimità sui regolamenti emanati dal governo regionale.
10. Con riferimento alla documentazione istruttoria pervenuta si registra la mancanza della una relazione tecnico-finanziaria, della relazione di analisi di impatto della regolamentazione (AIR) e della relazione di analisi tecnico-normativa (ATN).
Dalla prima, nel caso di specie, può prescindersi dal momento che gli effetti economici, finanziari e contabili del provvedimento sono stati considerati e valutati ex ante dalla norma di rango primario attuata, dal momento che l’art. 113, commi 1 e 2, codice, ha stabilito che gli incentivi per le funzioni tecniche siano destinati a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
Sennonché, in linea generale, il vaglio consultivo, preventivo e obbligatorio, di questo Consiglio si estende a ogni aspetto della legittimità di uno schema di regolamento e, quindi, ferme restando le specifiche competenze della Corte dei conti, l’amministrazione richiedente il parere deve rappresentare anche le conseguenze economico-finanziarie di ogni intervento regolatorio, onde consentire alla Sezione una valutazione completa in relazione a ogni profilo di rilievo, anche tenuto conto di quanto stabilito dall’art. 97 Cost.
Altrettanto importanti sono le relazioni AIR e ATN: la prima -oltre a dar conto dell’istruttoria compiuta, anche tramite lo strumento delle consultazioni pubbliche- è diretta a stimare gli effetti attesi e gli obiettivi perseguiti con un atto normativo, una volta scartata la c.d. “opzione zero”; la seconda è volta ad offrire una panoramica di contesto costituzionale, unionale, normativo e giurisprudenziale. La fondamentale importanza dell’AIR, ai fini di un esercizio consapevole ed efficace della potestà normativa, è stata ampiamente approfondita nel parere della Sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato n. 1458/2017 e a quel parere si rinvia; l’ATN, di specifica utilità per l’esame delle questioni giuridiche intercettate dai nuovi interventi normativi e in grado di concorrere all’incremento del complessivo grado di certezza del diritto, assumerebbe un particolare valore nell’ambito dell’ordinamento giuridico siciliano, stante la peculiare e vasta autonomia che lo Statuto riconosce al Legislatore e al Regolatore regionali.
Si esprime, dunque, in questa sede l’auspicio che, in futuro, la Presidenza della Regione Siciliana e gli Assessorati proponenti, anche eventualmente avvalendosi dell’ULL, corredino le richieste di parere con le relazioni sunnominate, riservandosi la Sezione l’esercizio della potestà di interruzione del termine per l’espressione del parere nelle ipotesi in cui la mancata allegazione di dette relazioni dovesse dar luogo a gravi lacune istruttorie degli schemi trasmessi per il parere.
11. Con riferimento all’istruttoria compiuta, si osserva in via generale che nell’ambito applicativo del futuro regolamento risultano inclusi anche gli appalti relativi a beni culturali, nonché gli appalti di servizi e forniture, ossia l’atto normativo sembra destinato a trovare applicazione anche ad appalti rientranti nella competenza di Assessorati diversi da quello delle infrastrutture. Non è dato comprendere, tuttavia, sulla base della documentazione pervenuta (e anche a cagione della mancanza delle relazione AIR; v. supra) se nel corso dell’istruttoria siano stati coinvolti tutti gli Assessorati che potrebbero svolgere compiti di stazione appaltante e il cui personale svolga funzioni tecniche incentivate ai sensi del ridetto art. 113 del codice.
Nemmeno consta se vi sia stato l’interessamento della centrale unica di committenza regionale e dell’ufficio regionale di gara, il cui apporto istruttorio acquista rilevanza in considerazione delle regole di partecipazione all’incentivo di cui all’art. 113 del codice dei dipendenti delle centrali di committenza cui si rivolga una stazione appaltante.
La Sezione auspica, dunque, il coinvolgimento di detti Organi qualora sia mancato.
12. Più nello specifico, quale ulteriore osservazione di carattere generale, si segnala che la disciplina dell’incentivo dell’art. 113 del codice non è riferita solo agli appalti, ma più in generale ai contratti aventi ad oggetto lavori, servizi, forniture. Nell’ambito dello schema di regolamento, però, talora si fa riferimento ai contratti (v. l’art. 1, comma 2), più spesso ai soli appalti (v. l’art. 2, ultimo inciso; l’art. 3, commi 1 e 3; art. 10, comma 1). Per esigenze di uniformità e di coerenza con la fonte statale, occorre allora sostituire nell’intero testo le parole “appalti” e “appalto” con “contratti” e “contratto”.
13. Si rileva poi che gli allegati A e B, pur assolvendo a un’importante funzione al fine della distribuzione delle somme destinate agli incentivi, sono pressoché completamente ignorati dal testo regolamentare, fatta eccezione per una fugace menzione nel comma 3 dell’art. 6 (nella versione dello schema pervenuta alla Sezione). Ritiene, invece, il Collegio che essi meritino dignità normativa, in quanto essi integrano il disposto su richiamato e perché conferiscono compiutezza regolatoria alla disciplina. Si suggerisce, pertanto, di inserire nell’articolato una previsione che chiarisca che gli allegati sono parte integrante del regolamento.
14. Quale ultima osservazione di carattere generale, il Collegio rileva che l’art. 14, lett. p) e q), dello Statuto d’autonomia ha attribuito alla potestà legislativa esclusiva della Regione Siciliana le materie dell’ordinamento degli uffici e degli enti regionali e dello stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione. Tale richiamo si rende necessario onde chiarire che le previsioni estranee al perimetro contenutistico dello schema di regolamento, siccome delimitato dall’art. 113 del codice (v., infra, gli artt. 4, 5 e, in parte, 7 del testo inviato dall’Assessore), e talune soluzioni imposte dal medesimo dettato della fonte primaria dell’art. 113 del codice (non tutte riconducibili alla materia concorrenza e ordinamento civile, e almeno in parte riconducibili alla materia del trattamento economico dei pubblici impiegati: v., ad esempio, infra, in tema di collaborazioni o il tema dell’ambito soggettivo dell’art. 113 del codice, da cui sono esclusi i dirigenti e i progettisti) potranno essere eventualmente recuperate o riesaminate nell’ambito di un rinnovato esercizio di potestà normativa regionale, fatto salvo il rispetto delle competenze legislative esclusive spettanti allo Stato.
Osservazioni sui singoli articoli dello schema di regolamento
Art. 1
15. L’art. 1 individua la base legislativa (ossia il già citato art. 113, commi 2 e 3, del codice) e indica l’oggetto del regolamento nella fissazione delle modalità e dei criteri di ripartizione delle quote parti delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 dell'art. 113 del codice, previste dal comma 3 del medesimo articolo, prevedendo che esso si applichi al personale non dirigenziale in servizio presso l'Amministrazione regionale e, in conformità del comma 2 dell’art. 113 sunnominato, per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti della stessa esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Al fine di scongiurare il rischio di una elusione della normativa regolamentare il comma 3 dell’articolo in esame prevede, come già stabiliva l’art. 1, comma 3, del sunnominato d.P.Reg. n. 3/2016, che ogni autorizzazione eventualmente rilasciata al personale regionale al fine di rendere prestazioni su incarico di altre stazioni appaltanti o enti pubblici deve essere subordinata all’applicazione dei criteri che saranno stabiliti dal futuro regolamento.
15.1. Dal punto di vista redazionale, considerato il contenuto della disposizione, appare preferibile eliminare dalla rubrica le parole “e definizione”.
15.2. Posto che l’art. 1 è dedicato alla perimetrazione dell’ambito di applicazione del regolamento, si ravvisa la necessità logica di ricondurre alla previsione alcune disposizioni ora inserite in altri articoli e, segnatamente, negli artt. 3 e 10 dello schema in oggetto.
15.3. Anzitutto, nel comma 1, va precisato l’ambito di applicazione come ora definito nell’art. 10, comma 1, dello schema (che, al contempo, delinea l’ambito di applicazione e il regime transitorio), prevedendo che il regolamento riguarda i contratti nei settori ordinari e dei beni culturali. Conseguentemente, in conformità all’osservazione di carattere generale sopra svolta, la parola “appalti”, attualmente contenuta nel comma 1 dell’art. 10 e da spostare nel comma 1 dell’art. 1, va sostituita con “contratti”. Per l’effetto nell’art. 1, comma 1, vanno aggiunte infine, dopo le parole “2016, n. 8”, le parole “e disciplina i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, nei settori ordinari, ivi inclusi quelli relativi ai beni culturali, affidati dalla Regione Siciliana”.
15.4. Tenuto conto poi del paradigma legislativo rappresentato dall’art. 113 del codice, occorre inserire, alla fine del comma 2 dell’art. 1 dello schema di regolamento, l’ultimo periodo del suddetto art. 113, comma 2, secondo cui: “La disposizione del presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione.”. Per l’effetto, devono essere espunte dall’art. 3, comma 10, del medesimo schema le parole: “e, per gli appalti di servizi o forniture, solo nel caso in cui sia nominato il direttore dell’esecuzione”.
15.5. Ancora, sempre allo scopo di concentrare nell’art. 1 tutte le disposizioni relative alla definizione dell’ambito applicativo del futuro regolamento, debbono essere inseriti, rispettivamente come commi 4 e 5 (con la conseguenza che l’attuale comma 4 diverrà il comma 6), il comma 2 dell’art. 10 (“Il presente regolamento non si applica qualora siano in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai dipendenti”) e il secondo periodo dell’attuale comma 4 del medesimo art. 10, che ora recita: “I criteri individuati costituiscono linee guida per gli enti di cui all’art. 2 della legge regionale 12.07.2011, n. 12 e successive modifiche e integrazioni”.
15.6. A quest’ultimo proposito, va, nondimeno, osservato che il periodo dovrà essere così riformulato: “I criteri individuati nel presente regolamento costituiscono linee guida per le amministrazioni aggiudicatrici aventi sede nella Regione Siciliana”. Ed invero, questa Sezione ha già osservato, nel parere 24.10.2017 n. 885 (reso nell’adunanza del 17.10.2017 su un quesito in ordine al pagamento dell’incentivo di progettazione di cui all’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163/2006), che il regolamento disciplinante l’incentivo di progettazione va “adottato da ciascuna amministrazione-stazione appaltante, recependo gli accordi raggiunti in sede di contrattazione collettiva decentrata per ciascuna amministrazione” ed esso “si applica al solo personale dipendente dalla amministrazione–stazione appaltante che lo adotta”; pertanto il regolamento, di cui allo schema in esame, potrà valere, per le amministrazioni diverse dalla Regione, come linee-guida (non vincolanti), e in tal senso la previsione regolamentare proposta va condivisa.
15.7. Tuttavia si rivela erroneo il rinvio generalizzato a tutti gli enti di cui all’art. 2 della l.r. n. 12/2011, ancorché tal genere di rimando sia contenuto anche nel vigente regolamento, ossia nell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 10 del d.P.Reg. 05.12.2016, n. 3. Infatti l’art. 2 della l.r. n. 11/2012, nell’individuare le stazioni appaltanti, fa riferimento anche agli enti privati che fruiscono di finanziamento pubblico. Sennonché l’art. 113 del codice non si applica ai soggetti privati che fruiscono di finanziamento pubblico: questi, invero, sono sottoposti al rispetto delle regole di evidenza pubblica, ma non alle disposizioni sull’incentivazione del personale pubblico (v., sul punto, l’art. 1, comma 3, del codice).
Da ciò consegue che la proposta riformulazione del periodo normativo in parola è corretta sul piano del rapporto tra le fonti normative e, al contempo, consente di perseguire l’obiettivo avuto di mira, volto ad attribuire al regolamento –che risulta applicabile in via diretta solo al personale dipendente dalla Regione– anche il valore di linee guida per le altre stazioni appaltanti pubbliche siciliane. Si osserva che, nella riformulazione proposta, si menzionano solo le amministrazioni aggiudicatrici e non anche gli enti aggiudicatori, in quanto l’art. 113 non si applica nei settori speciali (non essendo richiamato dall’art. 114, comma 8, del codice).
Art. 2
16. L’art. 2 dello schema individua il personale al quale destinare gli incentivi e le attività incentivate. In particolare, è usata, nel secondo periodo (che dovrebbe esser trasformato in un comma 2), la locuzione “Le somme sono ripartite tra le figure professionali incaricate dello svolgimento delle seguenti attività”, cui segue una elencazione tendenzialmente, ma non esattamente (v. infra), coincidente con le attività di cui all’art. 113, comma 2, del codice.
16.1. Si osserva, tuttavia, che
l’art. 113 del codice, rubricato non a caso “(i)ncentivi per funzioni tecniche”, prevede, al comma 2, che l’incentivo spetta, per l’appunto, per lo svolgimento di “funzioni tecniche”. Si deve perciò escludere che l’incentivo possa essere attribuito, con l’eccezione delle collaborazioni (v. infra), a dipendenti che svolgano compiti di tipo amministrativo e non tecnico. Occorre perciò modificare l’incipit del secondo periodo, futuro comma 2, dell’articolo in esame, come segue: “Le somme sono ripartite tra i dipendenti che svolgono funzioni tecniche esclusivamente nell’ambito delle seguenti attività”.
16.2. Si è poi accennato alla circostanza che l’elencazione delle attività beneficiate non coincide esattamente con quella contenuta nell’art. 113, comma 2, del codice. Più in dettaglio, onde evitare incertezze esegetiche, è opportuno riformulare il richiamo al “collaudo statico” nei termini, restrittivi, stabiliti dal predetto comma 2 dell’art. 113 del codice e dallo stesso art. 1, comma 2, dello schema di regolamento (in fine).
16.3. Inoltre,
tra le attività incentivate il regolamento, nel periodo in esame, include anche la “collaborazione alle attività di responsabile del procedimento e di direzione dell’appalto”. La previsione è corretta, giacché l’incentivazione dei collaboratori è contemplata anche dall’art. 113, comma 3, del codice, ma va estesa, in coerenza con il citato art. 113, comma 3, ai collaboratori di tutti i soggetti che svolgano funzioni tecniche, senza distinzione, dunque tra collaborazione tecnica e amministrativa, mentre ora essa è circoscritta ai collaboratori solo del responsabile del procedimento e del direttore dell’appalto.
Si propone pertanto la seguente riformulazione: “- collaborazione alle attività del responsabile del procedimento e degli altri soggetti che svolgono le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del codice dei contratti pubblici.”.

16.4. Sul piano formale si suggerisce di sostituire i trattini dell’elenco di attività con le lettere dell’alfabeto.
Art. 3
17. L’art. 3 contiene le norme:
   (i) sulla costituzione del fondo su cui far confluire le risorse finanziarie (non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di gara, compresi gli oneri per la sicurezza),
   (ii) sulle regole da seguire in caso di contratti misti, sulle percentuali graduate in base all’entità, rispettivamente, dei lavori e dei servizi e forniture da affidare,
   (iii) sulla modalità di applicazione, per scaglioni, delle scale di percentuali,
   (iv) sulle condizioni per l’erogazione degli incentivi e,
   (v) infine, sull’individuazione dei soggetti che partecipano alla ripartizione del fondo.
17.1. Come già osservato in via generale, ogni riferimento agli “appalti” (nei commi 1, 3, 5 e 10), va sostituito con il riferimento ai “contratti”, con la conseguenza che divengono superflue, e quindi vanno eliminate nel comma 1, le parole: “come definiti alle lettere ll), ss), tt) dell’art. 3 del Codice dei contratti pubblici”.
17.2. Sempre nel comma 1, non è chiaro perché venga operato il rinvio ai soli commi 5 e 6 (che riguardano i lavori) e non anche ai successivi commi 7 e 8 del medesimo art. 3 (che concernono i servizi e le forniture): bisogna, allora, integrare il rinvio con l’aggiunta anche dei commi 7 e 8.
17.3. Ancora nel comma 1, al fine di quantificare la base di calcolo dell’incentivo (l’importo a base di gara), si intende che l’importo a base di gara computato secondo i criteri di cui all’art. 35 del codice e dunque al netto dell’IVA. A tal fine nel comma 1 le parole “degli importi posti a base di gara, compresi gli oneri di sicurezza” vanno sostituite con le parole “degli importi posti a base di gara, al netto dell’IVA, e compresi gli oneri di sicurezza”.
17.3. Il comma 3 indica i criteri di quantificazione e attribuzione dell’incentivo in caso di appalti misti. In primo luogo va ribadito che si deve far riferimento ai contratti, dal momento che il codice contempla diverse ipotesi di negozi misti (v., ad esempio, gli artt. 28, 160 e 169). Contrasta poi con il principio di gerarchia delle fonti l’introduzione, nel comma 3 dell’articolo in esame, di una definizione di appalti misti differente da quella dettata dal succitato art. 28 del codice, recepito in Sicilia in virtù del sopra richiamato art. 24 della l.r. n. 8/2016, giacché la l.r. n. 12/2011 non reca alcuna diversa disciplina dei contratti misti. D’altra parte nemmeno si presenta immediatamente percepibile il significato giuridico della locuzione, contenuta nel comma 3, secondo cui “l’incentivo di cui al comma 2 è corrisposto facendo riferimento ai corrispondenti importi appositamente specificati nel progetto”.
Dal momento che, sul piano logico, occorre anzitutto stabilire come si quantificano le somme da destinare al fondo in caso di contratti misti, e che, solo dopo, si può stabilire come si corrispondano le somme qualora il beneficiario svolga attività riconducibili solo a lavori, servizi, o forniture, o a tutte le tipologie, si propone di riformulare il comma 3, come segue: “In caso di contratti misti, le risorse da destinare al fondo di cui al comma 1 sono quantificate secondo i criteri di cui ai commi 5, 6, 7 e 8 facendo riferimento agli importi indicati a base di gara distintamente per i lavori, i servizi, le forniture; in difetto di indicazione distinta, il contratto si qualifica secondo l’oggetto principale ai sensi dell’art. 28, comma 1, del codice dei contratti pubblici, ai fini dell’applicazione dei commi 5 e 6 ovvero dei commi 7 e 8 del presente articolo; le somme da destinare agli incentivi ai sensi dei commi 6 e 8 sono corrisposte sulla base dell’attività effettivamente svolta dal soggetto incentivato e, in caso di attività non scindibili riconducibili sia ai lavori sia ai servizi sia alle forniture, secondo l’oggetto principale dell’attività svolta”.
17.4. In relazione al comma 5, si osserva che il regolamento esclude dall’incentivazione gli interventi di manutenzione ordinaria. Tuttavia, secondo una consistente giurisprudenza della Corte dei conti relativa anche alla disciplina dell’art. 113 del codice, sono esclusi dall’incentivazione anche gli interventi di manutenzione straordinaria (Corte conti, sez. contr. Veneto, parere 12.05.2017 n. 338; Corte conti, sez. contr. Marche, parere 27.04.2017 n. 52; Corte conti, sez. contr. Umbria, parere 26.04.2017 n. 51; Corte conti, sez. contr. Puglia, parere 24.01.2017 n. 5
).
Non si può, però, ritenere che il riferito orientamento sia consolidato, atteso che nel parere reso dall’ULL, versato in atti è richiamata anche giurisprudenza contabile di segno contrario.
Sono allora percorribili due alternative soluzioni regolamentari:
   a) potrebbe difatti estendersi l’esclusione dall’incentivo anche alla manutenzione straordinaria, in ossequio alla giurisprudenza della Corte dei conti, sicché il primo periodo del comma 5 dovrebbe essere così riformulato: “Sono esclusi dalla corresponsione dell’incentivo i contratti di lavori relativi ad interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria come definiti dalle lettere oo-quater) e oo-quinquies) dell’art. 3 del codice dei contratti pubblici”); oppure,
   b) in attesa del consolidamento della giurisprudenza, potrebbe scegliersi di non disciplinare lo specifico profilo, rimettendolo all’applicazione pratica, con la consequenziale eliminazione del primo periodo del comma 5.
La scelta tra le due riferite opzioni è riservata al Regolatore regionale.
17.5. Per ragioni di corretta definizione delle soglie occorre:
   - nel comma 7, n. 1), sostituire le parole: “e sino alle soglie”, con le parole: “e inferiori alle soglie”;
   - nel comma 7, n. 2), sostituire la parola “superiori” con le parole “pari o superiori”;
   - nel comma 8, lett. a), sostituire le parole: “e sino alle soglie”, con le parole “e inferiori alle soglie”;
   - nel comma 8, lett. b), sostituire la parola “superiori” con le parole “pari o superiori”.
17.6. In relazione al comma 10, si rinvia a quanto osservato in relazione all’art. 1 e, quindi, vanno eliminate le parole: “e, per gli appalti di servizi o forniture, solo nel caso in cui sia nominato il direttore dell’esecuzione”.
17.7. Nel comma 12, per le ragioni già esposte in relazione all’art. 2 dello schema, occorre sostituire, nelle lett. a) e d), le parole: “al quale è stata affidata formalmente l’attività” con le parole: “al quale sono state formalmente affidate funzioni tecniche inerenti l’attività”.
17.8. Il comma 13 prevede l’incentivo, oltre che in caso di collaudo o verifica di conformità, anche nel caso in cui sia previsto in sostituzione il certificato di regolare esecuzione. Si osserva che l’art. 113 del codice è di stretta interpretazione e contempla tra le attività incentivate solo il collaudo e la verifica di conformità, e non anche i casi di modalità semplificate, vale a dire il certificato di regolare esecuzione. Tale ultima attività non forma oggetto di incentivazione e, pertanto, il comma 13 deve essere espunto.
Art. 4
18. L’art. 4, ricalca in parte il precedente regolamento regionale n. 3/2016, e indica le ulteriori spese tecniche da prevedere nei quadri economici di ciascun intervento (tra cui, le polizze assicurative per la copertura dei rischi di natura professionale a favore dei dipendenti incaricati della progettazione, gli oneri inerenti all'assolvimento delle attività tecniche correlate all'appalto quali ad esempio il rimborso delle spese sostenute per le trasferte anticipate dalla struttura di appartenenza, le spese di copia, di bollo) e il relativo criterio di imputazione.
18.1. La materia disciplinata, testé sinteticamente tratteggiata, esula, tuttavia, dai confini dell’alveo regolamentare tracciati dall’art. 113, comma 3, del codice, sicché la disposizione deve essere espunta dallo schema.
Art. 5
19. Analogamente va soppresso anche l’art. 5 dello schema che reca un’articolata disciplina volta alla individuazione delle figure professionali e alle modalità di conferimento degli incarichi, nonché alla costituzione di un nucleo tecnico di progettazione e alla nomina del direttore dei lavori o del direttore dell'esecuzione, del coordinatore della sicurezza nella fase di esecuzione e dei relativi collaboratori tecnici ed amministrativi, nonché del collaudatore tecnico amministrativo e statico, ovvero del tecnico incaricato della verifica di conformità.
Si tratta all’evidenza di profili del tutto estranei alle previsioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 113 del codice (v., in tal senso, il già ricordato parere 02.09.2015 n. 770 di questa Sezione).
Art. 6
20. L’art. 6 dello schema -che a seguito delle eliminazioni dei precedenti artt. 4 e 5 diverrà l’art. 4- disciplina le procedure, le modalità e le tempistiche procedimentali e le condizioni per il pagamento degli incentivi; detta altresì le regole da seguire per i casi di perizie di varianti, di parti affidate a soggetti diversi dai dipendenti alle parti non eseguite e, infine, fissa l’ammontare massimo di incentivi percepibili dal singolo dipendente nella misura del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.
20.1. Della previsione è dubbia l’utilità del comma 1, dal momento che ribadisce quanto già disposto dal comma 1 del precedente art. 3.
20.2. Nel comma 3, dopo la parola “allegati”, inserire le parole: “A e B”.
20.3. Nel comma 5 è preferibile, sul piano redazionale, sostituire le lettere dell’alfabeto ai trattini, ma soprattutto occorre estendere ogni previsione, in corrispondenza di ciascun trattino, anche ai collaboratori di ciascuna figura professionale distintamente considerata (v., supra, le osservazioni a proposito dell’art. 2).
Art. 7
21. L’art. 7, destinato a diventare l’art. 5 del futuro regolamento, è pressoché integralmente dedicato a disciplinare i casi di sostituzione del responsabile del procedimento e delle altre figure professionali; il comma 3 tratta invece degli effetti della sostituzione sul regime di responsabilità delle predette figure professionali.
21.1. In entrambi i casi si è al cospetto di previsioni estranee al contenuto del regolamento, siccome stabilito dall’art. 113 del codice. Sia il primo periodo del comma 1, sia il comma 2 sia il comma 3, pertanto, possono essere eliminati.
21.2. Va, invece, conservato, seppur previa riformulazione, il secondo periodo del comma 1, che potrebbe esser riscritto come segue: “
In tutti i casi di sostituzione del responsabile del procedimento e degli altri dipendenti svolgenti le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del codice dei contratti pubblici, e relativi collaboratori, ai soggetti sostituiti spetta l’incentivo per le sole attività effettivamente svolte, e certificate dal responsabile del procedimento subentrante, nel caso di sostituzione del responsabile del procedimento, o dal responsabile del procedimento negli altri casi, con le modalità di cui all’articolo 4. Resta ferma l’applicazione dell’art. 7” (nota: art. 9 dello schema che diverrà 7 se verranno accolte le indicazioni di soppressione di alcuni articoli dello schema).
Art. 8
22. L’art. 8, ossia il futuro art. 6, contiene la disciplina dei termini entro i quali devono essere eseguite le prestazioni, eventualmente suddivisi in relazione ai singoli livelli di progetto, con previsioni specifiche per i termini della direzione dei lavori e dell'esecuzione, nonché per quelli del collaudo e della verifica di conformità.
Al riguardo la Sezione non ha alcun rilievo da formulare.
Art. 9
23. L’art. 9, che diverrà l’art. 7, disciplina le ipotesi in cui dovranno essere applicate delle penalità al personale che beneficia delle incentivazioni e stabilisce anche la relativa misura. Si tratta dei casi di:
   a) varianti in corso d’opere per errori od omissioni di progettazione (comma 1);
   b) ritardi negli affidamenti o aumenti di costo dovuti alla fase di predisposizione e controllo delle procedure di gara (comma 2);
   c) ritardi in sede di esecuzione di lavori (comma 3).
Il comma 4 contiene una norme sulla giustificazione dei ritardi.
23.1. Sul piano redazionale, per esigenze di omogeneità e di coerenza, si consiglia di utilizzare sempre la locuzione “per cento” in luogo del segno “%”. A parte ciò, non è dato comprendere perché il comma 2 si riferisca ai soli affidamenti dei lavori, mentre il comma 3 anche a quelli relativi ai servizi e alle forniture. Per uniformare i due commi si propone, quindi, di inserire, nel comma 2, dopo le parole: “di lavori”, le parole: “, servizi e forniture”.
23.2. Il comma 4 si riferisce poi esclusivamente alle giustificazioni dei ritardi e non di altre cause, sicché l’incipit del comma deve essere riscritto nei seguenti termini: “Le penalità previste per il ritardo”, in luogo delle parole: “(l)e suddette penali”.
Art. 10
24. L’art. 10 dello schema, ossia il futuro art. 8, è rubricato “disposizioni transitorie e finali”.
24.1. In realtà, contiene anche una norma sull’entrata in vigore del regolamento e, ad avviso della Sezione, dovrebbe contenere anche una norma di abrogazione del precedente regolamento, di cui al d.P.Reg. n. 3/2016. Conseguentemente, la rubrica dell’articolo va modificata in “Disposizioni transitorie e finali, abrogazioni, entrata in vigore”.
24.2. Alla luce delle osservazioni svolte in relazione all’art. 1 vanno apportate alla disposizione le seguenti modifiche:
   - dal comma 1, vanno espunte le parole “nell’ambito degli appalti nei settori ordinari e nel settore dei beni culturali”;
   - va eliminato l’intero comma 2;
   - dal comma 4, va soppresso l’ultimo periodo.
24.3.
Nel comma 1 desta comunque, almeno in parte, perplessità il regime transitorio, dal momento che viene attribuita efficacia retroattiva al futuro regolamento: si prevede, difatti, che le previsioni trovano applicazione anche ai contratti relativi a procedure di affidamento indette prima della entrata in vigore del regolamento, purché successive alla data di entrata in vigore del codice dei contratti pubblici.
La soluzione delineata potrebbe attagliarsi, a certe condizioni, a una norma di rango primario, ma non anche a una previsione regolamentare che non può derogare, salvi casi eccezionali (che nella fattispecie non ricorrono) al disposto del primo comma dell’art. 11 disp. prel. c.c..

Al riguardo, tuttavia, va rilevato che la Corte dei conti (Corte conti, sez. contr. Piemonte, parere 09.10.2017 n. 177) ha già avuto modo di chiarire che “
in materia d'incentivi per funzioni svolte dai dipendenti tecnici (…) i regolamenti attuativi adottati dall'ente non possono avere effetti retroattivi e la loro adozione è necessaria per distribuire gli incentivi fra i dipendenti tecnici. Se, tuttavia, l'ente ha provveduto ad accantonare le risorse economiche sulla base della norma di legge, è possibile con regolamento disciplinare la distribuzione delle risorse anche in relazione ad attività incentivabili svolte prima dell'emanazione del regolamento purché sussista uniformità fra la disciplina normativa circa l'accantonamento e quella sulla distribuzione delle risorse”.
Le riferite considerazioni della Magistratura contabile offrono lo spunto per riformulare il comma 1 dell’articolo in esame nei seguenti termini: “
Il presente regolamento trova applicazione per le attività riferibili a contratti le cui procedure di affidamento sono state avviate successivamente alla data di entrata in vigore del codice dei contratti pubblici, anche se avviate prima dell’entrata in vigore del presente regolamento, a condizione che le stazioni appaltanti abbiano già provveduto ad accantonare le risorse economiche nel rispetto dell’art. 113 del codice dei contratti pubblici. Restano incentivabili secondo la previgente disciplina, recata dal d.lgs. n. 12.04.2006, n. 163, come recepito nella Regione siciliana con legge regionale 12.07.2011, n. 12, e dal d.P.Reg. 05.12.2016, n. 3, le attività riferite a contratti i cui bandi siano stati pubblicati o, nelle procedure senza bando, i cui inviti sono stati diramati prima dell’entrata in vigore del codice dei contratti pubblici, anche se ancora in corso di svolgimento.”.
A questo proposito il Collegio non ignora che il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha diramato il comunicato del Presidente 06.09.2017, recante “Chiarimenti in ordine all’applicabilità delle disposizioni normative in materia di incentivi per le funzioni tecniche”, nel quale si trova, tra l’altro, scritto che: “… le disposizioni di cui all’art. 113 del nuovo codice dei contratti si applicano alle attività incentivate svolte successivamente all’entrata in vigore del Codice”, anche se sulla base di contratti banditi secondo la previgente disciplina.
La soluzione adottata dallo schema di regolamento, e approvata dalla Sezione con il correttivo di cui sopra, si scosta, dunque, dal richiamato comunicato. Sennonché si osserva che, per un verso, il conflitto è, in parte, apparente, posto che il riferito passaggio del comunicato deve esser letto nella prospettiva del contrasto della prassi delle varie forme di “anticipazione” dell’incentivo (prassi che lo schema di regolamento in esame scongiura con la previsione contenuta nel comma 5 dell’art. 6), cui è dedicata l’ultima parte del comunicato medesimo.
Per altro verso,
il Collegio ritiene, secondo quanto già statuito dal Consiglio di Stato, sezione affari normativi, che i comunicati dell’ANAC, seppur autorevoli in ragione della loro provenienza soggettiva, consistano comunque in mere interpretazioni del dato positivo prive di qualunque effetto vincolante (Cons. St., sez. affari normativi, comm. spec., parere 22.12.2017 n. 2698).
Nel caso di specie, il codice non prevede in relazione all’art. 113 un regime transitorio specifico, sicché non può che valere la regola transitoria generale dettata dall’art. 216, comma 1, a tenore del quale le disposizioni del codice si applicano alle procedure i cui bandi siano pubblicati, o inviti diramati, dopo l’entrata in vigore del codice medesimo. Regola transitoria da coniugare con la portata non retroattiva del regolamento di attuazione del citato art. 113.
24.4. In relazione all’attuale comma 3, che diverrà il comma 2 a seguito della su indicate modificazioni, le parole: “al dirigente organicamente superiore” devono essere sostituite dalle seguenti: “All’Assessore di riferimento o, per gli enti diversi dalla Regione, all’organo di vertice”. Sul punto la Sezione ha già avuto modo di precisare, nel citato parere 02.09.2015 n. 770, che la relazione annuale doveva essere presentata all’organo politico, come infatti ora prevede l’art. 10, comma 2, d.P.Reg. n. 3/2016. Occorre infatti un controllo di tipo “politico” sulla corretta applicazione del regolamento e sulle sue eventuali criticità, al fine di possibili ed eventuali modifiche.
24.5. Bisogna poi inserire nella disposizione un ulteriore comma, ossia un comma 3, recante le abrogazioni, formulato come segue: “Dalla data di entrata in vigore del presente regolamento è abrogato il d.P.Reg. 05.12.2016, n. 3, fatta salva la sua perdurante applicazione nei casi di cui al comma 1”.
24.6. Infine il comma 4, nella parte residua, laddove prevede la immediata entrata in vigore del regolamento, va soppresso, difettando una norma primaria che consenta di derogare nel caso di specie all’ordinaria vacatio legis di 15 giorni, prevista dall’art. 10 disp. prel. c.c., che costituisce un principio generale per le leggi e, a fortiori, per i regolamenti, a garanzia della conoscibilità degli atti normativi da parte delle amministrazioni, cittadini e imprese, e della disponibilità di uno spazio sufficiente di adattamento alle nuove regole (v., tra gli altri, il parere di questa Sezione n. 74/2017). La soppressione del comma 4 è soluzione equivalente, ancorché preferibile per esigenze di sinteticità dell’articolato, alla riformulazione del medesimo comma nei seguenti termini: “Il presente regolamento entra in vigore il quindicesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione”.
Gli allegati
25. Per quanto riguarda gli allegati, in conseguenza dei rilievi sopra svolti, si suggerisce di inserire sotto ciascun titolo (“Allegato A” e “Allegato B”) le parole: “(art. 4, comma 3)”.
Inoltre nell’ultimo rigo della prima colonna di ciascuna tabella, dopo le parole: “Collaboratore alla attività del direttore dei lavori” (nell’allegato A) e “Collaboratore alla attività del direttore dell’esecuzione” (nell’allegato B), le parole: “o di altra figura professionale che svolga funzioni tecniche”.
P.Q.M.
Con le osservazioni di cui alla su estesa motivazione, è il parere favorevole della Sezione (CGARS, parere 16.03.2018 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

E' dopo fiumi di parole scritte, in un senso o nell'altro, adesso (dal 19.04.2019 - cfr. D.L. 18.04.2019 n. 32) si ritorna "ancora una volta" con l'incentivo alla progettazione interna:
FOLLIA ALLO STATO PURO!!
Epperò, si vocifera in queste ore che starebbero ripensandoci...

INCENTIVO PROGETTAZIONESblocca Cantieri e Codice dei contratti: dietrofront su Appalto integrato e Incentivi alla progettazione per i tecnici della P.A.? (16.05.2019 - link a www.lavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONEDecreto-legge Sblocca cantieri, marcia indietro su appalto integrato e incentivo 2%. Dietrofront anche sulla norma che introduce una causa di esclusione dagli appalti pubblici per le imprese non in regola con gli obblighi di pagamento di imposte e contributi non definitivamente accertati (16.05.2019 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONEAppalti, niente gare fino a 1 mln. Estese le procedure negoziate. Stop incentivi ai progettisti. A un convegno Ance, il relatore del dl Sblocca cantieri Santillo annuncia le novità.
Alzare a un milione la soglia per la procedura negoziata, limitare la responsabilità per danno erariale dei funzionari pubblici; ripristinare il tetto per il prezzo nell'offerta economicamente più vantaggiosa; portare al 40% il limite del subappalto; togliere l'incentivo del 2% a favore dei tecnici delle pubbliche amministrazioni per la fase progettuale; norma «salva imprese» legata al ribasso ma inserita nelle somme a disposizione della stazione appaltante.
Sono questi i punti sui quali, Agostino Santillo, relatore del disegno di legge di conversione del decreto Sblocca cantieri (dl 32/2019) ha anticipato che si interverrà con emendamenti ad hoc in commissione, per arrivare all'esame in aula martedì 28 maggio, quindi dopo le votazioni per le elezioni europee di domenica 26.
L'annuncio è stato dato durante il convegno organizzato ieri dall'Ance, l'Associazione nazionale costruttori edili, dal titolo «Sblocca cantieri: quali risorse e quali regole» cui hanno partecipato, fra gli altri, oltre al presidente dei costruttori Gabriele Buia e al vice presidente Edoardo Bianchi, anche il vice ministro per l'economia Laura Castelli.
Dopo avere precisato che, con il decreto 32 «si è inteso toccare le corde giuste per riavviare le procedure e in particolare l'affidamento dei lavori perché è li che bisogna intervenire immediatamente con un cambio di paradigma», è proprio sulla parte procedurale, oggetto di serrato confronto con la Lega, che il relatore ha annunciato una prima modifica. «Ci sono tante proposte che condividiamo perché la nostra posizione non è rigida e possiamo ragionare su alcuni temi con le altre forze politiche», ha osservato Santillo. Un passaggio apprezzato anche dal capogruppo Pd in commissione, Salvatore Margiotta, che ha poi posto l'accento sulla necessità di una accurata disciplina della fase transitoria del provvedimento.
Fra le novità annunciate da Santillo, in primo luogo è stata richiamata la revisione della soglie per le procedure negoziate (nel decreto 32 ammessa fino a 200 mila, mentre oltre tale importo scatta la procedura aperta). In questo caso la soglia può essere rivisitata verso l'alto, a un milione (si veda ItaliaOggi del 10 maggio) purché dalla soglia massima fino a 5,2 milioni la procedura sia sempre aperta con esclusione automatica delle offerte anomale. «Poi vedremo se l'esperienza ci darà ragione e vedremo sarà il caso di alzare il tetto oltre la soglia di un milione», ha aggiunto.
Un secondo punto sul quale viene recepita l'esigenza di intervenire è quella della responsabilità per danno erariale in capo ai funzionari pubblici, su cui, ha anticipato il senatore M5S, «stiamo preparando un emendamento in commissione».
Altro punto oggetto di intervento, è quello relativo alla la soglia del subappalto, portata nel testo dal 30% al 50%; in particolare la nuova soglia, ha spiegato, «potrebbe essere spostata verso il basso, ad esempio al 40%», così come proposto in un emendamento presentato dei Cinquestelle, «ma in ogni caso dobbiamo evitare che facciano lavori soggetti che non hanno la formazione adatta come imprese di costruzioni».
Sulla norma che ripristina l'incentivo del 2% a favore dei tecnici della p.a. per la progettazione, Santillo ha annunciato di raccogliere «l'appello che è stato formulato per non fare rientrare nell'incentivo del 2% anche la progettazione perché questo secondo noi non aiuta la specializzazione progettuale del mercato esterno alla p.a. e soprattutto fa sì che chi progetta debba anche controllare l'esecuzione di quanto progettato e questo potrebbe determinare un agevole conflitto di interessi».
Sull'appalto integrato il relatore ha precisato che si sta «ragionando anche sulla possibilità o meno di estendere l'utilizzo dell'appalto integrato fino al 2020 che a volte può essere la manna scesa dal cielo ma altre volte ne farei a meno». Ad essere modificate, secondo Santillo, sarà inoltre la norma che esclude le imprese per irregolarità fiscale e contributiva non ancora accertata. Il comma, ha spiegato, sarà eliminato.
Si stanno infine «facendo dei ragionamenti sul ripristino della soglia del 30% per il prezzo nell'offerta economicamente più vantaggiosa». «Noi siamo a favore», ha spiegato. Sulla norma «salva pmi» in caso di fallimento dell'impresa, Santillo ha concluso che il governo «non vuole che questi costi ricadano sull'appaltatore e quindi la quota percentuale sarà legata al ribasso dell'aggiudicatario, ma sarà fatta ricadere nel quadro economico come somma a disposizione della stazione appaltante e non dell'impresa aggiudicataria» (articolo ItaliaOggi del 15.05.2019).

INCARICHI PROGETTUALI - INCENTIVO PROGETTAZIONECompenso anticipato per i professionisti
Anticipazione del 20% del valore del contratto anche per i professionisti e le società che operano nell'ambito degli appalti di servizi e di forniture; pagamento diretto del progettista negli appalti integrati; reintroduzione dell'incentivo del 2% a favore dei tecnici delle pubbliche amministrazioni.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore interesse per professionisti, studi e società che operano nell'ambito dei servizi tecnici legati alla realizzazione di opere pubbliche, contenuti nel
D.L. 18.04.2019 n. 32.
In primo luogo si interviene sul contenuto dei livelli di progettazione con il rinvio al regolamento unico della disciplina dei contenuti della progettazione nei tre livelli progettuali (in luogo di uno specifico decreto ministeriale previsto dal testo previgente), nonché del contenuto minimo del quadro esigenziale che devono predisporre le stazioni appaltanti.
Viene eliminato anche il rinvio a un regolamento ministeriale per la cosiddetta progettazione semplificata prevista fino a 2,5 milioni: adesso è una norma ad hoc e stabile che si prescinde dalla redazione del progetto esecutiva per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria che non prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle opere o degli impianti. Si potranno quindi affidare i contratti sulla base del progetto definitivo, a condizione che lo stesso abbia un contenuto informativo minimo, indicato dalla norma, consentendo quindi di eseguire i lavori senza redigere e/o approvare il progetto esecutivo.
Di immediato interesse per tutti gli operatori economici dei servizi e delle forniture è poi l'introduzione dell'anticipazione contrattuale del 20% sul valore del contratto (oggi contemplata soltanto per i lavori). Nell'ambito della riapertura della «finestra» per potere affidare appalti integrati (possibili bandi fino al 2021 per progetti approvati entro fine 2020), rappresentano comunque un elemento positivo due disposizioni di interesse per i progettisti: la prima è l'obbligo per le stazioni appaltanti di indicare le modalità per il pagamento diretto del progettista di cui si avvale l'impresa che partecipa ad una gara per l'affidamento di un appalto integrato.
La seconda riguarda la previsione della dimostrazione, da parte delle imprese di costruzione, dei requisiti progettuali per partecipare ad appalti integrati e, in assenza di tale dimostrazione, l'obbligo di avvalersi o di associare un progettista che ne sia in possesso.
Potrebbe invece risultare negativo sotto il profilo di una possibile riduzione della domanda di ingegneria la reintroduzione dell'incentivo del 2% a favore dei tecnici delle amministrazioni per la fase di progettazione, eliminato per questa attività dal 2016. Viene inoltre prevista la possibilità per gli affidatari di incarichi di progettazione, per progetti posti a base di gara di concessioni, di essere anche affidatari della concessione di lavori pubblici a condizione che il concedente adotti misure adeguate per garantire che la concorrenza non sia falsata dalla loro partecipazione.
Di interesse per i progettisti anche l'eliminazione dell'obbligo di indicare la terna dei subappaltatori, un onere eccessivo per l'entità degli incarichi e per la presenza di una disciplina già molto stringente per il subappalto di progettazione (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019).

INCENTIVO PROGETTAZIONESBLOCCA-CANTIERI/ Ancora una volta indefinita la decorrenza dei nuovi incentivi.
Per i premi ai tecnici da rifare integrativo e regolamento.

Dal 19 aprile i tecnici pubblici festeggiano il ritorno dei "loro" incentivi. Con l'entrata in vigore del decreto sblocca-cantieri è stato rimodificato il Codice degli appalti, inserendo nuovamente i progettisti fra i destinatari dei premi collegati alle funzioni tecniche.
La telenovela dei compensi registra un'altra puntata. Come si ricorderà, con l'approvazione del Dlgs 50/2016 erano stati messi alla porta una serie di soggetti che, storicamente, annoveravano nella loro busta paga compensi i quali, nel corso del tempo, hanno modificato la loro denominazione (incentivi Merloni, «per la progettazione»), ma non la loro sostanza: ai dipendenti pubblici che progettavano spettava anche una quota di retribuzione legata all' opera da realizzare. Con il nuovo Codice degli appalti si sposta l'attenzione sulle fasi di programmazione e controllo della spesa e, quindi, anche gli incentivi vanno a premiare i soggetti che gestiscono queste funzioni.
Ovviamente i tecnici mal digeriscono il cambio di rotta e, alla prima occasione utile, con un colpo di coda, spazzano via i supervisori di budget e consuntivi e li sostituiscono con i progettisti.
Fin qui la storia. Ma ora, in pratica, cosa succede? Sicuramente i tecnici non possono presentarsi alla cassa per la riscossione già da domani. Lo stesso Dlgs 50/2016 disegna un iter ben preciso che gli enti devono rispettare per poter liquidare i compensi. Innanzitutto devono riprendere in mano i propri regolamenti e adeguarli alla nuova norma. L' operazione deve però essere preceduta da una sessione di contrattazione decentrata integrativa, dove vanno stabiliti le modalità e i criteri di ripartizione degli incentivi. Al regolamento, oltre a recepire quanto deciso nell'integrativo, spetta una funzione importante: decidere la percentuale da applicare all' importo dei lavori, servizi e forniture posti a base di gara per ottenere il fondo che va a finanziare, per l'80%, i compensi in questione. Percentuale che non può essere superiore al 2%.
E come tutte le modifiche che si rispettino, l'intervento normativo non è accompagnato da una norma transitoria, che regolamenti il passaggio dalla vecchia disciplina a quella nuova. Quindi? Sicuramente basta attendere qualche mese e potremmo trovare fiumi di pareri da parte delle sezioni regionali della Corte dei Conti le quali, chiamate a rispondere ai quesiti delle amministrazioni, forniscono indirizzi purtroppo non sempre univoci. Come spartiacque si può infatti pensare all' espletamento delle gare di appalto, considerato che sono il perno su cui poggia l'incentivo, oppure al momento in cui viene svolta l'attività compensata dall' incentivo. Anche a questo proposito, nel tempo, i magistrati contabili hanno abbracciato tesi differenziate.
Su una linea sembrano ormai concordi i vari interpreti istituzionali: la liquidazione degli incentivi non può avvenire in assenza del regolamento; ma, una volta approvato l' atto, si può procedere al pagamento anche di quelle somme accantonate in precedenza, in quanto si riferiscono a gare o attività svolte dopo l' entrata in vigore della norma e prima dell'approvazione del regolamento (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2019).

INCENTIVO PROGETTAZIONEProgettazione, torna l' incentivo per i tecnici Pa. Architetti e ingegneri: forte impatto sul mercato dei bandi per i progettisti.
Ripristinato l'incentivo per le attività legate alla progettazione, svolte dai dipendenti della pubblica amministrazione.

Il decreto 32/2019, lo sblocca cantieri, abbandona la filosofia del Codice appalti in vigore, che riservava ai tecnici della Pa, nella sostanza, solo compiti di programmazione e controllo delle opere pubbliche. Tornando a dargli un ruolo primario anche sul fronte della redazione degli elaborati.
La novità, di grande impatto per il mercato, ritocca l'articolo 113 del Codice appalti, riportando in vita l'accantonamento «in misura non superiore al 2 per cento» (modulato sugli importi stanziati per lavori, servizi e forniture) per le attività «di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione». Questo denaro viene ripartito tra i soggetti che svolgono funzioni tecniche nelle diverse amministrazioni.
Nella precedente versione l'incentivo esisteva, in misura esattamente identica, ma era riservato ad altri compiti: programmazione della spesa per investimenti, controllo delle procedure di gara, esecuzione dei contratti. In sostanza, la nuova versione spinge gli uffici pubblici ad utilizzare in misura maggiore le proprie strutture per la progettazione, anziché bandire gare per coinvolgere professionisti esterni.
Evidente, allora, che la novità non piaccia a tutte quelle categorie abituate a partecipare agli appalti pubblici per la progettazione. Lo spiega Rino La Mendola, vicepresidente del Consiglio nazionale degli architetti: «Siamo perplessi per questa modifica. Pensiamo che sia i dipendenti pubblici che i liberi professionisti debbano essere valorizzati nel loro ruolo, riservando ai dipendenti pubblici soprattutto l'attività di controllo. E c' è anche da considerare che questo intervento fa il paio con le novità sulla centrale di progettazione: c' è una chiara volontà da parte del Governo di statalizzare la progettazione».
Una posizione condivisa in pieno da Michele Lapenna, componente del Consiglio nazionale degli ingegneri: «Sarebbe stato meglio tenere una distinzione netta tra uffici tecnici e progettisti privati. Detto questo, comunque, per noi è fondamentale tutelare la qualità della progettazione. Per questo chiederemo che i tecnici interni dimostrino gli stessi requisiti che vengono richiesti oggi ai professionisti». Probabile, sul fronte del mercato, che queste novità abbiano un forte impatto, limitando le risorse che vengono messe a disposizione dei progettisti esterni: «È evidente -conclude Lapenna- che si tratta di un rischio molto concreto» (articolo Il Sole 24 Ore del 24.04.2019).

INCENTIVI PROGETTAZIONE: Tornano gli incentivi per la progettazione.
Il decreto sblocca-cantieri si traduce anche nel provvedimento sblocca-incentivi per i dipendenti pubblici, mandando in soffitta i compensi per le funzioni tecniche per fare largo ai vecchi e, forse, mai tramontati incentivi per la progettazione.
La lista dei beneficiari
Con un colpo di mano quasi preannunciato, viste le pressioni della categoria per riprendersi il maltolto, la norma modifica il comma 2 dell'articolo 113 del codice degli appalti, andando a riscrivere parte dell'elenco dei beneficiari dei compensi per le funzioni tecniche.
Al posto dei dipendenti che svolgono le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, sono inseriti i lavoratori ai quali è affidata l'attività di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione. Sono salvi, in continuità con il passato, il Rup, la direzione dei lavori, la direzione dell'esecuzione, il collaudo tecnico amministrativo, la verifica di conformità e il collaudo statico.
Si tratta, come detto, di una marcia indietro rispetto alla novità introdotta con il Dlgs 50/2016, dove l'obiettivo era quello di compensare i soggetti che avevano il compito di tenere sotto controllo la spesa, facendo rientrare nell'alveo sia la fase di programmazione che quella di scelta del contraente. Sostanzialmente, vengono, di nuovo, esclusi dagli incentivi quei dipendenti che non sono tecnici e che svolgono le attività amministrative strettamente connesse ai lavori, ai servizi e alle forniture.
Rientrano in gioco gli architetti, gli ingegneri e i geometri delle pubbliche amministrazioni a cui saranno affidate le progettazioni, con la fine di discussioni spesso spiacevoli per l'attribuzione di compiti non più, a loro dire, equamente remunerati.
Problemi applicativi
Come ogni modifica che si rispetti, anche in questo caso ripartiranno i problemi applicativi. In primis, in mancanza di una norma transitoria, dovrà essere chiarito quando applicare la vecchia disposizione e quando la nuova previsione. Si farà riferimento all'espletamento dell'attività compensata oppure al bando di gara? E per le attività ovvero le procedure attualmente in corso?
E ancora. Per poter applicare la norma appena approvata è necessario che le amministrazioni provvedano a definire le modalità e i criteri di riparto delle risorse a disposizione in sede di contrattazione decentrata e ad adottare il regolamento. Percorso alquanto impegnativo se si pensa che, a oggi, alcune amministrazioni non hanno ancora regolamenti adeguati alla prima versione del Dlgs 50/2016.
Concludendo, possiamo dire che, per il momento, nella partita fra tecnici e amministrativi, si affermano i primi, i quali, però, dovranno pazientare un po' per godere dei frutti della vittoria in quanto, prima, vanno sistemate le carte (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019).

 

Il 20 maggio 2019 si avvicina:
l’adeguamento alla nuova disciplina in materia di posizioni organizzative.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D. Pusceddu, E dopo il 20 maggio come vengono retribuite le Posizioni Organizzative? (16.05.2019 - link a www.fpcgilbergamo.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl termine del 20 maggio entro il quale incaricare le posizioni organizzative non è vincolante (15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti senza dirigenti, incarichi fino a 5 anni.
Incarichi fino a cinque anni per le posizioni organizzative nei comuni senza dirigenza. Mancano pochi giorni alla data del 20 maggio 2019, entro la quale occorre riattribuire gli incarichi di posizione organizzativa, a seguito dell'adeguamento della connessa disciplina alle regole contenute nel Ccnl 21/05/2018. Sulla durata degli incarichi, come anche sui criteri per la loro assegnazione, proprio il Ccnl induce a un equivoco.

L'articolo 14, comma 1, dispone che «gli incarichi relativi all'area delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non superiore a tre anni, previa determinazione di criteri generali da parte degli enti». Questa disposizione induce molti a ritenere conseguentemente che la durata degli incarichi sia stata ridotta dai 5 anni espressamente previsti dal precedente Ccnl 31/03/1999, al più breve triennio.
Tuttavia, questa chiave di lettura non appare soddisfacente. L'articolo 14 del Ccnl 21/05/2018 contiene una regolamentazione degli incarichi delle posizioni organizzative riferita con ogni evidenza agli enti nei quali sono presenti i dirigenti. Non a caso il comma uno precisa che gli incarichi «sono conferiti dai dirigenti». Negli enti privi di dirigenza, dunque, la disciplina non può che essere differente. E la conferma si trova nella disposizione contenuta nell'articolo 17, comma 1, sempre del Ccnl 21/05/2018: «negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13».
Come si nota, mentre negli enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali l'articolo 14 attribuisce ai dirigenti il compito di conferire gli incarichi, nel caso di enti senza qualifiche dirigenziali il Ccnl dedica una previsione speciale e precisa, quella dell'articolo 17, comma 1. Che è da considerarsi esclusiva; negli enti senza dirigenti, dunque, non si applicano le previsioni dei primi due commi dell'articolo 14, ma il diverso meccanismo stabilito dal comma 1 dell'articolo 17.
Si tratta di un automatismo: l'articolo 17, semplificando, dispone che i funzionari ai quali i sindaci abbiano attribuito le funzioni dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000 e che in conseguenza di ciò siano stati nominati come responsabili dei servizi ai sensi dell'articolo 50, comma 10, sempre del dlgs 267/2000, sono necessariamente posizioni organizzative. Quindi, negli enti privi di dirigenti non occorre nessun atto di assegnazione dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative, essendo detto incarico connesso al precedente provvedimento amministrativo di competenza sindacale di nomina come responsabile di servizio, al vertice di una struttura amministrativa.
Così stando le cose, poiché negli enti privi di dirigenza non si applica l'articolo 14, comma 1, del Ccnl 21/05/2018, allora non si può considerare operante nemmeno il limite temporale di tre anni ivi previsto.
A ben vedere, in questa tipologia di enti, l'incarico nell'area delle posizioni organizzative non può che avere la identica durata dell'incarico di funzioni dirigenziali e di preposizione al vertice di una struttura gestionale. Se, quindi, un sindaco incarichi un funzionario di funzioni dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Tuel e lo preponga ad una struttura di vertice per una durata anche superiore ai tre anni, non si può non concludere che il funzionario resta incaricato come posizione organizzativa per tutta la durata dell'efficacia degli atti adottati dal sindaco ai sensi degli articoli 109, comma 2, e 50, comma 10, del Tuel: norme, queste, che per altro non contengono alcun termine specifico di durata degli incarichi; solo il comma 1 dell'articolo 109, applicabile per analogia, precisa che detti incarichi debbano essere a tempo determinato. Una durata massima di 5 anni degli incarichi di funzioni dirigenziali la si può desumere sempre per analogia, riferendosi alle previsioni dell'articolo 19, comma 2, del dlgs 165/2001 (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl conferimento degli incarichi di posizione organizzativa.
Nei giorni scorsi Anci ha diffuso il proprio quaderno operativo (Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica) sul «Regolamento sugli incarichi di posizione organizzativa. Aggiornamento al CCNL 21/05/2018. Criteri generali di conferimento e sistema di graduazione della retribuzione di posizione». L'occasione si presta ad alcune riflessioni.
Il contratto del comparto Funzioni locali per il periodo 2016-2018 introduce, tra le altre, una novità particolarmente significativa: la possibilità di attribuire alle posizioni organizzative deleghe delle funzioni dirigenziali che comportino anche la firma di provvedimenti finali aventi rilevanza esterna. Si viene, così, a delineare una figura intermedia tra il dirigente e il funzionario, dotata di un elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa o preposta ad attività ad alto contenuto professionale, comprese quelle per le quali è richiesta l'iscrizione ad un albo professionale oppure un'elevata competenza specialistica (conseguita attraverso titoli universitari o pregresse esperienze professionali, in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale). Questa figura, così ridefinita e innovata rispetto al passato, rappresenta un importante punto di raccordo tra le decisioni politico-amministrative e la gestione operativa dell'ente, in quanto finalizzata a garantire e monitorare direttamente lo svolgimento dei processi esecutivi.
Il nuovo contratto collettivo offre, quindi, ai Comuni, una maggiore autonomia organizzativa e, nell'esercizio della potestà regolamentare, permette di incentivare e premiare le posizioni organizzative.
In questa prospettiva vanno lette, quindi, le disposizioni che prevedono la possibilità di riservare una quota non inferiore al 15% delle risorse stanziate, a favore di queste figure, per la retribuzione di risultato. È, inoltre, introdotta la possibilità di conferire incarichi a interim alle figure che siano già titolari di posizione organizzativa per ricoprire funzioni di altra posizione organizzativa, prevedendo una ulteriore incentivazione economica, sempre a titolo di retribuzione di risultato.
Il quadro sulla natura «semi-dirigenziale», che questa figura ha assunto con la novità contrattuale descritta, si completa con la previsione secondo cui le risorse per la sua remunerazione sono ricavate dal fondo per il trattamento economico accessorio del personale del comparto e che sono stanziate in bilancio.
Per gli enti i tempi sono ormai brevi per adeguarsi a questa nuova realtà contrattuale. Il contratto impone infatti che i nuovi regolamenti contenenti la disciplina relativa ai criteri per il conferimento degli incarichi, alla graduazione della retribuzione di posizione e ai criteri per l'attribuzione della retribuzione di risultato siano adottati entro il 20 maggio. E gli incarichi di posizioni organizzative già conferiti sulla base del previgente contratto? È logico presumere che decadano a tale data.
È quindi in atto una piccola rivoluzione: si tratta, infatti, di figure che devono perdere il loro carattere di «fiduciarietà». Devono essere attribuite dal dirigente (dal sindaco solo in quei Comuni in cui non vi sono dirigenti) a funzionari di categoria D (alla categoria C ove la predetta categoria sia mancante) secondo criteri oggettivi e trasparenti, oltre che opportunamente graduati. Su quest'aspetto interviene egregiamente l'Anci che suggerisce dei «criteri generali per il conferimento degli incarichi di P.O. e per la graduazione della loro retribuzione», definendo una metodologia che è in grado di esprimere la coerenza tra la rilevanza del ruolo assegnato alla posizione e la relativa retribuzione. Nelle note dell'Anci, il criterio della cosiddetta «trasversalità» è interpretato come finalizzato a valorizzare la complessità e la misura dei rapporti interni ed esterni che la posizione organizzativa incaricata dovrà gestire nello svolgimento dei propri compiti tecnici.
La «complessità operativa e organizzativa» è interpretata con riferimento non solo alla composizione numerica dell'unità organizzativa, cui è preposta la figura in esame, ma anche all'inquadramento contrattuale della stessa. In parole semplici, il livello di complessità si presume maggiore ove l'unità sia composta da dipendenti di categoria D. Il parametro potrebbe essere legato anche «alla graduazione della struttura dirigenziale ove la PO è incardinata, ove, ad esempio, si ritenga non affidabile il solo riferimento al personale assegnato». Ma si guarda anche al numero e alla difficoltà (soprattutto in termini di tempistica e di attività istruttoria) dei passaggi per arrivare al risultato finale del procedimento affidato alla posizione organizzativa.
Riguardo al «rischio contenzioso», l'Anci non può che rinviare, del tutto correttamente, al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza. In particolare, «viene valutata l'intensità e la rilevanza dell'incidenza del prodotto finale nei confronti del destinatario in relazione agli interessi coinvolti». Mentre la responsabilità finanziaria non può che essere rapportata al budget assegnato, «a livello di entrata e di spesa».
Diversamente graduata è, logicamente, la strategicità a seconda che l'ente disponga o meno di figure dirigenziali. Nel primo caso, infatti, è valutata la significatività delle deleghe dirigenziali; nel secondo, invece, a essere valutato è il peso delle funzioni conferite rispetto all'attuazione del programma di mandato del Sindaco. La previsione dell'area delle posizioni organizzative come delineata dal nuovo contratto del comparto funzioni locali 2016-2018 presuppone, in sostanza, un'equilibrata differenziazione del peso e quindi anche dei valori economici delle diverse posizioni, ricercando soluzioni che sfruttino appieno l'ampio ventaglio reso disponibile dalle nuove previsioni anche al fine di offrire serie prospettive di miglioramento di carriera e di apprezzamento economico al personale. Sarà quindi necessaria l'adozione di nuovi regolamenti, tesi allo sviluppo delle potenzialità organizzative e gestionali dei singoli che potranno essere premiate mediante il progressivo affidamento di incarichi sempre più importanti e maggiormente remunerati.
È necessario quindi, a tal fine, adottare un sistema flessibile volto a privilegiare un'esatta corrispondenza del punteggio agli elementi qualitativi e quantitativi che caratterizzano la singola posizione organizzativa, e che tenga conto delle peculiarità organizzative e gestionali del singolo ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Doppi criteri con dirigenti o senza. La pesatura dei settori determina la retribuzione aggiuntiva al tabellare.
Regole per conferire e revocare gli incarichi di posizione organizzativa e criteri per graduare le aree.

Sono questi i due aspetti per i quali l’Anci, nel nuovo Quaderno sul tema, propone soluzioni operative per un facile utilizzo da parte degli enti locali. D’altronde la scadenza è alle porte: entro il 20 maggio vanno adottati i nuovi sistemi, pena il divieto di confermare, prorogare o attribuire nuovi incarichi.
Il contratto nazionale 21.05.2018 ha riscritto le regole dell’istituto e quindi, come anche già contenuto in alcuni recenti pareri dell’Aran sono tre gli adempimenti urgenti: revisione dell’assetto organizzativo, approvazione dei criteri di nomina e revoca e definizione dei parametri di graduazione dei settori.
Il primo aspetto va da sé. Ciascun ente deve individuare dove sono collocate le posizioni organizzative nella propria struttura, tenendo conto delle uniche due possibilità di incarichi: di direzione di aree o di alta professionalità.
Dopo queste precisazioni, l’Anci si concentra sul secondo aspetto. Nella proposta del regolamento contenuto nel Quaderno, si trovano quindi alcuni punti essenziali tra cui: la durata (che non può essere superiore ai tre anni), i requisiti che devono avere i soggetti che verranno nominati e le procedure di individuazione dei dipendenti più idonei a ricoprire gli incarichi.
A questo proposito, va ricordata la forte differenza tra enti con la dirigenza, nei quali sono appunto i dirigenti a nominare le posizioni organizzative attraverso anche un avviso esplorativo, rispetto a quanto invece previsto dall’articolo 17, comma 1, del contratto nazionale del 21.05.2018, ovvero che negli enti privi di posizioni dirigenziali i responsabili delle strutture apicali sono posizioni organizzative.
Terzo elemento chiave: i criteri per graduare le aree. L’azione serve per pesare i settori anche per corrispondere la retribuzione di posizione che va dai 5mila ai 16mila euro per i dipendenti di categoria D e dai 3mila ai 9.500 per i dipendenti di categoria C. Su questo aspetto l’Associazione dei Comuni fornisce esempi concreti sia di graduazione sia di raccordo tra quanto pesato e retribuzioni.
I criteri che vengono proposti sono la complessità relazione e la complessità operativa e organizzativa a cui si aggiunge la verifica delle attività soggette a rischio-contenzioso e la responsabilità finanziaria.
Ulteriore differenza tra piccoli e grandi enti: laddove non c’è la dirigenza l’Anci propone come ulteriore elemento la strategicità, mentre negli enti con le posizioni dirigenziali il criterio aggiuntivo, obbligatorio per contratto nazionale, è quello della delega delle funzioni dirigenziali. Il Nucleo o l’Oiv, quindi, pesano le varie aree. A questo punto è necessario correlare i punteggi con le retribuzioni da corrispondere.
Nel Quaderno operativo si trovano interessanti soluzioni che, partendo dal garantire il minimo previsto contrattualmente (5mila euro), con valori proporzionali di pesatura quantificano il valore finale della retribuzione di posizione. La retribuzione di risultato, invece, andrà contrattata all’interno del decentrato (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONuovi incarichi, tempi stretti per le regole di nomina e revoca.
Dall’Anci il Quaderno operativo con le istruzioni e gli schemi di delibera. Disciplina da approvare entro il 20 maggio dopo il confronto con i sindacati.

Stringono i tempi per aggiornare le regole sulle nuove posizioni organizzative. Sul tema arrivano le istruzioni dell’Anci, con un nuovo Quaderno operativo pubblicato questa mattina.
Il contratto nazionale del 21.05.2018 ha totalmente rivisto le modalità di affidamento degli incarichi e le regole per la graduazione delle aree. Lo strumento dell’Associazione porta con sé, quindi, molto interesse tenuto conto che le posizioni organizzative in essere verranno meno il 20 maggio prossimo.
Nel documento si parte proprio da questa scadenza e viene da subito ricordato che il contratto ha previsto delle precise relazioni sindacali che devono partire al più presto. Per determinare i criteri di nomina e di revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree è infatti necessario avviare il confronto con i sindacati. La procedura prevede che vi sia un’informazione preventiva alle organizzazioni sindacali e che queste abbiano cinque giorni di tempo per avviare il confronto. Il tutto deve però chiudersi entro trenta giorni. Agenda alla mano, quindi, per essere pronti con tutto al 20 maggio gli enti devono accelerare i tempi inviando ai sindacati i criteri generali per la costruzione dei sistemi proprio in questi giorni.
L’Anci ricorda poi che ci sono altri importanti passaggi da fare ai tavoli con le rappresentanze sindacali. In sede di contrattazione integrativa, ad esempio, saranno da contrattare i criteri per l’erogazione della retribuzione di risultato, mentre vengono ulteriormente precisate le dinamiche sulle risorse stanziate per l’istituto nel delicato rapporto con il fondo del trattamento accessorio. Infatti, se l’ente stanzia per le posizioni organizzative somme equivalenti a quelle del 2017 non ci sono problemi. Se però l’ente dovesse stanziare più somme, e queste comportano la riduzione del fondo per rispettare il tetto dell’anno 2016 previsto dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, si deve per forza passare dalla contrattazione. Nel caso contrario, invece, cioè stanziando meno risorse per le posizioni organizzative, si creerebbe la possibilità di aumentare il fondo; azione che però deve transitare dal confronto.
Gli enti senza la dirigenza hanno però beneficiato di un’ulteriore possibilità: scomputare dalle capacità assunzionali eventuali incrementi di valore degli importi dovuti al fatto che il valore massimo della retribuzione di posizione è salito con il nuovo contratto nazionale a 16mila euro. La soluzione è prevista all’articolo 11-bis del Dl 135/2018 e l’Anci si è impegnata di chiedere che la norma diventi applicabile anche negli enti con la dirigenza.
Il documento dell’Associazione propone quindi due strumenti operativi. Da una parte si trova una bozza di deliberazione di Giunta per l’approvazione dei criteri e dall’altra un vero e proprio regolamento, ovviamente adattabile da parte di ciascun ente, che si suddivide in due ulteriori sotto sezioni: i criteri per la nomina e la revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree. Secondo l’Anci, è opportuno porre quest’ultima azione in capo a un soggetto terzo: il nucleo o l’organismo indipendente di valutazione (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative: la durata dell'incarico non deve coincidere con quella del mandato del sindaco (13.03.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORelazioni sindacali e indennità, doppio nodo per gli incarichi di posizione organizzativa.
Due nodi assai intricati nella disciplina degli incarichi di posizione organizzativa sono costituiti dalle relazioni sindacali e dal tetto massimo delle risorse che possono essere destinate al finanziamento delle indennità di posizione e di risultato.
Relazioni sindacali
Nelle relazioni sindacali sommiamo il confronto, la contrattazione e la potestà per gli enti di deliberare senza il rispetto di particolari vincoli. Il confronto deve essere effettuato, previa informazione preventiva e tanto su richiesta dei soggetti sindacali quanto per iniziativa diretta dell'ente, sui criteri di conferimento, revoca e graduazione di questi incarichi.
Esso è inoltre necessario per verificare le modalità di implementazione del fondo per la contrattazione decentrata nel caso in cui l'ente decida di tagliare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni organizzative e si ricorda che è questa la forma di relazione sindacale prevista per i criteri generali di valutazione delle performance, compresa quella delle posizioni organizzative.
La contrattazione decentrata è necessaria per decidere i criteri generali per la determinazione della indennità di risultato e per stabilire una eventuale correlazione tra questa indennità e l'erogazione di incentivi previsti da specifiche disposizioni di legge, quindi ad esempio per prevedere una diminuzione dell'indennità nel caso in cui i compensi per i contenziosi condotti con successo dagli avvocati dell'ente o quelli per le funzioni tecniche superino soglie prefissate. Spetta invece alle amministrazioni decidere, senza che siano richieste particolari forme di relazione sindacale, la quota del fondo da riservare al finanziamento dell'indennità di risultato, garantendo comunque che essa non scenda al di sotto del 15%.
Nell'applicazione di questa previsione contrattuale in alcune amministrazioni si sta scegliendo di abbassare questo compenso rispetto al 25% della indennità di posizione, che sulla base del contratto 31.03.1999, era la precedente soglia massima, così da potere utilizzare queste risorse per aumentare la indennità di posizione e/o per aumentare il numero di questi incarichi.
Il tetto delle risorse
Non meno intricato è il nodo del tetto delle risorse che le amministrazioni possono destinare al finanziamento delle posizioni organizzative. Il contratto prende atto che l'articolo 23 del Dlgs 75/2017 stabilisce che le risorse del salario accessorio non devono superare quelle del 2016, vincolo che si applica non solo al fondo per la contrattazione decentrata, ma anche ai compensi per i titolari di posizioni organizzativa.
Per il finanziamento di queste risorse è previsto che negli enti con la dirigenza lo stesso sia a carico del bilancio dell'ente, come avviene da sempre negli enti senza la dirigenza, con contestuale taglio di queste somme dalla parte stabile del fondo. Una disposizione che vuole rendere più flessibili gli spazi di autonomia organizzativa, consentendo alle amministrazioni di deliberare senza doversi preoccupare di acquisire il consenso sindacale per il finanziamento degli eventuali oneri aggiuntivi.
Possibilità che è vanificata dal tetto delle risorse per il salario accessorio, fatta salva che si arrivi la possibilità –di scuola nella gran parte delle realtà- che i soggetti sindacali accettino una decurtazione del fondo per il salario accessorio per finanziare aumenti per le posizioni organizzative.
Le novità del Dl semplificazioni
Con l'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018, Dl semplificazione, come risulta dopo la conversione, è consentito ai Comuni senza dirigenti di aumentare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni organizzative diminuendo nella stessa misura le capacità assunzionali a tempo indeterminato, cioè quelle dell'anno e i resti del triennio precedente, capacità che peraltro molto spesso non sono interamente utilizzate.
Il testo accoglie in modo assai parziale la richiesta dell'Anci, visto che questa possibilità è preclusa agli enti con i dirigenti, cioè a quelli che hanno una dimensione maggiore (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative, si parte dal confronto sindacale ma la decisione è dell'Ente.
Le amministrazioni devono ridefinire l’assetto delle posizioni organizzative e devono farlo entro il 20 maggio prossimo, pena l’impossibilità di procedere al conferimento dei relativi incarichi. Ciò deve avvenire agendo su due aspetti entrambi oggetto di confronto sindacale: la definizione dei criteri generali per il conferimento e per la revoca e la definizione dei criteri per la graduazione ai fini dell’attribuzione della indennità di posizione.
Si tratta di materie che le amministrazioni possono disciplinare autonomamente in quanto decorso il termine di 30 giorni dal momento dell’avvio del confronto sindacale le materie rientrano nella piena disponibilità delle amministrazioni.
Il confronto, che deve essere richiesto entro 5 giorni dall’informativa o proposto dall’Ente, non implica che le parti debbano raggiungere un accordo ma rappresenta una modalità relazionale attraverso la quale le parti esprimono le proprie valutazioni e consentono loro di partecipare alla definizione delle misure che l’ente intende adottare; il confronto si conclude con la redazione di una sintesi delle posizioni emerse che vengono offerte alle Amministrazioni cui compete la decisione finale.
Istituzioni delle posizioni organizzative
L’istituzione delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a posizioni di lavoro che presentino le seguenti caratteristiche:
   a) deve trattarsi di funzioni di direzioni di unità organizzative che presentino particolare complessità;
   b) le funzioni di direzioni devono caratterizzarsi per l’elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa.
In alternativa l’istituzione di posizioni organizzative può riguardare attività ad alto contenuto professionale per le quali è richiesta una elevata competenza specialistica (maturata o mediante titoli di livello universitario o attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali, in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale), che deve essere verificata in sede di conferimento attraverso l’esame del curriculum.
Non è pertanto possibile prevedere l’istituzione di posizioni organizzative al di fuori delle caratteristiche sopra enunciate e, quindi, le amministrazioni non possono limitarsi alla mera individuazione ma devono specificamene motivare la presenza, rispetto alle posizioni individuate e indipendentemente dalla persona cui l’incarico verrà conferito, di tali caratteristiche. L’assenza di un idoneo apparato motivazionale che consenta di ricondurre le posizioni istituite alla caratteristiche previste dall’art. 13 del Ccnl funzioni locali espone gli atti di macro organizzazione al rischio di declaratoria di illegittimità.
Criteri generali per il conferimento degli incarichi
L’amministrazione deve, quindi, disciplinare le regole per il conferimento degli incarichi di posizione organizzativa che, nei comuni con dirigenti sono conferiti da quest’ultimi, i quali devono attenersi ai criteri generali definiti dall’Ente.
Il criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità professionale e l’esperienza acquisita e dall’altro considerare la natura e la caratteristica dei programmi da realizzare.
Tra i criteri da utilizzare per il conferimento dell’incarico l’Amministrazione deve tenere in adeguata considerazione anche gli esiti delle valutazioni individuali in attuazione dell’art. 3, comma 5, e dell’art. 25, comma 2, del Dlgs 150/2009.
Nei comuni senza dirigenza le posizioni organizzative sono conferite ai responsabili delle strutture apicali e le disposizioni contrattuali devono essere lette unitamente alla previsione di sui all’art. 50, comma 10, Dlgs 267/2000 secondo il quale la nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi è affidata alla competenza del Sindaco e al successivo art. 109, comma 2, del medesimo Decreto secondo il quale ai responsabili dei servizi vengono affidate le funzioni tipicamente dirigenziali previste dall’articolo 107, commi 2 e 3.
La graduazione della posizioni
La graduazione delle posizioni è fondamentalmente finalizzata a definire l’entità della retribuzione di posizione nei limiti minimi e massimi previsti dall’articolo 15 del Ccnl funzioni locali.
Il valore medio delle retribuzioni di posizione è legato all’entità delle risorse complessivamente disponibili per retribuzione di posizione e di risultato che non deve superare l’importo destinato a tale finalità nel 2016 e di questo importo il valore complessivo massimo destinato alla retribuzione di posizione non può superare l’80%; l’altro elemento che incide sul valore medio è il numero di posizioni istituite. Il valore complessivo 2016 può essere superato previa riduzione del fondo risorse decentrate e solo previa contrattazione decentrata.
Ai fini della graduazione gli aspetti che devono essere considerati sono i seguenti: a) la complessità organizzativa; b) la rilevanza delle responsabilità amministrative e gestionali; rispetto questi macrocriteri l’amministrazione definisce i criteri di dettaglio e le metriche di valutazione pervenendo ad una graduatoria.
Il valore della retribuzione di posizione dipenderà dal numero di graduazioni che si intendono attivare e dal numero di posizioni che si intendono istituire; una eccessiva frammentazione delle graduazioni in presenza di un numero ridotto di posizioni rischia di rendere poco gestibile il sistema delle graduazioni. Per cui è corretto che all’aumentare del posizioni istituite possa aumentare il numero delle graduazioni; il trade-off tra questi due elementi (numero di posizioni e numero delle graduazioni) deve essere risolto con criteri di ragionevolezza e tenendo ben presente l’applicabilità in concreto dei criteri, che devono essere predeterminati e indipendenti dal dipendente al quale sarà conferito l’incarico.
A tale proposito i criteri utilizzati per declinare i macro fattori previsti dal Ccnl devono essere tali da essere concretamente applicabili in relazione alle caratteristiche e alle responsabilità connesse a ciascuna posizione istituita. Per esempio, in relazione alla complessità organizzativa possono essere parametri significativi il numero dei servizi e uffici che rientrano nella direzione della posizione nonché il numero dei dipendenti. Con riferimento alla rilevanza può essere utile il riferimento alla significatività dei processi presidiati e al livello di rischio definito nell’ambito del Piano triennale di prevenzione delle corruzione.
Occorre prestare attenzione nel valutare la rilevanza all’utilizzo di criteri di incerta applicazione; a titolo di esempio stabilire come uno dei criteri per valutare la rilevanza il numero dei pareri può rendere incerta l’applicazione per quelle posizioni in cui l’entità effettiva dei pareri non è predeterminabile o comunque dipende da specifiche situazioni di contesto che possono cambiare da un anno all’altro (mentre la graduazione deve avere una sua stabilità e robustezza).
Negli enti con dirigenza, nell’ambito dei criteri per la graduazione, l’articolo 15 del Ccnl richiede di considerare anche l’ampiezza e il contenuto delle eventuali funzioni delegate con attribuzioni di poteri di firma di provvedimenti finali a rilevanza esterna; tuttavia tali ultimi aspetti attengono a misure che dipendono dallo stile organizzativo e manageriale del dirigente che conferisce gli incarichi e non sono predeterminabili in quanto ciò significherebbe imporre al dirigente, per specifiche posizioni organizzative, una sorta di “obbligo” di delega, quando previsto in sede di graduazione, che nel nostro assetto normativo non è configurabile e comunque lederebbe l’autonomia organizzativa, gestionale e manageriale del dirigente medesimo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, il tempo stringe per gli Enti Locali alle prese con le delibere.
Rimangono appena otto o nove settimane alle amministrazioni locali e regionali per adottare i criteri di istituzione, conferimento, revoca e graduazione della retribuzione per le posizioni organizzative.

La mancata adozione di queste disposizioni regolamentari entro il 21 maggio, cioè entro un anno dall'entrata in vigore del contratto del personale delle funzioni locali per il triennio 2016/2018, stipulato il 21.05.2018, determina infatti la decadenza delle posizioni organizzative. Come chiarito dall'Aran, anche se la loro scadenza "naturale" fissata dalle amministrazioni fosse successiva.
Ma si deve aggiungere che, per non rischiare di superare il termine nelle more dello svolgimento delle relazioni sindacali, le bozze di deliberazione devono essere trasmesse ai soggetti sindacali entro la metà del mese di aprile.
Informazione preventiva dei soggetti sindacali
Cominciamo proprio da questo aspetto: i criteri di conferimento, revoca e graduazione delle posizioni organizzative, che l'ente adotta con una deliberazione della giunta avente natura regolamentare, sono oggetto di informazione preventiva e, a richiesta dei soggetti sindacali, di confronto.
Ricordiamo che il confronto deve essere chiesto dai rappresentanti dei lavoratori (oltre che potere essere avviato direttamente da parte degli enti) entro 5 giorni dalla ricezione della informazione e che esso, in assenza di una intesa, inibisce all'ente la possibilità di deliberare prima di un mese dal suo avvio: per cui prudenzialmente, salvo che i suoi contenuti siano stati preventivamente concordati, si deve considerare che si può arrivare a 40 giorni circa dalla comunicazione iniziale per potere assumere la deliberazione.
Istituzione
Sulla base del nuovo contratto le amministrazioni devono decidere quali e quante posizioni organizzative istituire, scegliendo in questo ambito tra quelle preposte alla direzione di unità organizzative e le alte professionalità, senza poterne più istituire per gli uffici di staff.
Devono inoltre disciplinare i criteri di conferimento sulla base dei principi dettati dal nuovo contratto nazionale e che continuano a essere gli stessi fissati nel 1999: «le funzioni ed attività da svolgere, la natura e caratteristiche dei programmi da realizzare, i requisiti culturali posseduti, le attitudini e la capacità professionale».
Criteri che lasciano ampi spazi di discrezionalità ma che non consentono scelte di tipo esclusivamente fiduciario. In questo ambito occorre anche disciplinare le procedure -ad esempio se le scelte sono precedute da un avviso e dalla presentazione di candidature-e la durata –che per gli enti con dirigenti non può essere superiore a 3 anni.
Revoca
Le amministrazioni devono disciplinare le procedure di revoca, intendendo come tale solo quella anticipata, essendo possibile la mancata conferma alla scadenza e il conferimento ad altro dipendente. La revoca in tutti gli enti può essere disposta sulla base del contratto per mutamenti organizzativi e/o per una valutazione negativa; si deve aggiungere che, sulla base delle previsioni della legge 190/2012 (anticorruzione), può essere disposta in caso di rotazione straordinaria, cioè a seguito di procedimenti penali e che, sulla scorta del Dlgs 267/2000, ma solamente negli enti senza dirigenti, può essere motivata dalla inosservanza delle direttive impartite dall'organo di governo.
Graduazione degli incarichi
Gli enti devono disciplinare i criteri di graduazione degli incarichi di posizione organizzativa nella forcella compresa tra 5.000 e 16.000 euro. Occorre chiarire che non è obbligatorio per le amministrazioni fissare la misura considerando che il tetto debba necessariamente essere fissato in 16.000 euro: questa è la soglia massima, per cui le amministrazioni possono anche scegliere una cifra più bassa.
Il contratto prevede 2 criteri per tutti gli enti, la rilevanza delle responsabilità e la complessità; per gli enti con la dirigenza ne viene aggiunto un terzo: l'ampiezza e il contenuto dei compiti delegati, con la connessa attribuzione della titolarità ad assumere atti a rilevanza esterna (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative, aumenti di stipendio fino ai nuovi tetti contrattuali solo negli Enti senza dirigenti.
Ha resistito alla falcidia degli emendamenti in fase di conversione del decreto semplificazioni il possibile incremento della remunerazione delle posizioni organizzative, ma solo per gli enti privi di dirigenza. Il finanziamento degli aumenti, decisi in via autonoma da questi enti, dovrà avvenire all'interno delle risorse previste dal contratto nazionale (articolo 15, commi 2 e 3, del contratto 21.05.2018), ma dovrà essere coperto, se sussiste la capacità di spesa in bilancio, con una riduzione per equivalente della capacità assunzionale.
Le indicazioni dell'emendamento approvato
L'emendamento ha accolto la richiesta elaborata dall'Anci, limitandone l'applicazione ai soli enti privi di dirigenti, in considerazione delle maggiori responsabilità connesse agli incaricati di posizione organizzativa, dove il sindaco attribuisce a questo personale anche le funzioni dirigenziali (articolo 107 del testo unico degli enti locali). Non sono state, invece, considerate sufficienti le indicazioni strategiche contenute nel contratto del 21.05.2018 che ha previsto in modo innovativo, ai titolari di posizione organizzativa negli enti con dirigenza, il possibile conferimento di deleghe dirigenziali.
I limiti all'incremento economico
La possibilità riconosciuta agli enti privi di dirigenti, tuttavia, rimane condizionata a una serie di verifiche di neutralità finanziaria della spesa.
Il primo limite è dato dall'obbligatoria, correlata e identica riduzione delle capacità assunzionali, ossia riducendo il ricorso alle assunzioni esterne (concorsi, scorrimento di graduatorie, passaggio da tempo parziale a tempo pieno e mobilità non neutre). Si ricorda che le capacità assunzionali per l'anno 2019 sono pari al 100% del valore economico delle cessazioni avvenute nell'anno 2018, alle quali andranno aggiunti gli eventuali resti assunzionali non utilizzati nel triennio precedente, pari agli importi delle cessazioni, degli anni 2017, 2016 e 2015, non utilizzate.
Altro limite è rappresentato dalla spesa complessiva del personale che non potrà essere superiore alla spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013 (comma 557-quater dell'articolo 1 della legge 296/2006) ovvero, per gli enti con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno 2008 (comma 562 della legge finanziaria 2007).
La terza e ultima condizione, essendo la maggiore spesa corrente finanziata dal bilancio, riguarda pur sempre il mantenimento degli equilibri di parte corrente.
Qualora queste condizioni fossero rispettate, allora i maggiori importi erogati ai titolari di posizioni organizzative (nel limite massimo di 16.000 euro per il personale di categoria D e 9.500 per quello di categoria C), rispetto a quelli corrisposti alla data di entrata in vigore della legge di conversione, non sarà soggetta al limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che prevede di non superare i valori del salario accessorio stanziati nell'anno 2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.02.2019).

 

OKKIO:
la sanatoria edilizia non sana (anche) la violazione della normativa antisismica!!
A questo punto, però, sorge spontaneo un interrogativo:
quanti tecnici comunali, quando denunciano/relazionano un abuso edilizio alla competente Procura della Repubblica per violazione dell'art. 31, 33 o 34 DPR n. 380/2001, denunciano/relazionano anche l'(eventuale) violazione dell'art. 64, 65, 90, 93 o 94 del medesimo DPR??

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria e normativa antisismica: nuovo intervento della Cassazione.
Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio.
Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 07.05.2019 n. 19221 con la quale ha rigettato il ricorso presentato avverso una sentenza di primo grado che aveva condannato il ricorrente per il reato di abuso edilizio previsto dagli articoli 64, 65, 71, 72, 93 e 95 del DPR n. 380/2001 (c.d. Testo Unico Edilizia).
In particolare, il Tribunale di primo grado aveva condannato l'attuale ricorrente per i suddetti reati, dichiarando di non doversi procedere per il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), del Testo Unico Edilizia perché estinto per il rilascio del permesso a costruire in sanatoria. In appello, il ricorrente ha fatto presente che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria da parte dell'Amministrazione ai sensi dell'art. 36 del DPR n. 380/2001 implicherebbe l'estinzione di tutti i reati essendo stata verificata la doppia conformità urbanistica.
Gli ermellini, rigettando il ricorso, hanno confermato che sull'argomento esiste ormai una pacifica giurisprudenza che in tema di reati edilizi afferma che il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del Testo Unico Edilizia comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio. Nel caso in esame, il Tribunale si è attenuto al principio ora evocato, correttamente limitando gli effetti del rilascio del permesso in sanatoria al solo reato edilizio, con esclusione degli ulteriori reati di cui agli artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95 del DPR n. 380/2001 (commento tratto da www.lavoripubblici.it).
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SENTENZA
5. Ciò premesso, il ricorso è inammissibile.
Invero, per pacifica giurisprudenza, in tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio (Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017 - dep. 07/08/2017, Rizzo, Rv. 270792; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014 - dep. 22/10/2014, Conforti, Rv. 261099).
Nel caso in esame, il Tribunale si è attenuto al principio ora evocato, correttamente limitando gli effetti del rilascio del permesso in sanatoria al solo reato edilizio, con esclusione degli ulteriori reati di cui agli artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95 d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19221).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di una veranda - Natura tecnico-giuridico di nuovo locale autonomamente utilizzabile - Esclusione del carattere di precarietà - Permesso di costruire - Natura precaria o permanente dell'intervento - Costruzioni realizzate in zona sismica - Disciplina sismica - Applicazione - Artt. 44, c. 1, lett. c), 83, 93, 94, 95, d.P.R. n. 380/2001.
In materia edilizia, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile. Inoltre, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, anche alle opere edili con struttura in legno, a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento (Sez. 3, n. 4567 del 10/10/2017 - dep. 31/01/2018, Airo' Farulla; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015 - dep. 11/12/2015, Baio) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.05.2019 n. 18000 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, anche alle opere edili con struttura in legno, a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento.
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4. Il terzo motivo è infondato.
4.1. Va premesso che le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, anche alle opere edili con struttura in legno, a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento (Sez. 3, n. 4567 del 10/10/2017 - dep. 31/01/2018, Airo' Farulla, Rv. 273068; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015 - dep. 11/12/2015, Baio, Rv. 266033).
4.2. Ciò chiarito, la Corte territoriale ha puntualmente confutato, con apprezzamento fattuale logicamente motivato, la valutazione espressa dal primo giudice, che aveva escluso la concreta offensività del fatto, correttamente evidenziando le caratteristiche strutturali e dimensionali della veranda coperta, costituita da cinque ritti in legno, con copertura a falde composta da assoni e travi di legno, sormontate da tavolato e regolato, con superficie residenziale di 55 mq. e con un'altezza media di 3,30 m. e volume di 180 mc.; da tali elementi la Corte territoriale, con apprezzamento fattuale non manifestamente illogico, ha desunto che l'opera costituisce un serio pericolo per l'incolumità pubblica, essendo stata realizzata senza ottemperare alle prescrizioni previste in materia antisismica.
4.3. Non pertinente appare il richiamo all'art. 131-bis cod. pen., il quale, prevedendo una causa di esclusione di punibilità, presuppone la sussistenza di un fatto tipico e offensivo, ancorché di un'offensività minima, valutata secondo i parametri previsti dalla norma, così impedendo la punibilità di fatti tipici così esiguamente lesivi del bene giuridico tutelato da non risultare meritevoli di pena.
Si osserva, infine, che l'imputata, nella memoria difensiva, alle cui argomentazioni e richieste si era riportato il difensore in sede di discussione, non aveva richiesto, pur in via gradata, l'applicazione dell'art. 131-bis cod. pen., la cui applicabilità nel caso concreto, in ogni caso è stata -sia pure implicitamente- esclusa, dalla Corte territoriale, laddove ha ravvisato la non trascurabile offensività della condotta in considerazione delle caratteristiche strutturali e dimensionali dell'opera in esame
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.05.2019 n. 18000).

EDILIZIA PRIVATA: Antisismica, violare è un reato. Non è rilevante la mancata pericolosità dell’edificio. Linea dura della Cassazione: da ogni modifica discende la responsabilità penale.
Costruire in zone antisismiche in violazione delle disposizioni di legge configura un reato indipendentemente dalla pericolosità dell'edificio realizzato.
Per la Corte di Cassazione - Sez. III penale (sentenza 08.02.2019 n. 6243) da ogni modifica ad una costruzione compiuta in zona sismica contrariamente alle prescrizioni, discende la responsabilità penale. All'imputato veniva contestata la violazione degli articoli 44, lett. c), dpr 380/2001 (capo A), 93-95, dpr 380/2001 (capo B) e 181, dlgs 42/2004 (secondo capo A) per avere compiuto opere di muratura aventi ad oggetto una costruzione sita in zona sismica. All'assoluzione in primo grado conseguiva una condanna in appello.
Il procedimento proseguiva per cassazione ove l'imputato a propria discolpa deduceva tra i motivi di ricorso, anche l'assenza di uno dei requisiti richiesti dalla normativa per la configurabilità del reato: la costruzione anche a seguito delle opere realizzate non presentava il carattere della pericolosità richiesto per la punibilità della condotta.
Il procedimento, dopo avere esaurito il proprio corso veniva deciso dagli ermellini. I quali escludono che tra i requisiti richiesti dalla normativa, rientri anche quello della pericolosità della costruzione a seguito delle opere compiute. Osservano infatti che il bene tutelato viene ad ogni modo leso indipendentemente dalle caratteristiche assunte dalla costruzione a seguito dei lavori effettuati.
Ad avviso dei giudici la funzione della normativa nel settore antisismico è costituita dalla tutela dell'attività di controllo della pubblica amministrazione circa l'esecuzione delle opere in tali settori del territorio, garantendo con la previsione di apposite figure di reato e delle relative sanzioni l'adempimento degli obblighi di legge e delle prescrizioni impartite dall'amministrazione durante il compimento delle costruzioni
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).
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MASSIMA
1. Il secondo motivo del ricorso della Lo. e il primo motivo del ricorso di In. possono essere trattati congiuntamente, concernendo entrambi, in termini sovrapponibili, il giudizio sulla configurabilità dei reati contestati, che invero, a differenza di quanto dedotto, non presenta vizi rilevabili in questa sede.
La sentenza impugnata, infatti, ha innanzitutto operato un'adeguata ricostruzione della vicenda oggetto di impugnazione, pervenendo a coerenti conclusioni giuridiche, all'esito di un percorso motivazionale non illogico e ben più esaustivo della scarna esposizione della sentenza assolutoria di primo grado.
I giudici di appello hanno invero rimarcato come il Tribunale abbia indebitamente ridimensionato la rilevanza urbanistica delle opere contestate, con particolare riferimento alla realizzazione in muratura della tamponatura perimetrale della veranda di circa 27 metri quadri e all'edificazione della tettoia di 48 metri quadri.
Tali opere non potevano ritenersi regolarmente assentite né dalla d.i.a. presentata il 18.04.2013, né dal nulla osta rilasciato dalla Soprintendenza il 18.07.2012, né dalla precedente concessione edilizia in sanatoria, avendo entrambe le opere caratteristiche strutturalmente ben diverse rispetto a quelle riportate nei progetti assentiti, posto che, quanto alla veranda-cucina, era prevista sia la perimetrazione in legno e non in muratura, come in realtà accertato, sia una diversa e minore altezza (di circa 20 cm.) della linea di gronda rispetto a quella rilevata in sede di sopralluogo, mentre, per quanto concerne la tettoia di 48 mq., la stessa, per come verificato dalla P.G., era a falda inclinata e aveva un'altezza di 2,45 metri alla gronda e di 2,70 metri al colmo, mentre negli elaborati progettuali era prevista una struttura piana con altezza di 2,25 metri.
Alla stregua di tali elementi, desunti da una rilettura più attenta delle acquisizioni probatorie, soprattutto di natura documentale, la Corte dì appello ha dunque ritenuto configurabili tutte e tre le fattispecie contestate, richiamando, quanto ai reati di cui agli art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d.lgs. 42 del 2004, oltre alla pacifica circostanza della costruzione delle opere in area vincolata dal punto di vista paesaggistico, la costante affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Rv. 257290 e Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Rv. 247628), secondo cui assume rilievo penale la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata, a nulla rilevando che si trattasse di strutture aperte all'esterno.
In ordine poi alla contravvenzione di cui all'art. 93-95 del d.P.R. 380 del 2001, i giudici di appello hanno rimarcato la natura meramente assertiva della motivazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui ha ritenuto che le riscontrate variazioni rispetto agli elaborati progettuali, per la loro entità, non abbiano comportato alcun "disequilibrio nell'economia complessiva dell'impianto architettonico, statico e paesaggistico della costruzione nel suo complesso", mentre in realtà, come sostenuto anche dal funzionario del Genio civile di Agrigento Gi.Ca., la preventiva autorizzazione del predetto Ufficio sarebbe stata necessaria, ricadendo in area sismica le tettoie realizzate, peraltro dotate di dimensioni e caratteristiche strutturali non proprio trascurabili e dunque potenzialmente idonee a mettere in pericolo la pubblica incolumità.
Peraltro, come ricordato dalla Corte territoriale e come ribadito più volte dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Rv. 238007),
in tema di costruzioni in zone sismiche, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie nelle zone sismiche.
Ribadita la configurabilità delle fattispecie contestate, risulta altresì immune da censure il giudizio di ascrivibilità delle stesse agli odierni imputati, alla luce delle rispettive qualità di proprietaria e committente delle opere (la Lo.) e di progettista e direttore dei lavori (In.), avendo quest'ultimo curato, in prossimità dell'accertamento dei reati, anche l'iter procedimentale dei lavori, rivelatosi tuttavia inadeguato rispetto alle attività edilizie in concreto realizzate.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata, in quanto saldamente ancorata alle fonti dimostrative acquisite e sorretta da argomentazioni prive di profili di irrazionalità, si sottrae alle doglianze difensive, che invero, oltre ad articolarsi in considerazioni prevalentemente fattuali (scontando peraltro i ricorsi evidenti limiti di autosufficienza), appaiono fondate su una non consentita lettura alternativa, e comunque frammentaria, dell'intero materiale probatorio raccolto (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2019 n. 6243.

EDILIZIA PRIVATASecondo la uniforme giurisprudenza di questa Corte, deve escludersi l'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria per le opere realizzate in violazione della disciplina antisismica.
E tale esclusione riguarda anche la disciplina delle opere in cemento armato.
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3. Del tutto errata risulta, al contrario, l'affermazione, contenuta nel motivo di ricorso in esame, secondo la quale la sanatoria conseguita dall'imputato avrebbe comportato anche l'estinzione della violazione della disciplina antisismica.
Va detto, peraltro, che anche sul punto la sentenza impugnata offre una confusa descrizione della sequenza procedimentale che avrebbe preceduto il rilascio del titolo abilitativo sanante, facendo peraltro riferimento a titoli diversi (concessione, autorizzazione, denuncia attività), ad attività di demolizione di opere in difformità e ad altra procedura di sanatoria pendente per l'abuso di cui al capo a) punto 5 per il quale è intervenuta comunque l'assoluzione.
Ciò nonostante, va comunque osservato che, secondo la uniforme giurisprudenza di questa Corte, deve escludersi l'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria per le opere realizzate in violazione della disciplina antisismica.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è uniforme (v., ex pl., Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino, Rv. 246462; Sez. 3, n. 19256 del 13/04/2005, Cupelli, Rv. 231850; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep. 1998), Agnesse, Rv. 209571) e le esclusioni individuate dalla condivisibile lettura della norma in esame, hanno superato anche il vaglio della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. 149 del 30.04.1999).
Va per inciso rilevato che tali esclusioni riguardano anche la disciplina delle opere in cemento armato, la sanabilità delle quali il Tribunale ha invece erroneamente ammesso (v. Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna A, Rv. 22143901: Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997 (dep. 1998), Casà G, Rv. 20966201 ed altre prec. conf.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2017 n. 38953).

EDILIZIA PRIVATA: M. Blonda, Il rilascio della c.d. concessione in sanatoria estingue anche i reati antisismici? Ecco cosa comporta costruire un immobile in violazione delle norme antisismiche (06.11.2014 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria disciplinata dall'art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 concerne soltanto i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività diversa da quella attinente l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
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2. Non può nutrirsi alcun dubbio sul fatto che la sanatoria disciplinata dall'art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 concerne soltanto i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività diversa da quella attinente l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio (Sez. 3, n. 2114 del 26/11/2002 - 17/01/2003, Frascani, Rv. 223145); pertanto nessun rilievo può assumere la concessione in sanatoria richiamata dal ricorrente (Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, sentenza 22.10.2014 n. 44015).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio della concessione in sanatoria determina la estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e non riguarda gli altri reati concernenti aspetti delle costruzioni aventi una oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela urbanistica del territorio (nel caso di specie la violazione della normativa antisismica).
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RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 25/10/2013, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Fr.Pa.Sa. e An.Sa., in ordine al reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, nonché di violazione della normativa antisismica, per intervenuto rilascio di concessione edilizia in sanatoria. Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, eccependo violazione di legge, in quanto il decidente ha errato nel considerare che la sanatoria ottenuta dai prevenuti potesse avere incidenza anche sui reati ex artt. 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e va accolto.
Deve, infatti, osservarsi che l'art. 95, d.P.R. 380/2001, sanziona la violazione delle norme tutte dettate per le costruzioni in zone sismiche, previste nel medesimo testo unico ovvero nei decreti interministeriali cui rinviano gli artt. 52 e 83, citato decreto.
Le contravvenzioni de quibus possono concorrere con le fattispecie di cui all'art. 44 del citato t.u., tuttavia ad esse non è applicabile la disciplina relativa alla richiesta di sanatoria ex art. 45, essendo questa riferita alle sole norme che regolano l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
Conseguentemente, il rilascio della concessione in sanatoria determina la estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e non riguarda gli altri reati concernenti aspetti delle costruzioni aventi una oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela urbanistica del territorio (ex multis Cass. 12/05/2005, n. 21978).
La sentenza impugnata va, quindi, annullata con rinvio, affinché il giudice ad quem proceda in ordine ai reati di cui ai 2) e 3) della imputazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.10.2014 n. 42550).

IN EVIDENZA

ENTI  LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORevoca quasi impossibile per il ragioniere capo.
I nuovi principi contabili hanno inciso in modo significativo sul ruolo del responsabile dei servizi finanziari, tanto che l'Osservatorio sulla finanza locale e la contabilità degli enti locali, ha emanato l'atto di orientamento 26.10.2018 teso a evitare strumentali rotazioni degli incarichi o revoche anticipate in considerazione del delicato ruolo attribuitogli dall'ordinamento.
Le indicazioni del decreto del 2012
Si ricorda come le iniziali indicazioni del Dl 174/2012 prevedevano che «L'incarico di responsabile del servizio finanziario di cui all'articolo 153, comma 4, può essere revocato esclusivamente in caso di gravi irregolarità riscontrate nell'esercizio delle funzioni assegnate. La revoca é disposta con Ordinanza del legale rappresentante dell'Ente, previo parere obbligatorio del Ministero dell'interno e del Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato».
La norma, tuttavia, è stata successivamente espunta in sede di conversione dalla legge 213/2012, mentre sono restate intatte le ulteriori funzioni che attribuiscono al responsabile finanziario il controllo sugli equilibri di bilancio e dei vincoli di finanza pubblica, disponendo, altresì, che nell'esercizio di queste funzioni il responsabile del servizio finanziario agisce «in autonomia», segnalando, fra l'altro, eventuali squilibri anche alla Corte dei conti.
Precisa l'Osservatorio come, la Consulta (sentenza n. 184/2016) abbia avuto modo di esaltare la regola che la copertura economica di spese ed equilibri di bilancio sono due facce della stessa medaglia dal momento che l'equilibrio presuppone che ogni intervento programmato sia sorretto dalla previa individuazione delle risorse.
Pertanto, nel ruolo affidato al responsabile del servizio finanziario è di primaria importanza la realizzazione di questi obiettivi con la conseguenza della tendenziale stabilità nel tempo della figura del responsabile finanziario.
Sulla rotazione degli incarichi
Una volta chiarita la necessaria stabilità del ruolo del responsabile dei servizi finanziari è necessario trovare un coordinamento con le disposizioni dei piani anticorruzione che indicano come necessaria la rotazione degli incarichi dirigenziali. In questo caso una rotazione del ruolo del responsabile finanziario non potrà che essere attentamente valutata dall'ente tenendo conto obbligatoriamente dell'infungibilità di questa figura dirigenziale, con alcune precisazioni.
La prima precisazione riguarda la verifica che la rotazione non comprometta il buon andamento e la continuità dell'azione amministrativa e cioè che non siano in alcun modo compromesse le funzioni di conservazione e salvaguardia degli equilibri di bilancio. In altri termini le motivazioni di una rotazione dell'incarico dovranno essere indirizzate sulle necessarie competenze professionali del nuovo responsabile necessarie per lo svolgimento delle attribuzioni del servizio finanziario.
La seconda precisazione riguarda la sostanziale infungibilità della posizione del responsabile finanziario con obbligo di soprassedere dall'attuare la misura di prevenzione della corruzione qualora non sia in grado di garantire il conferimento dell'incarico a soggetti dotati delle competenze necessarie per assicurare la continuità dell'azione amministrativa.
Sulla revoca degli incarichi
Al fine di stabilire ed evitare che l'ente possa attuare forme discriminatorie di risoluzione anticipata degli incarichi dei responsabili degli uffici finanziari, l'Osservatorio fa proprie le prime indicazioni del Dl 174/2012 ma, in considerazione della sua espunzione in sede di conversione in legge, mediante specifico inserimento nel regolamento di contabilità.
In altri termini, il regolamento di contabilità potrà prevedere che la revoca sindacale dell'incarico di responsabile finanziario, attesa l'assoluta prevalenza delle sue attribuzioni alla tutela di profili ordinamentali, potrà essere limitata ai casi di gravi e riscontrate irregolarità contabili e subordinata all'acquisizione di un parere obbligatorio e vincolante del Consiglio dell'ente, da comunicare entro 30 giorni dall'adozione alla competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti locali, ragionieri stabili. Rotazione e revoca solo in caso di gravi irregolarità. L’Osservatorio per la finanza e la contabilità: valutare attentamente l’avvicendamento.
Rotazione e revoca cum grano salis per i ragionieri di comuni, province e città metropolitane. Le due misure, che di fatto determinano (sia pure per ragioni diverse) la sostituzione del responsabile del servizio finanziario, devono essere attentamente soppesate e motivate al fine di non pregiudicare il buon andamento e la continuità dell'azione amministrativa.
Possono essere sintetizzate in questi termini le indicazioni 26.10.2018 fornite dall'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, che ha dedicato all'argomento un atto di orientamento finalizzato a incentivare comportamenti omogenei nell'adozione di provvedimenti organizzativi che incidano su tale cruciale figura. Quest'ultima svolge, infatti, funzioni di primaria importanza ai fini della salvaguardia degli equilibri finanziari e contabili delle amministrazioni, sia per i compiti di verifica della veridicità delle previsioni, sia per quelli di vigilanza sulla legittimità degli atti di gestione.
Logico corollario di tale specifica responsabilità non può che essere, in via di principio, la tendenziale stabilità nel tempo della stessa figura. Basti pensare che il dl 174/2012 aveva subordinato la revoca del ragioniere al parere obbligatorio del ministero dell'interno e della Ragioneria generale dello stato. Tale norma è stata poi stralciata, ma l'esigenza rimane ferma.
L'Osservatorio, quindi, suggerisce di disciplinare a livello regolamentare il procedimento, consentendone l'avvio solo per «casi di gravi e riscontrate irregolarità contabili» e prevedendo l'acquisizione di un parere obbligatorio e vincolante del consiglio dell'ente, da comunicare entro 30 giorni alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Analogamente, la rotazione per finalità di prevenzione della corruzione dovrà essere disposta solo in modo da non compromettere il regolare svolgimento delle suddette funzioni.
Tale garanzia non dovrà esaurirsi in una mera clausola di stile motivazionale, ma dovrà indicare le concrete misure che la inverano, tra le quali, di primaria importanza, la sussistenza reale delle competenze professionali del nuovo responsabile. In mancanza, gli enti potranno soprassedere e optare per misure anticorruttive alternative
(articolo ItaliaOggi del 14.11.2018).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Cassazione: le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale ma in modo lineare. Ai Comuni è sì consentito stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.
Le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare. Lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è di impedire la formazione di intercapedini nocive.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella sentenza 16.04.2019 n. 10580.
In questa recente sentenza viene richiamato un consolidato orientamento della Cassazione, secondo cui "
le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto" (così Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).
Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell'art. 873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare (commento tratto da www.casaeclima.com).

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I primi tre motivi, tra loro strettamente connessi, sono fondati.
Il giudice d'appello ha osservato che "oggetto di censura è unicamente la modalità radiale di misurazione" cui sono quindi limitati "l'esame e la decisione del gravame", che, in forza del richiamo operato dagli artt. 872 e 873 c.c., i regolamenti edilizi e i piani regolatori generali hanno valore di legge e possono sempre stabilire una distanza maggiore, il che può indifferentemente avvenire sia in virtù della espressa indicazione di una maggiore misura dello spazio che come effetto di una particolare misurazione da essi imposta, così che -conclude il giudice- è legittimo il metodo radiale stabilito dall'art. 18 delle norme di attuazione del piano regolatore del Comune di Lierna e bene ha fatto il giudice di primo grado ha ritenere violata la distanza minima.
L'iter argomentativo del giudice si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui "
le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto" (così Cass. 2548/1972,  più di recente cfr. Cass. 9649/2016).
Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell'art. 873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.
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Al riguardo, si legga anche:
  
● F. Ressa, Come misurare la distanza tra edifici? Lo ha chiarito la Cassazione (09.05.2019 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di limitazioni legali della proprietà, l'art. 873 cod. civ., avendo la finalità di impedire intercapedini dannose, prevede che le norme sulle distanze legali si applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano, sicché la loro misurazione deve essere effettuata in modo lineare, e non in modo radiale (ossia "a raggio") come invece previsto in materia di vedute.
La norma dell'art. 873 cod. civ., pertanto, non trova applicazione se non nel caso in cui i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farli avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto.
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2. — Entrambe le censure non possono trovare accoglimento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, in tema di limitazioni legali della proprietà, l'art. 873 cod. civ., avendo la finalità di impedire intercapedini dannose, prevede che le norme sulle distanze legali si applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano, sicché la loro misurazione deve essere effettuata in modo lineare, e non in modo radiale (ossia "a raggio") come invece previsto in materia di vedute (Sez. 2, Sentenza n. 7285 del 07/04/2005, Rv. 580948; Sez. 2, Sentenza n. 4639 del 24/05/1997, Rv. 504678; Sez. 2, Sentenza n. 7048 del 25/06/1993, Rv. 482917); la norma dell'art. 873 cod. civ., pertanto, non trova applicazione se non nel caso in cui i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farli avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto (Sez. 2, Sentenza n. 2548 del 25/07/1972, Rv. 360058).
Nella specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tale principio. Essa, infatti, tenendo conto del fatto che il confine tra il fondo degli attori e quello dei convenuti è obliquo, ha verificato —sulla base degli elaborati del C.T.U.— che la proiezione lineare del fabbricato dei convenuti non si interseca affatto col fabbricato degli attori, in tal modo pervenendo a conclusioni coincidenti con quelle del consulente tecnico d'ufficio (p. 4 della sentenza impugnata). Dal che esattamente la Corte territoriale ha concluso che le norme sulle distanze legali non fossero state violate (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.05.2016 n. 9649).

IN EVIDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifiche rafforzate per impianti che sorgono in contesti residenziali. Un parere del Consiglio di Stato impone obiettivi parametrati alla funzione urbanistica.
Per stabilire gli obiettivi di bonifica di un sito non basta capire il suo concreto utilizzo; occorre anche calarlo nel contesto urbano. Per cui se un distributore di carburante sorge in un ambito residenziale i parametri ambientali di bonifica dovrebbero essere più stringenti e rafforzati.

Questo il principio espresso dal Consiglio di Stato -Sez. I- nel parere 15.04.2019 n. 1156 reso su un ricorso straordinario al Presidente della repubblica.
In sintesi, i giudici amministrativi, pur riconoscendo che il quadro legislativo di riferimento è di difficile interpretazione, riferendosi appunto a una pompa di benzina giungono a ritenere che i principi di precauzione e azione preventiva impongano di definire gli interventi di bonifica non solo con riferimento al concreto utilizzo del sito (produttivo), ma anche con riferimento al contesto urbano in cui il sito si colloca (residenziale).
Il Dlgs 152/2006 definisce due soglie di verifica per la potenziale contaminazione di un sito:
  
una parametrata alla destinazione residenziale e verde pubblico/privato;
  
l’altra a quella industriale e commerciale.
Anche gli obiettivi di bonifica di un sito contaminato sono diversificati: più cautelativi nel primo caso, più tolleranti nel secondo.
Ma le destinazioni urbanistiche sono molto più variegate di quelle definite dalla normativa ambientale (servizi, terziario, ricettivo) e, in molti casi, il Piano regolatore generale consente di insediare in un’area diverse funzioni e destinazioni, introducendo spesso anche il più moderno concetto di «indifferenziazione funzionale», ossia la possibilità di diversificare senza particolari limitazioni l’uso degli immobili.
In via estensiva si pone, così, il tema interpretativo di stabilire quali siano le tabelle ambientali di riferimento e se debba prevalere l’uso teorico del sito per come previsto nello strumento urbanistico generale, ovvero quello concreto sancito dai titoli edilizi.
La poca giurisprudenza sul punto (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 25.02.2014 n. 255, che risulta appellata) ha sempre privilegiato l’uso teorico futuro per parametrare gli obiettivi di bonifica. Ora il Consiglio di Stato pare andare oltre, stabilendo che debba essere considerato anche il contesto urbanistico circostante.
Se il caso dei distributori di carburante rappresenta un tema peculiare (peraltro oggetto di diverse linee guida specifiche), l’argomento in sé riveste attualità in quanto molti sono i casi di bonifiche di siti industriali in contesti urbanizzati o con nuove funzioni teoricamente ammesse.
Tuttavia, la scelta non può essere unicamente basata sul principio di precauzione e prevenzione, ma deve anche muovere da situazioni oggettive, quali quella di sostenibilità economica degli interventi di bonifica e della volontà degli operatori rispetto all’effettivo uso (attuale o futuro) del sito. Porre obiettivi sempre più cautelativi non sempre equivale ad una maggior tutela dell’ambiente e della salute.
In assenza di adeguate risorse economiche (private e pubbliche) per la bonifica, si ottiene un risultato contrario: più siti contaminati e meno bonificati. Forse allora il vero obiettivo di sostenibilità ambientale imporrebbe un uso più razionale del territorio che consideri lo stato di contaminazione come base di partenza per valutare gli scenari di riutilizzo del sito e del contesto urbano circostante (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2019).
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SENTENZA
2. La questione centrale attorno alla quale ruota la soluzione della controversia in esame si riassume nella domanda se nell'analisi di rischio di un distributore di carburanti la destinazione d’uso del sito, rispetto alla quale la normativa vigente differenzia i valori delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) da prendere a riferimento, sia quella prevista nella strumentazione urbanistica o quella effettivamente in atto.
3. Giova premettere che l’art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede, al comma 4, in linea generale, che “Sulla base delle risultanze della caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)”, e che, tra gli allegati al titolo V della parte IV, l’allegato 5 -Concentrazione soglia di contaminazione nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti– distingue i valori dei composti inorganici (espressi in termini di concentrazione soglia di contaminazione nel suolo e nel sottosuolo) in riferimento alla specifica destinazione d'uso dei siti da bonificare (siti ad uso verde pubblico e privato e residenziale nella colonna “A” e siti ad uso commerciale e industriale in quella “B”).
4. Sostiene la parte ricorrente che, trattandosi di un impianto distributore di carburanti non in dismissione, ma ancora in funzione, i valori delle CSC debbano essere quelli (meno severi) propri dell’uso in atto del sito, inteso come area di sedime dell’impianto, da considerare in sé come commerciale e industriale, e non (come invece preteso dall’amministrazione) quelli (più impegnativi) propri della destinazione d’uso residenziale della zona nella quale l’impianto ricade, così come definita nello strumento urbanistico.
5. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, cui deve ascriversi una speciale competenza istituzionale nell’interpretazione e nell’applicazione della normativa di settore, in particolar modo nel quadro del (così detto) “codice” dell’ambiente, di cui al più volte citato d.lgs. n. 152 del 2006, una volta chiarito che non può trovare applicazione nel caso di specie, ratione temporis, la sopravvenuta disciplina speciale introdotta con il d.m. 12.02.2015, n. 31 (Regolamento recante criteri semplificati per la caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica dei punti vendita carburanti, ai sensi dell'articolo 252, comma 4, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152), ha ritenuto “non condivisibile l'osservazione della parte ricorrente secondo la quale ciò che rileva è la destinazione effettiva dell'area che, nel caso di specie, è commerciale, in deroga, quindi, al certificato di destinazione d'uso dell'area (che è di tipo residenziale)”, con l’ulteriore rilievo per cui “l'appendice V dei criteri ISPRA richiamata dalla parte ricorrente ... fa esclusivo riferimento all'utilizzo effettivo del sito, riguardo al modello concettuale per l'analisi di rischio (ad es. per la valutazione dei bersagli), mentre il confronto con le CSC di riferimento è relativo al certificato di destinazione d'uso, come già esposto”.
6. Tra le due tesi che si contendono il campo la Sezione giudica più convincente quella sostenuta dal competente Ministero e dall’amministrazione intimata.
Pur a fronte di un dato testuale del decreto legislativo di settore poco perspicuo (sia nella parte dell’articolato, sia in quella degli allegati), e non chiarito dai decreti attuativi, né dalla linee guida dell’ISPRA (inidonee a modificare la norma giuridica in quanto mere regole tecniche),
criteri interpretativi sistematici e finalistici inducono a ritenere che gli obiettivi di “promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali (art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006) e “della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina paga" (art. 3-ter stesso decreto) siano più adeguatamente conseguiti e soddisfatti commisurando gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica dei punti vendita carburanti al livello di tutela ambientale richiesto, alla stregua della pertinente strumentazione urbanistica, per l’area a destinazione residenziale all’interno della quale si colloca l’impianto, piuttosto che al livello (meno protettivo) richiesto ove si consideri isolatamente l’impianto (e il suo mero sedime), come sito ad uso (fattualmente) commerciale e industriale.
7. Conclusivamente, il ricorso deve giudicarsi infondato e andrà come tale respinto.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifiche - Ordinanze comunali - Società responsabile incorporata per fusione - Obblighi - Società incorporata - Subentra - Acque emunte - Equiparazione tout court con le acque reflue industriali - Esclusione.
Così come l'ordine di bonifica può essere legittimamente rivolto all'autore dell'inquinamento anche per condotte anteriori al Dlgs 22/1997, allo stesso modo il medesimo ordine può essere rivolto al suo successore universale.
Quest’ultimo subentra in tutti gli obblighi della società incorporata e quindi anche negli obblighi di facere, connessi alla posizione di garanzia assunta dall'autore dell'inquinamento a causa della sua pregressa condotta commissiva.
In capo alla società che succede a un’altra a seguito di incorporazione per fusione è quindi riscontrabile un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla società incorporata, se non si fosse estinta.
Visto che le norme penali che sanzionano il mancato adempimento degli obblighi di bonifica (e non l'inquinamento prodotto in epoca precedente) collegano la pena alla mancata realizzazione della bonifica, differenziare la posizione di responsabilità dell'autore materiale dell'inquinamento da quella del suo successore universale non ha senso.

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2. Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Con le censure contenute nel primo dei primi e dei secondi motivi aggiunti, sopra rubricati come sesto e sedicesimo motivo, la parte ricorrente lamenta che nessun ordine di bonifica può esserle rivolto in quanto l’inquinamento risale alle lavorazioni svolte da Cl. Spa precedentemente al suo subentro nella proprietà dei terreni, e che pertanto, in quanto proprietaria incolpevole, non può essere obbligata alla bonifica.
Le conclusioni cui giunge la parte ricorrente non possono essere condivise, perché in realtà la problematica che attiene alla possibilità o meno di coinvolgere nella procedura di bonifica il proprietario che non ha causato la contaminazione, è estranea alla controversia in esame.
Infatti, e ciò è dirimente, la ricorrente So.it. per il gas Spa, come eccepito dalla Regione Veneto e dal Comune di Venezia, ha incorporato per fusione la Società Cl. Spa con atto del 24.12.1970 ed è a tale titolo che è subentrata nella proprietà del terreno oggetto della procedura di bonifica.
La ricorrente sostiene che sarebbe inconferente il richiamo all’incorporazione per fusione, perché questa non dà luogo ad una continuità dei rapporti giuridici per fusioni avvenute prima dell’entrata in vigore (il 01.01.2004) del Dlgs. 24.12.2003, n. 6, che ha modificato l’art. 2504-bis c.c. nel testo ad oggi vigente, che ha sancito la prosecuzione dei relativi rapporti giuridici, e che in ogni caso l’incorporazione per fusione non costituisce titolo di responsabilità della società incorporante quando l’inquinamento sia stato cagionato antecedentemente all’entrata in vigore della normativa in materia di bonifica di cui al Dlgs. 05.02.1997, n. 22, e la società subentrante non abbia proseguito l’attività della società incorporata.
A sostegno di tali conclusioni la parte ricorrente cita alcune pronunce giurisprudenziali (Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 19.04.2007, n. 1913 confermata in appello con sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 05.12.2008, n. 6055).
Il Collegio ritiene di non poter condividere questo ordine di idee.
Infatti quanto al primo rilievo, va osservato che anche nel regime precedente alla modifica dell'art. 2504-bis c.c. ad opera del Dlgs. 17.01.2003 n. 6, la fusione di una società determinava una situazione giuridica corrispondente alla successione universale con la contestuale sostituzione nella titolarità di tutti i rapporti giuridici attivi e passivi (ex pluribus cfr. Cass. Sez. lav., 22.03.2010, n. 6845; Cass. Sez. Un., 28.12.2007, n. 27183; Cass. Sez. 3, 13.03.2009, n. 6167; Cass. 06.05.2005, n. 9432; Cass. 25.11.2004, n. 22236; Cass. 03.08.2005, n. 16194; Cass. 24.06.2005, n. 13695), come si evince dalla precedente formulazione dell'art. 2504-bis c.c., comma 1, la quale statuiva che "la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte" (è proprio il riferimento testuale alle "società estinte" che ha indotto giurisprudenza e dottrina a ritenere che si tratti di successione a titolo universale).
Quanto al secondo rilievo, va osservato, aderendo alle conclusioni cui è giunta altra e più persuasiva giurisprudenza (cfr. con riguardo ad una fattispecie di fusione Tar Toscana, Sez. II, 01.04.2011, n. 573), che l’inquinamento è una situazione permanente, in quanto perdura fino a quando non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati entro limiti accettabili, con la conseguenza che le disposizioni di cui al Dlgs. 05.02.1997, n. 22, vanno applicate a qualunque sito risulti inquinato a prescindere dal momento nel quale possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori della contaminazione.
Infatti, secondo la ricostruzione effettuata dalla giurisprudenza amministrativa, anche le norme di carattere penale che sanzionano il mancato adempimento degli obblighi di bonifica, collegano la pena non al momento in cui viene cagionato l’inquinamento o il relativo pericolo, ma alla mancata realizzazione della bonifica, che è l’attività necessaria a far cessare gli effetti di una condotta omissiva a carattere permanente (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.10.2007, n. 5283; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.01.2013, n. 50), e la sanzione colpisce non l’inquinamento prodotto in epoca precedente, ma la mancata eliminazione degli effetti che permangono nonostante il decorso del tempo (alle medesime conclusioni giunge quell’orientamento della giurisprudenza penale secondo il quale l’art. 51-bis del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, si configura quale reato omissivo di pericolo presunto, che si consuma ove il soggetto non proceda ad adempiere l’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentali normativamente definite: cfr. Cass. pen., Sez. III, 28.04.2000, n. 1783; va dato atto che un diverso orientamento è stato espresso da Cass. civ. 21.10.2011, n. 21887).
Poste tali premesse, deve pertanto concludersi che la Società ricorrente, essendo succeduta a titolo universale alla Società Cl. Spa a seguito della sua incorporazione per fusione, è subentrata in tutti gli obblighi a questa spettanti e quindi anche negli obblighi di facere che sono connessi alla posizione di garanzia dalla stessa assunta a causa della sua pregressa condotta commissiva, con la conseguenza che è pertanto riscontrabile in capo ad essa un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla Società incorporata se non si fosse estinta.
Infatti, seguendo la teoria dell'illecito permanente sulla quale concorda la giurisprudenza, rispetto agli inquinamenti che, come nel caso di specie, si siano verificati ed esauriti prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, non ha senso differenziare la posizione dell'autore materiale dell'inquinamento, sulla cui responsabilità concorda la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.10.2007, n. 5283), da quella del suo successore universale.
Altrimenti opinando, dato che rispetto alla normativa sopravvenuta successivamente all’evento generatore dell’inquinamento l’autore materiale dello stesso ed il suo successore versano entrambi nell’identica condizione (in ambedue i casi l’inquinamento è stato realizzato ed è cessato in data antecedente al Dlgs. 05.02.1997, n. 22), in nome della preoccupazione di non rendere di fatto retroattive le disposizioni di cui al Dlgs. 05.02.1997, n. 22, si giungerebbe all’assurda conclusione di dover lasciare senza rimedio tutte le contaminazioni storiche che necessitano maggiormente di interventi di bonifica a causa del carattere diffuso ed esteso delle aree inquinate e della pericolosità degli inquinanti presenti, quando invece, secondo una corretta ricostruzione, non si pone il problema di riconoscere o meno alle norme sopravvenute una portata retroattiva, ma di applicarle ratione temporis alle situazioni che necessitino di interventi volti ad evitare pregiudizi ambientali derivanti da una condotta omissiva a carattere permanente che solo la bonifica può rimuovere.
Pertanto, così come l’ordine di bonifica può essere legittimamente rivolto all’autore dell’inquinamento per condotte che sono state poste in essere e sono cessate prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, allo stesso modo il medesimo ordine può essere rivolto al suo successore universale che sia subentrato a tutti gli obblighi a questo spettanti, e quindi anche agli obblighi di facere connessi alla posizione di garanzia assunta dall’autore dell’inquinamento a causa della sua pregressa condotta commissiva.
3. Con un ulteriore gruppo di censure contenute nei motivi sopra rubricati come settimo, ottavo, nono, decimo, diciassettesimo, diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo, la Società ricorrente sostiene sotto diversi profili che è illegittima la pretesa del Ministero di indicare come obiettivo della bonifica dei suoli il rispetto dei limiti di cui alla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25.10.1999, n. 471, per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive di cui alla colonna B.
Al fine di comprendere meglio il senso delle censure, va premesso che originariamente l’area è stata oggetto di usi industriali, mentre il piano regolatore vigente prevede una destinazione prevalentemente di tipo verde urbano e residenziale, subordinando gli interventi alla redazione di un piano attuativo di iniziativa privata, ed è per questo motivo che le Amministrazioni hanno chiesto l’applicazione dei limiti di accettabilità della contaminazione previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive.
3.1 In merito a tale statuizione la ricorrente sostiene in primo luogo che l’art. 17 del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, laddove demanda all’adozione di un apposito decreto ministeriale la definizione dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli “in relazione alla specifica destinazione d’uso dei siti”, alla luce del comma 13 del medesimo articolo che afferma l’obbligo per l’interessato di procedere a bonifica nel caso in cui il mutamento di destinazione d’uso comporti l’applicazione di limiti di accettabilità di contaminazione più restrittivi, debba essere interpretato nel senso che i limiti sono solo quelli della destinazione d’uso in atto, e non di quella vigente nei piani urbanistici, e che l’obbligo di bonifica riguarda solo i soggetti che abbiano un interesse attuale ad avvalersi dell’aumento di valore conseguente al mutamento di destinazione d’uso.
Con una seconda censura la parte ricorrente afferma che dovrebbe essere valorizzata la destinazione d’uso di fatto dell’immobile, e cita in proposito della giurisprudenza (cfr. Tar Umbria, 08.04.2004, n. 168) che ha affermato che la tipologia di bonifica da effettuare va individuata non con riferimento alla destinazione urbanistica, ma con riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto.
Tali doglianze si rivelano infondate, in quanto la nozione di “destinazione d’uso” alla quale si richiama anche l’art. 17 del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, è quella tipicamente impressa, quale effetto conformativo, dalle previsioni dello strumento urbanistico (cfr. l’art. 7 della legge 17.08.1942, n. 1150), e la normativa è chiara nell’imporre il rispetto dei limiti previsti dalla destinazione d’uso prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, come si evince indirettamente dalla circostanza che viene prevista la necessità di variare gli strumenti urbanistici qualora la destinazione da questi prevista imponga il rispetto di limiti di accettabilità che non possono essere raggiunti neppure con l’applicazione delle migliori tecnologie (infatti l’art. 17, comma 6, del Dlgs. 05.02.2006, n. 22, prevede che “qualora la destinazione d'uso prevista dagli strumenti urbanistici in vigore imponga il rispetto di limiti di accettabilità di contaminazione che non possono essere raggiunti neppure con l'applicazione delle migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili, l'autorizzazione di cui al comma 4 può prescrivere l'adozione di misure di sicurezza volte ad impedire danni derivanti dall'inquinamento residuo, da attuarsi in via prioritaria con l'impiego di tecniche e di ingegneria ambientale, nonché limitazioni temporanee o permanenti all'utilizzo dell'area bonificata rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, ovvero particolari modalità per l'utilizzo dell'area medesima. Tali prescrizioni comportano, ove occorra, variazione degli strumenti urbanistici e dei piani territoriali”).
Va soggiunto che la giurisprudenza citata dalla ricorrente (cfr. Tar Umbria, 08.04.2004, n. 168) è del tutto inconferente, perché riguarda la diversa e specifica questione dell’individuazione dei limiti di accettabilità dei terreni ad uso agricolo che, in assenza di una definizione normativa, è affidata all’interprete, e che la giurisprudenza ha inteso risolvere facendo riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto, concludendo per l’applicabilità alle aree agricole dei limiti più cautelativi riferiti alle destinazioni a verde urbano, pubblico o privato.
3.2 La ricorrente prosegue sostenendo che non può farsi riferimento ai limiti di accettabilità previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale previsto dalla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25.10.1999, n. 471, perché tale destinazione pur essendo prevista dal piano regolatore vigente, non è ancora attuale essendo subordinata alla formazione di un piano urbanistico attuativo di iniziativa privata.
Anche tale doglianza deve essere respinta, perché la normativa del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, sopra citata fa riferimento alla destinazione d’uso prevista dal piano regolatore, al quale va direttamente ascritto l’effetto conformativo nell’uso dei suoli, mentre il piano attuativo ha solamente lo scopo di determinare nel dettaglio e in concreto l'organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica degli insediamenti quale è prevista dal piano regolatore, senza poter modificare quest’ultimo.
Le previsioni del piano regolatore hanno pertanto valore prescrittivo immediatamente efficace, anche se per la realizzazione degli interventi è prevista la necessità della previa formazione di un piano attuativo, che ha il solo effetto di subordinare alla sua approvazione l’ottenimento dei titoli abilitativi necessari.
3.3 Con un’ulteriore doglianza la parte ricorrente lamenta l’inesigibilità della prescrizione di raggiungere i limiti accettabili di contaminazione riferiti alle destinazioni a verde urbano, pubblico o privato, perché vi sono alcune contraddizioni tra le previsioni di piano e il certificato urbanistico.
La doglianza deve essere respinta, in quanto vengono dedotte solamente alcune incongruenze del certificato urbanistico che non richiama con completezza tutte le norme tecniche di attuazione applicabili all’area.
Tuttavia tali incongruenze sono prive di rilievo al fine di individuare l’esatta destinazione urbanistica chiaramente indicata nel piano regolatore.
3.4 Nella memoria di replica depositata in giudizio in prossimità della pubblica udienza e nella trattazione orale, in via subordinata alle censure appena esaminate, la parte ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 17 del Dlgs. 05.02.1997, n. 22, dell’art. 240, lett. b), c), d), e) e f), dell’art. 242 del Dlgs. 06.04.2006, n. 152, e dell’allegato 5, al titolo V, parte quarta, del medesimo, per contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. per manifesta irragionevolezza, ritenendo incostituzionale la previsione di imporre il rispetto dei limiti di accettabilità stabiliti per la destinazione d’uso prevista dal piano regolatore vigente, anziché i diversi limiti stabiliti per la destinazione d’uso legittimamente in atto.
La questione è manifestamente infondata, in quanto non vi è alcuna irragionevolezza nel prevedere che, nel momento in cui viene effettuata la bonifica di un’area inquinata, debbano essere osservati i limiti di accettabilità propri della destinazione d’uso di futura realizzazione prevista dai piani regolatori vigenti, in quanto sarebbe all’opposto un’irragionevole ed ingiustificata dissipazione di risorse pubbliche e private lo svolgimento di una prima bonifica volta a raggiungere i parametri meno cautelativi della destinazione d’uso di fatto in atto al momento della bonifica, con la certezza di doverla in seguito ripetere per attuare le previsioni urbanistiche.
Conclusivamente devono pertanto essere respinte tutte le doglianze con le quali la parte ricorrente lamenta l’illegittimità della prescrizione di rispettare i limiti di cui alla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25.10.1999, n. 471, per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive di cui alla colonna B.
4. Con il motivo sopra rubricato come undicesimo la Società ricorrente sostiene l’illegittimità della prescrizione di presentare un progetto preliminare di bonifica, perché un tale adempimento non è previsto dal Dlgs. 03.04.2006, n. 152, che articola la procedura nelle fasi della caratterizzazione, dell’individuazione delle CSR e del progetto di bonifica, a differenza del DM 25.10.1999, n. 471 che contemplava anche la redazione di un progetto preliminare.
La doglianza deve essere respinta, perché tale prescrizione si limita ad evidenziare l’opportunità di esaminare già dal primo livello di definizione del progetto di bonifica, fin da quando è nella fase di progettazione preliminare, le soluzioni adottate e da adottare, e un tale adempimento costituisce una mera articolazione delle normali attività di progettazione da avviare a seguito dell’esame dei risultati della caratterizzazione e prima della redazione del progetto definitivo di bonifica, e non comporta pertanto alcuna violazione delle disposizioni che disciplinano la procedura di bonifica mediante l’introduzione di una nuova fase non prevista dalla legge.
Peraltro il comma 7 dell’art. 242 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, prevede espressamente, per gli interventi di bonifica o di messa in sicurezza che presentino particolari complessità (a causa della natura della contaminazione, degli interventi, delle dotazioni impiantistiche necessarie o dell'estensione dell'area interessata dagli interventi medesimi), che il progetto possa essere articolato per fasi progettuali.
La censura pertanto deve essere respinta.
5. Con il motivo sopra rubricato come dodicesimo la ricorrente contesta l’idoneità e l’onerosità dell’adozione degli interventi di abbattimento della contaminazione dei metalli da realizzare in situ di air sparging e soil vapor extraction, l’illegittimità della prescrizione di prevedere un piano di monitoraggio qualora i valori di contaminazione residui comportino rischi per la salute a causa del superamento dei livelli di rischio tollerabile per le sostanze cancerogene e non cancerogene, e contesta altresì l’individuazione del valore di rischio tollerabile per le sostanze cancerogene, in 10-6 per il rischio individuale e del 10-5 per il rischio cumulato, in contrasto con l’allegato 1 alla parte IV, del titolo V del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, che pone 1x10-5 come valore di rischio incrementale accettabile nel corso della vita come obiettivo di bonifica.
Con il motivo sopra rubricato come quattordicesimo la ricorrente lamenta inoltre la contraddittorietà insita nel prescrivere trattamenti in situ impedendo però la fuoriuscita di metaboliti, perché il trattamento in situ comporta la fuoriuscita dei metaboliti.
Rispetto a queste censure va in primo luogo evidenziato che tali prescrizioni costituiscono l’esito di valutazioni tecnico-discrezionali espresse dagli organi pubblici preposti alla tutela igienico-sanitaria ed ambientale, e in quanto tali non possono essere contraddette con il semplice richiamo a valutazioni tecniche di parte di segno contrario salvo che, a carico delle prime, non vengano evidenziati vizi di logicità, contraddittorietà o incompletezze per quanto concerne l'individuazione degli elementi di fatto rilevanti o la scelta delle regole tecniche di riferimento o la loro applicazione.
Orbene, le doglianze proposte, poiché contestano genericamente l’idoneità delle modalità tecniche prescritte per realizzare la bonifica, devono pertanto essere respinte.
Peraltro, va anche osservato che, come si evince dalla lettura del verbale della conferenza di servizi, l’indicazione dell’utilizzo di tali modalità tecniche non è immotivata, in quanto giustificata dai positivi risultati raggiunti mediante queste soluzioni tecniche da aziende operanti nel sito di interesse nazionale di Porto Marghera, in aree con caratteristiche di contaminazione analoghe a quelle dell’area della parte ricorrente, e ciò contraddice sia la lamentata inidoneità delle soluzioni tecniche prescritte, sia l’asserita eccessiva onerosità delle medesime.
Quanto all’ultimo punto contestato nell’ambito del dodicesimo motivo, va osservato che, contrariamente a quanto dedotto, i livelli di rischio tollerabile per le sostanze cancerogene prescritti appaiono in linea con quelli previsti dall’allegato 1 alla parte IV, del titolo V del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, nel testo modificato dal Dlgs. 16.01.2008, n. 4 (ove si legge che “si propone 1x10-6 come valore di rischio incrementale accettabile per la singola sostanza cancerogena e 1x10'5 come valore di rischio incrementale accettabile cumulato per tutte le sostanze cancerogene") cosicché anche sotto questo profilo non è ravvisabile alcuna illegittimità.
Quanto all’ulteriore censura contenuta nel quattordicesimo motivo con la quale la ricorrente deduce l’irragionevolezza delle prescrizioni di svolgere trattamenti in situ impedendo la fuoriuscita di metaboliti, va invece rilevato che la conferenza di servizi ha analizzato le problematiche conseguenti all’utilizzo di tale tipo di trattamenti, ritenendole superabili sul piano tecnico, come dimostra l’espresso riferimento alla necessità di adottare e comunicare agli enti di controllo preposti le cautele necessarie ad evitare la creazione di correnti vaganti indotte e la realizzazione di condizioni che impediscano la migrazione di metaboliti ed altri possibili effetti di contaminazione secondaria.
Sono pertanto da respingere i rilievi formulati con le censure contenute nel dodicesimo e quattordicesimo motivo.
6. Con le censure di cui al tredicesimo motivo la ricorrente contesta il mancato svolgimento dell’analisi di rischio sito specifica per le acque di falda e l’imposizione di limiti immotivatamente cautelativi di contaminazione, senza considerare che gli interventi previsti dal progetto di bonifica sono da soli sufficienti a scongiurare pericoli di contaminazione delle aree esterne.
Anche tali doglianze non possono essere accolte in primo luogo perché sono formulate in modo ipotetico e contraddittorio, laddove la ricorrente ammette espressamente che all’esito del calcolo effettuato in relazione alle condizioni sito specifiche, la concentrazione soglia di rischio possa coincidere con la concentrazione soglia di contaminazione, in secondo luogo perché le relative prescrizioni, frutto dell’ampia discrezionalità tecnica di cui è titolare l’Amministrazione in materia, sono sufficientemente motivate, e la ricorrente non allega elementi atti a dimostrare l’erroneità o la non attendibilità delle valutazioni tecniche effettuate.
Infatti a pag. 117 del verbale della conferenza di servizi istruttoria, cui rinvia il verbale della conferenza di servizi decisoria, sono contenute le seguenti indicazioni “non si condivide pertanto l’applicazione dell’analisi di rischio per la definizione degli obiettivi di bonifica sito-specifici per la falda (CSR), che devono essere invece determinati sulla base del limite tecnologico di abbattimento dei contaminanti; l’applicazione dell’analisi di rischio sanitario ambientale (rischio per l’uomo) per il calcolo degli obiettivi di bonifica relativi alle acque sotterranee potrebbe risultare in contrasto con il perseguimento degli obiettivi di qualità stabiliti dalla Direttiva 2000/60, in quanto l’assunzione di CSR per le acque sotterranee superiori ai valori di CSC potrebbe comportare l’ammissione di aree con acque di qualità non conforme con il principio di multifunzionalità, anche al di fuori del sito contaminato”, e si demanda agli enti di controllo locali competenti per i piani di tutela delle acque l’adozione di eventuali approcci alternativi.
Orbene, tali prescrizioni non solo sono motivate, ma sul piano tecnico in realtà sono la riproduzione delle conclusioni contenute nel manuale predisposto da Apat recante “Criteri metodologici per l’applicazione dell’analisi assoluta di rischio ai siti contaminati” del giugno 2005 (cfr. pag. 131 della revisione 2 del marzo 2008), il che, in mancanza di una prova contraria che la parte ricorrente non allega, costituisce una sufficiente garanzia circa la loro attendibilità.
Quanto alla dedotta mancanza di pericolo della dispersione degli inquinanti dovuta alla presenza degli interventi di marginamento e retromarginamento, va osservato che questa allo stato è ancora ipotetica dato che non sono stati ancora completati i marginamenti della macroisola, e neppure quando il marginamento risulterà completato potrà scongiurarsi con sicurezza il pericolo di una residuale migrazione degli inquinanti.
Anche le censure di cui al tredicesimo motivo devono pertanto essere respinte.
7. Con le censure sopra rubricate come quindicesimo e venticinquesimo motivo la ricorrente lamenta il difetto di istruttoria e la carenza di motivazione relativamente alla prescrizione di gestire come rifiuti liquidi le acque contaminate di falda, anziché consentire il loro scarico in acque superficiali assoggettandole alla disciplina degli scarichi industriali, come prevede espressamente l’art. 243 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152.
La doglianza deve essere respinta
La norma da ultimo citata nel testo vigente al momento dell’adozione degli atti impugnati, prevedeva che “le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al presente decreto”.
Il Collegio non ignora che, basandosi su tale disposizione, sono state emesse alcune pronunce, sul cui richiamo sono imperniate le difese della parte ricorrente, secondo le quali la ratio legis è nel senso di porre una disciplina speciale per la gestione delle acque di falda emunte nelle operazioni di messa in sicurezza e di bonifica, riconducibile alla normativa sugli scarichi idrici e non a quella sui rifiuti, con la conseguente non applicabilità, per tali acque, della disciplina sui rifiuti (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. V, 21.03.2012, n. 1398; Tar Sicilia, Catania, 29.01.2008, n. 207; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 23.07.2008, n. 1068; Tar Friuli Venezia Giulia, 26.05.2008, n. 301).
Tuttavia appare più persuasivo e meritevole di condivisione il diverso e più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. Tar Sicilia, Catania, sez. I, 11.09.2012, n. 2117; Tar Toscana, Sez. II, 06.10.2011, n. 1452; id. 19.05.2010, n. 1523; Tar Sardegna Sez. II, 21.04.2009, n. 549; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 20.03.2009, n. 540) che ha chiarito che le acque emunte di regola devono essere ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la norma di cui all’art. 243 citato consenta una equiparazione tout court tra le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati e le acque reflue industriali.
Infatti il predetto art. 243, limitandosi a consentire la possibilità di autorizzare lo scarico nelle acque di superficie delle acque emunte dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica o messa in sicurezza di un sito, a condizione che siano rispettati gli stessi limiti di emissione delle acque reflue industriali, non è idoneo ad incidere sulla specialità e tassatività della disciplina, di diretta derivazione comunitaria, sui rifiuti, che esclude espressamente l'assimilabilità delle acque emunte in falda a quelle reflue industriali, alla luce dei codici CER contenuti nella decisione della Commissione Europea 03.05.2000, n. 532 - 00/532/CE ( codici CER 19.03.07 e 19.03.08, che individuano le acque di falda emunte nell'ambito di attività di disinquinamento quali rifiuti liquidi ).
In proposito va sottolineato che in tal senso si è espressa anche la recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.12.2013, n. 5857, la quale ha affermato che “è quindi da disattendere l'assunto della società appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell'art. 243 d.lgs. 152/2006, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario, l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto.
L’allegato D alla parte quarta del medesima d.lgs, nell’elencare i rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e all'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 03.05.2000 e alla direttiva del Ministero dell'ambiente 09.04.2002, ha infatti espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i <<rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda>>.
Anche per tale ragione, quindi, risulta smentita l’aprioristica omologazione, dedotta dalla società appellante, dei reflui derivanti da operazioni di bonifica alle acque reflue industriali, come definite chiaramente dall’art. 74, comma 1, lett. h), del d.lgs. citato (con ciò dovendosi discostare dalle conclusioni alle quali era pervenuto questo Consiglio di Stato nella sentenza di questa stessa sezione 08.09.2009, n. 5256)
”.
Nel caso di specie, come risulta dal documento preparatorio alla conferenza di servizi del 06.10.2010, le acque contengono elevati livelli di contaminazione atteso che, relativamente alla falda del riporto, vi sono superamenti da alluminio, arsenico, ferro, manganese, mercurio, nichel, piombo, solfati, benzo(a)antracene, benzo(b)fluoroantene, naftalene; relativamente alla prima falda vi sono superamenti da alluminio, arsenico, ferro (con valori fino a 28 volte la CSC), nichel, manganese (con valori fino a oltre 13 volte la CSC), piombo, solfati, benzo(a)antracene, naftalene; antimonio, BTEX, alifatici, clorurati cancerogeni (prevalentemente cloruro di vinile) e non cancerogeni, IPA come sommatoria, PCB e idrocarburi totali; per alcune sostanze cancerogene molto tossiche e persistenti sono stati riscontrati superamenti oltre 10 volte, e il ricorrente non adduce che le modalità di gestione delle acque nel caso di specie abbiano effettivamente le caratteristiche dello scarico industriale (che richiede, oltre al rispetto dei limiti previsti per gli scarichi industriali, un collegamento diretto tra la fonte di produzione ed il corpo recettore, senza soluzione di continuità, anziché di uno iato materiale e temporale tra la fase di emungimento e quella di trattamento).
Ciò premesso va allora evidenziato che la prescrizione di trattare come rifiuti le acque della falda emunte, in assenza della prova da parte della ricorrente della sussistenza di tutti i requisiti per invocare la più favorevole disciplina di cui all’art. 243 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, si sottrae alle censure proposte.
10. Con il ventitreesimo motivo la ricorrente afferma che è illegittima la prescrizione di includere nell’intervento di cinturazione fisica ulteriori aree, oltre a quella centrale che è la maggiormente inquinata, in quanto le aree esterne a questa sono contaminate in misura inferiore, e perché in tal modo il Ministero cerca di ovviare alla mancata realizzazione degli interventi di marginamento e retromarginamento che si è impegnato a realizzare in base alla transazione del 19 marzo–19.04.2006.
Tali doglianze devono essere respinte.
Infatti la prima prescrizione di estendere l’area della cinturazione fisica non reca nemmeno una lesione attuale, ma solo futura ed eventuale, dato che la conferenza di servizi si è limitata a richiedere di includere nella cinturazione solo le ulteriori aree che dovessero risultare sede di contaminazione.
E’ evidente che in caso di riscontro di livelli di contaminazione non accettabili l’obbligo di bonificare le predette aree deriverebbe direttamente dalla legge, e non costituirebbe un’imposizione della conferenza di servizi.
Inoltre va osservato che la tesi secondo la quale gli interventi di marginamento e retromarginamento e di cinturazione fisica sarebbero tra loro alternativi, e che pertanto l’Amministrazione mediante l’imposizione della cinturazione mirerebbe a sottrarsi dall’esecuzione degli interventi alla stessa spettanti, non è condivisibile.
Infatti dalla documentazione versata in atti risulta che il marginamento si prefigge lo scopo di evitare la migrazione della contaminazione verso le matrici ambientali esterne all’area attraverso la falda, mentre gli interventi di cinturazione sono volti a perseguire l’obiettivo di bonificare il suolo per renderlo fruibile, ove possibile, secondo le destinazioni previste dal piano regolatore vigente.
Anche le cesure di cui al ventitreesimo motivo devono pertanto essere respinte (
TAR Veneto, Sez. III, sentenza 25.02.2014 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Inerzia della Pa, senza il sostituto niente indennizzo per il ritardo.
Per l'indennizzo da ritardo, dovuto a inerzia sul procedimento amministrativo -diverso dal danno da ritardo che impone la ricorrenza degli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale- serve (articolo 28 della legge 98/2013) l'immediata attivazione del funzionario sostituto da parte dell'interessato entro 20 giorni dalla scadenza del termine per l'emanazione del provvedimento espresso a pena di decadenza.

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Rilevato che:
   - parte ricorrente ha presentato istanza rivolta all’Amministrazione resistente al fine di ottenere la cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 91/1992;
   - essendo l’amministrazione rimasta inerte, parte ricorrente ha proposto ricorso avverso il silenzio illegittimamente serbato;
Considerato che in corso di causa l’amministrazione ha rappresentato di aver predisposto e inviato alla firma degli organi competenti il richiesto decreto di conferimento della cittadinanza;
Ritenuto, pertanto, di dover dichiarare la cessazione della materia del contendere, ai sensi dell’art. 34, comma 5, c.p.a.;
Ritenuto non sussistere i presupposti di legge per la liquidazione dell’indennizzo da ritardo di cui all’art. 28, d.l. 21.06.2013, n. 69, in quanto:
   - ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo, pur non essendo richiesta la dimostrazione degli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale (prova del danno, del comportamento colposo dell'amministrazione, del nesso di causalità), tuttavia, una volta scaduti i termini per la conclusione del procedimento, l’istante, entro la scadenza perentoria dei successivi 20 giorni, deve ricorrere all’autorità titolare del potere sostitutivo di cui all'art. 2, comma 9-bis, della legge n. 241/1990, richiedendo l’emanazione del provvedimento non adottato (cfr.: Tar Sardegna, sez. I, 12.05.2016, n. 428);
   - l’art. 28, comma 2, d.l. n. 69/2013, richiede espressamente, quale condizione per avanzare domanda di indennizzo da ritardo, l’immediata sollecitazione di tale potere sostitutivo;
Ritenuto di respingere la domanda di indennizzo avanzata da parte ricorrente in quanto non risulta essere stato attivato, nella specie, il potere sostitutivo ai sensi della sopra richiamata norma (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 15.03.2019 n. 3515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncentivi, le risorse vanno nella contrattazione decentrata e a preventivo.
La Corte di Appello di Catanzaro, Sez. lavoro, con sentenza 14.02.2019 n. 1972, si è occupata delle conseguenze della richiesta di liquidazione degli incentivi legati ad un progetto obiettivo in assenza della copertura finanziaria.
Nel confermare la sentenza di primo grado vengono evidenziate e confermate alcune regole che presiedono alla corretta attivazione dei progetti obiettivo, con l’utilizzo delle risorse previste dall’articolo 15 del Ccnl 01.04.1999, che meritano di essere commentate anche alla luce del nuovo Ccnl delle funzioni locali del 21.05.2018.
La sentenza risulta particolarmente interessante in quanto si occupa, anche solo incidentalmente, ma in modo efficace, della sostanziale differenza tra il lavoro straordinario, che è fondamentalmente legato alla quantità della prestazione lavorativa, e gli incentivi, inclusi quelli connessi ai progetti obiettivo, che, invece, concernono la qualità della prestazione e sono inscindibilmente legati al conseguimento dei risultati, preventivamente definiti attraverso opportuni indicatori.
La pronuncia del Giudice di appello
Il giudice di appello ha constatato che le risorse necessarie per finanziare lo specifico progetto obiettivo non erano presenti e, comunque, i ricorrenti non sono riusciti a dimostrarne la loro preventiva definizione attraverso il fondo risorse accessorie e la contrattazione decentrata e, quindi, il progetto incentivante non trovava copertura nell’ambito dei principi sanciti dagli artt. 40 e 45 , Dlgs 165/2001, in base ai quali “gli oneri di tutti i trattamenti economici accessori del personale devono trovare integrale copertura nelle generali risorse destinate al finanziamento della contrattazione integrativa”, anzi proprio consci di tale specifica situazione interdittiva i ricorrenti azionavano in subordine una richiesta di indebito arricchimento ex art. 2041 Cc che, comunque, veniva rigettata, sia perché improponibile -in quanto esisteva una causa connessa ad un rapporto contrattuale (lo svolgimento del lavoro straordinario) che, tuttavia, non veniva attivata- sia perché i dipendenti non hanno fornito prova della perdita patrimoniale subita; relativamente a tale ultimo aspetto, infatti, risulta insufficiente l’aver dimostrato di aver conseguito gli obiettivi del progetto e, quindi, aver generato una utilità per l’ente.
Peraltro già il giudice di primo grado aveva eccepito, in tema di ingiustificato arricchimento, che i ricorrenti non avevano dimostrato l’attività svolta al di fuori dell’orario di lavoro e la estraneità rispetto alle mansioni proprie dei ricorrenti (che, evidentemente, l’avrebbero attratto nella causa del contratto a titolo di prestazione straordinaria solo nella ipotesi di svolgimento della prestazione lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro); tutto ciò, peraltro, si collega perfettamente alla vigenza del principio della onnicomprensività del trattamento retributivo del dipendente pubblico che “lasciano emergere la chiara mancanza dei fatti costitutivi della domanda”.
L’ente si è opposto dimostrando che la contrattazione decentrata per l’anno di riferimento (il 2013) non prevedeva, in alcun modo, risorse variabili destinate a finanziare lo specifico progetto obiettivo, circostanza che i ricorrenti non sono stati in grado di contestare ed il tentativo di dimostrare che, comunque, le risorse erano previste nella contrattazione decentrata relativa all’anno successivo (il 2014) “è del tutto inconferente perché è pacifico dagli stessi atti a firma del dirigente (…) che si trattava di un progetto” incentivante sviluppatosi dal mese di aprile al mese dicembre del 2013.
Inoltre, già il giudice di primo grado aveva ritenuto ininfluente il riferimento alle indicazioni metodologiche formulate dall’Organismo Indipendente di Valutazione, al fine di poter correttamente svolgere il compito di validazione dei risultati, affidatogli dall’ordinamento interno; l’Oiv, infatti, si era limitato a stabilire che il progetto doveva essere preventivamente approvato e dovevano essere indicati preventivamente i risultati ai fini dell’erogazione dell’incentivo; ma tali affermazioni non inficiano minimamente l’esigenza che le risorse siano preventivamente individuate in modo certo e nel rispetto dei vincoli finanziari vigenti.
D’altra parte proprio l’Oiv aveva avuto modo di precisare, richiamando un noto e consolidato orientamento dell’Aran, che comunque al “fine dell’erogazione delle relative spettanze, l’iter dovrà essere completato con la verifica, a cura degli uffici competenti, (…) degli aspetti di natura finanziario-contabile, con particolare riferimento ai seguenti elementi:
   1. risorse quantificate secondo criteri trasparenti e ragionevoli, analiticamente illustrati nella relazione da allegare al contratto decentrato;
   2. risorse previste nel bilancio annuale;
   3. quantificazione delle spettanze in ragione della verifica dei risultati del progetto
”.
Gli orientamenti Aran
Nel precedente assetto contrattuale, proprio per perimetrare correttamente tali istituti incentivanti, l’Aran era intervenuto con il parere n. 499-15L per indicare le condizioni necessarie per la corretta applicazione dell’istituto ed aveva avuto modo di pronunciarsi su tali tipologie di progetti e sulle risorse variabili che li finanziano, ex art. 15, comma 5, del Ccnl 01.04.1999. In particolare venivano evidenziate alcune specificità, tra le quali:
   1. l'incremento delle risorse deve essere comunque correlato ad uno o più obiettivi di miglioramento della performance organizzativa o di attivazione di nuovi processi, relativi ad uno o più servizi, individuati dall'ente nel piano della performance o in altri analoghi strumenti di pianificazione della gestione;
   2. deve trattarsi, comunque, di obiettivi che richiedano il concreto, diretto e prevalente apporto del personale dell'ente;
   3. la quantificazione dell'incremento deve essere correlata alla rilevanza dei risultati attesi nonché al maggiore impegno richiesto al personale coinvolto;
   4. le risorse possono essere rese disponibili solo a consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli obiettivi di performance organizzativa ai quali l'incremento è stato correlato, come risultante dalla relazione sulla performance o da altro analogo strumento di rendicontazione adottato dall'ente.
   5. quanto sopra detto non vale, tuttavia, ad escludere che gli obiettivi di performance organizzativa, individuati per giustificare l'incremento, possano essere anche "obiettivi di mantenimento" di risultati positivi già conseguiti l'anno precedente, fermo restando, in ogni caso, il rispetto delle condizioni sopra evidenziate, con particolare riferimento alla necessità che, anche per il perseguimento dell'obiettivo di mantenimento, continui ad essere richiesto un maggiore, prevalente e concreto impegno del personale dell'ente alla cui incentivazione le risorse sono destinate, oltre ad essere necessario uno specifico apparato motivazionale in grado di spiegare, in relazione alle condizioni di contesto, le ragioni di misure di incentivazione allo scopo di mantenere i livelli di servizio già raggiunti.
L’autorizzazione del dirigente
Un ultimo aspetto, di non secondaria importanza, è il fatto che il progetto sia stato autorizzato dal dirigente dell’unità operativa di appartenenza dei ricorrenti; a tal proposito l’autorizzazione del dirigente, a parte eventuali profili di responsabilità non oggetto del giudizio, come quelle di natura disciplinare o patrimoniale, non può in alcun modo sanare l’inesistenza della provvista e non è neppure in grado di caratterizzare come incentivanti attività che, comunque, rientrino nell’ambito delle prestazioni esigibili dall’amministrazione e per le quali i ricorrenti non azionavano la richiesta di remunerazione a titolo di lavoro straordinario, se non in primo grado, ma senza aver dimostrato lo svolgimento della prestazione al di fuori dell’ordinario orario di lavoro.
Il Ccnl Funzioni locali
Il Ccnl Funzioni locali 21.05.2018, in attesa di nuovi orientamenti dell’Aran, pone gli enti di fronte al dilemma circa la possibilità di attivare i cosiddetti “progetti-obiettivo” che nel Ccnl 01.04.1999 potevano essere finanziati con il ricorso a risorse variabili ex art. 15, comma 5, del richiamato Ccnl.
Il tema è di estrema attualità ed alcuni aspetti essenziali di quanto appena esposto tornano utili per definire un corretto inquadramento nell’ambito del più recente Ccnl delle funzioni locali sottoscritto il 21.05.2018, nel rispetto delle prerogative dell’amministrazione in materia di disciplina del sistema di misurazione e valutazione della performance, prerogative previste dall’art. 7, Dlgs 150/2009, e dei confini di operatività dei due modelli di relazioni sindacali che, in materia, hanno rilievo: il confronto e la contrattazione integrativa; di questi aspetti sono certamente di rilievo la connessione con la performance organizzativa, con il piano della performance e con la relazione sulla performance; aspetti già trattati in un apposito contributo sulle pagine di questa rivista.
Infine, è utile segnalare come anche le linee guida n. 1/2017 (“Linee guida per il Piano della performance”) del Dipartimento della Funzione Pubblica specificano che, tra le tipologie di unità di riferimento della rilevazione della performance organizzativa, rientrano anche quelle “iniziative, che possono essere identificate come progetti e sono caratterizzate da un inizio e una fine (a differenza delle attività ricorrenti)”, che “promuovono innovazioni rilevanti, che potranno modificare e migliorare nel tempo il portafoglio delle attività ricorrenti e ripetute e rivestono, quindi, una rilevanza strategica” (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAttivo l'indice dei domicili digitali, Pubbliche Amministrazioni sempre più trasparenti.
La transizione al digitale della pubblica amministrazione fa un altro passo avanti con l'entrata in vigore (da ieri) dell'indice dei domicili digitali delle Pa e dei gestori di pubblici servizi.

Gestito dall'Agid, che guida l'innovazione nella Pa secondo un cronoprogramma definito, l'Ipa è in sostanza un elenco pubblico nel quale sono registrati i domicili digitali che amministrazioni, gestori di servizi pubblici e privati devono utilizzare per inviare comunicazioni e scambiarsi informazioni e documenti tutto in maniera legale.
I domicili digitali, come intuibile, sono gli indirizzi elettronici associati agli enti e alle relative articolazioni organizzative.
L'Ipa e le linee guida
L'indice è stato sviluppato seguendo il percorso tracciato dall'Agid nelle relative linee guida adottate, in base all'articolo 71 del Cad, con la determinazione 04.04.2019 n. 97/2019 (e relative "LINEE GUIDA DELL’INDICE DEI DOMICILI DIGITALI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E DEI GESTORI DI PUBBLICI SERVIZI - Versione 1.0 del 27.02.2019") e messa in rete lunedì scorso nel sito dell'Agenzia.
Devono iscriversi le Pa e i gestori di pubblici servizi, tutti i soggetti inclusi nell'elenco Istat articolo 1 della 196/2009, cioè rientranti nell'«armonizzazione contabile», e che non sono compresi tra le Pa articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, cioè il raggruppamento di enti cui fa riferimento la legislazione sul pubblico impiego.
L'iscrizione va ottenuta con un'istanza di accreditamento, al buon esito della quale segue l'assegnazione del codice Ipa da parte del gestore (l'Agid), che non è modificabile.
I domicili digitali vanno costantemente aggiornati se cambiano informazioni e dati che lo formano e cioé quelli che caratterizzano l'ente, quelli relativi al registro di protocollo e infine quelli relativi ai diversi uffici. L'istanza di cancellazione dall'elenco dovrà essere presentata dai soggetti che non hanno più titolo per essere inlusi in esso.
La fatturazione elettronica
Una delle funzioni più delicate cui deve assolvere l'Ipa è quella di archivio nel quale cercare per individuare i codici degli uffici di fatturazione elettronica delle amministrazioni e delle società in conto economico consolidato (Scec).
Su www.indicepa.gov.it si trovano tutti i dati e le informazioni necessari, che nell'ottica della trasparenza possono essere consultati e riutilizzati in formato «open data» tramite interfaccia web, nonché, registrandosi al portale, anche tramite interfaccia applicativa o protocollo LDAP.
Tre sono macrolivelli nei quali sono strutturati i contenuti dell'Ipa:
   1) informazioni di sintesi sull'ente (denominazione, uguale a quella registrata nell'Anagrafe tributaria, associata al codice fiscale indicato, codice fiscale, indirizzo della sede principale, nome del rappresentante legale e nome del referente Ipa e relativo codice fiscale, indirizzo pec primario;
   2) informazioni dettagliate sulla struttura organizzativa e gerarchica e sui singoli uffici - unità organizzative (denominazione, indirizzo, codice identificativo, nominativo del responsabile, data di istituzione e di eventuale cessazione);
   3) informazioni sugli uffici di protocollo - aree organizzative omogenee (codice ufficio, che è definito dall'ente, codice univoco ufficio, assegnato dal sistema e univoco in Ipa, denominazione, Aoo di riferimento, che è unica tranne che per gli Scec, nome del responsabile, l’indirizzo, relazione gerarchica con altra unità organizzativa.
La verifica dei dati
Ogni ente accreditato è responsabile della veridicità e della completezza dei dati presenti in Ipa. L'Agid effettua il monitoraggio della qualità dei dati con controlli sistematici e a campione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019).

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

URBANISTICA: R. Cartasegna, La redazione del Piano Regolatore Generale Comunale tra disciplina del commercio e libera concorrenza (13.05.2019).

UTILITA'

VARI: BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle Entrate, maggio 2019).

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, marzo 2019).

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, marzo 2019).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PATRIMONIO: G.U. 17.05.2019 n. 114 "Dispositivi stradali di sicurezza per i motociclisti (DSM)" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 01.04.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2019, "Criteri per l’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati" (deliberazione G.R. 15.05.2019 n. 1620).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 11.05.2019 n. 109 "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2018" (Legge 03.05.2019 n. 37).
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Di interesse, si legga:
  
Art. 5. Disposizioni in materia di pagamenti nelle transazioni commerciali - Procedura di infrazione n. 2017/2090

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U. 30.04.2019 n. 100 "Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi" (D.L. 30.04.2019 n. 34).
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Di interesse, si leggano:
  
● Art. 3. Maggiorazione deducibilità IMU dalle imposte sui redditi
   ● Art. 7. Incentivi per la valorizzazione edilizia
   ● Art. 8. Sisma bonus
   ● Art. 10. Modifiche alla disciplina degli incentivi per gli interventi di efficienza energetica e rischio sismico
   ● Art. 30. Contributi ai comuni per interventi di efficientamento energetico e sviluppo territoriale sostenibile

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Al riguardo si leggano anche:
  
Rigenerazione urbana, recepite le proposte dell'Ance nel decreto-legge Crescita - Il DL n. 34/2019 accoglie alcune delle misure auspicate da tempo dai costruttori edili per incentivare processi complessi di rigenerazione urbana, basati su interventi di vera e propria sostituzione edilizia (06.05.2019 - link a www.casaeclima.com).
  
Pubblicato il decreto crescita:  analisi delle misure tributarie (30.04.2019 - link a www.fiscooggi.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: G.U. 27.04.2019 n. 98 "Adozione delle Linee guida dell’Indice dei domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi" (Agenzia per l’Italia Digitale, avviso).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 17 del 24.04.2019, "Regolamento regionale 22.03.2019 - n. 5 «Regolamento regionale concernente i criteri organizzativi generali, le caratteristiche dei veicoli, delle uniformi, degli strumenti di autotutela, dei simboli distintivi di grado e delle tessere personali di riconoscimento in dotazione ai corpi e ai servizi della polizia locale in attuazione dell’articolo 24, comma 1, della legge regionale 01.04.2015, n. 6 «Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana», pubblicato sul BURL n. 13 suppl. del 26.03.2019" (avviso di rettifica).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 17 del 24.04.2019 "Disposizioni sull’applicazione dei principi di invarianza idraulica ed idrologica. Modifiche al regolamento regionale 23.11.2017, n. 7 (Regolamento recante criteri e metodi per il rispetto del principio dell’invarianza idraulica ed idrologica ai sensi dell’articolo 58-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 “Legge per il governo del territorio”)" (regolamento regionale 19.04.2019 n. 8).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 23.04.2019 n. 95 "Modifiche al decreto 03.08.2015, recante l’approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139" (Ministero dell'Interno, decreto 12.04.2019).
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Al riguardo, si legga anche:
  
Modifiche al Codice di prevenzione incendi in G.U.: tolto il doppio binario per le ex attività non normate - Per 41 attività soggette (ex non normate) contenute nell'Allegato 1 del DPR 151/2011, la Regola Tecnica Orizzontale (RTO) del Codice diventerà l'unico riferimento progettuale (06.05.2019 - link a www.casaeclima.com).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D. Pusceddu, E dopo il 20 maggio come vengono retribuite le Posizioni Organizzative? (16.05.2019 - link a www.fpcgilbergamo.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl termine del 20 maggio entro il quale incaricare le posizioni organizzative non è vincolante (15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G. Severini, L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio (13.05.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: R. Cartasegna, La redazione del Piano Regolatore Generale Comunale tra disciplina del commercio e libera concorrenza (13.05.2019).

EDILIZIA PRIVATAF. Ressa, Come misurare la distanza tra edifici? Lo ha chiarito la Cassazione (09.05.2019 - link a http://biblus.acca.it). 

PUBBLICO IMPIEGO: M. T. Desideri, Mancata promozione del procedimento disciplinare e responsabilità dirigenziale (09.05.2019 - link a www.filodirito.com).

APPALTIDecreto Sblocca-cantieri: soppresso il rito super accelerato - Una norma del DL n. 32/2019 modifica l'art. 120 del Codice del processo amministrativo che disciplina il rito applicabile ai giudizi inerenti alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture (03.05.2019 - link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. Ricci, IL POTERE DI ORDINANZA NELLA GESTIONE DELLE EMERGENZE AMBIENTALI (maggio 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
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INDICE: 1. L’amministrazione dell’emergenza; 2. Il potere della pubblica amministrazione di adottare ordinanze contingibili e urgenti; 3. Il potere di ordinanza della pubblica amministrazione e le emergenze ambientali; 3.1.1. Il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti in materia di rifiuti disciplinato dal Codice dell’ambiente; 3.1.2. I poteri di ordinanza previsti dal TUEL ed esercitabili anche in materia ambientale; 3.1.3. Il potere di ordinanza secondo il modello della protezione civile; 3.1.4. Gli ulteriori poteri di ordinanza per le emergenze ambientali; 4. Conclusioni.

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAModifiche al Codice Appalti con lo Sblocca-cantieri: l'analisi di Confindustria. Secondo Confindustria alcune modifiche sono positive, altre sono condivisibili ma potrebbero essere ulteriormente rafforzate, altre invece sono negative (30.04.2019 - link a www.casaeclima.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative: la durata dell'incarico non deve coincidere con quella del mandato del sindaco (13.03.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: M. Blonda, Il rilascio della c.d. concessione in sanatoria estingue anche i reati antisismici? Ecco cosa comporta costruire un immobile in violazione delle norme antisismiche (06.11.2014 - link a www.condominioweb.com).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Criteri di aggiudicazione e verifica dell’anomalia nei lavori pubblici. Modifiche introdotte dal decreto “sblocca cantieri (ANCE di Bergamo, circolare 10.05.2019 n. 121).

EDILIZIA PRIVATAPrima nota di lettura al DL 30.04.2019 n. 34 - Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi - Norme di interesse per gli enti locali (ANCI-IFEL, 09.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARIOggetto: Istanza di interpello ai sensi dell’articolo 9 del d.lgs. n. 124/2004. Autorizzazione amministrativa ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge n. 300/1970 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 08.05.2019 n. 3/2019).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: pubblicazione del DM 12.04.2019: modifiche al Codice di prevenzione incendi (DM 03.08.2015) con eliminazione del doppio binario per le ex attività non normate (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 03.05.2019 n. 378).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAPrima nota DL “Sblocca Cantieri” - D.L. 18.04.2019 n. 32 (ANCI, maggio 2019).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Pubblicato il cosiddetto decreto “sblocca cantieri”. Prime sommarie informazioni in tema di lavori pubblici (ANCE di Bergamo, circolare 23.04.2019 n. 110).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIL DECRETO “SBLOCCA CANTIERI” (DL n. 32 del 18.04.2019) - LE MISURE DI INTERESSE PER IL SETTORE DELLE COSTRUZIONI (ANCE, 19.04.2019).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADL Sblocca Cantieri - I principali contenuti del provvedimento (CONFINDUSTRIA, 19.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Interpello ai sensi dell’articolo 9 del d.lgs. n. 124/2004. Riposi giornalieri ex articolo 39 del d.lgs. n. 151/2001 e diritto alla pausa pranzo e alla fruibilità del servizio mensa (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 16.04.2019 n. 2/2019). 

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIOGGETTO: Adozione delle Linee Guida dell’Indice dei domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi (IPA) (AGID, determinazione 04.04.2019 n. 97/2019 con le relative "LINEE GUIDA DELL’INDICE DEI DOMICILI DIGITALI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E DEI GESTORI DI PUBBLICI SERVIZI - Versione 1.0 del 27.02.2019").

EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.M. 37/2008 – installazione di impianti tecnologici – abilitazioni piene e/o limitate (Ministero dello Sviluppo Economico, circolare 13.03.2019 n. 3717/C).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuove discipline per la polizia locale / Nell’ambito della specifica finalità di cui all’art. 56-quater, comma 1, lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (“erogazione di incentivi monetari collegati a obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla sicurezza urbana e stradale), è possibile finanziare, con quota parte delle risorse derivanti dai proventi delle violazioni stradali, di cui all’art. 208, commi 4, lett. c), e 5, del D.Lgs. n. 285/1992, l’indennità di servizio esterno di cui all’art. 56-quinquies, del medesimo CCNL del 21.05.2018?.
Tra le altre diverse finalità ivi indicate, l’art. 56-quater, lett. c), del CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali, destina quota parte dei proventi delle violazioni stradali, di cui all’art. 208, commi 4, lett. c), e 5, del D.Lgs. n. 285/1992 anche all’“erogazione di incentivi monetari collegati a obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla sicurezza urbana e stradale.”.
Si tratta di una indicazione ampia e generale. Pertanto, in tale ambito, ad avviso della scrivente Agenzia, le risorse di cui si tratta possono essere utilizzate anche per il finanziamento dell’indennità di servizio esterno, in quanto anche questo compenso, per le nuove e maggiori prestazioni cui si collega (implementazione dei servizi esterni di vigilanza), si può configurare come strettamente funzionale al conseguimento di quegli obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla sicurezza urbana e stradale.” (orientamento applicativo 08.05.2019 CFL 53 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIndennità di condizioni lavoro, continuità dell'attività «rimandata» alla contrattazione integrativa.
Per il riconoscimento dell'indennità di condizioni lavoro introdotta dall'articolo 70-bis del contratto 21 maggio 2018 è auspicabile, ma non obbligatorio, che le attività che la legittimano (attività disagiate o rischiose o che implicano il maneggio di valori) siano svolte dal personale in maniera «continuativa».
Nel caso di personale part-time l'importo, definito in sede di contrattazione integrativa, deve essere riproporzionato, anche nel caso in cui l'azione determini un importo inferiore al valore minimo previsto dal contratto nazionale.

Questi i chiarimenti forniti l'Aran con il parere 18.04.2019 n. 3072 di prot..
Il presupposto della continuità
L'articolo 70-bis del nuovo contratto, sulla spinta dell'atto di indirizzo del Comitato di settore e per semplificare le voci del trattamento accessorio, ha introdotto l'indennità di condizioni lavoro che accorpa le precedenti indennità di rischio, disagio e maneggio valori, fermi restando, comunque, i presupposti che giustificavano l'erogazione dei compensi.
Le vecchie disposizioni contrattuali legavano, in qualche modo, il riconoscimento delle indennità al presupposto della «continuità» dell'attività prestata dal dipendente escludendo, come peraltro affermato in più occasioni dalla stessa Aran, l'erogazione nel caso di attività svolte dal dipendente in modo non continuativo o saltuario o sporadico.
Un ente, nel rilevare che nell'articolo 70-bis non vi è alcun riferimento al presupposto della continuità della prestazione ma semplicemente allo «svolgimento di attività», chiede all'Aran se la nuova indennità debba essere riconosciuta solo al personale che svolge attività disagiate o rischiose o che implicano il maneggio di valori in maniera continuativa o, possa essere riconosciuta anche a coloro che svolgono queste attività in maniera occasionale.
Per l'Agenzia l'assenza nel nuovo contratto di una espressa indicazione in tal senso non impedisce, nell'ambito del contratto collettivo integrativo, di limitare il riconoscimento dell'indennità condizioni di lavoro solo alle ipotesi di lavoratori che svolgono in maniera continuativa le attività richieste. La previsione, si legge nel parere, eviterebbe erogazioni eccessivamente generalizzate e parcellizzate che porterebbero di fatto a rischi di concreto e insostenibile impoverimento dei fondi delle risorse decentrate.
Dunque è in sede di contrattazione integrativa che si dovrà giocare questa delicata partita.
Il riproporzionamento
L'indennità, che può variare entro i valori minimi e massimi giornalieri da 1 a 10 euro, deve essere riproporzionata in relazione al tempo di lavoro previsto nell'ambito del rapporto di lavoro a tempo parziale. Ma cosa accade se dal riproporzionamento dell'indennità giornaliera si determina un importo inferiore al valore minimo previsto dal contratto nazionale? Deve essere, comunque, sempre garantito il riconoscimento di almeno 1 euro?
Per l'Agenzia non ci sono dubbi: i valori minimi e massimi previsti per l'indennità in questione si riferiscono all'ipotesi ordinaria del rapporto di lavoro a tempo pieno. Pertanto, il riproporzionamento riguarda anche il valore minimo anche nel caso in cui lo portasse alla determinazione di un importo inferiore ad 1 euro (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONiente firma definitiva del contratto integrativo se manca l'ok della giunta.
Nel caso in cui la giunta comunale non si ritenga soddisfatta dell'accordo raggiunto in sede di contrattazione integrativa -che ci sia o meno l'atto di indirizzo preventivo al Presidente della delegazione di parte pubblica- la preintesa raggiunta dalle parti non potrà essere sottoscritta in via definitiva, anche con parere positivo rilasciato dall'organo di revisione contabile.

Queste sono le ferme indicazioni contenute nell'orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 52.
Il caso
Il Presidente di parte pubblica, nominato dalla giunta comunale per contrattare con le organizzazioni sindacali, dopo aver sottoscritto la preintesa con un parere positivo del collegio dei revisori dei conti, si è visto rifiutare dall'organo esecutivo l'ipotesi del contratto sottoscritta avevndo la giunta ritenuto non soddisfacenti gli accordi raggiunti.
La domanda posta ai tecnici dell'Aran riguarda le conseguenze del rifiuto e la sorte dell'ipotesi del contratto decentrato stipulato.
La risposta dell'Aran
Secondo l'Aran, il diniego dell'organo esecutivo -che è parte essenziale e fondamentale per la definitiva sottoscrizione del contratto integrativo- alla sottoscrizione definitiva blocca irrimediabilmente la conclusione della procedura. Infatti, a prescindere da un preventivo atto di indirizzo iniziale formulato al Presidente della delegazione di parte pubblica, l'autorizzazione alla sottoscrizione definitiva del contratto integrativo può essere data solo dalla giunta comunale.
Con questo atto, quindi, l'organo di vertice esprime le valutazioni di competenza in ordine alla conformità dei contenuti contrattuali anche agli obiettivi e ai programmi generali dell'ente, alla convergenza con le linee di politica sindacale e del personale perseguite dall'ente, all'utilizzo efficiente, efficace ed economico delle risorse disponibili, all'adeguamento del contratto integrativo alla soluzione di problemi organizzativi e funzionali dell'ente, alla coerenza dei costi del contratto integrativo con i vincoli di bilancio e con le altre norme contrattuali in materia di quantificazione delle risorse, al rispetto delle disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti accessori.
La corte dei conti (si veda Il quotidiano degli enti locali e della Pa del 28.08.2017) aveva già giudicato la preintesa priva di effetti giuridici con la conseguenza che qualsiasi altro adempimento, in sostituzione della sottoscrizione definitiva, non è sufficiente per il determinarsi degli effetti giuridici del contratto. L'attribuzione di compensi, quindi, in assenza della sottoscrizione definitiva non potrà che avvenire in violazione di legge (articolo 40, commi 3 e 3-bis, Dlgs 165/2001) con conseguenti responsabilità da parte di chi queste risorse abbia corrisposto. In altri termini, è solo con la sottoscrizione definitiva che il contratto integrativo diventa giuridicamente efficace e può essere applicato a tutti gli istituti normativi ed economici disciplinati.
In conclusione, pur in presenza di parere favorevole reso dell'organo di controllo, la mancanza dell'autorizzazione definitiva da parte dell'organo di vertice impedisce la sottoscrizione definitiva del contratto integrativo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni sindacali / In mancanza di un preventivo atto di indirizzo dell’organo di governo dell’ente e, pure in presenza di una certificazione positiva degli oneri contrattuali da parte del soggetto istituzionalmente preposto al controllo, può il suddetto organo di governo non approvare l’ipotesi di accordo e non autorizzare il presidente della delegazione trattante di parte pubblica alla sottoscrizione definitiva del contratto integrativo?
Relativamente alla particolare problematica prospettata, si ritiene utile precisare quanto segue.
L’autorizzazione alla sottoscrizione da parte dell’organo di vertice del contratto integrativo, sulla base delle vigenti regole contrattuali e legali in materia, è un elemento essenziale della procedura negoziale decentrata.
Essa, infatti, a prescindere dalla circostanza che sia intervenuto o meno, all’inizio della procedure, uno specifico atto di indirizzo da parte dello stesso, rappresenta l’atto con il quale l’organo di vertice esprime le valutazioni di competenza in ordine alla conformità dei contenuti contrattuali anche agli obiettivi ed ai programmi generali dell’ente, alla convergenza con le linee di politica sindacale e del personale perseguite dall’ente, all’utilizzo efficiente, efficace ed economico delle risorse disponibili, all’adeguamento del contratto integrativo alla soluzione di problemi organizzativi e funzionali dell’ente, alla coerenza dei costi del contratto integrativo con i vincoli di bilancio e con le altre norme contrattuali in materia di quantificazione delle risorse, al rispetto delle disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti accessori. Pertanto, pur in presenza di parere favorevole reso dell’organo di controllo, la mancanza di tale atto dell’organo di vertice impedisce la sottoscrizione definitiva del contratto integrativo (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 52 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuove discipline per la polizia locale / Ai fini dell’erogazione dell’indennità di servizio esterno, di cui all’art. 56-quinquies, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, il presupposto del “servizio esterno” deve essere inteso in senso restrittivo, solo cioè come servizio “su strada” oppure in senso più ampio, come “servizio esterno di vigilanza sul territorio”, con riferimento cioè a tutte le molteplici funzioni della polizia locale sul territorio?
Poiché la clausola contrattuale, ai fini del riconoscimento dell’indennità, fa riferimento alla prestazione giornaliera ordinaria resa in servizi esterni di vigilanza “in via continuativa”, la stessa può essere corrisposta al personale che, in base alla programmazione dei turni di servizio, è assegnato al servizio esterno solo per alcuni giorni nel mese?

Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile precisare quanto segue:
   1) sulla base delle disposizioni espressamente stabilite nell’art. 56-quinquies del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, il riconoscimento della indennità ivi prevista può essere garantito solo a quel personale della polizia locale che, continuativamente, e, quindi, in maniera non saltuaria o occasionale, sulla base dell’organizzazione del lavoro adottata, renda effettivamente la propria prestazione lavorativa ordinaria in servizi di vigilanza esterni sul territorio, fuori degli uffici, nell’ambito non solo della vigilanza stradale ma di tutte le altre molteplici funzioni della polizia locale;
   2) nei casi particolari in cui, per particolari esigenze organizzative dell’ente, o, in quelli di fruizione da parte del dipendente di specifici permessi ad ore, previsti sia dalla legge che dalla contrattazione collettiva, la prestazione lavorativa nei servizi esterni non copra la durata della giornata lavorativa, l’indennità sarà necessariamente riproporzionata tenendo conto solo delle ore effettivamente rese nei servizi esterni. La disciplina contrattuale, infatti, ai fini del riconoscimento dell’indennità fa riferimento “all’effettivo svolgimento del servizio esterno”.
Ugualmente, per le medesime motivazioni, l’indennità di cui tratta non potrà essere erogata nei casi di assenze per l’intera giornata lavorativa, qualunque sia la motivazione della stessa (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 51 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo fondo risorse decentrate / Nel caso di cessazione dei contratti di somministrazione posti in essere dall’ente, il fondo dell’art. 67 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, deve essere decurtato delle risorse che vi sono confluite, a seguito dell’applicazione dell’art. 52, comma 5, del medesimo CCNL del 21.05.2018, secondo il quale, per il finanziamento del trattamento accessorio del personale somministrato, è previsto uno specifico stanziamento di spesa a carico del bilancio dell’ente nell’ambito del progetto di attivazione dei contratti di somministrazione a tempo determinato?
L’art. 52, comma 5, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, espressamente dispone: “I lavoratori somministrati, qualora contribuiscano al raggiungimento di obiettivi di performance o svolgano attività per le quali sono previste specifiche indennità, hanno titolo a partecipare all’erogazione dei connessi trattamenti accessori, secondo i criteri definiti in contrattazione integrativa. I relativi oneri sono a carico dello stanziamento di spesa per il progetto di attivazione dei contratti di somministrazione a tempo determinato, nel rispetto dei vincoli finanziari previsti dalle vigenti disposizioni di legge in materia.”
Pertanto, in virtù di tale clausola contrattuale, è prevista una particolare ed autonoma modalità di finanziamento del trattamento economico accessorio del personale in servizio presso l’ente sulla base di un contratto di somministrazione a termine mediante uno specifico stanziamento, a carico del bilancio, nell’ambito del progetto che ne è alla base e per tutta la durata dello stesso.
Tali risorse confluiscono nel fondo e sono disponibili in sede di contrattazione integrativa ma solo, come detto, con la specifica finalità di consentire l’erogazione dei trattamenti economici accessori ai lavoratori somministrati, nel rispetto delle regole negoziali in materia valevoli perla generalità del rimanente personale e, quindi, proprio per tale finalizzazione, solo per il periodo in cui il personale di cui si tratta presta servizio presso l’ente.
Ciò comporta, che una volta esaurito il progetto, con il conseguente venire meno dei contratti di somministrazioni posti in essere nell’ambito dello stesso, il fondo deve essere necessariamente ridotte delle risorse che vi erano confluite, ai sensi del citato art. 52, comma 5, del CCNL del 21.05.2018.
Mancherebbe, infatti, ogni giustificazione al loro ulteriore mantenimento nel fondo, essendo venuta meno la ragione giustificativa dell’inserimento nello stesso di tali risorse (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 50 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, nuova valutazione.
Retribuzione di risultato non più compresa tra una percentuale minima ed una massima della retribuzione di posizione per i funzionari incaricati come posizioni organizzative.

A conferma della radicale modifica del sistema di valutazione delle posizioni organizzative, determinata dal Ccnl 21/05/2018, giunge il parere dell'Aran (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 49).
Pur dedicato al tema dell'eventuale maggiorazione del risultato per i funzionari incaricati come posizione organizzativa a scavalco tra due enti, il parere afferma, condivisibilmente, che a seguito della nuova disciplina contrattuale «deve ritenersi integralmente e definitivamente disapplicata la precedente disciplina della retribuzione di risultato delle posizioni organizzative contenuta nell'art. 10, comma 3, del Ccnl del 31.03.1999, che rappresentava la cornice di riferimento anche del sopra citato art. 14, comma 5, del Ccnl del 21/5/2004».
Secondo le previsioni del superato articolo 10, comma 3, del Ccnl 31/12/1999, «l'importo della retribuzione di risultato varia da un minimo del 10% ad un massimo del 25% della retribuzione di posizione attribuita»; il tetto poteva ascendere al 30% proprio nel caso degli incarichi a scavalco tra più enti. Il Ccnl 21/5/2018 non ha riprodotto questa disposizione. Il che è chiara indicazione dell'intenzione delle parti negoziali di modificare alla radice il sistema di premialità per le posizioni organizzative.
Al posto della vecchia disciplina, l'articolo 15, comma 4, del nuovo Ccnl stabilisce: «Gli enti definiscono i criteri per la determinazione e per l'erogazione annuale della retribuzione di risultato delle posizioni organizzative, destinando a tale particolare voce retributiva una quota non inferiore al 15% delle risorse complessivamente finalizzate alla erogazione della retribuzione di posizione e di risultato di tutte le posizioni organizzative previste dal proprio ordinamento».
Dunque, non esiste più alcuna norma contrattuale che garantisca un risultato minimo o comunque limiti il massimo in percentuale rispetto alla retribuzione di posizione. Gli enti dovranno conglobare in un unico capitolo di bilancio i finanziamenti destinati, fino al 2017, al pagamento delle retribuzioni di posizione e risultato; di questa somma, almeno il 15% dovrà essere destinata alla retribuzione di posizione.
Il sistema di valutazione dovrà essere rivisto: nella sostanza, i punteggi ottenuti da ciascun funzionario incaricato come posizione organizzativa, ottenuti secondo criteri valutativi che sono oggetto di contrattazione, determineranno quanto di quel sotto-capitolo di almeno il 15 della spesa complessiva sarà assegnato a ciascuno. Più alto sarà il punteggio, maggiore sarà il premio spettante, a prescindere dalla retribuzione di posizione attribuita.
L'eliminazione della forcella 10-25% rispetto alla retribuzione di posizione, disposta dal contratto nazionale impedisce agli enti di reintrodurla, anche in modo solo parziale col contratto decentrato o col sistema di valutazione (articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuova disciplina delle posizioni organizzative / Nel caso di utilizzo di un dipendente a tempo parziale, già titolare di una posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza ed al quale sia conferito un altro incarico di posizione organizzativa dall’ente che si avvale delle sue prestazioni, ai sensi dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004, trova ancora applicazione la disciplina del comma 5 del suddetto art. 14 (“….Per la eventuale retribuzione di risultato l’importo può variare da un minimo del 10% fino ad un massimo del 30% della retribuzione di posizione in godimento. ….)?
In ordine a tale particolare problematica, si ritiene utile precisare quanto segue:
   - anche la disciplina dell’art. 14, comma 5, del CCNL del 22.01.2004, nella parte relativa alla quantificazione della retribuzione di risultato, nel caso di incarico di posizione organizzativa conferito al medesimo dipendente presso l’ente di appartenenza e presso altro ente che lo utilizzi a tempo parziale o nell’ambito dei servizi in convenzione (da un minimo del 10% ad un massimo del 30% della retribuzione di posizione in godimento), non è più applicabile a seguito dell’introduzione delle nuove disposizioni in materia di retribuzione di risultato delle posizioni organizzative contenute nell’art. 15, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018;
   - infatti, nell’ambito della nuova disciplina, analogamente a quanto avviene per la retribuzione di risultato della dirigenza, è previsto solo che al finanziamento della retribuzione di risultato deve essere destinata una quota non inferiore al 15% del complessivo ammontare delle risorse finalizzate all’erogazione della retribuzione di posizione e di risultato di tutte le posizione organizzative previste dall’ordinamento dell’ente.
Gli enti definiscono, poi, autonomamente, in sede di contrattazione integrativa, i criteri generali per la determinazione della retribuzione di risultato delle diverse posizioni organizzative, nell’ambito delle risorse a tal fine effettivamente disponibili. A seguito di tale nuova regolamentazione, deve ritenersi integralmente e definitivamente disapplicata la precedente disciplina della retribuzione di risultato delle posizioni organizzative contenuta nell’art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999, che rappresentava la cornice di riferimento anche del sopra citato art. 14, comma 5, del CCNL del 21.05.2004;
   - pertanto, anche nel caso in esame la disciplina applicabile deve essere individuata nelle previsioni dell’art. 15, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 49 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Indennità condizioni di lavoro / Ai fini dell’applicazione dell’art. 70-bis del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernente l’indennità per particolari condizioni di lavoro, l’importo massimo di € 10 mensili è stabilito per ciascuna delle fattispecie considerate (attività disagiate o comportanti esposizione a rischi esposte a rischio o implicanti il maneggio valori) e, quindi, può essere determinato fino ad un massimo di € 30 mensili oppure esso è unico e complessivo per tutte le stesse (massimo € 10 mensili)?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue.
Con l'art. 70-bis del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, in coerenza con una specifica indicazione dell’atto di indirizzo del Comitato di settore ed al fine di introdurre una semplificazione delle voci del trattamento accessorio del personale, è stata prevista una nuova ed unica voce indennitaria, denominata “Indennità condizioni di lavoro", che accorpa le precedenti indennità di rischio, disagio e maneggio valori, fermo restando, comunque, i presupposti fattuali che giustificavano l’erogazione di tali compensi.
Infatti, essa vale a remunerare, pur sempre, lo svolgimento, da parte dei lavoratori, di attività disagiate o rischiose in quanto pericolose o dannose per la salute o implicanti il maneggio di valori.
La nuova indennità è commisurata ai giorni di effettivo svolgimento delle attività legittimanti ed il suo ammontare è determinato in sede di contrattazione integrativa, sulla base di specifici criteri individuati direttamente dal CCNL, e cioè:
   a) l’effettiva sussistenza ed incidenza di ciascuna delle condizioni legittimanti sulle attività svolte dal dipendente;
   b) le caratteristiche istituzionali, dimensionali, sociali e ambientali degli enti interessati e degli specifici settori di attività.
Quanto sopra detto, pertanto, evidenzia, che, come sottolineato nella stessa formulazione della clausola contrattuale, si tratta di una unica indennità, che vale a remunerare, anche complessivamente, tutte le diverse fattispecie ivi considerate, nell’ambito di un importo massimo di € 10 giornalieri.
La circostanza che venga in considerazione solo una o più delle condizioni legittimanti, come evidenziato alla precedente lett. a), può valere solo a determinare il concreto ammontare dell’indennità di cui si tratta all’interno del tetto massimo di € 10.
Così, ad esempio, l’indennità potrebbe essere riconosciuta in un importo più elevato a favore del lavoratore che, addetto al maneggio valori, si trovi ad operare anche in una situazione di disagio, rispetto ad altro lavoratore che, invece, renda solo la propria prestazione in una condizione di disagio.
Si esclude, pertanto, che, per ogni fattispecie, possa essere riconosciuta l’indennità in uno specifico importo di €10, per cui nel caso di concomitanza delle stesse, con riferimento ad un unico lavoratore, possa essere previsto anche un ammontare massimo di € 30 giornalieri (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 48 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuova disciplina delle posizioni organizzative / Un ente Parco può utilizzare a tempo parziale un lavoratore dipendente da altro ente, ai sensi dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004 e conferire allo stesso un incarico di posizione organizzativa, con le modalità definite dall’art. 17, comma 6, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene necessario preliminarmente evidenziare che un ente di tale tipologia ente non possa avvalersi della disciplina dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004 in materia di personale utilizzato a tempo parziale e servizi in convenzione.
Infatti, per espressa previsione delle parti negoziali (come si evince dalla formulazione della clausola negoziale: “1. Al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una economica gestione delle risorse, gli enti locali possono utilizzare..”), possono avvalersi di questa disciplina esclusivamente “gli enti locali”.
Per l’esatta definizione degli enti rientranti in tale nozione occorre fare riferimento all’art. 2 del D.Lgs. n. 267/2000.
Conseguentemente, mentre un Comune può indubbiamente avvalersi del personale di un Parco, utilizzando le possibilità previste dall’art. 14 del CCNL del 22.01.2004, nel rispetto delle condizioni e dei limiti ivi previsti, un Parco non può, invece, utilizzare personale di un Comune facendo riferimento alla medesima disciplina contrattuale.
Per soddisfare le proprie esigenze organizzative ed operative, l’ente, potrebbe, eventualmente, valutare l’opportunità di fare ricorso ad una delle diverse forme di assegnazione temporanea previste dalla vigente normativa (ad esempio, il comando).
Esclusa la possibilità del ricorso al citato art. 14 del CCNL del 22.01.2004 nella fattispecie prospettata, non si pone neppure il problema della possibile applicazione dell’art. 17, comma 6, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (possibilità di maggiorare la retribuzione di posizione di una posizione organizzativa conferita ad un lavoratore utilizzato a tempo parziale e titolare di altro incarico di posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza sino ad un massimo del 30% del valore della stessa) (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 47 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo fondo risorse decentrate / Un ente ammesso alla procedura di riequilibrio finanziario, ai sensi dell’art. 243-bis, del D.Lgs. n. 267/2000, può inserire le risorse variabili di cui all’art. 67, comma 3, lett. e), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (risparmi accertati a consuntivo derivanti dall’applicazione della disciplina del lavoro straordinario relativi all’anno precedente)?
E’ possibile riportare nel Fondo per le risorse decentrate dell’anno successivo le economie derivanti dal non integrale utilizzo delle risorse stabili degli anni precedenti?

Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene opportuno precisare quanto segue.
La fattispecie concernente la possibilità di incrementare le risorse variabili da parte degli enti che versino in condizioni di deficitarietà strutturale o che abbiano avviato procedure di riequilibrio finanziario trova una sua specifica regolamentazione nell’art. 67, comma 6, terzo periodo, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo il quale: “Gli enti che versino in condizioni di deficitarietà strutturale o che abbiano avviato procedure di riequilibrio finanziario, come definite e disciplinate da disposizioni di legge o attuative di queste ultime, in vigore per le diverse tipologie di enti del comparto, ferma l’impossibilità di procedere ad incrementi delle complessive risorse di cui al periodo precedente, sono comunque tenuti ad applicare tutte le misure di riequilibrio previste dalle suddette disposizioni, anche in ordine alla riduzione o totale eliminazione delle risorse stesse.”.
Si tratta di una disciplina completamente diversa e distinta da quella dettata del precedente periodo 2 del citato comma 6 dell’art. 67, che, prende in considerazione solo la specifica situazione degli enti che si trovino in condizioni di dissesto.
Questi enti, infatti, non possono procedere ad alcuno stanziamento di risorse variabili, fatte salve le sole quote di risorse previste dal comma 3, lett. c), del medesimo l’art. 67, destinate a finanziare compensi da corrispondere obbligatoriamente sulla base delle disposizioni legislative ivi richiamate.
Gli enti, invece, considerati dall’art. 67, comma 6, terzo periodo, come si evince dalla lettura della clausola contrattuale, si trovano nella condizione di poter procedere allo stanziamento di risorse variabili (ivi comprese quelle della lett. e), del comma 3, del medesimo art. 67), ma il relativo importo non può, comunque, essere incrementato e superare, conseguentemente, quello delle risorse di cui si tratta, sempre di natura variabile, complessivamente già previste nell’anno precedente.
In tale limite dell’anno precedente, comunque, non rientrano quelle risorse il cui stanziamento è consentito anche agli enti in stato di dissesto e cioè quelle previste dal comma 3, lett. c), del medesimo l’art. 67, dato che la clausola del terzo periodo fa riferimento alle “complessive risorse di cui al periodo precedente”.
Se queste risorse sono consentite, in deroga, agli enti in dissesto non possono che ritenersi, in deroga al vincolo del limite anche per gli enti in condizioni di deficitarietà strutturale o che abbiano avviato procedure di riequilibrio finanziario.
Non rientrano nel regime dell’art. 67, comma 6, del CCNL del 21.05.2018, inoltre, le risorse di cui all’art. 68, comma 1, ultimo periodo, del CCNL del 21.05.2018, secondo il quale: “Sono infine rese disponibili eventuali risorse residue di cui all’art. 67, commi 1 e 2, non integralmente utilizzate in anni precedenti, nel rispetto delle disposizioni in materia contabile.”.
Infatti, si tratta delle risorse stabili che, non utilizzate in un anno, qualunque sia la motivazione del mancato utilizzo, si traducono in un incremento, una tantum, delle risorse variabili dell’anno successivo.
In proposito, si ricorda che, nella vigenza del precedente art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, che conteneva un’analoga previsione, il Ministero dell’Economia e delle Finanze nelle sue circolari e nelle sue note esplicative ha avuto modo di evidenziare che le risorse stabili destinate alla contrattazione integrativa, definitivamente non utilizzate nell’anno precedente, costituiscono un mero trasferimento temporale di spesa, nell’anno successivo, di somme già in precedenza certificate e che si tratta, comunque, di risorse variabili.
Si ricorda, infine, che, come precisato sempre dalla medesima disciplina contrattuale, resta, comunque, fermo l’obbligo per questa tipologia di enti di applicare, sempre, tutte le misure di riequilibrio previste dalle vigenti disposizioni di legge in materia, anche in ordine alla riduzione o totale eliminazione delle risorse stesse, procedendo, cioè, ove si renda necessario in applicazione delle suddette norme, anche alla riduzione o alla totale soppressione delle risorse di cui si tratta (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 46 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo fondo risorse decentrate / Ai fini della corretta applicazione dell’art. 67, comma 2, lett. a), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, nella nozione di “…unità di personale destinatarie del presente CCNL in servizio alla data del 31.12.2015…”, utilizzata dalle parti negoziali, per consentire la determinazione dell’ammontare delle risorse previste dalla suddetta clausola contrattuale, si può ricomprendere anche il personale con contratto a tempo determinato in servizio a quella data?
Si può tenere conto anche del personale in servizio con contratto di somministrazione? Nel caso di personale in servizio al 31.12.2015 con rapporto di lavoro a tempo parziale, il valore di € 83,20 deve essere riproporzionato?

Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) in base all’art. 67, comma 2, lett. a), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, l’incremento delle risorse decentrate stabili, pari all’importo di € 83,20, deve essere disposto “per le unità di personale destinatarie del presente CCNL (ndr. CCNL del 21.05.2018) in servizio alla data del 31.12.2015….”.
Sulla base di tale ampia indicazione e del riferimento alle “unità di personale destinatarie del presente CCNL”, si ritiene che l’incremento debba essere effettuato computando anche le unità di personale assunto a tempo tempo determinato ed in servizio alla data del 31.12.2015, dato che anche i lavoratori a tempo determinato rientrano tra di destinatari e delle disposizioni del CCNL del 21.05.2018, come espressamente disposto dall’art. 1, comma 1, del suddetto CCNL concernente il campo di applicazione;
   b) non si ritiene, invece, che possano essere computati i lavoratori in servizio con contratto si somministrazione sia per la mancanza di una indicazione espressa in tal senso nella clausola contrattuale, sia per le particolari modalità di finanziamento del trattamento economico accessorio del suddetto personale nell’ambito del progetto e per tutta la durata dello stesso;
   c) l’importo annuo di € 83,20 dovrebbe essere computato per intero, anche in caso di presenza in servizio presso l’ente, alla data del 31.12.2015, di personale con rapporto di lavoro a tempo parziale. Infatti, il suddetto personale, nel rispetto delle norme contrattuali e legali in materia, può sempre richiedere la trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 45 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Specifica prestazione, indennità aggiuntive ok. I chiarimenti in un recente parere emesso dall’Aran.
Ad alcune posizioni lavorative è consentito percepire indennità aggiuntive, strettamente connesse ad una specifica prestazione, che trovano in apposite disposizioni di legge la fonte che abilita all'erogazione (a titolo di esempio i compensi per incentivi tecnici, previsti dalla normativa sugli appalti).
Tali posizioni costituiscono un indubbio vantaggio rispetto alla generalità degli altri dipendenti che, non avendo queste tipologie di incarichi, non possono accedere alla relativa incentivazione; per attenuare la suddetta posizione di vantaggio è prevista, tra le materie oggetto di contrattazione decentrata (art. 7, comma 4, lettera j) e per i titolari di posizione organizzativa, la definizione dei criteri per correlare tali compensi con la retribuzione di risultato.
Una volta determinata l'entità della retribuzione di risultato, spettante in base all'esito della valutazione individuale, si può procedere alla riduzione, secondo i criteri determinati in sede di contrattazione decentrata, per esempio, fino ad una percentuale massima della medesima retribuzione.
Si deve ritenere, infatti, che l'effetto compensatorio della riduzione della retribuzione di risultato non debba arrivare fino al punto di eliminare ogni diritto, sia perché si tratta di un istituto accessorio di natura incentivante esplicitamente previsto dal Ccnl e sia perché la retribuzione di risultato è strettamente correlata alla performance individuale.

Con un recente parere l'Aran (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 44) si è espressa nel senso che tale correlazione può riguardare anche il personale non titolare di posizione organizzativa, qualora ciò sia stabilito in sede di contrattazione decentrata alla quale è consentito, appunto, definire la correlazione, e quindi il rapporto anche quantitativo, tra compensi connessi alla performance (individuale e collettiva) e l'entità dei compensi previsti da specifiche norme di legge.
Ciò potrà avvenire utilizzando la riserva di regolazione in materia di trattamenti economici, riconosciuta dalla legge alla contrattazione. L'art. 7, comma 4, lett. b), del Ccnl delle Funzioni locali affida alla contrattazione integrativa proprio «i criteri per l'attribuzione dei premi correlati alla performance», tra cui possono ben rientrare le regole per correggere il vantaggio derivante da specifici compiti. In sostanza, l'Aran ritiene che pur riferendosi la previsione di cui all'art. 7, comma 4, lett. j), del Ccnl al solo rapporto tra i compensi dell'art. 18, comma 11, lett. h) e la retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa, sia comunque consentita l'applicazione, con carattere di generalità, anche al personale non titolare di posizione organizzativa, ove esso sia condiviso dalle parti in sede decentrata.
D'altra parte l'espresso riferimento dell'art. 18 alle sole posizioni organizzative dipende probabilmente dal fatto che tale norma prevede la possibilità di erogare compensi aggiuntivi ai titolari posizione organizzative in deroga al principio generale sancito dall'art. 15 del medesimo contratto secondo il quale la retribuzione di posizione e di risultato «assorbe tutte le competenze accessorie»
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Premialità / L’art. 7, comma 3, lett. J), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 prevede, tra le materie di contrattazione integrativa, anche la definizione della la correlazione tra i compensi aggiuntivi per le posizioni organizzative (es: incentivi per funzioni tecniche) e la retribuzione di risultato.
In mancanza di una espressa indicazione in tal senso è possibile negoziare in sede decentrata anche la correlazione tra incentivi (es: incentivi per funzioni tecniche) e performance individuale/collettiva?

Relativamente alla particolare problematica prospettata, si ritiene che, stante la riserva di regolazione in materia di trattamenti economici riconosciuta dalla legge alla contrattazione collettiva, non sembrano sussistere impedimenti a che, in sede di contrattazione integrativa, ai sensi dell’art. 7, comma 4, lett. b), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, possano essere stabilite comunque regole per definire la correlazione e, quindi il rapporto anche quantitativo, tra compensi connessi alla performance (individuale e collettiva) e l’entità dei compensi previsti a favore di particolari categorie di personale, da specifiche norme di legge, anche al fine di evitare situazioni di indubbio ed ingiustificato vantaggio a favore dei dipendenti operanti presso determinati servizi.
In sostanza, si ritiene che il principio, esplicitato dall’art. 7, comma 4, lett. j), del CCNL del 21.05.2018, con espresso riferimento al solo rapporto tra i compensi dell’art. 18, comma 11, lett. h), del medesimo CCNL del 21.05.2018 e la retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa, possa essere, comunque, applicato, con carattere di generalità, anche al rapporto tra incentivi connessi alla performance e l’ammontare di alcune specifiche tipologie di altri trattamenti economici accessori previsti da norme di legge anche per il personale non titolare di posizione organizzativa, ove esso sia condiviso dalle parti in sede decentrata (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 44 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità disciplinare / L’art. 3, comma 6, del CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali dell’11.04.2008, per il caso della sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni a 6 mesi, prevedeva, per il periodo della sospensione, la corresponsione al lavoratore di una indennità pari al 50% della retribuzione indicata all'art. 52, comma 2, lettera b), del CCNL 14.09.2000 (poi art. 10, comma 2, del CCNL del 09.05.2006).
La nuova disciplina di tale sanzione contenuta nell’art. 59, comma 8, del CCNL delle Funzioni Locali non prevede più tale indennità.

Alla luce di quanto sopra detto, nel caso in cui venga irrogata, oggi, la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione di cui si tratta per un fatto commesso nel 2009 (procedimento avviato nella vigenza del CCNL del 2008), si può ancora applicare il citato art. 3, comma 6, del CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali, vigente al tempo della avvio del procedimento, con il riconoscimento dell’indennità, o si deve fare riferimento alla nuova disciplina che la esclude?
L’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che la nuova disciplina della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino a 6 mesi, senza corresponsione di alcun assegno alimentare, ai sensi dell’art 59, comma 8, del CCNL del 21.05.2018, possa trovare applicazione solo per le infrazioni commesse successivamente all’entrata in vigore del nuovo codice disciplinare.
Infatti, si tratta di una indicazione pienamente conforme alle previsioni dall’art. 59, comma 12, del medesimo CCNL del 21.05.2018, relativamente alla fase di prima applicazione della nuova disciplina contrattuale, espressamente dispone: “…..il codice disciplinare deve essere obbligatoriamente reso pubblico nelle forme di cui al comma 11, entro 15 giorni dalla data di stipulazione del CCNL e si applica dal quindicesimo giorno successivo a quello della sua applicazione.” (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 43 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione / A quale modello di relazioni sindacali deve essere ricondotta la materia della eventuale integrazione della disciplina della valutazione della performance individuale con i criteri dell’esperienza maturata negli ambiti professionali di riferimento e delle competenze acquisite e certificate a seguito di processi formativi?
Nel merito del quesito formulato, relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) spetta alla contrattazione integrativa, ai sensi dell’art. 7, comma 4, lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, la scelta in ordine all’introduzione o meno , tra i criteri per l’attribuzione della progressione economica, anche di quelli “dell’esperienza professionale maturata negli ambiti professionali di riferimento, nonché delle competenze acquisite e certificate a seguito di processi formativi” (art. 16, comma 3, del CCNL del 21.05.2018);.
   b) la materia, invece, dei criteri generali dei sistemi di valutazione non forma oggetto di contrattazione integrativa, ma solo di confronto, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. b), del CCNL del 21.05.2018 (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 42b - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni sindacali / A quale modello di relazioni sindacali deve essere ricondotta la materia della eventuale integrazione della disciplina della valutazione della performance individuale con i criteri dell’esperienza maturata negli ambiti professionali di riferimento e delle competenze acquisite e certificate a seguito di processi formativi?
Nel merito del quesito formulato, relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) spetta alla contrattazione integrativa, ai sensi dell’art. 7, comma 4, lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, la scelta in ordine all’introduzione o meno , tra i criteri per l’attribuzione della progressione economica, anche di quelli “dell’esperienza professionale maturata negli ambiti professionali di riferimento, nonché delle competenze acquisite e certificate a seguito di processi formativi” (art. 16, comma 3, del CCNL del 21.05.2018);.
   b) la materia, invece, dei criteri generali dei sistemi di valutazione non forma oggetto di contrattazione integrativa, ma solo di confronto, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. b), del CCNL del 21.05.2018 (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 42a - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuove discipline per la polizia locale / Nell’ambito della specifica finalità di cui all’art. 56-quater, comma 1, lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (“erogazione di incentivi monetari collegati a obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla sicurezza urbana e stradale), è possibile finanziare, con quota parte delle risorse derivanti dai proventi delle violazioni stradali, di cui all’art. 208, commi 4, lett. c), e 5, del D.Lgs. n. 285/1992, l’indennità di servizio esterno di cui all’art. 56-quinquies, del medesimo CCNL del 21.05.2018?
Tra le altre diverse finalità ivi indicate, l’art. 56-quater, lett. c), del CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali, destina quota parte dei proventi delle violazioni stradali, di cui all’art. 208, commi 4, lett. c), e 5, del D.Lgs. n. 285/1992 anche all’“erogazione di incentivi monetari collegati a obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla sicurezza urbana e stradale.”. Si tratta di una indicazione ampia e generale.
Pertanto, in tale ambito, ad avviso della scrivente Agenzia, le risorse di cui si tratta possono essere utilizzate anche per il finanziamento dell’indennità di servizio esterno, in quanto anche questo compenso, per le nuove e maggiori prestazioni cui si collega (implementazione dei servizi esterni di vigilanza), si può configurare come strettamente funzionale al conseguimento di quegli obiettivi di potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla sicurezza urbana e stradale” (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 41 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative in più enti, maggiorazione del 30% a carico dell'utilizzatore.
L'onere della maggiorazione della retribuzione di posizione fino a un massimo del 30 per cento, prevista dall'articolo 17, comma 6, del contratto 21.05.2018, nell'ipotesi di conferimento di incarico di posizione organizzativa a personale utilizzato a tempo parziale presso altro ente o presso servizi in convenzione o unioni di Comuni, è a carico degli enti utilizzatori.

Lo ha chiarito l'Aran con l'orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 40.
Si tratta di un'ipotesi piuttosto frequente in amministrazioni locali di piccola dimensione, in cui un ente si avvale del personale a tempo parziale incardinato presso un altro ente o presso servizi in convenzione, incaricandolo di posizione organizzativa.
La disciplina contrattuale
Il contratto nazionale chiarisce le modalità con cui avviene la regolazione dei rapporti, stabilendo puntualmente:
   a) da una parte, che l'ente di provenienza continua a corrispondere le retribuzioni di posizione e di risultato secondo i criteri nello stesso stabiliti, riproporzionate in base alla intervenuta riduzione della prestazione lavorativa;
   b) dall'altra parte, che l'ente, l'unione (posto che la disciplina interessi anche le unioni dei comuni) o il servizio in convenzione presso il quale è stato disposto l'utilizzo a tempo parziale corrispondono, con onere a proprio carico, le retribuzioni di posizione e di risultato in base alla graduazione della posizione attribuita e dei criteri presso gli stessi stabiliti, ovviamente in modo riproporzionato.
Peraltro, è anche stabilito, con una disposizione che ha determinato talune incertezze applicative, come, al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta in diverse sedi di lavoro, sia possibile corrispondere una maggiorazione della retribuzione di posizione attribuita di importo non superiore al 30 per cento.
Il chiarimento
I punti dubbi essenzialmente due: rispettivamente, sulla base di commisurazione di questa maggiorazione (se è limitata alla quota a carico dell'ente utilizzatore oppure all'intero importo della posizione) nonché all'imputazione della spesa (se integralmente a carico dell'ente utilizzatore o pro quota a entrambi).
L'Aran è intervenuta, dunque, chiarendo, alla luce della disciplina contrattuale (la quale prevede espressamente che «…i soggetti di cui al precedente alinea possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico…)» che solo l'ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio in convenzione e l'unione di Comuni, che si avvalgono del lavoratore di altro ente, si assumono l'onere della maggiorazione fino al 30 per cento della retribuzione di posizione prevista dalla disciplina contrattuale.
È rilevante, infine, sottolineare che in un altro orientamento applicativo (CFL49) l'Aran ha chiarito che, invece, non è più applicabile la disciplina dell'articolo 14, comma 5, del contratto del 22.01.2004 che prevedeva la possibilità, nel caso di incarico di posizione organizzativa conferito al medesimo dipendente presso l'ente di appartenenza e presso altro ente che lo utilizzi a tempo parziale o nell'ambito dei servizi in convenzione, di elevare al 30 per cento la retribuzione di risultato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuova disciplina delle posizioni organizzative / L’art. 17, comma 6, delle Funzioni Locali del 21.05.2018 disciplina l’utilizzo in convenzione delle posizioni organizzative, prevedendo la possibilità di maggiorare la retribuzione di posizione sino ad un massimo del 30% del valore della stessa.
L’onere di tale maggiorazione compete all’ente che utilizza il lavoratore in convenzione?

Nell’ambito delle disposizioni particolari sulle posizioni organizzative sono state dettate, anche alcune previsioni concernenti le specifiche ipotesi di conferimento della titolarità di posizione organizzativa ad un dipendente utilizzato a tempo parziale presso altro ente o in un servizio convenzione o presso una unione di comuni e già titolare di altra posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza (art. 17, commi 6 e 7, del CCNL delle Funzioni Locali del 22.01.2004), ai sensi degli art. 14 e 13 del CCNL del Comparto Regioni – Autonomie Locali del 22.01.2004 .
Sulla base della nuova disciplina, al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta dall’unico lavoratore titolare di incarico di posizione organizzativa presso due diversi enti, i soggetti di cui sopra si è detto (l’ente utilizzatore a tempo parziale, il sevizio in convenzione e l’unione di comuni) possono riconoscere una maggiorazione della retribuzione di posizione relativa alla posizione organizzativa attribuita al suddetto lavoratore presso gli stessi, determinata in base ai criteri di graduazione dagli stessi adottati, di importo non superiore al 30% della stessa.
La disciplina contrattuale (art. 17, comma 6, comma 6, ultimo alinea), poi, prevede espressamente anche che “…i soggetti di cui al precedente alinea possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico……)".
Quindi, solo l’ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio in convenzione e l’unione di comuni, che si avvalgono del lavoratore di altro ente, si assumono l’onere della maggiorazione fino al 30% della retribuzione di posizione prevista dalla disciplina contrattuale.
Si ricorda, peraltro, che l’importo della retribuzione di posizione, determinato tenendo conto anche della eventuale maggiorazione dell’art. 17, comma 6, ultimo alinea, del CCNL del 21.05.2018, deve essere comunque riproporzionato in relazione alla durata prevista della prestazione lavorativa presso l’ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio in convenzione e l’unione di comuni (orientamento applicativo 03.04.2019 CFL 40 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa flessibilità oraria fa perdere l'indennità al personale in turnazione.
La flessibilità oraria, in entrata e in uscita, non è consentita al personale in turnazione, pena la perdita dell'indennità contrattuale, mentre una differenza oraria sovrapponibile è ammessa esclusivamente per il tempo necessario al cambio di turno.
Al contrario, in caso di impedimento (malattia, ferie, permessi), l'attribuzione della indennità è dovuta al personale che nella giornata abbia correttamente effettuato la propria turnazione (antimeridiana o pomeridiana). Viene confermato, infine, il solo pagamento della maggiorazione, prevista per la turnazione, in presenza del servizio reso nella giornata festiva infrasettimanale.

Sono questi gli indirizzi confermati dall'Aran, nel parere 20.03.2019 n. 2222 di prot..
La flessibilità oraria
Il contratto del 21.05.2018 ha previsto, in modo non dissimile dai contratti precedenti, che è oggetto di contrattazione integrativa la definizione dei criteri per l'individuazione di fasce temporali di flessibilità oraria in entrata e in uscita, al fine di conseguire una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e familiare.
Flessibilità oraria che, tuttavia, non si concilia con le regole contrattuali della turnazione, pena la sovrapposizione delle attività in turno. Infatti, se il primo lavoratore, utilizzando la flessibilità oraria in ingresso, inizia la prestazione, ad esempio, alle 8,15, anziché alle 7,30 come stabilito per il suo turno, il servizio non è comunque reso per 45 minuti, in conflitto con le finalità del turno che è quella di garantire la continuità del servizio per almeno 10 ore continuative.
Analogo effetto interruttivo si determinerebbe nel caso in cui il lavoratore preso in considerazione, sempre in virtù della flessibilità oraria, anticipasse l'uscita alle 12,30 (rispetto alla prevista cessazione della prestazione alle ore 13,30), a nulla rilevando che il medesimo lavoratore recuperi, secondo le regole generali, il tempo fruito in flessibilità, in quanto questo si collocherebbe sempre e necessariamente al di fuori delle fasce della turnazione.
L'Aran ha precisato che l'unica flessibilità possibile è quella stabilita dall'articolo 23, comma 3, lettera b), secondo cui «l'adozione dei turni può anche prevedere una parziale e limitata sovrapposizione tra il personale subentrante e quello del turno precedente, con durata limitata alle esigenze dello scambio delle consegne».
Turnazione e assenze
Nel caso in cui una volta stabilita la rotazione tra due dipendenti, tra orario antimeridiano e pomeridiano, uno dei due si dovesse assentarsi per qualsiasi motivo (malattia, ferie, permesso o altro), questa situazione non modifica la condizione di turnista dell'altro lavoratore, il quale usufruirà dell'indennità per la turnazione effettuata anche in assenza di un servizio continuativo per un minimo di 10 ore previsto dal contratto (articolo 23 del contratto 21.05.2018).
Turnazione e festivo infrasettimanale
I tecnici dell'Aran confermano che, anche con il nuovo contratto stipulato, nulla è modificato in merito al servizio prestato dal personale turnista nella festività infrasettimanale. Così se il turno è articolato su cinque o sei giorni settimanali, esso ricomprende anche le eventuali festività ricadenti in detto periodo che dovranno essere considerate lavorative con diritto alla sola maggiorazione prevista nell'indennità di turno (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODeroghe possibili alla flessibilità oraria, l'Aran conferma.
Il contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto delle funzioni locali del 21 maggio 2018, con l'articolo 27, in un'ottica di potenziamento delle misure di conciliazione vita-lavoro, ha previsto la possibilità di rendere maggiormente flessibile la prestazione lavorativa del dipendente favorendone il giusto equilibrio tra esigenze personali e impegni di lavoro.
Si tratta di una novità assoluta per gli enti locali e, come tutte le novità, solleva diversi dubbi per chi concretamente deve darne applicazione.

È l'Aran, dopo un primo chiarimento (si veda l'orientamento applicativo Cfl35), che fornisce, con il parere 14.03.2019 n. 2096 di prot., ulteriori utili e importanti indicazioni sull'istituto.
Le possibili deroghe
Il comma 3 dell'articolo in questione dispone espressamente che l'eventuale debito derivante dalla disciplina dell'orario di lavoro flessibile «deve essere recuperato nell'ambito del mese di maturazione dello stesso, secondo le modalità e i tempi concordati con il dirigente». Per l'Aran la portata della disposizione non ha carattere assoluto ma può, entro certi limiti, essere derogata.
Così nel caso dell'eventuale sopraggiungere di un impedimento, oggettivo e imprevisto, che non consente al lavoratore il recupero orario entro il mese di maturazione (che è da intendersi come mese di calendario) del debito orario o, anche nell'ipotesi, ugualmente avente carattere di eccezionalità, della fruizione della flessibilità oraria proprio nell'ultimo giorno del mese, è possibile far slittare il termine del recupero al mese successivo a quello di maturazione.
Viene però individuata un'altra ipotesi di deroga: quella legata a esigenze di carattere organizzativo dell'ente stesso. Tuttavia, avverte l'Agenzia, occorre procedere con una certa prudenza nei comportamenti derogatori del datore di lavoro pubblico per evitare che gli stessi finiscano per ampliarsi e assumere carattere di regola generale. Si tratta di un'importante apertura che consente agli enti di evitare inutili irrigidimenti di una norma contrattuale che rappresenta, forse, più di altre un concreto strumento per conciliare le esigenze delle persone, le esigenze organizzative dell'ente e i bisogni dell'utenza.
Le ipotesi che giustificano il riconoscimento
Un'altra importante indicazione fornita dall'Aran con il parere n. 2096/2019 è quella per cui non è possibile estendere la portata della clausola contrattuale alle fattispecie non espressamente indicate al comma 4 (ovvero dipendenti che beneficiano delle tutele connesse alla maternità o paternità, assistono portatori di handicap, siano inseriti in progetti terapeutici, si trovano in situazioni di necessità connesse alla frequenza dei propri figli di asilo nido, scuole materne e scuole primarie o che siano impegnate in attività di volontariato).
Questo chiarimento in realtà spiazza molti enti locali che, avvalendosi dello schema di contratto contenuto nel quaderno Anci dello scorso 14.09.2018 (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa dell'08.10.2018), in sede di contrattazione integrativa hanno provveduto a disciplinare, o stanno valutando di farlo, ulteriori casistiche delle situazioni che possono dare luogo alla concessione dell'orario flessibile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAnche il part-time aumenta il fondo.
Pian piano il contratto nazionale delle funzioni locali togle i veli e mostra la sua effettiva portata. In questo contesto, un ruolo chiave è ricoperto dall’Aran che in questi giorni risponde a tempo pieno ai quesiti delle amministrazioni locali.
Questa volta, l’importante chiarimento riguarda le modalità applicative dell’articolo 67, comma 2, lettera a), del contratto del 21.05.2018. La disposizione stabilisce che dal 31.12.2018 e a valere dall’anno 2019 il fondo per le risorse decentrate sia incrementato di un importo pari a 83,2 euro per ogni unità di personale presente al 31.12.2015, destinataria dello stesso contratto. I dubbi applicativi, sorti immediatamente dalla lettura del testo definitivo del contratto, erano stati accantonati, vista la decorrenza al 2019. Oggi i problemi non sono più rinviabili ed ecco l’intervento dell’Aran.
Il chiarimento dell'Aran.
Un Comune si interroga su come si devono quantificare i soggetti da considerare «unità di personale» destinatarie del contratto.
Un primo chiarimento era già intervenuto con il parere 06.09.2018 n. 15354 di prot. dell'Aran, dove dal calcolo erano stati esclusi il personale in comando, distacco, assegnazione temporanea, utilizzo a tempo parziale e istituti analoghi.
Quale motivazione, l’Agenzia scriveva che in caso contrario si sarebbe arrivati a incrementare le risorse del fondo in maniera stabile e permanente, a fronte di personale solo temporaneamente utilizzato dall’ente. Ovviamente questi soggetti sono computati dall’ente dal quale dipendono giuridicamente. Così si evita il doppio conteggio.
Sorgeva allora spontanea la domanda posta ora dal Comune: se questo è il perimetro entro il quale muoversi, nelle «unità di personale» vanno computati i dipendenti al 31.12.2015 con contratto a tempo determinato? E il personale a part-time deve essere conteggiato in relazione all’impegno lavorativo oppure per intero? L’Aran risponde a questi dubbi con il parere 27.02.2019 n. 1650 di prot..
Viene affermato che, come soggetti destinatari del contratto nazionale, anche i dipendenti a termine, se presenti alla fine del 2015, sono da considerarsi ai fini dell’incremento del fondo.
L’Agenzia chiarisce anche che sono da conteggiare i soggetti con contratto di lavoro subordinato in base al comma 557 della legge 311/2004, vale a dire i rapporti che possono essere stipulati dagli enti locali con meno di 5mila abitanti con dipendenti di altre pubbliche amministrazioni, anche se questi ultimi mantengono un contratto di lavoro a tempo pieno.
Posizione poco lineare
La posizione dell’Aran non sembra molto lineare: nel parere del settembre 2018 si affermava che non è possibile considerare il dipendente in comando in quanto utilizzato solo temporaneamente, mentre oggi sostiene che va conteggiato il personale a termine; a settembre si affermava che il lavoratore in comando non va conteggiato perché già considerato dall’ente da cui dipende giuridicamente; oggi si sostiene che si computano anche i dipendenti a termine previsti dal comma 557 della legge 311/2004, sicuramente già computati dall’ente da cui dipendono a tempo pieno.
In relazione ai lavoratori part-time, l’Aran sostiene che sono da considerare per intero. La motivazione consiste nella possibilità dei dipendenti con contratto di lavoro a tempo parziale di richiedere sempre la trasformazione a tempo pieno. Anche in questo caso la motivazione lascia un po’ perplessi (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni in D3 se avviate prima del nuovo contratto. L'Aran spiega il regime transitorio.
Le assunzioni nella categoria D3 avviate con la comunicazione prevista dall'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001 prima dello scorso 21 maggio devono essere completate con l'inquadramento in quella posizione, così come gli scorrimenti avviati prima di quella data.
Con l'orientamento applicativo 21.02.2019 CFL 39 abbiamo una attenta risposta ai numerosi dubbi esistenti sulla fase di prima applicazione delle disposizioni del contratto del triennio 2016/2018 che dispongono il superamento della distinzione tra posizioni giuridiche 1 e 3 quali inquadramenti iniziali nella categoria D, disponendo che tutti i nuovi inquadramenti vanno effettuati nella posizione giuridica ed economica 1.
La stessa norma stabilisce che rimangono inquadrati nella categoria D3, a esaurimento, quelli che lo sono già e che devono essere inquadrati in quella posizione i vincitori delle «procedure concorsuali in corso» alla data del 21.05.2018, cioè alla entrata in vigore della norma contrattuale. La logica ispiratrice della scelta contrattuale viene riassunta nella necessità di dare corso al contemperamento delle esigenze, per molti aspetti tra loro contrastanti, della «semplificazione del sistema di classificazione» nella categoria D e della salvaguardia della «validità della graduatoria concorsuale».
Le nuove assunzioni
In primo luogo il parere prende in esame le regole da applicare per le nuove assunzioni, sia tramite concorsi sia attraverso lo scorrimento delle graduatorie. Se l'ente alla data della entrata in vigore del contratto ha effettuato la comunicazione prevista dall'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001, cioè quella finalizzata all'eventuale assegnazione di personale pubblico in disponibilità, si deve considerare comunque rientrante «nella deroga», quindi il o i vincitori vanno assunti in D3.
Si deve invece ricordare che, per la deliberazione della sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Basilicata n. 36/2018 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10.10.2018), la procedura concorsuale si può considerare in corso solamente se alla data del 21.05.2018 era stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il bando di concorso. Quindi una lettura ben più restrittiva di quella fornita dall'Aran.
Il parere ci offre delle indicazioni anche sulla fattispecie della assunzione tramite scorrimento delle graduatorie: se il provvedimento con cui viene data concreta attuazione alla previsione contenuta nel programma annuale e triennale del fabbisogno del personale è stato adottato prima del 21.05.2018, l'assunzione dovrà essere effettuata nella categoria D3, mentre se questo atto è stato adottato successivamente si deve necessariamente dare corso all'inquadramento nella categoria D1, non essendo ostativa a tale conclusione l'attingimento da una graduatoria per D3.
Procedure di mobilità
In secondo luogo, il parere prende in esame la fattispecie relativa all'avvio di procedure di mobilità. Ci viene in premessa ricordato che in questo caso siamo in presenza di una prosecuzione del rapporto esistente con la sola modifica del datore di lavoro e che non si può in alcun modo parlare di una nuova assunzione. La conseguenza è la seguente: opera «la clausola di salvaguardia» prevista dal contratto per i dipendenti in servizio.
In altri termini, la modifica del rapporto di lavoro non può determinare un venir meno della disposizione che consente ai dipendenti in servizio che restano nello stesso ente di continuare a essere inquadrati ad personam e a esaurimento nella posizione giuridica ed economica D3. Per cui, il dipendente deve essere inquadrato in D3 se il bando di mobilità volontaria è stato pubblicato prima della data di entrata in vigore del nuovo contratto.
I bandi di mobilità pubblicati dopo il 21.05.2018 non possono che consentire la partecipazione sia dei D1 che dei D3, scattando per questi ultimi la «clausola di salvaguardia», per cui non vengono "retrocessi" a D1. Dobbiamo infine segnalare che in questi casi occorre garantire che i profili richiesti siano gli stessi o quanto meno compatibili (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.03.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione / Quali sono gli effetti e le modalità applicative dell’art. 12, comma 9, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernente il regime transitorio della nuova disciplina relativa ai profili della categoria D?
Con l’art. 12, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, è stata disposta, all’interno della categoria D, la soppressione di quei profili per i quali precedentemente, veniva riconosciuto un trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3 e per i quali, conseguentemente, era previsto uno specifico punto di accesso dall’esterno, pure nella unicità della categoria D.
Conseguentemente, dalla data del 22.05.2018, all’interno della dotazione organica esistono solo profili ai quali viene riconosciuto il trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D1.
Pertanto, gli enti, per il futuro, nella categoria D, possono assumere dipendenti solo per i profili con posizione economica D1.
Viene, comunque, salvaguardata la posizione dei lavoratori attualmente già inquadrati in tali profili D3, prevedendosi, per essi, la conservazione del profilo posseduto e la posizione economica acquisita nell’ambito della categoria D.
Viene disposta anche un’ulteriore clausola di salvaguardia. L’art. 12, comma 9, del CCNL del 21.05.2018, infatti stabilisce che: “9. Nel caso in cui, alla data di entrata in vigore del presente CCNL siano tuttora in corso procedure concorsuali per l’assunzione di personale nei profili professionali con accesso nella posizione economica D3, secondo il previgente sistema di classificazione, il primo inquadramento avviene nei suddetti profili della categoria D.”.
Il problema che si è posto è quello di dare alla suddetta clausola contrattuale, in sede interpretativa, un contenuto specifico e concreto, coerente con la ratio della soppressione dei profili con trattamento stipendiale corrispondente alla categoria D3, per evitare applicazioni ampie e generalizzate, al di là della volontà delle parti contrattuali.
Il punto nodale è quello della determinazione della indicazione di “procedure concorsuali in corso”.
Si tratta di una indicazione di per sé ampia e generale.
Pertanto, può essere utile esaminare le diverse fattispecie che, praticamente, possono presentarsi e valutare la riconducibilità o meno delle stesse all’interno della garanzia contrattuale.
Assunzioni
   a) sulla base della programmazione dei fabbisogni, l’ente, ha adottato la determinazione di procedere all’assunzione di personale con profili della categoria D, con posizione economica in D3, ed in attuazione della stessa ha inviato la comunicazione prevista dall’art. 34, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001, ai fini della ricollocazione della mobilità obbligatoria, prima del 21.05.2018. Poiché tale comunicazione, sulla base della vigente legislazione, non solo si configura come un necessario passaggio prodromico alla successiva pubblicazione del bando (per l’avvio formale del concorso pubblico in senso proprio) e, quindi, ritenuta pur sempre rientrante nella procedura intesa in senso ampio, ma potrebbe pure portare, al tempo stesso, direttamente alla copertura del posti di cui si tratta tramite mobilità, si ritiene che tale fattispecie rientri comunque nella deroga;
   b) sulla base della programmazione dei fabbisogni, l’ente decide di procedere all’assunzione di personale con profili della categoria D, con posizione economica in D3, tramite scorrimento di graduatorie già formate prima del 21.05.2018. In questo caso, si ritiene che, se l’ente abbia formalmente adottato il provvedimento per dare effettivo corso all’attuazione dello scorrimento della graduatoria, sulla base della vigente legislazione, prima del 21.05.2018, anche se l’assunzione avviene a tale data, troverà applicazione la previsione del sopra citato comma 9. Ove tale provvedimento formale sia intervenuto successivamente alla data del 21.05.2018, l’ente procede allo scorrimento della graduatoria ma l’assunzione avverrà nella posizione economica D1, secondo le previsioni 12 del CCNL del 21.05.2018.
Dopo l’entrata in vigore del CCNL, invece, a seguito della nuova disciplina concernente i profili della categoria D, gli enti non potranno più procedere all’avvio di procedure concorsuali, nei termini sopra individuati, aventi ad oggetto la copertura di posti relativi a profili della categoria D, con posizione economica D3.
Dopo il 21.05.2018, anche per la copertura di posti concernenti profili per i quali prima era previsto nella categoria D, il trattamento stipendiale corrispondente alla posizione economica D3 e l’accesso diretto in tale posizioni, quindi, i dipendenti della categoria D, potranno essere assunti, solo nella posizione economica D1 di tale categoria.
Ove l’ente, anche in questi casi, decida di avvalersi dello scorrimento di graduatorie già esistenti ed ancora vigenti presso lo stesso o anche altri enti, in applicazione delle vigenti disposizioni di legge, relative a precedenti concorsi banditi per la copertura di posti concernenti profili della categoria D, con trattamento stipendiale pari alla posizione economica D3, i soggetti selezionati saranno inquadrati nei corrispondenti profili ora collocati tra quelli con trattamento stipendiale pari alla posizione economica D1.
Viene salvaguardata, quindi, la validità della graduatoria concorsuale, nel rispetto però del nuovo assetto ordinamentale degli enti, conseguente alla soppressione dei profili della categoria D, posizione economica D3, finalizzata alla semplificazione del sistema di classificazione.
Inoltre, in proposito, si può anche evidenziare, che si tratta di personale che è certamente inserito in graduatorie ancora valide, ma comunque non era vincitore di concorso e neppure poteva considerarsi già dipendente dell’ente.
Allo stesso viene conservata la possibilità di accesso agli impieghi, nel profilo per il quale era stato bandito il concorso (avvocato, ingegnere, ecc.), ma tenendo conto della nuova collocazione, giuridica e normativa degli stessi, nell’ambito del sistema di classificazione derivante dal CCNL del 21.05.2018.
Mobilità
Preliminarmente, occorre ricordare che, con la mobilità volontaria, di cui all’art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001, il rapporto di lavoro del personale trasferito non si estingue ma, più semplicemente, prosegue con il nuovo ente con le medesime caratteristiche e con gli identici contenuti che aveva presso il precedente datore di lavoro pubblico.
Conseguentemente, in questa fattispecie occorre considerare che il dipendente in mobilità è già in possesso del profilo della categoria D, con trattamento stipendiale corrispondente alla posizione economica D3, e che, quindi, presso l’amministrazione di appartenenza, si è già collocato nell’ambito della clausola di salvaguardia della situazione soggettiva prevista dal CCNL.
Pertanto, se prima del 21.05.2018 è stato già pubblicato un bando di mobilità per profili di categoria D, con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3, il dipendente trasferito certamente continua a godere della garanzia della conservazione del profilo e della posizione economica già acquisita (art. 12, commi 5 e 9).
Dopo la data del 21.05.2018, i bandi di mobilità per la copertura di posti vacanti della categoria D potranno riguardare solo la “generica” categoria D, anche ove si trattasse di posti relativi a profilli per i quali precedentemente era previsto l’accesso diretto dall’esterno nella posizione economica D3.
Ai suddetti bandi di mobilità, per la copertura di posti della categoria D, per i profili di cui si tratta, potranno partecipare dipendenti di altre amministrazioni, in possesso di profili con trattamento economico stipendiale, indistintamente, pari sia a D1 sia a D3.
Ove nella procedura di mobilità, risulti selezionato un dipendente ancora in possesso di profilo di categoria D, con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3, allo stesso sarà applicata la garanzia contrattuale.
In questi casi, l’eventuale possesso di un profilo della categoria D, con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3, come prescritto espressamente anche dall’art. 12, comma 6, del CCNL del 21.05.2018, rileva esclusivamente per la parte della posizione economica da imputare al fondo delle risorse decentrate e per la determinazione delle risorse da recuperare alle risorse stabili in caso di cessazione, a qualunque titolo, del rapporto di lavoro (orientamento applicativo 21.02.2019 CFL 39 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni economiche create dal contratto 2018 senza elemento perequativo. L’agenzia negoziale nega la possibilità di applicare l’aumento temporaneo. Il paradosso delle promozioni che tagliano la busta paga.
Al personale che acquisisce le posizioni economiche orizzontali (A.6, B.8, C.6 e D.7) introdotte dal nuovo contratto nazionale delle Funzioni locali non spetta l’elemento perequativo in quanto la disciplina contrattuale non ha definito gli importi per queste posizioni. Nemmeno è possibile conservare la voce retributiva nell’importo in godimento nella posizione economica precedentemente posseduta.
Si possono riassumere così i chiarimenti del parere Aran 11.01.2019 n. 261 di prot..
L’elemento perequativo per il comparto funzioni locali è stata disciplinato dall’articolo 66 del contratto del 21.05.2018; i valori, che variano in relazione alla posizione economiche posseduta dal dipendente, sono indicate nella tabella D allegata al contratto.
Un ente locale si è posto alcuni dubbi:
   - la mancata previsione nella tabella D del riconoscimento dell’elemento perequativo alle nuove posizioni economiche orizzontali (A.6, B.8, C.6 e D.7) farebbe venir meno gli intenti di sterilizzazione della perdita del bonus degli 80 euro, visto che per alcune di queste posizioni non si raggiungono i limiti massimi di reddito previsti per beneficiare del bonus?
   - È possibile preservare, a fronte di un vuoto della disciplina contrattuale, quanto meno l’importo dell’elemento perequativo in godimento nella posizione economica precedentemente posseduta (ovvero nella misura riconosciuta dal contratto per le posizioni A.5, B.7, C.5 e D.6)?
Per l’Aran non ci sono dubbi. Il vuoto della norma contrattuale non consente di riconoscere l’elemento perequativo in capo ai dipendenti che conseguono le nuove posizioni economiche introdotte dal contratto nazionale delle funzioni locali del 21.05.2018.
Allo stesso modo, a fronte dell’assenza di una disposizione contrattuale in tal senso, non è consentito conservare in capo ai dipendenti interessati l’importo che percepivano nella posizione economica precedentemente posseduta.
Non è chiaro se la mancata previsione l’elemento perequativo per le nuove posizioni economiche orizzontali sia una dimenticanza o il frutto di una decisione meditata.
Ma è certo che si sono create situazioni curiose: ad esempio un dipendente che passa da A.5 a A.6 avrà un aumento del tabellare mensile pari a 26,66 euro, ma dall’altra non percepirà mensilmente l’elemento perequativo che è pari 26 euro. Un passaggio che di fatto porta nelle tasche del dipendente solo 0,66 euro al mese.
Va ricordato che con il comma 440, lettera b), della legge di bilancio 2019 l’elemento perequativo, che sulla base della norma contrattuale doveva essere corrisposto fino al 31 dicembre scorso, continua a sopravvivere fino alla data di definitiva sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali di lavoro relativi al triennio 2019-2021.
La legge di bilancio 2019 precisa che questa voce retributiva continua ad essere erogata secondo le misure, le modalità e i criteri previsti nei contratto nazionale del triennio 2016-2018 (articolo Il Sole 24 Ore del 21.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl fondo decentrato conferma tutte le indennità.
Anche se il nuovo contratto nazionale non lo prevede espressamente, l’utilizzo del fondo decentrato può continuare con le vecchie modalità.

Così si è espressa l’Aran nel parere 02.01.2019 n. 16.
Un Comune ha interrogato l’Agenzia sul finanziamento della maggiorazione oraria ai dipendenti in caso di lavoro ordinario festivo o notturno in assenza di turno. Il caso è regolato dall’articolo 24, comma 5, del contratto del 14.09.2000; e il contratto del 01.04.1999, all’articolo 17, comma 2, lettera d), indicava il finanziamento a carico del fondo decentrato.
Nel contratto firmato l’anno scorso, l’istituto non viene ripreso. Sulla sua applicazione successiva non ci sono dubbi in quanto l’articolo 2, comma 8, del contratto dispone l’ultrattività delle clausole non disapplicate, se compatibili. Il problema si è posto sul finanziamento, perché l’articolo 68 del nuovo contratto, nell’elencare le voci coperte dal fondo decentrato, non dispone nulla sulla maggiorazione oraria. L’Aran afferma però che, anche dopo il contratto «nulla è cambiato in ordine al finanziamento».
Ma se questo è il principio, c’è un’altra serie di indennità che i precedenti contratti ponevano a carico delle risorse per il salario accessorio e che non vengono ripresi dal nuovo contratto. L’articolo 68, nell’elencare le voci di stipendio che rappresentano gli utilizzi del fondo per le risorse decentrate, cita le progressioni economiche, l’indennità di comparto e altre indennità, ma si dimentica di alcune fattispecie.
Tra queste gli oneri per il reinquadramento del personale dalla ex prima e seconda qualifica funzionale nella ex terza qualifica funzionale, ora categoria A (articolo 7, comma 3 del contratto del 31.03.1999) e il reinquadramento del personale dell’area della vigilanza dalla ex quinta qualifica funzionale alla ex sesta qualifica funzionale, ora categoria C. La copertura di questi oneri era prevista a carico del fondo dal comma 7 dello stesso articolo.
E nemmeno si fa menzione dell’incremento dell’indennità per maestre di scuola materna, assistenti di cattedra e docenti delle scuole secondarie dipendenti dagli enti locali, previsto dall’articolo 6 del contratto 2000/2001. Il caso è ancora più anomalo, in quanto il contratto del 21.05.2018 richiama lo stesso incremento previsto per le educatrici di asilo nido sempre dall’articolo 6 e dimentica, al contrario, le maestre e i formatori appena elencati.
Visto quanto affermato dall’Aran per la maggiorazione oraria, sembra che tutto quanto trovava copertura nel fondo decentrato in base ai vecchi contratti continui a essere finanziato dal fondo. Affermando il contrario, si arriverebbe alla conclusione che gli istituti non citati andrebbero corrisposti con risorse a carico del bilancio, e alla fine la spesa verrebbe duplicata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORia e assegni, le istruzioni Aran sull’incremento del fondo per le risorse decentrate.
Il nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto funzioni locali con l'articolo 67 ha riscritto il sistema di costituzione dei fondi per la contrattazione decentrata, allo scopo di consentire il superamento di alcuni eccessivi tecnicismi gestionali.
L'occasione è stata utile per rivedere, in maniera uniforme e omogenea, le regole che disciplinano il sistema di finanziamento del fondo derivante dalle economie che conseguono a seguito della cessazione dal servizio di personale titolare della retribuzione individuale di anzianità (Ria) e di assegni ad personam in godimento all'atto della cessazione.

È l'Aran, con parere 23.11.2018 n. 17741 di prot., a illustrare le motivazioni alla base della nuova disciplina contrattuale e a spiegare come correttamente effettuare l’imputazione delle voci nel nuovo fondo per le risorse decentrate.
La vecchia disciplina e le sue criticità
L'articolo 4, comma 2, del contratto del 05.10.2001, a suo tempo aveva previsto che, annualmente, gli enti potessero incrementare le risorse decentrate stabili con le economie generate a seguito della cessazione dal servizio di personale titolare della retribuzione individuale di anzianità (Ria) e di assegni ad personam in godimento all'atto della cessazione.
In applicazione di questa regola il meccanismo utilizzato dagli enti era il seguente. In caso di cessazione del rapporto di lavoro in corso di anno, veniva portato subito tra le risorse stabili dello stesso anno quelle della Ria del dipendente interessato, pro rata, tenendo conto cioè solo di quelle effettivamente resesi disponibili calcolate dal mese della cessazione, ricomprendendo anche il rateo della tredicesima mensilità (così ad esempio per un dipendente con una Ria annuale pari a 195 euro che cessava dal 1/7 dell'anno, veniva inserito nel fondo un importo pari ai 6/13 dell'ammontare annuo).
Dall'anno successivo, veniva invece riportato tra le risorse stabili per la contrattazione di tale anno l'intero ammontare della Ria, completando così il recupero della voce retributiva dei cessati dal lavoro già parzialmente operato l'anno precedente (nell'esempio sopra illustrato 195 euro ovvero 15 euro per 13 mensilità).
Questo modo di operare, spiega l'Aran, ha generato nel tempo alcuni problemi applicativi. Come ad esempio poteva risultare particolarmente eccessiva una ipotesi di riapertura della contrattazione integrativa nei casi in cui ci si trovava di fronte a un recupero delle quote annuali nell'anno di cessazione di importi modestissimi oppure nella situazione in cui la cessazione si fosse verificata verso la fine dell'anno, cioè a contrattazione chiusa.
La nuova disciplina e le indicazioni di calcolo
Il nuovo contratto ha rimodulato l'acquisizione delle economie, innovando le relative modalità d'implementazione rispetto al sistema costitutivo precedente.
Il nuovo sistema è ora disciplinato dall'articolo 67 con due diverse disposizioni: una con riferimento alla parte stabile (comma 2, lettera c) e l'altra con riferimento alla parte variabile (comma 3, lettera d).
Con la prima disposizione viene disciplinata una regola sostanzialmente coincidente con quanto precedentemente disciplinato dall'articolo 4, comma 2, del contratto del 05.10.2001 e cioè nell'anno successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, le risorse variabili venivano implementate dell'intero ammontare della Ria del personale cessato.
Diversa dal passato è, invece, la soluzione adottata per le quote mensili di Ria che si sono rese disponibili nel caso di cessazione del rapporto in corso anno.
L'articolo 67, comma 3, lettera d) del nuovo contratto, spiega l'Aran, consente di superare le difficoltà evidenziate. Il nuovo sistema, che si collega in qualche modo alla precedente disciplina contenuta nell'articolo 17, comma 5, del contratto del 01.04.1999 (secondo la quale le risorse stabili non utilizzate in un anno potevano essere riportate come risorse una tantum tra le risorse variabili dell'anno successivo), ha previsto che risorse decentrate variabili possono essere incrementante «degli importi una tantum corrispondenti alla frazione di RIA di cui al comma 2, lett. b), calcolati in misura pari alle mensilità residue dopo la cessazione, computandosi a tal fine, oltre ai ratei di tredicesima mensilità, le frazioni di mese superiori a quindici giorni; l'importo confluisce nel Fondo dell'anno successivo alla cessazione dal servizio».
In sintesi il meccanismo di incremento del fondo delle risorse decentrate è il seguente:
   • nelle risorse di parte stabile confluisce un importo pari all'ammontare annuo della Ria, comprensivo della tredicesima mensilità, del lavoratore cessato nell'anno precedente;
   • nelle risorse di parte variabile confluisce, invece, un importo, una tantum, pari alle quote di Ria dei mesi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro del dipendente nell'anno precedente.
Naturalmente, come ben ricorda anche l'Aran, l’incremento potrà avvenire solo se viene rispettato il limite di finanza pubblica posto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI sindacati chiedono all'Aran l'interpretazione autentica su progressioni orizzontali, servizi esterni e fondo.
Indennità di servizio esterno, progressioni orizzontali e costituzione del fondo.
Sono questi i tre argomenti per i quali alcune importanti sigle sindacali hanno chiesto l'attivazione della procedura di interpretazione autentica regolata dall'articolo 2, comma 7, del contratto 21.05.2018 delle Funzioni Locali. Non sembrano, infatti, essere piaciute le interpretazioni fornite in questi ultimi mesi dall'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni sulle modalità di applicative di alcune clausole contrattuali.
Indennità di servizio esterno
L'Aran, con parere 16.11.2018 n. 17583 di prot. (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 3 dicembre), ha affermato che l'indennità stabilita dall'articolo 56-quinques del nuovo contratto deve essere riconosciuta solo al personale della polizia locale che, continuativamente, e quindi, in maniera non saltuaria o occasionale, svolge effettivamente la propria prestazione lavorativa ordinaria in servizi esterni di vigilanza «in strada» e, nel caso in cui la prestazione lavorativa nei servizi esterni non copra la durata giornaliera lavorativa, l'indennità deve essere riproporzionata.
Per le organizzazioni sindacali, l'orientamento interpretativo fornito dall'Aran diverge dalla disciplina contrattuale in quanto, questa lettura, riduce l'ambito applicativo della disposizione a un'unica fattispecie cioè quella del servizio di vigilanza «in strada», escludendo le altre tipologie di servizio esterno di vigilanza.
Viene, inoltre, evidenziato come anche l'indicazione fornita dall'Agenzia sul riproporzionamento dell'indennità in esame nel caso in cui il servizio non copra la durata dell'intera giornata lavorativa è in contrasto con il disposto contrattuale il quale prevede, invece, una semplice «commisurazione in base alle giornate di effettivo svolgimento». Tutto ciò sta generato incertezza nella sottoscrizione degli accordi integrativi.
Consolidamento delle risorse per l'alta professionalità
L'Aran, con l'orientamento applicativo CFL7 e CFL15 (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa dell’11 ottobre), ha cercato di fornire delle indicazioni circa la portata dell'articolo 67, comma 1, del nuovo contratto nel parte in cui viene previsto che nell'unico importo consolidato (Iuc) delle risorse stabili confluisce anche l'importo annuale delle risorse di cui all'articolo 32, comma 7, del contratto 22.01.2004 (pari allo 0,20% del monte salari dell'anno 2001, esclusa la quota relativa alla dirigenza), espressamente e tassativamente destinate alle «alte professionalità».
Per le sigle sindacali gli orientamenti applicativi forniti dall'Aran risultano controversi sia nell'ipotesi del mancato stanziamento delle risorse sia nella disciplina delle modalità di utilizzo delle risorse accantonate in applicazione dell'articolo 32, comma 7, del contratto 22.01.2004, ove le stesse non siano state impiegate per il finanziamento dell'istituzione delle alte professionalità. L’incertezza, viene sottolineato nella nota inviata all'Aran, ha generato evidenti difficoltà operative.
I criteri per le progressioni economiche
Viene, infine, evidenziata la necessità di giungere a un'interpretazione autentica sulla portata applicativa della disciplina delle progressioni economiche disciplinate all'articolo 16, comma 3, del nuovo contratto.
In particolare, la parte in cui è previsto che oltre che alle risultanze della valutazione della performance individuale del triennio che precede l'anno in cui si attiva l'istituto, si possa “eventualmente” tenere conto, tra gli altri criteri, dell'esperienza maturata negli ambiti professionali di riferimento nonché delle competenze acquisite e certificate a seguito del processi formativi.
L'interpretazione autentica potrebbe evitare il diffondersi di un'interpretazione della norma che porterebbe a ritenere la previsione di tali criteri aggiuntivi rispetto agli esiti della valutazione della performance, come facoltà rimessa in via unilaterale ad autonome determinazioni degli enti.
Conclusioni
Chissà se l'Aran raccoglierà l'invito delle sigle sindacali. In circa ventitré anni di contrattazione, le interpretazioni autentiche alle clausole contrattuali si possono davvero contare sul palmo di una mano. L'Aran ha sempre ritenuto (parere RAL736) che l'interpretazione autentica trova applicazione solo in presenza di un reale conflitto sulla interpretazione delle clausole contrattuali, che è cosa ben diversa dell'esistenza di semplici difficoltà di lettura e dubbi interpretativi, presupponendo l'esistenza di un vero e proprio contenzioso generalizzato nel comparto, con ricorso anche ad azioni e ad eventuali azioni giudiziarie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.12.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIndennità di servizio esterno solo per mansioni continuative e ore effettivamente prestate.
La contrattazione integrativa può disciplinare l'indennità di servizio esterno solo se sussistono i presupposti previsti dalla clausola contrattuale. L'indennità, che può variare entro i valori minimi e massimi giornalieri da 1 a 10 euro, deve essere riconosciuta solo a quel personale della polizia locale che, continuativamente, e quindi, in maniera non saltuaria o occasionale, svolge effettivamente la propria prestazione lavorativa ordinaria in servizi esterni di vigilanza in strada. Nel caso in cui la prestazione lavorativa nei servizi esterni non copra la durata giornaliera lavorativa, l'indennità deve essere riproporzionata.

Si possono così riassumere i principali chiarimenti contenuti nel parere dell'Aran 16.11.2018 n. 17583 di prot.
I servizi esterni di vigilanza
L'articolo 56-quinques del nuovo contratto, in linea con l'atto di indirizzo del comitato di settore del 5 ottobre 2017, ha introdotto un nuovo trattamento economico accessorio, assolutamente inedito nell'ordinamento degli enti locali, volto a incentivare esclusivamente il personale della polizia locale che, in via continuativa, svolge effettivamente la propria prestazione lavorativa in servizi in vigilanza esterna, cioè in attività non in ufficio.
L'Aran precisa che per servizi esterni di vigilanza, ai fini dell'applicazione della norma contrattuale in questione, devono intendersi i «servizi di vigilanza in strada». Dunque, non rientrerebbero nella nozione di servizio esterno i servizi non svolti in strada quale, ad esempio, il caso dell'agente di polizia locale addetto all'ufficio verbali o che svolge il proprio servizio presso uffici di altri enti o, ancora, nel caso di convocazione dello stesso presso sedi giudiziarie per citazione a teste nell'interesse dell'amministrazione.
Come conseguenza, non sussiste alcun automatismo al riconoscimento dell'indennità in capo al dipendente per il semplice fatto di far parte del personale di polizia locale.
È in sede di contrattazione integrativa, sottolinea l'Aran, che si dovranno concretamente definire le regole per la corresponsione dell'indennità di servizio esterno, le quali dovranno conformarsi con i presupposti fissati dall'articolo 56-quinques.
La continuità del servizio
L'Agenzia fornisce poi un chiarimento circa l'inciso «... in via continuativa …» utilizzato nell'articolo 56-quinquies, comma 1, del nuovo contratto. L'indennità in questione può essere riconosciuta solo a quel personale della polizia locale che, continuativamente, e, quindi, in maniera non saltuaria o occasionale, sulla base dell'organizzazione del lavoro adottata, renda effettivamente la propria prestazione lavorativa ordinaria (non, dunque, in straordinario) in servizi esterni di vigilanza in strada.
Pertanto, la “continuità” nello svolgimento di servizi esterni di vigilanza in strada deve intendersi come un'attività che costituisce la normale mansione del dipendente.
La misura dell'indennità nel caso di prestazione ridotta
Come deve essere corrisposta l'indennità dell'articolo 56-quinquies nei casi in cui, per particolari esigenze organizzative dell'ente, o, in quelli di fruizione da parte del dipendente di specifici permessi ad ore (previsti sia dalla legge che dalla contrattazione collettiva), la prestazione lavorativa nei servizi esterni non copra la durata della giornata lavorativa? A questa domanda l'Aran fornisce un importante chiarimento.
Poiché il comma 2 dell'articolo 56-quinquies fa espressamente riferimento, ai fini del riconoscimento dell'indennità, «all'effettivo svolgimento del servizio esterno», essa deve necessariamente essere riproporzionata tenendo conto solo delle ore effettivamente rese nei servizi esterni (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.12.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSulla mobilità dei dipendenti già inquadrati opera la garanzia contrattuale.
I dipendenti già inquadrati in categoria D3 nelle amministrazioni regionali e locali possono stare tranquilli. Oltre a mantenere il profilo e la posizione in godimento, potranno partecipare senza dubbio alle procedure di mobilità svolte dagli altri enti anche se i posti saranno di categoria generica D.

Lo afferma l'Aran nel parere 21.11.2018 n. 17688 di prot. già esaminato sul Quotidiano degli enti locali e della Pa per altri aspetti procedurali.
La nuova impostazione
Che l'articolo 12 del contratto 21.05.2018 abbia soppresso la possibilità di accesso dall'esterno con profili di inquadramento in D3 è cosa nota. Ciò che non è chiaro è come il principio sia applicabile alle procedure di mobilità. Detto con una domanda: poiché i nuovi avvisi di mobilità potranno essere solo per la generica categoria D, potranno partecipare agli stessi i dipendenti che sono attualmente inquadrati in D3?
La risposta, tenendo conto delle regole del pubblico impiego e della tutela dei lavoratori non poteva che essere positiva, ma il chiarimento dell'Aran aiuta a stare più sereni sulla questione.
La garanzia contrattuale
L'Agenzia ricorda innanzitutto che con la mobilità il rapporto di lavoro del personale trasferito non si estingue, ma prosegue con il nuovo ente con le medesime caratteristiche e contenuti precedenti.
Nel nostro caso il dipendente è già in possesso del profilo della categoria D, con trattamento stipendiale di D3 e, quindi, il lavoratore si è già collocato nell'ente di appartenenza nell'ambito della clausola di salvaguardia della situazione soggettiva prevista dal contratto. Se al 22.05.2018 era già in corso una procedura di mobilità con accesso in D3, questa potrà essere portata a termine e il dipendente avrà le medesime garanzie già acquisite. E questa è la situazione più semplice.
Dopo quella data, gli avvisi di mobilità potranno riguardare solo ed esclusivamente la generica categoria D, anche se in precedenza gli inquadramenti avvenivano direttamente con accessi in D3.
A questi bandi di categoria D, potranno partecipare dipendenti di altre amministrazioni in possesso di profili con trattamento economico stipendiale, indistintamente, pari sia a D1 sia a D3. Se il vincitore della procedura sarà un dipendente precedentemente inquadrato in D3, allo stesso sarà applicata la garanzia contrattuale.
In questo caso, quindi, l'eventuale possesso dell'inquadramento in D3, rileva esclusivamente per la parte della posizione economica (orizzontale) da imputare al fondo delle risorse decentrate per la determinazione delle risorse da recuperare alle risorse stabili in caso di cessazione, a qualunque titolo, dal rapporto di lavoro (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, taglio delle risorse recuperabile l’anno dopo senza relazioni sindacali.
Se l'amministrazione riduce temporaneamente le somme a disposizione per le posizioni organizzative, l'anno successivo può tornare al valore iniziale senza nessuna ulteriore relazione sindacale.

È questa la sintesi dell'orientamento applicativo 08.11.2018 CFL 38, pubblicato sul sito dell'Aran.
Fondo delle risorse decentrate e posizione organizzativa
Il rapporto esistente tra il fondo delle risorse decentrate e quanto destinato ai dipendenti incaricati di posizione organizzativa è sicuramente una delle criticità principali dell'applicazione del contratto 21.05.2018. Da quest'anno, tutti gli enti, sia quelli con la dirigenza sia quelli senza, avranno le somme per le posizioni organizzative imputate a bilancio e quindi non scaricate tra gli utilizzi del fondo (articolo 67 del contratto nazionale).
Uno degli errori più frequenti è connotare questo importo come un “fondo”; a ben vedere si tratta di meri stanziamenti di bilancio per i quali non ci sarebbero particolari limitazioni se non quelle per il contenimento della spesa di personale complessiva.
Gli equilibri si fanno, invece, delicati nella vigenza dell'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che impone a tutte le amministrazioni pubbliche di mantenere il trattamento accessorio complessivo di ciascun anno al di sotto del rispettivo importo dell'anno 2016. Poiché nel calcolo degli aggregati è necessario conteggiare sia il valore del fondo delle risorse decentrate sia quello delle somme delle posizioni organizzative, il contratto ha previsto delle precise relazioni sindacali.
Il caso esaminato
Il caso sottoposto all'Aran riguarda la possibilità di stanziare meno somme per le posizioni organizzative creandosi quindi uno spazio all'interno del limite per poter aumentare il fondo dei dipendenti. L’azione rappresenta una facoltà e non un obbligo da esercitarsi attraverso l'istituto del confronto e, in ogni caso, è necessario far ricadere l’incremento all'interno di una delle casistiche stabilite dall'articolo 67. Ecco quindi la questione: se un ente un anno decide di operare in questa direzione, nell'esercizio successivo può stanziare per le posizioni organizzative la medesima somma di partenza?
L'orientamento applicativo CFL 38 dà una risposta decisamente positiva precisando si deve passare dalla contrattazione integrativa solo nell'ipotesi di incremento delle risorse destinate al finanziamento delle posizioni organizzative che vada al di là dell'ammontare complessivo di quelle che, secondo l'articolo 15, comma 5, e dell'articolo 67, comma 1, del contratto del 21.05.2018, sono state originariamente stornate dal fondo nell'anno 2018 (anno di partenza del nuovo fondo in base all’articolo 67 del contratto del 21.05.2018) e sono state vincolate al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPremi di produttività, dall’Aran via libera agli effetti retroattivi dell’integrativo.
La stipula del contratto nell'anno successivo non impedisce, secondo l'Aran (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 37), la possibilità di corrispondere i compensi per la performance dell'anno precedente (si veda il quotidiano degli enti locali e della Pa del 31 ottobre), avvicinandosi alla posizione dei giudici contabili friulani (si veda Il quotidiano degli enti locali e della Pa del 6 giugno).
L’apertura corrisponde, in modo non diverso, a quella recentemente operata dai giudici contabili sugli incentivi per funzioni tecniche (si veda Il quotidiano degli enti locali e della Pa del 2 agosto), i quali pur negato l'operatività della retroattività dei criteri sulla distribuzione delle risorse per performance in caso di sottoscrizione del contratto nell'anno successivo (Corte dei conti del Veneto con la delibera n. 263/2016), hanno, invece, ritenuto ammissibile il sorgere del diritto soggettivo del dipendente sull'erogazione degli incentivi tecnici solo a seguito della contrattazione dei criteri in sede decentrata anche se sottoscritta in anni successivi rispetto alle attività rese (Corte dei conti Veneto, deliberazione n. 246/2018).
La questione controversa
Sulla possibilità che un contratto decentrato potesse spiegare effetti retroattivi sulla distribuzione della produttività al personale dipendente, si sono riscontrate posizioni diverse nella magistratura contabile. Da un lato, infatti, è stata sostenuta l'inibizione all'ente di erogare la produttività ad anno concluso, in quanto la definizione dei criteri contrattati avrebbe dovuto essere definita dalla contrattazione prima della formale attribuzione degli obiettivi ai dipendenti, con conseguente impossibilità di poter impegnare nell'anno gli importi per mancata sottoscrizione del contratto.
A una visione diversa è, invece, giunta la Corte friulana la quale, prendendo atto che la costituzione del fondo rappresenta la certezza delle risorse che potranno essere distribuite, ha precisato che, in presenza della sottoscrizione del contratto nell'anno successivo, ben avrebbe potuto l'ente assegnare ai propri dipendenti gli obiettivi, secondo le regole contenute nel sistema di misurazione e valutazione e del piano della performance, per poi procedere alla erogazione delle risorse per la produttività individuale e organizzativa.
D'altra parte, questa interpretazione può essere considerata coerente con i principi della contabilità armonizzata nella parte in cui dispongono che «Alla fine dell'esercizio, nelle more della sottoscrizione della contrattazione integrativa, sulla base della formale delibera di costituzione del fondo, vista la certificazione dei revisori, le risorse destinate al finanziamento del fondo risultano definitivamente vincolate. Non potendo assumere l'impegno, le correlate economie di spesa confluiscono nella quota vincolata del risultato di amministrazione, immediatamente utilizzabili secondo la disciplina generale, anche nel corso dell'esercizio provvisorio».
Le condizioni richieste dalla normativa
I tecnici dell'Aran hanno abbandonato la precedente posizione restrittiva dei magistrati contabili e accolto le recenti indicazioni del Collegio friulano, confermando i seguenti paletti per una possibile erogazione della performance in presenza di una sottoscrizione tardiva del contratto decentrato. La prima condizione è data dalla preventiva costituzione del fondo delle risorse decentrate a opera del dirigente.
La seconda condizione è che si sia in presenza di una tempestiva assegnazione degli obiettivi individuali e/o organizzativi cui il personale dipendente «abbia potuto dispiegare consapevolmente e proficuamente le proprie energie lavorative a fronte dell'attività incentivata e nell'interesse finale dell'ente».
L'ultima condizione riguarda la certificazione del fondo da parte dei revisori dei conti effettuata, in questo caso, sulla sola costituzione del fondo che abilita l'ente a far confluire le risorse decentrate disponibili nella parte vincolata dell'avanzo di amministrazione per poter poi essere distribuite al personale una volata sottoscritto il contratto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncentivi di performance, ok dell’Aran nel contratto integrativo dell'anno successivo.
L'Aran, finalmente, sbroglia la matassa sulla possibilità di riconoscere gli incentivi di performance ai propri dipendenti con un contratto integrativo stipulato l'anno successivo.

Con l'orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 37, l'Agenzia ripercorre le diverse posizioni sull'argomento giungendo alla conclusione che queste somme possono di fatto essere erogate, ma solamente in presenza di obiettivi formalmente assegnati per il raggiungimento dei quali i lavoratori hanno proficuamente speso le loro energie.
Sulla questione, da tempo, si sono accavallati gli istituti della contrattazione con i principi contabili tanto da rendere certamente più difficile la possibilità di stipula in anni successivi di decentrati che fissano modalità di erogazione riferite all'esercizio precedente. A stigmatizzare il comportamento ci ha pensato la Corte dei conti del Veneto con la delibera n. 263/2016 insinuando il dubbio di legittimità dei contratti. Va però evidenziato che la questione posta riguardava un ente che non aveva neppure proceduto a costituire il fondo nell'anno di riferimento, che come noto è il presupposto della successiva fase della contrattazione integrativa.
In linea con la decisione della Corte dei conti del Friuli Venezia Giulia
Nel parere dell'Aran, però, viene richiamata anche un'altra delibera di sezione regionale. Si tratta della n. 29/2018 della Corte dei conti del Friuli Venezia Giulia(nel documento Aran si fa erroneamente riferimento alla n. 20/2018), con la quale la Sezione ha ritenuto che in presenza di tutti gli elementi relativi alla valutazione (obiettivi e “pagelle”) e dei criteri già stabiliti, fosse possibile procedere al riconoscimento della produttività anche con un contratto stipulato l'anno successivo. Il motivo risiede nelle logiche della contrattazione integrativa che si basa su regole vigenti nel tempo e ultraattive per le quali l'accordo annuale si limita semplicemente a individuare i criteri di riparto tra le varie modalità di utilizzo.
Non si può quindi tralasciare il punto chiave ovvero la considerazione che i contratti integrativi rimangono validi fino alla loro successiva modifica o integrazione. Pertanto fino a quando gli stessi non vengono o disapplicati o modificati dalle parti, continuano ad avere efficacia.
Quindi se i criteri per erogare i compensi della performance sono stati già contattati in anni precedenti gli stessi continuano a poter essere utilizzati anche se di fatto non viene stipulato il contratto integrativo entro il 31 dicembre. L'attenzione si sposta quindi sulle regole che a monte guidano i processi della misurazione e della valutazione della performance. L'ente deve avere predeterminato gli obiettivi che devono essere esposti con i relativi indicatori che permetteranno di valutare a consuntivo il reale raggiungimento.
Gli ulteriori presupposti
L'Aran conclude infine ricordando che devono necessariamente sussistere anche gli ulteriori presupposti fissati dalle norme contabili ovverosia, la previa costituzione del fondo nel corso dell'esercizio e la intervenuta emissione della certificazione dell'organo di revisione: solo in questo modo le risorse non impegnate nell'anno di riferimento potranno confluire nella parte vincolata dell'avanzo di amministrazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni sindacali / Un ente che non ha sottoscritto il contratto integrativo relativo all’anno 2017, può prevedere, nel contratto integrativo firmato oltre l’anno di competenza, i criteri per la distribuzione del compensi relativi alla performance per il suddetto 2017?
Relativamente al problema della eventuale retroattività del contratto integrativo, si ritiene opportuno evidenziare che, in diverse occasioni, in passato, la Corte dei Conti ha ritenuto che l’erogazione di compensi per produttività, in riferimento ad anni ormai decorsi, non fosse lecita per la mancanza delle condizioni oggettive che legittimano, a monte, tali emolumenti.
Tuttavia, si deve sottolineare che di recente, la Corte dei Conti, Sezione di controllo della regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, con la deliberazione n. FVG/20/2018/Par ha fornito ulteriori elementi che consentono di affrontare la problematica posta in modo parzialmente diverso.
Tale pronuncia affronta il caso in cui, pur in presenza di un contratto integrativo sottoscritto l’anno successivo, sussistano tutti i requisiti sostanziali per l’erogazione dei compensi correlati alla performance: oltre a un’adeguata, formale e definitiva costituzione del Fondo entro l’anno, certificato dall’Organo di revisione, anche una tempestiva assegnazione degli obiettivi (individuali e/o collettivi) in modo che il personale dipendente “abbia potuto dispiegare consapevolmente e proficuamente le proprie energie lavorative a fronte dell’attività incentivata e nell’interesse finale dell’ente”.
Sussistendo tali requisiti sostanziali ed avendo la contrattazione integrativa - ancorché definitasi nell’anno successivo - operato nei limiti del suo ambito di riferimento, senza avere alcuna parte nell’individuazione degli obiettivi, nella determinazione del loro valore e del personale da coinvolgere, nella fissazione dei criteri di valutazione, le somme destinate ad incentivare la produttività possono comunque essere erogate.
Per operare in tal senso, devono necessariamente sussistere anche gli ulteriori presupposti fissati dalle norme contabili affinché le risorse non impegnate nell’anno di riferimento possano confluire nella parte vincolata dell’avanzo di amministrazione (ovverosia, la previa costituzione del Fondo nel corso dell’esercizio e la intervenuta emissione della certificazione dell’organo di revisione) (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 37 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFuori dalla contrattazione integrativa la pausa di 30 minuti obbligatoria per chi lavora più di sei ore.
In tutte le amministrazioni pubbliche i dipendenti che hanno un orario di lavoro giornaliero superiore a 6 ore devono godere di una pausa minima di 30 minuti, fatte salve le prestazioni che per vincolo legislativo non possono essere interrotte e, negli enti locali, l'applicazione della possibilità offerta dall'articolo 13 del contratto 09.05.2006 per i dipendenti in turno indicati espressamente.
In questa direzione vanno le indicazioni dell'Aran, sia quelle che sono state fornite come risposta a quesiti posti sull'applicazione del nuovo contratto del personale delle funzioni centrali, sia quelle che sono state indicate in risposta alle richieste della Conferenza dei Presidenti delle Regioni.
Come funziona
Le norme che stabiliscono il vincolo della pausa minima di 30 minuti quando l'orario di lavoro eccede le 6 ore sono dettate in applicazione dell'articolo 8 del Dlgs 66/2003 che ha introdotto l'obbligo in questi casi di una pausa di almeno 10 minuti (in gergo chiamata pausa caffè) che la contrattazione collettiva ha adesso ampliato a 30.
Non è necessaria una pausa ulteriore se è già prevista la sosta per la fruizione della mensa o del buono pasto: in questi casi la sosta di almeno 30 minuti (e di non oltre 120) è disposta direttamente come condizione per potere consumare il pasto. Il nuovo vincolo si applica in primo luogo se la durata dell'orario di lavoro eccede le 6 ore, a partire dalla eventuale scelta di avere una durata della prestazione giornaliera di 7 ore e 12 minuti, come avviene in molti enti in cui si lavora 5 giorni la settimana. Esso si applica anche se l'orario di lavoro non è superiore alle 6 ore, ma la durata diviene più lunga per lo svolgimento di prestazioni di lavoro straordinario e/o per il recupero di debiti orari maturati.
La fruizione della pausa deve essere intesa come un diritto indisponibile e le amministrazioni hanno inoltre e comunque l'obbligo di dare corso alla concreta applicazione di questo istituto. La materia è peraltro sottratta alla contrattazione collettiva decentrata integrativa, che quindi non può intervenire a modificare le regole dettate dal contratto, quindi a prevedere ad esempio un allungamento dell'arco temporale in cui matura il vincolo della pausa.
Possibili deroghe
In tutte le amministrazioni pubbliche si può dare corso a una deroga dal rispetto di questo vincolo solamente in presenza di «attività obbligatorie per legge». Negli enti locali, con particolare riferimento ai Comuni, questa disposizione non si applica nel caso in cui nell'ente operi l'articolo 13 del contratto 09.05.2006.
Esso consente alla contrattazione decentrata, con riferimento al personale in turno che opera nelle attività di protezione civile e di vigilanza, nonché negli asili nido, scuole materne e biblioteche, in presenza della «esigenza di garantire il regolare svolgimento delle attività e la continuità della erogazione dei servizi e anche della impossibilità di introdurre modificazioni nell'organizzazione del lavoro» di disporre la pausa per la fruizione del buono pasto anche all'inizio o alla fine del turno. Per cui, anche in questi limitati casi non opera l'obbligo della pausa di 30 minuti quando l'orario supera le 6 ore.
Collocazione della pausa
Un ulteriore e importante chiarimento fornito dall'Aran è che questa pausa non deve necessariamente essere collocata dopo le 6 ore di lavoro effettivo: ciò che importa è che il dipendente la utilizzi. Si deve peraltro ricordare che il contratto del personale delle funzioni locali, analogamente agli altri, stabilisce che «la durata della pausa e la sua collocazione temporale» devono essere definite, indicando quali sono i fattori da assumere a base della scelta: la disponibilità di servizi di ristoro, la dislocazione delle sedi dell'ente, la dimensione del centro urbano (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProgressioni orizzontali, il nuovo contratto supera le vecchie regole su tempi e contenuti.
L'istituto delle progressioni orizzontali risulta totalmente innovato ed esaustivamente disciplinato dall'articolo 16 del contratto 21.05.2018. Pertanto, non si possono più ritenere validi i criteri determinati dai contratti precedenti e neppure gli orientamenti applicativi rilasciati dall'Aran in questi quasi vent'anni.

È la stessa Agenzia a ricordarlo nel parere 10.10.2018 n. 16270 di prot. rilasciato recentemente a un ente locale.
Uno degli elementi chiave dell'istituto è la fissazione, con passaggio in contrattazione decentrata, dei criteri per il riconoscimento degli scatti tabellari previsti all'interno delle categorie dei dipendenti. Queste regole presentavano due aspetti fondamentali nella loro formulazione. Il primo riguardava la tempistica, il secondo il contenuto.
La tempistica
Dal primo punto di vista, gli orientamenti ricordavano che è un principio generale del nostro ordinamento che il lavoratore debba sempre sapere in ogni momento della prestazione, come orientare la propria attività al fine del raggiungimento degli obiettivi. In altre parole, il dipendente deve sempre essere a conoscenza prima del lavoro che svolge con quali strumenti verrà valutato e a quale risultato porterà la successiva valutazione.
Per questo motivo, in passato, era evidente che non era possibile introdurre criteri per le progressioni orizzontali a consuntivo, quando la prestazione era già stata resa. Compito dell'ente e dei sindacati era quello di fissare i criteri preventivamente.
Come la mettiamo, però, a questo punto con la nuova regola che decorre da maggio 2018? Si può superare il precetto della conoscenza a monte dei criteri di valutazione?
L'Aran, nel parere in esame, ritiene di sì. Anche perché, a ben vedere i nuovi parametri di riferimento sono molto semplici, dovendosi basare su valutazioni già avvenute nel triennio precedente. Dati che di anno in anno si consolidano come in una banca dati oggettiva. Insomma, la regola finora inossidabile della preventiva consapevolezza appare giustamente superata.
Il contenuto dei criteri
Rimane poi la questione del contenuto dei criteri. Dal contratto emerge un dato certo: non si può prescindere dalle valutazioni della performance individuale ottenute dal dipendente nel triennio precedente. La norma, così come confermata dall'Aran, permette altresì di introdurre due ulteriori elementi per lo svolgimento della selezione delle progressioni orizzontali.
Da una parte l'ente può valutare di attribuire appositi punteggi all'esperienza professionale, dall'altra di valorizzare anche le competenze acquisite dai lavoratori anche a seguito di percorsi formativi. L'Agenzia sottolinea che questo non è un obbligo, ma solo una possibilità da attuare a seguito di attenta ponderazione da parte dell'amministrazione e delle parti sindacali.
Nell’ambito del sistema dell'ente, quindi, potrà essere identificato questo ulteriore “peso” del fattore esperienza e/o del fattore competenza, tenuto conto che, sulla base del tenore letterale della norma l'elemento imprescindibile e prevalente non può che essere quello della valutazione della performance individuale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONuovo contratto inapplicabile per l’Ente che non ha ancora definito il fondo accessorio del 2016 e 2017.
L'ente locale che deve ancora contrattare la destinazione del fondo del trattamento accessorio degli anni 2016 e 2017 non potrà prevedere le indennità e i compensi del contratto per le funzioni locali del 21.05.2018.
Si può così riassumere l'orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 13 rilasciato dall'Aran.
Nonostante gli occhi di tutti siano puntati sulla contrattazione integrativa dell'anno in corso, vi sono diverse amministrazioni ancora alle prese con la chiusura degli esercizi precedenti. Il problema sta nel fatto che a maggio l'uscita del contratto nazionale ha modificato diversi istituti contrattuali e, quindi, è sorto il dubbio su come poter chiudere il passato sapendo che sono cambiati gli importi e le tipologie delle varie indennità.
Anche perché, come noto, l'articolo 40, comma 3-quinquies, del decreto legislativo 165/2001 prevede che le clausole contrattuali integrative differenti da quelle del contratto sono nulle e non possono essere applicate. Ecco quindi il dilemma: la stipula degli accordi annuali per gli anni 2016 e 2017 effettuata in vigenza di un nuovo contratto quali elementi deve prevedere?
Le indicazioni dell’Aran
L'Aran è decisa nell'affermare che i nuovi istituti del trattamento economico accessorio previsti dal contratto del 21.05.2018, possono essere applicati solo in sede di stipula del contratto integrativo dell'ente concernente il periodo temporale successivo al contratto (anno 2018 e successivi). In aggiunta viene precisato che non si ritiene possibile, in sede di contrattazione integrativa, far retroagire e applicare compensi accessori con riferimento a periodi temporali nei quali gli stessi non erano già previsti e disciplinati dal contratto, soprattutto con riferimento alle condizioni per la loro erogazione.
L’orientamento della Corte dei conti
Il parere permette, pealtro, di soffermarsi su un altro aspetto importante sul quale vi è stato un acceso dibattito con soluzione apparentemente diversa anche all'interno delle sezioni regionali della Corte dei Conti ovvero sulla possibilità di stipulare un contratto integrativo in anni successivi per disciplinare l'erogazione di somme riferite a competenza di fondi di anni precedenti.
Ai magistrati del Veneto era stato posto il caso di un ente che non aveva neppure costituito il fondo di un determinato esercizio e la risposta contenuta nella deliberazione n. 263/2016 metteva in dubbia possibilità tale erogazione, rifacendosi soprattutto ai principi contabili.
Di differente avviso, invece, la sezione regionale del Friuli Venezia Giulia che, nella deliberazione n. 29/2018, esaminando la situazione di un ente che il fondo lo aveva almeno costituito, ha ritenuto che in presenza di tutti gli elementi relativi alla valutazione (obiettivi e “pagelle”) e dei criteri già stabiliti, fosse possibile procedere al riconoscimento della produttività anche con un contratto stipulato l'anno successivo. Queste, peraltro, sono le logiche della contrattazione integrativa che si basa su regole vigenti nel tempo e ultra attive per le quali l'accordo annuale si limita semplicemente a individuare i criteri di riparto tra le varie modalità di utilizzo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPremi illegittimi se la firma arriva l’anno successivo. Senza il decentrato non basta il rispetto del ciclo delle performance.
La firma del contratto decentrato dopo la scadenza dell’anno di riferimento non può legittimare il pagamento del premio legato alla performance anche se ne sia stato rispettato il ciclo.

Su questa posizione si attesta l’Aran, con il parere n. 15542/2018 di prot..
L’amministrazione che ha posto il quesito ha evidenziato che procederà al perfezionamento dell’integrativo quest’anno, ma il periodo di riferimento abbraccia il 2016 e il 2017. Negli stessi anni sono stati individuati obiettivi con i relativi indicatori, che sono stati assegnati ai responsabili di servizio e, alla fine di ciascun anno, ne è stato valutato il grado di raggiungimento.
In altre parole, il ciclo delle performance risulta pienamente attuato, così come dispone il sistema di valutazione adottato dall’ente. Ciò nonostante l’Agenzia, richiamando la posizione della Corte dei Conti, si è espressa sostenendo che un contratto decentrato firmato l’anno successivo a quello di riferimento rende illecita la distribuzione di compensi per la produttività «per la mancanza delle condizioni oggettive che legittimano, a monte, tali emolumenti».
Sul punto, la posizione delle sezioni regionali della Corte dei Conti non è del tutto univoca. Nella stessa direzione dell’Aran si è espressa la Corte dei Conti per il Veneto, con la deliberazione n. 263/2016.
Esaminando le diverse fattispecie in cui si può trovare l’amministrazione alla fine dell’anno di riferimento, sulla costituzione del fondo per le risorse decentrate e sulla sottoscrizione del contratto, i magistrati contabili ne analizzano le ripercussioni sul bilancio dell’ente. Nell’ipotesi in cui, al 31 dicembre, sia stato formalmente costituito il fondo ma non sottoscritto il contratto integrativo, la Corte dei Conti per il Veneto afferma che è possibile riportare l’ammontare del fondo all’anno successivo quale risultato di amministrazione vincolato.
Ma, nel contempo, sostiene che il riconoscimento di trattamenti economici in mancanza di contratti decentrati sottoscritti in epoca anteriore al periodo di riferimento potrebbe determinare responsabilità erariale a carico del dirigente che sottoscrive l’atto di liquidazione delle somme, in quanto il contratto decentrato non sarebbe altro che una sanatoria di comportamenti già adottati.
Di segno diametralmente opposto è la posizione assunta dalla Corte dei Conti per il Friuli Venezia Giulia, con la deliberazione n. 29 del 24.05.2018. In quella pronuncia vengono individuati tre presupposti: la costituzione del fondo per le risorse decentrate, la certificazione di detto fondo da parte dell’organo di revisione e la tempestiva assegnazione degli obiettivi ai dipendenti, in modo da permettere loro di indirizzare la propria attività verso i predetti obiettivi, nell’interesse finale dell’ente.
Sussistendo questi presupposti si potrebbe procedere alla corresponsione del trattamento economico legato alla performance anche in caso di tardiva sottoscrizione del contratto collettivo decentrato (articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONuove indennità al via solo dopo la firma dell’accordo. Il triennio da disciplinare è il 2016/2018 ma le regole non possono essere retroattive.
Le novità contenute nel contratto nazionale delle Funzioni locali sul trattamento economico accessorio possono essere disciplinate solo a partire dall’integrativo relativo al 2018.

A questa conclusione giunge l’Aran in risposta a un’amministrazione comunale che, per evidenti problemi nelle relazioni sindacali, alla data della stipula del nuovo contratto nazionale non aveva ancora sottoscritto gli integrativi 2016 e 2017. Al contrario, l’evolversi della situazione faceva ora ben sperare nella sottoscrizione di un accordo che, quindi, si collocherebbe dopo il 21 maggio scorso.
All’ente è sorto il dubbio di dover disciplinare quegli istituti che, per espressa previsione contrattuale, trovano «applicazione a far data dal primo contratto integrativo successivo alla stipulazione del presente contratto nazionale». Ne sono esempi l’indennità di servizio esterno prevista per la polizia locale o l’indennità condizioni di lavoro, che ha sostituito le vecchie indennità di rischio, di disagio e di maneggio valori.
L’Aran, con il parere n. 15538/2018 di prot., ha evidenziato che i nuovi istituti economici previsti dal contratto nazionale possono essere applicati, in presenza dei presupposti che ne legittimano la corresponsione, solo dai decentrati stipulati per gli anni 2018 e successivi.
L’Agenzia osserva che, in caso contrario, si sostanzierebbe una sorta di retroattività del contratto nazionale, applicando nel 2016 e nel 2017 voci del trattamento economico accessorio che non erano previste dal contratto in vigore all’epoca. Altro ostacolo consiste nel dover verificare, a posteriori, la sussistenza delle condizioni che ne consentono l’erogazione.
Dubbi interpretativi rimangono sia sulla possibilità di far retroagire l’integrativo per l’anno 2018 al periodo ante sottoscrizione del contratto nazionale sia sulla facoltà dell’ente di posticipare gli effetti del decentrato al 2019. Sull’argomento l’Aran non si è ancora espressa.
L’ente ha poi interrogato l’Agenzia sull’iter per l’approvazione del decentrato, chiedendo se debba applicarsi quanto previsto dal contratto del 1999 o dalla nuova intesa nazionale. L’Aran sottolinea che si tratta di un falso problema in quanto nelle due procedure «non sussistono sostanziali differenze». Sul punto, però, sorgono alcune perplessità. In primo luogo, i tempi sono diversi: in passato non veniva fissato un termine; oggi, in materia di trattamento economico, viene fissata una durata minima della sessione contrattuale in 45 giorni prorogabili per altri 45.
Ma l’aspetto più innovativo che il nuovo contratto nazionale ha introdotto sull’argomento riguarda l’applicazione provvisoria delle clausole contrattuali oggetto del mancato accordo. L’attuale disciplina è molto più vincolante: tale applicazione è consentita solo quando il protrarsi della trattativa comporta un oggettivo pregiudizio nel regolare funzionamento della macchina amministrativa (articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPer le posizioni organizzative tagliola generalizzata al 20.05.2019 - Caos negli Enti senza dirigenti.
Ancora un intervento dell'Aran sulla scadenza che riguarda le posizioni organizzative, prevista dall'articolo 13, comma 3, del contratto 21.05.2018, per precisare come non sia possibile alcuna deroga al termine del 20.05.2019 neppure in presenza di un incarico che stia per concludersi di li a poco in assenza della definizione dei nuovi criteri e modalità disciplinati dall'articolo 14.
Il mancato adeguamento alle disposizioni contrattuali, per qualsiasi motivazione, creerà sicuramente problemi operativi agli enti privi di dirigenza dove le posizioni organizzative coincidono con i titolari di incarichi dirigenziali, così come previsto dall'articolo 109, comma 2, del Tuel.
La stessa Autorità Anticorruzione, con l’orientamento n. 59/2014, ha avuto modo di evidenziare come l'incarico di posizione organizzativa di responsabile dei servizi e degli uffici, cui sia stato attribuito l'esercizio delle funzioni previste dall'articolo 107 del Dlgs 267/2000, negli enti privi di dirigenza, sono qualificabili come incarichi dirigenziali.
Le indicazioni dell'Aran
Alla domanda posta da un Comune, nelle more della definizione delle procedure del nuovo assetto delle posizioni organizzative, se sia possibile stabilire anche una data successiva a quella del 20.05.2019, la risposta dell'Aran, nell'orientamento applicativo 08.10.2018 CFL 7, è negativa.
Spiegano i tecnici dell'Agenzia come le disposizioni contrattuali prevedano espressamente la definizione da parte degli enti locali di un nuovo assetto delle posizioni organizzative, con obbligo di modificare i precedenti contenuti, procedendo a una nuova graduazione delle posizioni sulla base anche dei nuovi criteri previsti dalle parti negoziali.
Gli enti dovranno, pertanto, definire anche una diversa disciplina delle modalità di determinazione della retribuzione di posizione e di risultato, nonché dovranno determinare i nuovi criteri generali per conferimento e revoca degli incarichi. Le disposizioni contrattuali stabiliscono in modo espresso che ciò debba avvenire entro un anno dalla sottoscrizione del contratto del 21.05.2018.
Pertanto, gli incarichi di posizione organizzativa conferiti, secondo l'articolo 8 del contratto del 31.03.1999 e all'articolo 10 del contratto del 22.01.2004, ancora in atto, anche se con scadenza successiva al 20.05.2019, compresi anche quelli eventualmente attribuiti dopo il 21.05.2018, nel regime transitorio, scadranno inesorabilmente entro il 20.05.2019.
Il mancato adeguamento e le funzioni dirigenziali
Le disposizioni legislative prevedono, all'articolo 109, comma 2, del Tuel, che: «Nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
L'articolo 17 del contratto 21.05.2018 prevede espressamente che “negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative», in modo non diverso dal precedente contratto collettivo. Il mancato adeguamento delle posizioni organizzative entro la data del 20.05.2019, porrà un serio problema in termini di automatica decadenza di tutte le funzioni apicali, dovendo l'ente locale sopperire a questo deficit.
Una soluzione transitoria potrebbe essere quella di assegnare al segretario comunale tutte le funzioni di titolarità degli uffici apicali fino a completamento della nuova regolamentazione. Si ricorda, infine, come siano soggetti a contrattazione integrativa esclusivamente la correlazione tra eventuali altri compensi dovuti ai titolari di posizione organizzativa e la retribuzione di risultato, essendo quest'ultima anch'essa soggetta contrattazione nella parte relativa alla definizione dei criteri generali per la sua determinazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAumento del fondo delle risorse decentrate con effetto dal 2019. Le istruzioni dell’Aran.
L'incremento del fondo delle risorse decentrate di 83,20 euro per dipendente presente al 31.12.2015 avrà effetto solo dal 2019. In caso di comando è l'ente titolare del rapporto di lavoro a effettuare l'integrazione. In caso di Unione di comuni, l'importo va trasferito al pari del trasferimento delle funzioni.
Si possono così riassumere i principali chiarimenti contenuti nel parere 06.09.2018 n. 15354 di prot. dell'Aran.
Se da una parte si è ancora in attesa di conoscere la decisione della Corte dei conti, sezioni Autonomie, che risolverà il caos che si è creato a livello territoriale sull'inserimento o meno nel tetto al fondo per le risorse decentrate degli aumenti decisi a livello nazionale con l'articolo 67, comma 2, lettera a), del contratto 21.05.2018 (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 31 luglio), dall'altra parte l'Aran con il parere in commento spiega come applicare la norma che prevede che l'incremento è pari ad «un importo, su base annua, pari a euro 83,20 per le unità di personale destinatarie del presente CCNL in servizio alla del 31.12.2015, a decorrere dal 31.12.2018 e a valere dall'anno 2019».
Prima di tutto, l'Agenzia precisa che l'inciso usato dalla disposizione contrattuale «a decorrere dal 31.12.2018 e a valere dall'anno 2019» deve essere inteso nel senso che l'incremento delle risorse stabili è applicato e calcolato con decorrenza dal 31.12.2018 ma le relative risorse possono essere utilizzate solo dall'anno 2019. Il chiarimento permette di fugare ogni dubbio per quegli enti che pensavano di incrementare il fondo del 2018 di importo pro-quota pari ad 1/365mo del totale a regime.
Il comando
L'Aran prende poi in esame la procedura da adottare in caso di comando: le caratteristiche specifiche dell'istituto (nel quale datore di lavoro in senso proprio, cioè il titolare del rapporto di lavoro con il dipendente, e è resta sempre il Comune di appartenenza) e delle risorse stabili del fondo per le risorse decentrate (che hanno la caratteristica della certezza, della stabilità e continuità nel tempo) non consentono di computare, ai fini dell'applicazione dell'incremento dell'articolo 67, comma 2, lettera a), del contratto 21.05.2018, anche il personale utilizzato temporaneamente dell'ente in posizione di comando e in servizio alla data del 31.12.2015.
Pertanto, l'incremento in parte stabile potrà essere effettuato solo dall'ente di effettiva appartenenza. In alcun modo, ammonisce l'Aran, può essere consentito un doppio incremento e cioè di uno presso l'ente di appartenenza e l'altro presso l'ente che si avvale del personale in comando. Le indicazioni fornite valgono non solo per l'istituto del comando ma anche per gli altri istituti assimilabili (distacco, assegnazione temporanea, utilizzo a tempo parziale eccetera).
L’Unione di Comuni
Altro chiarimento che viene fornito dall'Agenzia è come comportarsi nel caso in cui un ente al 31.12.2015 faceva parte di un Unione di Comuni che successivamente si è sciolta (prima dell'entrata in vigore del nuovo contratto) e che di conseguenza il personale è rientrato nell'organico dell'ente.
Nel caso di specie, secondo criteri di logica e ragionevolezza, anche questo personale deve essere computato ai fini dell'incremento previsto dall'articolo 67, comma 2, lettera a), del contratto 21.05.2018. Infatti, una diversa interpretazione penalizzerebbe l'ente che non potrebbe disporre di maggiori risorse, pure essendosi incrementato il numero dei propri dipendenti in servizio, a seguito del rientro in sede di quelli precedentemente transitati presso l'Unione.
Nel caso, invece, in cui l'ente abbia aderito a un Unione dei Comuni dopo il 31.12.2015, trasferendo il proprio personale, lo stesso deve procedere all'applicazione dell'incremento previsto dell'articolo 67, comma 2, lettera a), del contratto 21.05.2018 computando anche il personale in questione, trasferendo, poi, il relativo importo all'Unione, ai sensi dell'articolo 70-sexies del contratto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSull’incremento dello 0,2% del fondo per alte professionalità via libera alla rettifica dei vecchi errori.
L'incremento dello 0,20% del monte salari dell'anno 2001 potrà essere inserito nella costituzione del fondo delle risorse decentrate dell'anno 2018 solo dagli enti che lo avevano già stanziato negli anni precedenti. Nulla vieta, però, che in caso di errore l'ente posso andare a rettificare la posta ma a condizione di rispettare tutte le regole e i vincoli finanziari.

Ad affermare tutto questo è l'Aran nel parere 23.08.2018 n. 15118 di prot., che presenta, comunque, non pochi profili di criticità.
La storia
Il contratto Funzioni locali del 21.05.2018 ha riesumato un incremento del fondo delle risorse decentrate, di parte stabile, che ormai da quindici anni crea grandi difficoltà agli operatori. Si tratta dello 0,20% del monte salari dell'anno 2001, che era stato introdotto dall'articolo 32, comma 7, del contratto 22.01.2004, per tutti gli enti (con o senza dirigenti), che rispettavano un determinato parametro finanziario.
Come indicato dall'Aran nella relazione illustrativa di quel contratto, queste ulteriori risorse erano destinate a integrare le somme per la retribuzione di posizione e di risultato delle alte professionalità; il contratto, quindi, non solo vincolava l'utilizzazione delle somme (alle alte professionalità), ma prescriveva anche la loro allocazione, nella parte stabile del fondo delle risorse decentrate.
Di conseguenza gli incrementi derivanti dallo 0,20%, negli enti con dirigenza, confluivano nello specifico «fondo per la retribuzione di posizione e di risultato» disciplinato dall'articolo 17, comma 2, lettera c), del contratto del 01.04.1999.
Ben presto, però, sono iniziati i dubbi interpretativi in quanto non tutti gli enti avevano istituito le alte professionalità: come andava quindi gestito l'incremento dell'0,20%?
L'Aran, nell'orientamento applicativo RAL297, aveva affermato che nel caso in cui l'ente non intendesse istituire posizioni di responsabilità di alta professionalità, e di conseguenza, non affidasse i relativi incarichi, le risorse dello 0,20% non avrebbero potuto essere destinate ad altre finalità. Veniva, quindi, suggerito di calcolare e accantonare le risorse in questione, dall'anno 2003 compreso, convinti che il prossimo rinnovo contrattuale per il biennio 2004/2005, avrebbe fornito utili chiarimenti sullo specifico problema.
La stessa cosa era stata, poi, confermata, per gli enti senza la dirigenza, nell'art. 7, comma 1, lettera e) del CCNL 31.07.2009.
Il CCNL 21.05.2018
L'art. 67, comma 1, del CCNL 21.05.2018, prevede che confluisca nell'unico importo consolidato del nuovo fondo delle risorse decentrate, la quota di tale 0,20%. Un ente che in passato non aveva mai stanziato la somma –pur essendone obbligato, come abbiamo visto– ha, quindi, chiesto all'ARAN come comportarsi.
L'Agenzia, nel parere in esame, ha risposto che se tali risorse non erano mai state stanziate dal comune, ora non potrà di certo inserirle nella parte stabile del fondo. Questa affermazione contiene, però, un'evidente contraddizione. Se, infatti, un ente aveva già stanziato tali somme, le stesse sono già confluite negli importi del 2004 e quindi già consolidati nell'unico importo del 2017; a questo punto, a cosa serve la disposizione contrattuale che prevede l'aggiunta dello 0,20%?
Sembra palesemente inutile, ma se è stata inserita, forse un senso dovrà pur averlo. Si spera, pertanto, che l'Agenzia possa proporre un Orientamento Applicativo più chiaro su questo punto.
In ogni caso, l'Aran, non esclude anche che l'ente possa andare a rideterminare i fondi degli anni precedenti qualora ci si accorga di un errore sulla costituzione. Come sempre, però, si dovrà acquisire il parere dell'organo di revisione e procedere con la rettifica del conto annuale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPausa di 30 minuti obbligatoria per chi lavora più di 6 ore senza deroghe nei contratti di secondo livello.
In tutti gli enti, se l'orario di lavoro, per qualunque ragione, supera le 6 ore occorre effettuare una pausa di almeno 30 minuti. Le uniche deroghe sono quelle previste dalla contrattazione decentrata in applicazione delle previsioni dettate dal contratto 09.05.2006, all’articolo 13. Ai contratti di secondo livello non è consentito di introdurre forme di deroga a questo vincolo.
Possono essere così sintetizzate le considerazioni che in modo molto secco l'Aran ha fornito nella risposta 26.07.2018 n. 14280 di prot., spiegando le previsioni contenute nell'articolo 26 del contratto 21.05.2018.
L'effetto di questa interpretazione è molto importante, in quanto determina di fatto in molte amministrazioni un allungamento del tempo che i dipendenti «trascorrono» nell'ente o nelle sue vicinanze, anche se in pausa, spesso di 20 minuti e talvolta anche di 30.
La disposizione contrattuale impone l'obbligo della pausa di almeno 30 minuti nel momento in cui l'orario supera le 6 ore giornaliere. Si deve evidenziare che il vincolo matura non solo nel caso in cui nominalmente l'orario eccede questo arco temporale ma anche nell’ipotesi in cui si pervenga a questo risultato utilizzando altri istituti quali lo straordinario o la necessità di dovere recuperare debiti orari che sono maturati nel mese.
Spesso la pausa è assorbita da quella che è prevista per la fruizione della mensa o per la utilizzazione del buono pasto: ricordiamo che le disposizioni del contratto 14.09.2000 impongono in questo caso una pausa di almeno 30 minuti e non superiore alle 2 ore.
Le nuove disposizioni
Nei casi in cui invece questo istituto non opera occorre dare applicazione alle nuove disposizioni. Esse integrano quanto dettato dall'articolo 8 del Dlgs 66/2003 che è la disposizione con cui il nostro paese ha recepito la direttiva comunitaria su orario, pause e ferie. La norma rimette la disciplina delle pause alla contrattazione, stabilendo che in assenza della stessa, spetti comunque il diritto a un riposo di almeno 10 minuti, cosiddetta pausa caffè, nel caso in cui l'orario superi le 6 ore giornaliere.
Occorre chiarire subito che siamo in presenza di un diritto indisponibile, sia da parte dei singoli dipendenti che da parte della contrattazione decentrata: si deve pervenire a questa conclusione in ragione delle finalità di garantire una soglia minima di tempo dedicato al recupero delle energie psico-fisiche.
In questa direzione vanno anche le previsioni dell'articolo 22, comma 7, dello stesso contratto che espressamente così recita: «deve essere previsto un intervallo per pausa, non inferiore a 30 minuti». Il che vuol dire che il dipendente deve annotare l'uscita e deve successivamente annotare il rientro, per cui il periodo della sua «permanenza» presso l'ente di fatto si allunga di 20 minuti se nell'ente si applicava la cosiddetta pausa caffè prevista dal Dlgs 66/2003 e di 30 se questo istituto non era applicato.
L'unica deroga
L'Aran è molto netta nell'evidenziare che la contrattazione collettiva decentrata integrativa non può intervenire nella materia: siamo infatti in presenza di un tema che è precluso alla contrattazione di secondo livello. L'unica deroga è costituita dall'applicazione dell'articolo 13 del contratto 09.05.2006. Esso stabilisce che un limitato gruppo di dipendenti possa essere autorizzato dal contratto decentrato a fruire della pausa per la consumazione del buono pasto all'inizio o alla fine dell'orario di lavoro.
Ciò è consentito in presenza della necessità di garantire il regolare svolgimento dei servizi e in assenza della possibilità di introdurre modifiche al modello organizzativo. E, inoltre, è consentito solamente per le aree di vigilanza e/o per quella educativa o scolastica, nonché per le biblioteche (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.09.2018).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni inclusive.
Può considerarsi aderente al dettato legislativo un regolamento del consiglio comunale in base al quale il rispetto del criterio della rappresentanza proporzionale dei gruppi presenti in consiglio presso le commissioni consiliari sia riferito al «numero complessivo dei componenti le commissioni»?

In base a quanto disposto dall'art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni in modo che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Poiché il legislatore non precisa come debba essere applicato il surriferito criterio di proporzionalità, spetta al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo l'univoco e consolidato indirizzo giurisprudenziale formatosi, il criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo presente in consiglio in modo che, se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le commissioni costituite (si veda Tar Lombardia, Brescia, 04.07.1992, n. 796; Tar Lombardia Milano, 03.05.1996, n. 567), assicurando una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo consiliare.
Pertanto il dettato legislativo, che prevede il rispetto del criterio proporzionale nella composizione delle commissioni consiliare, dovrebbe essere riferito ad ogni commissione costituita e non all'insieme delle commissioni stesse
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGOCalcolo congedo parentale.
Domanda
Come va calcolato il congedo parentale quando vi sono dei giorni festivi nel periodo di riferimento? E quando invece viene chiesto un solo giorno della settimana?
Risposta
L’art. 43, comma 5, del CCNL del 21.05.2018, prevede che i periodi di assenza di congedo parentale, nel caso di fruizione continuativa, comprendono anche gli eventuali giorni festivi che ricadano all’interno degli stessi. Tale modalità di computo trova applicazione anche nel caso di fruizione frazionata, ove i diversi periodi di assenza non siano intervallati dal ritorno al lavoro del lavoratore o della lavoratrice.
Nel caso in cui la lavoratrice usufruisca per l’intero mese di congedo parentale, il computo dei giorni di congedo parentale deve tenere conto delle domeniche nella modalità sopra indicata, mancando la ripresa in servizio.
Non avendo specificato il mese di riferimento non è possibile confermare il numero dei giorni. Il conteggio va fatto calendario alla mano.
Nel caso in cui la dipendente usufruisca del congedo tutte le settimane per il solo giorno lavorativo del sabato, il computo tiene conto dei soli sabati ricadenti in quel mese, escludendole domeniche, in quanto rinvenibile la ripresa in servizio tra i sue periodi di congedo parentale richiesti.
In pratica tra un sabato e quello successivo la lavoratrice deve rientrare in servizio affinché il conteggio tenga conto della sola giornata del sabato.
Per ogni ulteriore dettaglio si rimanda al messaggio INPS n. 28379 del 25.10.2006.
La frazionabilità va intesa nel senso che tra un periodo (anche solo di un giorno per volta) e l’altro di congedo parentale deve essere effettuata una ripresa effettiva del lavoro (a questo fine le ferie non sono utili INPDAP circ. n. 24 del 29/05/2000, Dipartimento FP circ. n. 14/00 del 16/11/2000, INPS circ. n. 109 del 06/06/2000) (16.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIUtilizzabilità esclusione automatica offerte anomale.
Domanda
Dal 19.04.2019 la possibilità di escludere “automaticamente” in ambito sotto soglia comunitario risulta non più “libera” (decisa a discrezione della stazione appaltante) ma condizionata all’aspetto dell’interesse “transfrontaliero” dell’appalto.
E’ possibile avere un primo chiarimento sulla dinamica applicativa delle nuove disposizioni?
Risposta
Il nuovo decreto-legge n. 32/2019 (c.d. Sblocca Cantieri), come noto, introduce –secondo il legislatore– alcune semplificazioni in tema di procedimento d’appalto in attesa di una riforma organica (con un nuovo regolamento attuativo).
Tra queste, limitandosi a quanto esposto nel quesito, l’articolo 1, comma 1, lettera t), punto 4 del decreto legge –in vigore dal 19 aprile– introduce una condizione nuova quale pregiudiziale per poter operare –nel solo ambito sotto soglia comunitario e nel caso in cui il criterio sia quello del minor prezzo– l’esclusione automatica delle offerte anomale.
La nuova norma –comma 8 dell’articolo 97 del codice dei contratti– precisa che “Per lavori, servizi e forniture, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e comunque per importi inferiori alle soglie di cui all’articolo 35, e che non presentano carattere transfrontaliero, la stazione appaltante prevede nel bando l’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi del comma 2 e commi 2-bis e 2-ter. Comunque l’esclusione automatica non opera quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci”.
Ferme restando le condizioni legittimanti della prerogativa (si deve trattare di appalti entro la soglia di cui all’articolo 35 del codice, con specifica previsione nel bando di gara, aggiudicazione con il criterio del minor prezzo, almeno 10 imprese ammesse alla procedura, anomalia ai sensi dei nuovi commi dell’articolo 97 del codice dei contratti), l’applicazione non è più discrezionale ma occorre certificare già in fase di determinazione a contrattare (e negli atti di gara), a cura del RUP, che l’appalto non riveste alcun interesse sovranazionale.
Sulla questione è, in tempi recentissimi, intervenuto il Consiglio di Stato (con il parere 1312/2019 espresso sul nuovo schema di linee guida n. 4 trasmesso dall’ANAC).
L’autorità anticorruzione ha infatti rilevato la particolarità del nostro Paese in cui si prevede(va) l’esclusione automatica a prescindere dal riferimento all’interesse comunitario. Il pregresso comma 8 dell’articolo 97 non conteneva in effetti nessun riferimento all’interesse transfrontaliero.
Ed il Consiglio di Stato, nel parere, effettivamente rammenta che in via generale le direttive comunitarie in tema di appalti si applicano soltanto ai contratti il cui valore supera la soglia prevista espressamente nelle direttive stesse (Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, Vestergaard).
Pertanto, almeno teoricamente gli Stati membri non sono tenuti a rispettare le disposizioni contenute nelle direttive per gli appalti il cui valore non raggiunge la soglia fissata da queste ultime (v., in tal senso, Corte di Giustizia, sentenza 21.02.2008, causa C-412/04, punto 65).
Ma ciò, anche sulla base di indicazioni comunitarie, non significa che appalti di importo contenuto (sotto soglia) sia ex se “esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario (ancora Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, punto 19)”.
Le stazioni appaltanti, in ogni caso (anche in appalti sotto la soglia comunitaria) –conformemente alla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia-, risultano “tenute a rispettare le norme fondamentali e i principi generali del Trattato FUE e, in particolare, il principio di parità di trattamento e il principio di non discriminazione in base alla nazionalità (Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, punti 20 e 21; Corte di Giustizia, sentenza 20.10.2005, causa C-264/03, punto 32; Corte di Giustizia, 14.06.2007, causa C-6/05, punto 33) nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva” e quindi, verificare se l’interesse sovranazionale potenzialmente esista o meno.
Il Consiglio di Stato –sempre grazie alle indicazioni della Corte di Giustizia– rileva che il dato indicatore, per chiarire se esista o meno un interesse transfrontaliero, del valore dell’appalto non assurge ad unico riferimento occorre infatti considerare tale importo –soprattutto se di una certa consistenza– “in combinazione con il luogo di esecuzione dei lavori o, ancora, nelle caratteristiche tecniche dell’appalto e nelle caratteristiche specifiche dei prodotti in causa. A tal riguardo, si può altresì tenere conto dell’esistenza di denunce presentate da operatori ubicati in altri Stati membri, purché sia accertato che queste ultime sono reali e non fittizie” (Corte di Giustizia, 06.10.2016, n. 318)”.
Dalla giurisprudenza (Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. I-bis, ordinanza n. 4562/2018) emerge, infatti, che l’obbligo di tale verifica (se esista o meno interesse transfrontaliero) deve ritenersi esclusa solo nel caso in cui l’appalto ha una base d’asta sopra la soglia comunitaria e le direttive (e quindi il codice dei contratti) si applicano integralmente.
In caso di appalti sottosoglia, per cui non insistono indicazioni precise, sulla base di quanto sopra riportatato sarà compito del RUP –nel caso ci si avvalga delle prerogativa dell’esclusione automatica– giustificare la carenza di tale interesse, vuoi perché si tratta di interventi locali (e localizzati) es. per lavori o servizi, o forniture di tipo standardizzato e similari, sempre tenendo a mente l’importo a base d’asta (che dovrà risultare comunque contenuto) (15.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVILe categorie di atti per i quali non valgono i cinque anni di pubblicazione.
Domanda
Quali sono le categorie di atti e documenti che vanno mantenuti in pubblicazione per tre anni, anziché i cinque previsti dal decreto trasparenza?
Risposta
L’articolo 8, comma 3, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd Decreto Trasparenza), prevede che i dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria siano pubblicati per un periodo di cinque anni, decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione. Il medesimo comma 3, specifica che sono fatti salvi i diversi termini previsti dalla normativa per il trattamento dei dati personali e di quanto previsto dagli articoli 14, comma 2, e 15, comma 4, del medesimo d.lgs..
Alla luce di quanto sopra, è possibile rispondere al quesito formulato nel modo seguente:
   a) i dati, documenti e dichiarazioni relativi agli organi di governo (nei comuni: sindaco, assessori e consiglieri comunali) vanno pubblicati entro tre mesi dall’elezione o dalla nomina e conservati per tre anni dopo la cessazione dalla carica;
   b) i dati, documenti e dichiarazioni relativi al Commissario straordinario ogni qualvolta il decreto di scioglimento gli attribuisca i poteri del Sindaco e/o della Giunta e del Consiglio (FAQ ANAC > Trasparenza 5.6);
   c) i dati relativi al segretario comunale ed ai dirigenti (art. 14, comma 1-bis) vanno pubblicati entro tre mesi dalla nomina e conservati per tre anni dopo la cessazione dall’incarico;
   d) i dati dei titolari di posizione organizzativa con delega dirigenziale o P.O. nei comuni senza dirigenti (art. 14, comma 1-quinquies) vanno pubblicati entro tre mesi dalla nomina e conservati per tre anni dopo la cessazione dall’incarico;
   e) i dati e documenti dei titolari di incarichi di collaborazione o consulenza (art. 15, comma 4) vanno pubblicati entro tre mesi dal conferimento dell’incarico e per i tre anni successivi alla cessazione dell’incarico. Si ricorda che nella categoria dei Collaboratori e consulenti devono figurare anche i dati e documenti dei componenti del Collegio dei revisori (FAQ ANAC, Trasparenza > 6.11);
   f) in analogia a quanto sopra, si ritiene che anche i dati dei componenti dell’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) o del Nucleo di Valutazione (articolo 10, comma 8, lettera c), vadano conservati per i tre anni successivi alla cessazione dell’incarico, nella sezione Amministrazione Trasparente > Personale > OIV;
   g) i dati e documenti concernenti incarichi nelle società controllate (art. 15-bis) vanno pubblicati entro trenta giorni dal conferimento di incarichi di collaborazione, di consulenza o di incarichi professionali, inclusi quelli arbitrali, e per i due anni successivi alla loro cessazione.
In aggiunta a quanto sopra, va specificato che:
   1. per gli incarichi politici (art. 15, commi 1 e 2) le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado (comuni sopra 15.000 abitanti o forme aggregative di comuni che, nel totale, sommano più di 15.000 abitanti), non vengono pubblicate per tre anni dalla cessazione, ma solamente fino alla durata dell’incarico o del mandato;
   2. si ritiene che trascorso un triennio dalla cessazione dell’incarico dirigenziale, cessi anche l’obbligo di pubblicare la dichiarazione di inconferibilità e di incompatibilità, rilasciata dai medesimi soggetti, ai sensi del d.lgs. 39/2013 e pubblicata dalle amministrazioni, per effetto dell’art. 20, del citato decreto n. 39 del 2013;
   3. trascorsi i termini di cui sopra, tutti i dati e documenti restano accessibili con l’istituto dell’accesso civico generalizzato (cd. FOIA), ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del d.lgs. 33 del 2013;
   4. l’ANAC, come previsto dall’art. 8, comma 3-bis, del decreto Trasparenza, sulla base di una valutazione del rischio corruttivo, delle esigenze di semplificazione e delle richieste di accesso, potrà determinare, anche su proposta del Garante privacy, i casi in cui la durata della pubblicazione del dato e del documento può essere inferiore ai termini stabiliti (14.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi di ricostruzione dei fabbricati.
DOMANDA:
In relazione al DPR n. 380/2001 e la L.R. lombarda n. 12/2005 si chiede se in un intervento di demolizione e ricostruzione con piccole modifiche ad un muro perimetrale, con l'inserimento di abbaini e di alcuni nuovi balconi, di un fabbricato residenziale, tale fabbricato può essere nuovamente realizzato mantenendo la stessa altezza (8,13 mt.) e gli stessi piani (piano terra, primo e sottotetto), realizzando anche un piano seminterrato per realizzare autorimesse, o deve rispettare quanto previsto dalla norme di attuazione del vigente PGT che prevede per la zona 2 piani fuori terra e seminterrato ed altezza massima di mt. 7,00?
Devono essere rispettate le distanze dai confini?
Per il pagamento del contributo di costruzione viene considerata nuova costruzione (oneri pieni) o ristrutturazione (oneri abbattuti del 50%)?
Per essere considerata ristrutturazione devono essere mantenuti almeno i muri perimetrali (almeno 1,5 mt.)?
RISPOSTA:
La questione principale sottesa al quesito concerne la possibilità e le modalità con cui provvedere ad un intervento di demolizione e ricostruzione, con piccole modifiche ad un muro perimetrale e con l’inserimento di abbaini e di alcuni nuovi balconi, di un fabbricato residenziale.
In particolare, con riferimento all’altezza e ai piani, codesto Comune chiede se il fabbricato in oggetto possa essere nuovamente realizzato mantenendo la stessa altezza (8,13 mt) e gli stessi piani (piano terra, primo e sottotetto), realizzando anche un piano seminterrato per autorimesse, oppure se la costruzione debba rispettare quanto previsto dalle norme di attuazione del vigente PGT che prevede per la zona in oggetto due piani fuori terra e seminterrato e un’altezza massima di 7 metri. Il dubbio è altresì se debbano essere rispettate le distanze dai confini e se, in generale, si tratti di una nuova costruzione o ristrutturazione.
Ebbene, al fine di tentare di fornire una soluzione rispetto al quesito posto, occorre, anzitutto, fare riferimento agli interventi normativi successivi al 2013 e alla giurisprudenza amministrativa formatasi, al momento, sul tema in oggetto. In particolare, com’è noto, l’art. 3 del D.P.R. 380/2001 contiene l’attuale distinzione tra “interventi di ricostruzione edilizia” e “interventi di nuova costruzione”.
In particolare, si legge alla lettera d) della suddetta disposizione, che: “nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima”.
L’articolo 27 della legge regionale n. 12 del 2005 e la circolare n. 10 del 2010 sono sostanzialmente riepilogativi della normativa nazionale.
D’altra parte, come specificato da quest’ultima, la declaratoria degli interventi edilizi dettata all’art. 27 della l.r. n. 12/2005 è da considerarsi superata, dovendosi ormai fare riferimento alle definizioni di cui all’art. 3 del d.P.R. 380/2001, in quanto disposizioni espressamente qualificate dalla Corte costituzionale come «principi fondamentali della materia» di potestà legislativa concorrente «governo del territorio».
Si segnala sul tema l’importante sentenza n. 4728 del 2017 con la quale il Consiglio di Stato, oltre ad effettuare una interessante ricostruzione della successione delle leggi nel tempo, dà varie indicazioni interpretative.
Anzitutto, con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, precisa che l’unico limite ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, salve “innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica” , e ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”.
Afferma, poi, che il nuovo manufatto, se può sottrarsi ai limiti, precedentemente previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma, non di meno, anche in tali casi, è certamente tenuto al rispetto del limite delle distanze dal confine e/o da altri fabbricati, nel rispetto sia delle norme del codice civile sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica.
Il Collegio, quindi, nell’ambito della suddetta sentenza, conclude sul tema delle distanze che: “In sostanza:
   - nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio perché “coincidente” per tali profili con il manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze (e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa).
Come questa Sezione ha avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017 n. 4337), “la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse”.
   - invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, come pure consentito dalle norme innanzi indicate, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso –quanto alla sua collocazione fisica– rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare –indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme sulle distanze
”.
D’altra parte, come si è affermato spesso anche con riferimento alla normativa precedente, è con riferimento alla ipotesi di ristrutturazione “ricostruttiva” che è richiesta identità di volumetria e di sagoma (Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763; 09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970), affermandosi altresì che, in difetto, si configura una nuova costruzione, con la conseguente applicabilità anche delle norme sulle distanze (Cons. Stato, sez. IV, 30.05.2013 n. 2972; 12.02.2013 n. 844).
Con riferimento al caso oggetto della sentenza, insomma, il Consiglio di Stato affermava che, anche a voler parlare di ristrutturazione edilizia, “le opere in edifici preesistenti costituenti modifiche di sagoma, ampliamenti e sopraelevazioni siano soggette al rispetto delle distanze legali”.
Con riferimento segnatamente al caso di specie, dunque, si ritiene che l’edificio potrebbe essere ricostruito con le medesime fattezze di quello demolito. La costruzione, però, verrà qualificata come ristrutturazione nel caso in cui l’amministrazione accerti che la stessa abbia la medesima volumetria della precedente. In caso contrario, e ci sono fondati motivi per ritenere che si tratti del caso oggetto del quesito anche alla luce di quanto disposto dall’art. 10 del D.P.R. 380/2001 e considerato che eventuali nuovi balconi comporterebbero un aumento di volumetria, l’edificio si configurerà come una nuova costruzione soggetta al rispetto anche dell’attuale PGT e ai conseguenti relativi oneri pieni.
Con riferimento al tema delle distanze, come chiarito dal Consiglio di Stato, indipendentemente dalla qualificazione della costruzione, andranno approfonditi dall’amministrazione gli aspetti concernenti la collocazione fisica della stessa ma ci sono fondati motivi per ritenere, alla luce di tutto quanto sopra esposto, che la costruzione sia soggetta al rispetto delle distanze (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il consiglio? È un diritto. I motivi della convocazione sono insindacabili. Legittimo chiedere la riunione per esaminare mozioni e interrogazioni.
Si può chiedere la convocazione del consiglio comunale ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 per poter esaminare atti di sindacato ispettivo?
Un quinto dei consiglieri comunali di minoranza di un ente ha depositato una mozione ed una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
In base al regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente dovranno essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione.
La medesima fonte normativa prevede che la convocazione richiesta ex citato art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di deliberazione».
Ad avviso del sindaco, in base al combinato disposto delle norme regolamentari su richiamate, sarebbe escluso che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei consiglieri possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione». Il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutivo del prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del consiglio medesimo» come «diritto» dal legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124).
La questione sulla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, si è orientata nel senso che al presidente del consiglio spetti solo la verifica formale della richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996, Tar Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Si soggiunge che il Tar Sardegna, con la sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 04.02.2004,n. 124).
Va peraltro rilevato che l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Con riguardo a quest'ultimo ambito, occorre osservare che, qualora l'intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, si ritiene, pertanto, che il prefetto sia tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla convocazione del richiesto consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGOIl datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla manutenzione e pulitura di parchi e giardini?
Domanda
Il datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla manutenzione e pulitura di parchi e giardini?
Risposta
La materia non riceve disciplina nella fonte contrattuale, pertanto è necessario ricorrere alla prevalente giurisprudenza che offre uno strumento di guida, soprattutto quando si muove uniformemente, come nel caso specifico.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 29964/2017 conferma un principio ormai consolidato, secondo il quale il datore di lavoro dell’Ente Locale non è tenuto a far lavare le tute quando non siano “dispositivi di protezione individuale” ma servano, semplicemente, ad evitare l’usura degli abiti civili.
La vicenda ha riguardato gli addetti ai servizi di manutenzione e pulitura di parchi e giardini di un Comune, convocato in giudizio. La pretesa era quella di vedersi riconosciuto il diritto all’indennità per il lavaggio delle tute adoperate per lo svolgimento del lavoro.
Il giudice di primo grado e la Corte d’Appello respingono le richieste in ragione della natura della divisa, non riconducibile ad un dispositivo di protezione individuale (Dpi) così come declinato all’art. 74 del d.lgs. n. 81/2008.
La disposizione di legge stabilisce che per “dispositivo di protezione individuale” debba intendersi qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciare la sicurezza o la salute durante il lavoro.
La norma esclude espressamente da tale categoria gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore.
La Corte ha in questo caso escluso l’assimilazione tra le tute fornite dal Comune ai dipendenti e i Dpi, negando ogni nesso con la tutela della salute e dell’igiene dei lavoratori.
In definitiva, le tute sono estranee al tema della salute e hanno come unica funzione quella di preservare gli abiti civili dall’usura dovuta allo svolgimento dell’attività.
L’obbligo di lavaggio sussiste solo ove finalizzato alla tutela della salute e sicurezza del lavoratore (09.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTICriteri di aggiudicazione nel nuovo Decreto cd Sblocca Cantieri.
Domanda
Il decreto c.d. “Sblocca Cantieri” ha previsto il criterio del prezzo più basso come regola rispetto a quella dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Come cambia la scelta dei criteri di aggiudicazione nel sotto soglia?
Risposta
Il decreto-legge 32 del 18.04.2019 entrato in vigore il giorno successivo, ha interessato numerosi istituti e articoli del codice, ed in particolare con riferimento al quesito in premessa l’art. 36, con l’introduzione del comma 9-bis, e l’art. 97, con la modifica al comma 8. Il co. 9-bis recita “Fatto salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le stazioni appaltanti procedono all’aggiudicazione dei contratti di cui al presente articolo sulla base del criterio del minor prezzo ovvero, previa motivazione, sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”, mentre il nuovo comma 8 dell’art. 97 “Per lavori, servizi e forniture, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e comunque per importi inferiori [alle soglie di cui all’articolo 35, la stazione appaltante può prevedere] alle soglie di cui all’articolo 35, e che non presentano carattere transfrontaliero, la stazione appaltante prevede nel bando l’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi del comma 2 e commi 2-bis e 2-ter. [In tal caso non si applicano i commi 4, 5 e 6. Comunque la facoltà di esclusione automatica non è esercitabile quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci]. Comunque l’esclusione automatica non opera quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci”. Disposizioni che vanno coordinate con l’art. 95, cc. 3 e 4, del codice.
Da una prima lettura a caldo delle sopra citate disposizioni è possibile ritenere che:
   • Per le procedure infra 40.000, indipendentemente dalla natura delle prestazioni (servizi sociali, ristorazione, alta intensità di manodopera, servizi di ingegneria, ecc.), si applica il criterio del minor prezzo.
   • Per le procedure di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore alla soglia comunitaria il criterio ordinario diventa quello del minor prezzo, con esclusione:
– dei servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, servizi ad alta intensità di manodopera, come definiti dall’art. 50, co. 1 del codice (art. 95, co. 3, lett. a) aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa);
– dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale (art. 95, co. 3, lett. b) aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa);
– dei servizi e forniture caratterizzati da notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo (art. 95, co. 3, lett. b-bis) aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa).
   • Per le procedure sotto-soglia comunitaria diverse da quelle elencate all’art. 95, co. 3, del codice, e comunque per le procedure infra 40.000 euro, il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, è possibile solo previa motivazione nella determinazione a contrattare;
   • Il criterio del minor prezzo può essere comunque utilizzato per servizi e forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato (art. 95, co. 4, lett. b).
   • Per le procedure sotto-soglia comunitaria che non presentano carattere transfrontaliero (manca la definizione di interesse transfrontaliero) di lavori, servizi e forniture con il criterio del prezzo più basso l’inserimento della clausola di l’esclusione automatica dell’offerta diventa obbligatoria. L’esclusione automatica non opera quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a 10.
Di rilievo anche la modifica al comma 10-bis dell’art. 95, dove viene eliminato il tetto massimo per il punteggio economico in origine fissato in 30 punti su 100 (08.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIConcessione di contributi e relativi obblighi.
Domanda
In qualità di responsabile dell’ufficio Servizi sociali del comune, chiedo che vengano indicati quali sono i provvedimenti che NON rientrano nella categoria degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici?
Risposta
Il riferimento normativo per la pubblicazione obbligatoria degli atti con cui una pubblica amministrazione eroga contributi, sovvenzioni, sussidi e vantaggi economici, superiori a 1.000 euro nell’anno solare, è contenuto negli articoli 26 e 27 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.
Il comma 1, del citato art. 26, fa esplicito riferimento all’articolo 12, della legge 07.08.1990, n. 241, secondo il quale:
La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1.
In base a tale norma, risalente a quasi trent’anni fa, ogni ente locale, nel corso degli anni, ha dovuto disciplinare l’erogazione dei contributi, secondo specifiche norme regolamentari, la cui assenza –è bene specificarlo– impedirebbe al comune di erogare somme a titolo di contribuzione, per qualunque genere.
Venendo al cuore del quesito posto, possiamo dire che rientrano, certamente, tra la categoria dei contributi quelli erogati per finalità di carattere sociale (salute o situazione di disagio socio-economico). Quelli erogati per finalità culturali e turistiche; attività promozionali; svolgimento di eventi e manifestazioni; attività sportive e di pubblica istruzione, più eventuali altre categorie sempre disciplinate nell’apposito regolamento comunale.
A titolo non esaustivo possiamo ricomprendere, invece, nella categoria degli atti che NON rientrano tra gli obblighi degli articoli 26 e 27, del d.lgs. 33 del 2013:
   • i compensi dovuti dalle amministrazioni, dagli enti e dalle società alle imprese e ai professionisti privati come corrispettivo per lo svolgimento di prestazioni professionali e per l’esecuzione di opere, lavori pubblici, servizi e forniture;
   • i rimborsi e le indennità corrisposti ai soggetti impegnati in tirocini formativi e di orientamento;
   • l’attribuzione da parte di un’amministrazione ad altra amministrazione di quote di tributi;
   • il trasferimento di risorse da un’amministrazione ad un’altra, anche in seguito alla devoluzione di funzioni e competenze;
   • i rimborsi a favore di soggetti pubblici e privati di somme erroneamente o indebitamente versate al bilancio dell’amministrazione;
   • gli indennizzi corrisposti dall’amministrazione a privati a titolo di risarcimento per pregiudizi subiti;
   • gli atti di ammissione al godimento di un servizio a domanda individuale a tariffe ridotte o agevolate (07.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALII controlli ministeriali sul corretto utilizzo da parte dei comuni delle somme attribuite a titolo di 5 per mille.
Domanda
Nei giorni scorsi ho visto che sul sito del Ministero dell’Interno, sezione Finanza Locale – Spettanze, è stato comunicato l’ammontare del 5 per mille del gettito Irpef per l’anno di imposta 2017 a favore del mio comune.
Vi chiedo: il Ministero effettua controlli sul loro corretto utilizzo? E se sì, con quali modalità e tempi?
Risposta
Al quesito del lettore va risposto in modo affermativo. Le modalità e i tempi dei controlli effettuati dal Ministero dell’Interno sul corretto utilizzo delle somme percepite dai comuni a titolo di 5 per mille del gettito Irpef sono stati definiti con circolare F.L. n. 17 del 15/10/2018 inviata dal Ministero stesso a tutte le prefetture-UTG.
La circolare fornisce loro le istruzioni per l’esercizio dei poteri ispettivi previsti dalla normativa che disciplina l’attribuzione del 5 per mille dell’IRPEF ai soli comuni che ricevono contributi inferiori a € 20.000,00. Restano esclusi i comuni che ricevono contributi superiori a tale importo i quali sono già obbligati a trasmettere il rendiconto e la relazione illustrativa al Ministero stesso con procedura telematica.
La circolare infatti richiama il decreto direttoriale n. 0101025 del 24/09/2018 che all’art. 1 dispone che a decorre dall’esercizio 2019, gli UTG effettuino annualmente appropriati controlli sulla regolarità della rendicontazione delle spese finanziate con tali contributi, nonché sui relativi obblighi di pubblicazione, come stabiliti con D.P.C.M del 23/04/2010, poi integrato dal D.P.C.M. del 07/07/2016 per i soli comuni che hanno ricevuto, a titolo di 5 per mille, contributi inferiori ad € 20.000,00. Detti comuni sono tenuti a redigere il rendiconto e la relazione illustrativa utilizzando modelli cartacei da conservare agli atti per non meno di dieci anni.
Il successivo art. 2 del decreto prevede che tale controllo sia eseguito almeno sul 15 per cento dei comuni interessati ai contributi, come risultanti dagli elenchi pubblicati periodicamente dal Ministero stesso sul proprio sito web – Dait finanza locale. La relazione finale inerente l’esito del controllo svolto dalla prefettura sarà inviata, tramite pec, al Ministero dell’Interno – Direzione Centrale della Finanza Locale. I comuni da controllare saranno individuati in base a sorteggio svolto presso le singole prefetture-UTG. La percentuale minima di cui sopra si intende riferita a tutti i comuni della provincia che abbiano percepito somme nel corso dello stesso anno.
La circolare prosegue poi ricordando che le somme erogate a titolo di 5 per mille dell’IRPEF devono essere utilizzate entro un anno dalla data di ricezione delle stesse da parte dei comuni interessati, il quale decorre, convenzionalmente, dal secondo mese dall’avvenuta erogazione dell’importo da parte del Ministero. Il controllo potrà essere eseguito pertanto dopo il quattordicesimo mese. Le prefetture dovranno fare riferimento unicamente agli elenchi dei pagamenti pubblicati sul sito web della Direzione Centrale della Finanza locale del Ministero, con riguardo alla data di effettiva erogazione delle somme.
Il controllo riguarderà due aspetti:
   a) il rendiconto, che deve essere redatto entro un anno dalla ricezione delle somme secondo i modelli ministeriali pubblicati con circolare FL 13/2015, come modificati con circolare F.L. 10/2018, debitamente compilato e sottoscritto dai responsabili del servizio finanziario, dei servizi sociali e dall’organo di revisione economico-finanziario, nonché ogni altro elemento che le prefetture ritengano utile ai fini della verifica sull’utilizzo delle somme (quali ad es: eventuali contratti stipulati o accordi raggiunti con cooperative o associazioni, fatture dei fornitori, mandati di pagamento, ecc.).
   b) l’avvenuta pubblicazione sul sito web del comune beneficiario, da effettuarsi entro trenta giorni dalla scadenza del termine più sopra indicato, degli importi percepiti e del rendiconto, così come previsto dall’articolo 8 del d.lgs. n. 111 del 03/07/2017.
La circolare prosegue precisando che i controlli vanno eseguiti sulle somme percepite dai comuni secondo il principio di cassa, a decorrere dall’esercizio 2016, indipendentemente dagli anni d’imposta a cui si riferiscono. Le prefetture ne hanno già comunicato gli esiti al Ministero entro il 31 marzo scorso (per l’anno 2016); lo faranno entro il 30.06.2019 per l’anno 2017 e, per gli anni successivi, entro il 31 marzo di due anni dopo (ad es: per il 2018 entro il 31.03.2020; per il 2019 entro il 31.03.2021 e così via).
Infine l’eventuale comunicazione al Ministero della mancata o parziale utilizzazione delle risorse, oppure dell’utilizzo per finalità diverse da quelle previste dalla richiamata circolare del F.L. 10/2018, comporterà, per il comune inadempiente, il recupero da parte del Ministero stesso delle somme attribuite per la parte non utilizzata ovvero utilizzata per finalità diverse dagli scopi per i quali sono attribuiti i fondi del 5 per mille dell’IRPEF (06.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Inconferibilità di incarichi a componenti di organi politici di livello locale.
Sussisterebbe la causa di inconferibilità di cui all’art. 7, co. 2, lett. c), del D.Lgs. 39/2013 nei confronti di un amministratore locale che venisse nominato dal sindaco quale componente del consiglio di amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona. Tale inconferibilità riguarda non solo coloro che hanno ricoperto la carica politica nei due anni precedenti l’eventuale conferimento dell’incarico, ma altresì coloro che la ricoprono attualmente.
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità che il sindaco nomini un proprio consigliere comunale quale componente del consiglio di amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP), avente sede nel Comune medesimo, atteso che quest’ultimo concluderà a breve il proprio mandato elettivo
[1].

La normativa che si ritiene debba essere presa in considerazione è il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”, in particolare, per quel che rileva in questa sede, l’articolo 7, comma 2, lett. c), secondo cui: “A coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l'incarico, […] non possono essere conferiti:
   a) omissis;
   b) omissis;
   c) gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale;
   d) omissis
”.
In via preliminare si rileva che l’azienda pubblica di servizi alla persona rientra tra gli “enti pubblici di livello provinciale o comunale”. A sostegno di un tanto depongono le seguenti argomentazioni espresse in un parere reso da questo Ufficio
[2] e che, di seguito, si riportano succintamente.
La definizione di «enti pubblici» è rinvenibile all’articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 39/2013 che li qualifica come «enti di diritto pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero i cui amministratori siano da questa nominati».
Si ritiene che l’Azienda pubblica di servizi alla persona rientri in tale qualificazione in quanto ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico ai sensi dell’articolo 3 della legge regionale 11.12.2003, n. 19, il cui statuto disciplina modalità e criteri di elezione o nomina degli organi di amministrazione da parte degli enti locali o di altri soggetti (articolo 4, commi 1 e 2, della legge regionale 19/2003). Nel caso in esame, in base allo statuto dell’ASP i componenti del consiglio di amministrazione sono nominati dal sindaco del Comune in cui ha sede l’Azienda
[3]: ne deriva la connotazione “locale” dell’ente.
Si consideri, altresì, che la norma citata si applica anche con riferimento agli amministratori che attualmente ricoprono la carica politica, e non solo a quelli che l’hanno ricoperta in passato (due anni prima)
[4].
Alla luce delle considerazioni sopra espresse, e nel ribadire che il conferimento dell’incarico di amministratore dell’ASP compete al sindaco del Comune in cui l’amministratore locale svolge il proprio mandato elettivo, segue l’inconferibilità allo stesso dell’incarico di componente del consiglio di amministrazione dell’Azienda pubblica di servizi alla persona in riferimento.
Peraltro il fatto che l’attuale amministratore locale cesserà dalle proprie funzioni il prossimo mese di maggio non altera le conclusioni cui sopra si è addivenuti atteso che la causa di inconferibilità in argomento, come già rilevato, riguarda non solo coloro che attualmente ricoprono la carica politica ma altresì coloro che l’hanno ricoperta nei due anni precedenti l’eventuale conferimento dell’incarico.
Per completezza espositiva si segnala, inoltre, la norma di cui all’articolo 7, comma 1, della legge regionale 19/2003 nella parte in cui prevede che: “La carica di amministratore di un’azienda è incompatibile con la carica di: a) amministratore di comune […] dove insiste l’azienda”.
Segue che per il periodo di tempo in cui l’amministratore dell’Azienda pubblica di servizi alla persona fosse, altresì, amministratore locale sussisterebbe nei suoi confronti anche la causa di incompatibilità prevista dall’indicata legge regionale.
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[1] Il Comune sentito anche per le vie brevi specifica che il consigliere comunale cesserà dalle sue funzioni il prossimo mese di maggio e non si è ricandidato.
[2] Parere prot. n. 16597 del 28.05.2013.
[3] L’articolo 6 dello statuto dell’ASP recita: “Il consiglio di amministrazione è formato da cinque componenti, ivi compreso il presidente, nominati dal Sindaco del Comune di […], di cui uno in rappresentanza degli eredi della donatrice […]”. Si precisa che l’articolo individua nel sindaco del comune in cui l’Azienda ha la propria sede legale il soggetto deputato alla nomina dei componenti del consiglio di amministrazione dell’Azienda.
[4] Si veda, al riguardo, l’orientamento n. 11/2015 espresso dall’ANAC secondo cui: “Le situazioni di inconferibilità previste nell’art. 7 del d.lgs. 39/2013, nei confronti di coloro che nell’anno o nei due anni precedenti hanno ricoperto le cariche politiche e gli incarichi ivi indicati, vanno equiparate, ai fini del d.lgs. 39/2013, a coloro che attualmente ricoprono tali ruoli”
(03.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Stop ai consiglieri politici. La figura non è compatibile con il Tuel. Le norme sul riparto delle attribuzioni non possono essere derogate
Il sindaco può nominare i cosiddetti consiglieri politici?
L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere politico»; i consiglieri, gli assessori e il sindaco, quali organi di governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge.
Si evidenzia che, nel sistema posto dal legislatore costituzionale, art. 117, lettera p), lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di «organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane», mentre all'ente locale è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa nel rispetto, però, dei principi fissati dal decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del suddetto Tuel, lo statuto stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli organi.
È prevista, inoltre, la possibilità di istituire uffici di supporto agli organi di direzione politica ai sensi dell'art. 90 del citato decreto legislativo che al primo comma demanda al regolamento degli uffici e dei servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla legge.
Con riferimento a tale istituto, va ricordato che la giurisprudenza contabile ha evidenziato il carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti incaricati di funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania n. 155/2014/Par).
Per quanto concerne la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni ai consiglieri, tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma 10, per l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e nelle frazioni, e ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni alle assemblee consortili.
Tutto ciò premesso, considerato che, nell'ambito dei principi fissati con legge dello Stato, l'ente può integrare, nei termini su indicati, le norme che stabiliscono il riparto delle attribuzioni, ma non può derogarle, l'individuazione della figura del «consigliere politico» non appare compatibile con l'ordinamento degli enti locali
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUtilizzo graduatorie triennio 2010-2013.
Domanda
È possibile avviare il reclutamento degli idonei che figurano nelle graduatorie approvate dal 2010 al 2013 pubblicando nel sito web dell’ente un avviso per manifestazione di interesse rivolto in generale a tutti coloro che sono collocati in tali graduatorie, per poi trasmettere l’invito a partecipare ai corsi di formazione previsti dall’art. 1, comma 362, della l. 145/2018 solamente a coloro che avranno manifestato il loro interesse?
Risposta
Come noto, la legge di bilancio per l’anno 2019 ha prorogato fino al 30.09.2019 la validità delle graduatorie approvate dal 01.01.2010 al 31.12.2013, ma ne ha subordinato l’utilizzo ai seguenti adempimenti:
   1) frequenza obbligatoria, da parte degli idonei, di corsi di formazione e aggiornamento organizzati da ciascuna amministrazione, nel rispetto dei princìpi di trasparenza, pubblicità ed economicità e utilizzando le risorse disponibili a legislazione vigente;
   2) superamento, da parte degli idonei, di un apposito esame-colloquio diretto a verificarne la perdurante idoneità.
Naturalmente, anche in questi casi devono essere rispettati i principi generali in materia di graduatorie concorsuali, tra i quali, in particolare, l’obbligo di interpellare individualmente tutti gli idonei, nell’ordine in cui sono collocati in graduatoria. Una volta che l’ente, sulla base del piano dei fabbisogni di personale, abbia deciso di reclutare personale mediante scorrimento di graduatoria concorsuale, è quindi necessario procedere come segue:
   • in primo luogo deve essere individuata la graduatoria da scorrere, secondo le consuete regole: coincidenza di categoria, profilo, requisiti di accesso e articolazione oraria a tempo pieno/parziale dei posti oggetto del concorso rispetto al posto/ai posti da coprire, precedenza alle graduatorie efficaci dell’ente, per poi valutare accordi con altri enti titolari di graduatorie (applicando gli eventuali criteri di scelta che l’ente si è dato autonomamente), precedenza alle graduatorie più datate rispetto a quelle più recenti;
   • nel caso in cui si tratti di graduatoria di altro ente, dovrà essere stipulato il relativo accordo/convenzione;
   • dopo avere individuato la graduatoria oggetto di scorrimento e una volta data evidenza pubblica a tale decisione con il provvedimento che dà avvio alla procedura, l’ente deve sempre interpellare individualmente tutti gli idonei non ancora chiamati.
Nel caso particolare in cui sia stato deciso lo scorrimento di una graduatoria approvata dal 2010 al 2013, sarà necessario:
   • trasmettere a ciascuno degli idonei (con modalità che consentano di provarne la ricezione) un invito a manifestare l’interesse all’assunzione, invito che dovrà anche illustrare le successive fasi della procedura e le relative modalità di notificazione;
   • una volta ricevute le manifestazioni di interesse, organizzare il corso di formazione e aggiornamento;
   • pubblicare, nel sito web dell’ente (Amministrazione Trasparente, sezione dedicata al personale) un avviso contenente:
   • le date, gli orari, i contenuti e le modalità di frequenza al corso di formazione e aggiornamento;
   • la disciplina delle assenze rispetto al calendario del corso: casistica, modalità di giustificazione, numero di assenze oltre il quale è prevista la non ammissione all’esame finale;
  • le modalità di svolgimento dell’esame-colloquio finale.
   • In adempimento agli obblighi di trasparenza, l’invito e l’avviso dovranno infine riportare:
   • le principali informazioni riguardanti l’”offerta assunzionale”: numero di posti per i quali la graduatoria viene scorsa, unità organizzative di assegnazione, eventuali altri dettagli sulle figure che si intendono reclutare (mansioni, sede di prima assegnazione, articolazione prevista dell’orario di lavoro, ecc.);
   • le conseguenze della mancata partecipazione alla procedura per quanto riguarda la posizione giuridica degli idonei.
Lo scorrimento della graduatoria consisterà nella chiamata di coloro che avranno regolarmente frequentato il corso di formazione e superato l’esame finale, nell’ordine in cui figurano nella graduatoria, fino ad esaurimento dei posti disponibili (o per l’unico posto da coprire).
Se si tratta di graduatoria di altro ente, occorrerà informare l’ente titolare circa gli esiti dello scorrimento (02.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI - TRIBUTICompensazione fra debiti per prestazioni rese a favore del comune e crediti tributari.
Domanda
Il mio ufficio ragioneria deve pagare la fattura di una ditta fornitrice per una prestazione resa a favore del comune. La ditta, tuttavia, è destinataria di un avviso di accertamento IMU già notificato dall’ufficio tributi e divenuto definitivo, ad oggi ancora impagato.
E’ possibile procedere alla loro compensazione?
Risposta
Il quesito del lettore propone un caso non certo infrequente per gli enti locali, in cui il comune si trova ad essere contemporaneamente debitore e creditore verso il medesimo soggetto. Come noto gli uffici ragioneria, prima di procedere all’emissione dei mandati di pagamento di importo superiore a cinquemila euro già devono procedere alle verifiche previste dall’art. 48-bis del dPR 602/1973.
Quest’ultimo infatti stabilisce che le amministrazioni pubbliche di cui all’ articolo 1, comma 2, del dlgs. 30.03.2001, n. 165, e le società a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a cinquemila euro, verifichino, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo. In caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo.
Nell’ipotesi prospettata dal lettore, dove il comune stesso è soggetto creditore, si ritiene che debba trovare applicazione, per analogia, l’art. 23 del dlgs. 472/1997. Questo, al comma 1, prevede infatti che “Nei casi in cui l’autore della violazione o i soggetti obbligati in solido, vantano un credito nei confronti dell’amministrazione finanziaria, il pagamento può essere sospeso se è stato notificato atto di contestazione o di irrogazione della sanzione o provvedimento con il quale vengono accertati maggiori tributi, ancorché non definitivi. La sospensione opera nei limiti di tutti gli importi dovuti in base all’atto o alla decisione della commissione tributaria ovvero dalla decisione di altro organo”. Il successivo comma 2 stabilisce che “In presenza di provvedimento definitivo, l’ufficio competente per il rimborso pronuncia la compensazione del debito.”.
Si ritiene che detta procedura (ovvero la compensazione fra il debito del comune con la ditta per la prestazione resa, ed il credito tributario vantato dal comune stesso verso quest’ultima) non sia una semplice facoltà, bensì un vero e proprio obbligo. La tesi è altresì confermata anche dall’art. 8, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, di cui alla L. 212/2000, laddove si stabilisce che “
L’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”.
Si ritiene infine opportuno che tale previsione trovi adeguata conferma anche all’interno del regolamento comunale delle entrate tributarie dell’ente stesso, con la previsione di un articolo ad hoc.
Dal punto di vista contabile, infine, la compensazione dovrà essere rispettosa del principio di bilancio dell’integrità, come previsto dall’art. 162, comma 4, del TUEL. Sarà necessario pertanto che l’ufficio ragioneria emetta l’ordinativo di pagamento a valere sul relativo capitolo di spesa e l’ordinativo di incasso sul corrispondente capitolo di entrata. L’operazione non darà luogo ad alcun movimento monetario in caso di compensazione integrale.
Viceversa, in caso di compensazione parziale, ovvero nell’ipotesi in cui l’importo del debito dell’ente sia superiore all’importo del credito tributario vantato, il movimento monetario in uscita riguarderà la sola differenza a debito dell’ente (29.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

URBANISTICAObblighi di pubblicazione atti di pianificazione e governo del territorio.
Domanda
Da poco tempo ho assunto l’incarico di posizione organizzativa del settore urbanistica del mio comune (ente senza dirigenti). Vorrei capire meglio quali sono gli obblighi di pubblicazione in materia di Pianificazione urbanistica e governo del territorio. Potete aiutarmi?
Risposta
Gli obblighi di pubblicità e trasparenza, in materia di attività di pianificazione e governo del territorio sono disciplinati dall’articolo 39, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33. L’articolo si compone di quattro commi.
Il primo comma, prevede che le pubbliche amministrazioni debbano pubblicare gli atti di governo del territorio, quali, tra gli altri:
   a) i piani territoriali;
   b) i piani di coordinamento;
   c) i piani paesistici;
   d) gli strumenti urbanistici, generali e di attuazione, nonché le loro varianti.
Per effetto dell’art. 43, comma 1, lettera f), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, che ha abrogato la lettera b), del comma 1, del d.lgs. 33/2013, non sono più oggetto di pubblicazione obbligatoria gli schemi di provvedimento, prima che siano portati all’approvazione, nonché le delibere di adozione o approvazione e i relativi allegati tecnici.
Il comma 2, della norma in visore, stabilisce che la documentazione relativa a ciascun procedimento di presentazione e approvazione delle proposte di trasformazione urbanistica d’iniziativa privata o pubblica in variante allo strumento urbanistico generale comunque denominato vigente, nonché delle proposte di trasformazione urbanistica d’iniziativa privata o pubblica in attuazione dello strumento urbanistico generale vigente, che comportino premialità edificatorie a fronte dell’impegno dei privati alla realizzazione di opere di urbanizzazione extra oneri o della cessione di aree o volumetrie per finalità di pubblico interesse, è pubblicata in una sezione apposita nel sito del comune interessato, continuamente aggiornata.
Il comma 3, prevede che la pubblicità degli atti di cui al comma 1, è condizione per l’acquisizione dell’efficacia degli atti stessi. Il comma 4, recita, infine, che restano ferme le discipline di dettaglio, previste dalla vigente legislazione statale e regionale, qualora impongano ulteriori obblighi.
Sul tema degli obblighi di trasparenza è intervenuta anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), da ultimo, con la delibera n. 1310 del 28.12.2016, al Paragrafo 8.3. L’ANAC ha chiarito che tra gli atti di governo del territorio che le amministrazioni sono tenute a pubblicare, ai sensi dell’art. 39, del d.lgs. n. 33/2013, rientrano anche il Documento programmatico preliminare contenente gli obiettivi e i criteri per la redazione del Piano urbanistico generale, nonché i Piani delle attività estrattive (altrimenti detti Piani cave e torbiere).
L’Autorità, inoltre, ha sottolineato che la pubblicità dei suddetti atti è condizione per l’acquisizione di efficacia degli stessi, secondo quanto previsto dal comma 3, del medesimo art. 39.
Da ultimo, si ricorda che:
   a) tutte le pubblicazioni vanno previste nella sezione del sito web del comune denominata Amministrazione trasparente> Pianificazione e governo del territorio, con aggiornamento tempestivo degli atti da pubblicare;
   b) l’obbligo riguarda anche gli atti di pianificazione urbanistica, approvati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 33 del 2013 (20 aprile 2013), che producono effetti anche dopo tale data (28.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ok ai consigli urgenti. Per gli atti soggetti a termine perentorio. Quando è possibile riunire l' assemblea dopo la convocazione dei comizi.
E' possibile, dopo la convocazione dei comizi elettorali, dare seguito alla richiesta di convocazione del consiglio comunale ai sensi dell' art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?

Ai sensi dell' art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili. La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice nella necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta «propagandistica», tali da alterare la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni amministrative.
È stato precisato in giurisprudenza che la preclusione disposta dalla citata norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il consiglio comunale è chiamato ad operare in pieno esercizio di discrezionalità e senza interferenze con i diritti fondamentali dell' individuo riconosciuti e protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l'organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni vincolate nell'an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano diritti primari dell'individuo, l'esercizio del potere non può essere rinviato (Tar Puglia n. 382/2004).
È stato precisato, inoltre, che il carattere di atti urgenti e improrogabili possa essere riconosciuto agli atti «per i quali è previsto un termine perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere di emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la funzione per la quale devono essere formati o hanno un' utilità di gran lunga inferiore» (Tar Veneto n. 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto della urgenza e improrogabilità, è stato osservato che lo stesso «costituisce apprezzamento di merito insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale, ovvero della palese irrazionalità od illogicità della motivazione addotta» (sentenza Tar Friuli-Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello dal Consiglio di stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare di questo ministero n. 2 del 07.12.2006, va rilevato che l'esistenza dei presupposti di urgenza ed improrogabilità deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante danno per l'amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel provvedere.
Pertanto, la richiesta di convocazione d'urgenza del consiglio comunale ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, dovrà essere valutata alla luce dei criteri ermeneutici sopraindicati (articolo ItaliaOggi del 26.04.2019).

LAVORI PUBBLICIL’affidamento dei “micro” lavori pubblici tra legge di bilancio e nuovo decreto-legge 32/2019.
Domanda
Vorremmo avere alcuni chiarimenti sull’affidamento degli appalti di lavori entro i 150mila euro secondo la recente disposizione contenuta nella legge di bilancio per il 2019 che, espressamente, non esige una procedura negoziata ma solamente una consultazione tra tre operatori.
E’ possibile comprendere che differenza esiste tra le due ipotesi?
Risposta
È bene da subito premettere che a far data dal 19.04.2019 l’ipotesi declinata nel comma 912, art. 1, della legge 145/2018 non è più utilizzabile da parte del RUP.
Infatti, con l’articolo 1 del recentissimo decreto legge 32/2019 c.d. Sblocca Cantieri (pubblicato in G.U. il 18.04.2019 n. 92) il comma in parola è stato abrogato.
Si ricorderà, infatti, che la “durata” della disposizione era prevista fino all’adozione di una “complessiva revisione del codice dei contratti” – ed al massimo sarebbe stata utilizzabile fino al 31/12/2019.
Ora, come detto, tale prerogativa è venuta meno. E’ utile comunque evidenziare che la “semplificazione” ulteriore prevista dalla norma, ovvero la sola consultazione dei tre operatori senza che si parlasse di procedura negoziata, era da ritenersi solo “equivoca” in quanto il RUP avrebbe dovuto comunque avviare almeno un procedimento informale pubblicizzando un avviso a manifestare interesse e/o utilizzare un già prediposto albo con invito –e attivazione di una micro competizione– tra, almeno, tre operatori.
Come detto il nuovo decreto legge ha abrogato la previsione prevedendo al contempo una nuova norma –che in questo caso interessa il micro-affidamento dei lavori pubblici– innestandola direttamente alla lettera b) del comma 2, dell’articolo 36.
In questo senso, nel decreto legge 32/2019 si legge che nell’articolo 36 del codice dei contratti al comma 2, lettera b), le parole “e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all’articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori” sono sostituite dalle seguenti: “e inferiore a 200.000 euro per i lavori, (…), mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno tre operatori economici per i lavori".
Per effetto della modifica appena riportata, limitandoci ai soli lavori –visto il tema del quesito– la lettera b) dal 19 aprile dispone che gli “affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 200.000 euro per i lavori” possono avvenire “mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno tre operatori economici per i lavori, (…) L’avviso sui risultati della procedura di affidamento, contiene l’indicazione anche dei soggetti invitati”.
Come si può notare, nell’odierna disposizione il legislatore è tornato sull’espressione di procedura negoziata imponendo, quindi, una formalizzazione delle procedure nell’ambito dei 200mila euro per lavori pubblici.
Procedura che, ora, può riguardare solo (almeno) 3 operatori e non più 10 come previsto ante decreto legge.
Per il procedimento, evidentemente, rimangono valide le indicazioni fornite dall’ANAC con le linee guida n. 4, pertanto l’individuazione degli operatori deve avvenire in modo serio, oggettivo e trasparente.
Nel caso in cui il RUP disponga di un albo di operatori, da questo si potrà attingere attraverso scorrimento (con obbligatoria applicazione della rotazione) e successiva richiesta di preventivo.
L’alternativa è data dalla formale indagine di mercato per il tramite di un avviso pubblico (24.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIDichiarazione di inconferibilità e incompatibilità.
Domanda
In presenza di affidamento di un incarico, ai sensi dell’art. 110 del TUEL 267/2000, quando è necessario acquisire la dichiarazione prevista dal d.lgs. 39/2013?
Risposta
Nell’ambito delle strategie per prevenire la corruzione nella pubblica amministrazione, uno dei provvedimenti attuativi della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190) è il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”.
Per gli enti locali, le disposizioni normative contenute nel d.lgs. 39/2013 si applicano, solamente, al segretario comunale e ai dirigenti. Negli enti locali, privi di figure dirigenziali, la norma si applica anche alle posizioni organizzative
[1] a cui vengono attribuite le funzioni dirigenziali, a mente degli articoli 50, comma 10; 107 e 109, comma 2, del TUEL 18.08.2000, n. 267.
Delimitato l’ambito applicativo della norma, va chiarito che la questione della dichiarazione sull’insussistenza della cause di inconferibilità e incompatibilità trova la sua disciplina nell’articolo 20, del d.lgs. 39/2013, laddove si prevede che:
   a)
all’atto del conferimento dell’incarico –quindi prima che esso abbia inizio– l’interessato presenta una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di inconferibilità del decreto (comma 1);
   b)
nel corso dell’incarico l’interessato presenta annualmente una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilità di cui al presente decreto (comma 2);
   c)
le dichiarazioni di cui sopra sono pubblicate nel sito web dell’ente che ha conferito l’incarico (comma 3), nella sezione Amministrazione trasparente > Personale;
   d)
la dichiarazione sulla insussistenza delle cause di inconferibilità è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico (comma 4).
Per gli incarichi dirigenziali presenti in un ente locale le situazioni in cui non è possibile conferire l’incarico (inconferibilità, appunto) sono essenzialmente tre, disciplinate rispettivamente:
   – nell'articolo 3, comma 1;
   – nell'articolo 4 comma 1;
   – nell'articolo 7, comma 2, del decreto.
Nel primo caso (art. 3, comma 1) si tratta di soggetti condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per uno dei reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, anche nel caso di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale (c.d. patteggiamento).
Nel secondo caso (art. 4, comma 1) riguarda soggetti che, nei due anni precedenti, abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dall’amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero abbiano svolto in proprio attività professionali, se queste sono regolate, finanziate o comunque retribuite dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico.
L’ultimo caso (art. 7, comma 2), riguarda:
   a) i soggetti che nei due anni precedenti siano stati componenti della Giunta o del Consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l’incarico (le inconferibilità di cui al presente articolo non si applicano ai dipendenti della stessa amministrazione che, all’atto di assunzione della carica politica, erano titolari di incarichi);
   b) i soggetti che nell’anno precedente abbiano fatto parte della Giunta o del Consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella stessa regione dell’amministrazione locale che conferisce l’incarico, nonché a coloro che siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione.
All’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), in virtù dell’art. 16 del decreto, spetta il compito di vigilare sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche delle disposizioni di cui al d.lgs. 39/2013, anche con l’esercizio di poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie di conferimento degli incarichi. In questi anni l’ANAC, in più circostanze, ha avuto modo di intervenire, con propri atti, sulla delicata materia del conferimento di incarichi in presenza di situazioni conclamate o a rischio di inconferibilità o incompatibilità.
Le principali disposizioni dell’ANAC –per coloro che intendessero approfondire la questione– sono:
   – Orientamento n. 4/2014;
   – Orientamento n. 99/2014;
   – Delibera n. 1001 del 21.09.2016;
   – Delibera n. 613 del 31.05.2016;
   – PNA 2016, approvato con delibera n. 831 del 03.08.2016, paragrafo 3.7;
   – Delibera n. 833 del 03.08.2016;
   – Delibera n. 925 del 13.09.2017;
   – Delibera n. 207 del 13.03.2019.
Premesso quanto sopra, la risposta al quesito è la seguente:
- la dichiarazione prevista dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. 39/2013, relativa all’insussistenza di cause di inconferibilità dell’incarico di:
   – segretario comunale;
   – dirigente di ente locale;
   – posizione organizzativa, in enti senza la dirigenza;
   – incarico ex art. 110 TUEL 267/2000 (enti con o senza dirigenti);
deve essere acquisita prima del conferimento dell’incarico e pubblicata, in modo tempestivo, nel sito web dell’ente che conferisce l’incarico.
In assenza della dichiarazione di cui al comma 1, dell’art. 20, d.lgs. 39/2013, l’atto di nomina non acquisisce efficacia, con tutte le negative conseguenza che ne consegue.
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[1] Cfr. art. 2, comma 2, d.lgs. 39/2013 (23.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATALa segnaletica nelle aree private.
DOMANDA:
L’art. 38/10 C.d.S. prevede che "Nelle aree private non aperte all’uso pubblico l’utilizzo e la posa in opera della segnaletica, ove adottata, devono essere conformi a quelli prescritti dal regolamento" e la violazione a tale obbligo viene sanzionata dall’art. 38/13 C.d.S.. L’art. 75/2 ultima parte dispone “…su tali strade (tutte quelle indicate nella prima parte), se non aperte all'uso pubblico, i segnali sono facoltativi, ma se usati, devono essere conformi a quelli regolamentari.”.
Si chiede se per l'apposizione della suddetta segnaletica in area privata non aperta all'uso pubblico quando la stessa preveda obblighi, divieto o limitazioni alla circolazione stradale è necessaria/possibile la adozione di ordinanza ex art. 7 C.d.S. e se per la violazione ai precetti contenuti nei segnali apposti possano essere adottati provvedimenti sanzionatori.
La domanda viene posta in quanto vengono ricevute richieste in tal senso da parte di soggetti privati.
Da un esame di alcune disposizioni del Codice della Strada sembra che la risposta debba essere negativa per le due ipotesi, in quanto l’art. 11/1, lett. a), del C.d.S. indica quale servizio di polizia stradale la prevenzione e l’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, l’art. 3/1, n. 9, C.d.S. definisce la circolazione come il movimento, la fermata e la sosta dei pedoni, dei veicoli e degli animali sulla strada e l’art. 2/1 C.d.S. si definisce la strada l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione.
Infine in merito alla violazione all'art. 38/10 C.d.S. costituisce illecito sanzionabile il comportamento che vede la collocazione in aree private non aperte all'uso pubblico di cartelli in materiale plastico, normalmente acquistabili in ferramenta; riportanti il segnale di divieto di sosta accompagnato da scritte varie tipo “AREA PRIVATA – DIVIETO DI SOSTA”?
RISPOSTA:
La circolazione in area privata non aperta all'uso pubblico è disciplinata dal proprietario dell'area. Non si applicano le norme del Codice della Strada ad eccezione di quelle che espressamente lo prevedano (per es. art. 38, comma 10 del Codice e art. 75, comma 2 del Regolamento di esecuzione).
Infatti, l'art. 2, comma 1, C.d.S., prevede che "Ai fini dell'applicazione delle norme del presente codice si definisce "strada" l'area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali."
Pertanto, il Comune non può regolamentare con propria ordinanza la circolazione nelle aree private ad uso esclusivamente privato. La segnaletica "eventualmente apposta" (v. art 75, c. 2, Reg., che ne prevede la facoltatività) deve essere conforme a quella prescritta nel Regolamento di esecuzione del codice della strada (art. 38, comma 10, C.d.S.).
La ratio di tale norma è quella di evitare di ingenerare confusione nella mente degli utenti di tali aree mentre rimane fermo il fatto che non si applicano le disposizioni previste dal codice per la circolazione sulle strade ad uso pubblico.
In merito all'ultimo quesito, l'art. 38, comma 13, C.d.S. sanziona "i soggetti diversi dagli enti proprietari che violano le disposizioni di cui ai commi 7, 8, 9 e 10" e quindi anche la posa in opera della segnaletica non conforme a quella prescritta dal regolamento (tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGOI permessi orari per motivi personali o familiari.
DOMANDA:
La nuova enunciazione dell’art. 32 CCNL 2018, che subordina l'autorizzazione di permessi retribuiti alla indicazione di particolari motivi personali o familiari, ha convinto molti dipendenti che tale giustificativo sia di fatto il riconoscimento di ulteriori tre giorni di ferie.
Pervengono pertanto richieste di fruizione di tali permessi o con indicazioni generiche “per motivi personali” o con le più originali motivazioni. L’unico passaggio previsto nell'art. 32 per negare il permesso è l’inciso “compatibilmente con le esigenze di servizio” con una formulazione che sembra invertire l’onere della giustificazione.
Non è il dipendente a dover giustificare l’assenza, ma il datore di lavoro a dover giustificare quali esigenze di servizio impediscano il riconoscimento del diritto all'assenza.
Onde evitare confusione si chiede se sia possibile all’ente disciplinare la materia, magari dopo un confronto ex art. 5 CCNL con le organizzazioni sindacali, individuando le fattispecie/motivazioni per le quali verrà autorizzato il permesso ed escludendo tutte le altre (prevedendo ovviamente qualche margine di discrezionalità per casi non previsti) sulla base che il riconoscimento del permesso è comunque subordinato al bilanciamento di interessi ed anche la semplice presenza in servizio è da considerarsi una "esigenza di servizio" prevalente su altre motivazioni.
RISPOSTA:
Si riportano, sul punto, le osservazioni formulate dall’Aran con parere CFL27 del 30 ottobre scorso. La formulazione dell’art. 32 del CCNL Funzioni Locali 21.05.2018 in materia di permessi retribuiti non prevede più la necessità di documentare i motivi e le ragioni per le quali viene richiesto il permesso, anche se la motivazione, che consente di ricondurre tale tutela alle esigenze personali e familiari dell’interessato, va, comunque, indicata nella richiesta avanzata dal dipendente, in quanto la stessa resta il presupposto legittimante per la concessione del permesso.
Ove la suddetta richiesta non appaia del tutto motivata o adeguatamente giustificata, a seguito della comparazione degli interessi coinvolti (interesse del lavoratore evidenziato nella domanda alla fruizione dei permessi e ragioni organizzative e di servizio), il datore di lavoro potrà far valere la prevalenza delle esigenze di servizio, negando la concessione del permessi.
L’ente, tuttavia, non è chiamato in alcun modo a valutare nel merito la giustificatezza o meno della ragione addotta, ma solo la sussistenza di ragioni organizzative od operative che impediscano la concessione del permesso.
Quello che emerge dal parere dall’Aran è che -anche nell'ambito della nuova disciplina dell’istituto- il lavoratore non è titolare di un diritto soggettivo perfetto alla fruizione dei permessi ed il datore di lavoro pubblico non è in nessun caso obbligato a concedere gli stessi. Quest’ultimo, ben può, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, anche negarne la fruizione, ma solo in presenza di ragioni organizzative od operative che ne impediscano la concessione.
Al fine di evitare comportamenti e risposte difformi a fronte di richieste analoghe, è possibile, e anche opportuno, regolamentare -non le fattispecie per le quali verrebbe autorizzato il permesso, perché in questo caso si andrebbe a limitare l’ambito della norma contrattuale- bensì le ragioni organizzative in cui tale permesso può essere negato (tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Lo statuto vince sempre. In caso di contrasto con il regolamento. Gli atti del consiglio comunale restano efficaci fino all’annullamento.
Può produrre effetti un regolamento sul funzionamento del consiglio adottato in contrasto con lo statuto comunale? Che ne è degli atti adottati in coerenza con tale regolamento?
Il caso riguarda un regolamento comunale che, nel fissare il quorum strutturale per la validità delle sedute a quattro componenti, avrebbe contraddetto l'art. 21 dello statuto recante «deliberazione degli organi collegiali». Ai sensi della citata disposizione è previsto, infatti, che «gli organi collegiali deliberano validamente con l'intervento della metà dei componenti assegnati».
Il contrasto tra le due fonti normative determinerebbe l'inidoneità della fonte subordinata, il regolamento del consiglio, a produrre effetti giuridici. Inoltre, l'illegittimità della norma regolamentare renderebbe invalide le deliberazioni consiliari eventualmente approvate in contrasto con la disciplina statutaria vigente.
Per quanto riguarda l'asserito contrasto tra la normativa statutaria e quella regolamentare, si rileva che in base al principio di gerarchia delle fonti e in conformità all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.18.2009) dovrebbe prevalere la normativa statutaria.
Nel caso in questione, tuttavia, da un'attenta lettura delle norme sembrerebbe che l'art. 21 dello statuto detta la disciplina generale per le deliberazioni «degli organi collegiali» tout court, mentre l'art. 31 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale rechi la specifica disciplina del quorum strutturale del consiglio.
In ordine alla validità degli atti adottati dal consiglio comunale in difformità alle previsioni statutarie in materia di quorum strutturale e, pertanto, potenzialmente annullabili, si osserva che tali atti conservano la loro efficacia fino all'eventuale annullamento
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2019).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: risposta a quesito su classificazione di "abbaino" (Regione Emilia Romagna, nota 18.04.2019 n. 392864 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Elezioni, consigli limitati
Da quando decorre il termine previsto dall'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000 per la limitazione del potere dei consigli alla adozione dei soli «atti urgenti e improrogabili»?

Ai sensi dell'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili.
L'art. 38 citato va coordinato in combinato disposto con l'art. 18, comma 1, del dpr n. 570 del 1960, il quale prevede che il sindaco è tenuto, con la pubblicazione di un manifesto da effettuarsi 45 giorni prima della data delle elezioni, a comunicare agli elettori, in quanto soggetti destinatari, il dispositivo del decreto prefettizio di indizione dei comizi elettorali con la data fissata per le elezioni.
Al fine di individuare la decorrenza dell'operatività della disciplina recata dall'art. 38, comma 5, del Tuel, dovrà farsi riferimento in via esclusiva alla data di pubblicazione del manifesto elettorale previsto dall'art. 18, comma 1, del dpr n. 570/1960 citato.
Da tale data, pertanto, i consigli comunali saranno tenuti a limitare la propria attività alla adozione degli «atti urgenti e improrogabili» (articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Trasparenza sulle liti. I consiglieri possono accedere agli atti. Le vertenze che riguardano l’ente non possono essere coperte da segreto.
Il consigliere comunale può accedere alla copia di una lettera inviata dal servizio legale interno concernente una diffida ricevuta dall'ente?

L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente, nell'interesse della collettività; si tratta, all'evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10 Tuel) o, più in generale, nei confronti della p.a., disciplinato dalla legge n. 241/1990 (cfr. Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014).
Il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio; gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Peraltro, in fattispecie analoga, il Consiglio di stato, sez. V, con decisione 04/05/2004, n. 2716, riguardo alla normativa prevista dal dpcm n. 200 del 26.01.1996, recante il regolamento per la categoria di documenti dell'Avvocatura dello stato sottratti al diritto di accesso, ha rilevato che le limitazioni ivi previste «non possono applicarsi, in via analogica, ai consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti del massimo organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché ai pareri legali richiesti dall'amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e poter intervenire al riguardo».
Anche il Tar Lombardia–Milano – con sentenza n. 2363 del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune in quanto «non è in dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il consigliere tenuto al segreto d'ufficio (v. anche Cons. stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4525)».
Pertanto, anche in presenza di una norma regolamentare che limita l'accesso agli atti amministrativi relativi a procedimenti «conclusi», la richiesta appare ammissibile, stante, peraltro, l'obbligo di riservatezza a cui è tenuto il consigliere comunale (articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incarichi ai consiglieri. Ma senza poteri di gestione o decisionali. Affidabili studi e collaborazioni. Preclusi gli atti a rilevanza esterna.
Sono legittimi gli atti di conferimento di incarichi di studio e approfondimento ai consiglieri comunali?
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto. Una ristrettissima serie delle funzioni sindacali può essere delegabile ai consiglieri in virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di governo).
Va osservato, ancora, che il Tar Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare «l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato». Il Consiglio di stato, con parere n. 4883/2011 (4992/2012) in data 17.10.2012, ha ritenuto, invece, fondato un ricorso straordinario al presidente della repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava «una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse».
La normativa statutaria dell'ente locale, nel disciplinare la materia de qua, potrebbe prevedere disposizioni che stabiliscano il riparto di attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando ma non derogando alle vigenti norme di legge. I provvedimenti in questione non devono comportare la possibilità di adozione di atti a rilevanza esterna o di atti di gestione spettanti agli organi burocratici o agli assessori. Parimenti, i consiglieri comunali incaricati non dovranno avere poteri decisionali di alcun tipo diversi o ulteriori rispetto a quelli che derivano dallo status di consigliere
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: risposta a quesito sulla rimozione spontanea di abuso edilizio (Regione Emilia Romagna, nota 22.01.2019 n. 87281 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondo accessorio, dal Mef l’elenco puntuale delle voci che derogano ai tetti.
Il Ministero dell'Economia e delle finanze ha pubblicato il parere 18.12.2018 n. 257831 di prot., per un ente locale, nel quale sono riepilogate tutte le risorse accessorie poste in deroga ai limiti stabiliti dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
Queste indicazioni sono, infatti, fondamentali per i responsabili della costituzione dei fondi decentrati, ai fini di una corretta iscrizione nel fondi delle risorse accessorie, sia del personale del comparto sia dirigenziali, con la sola necessità di alcune integrazioni dovute a interventi successivi (decreto semplificazioni, legge di bilancio 2019 e Sezione delle Autonomie).
Le risorse escluse secondo il Mef
Fino a oggi, anche a fronte di un giurisprudenza contabile non sempre unitaria, la maggiore preoccupazione, da parte dei responsabili della costituzione dei fondi delle risorse decentrate, riguarda i possibili rilievi degli ispettori del Mef in caso di verifica sulla correttezza allocazione delle risorse finanziarie tra le componenti escluse dai limiti legislativi. Pertanto, le indicazioni fornite in questo parere da parte dello stesso ministero preposto a controllare le risorse che possono essere legittimamente iscritte nei fondi senza incorrere nel divieto di crescita stabilito dal Dlgs 75/2017, rappresentano una sicurezza ponendo i responsabili fuori da possibili rischi di danno erariale.
Il parere distingue le risorse escluse -prima delle disposizioni della legge di bilancio e del decreto semplificazioni- partendo dalle indicazioni contenute nella relazione illustrativa e tecnica al Dlgs 75/2017, nella giurisprudenza contabile prevalente e in specifiche disposizioni di legge.
Le risorse escluse previste nella relazione tecnica
Secondo il Mef, nella relazione illustrativa e tecnica al Dlgs 75/2017 -rafforzata anche da pareri prevalenti della giurisprudenza contabile- sono state indicate una serie di deroghe ai limiti di crescita del salario accessorio rispetto a quello stanziato nell'anno 2016.
Derogano al principio del contenimento del salario accessorio le risorse non utilizzate del fondo dell'anno precedente (si tratta delle risorse fisse); le economie riferite alle prestazioni di lavoro straordinario dell'anno precedente; i compensi professionali dei legali interni in presenza di sentenze favorevoli derivanti da condanna alle spese della controparte (resterebbero, invece, soggette ai limiti le spese compensate); i compensi Istat riferiti al censimento della popolazione residente; le sponsorizzazioni, accordi di collaborazione e conto terzi per le attività non ordinariamente rese, con la sola eccezione della Corte ligure che nella delibera n. 105/2018 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 19.07.2018) ha espresso un orientamento favorevole limitatamente ai rapporti con soggetti privati; i fondi di derivazione comunitaria.
Le risorse escluse secondo la giurisprudenza contabile
La giurisprudenza contabile ha, inoltre, indicato altre ulteriori risorse non soggette ai limiti di crescita del salario accessorio. Rientrano nella deroga i piani di razionalizzazione e riqualificazione della spesa (articolo 16, commi 4 e 5, del Dlgs 98/2011); i proventi del codice della strada limitatamente alla quota «eccedente le riscossioni dell'esercizio precedente per la parte eventualmente confluita, in aumento nel Fondo delle risorse decentrate e destinata all'incentivazione di specifiche unità di personale di polizia locale effettivamente impegnate, nell'ambito dei suddetti progetti, in mansioni suppletive rispetto agli ordinari carichi di lavoro» (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 11 aprile).
Le risorse escluse da specifiche disposizioni legislative
Il legislatore, infine, è intervenuto in modo puntuale prevedendo ulteriori risorse escluse in presenza delle indicazioni previste dalla normativa. Si tratta delle prestazioni del personale di polizia locale con oneri conto terzi (articolo 22, comma 3-bis, del Dl 50/2017); l'armonizzazione del trattamento accessorio del personale dei centri per l'impiego (articolo 1, comma 799, della legge 205/2017); l'armonizzazione del trattamento accessorio del personale delle città metropolitane e delle province trasferito ad altre pubbliche amministrazioni (articolo 1, comma 800, della legge 205/2017); le risorse dei rinnovi contrattuali destinate ai fondi per il trattamento economico accessorio del personale (articolo 11, comma 1, legge 12/2019); gli incentivi tributari (articolo 1, comma 1091, legge 145/2018) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.04.2019).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALII dirigenti finiscono sotto tutela. I segretari avocheranno gli atti in caso di inadempimento. Palazzo Vidoni ha dato l’ok all’atto di indirizzo per il Ccnl nonostante una norma controversa.
I segretari comunali potranno avocare gli atti dei dirigenti in caso inadempimento.
La Funzione pubblica ha dato il suo benestare all'atto di indirizzo rivolto all'Aran per l'avvio del Ccnl dell'area dirigenza del comparto Funzioni locali, nonostante la controversa disposizione secondo cui il contratto dovrebbe attribuire e disciplinare per i segretari comunali un potere di «avocazione» degli atti dei dirigenti, in caso di inadempimento.
L'indicazione è in contrasto con l'articolo 40, comma 1, del dlgs 165/2001 che fa espresso divieto alla contrattazione collettiva di curarsi di materie «afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17»: è evidente che introdurre un potere di avocazione implica proprio ingerirsi nelle prerogative dirigenziali esplicitamente vietate. Se i segretari comunali adottassero atti nell'esercizio di un potere di avocazione, i loro provvedimenti risulterebbero tutti a fondato rischio di nullità per assoluta carenza di potere. In ogni caso, anche fosse legittima la clausola contrattuale, la previsione si rivelerebbe una pericolosa arma a doppio taglio. Nei comuni in particolare vi sono due evidenti rischi operativi.
Il primo deriva da un legame troppo stretto tra politica ed apparato dei dirigenti o funzionari responsabili di servizio, che tende a tenere isolato il segretario comunale. In questo caso, il potere di avocazione si rivela estremamente rischioso: un tacito accordo tra organi politici e funzionari potrebbe indurre questi ultimi a non adottare gli atti più delicati, scaricando indirettamente sul segretario comunale l'onere di avocarli.
All'opposto, si riscontra non di rado un rapporto non troppo coordinato tra politica ed apparato; in questi casi il segretario comunale può fare da filtro e non di rado gli organi di governo si affidano al ruolo del segretario (ma anche del direttore generale, nei comuni con oltre 100 mila abitanti) per una direzione amministrativa fortemente orientata sulle esigenze politiche, più che su quelle amministrative.
Il potere di avocazione del segretario, specie se allettato con la remunerazione aggiuntiva di direttore generale o comunque con la «personale adesione» alla parte politica (considerata, incredibilmente, ammissibile dalla sentenza 23/2019 della Consulta) potrebbe essere utilizzato, allora, nel caso di contrasti tra politica e gestione come strumento per un'ingerenza fortissima della prima, mediante il segretario comunale, chiamato alla bisogna ad avocare le decisioni sulle quali non vi sia concordia.
Il contratto collettivo, insomma, si presta a creare molti problemi, senza per altro alcuna ragione pratica. Il potere di avocazione si collega ad un rapporto di gerarchia, che però tra segretario comunale da un lato e dirigenti o funzionari apicali è inesistente, come accertato più volte dalla Cassazione.
Ma, nei fatti, la norma contrattuale sarebbe anche inutile. La legge, infatti, disciplina già un rimedio all'inerzia di dirigenti o funzionari: è l'articolo 2, comma 9-bis, della legge 241/1990, ai sensi del quale «l'organo di governo individua, nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell'ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente»
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale, il tetto di spesa non è abolito.
Il tetto della spesa di personale pari alla media del triennio 2011-2013 non è abolito dall'articolo 33 del decreto Crescita (
D.L. 30.04.2019 n. 34).
La norma modifica in modo rilevante il sistema di computo della capacità di spesa delle regioni e dei comuni (non sono citate province, città metropolitane e unioni di comuni), passando dal calcolo di una certa percentuale (nel 2019 sarebbe stato il 100%) del costo della cessazione dell'anno precedente, più resti assunzionali del quinquennio prima, ad una verifica della sostenibilità finanziaria.
Gli enti possono assumere, infatti, liberamente se la spesa complessiva per tutto il personale dipendente risulti non superiore a valori soglia distinti per fasce demografiche riferiti al rapporto tra la spesa del personale e i primi tre titoli delle entrate del rendiconto dell'anno precedente a quello in cui viene prevista l'assunzione, considerate al netto del fondo crediti dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
Alcuni stanno ponendo il dubbio se queste possibilità di assunzione connesse ad indici di efficienza finanziaria possano avere l'effetto di scardinare la disposizione contenuta nell'articolo 1, comma 557-quater, della legge 296/2006, che impone alle amministrazioni locali di contenere le spese di personale con riferimento al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione, cioè il 2011-2013.
Sebbene in teoria una maggiore libertà di assunzioni, che per gli enti virtuosi con rapporto spesa di personale-entrate inferiori ai valori soglia potrà anche risultare potenzialmente superiore al 100% del turnover, possa lasciar pensare ad un superamento del tetto di spesa di personale, a ben vedere, in assenza di un'abolizione espressa di tale tetto, non pare possano evidenziarsi elementi sufficienti per rilevare la sua abolizione tacita.
In primo luogo, si deve osservare che il tetto di spesa, anche fosse abolito, lo sarebbe solo per regioni e comuni, non per gli altri enti locali: quindi non è possibile parlare di abolizione in toto dell'articolo 1, comma 557-quater della legge finanziaria 20017. In secondo luogo, tale ultima disposizione è chiaramente una previsione di sana e corretta gestione mirata alla salvaguardia della finanza pubblica: non si deve dimenticare che la spesa del personale nel suo complesso costituisce circa il 20% del totale della spesa pubblica.
Quindi, anche sul piano del rispetto dei valori costituzionali, l'esistenza di una norma che ponga alle amministrazioni locali un valore massimo di spesa del personale, pur in una logica espansiva delle assunzioni, appare del tutto possibile e coerente. Viene, quindi, a mancare l'elemento giuridico fondamentale per rilevare l'abolizione tacita di una norma: la sua totale ed irrimediabile incompatibilità con una previsione successiva.
Inoltre, si deve anche rilevare che l'articolo 33 del decreto crescita parla espressamente del totale complessivo della spesa del «personale dipendente». Ma, il tetto di spesa di personale da considerare ai fini dell'articolo 1, comma 557-quater, è leggermente più ampio: infatti, deve comprendere anche spese non connesse al rapporto di lavoro di dipendenti dell'ente.
Ricordiamo le spese per collaborazione coordinata e continuativa, contratti di somministrazione, eventuali compensi corrisposti ai lavoratori socialmente utili, per il personale di altri enti che operi in convenzione, per personale utilizzato, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all'ente (compresi i consorzi, le comunità montane e le unioni di comuni), le somme rimborsate ad altre amministrazioni per il personale in posizione di comando, gli oneri per i segretari anche a scavalco.
Quindi, la spesa di personale considerata dall'articolo 1, comma 557-quater, della legge 296/2006 è maggiore della spesa di personale calcolata ai sensi dell'articolo 33 del decreto crescita, il quale non incide, dunque sul sotto insieme della spesa non connessa ai rapporti di lavoro dei dipendenti. Al limite, le maggiori capacità assunzionali degli enti virtuosi potranno risultare utili per ridefinire la spesa, aumentando quella del personale dipendente e riducendo la rimanente spesa, ben potendo il tutto restare all'interno del parametro della media 2011-2013.
Non si vede per quale ragione, quindi, il decreto crescita possa essere considerato capace di portare allo sforamento di un limite di spesa posto a garanzia degli equilibri dei conti pubblici.
È vero che gli enti incrementando le entrate potrebbero tenere fermo o migliorare il rapporto tra spesa di personale ed entrate stesse, il che potrebbe in teoria consentire lo sforamento della spesa. Ma anche in questo caso, ragioni tutela della finanza pubblica sconsigliano comunque un incremento complessivo della spesa di personale nel comparto pubblico nel suo complesso, per quanto finanziabile con un incremento delle tasse, che per altro potrebbe avere influenze negative sui consumi e quindi sulle politiche economiche del governo (articolo ItaliaOggi del 17.05.2019).

APPALTI: Appalti, pagamenti in 30 giorni. Penali per ritardi nei lavori proporzionate al contratto. Lo prevede la legge europea 2018 (37/2019) appena pubblicata in Gazzetta Ufficiale.
Nei contratti di appalto pagamenti da effettuare entro 30 giorni. Obbligo di emissione del certificato di pagamento entro sette giorni dall'adozione dello stato di avanzamento dei lavori. Tempi stretti di versamento anche nella fase di collaudo. Penali per il ritardo nell'esecuzione da parte dell'appaltatore commisurate ai giorni di ritardo e proporzionali all'importo del contratto.
Lo prevede l'articolo 5 della Legge 03.05.2019 n. 37 (la cosiddetta legge europea 2018) recante disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 109 dell'11.05.2019. La norma sostituisce integralmente l'articolo 113-bis del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, provvedimento già oggetto di profondi rimaneggiamenti nel 2017 (primo decreto correttivo) e adesso con il decreto legge n. 32, il cosiddetto «Sblocca cantieri» che questa settimana dovrebbe essere approvato in commissione al Senato.
La disposizione novellata dall'articolo 5 della legge 37/2019 introduce alcune novità sia per i pagamenti in acconto (i cosiddetti Sal, stato avanzamento lavori) durante l'esecuzione dei lavori, sia sul saldo finale (dopo il collaudo) e ponendo l'accento sulla fase di emissione del certificato di pagamento. Fino ad oggi il limite massimo per l'emissione dei certificati di pagamento da parte del Responsabile del procedimento (Rup) sulla base del Sal rilasciato dal direttore dei lavori è stabilito in 30 giorni.
Con la modifica al codice contenuta nella legge 37 viene stabilita la regola generale dell'emissione contestuale «rispetto all'emissione di ogni stato di avanzamento dei lavori». Quindi si passa dai 30 ai sette giorni. Non solo: la nuova versione dell'articolo 113-bis stabilisce che l'emissione del certificato di pagamento deve essere effettuata contestualmente all'emissione del Sal e comunque entro un termine massimo di 7 giorni.
L'impresa potrà quindi emettere la propria fattura con tre settimane di anticipo rispetto ad oggi anche se per il saldo della fattura rimangono i consueti problemi visto che la disciplina generale (europea e nazionale) risulta largamente inapplicata dalle amministrazioni pubbliche: a fronte di un termine di 30 giorni per il pagamento, nella normalità dei casi passano anche molti mesi dopo l'emissione della fattura prima che l'impresa riceva il pagamento. La regola infatti sarebbe quella del pagamento degli acconti entro 30 giorni «salvo che sia espressamente concordato nel contratto un diverso termine, comunque non superiore a 60 giorni e purché ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche».
L'articolo 5 si occupa anche della fase di collaudo per la quale si prevede la stessa procedura: per il pagamento a valle del collaudo: la norma prevede che all' esito positivo del collaudo o della verifica di conformità, e comunque entro un termine non superiore a sette giorni dagli stessi, il responsabile unico del procedimento rilasci il certificato di pagamento ai fini dell'emissione della fattura da parte dell'appaltatore.
La norma lascia poi fermo quanto previsto all'articolo 4, comma 6, del decreto legislativo 09.10.2002, n. 231; si tratta della norma che stabilisce che quando è prevista una procedura diretta ad accertare la conformità della merce o dei servizi al contratto essa non può avere una durata superiore a 30 giorni dalla data della consegna della merce o della prestazione del servizio, salvo che sia diversamente ed espressamente concordato dalle parti e previsto nella documentazione di gara e purché ciò non sia gravemente iniquo per il creditore. Questa disposizione, peraltro, prevede che l'accordo deve essere provato per iscritto.
Altra materia trattata nella legge europea è quella relativa alle penali per il ritardo nell'esecuzione delle prestazioni contrattuali da parte dell'appaltatore, che devono essere commisurate ai giorni di ritardo e proporzionali rispetto all'importo del contratto o alle prestazioni del contratto. Da questo punto di vista e per quanto concerne l'ammontare delle penali la legge 37 appena pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, non contiene novità: le penali saranno calcolate in misura giornaliera compresa tra lo 0,3 per mille e l'1 per mille dell'ammontare netto contrattuale, da determinare in relazione all'entità delle conseguenze legate al ritardo, e non possono comunque superare, complessivamente, il 10% dell'importo netto del contratto
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2019).

APPALTIBeni e servizi, p.a. meno green. Minor prezzo criterio principe per la scelta dei fornitori. Il dl Sblocca cantieri modifica le regole per la stipula dei contratti pubblici sotto soglia.
Dallo scorso 19.04.2019 le pubbliche amministrazioni che procedono alla stipula di contratti di importi inferiori alle cosiddette «soglie di rilevanza comunitaria» per acquisire beni e servizi devono utilizzare nella scelta degli operatori economici cui rivolgersi il criterio del minor prezzo, potendo ricorrere a quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa (anche dal punto di vista ambientale) solo per espresso obbligo di legge o scelta motivata.
A ribaltare la gerarchia delle regole di aggiudicazione dei contratti pubblici è il
D.L. 18.04.2019 n. 32 (meglio noto come «Sblocca cantieri», pubblicato sulla G.U. del giorno stesso in vigore da quello successivo) attraverso la diretta modifica del dlgs 50/2016 (Codice dei contratti pubblici).
Contratti «sotto soglia», vince il minor prezzo. Il dl 32/2019, il cui disegno di legge di conferma è già in corsa al parlamento, ha riformulato gli articoli 36 e 95 del dlgs 50/2016 mutando radicalmente le regole che le pubbliche amministrazioni devono seguire per individuare le imprese con cui stipulare i contratti ex articolo 35 del dlgs 50/2016, sostanzialmente coincidenti con quelli inferiori al netto dell'Iva: ai 5 milioni di euro, se aventi ad oggetto lavori di costruzione, demolizione, ristrutturazione e simili; a soglie specifiche poste nel range 100-750 mila euro (secondo le declinazioni del citato articolo), se aventi come controprestazione l'acquisizione di altri servizi o di beni.
In base alle nuove regole in vigore dal 19.04.2019, le p.a. devono (ex neo comma 9-bis, articolo 36, dlgs 50/2016) procedere «di default» all'aggiudicazione dei contratti sotto soglia Ue scegliendo l'operatore economico di riferimento sulla base del criterio minor prezzo, salvo due casi: negozi relativi a servizi o forniture da attribuirsi per legge in base al diverso criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (come più avanti specificati); al di fuori dell'ipotesi precedente, propria decisione (obbligatoriamente) «motivata» di utilizzare comunque il suddetto criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
I contratti che devono essere affidati in base all'offerta economicamente più vantaggiosa sono (ex commi 3 e 4, articolo 95, dlgs 50/2016) quelli che soddisfano contemporaneamente due condizioni: non riguardano servizi e forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato; hanno ad oggetto servizi sociali di ristorazione, ospedaliera, assistenziale e scolastica, servizi ad alta intensità di manodopera (salvi quelli sotto i 40 mila euro oggetto di affidamento diretto), servizi di ingegneria, architettura e altri servizi di natura tecnica ed intellettuale di importo pari o superiore a 40 mila euro; servizi e le forniture di importo pari o superiore a 40 mila euro caratterizzati da notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo.
Ma perde l'ambiente. In conseguenza del rovesciamento dei criteri operata dal Legislatore del decreto «Sblocca cantieri» a perdere peso nei contratti «sotto soglia» sono, come accennato, anche gli standard ambientali previsti dal dlgs 50/2016.
Ricordiamo infatti in che in base all'articolo 95 e seguenti del Codice dei contratti pubblici l'«offerta economicamente più vantaggiosa» è quella individuata sulla base del «miglior rapporto qualità/prezzo» oppure dell'elemento prezzo o costo, secondo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il «costo del ciclo di vita» che comprende, ai sensi dello stesso Codice, gli aspetti di impatto ambientale dei beni e servizi da acquisire (tra cui: consumi energetici e di altre risorse; gestione dei rifiuti prodotti; emissioni di sostanze inquinanti; cambiamenti climatici).
Sempre in base al dlgs 50/2016, strumenti per la valutazione di tali eco-prestazioni sono i criteri ambientali minimi (c.d. «Cam») stabiliti mediante dm Minambiente per singole categorie di beni e servizi, ad oggi ben 18 e coprenti oltre 20 categorie tra beni e servizi, quali: lavori di costruzione, manutenzione, ristrutturazione edili; gestione rifiuti urbani e verde pubblico; prodotti per igiene; pulizia di edifici; veicoli adibiti a trasporto su strada; servizi energetici; arredi per ufficio e apparecchiature informatiche; carta; trattamenti fitosanitari; arredi per interni; servizi di sanificazione; arredo urbano.
Tutti criteri ambientali la cui incidenza operativa, con l'allargamento dei contratti pubblici da aggiudicarsi in base al «minor prezzo», risulta alla luce del dl «Sblocca cantieri» ora fortemente ridotta
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità non è più neutrale. Consuma il plafond assunzionale al pari dei concorsi. Con il dl Crescita le immissioni in ruolo degli enti locali non sono soggette a vincoli specifici.
Col nuovo sistema di computo delle capacità degli enti locali di assumere nuovo personale va in pensione il concetto di neutralità delle assunzioni mediante mobilità.
Nell'ordinamento antecedente l'articolo 33 del dl 34/2019, le assunzioni sono state consentite entro una certa percentuale del costo delle cessazioni dell'anno precedente: un turnover finanziario, più che per «teste». Nel 2019 era andato a regime la percentuale del 100% del costo delle cessazioni dell'anno precedente. Ma, agli enti è sempre stato possibile assumere non solo mediante concorsi, immettendo nuovo personale nel complesso della p.a., bensì anche attraverso mobilità, cioè per trasferimento di lavoratori già dipendenti pubblici da un ente all'altro.
Questi trasferimenti potevano avvenire anche oltre i vincoli alle assunzioni, perché non consumavano spazi assunzionali ed erano ovviamente possibili entro il tetto alla spesa complessiva di personale corrispondente alla media del triennio 2011-2013 ed erano considerati neutrali dal punto di vista della spesa pubblica (in quanto il costo del singolo dipendente viene semplicemente spostato da un bilancio all'altro, senza creazione di nuova spesa), purché entrambi gli enti fossero soggetti appunto a tetti alle assunzioni.
Per gli enti locali e le regioni col
D.L. 30.04.2019 n. 34 le cose cambiano. Le assunzioni non sono più soggette a un vincolo specifico: a ben vedere gli enti sono lasciati liberi di effettuare discrezionalmente tutta la spesa che ritengono di investire in nuove assunzioni, consentita dal meccanismo dell'articolo 39: cioè quel margine di spesa permesso se il singolo ente dimostri un rapporto tra totale della spesa di personale al lordo degli oneri, da un lato, e primi tre titoli dell'entrata al lordo del fondo crediti di dubbia esigibilità, dall'altro, inferiore ai valori-soglia che saranno definiti da un decreto della Funzione pubblica.
Le assunzioni saranno ammesse entro la differenza in valori finanziari derivante dalla differenza tra rapporto-valore soglia e rapporto specifico dell'ente.
La norma, quindi, consente di evidenziare una capacità di spesa complessiva per nuove assunzioni, che a questo punto non differenzia tra assunzioni per concorso o per mobilità. Di fatto, entrambe finiscono per consumare il plafond che si crea se il rapporto del singolo ente risulti inferiore al valore-soglia: l'assunzione mediante mobilità, infatti, comunque incrementa la spesa di personale, sempre che non si siano verificati contestualmente fenomeni simmetrici di riduzione, come pensionamenti o mobilità in uscita o altre modalità di cessazione di rapporti di lavoro.
A meglio leggere la norma, la sensazione che la mobilità «neutra» non possa essere più utilizzata come strumento per assumere oltre o, meglio, accanto ai tetti di spesa secondo le vecchie regole, è rafforzata se si guarda alle conseguenze previste per gli enti che avranno un rapporto tra spesa complessiva di personale e primi tre titoli dell'entrata al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità negativo. La norma, infatti, impone a questi enti due comportamenti. Il primo è la graduale riduzione annuale del rapporto fino al conseguimento nell'anno 2025 del valore soglia fissato «anche applicando un turnover inferiore al 100%». Il secondo è l'obbligo decorrente dal 2025 in capo a chi non avrà conseguito il valore soglia di applicare «un turnover pari al 30%» fino al conseguimento del predetto valore soglia.
Come si nota, la norma non parla di una percentuale del costo delle cessazioni dell'anno o di anni precedenti, ma in modo molto secco consente (meglio, consiglia) fino al 2025 di effettuare assunzioni entro un turnover inferiore al 100%; dal 2015 impone un turnover non superiore al 30%.
Poiché la norma parla di turn-over, senza riferire la percentuale al costo delle cessazioni, appare corretto intendere questo vincolo come riferito proprio al tasso di sostituzione del personale che cessi dal servizio. È evidente che per gli enti non virtuosi anche l'assunzione per mobilità, pur neutra per la finanza pubblica complessiva, se copre il turn-over al 100% o oltre il 30% consentito, non è ammissibile, perché comunque non abbassa il costo complessivo del personale, obiettivo conseguibile solo se l'ente non virtuoso sostituisca molto meno personale di quello che cessi dal servizio, oppure, o anche congiuntamente, incrementi le entrate dei primi tre titoli, per conseguire il valore limite previsto dai decreti di Palazzo Vidoni
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARITelecamere, serve l’ok. Non c’è silenzio-assenso per l’installazione. Interpello del Ministero del lavoro. Autorizzazione sempre necessaria.
Non c'è silenzio-assenso sulle richieste di autorizzazione all'installazione d'impianti audiovisivi sui posti di lavoro. Occorre sempre l'emanazione di un provvedimento espresso, per via della diseguaglianza di posizione tra imprenditore e lavoratori.

Lo precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello 08.05.2019 n. 3/2019, rispondendo al consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.
I consulenti hanno chiesto di sapere se opera il silenzio-assenso con riferimento alle richieste di autorizzazione all'installazione degli impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo ex art. 4, comma 1, legge n. 300/1970, sulla base della legge n. 241/1990 laddove dispone che il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento dell'istanza.
Il ministero ricorda, innanzitutto, che le norme dell'art. 4 sono finalizzate a contemperare le esigenze del datore di lavoro con la tutela della dignità e riservatezza del lavoratore sul luogo di lavoro. Più in particolare, con tali norme si vuole evitare che l'attività lavorativa risulti impropriamente e ingiustificatamente caratterizzata da un controllo continuo e anelastico, tale da eliminare ogni profilo di autonomia e riservatezza della persona nello svolgimento della prestazione di lavoro.
La norma dunque affida, in primis, a un accordo tra la parte datoriale e le rappresentanze sindacali la possibilità d'impiego degli impianti ed altri strumenti che consentano anche il controllo dell'attività dei lavoratori; in mancanza di accordo, l'installazione è subordinata all'autorizzazione da parte dell'Ispettorato del lavoro al quale il datore deve formulare esplicita richiesta.
Da ciò scaturisce, spiega il ministero, che per effetto dell'art. 4 citato non è data possibilità di installare e utilizzare gli impianti di controllo in assenza di un atto espresso di autorizzazione, sia esso di carattere negoziale (cioè l'accordo sindacale) oppure amministrativo (il provvedimento dell'ispettorato).
Tale interpretazione, aggiunge il ministero, è condivisa anche dalla giurisprudenza, la quale ha da ultimo affermato che «la diseguaglianza di fatto e quindi l'indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell'imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall'autorizzazione della direzione territoriale del lavoro» (Cassazione, sentenza n. 22148/2017), in continuità con un orientamento interpretativo consolidato in materia
(articolo ItaliaOggi del 09.05.2019).

APPALTIGare, requisiti a lunga scadenza. Estesa da 10 a 15 anni la validità delle qualifiche. Le novità più rilevanti per le imprese di costruzioni contenute nel dl Sblocca cantieri.
Qualificazione delle imprese più facile con l'estensione da 10 a 15 anni dell'arco della validità dei requisiti.
È una delle principali novità contenute nel
D.L. 18.04.2019 n. 32, il cosiddetto «Sblocca cantieri», ora all'esame delle commissioni lavori pubblici e ambiente e territorio del senato. Il decreto, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 92 del 18/04/2019, prevede inoltre le Soa (Società organismi di attestazione) qualificate come incaricati di funzioni pubblicistiche e responsabili davanti alla Corte dei conti; la riapertura degli affidamenti di progettazione esecutiva e costruzione; l'innalzamento del limite per il subappalto dal 30 al 50%; l'eliminazione dell'obbligo della terna dei subappaltatori; l'affidamento di lavori entro 200 mila euro con procedura negoziata senza bando e invito a tre imprese.
Per le imprese di costruzioni rileva, soprattutto, la materia della disciplina dei requisiti speciali di partecipazione per i lavori (capacità professionale, economico-finanziaria e tecnico-professionale dei concorrenti), prima demandata a un decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti da adottare, su proposta dell'Anac, entro un anno dalla data di entrata in vigore del codice. Ora, con il decreto 32, viene rimessa al regolamento di attuazione di cui all'articolo 216, comma 27-octies, che sostituirà per determinate materie quanto già uscito in questi tre anni.
Ma la parte più significativa riguarda il sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici, in relazione al quale viene aggiunta la previsione che gli organismi di diritto privato incaricati dell'attestazione delle imprese, le cosiddette Soa, svolgono funzioni di natura pubblicistica, anche agli effetti della normativa in materia di responsabilità dinanzi la Corte dei conti. Si tratta in questo caso della riproduzione di quanto era precedentemente previsto dal codice in vigore prima della riforma del 2016 (art. 40 del dlgs 163/2006).
Per le imprese di costruzioni, anche in relazione agli effetti particolarmente negativi dell'andamento del settore negli ultimi anni che, in alcune categorie di lavori, ha reso particolarmente problematico attestare l'effettuazione di lavori e quindi mantenere la qualificazione, il decreto amplia l'ambito temporale rilevante ai fini della prova del possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria, tecnica e professionale, portandolo a quindici anni antecedenti rispetto al decennio previsto dal codice del 2016.
Dal punto di vista delle procedure assume particolare interesse per le imprese la previsione di una «finestra» per potere fare ricorso all'affidamento di contratti di progettazione esecutiva e costruzione (appalti integrati): le amministrazioni, per progetti approvati entro fine dicembre 2020, potranno appaltare (fino alla fine del 2021) i lavori ponendo a base di gara il progetto definitivo; a tutela dei progettisti è stata inserita la disposizione che impone alle stazioni appaltanti di indicare le modalità per l'obbligo di indicare le modalità per il pagamento diretto del progettista di cui si avvale l'impresa negli appalti integrati.
Per gli affidamenti di lavori, forniture e servizi (a eccezione di quelli ad alta intensità di manodopera, dei servizi di ingegneria e architettura e quelli ad alto contenuto tecnologico o innovativo) di importo inferiore alla soglia europea (5,2 per lavori, 221 mila per servizi e forniture) l'affidamento sarà effettuato al prezzo più basso e solo con adeguata motivazione si ricorrerà al criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Le modifiche procedurali di interesse per le imprese riguardano anche la scelta di innalzare a 200 mila euro (da 150 mila euro) il tetto per gli affidamenti di lavori con procedura negoziata senza bando di gara e invito a tre offerenti. Oltre i 200 mila euro si affiderà invece direttamente con procedura aperta e con esclusione automatica delle offerte anomale (devono però essere almeno 10 offerte valide).
Rilevanti le modifiche in tema di subappalto: si innalza dal 30 al 50% dell'importo complessivo del contratto il tetto per ricorrere al subappalto e si rimette alla stazione appaltante l'indicazione del ricorso al subappalto nel bando di gara. Si sopprime la previsione (di cui alla lettera a) del comma 4 dell'articolo 105 vigente) per cui non può procedersi a subappalto qualora l'affidatario del subappalto abbia partecipato alla procedura per l'affidamento dell'appalto.
Il decreto legge stabilisce inoltre che il subappaltatore, qualificato nella relativa categoria, deve essere altresì in possesso dei requisiti morali di cui all'articolo 80 del codice. Il provvedimento elimina inoltre la norma che subordinava la possibilità di subappalto a che il concorrente dimostri l'assenza in capo ai subappaltatori dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80.
Infine si abroga la disposizione (di cui al comma 6 dell'articolo 105) che prevedeva l'obbligatoria indicazione della terna di subappaltatori in sede di offerta, per appalti di lavori, servizi e forniture di importo pari o superiore alle soglie comunitarie, o, indipendentemente dall'importo a base di gara, che riguardassero le attività maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La pausa pranzo non è per tutti. Diritto incompatibile con un orario inferiore alle 6 ore.  Lo ha precisato il ministero del lavoro. Principio valido anche per buoni pasto e mensa.
Resta a bocca asciutta il dipendente che lavora meno di sei ore a giorno. In tal caso, infatti, non ha diritto alla pausa pranzo o al servizio mensa aziendale. Per questa ragione non ha diritto né alle pause pranzo né ai buoni-pasto neppure le lavoratrici in allattamento che, godendo dei relativi riposi giornalieri, lavorano meno di sei ore al giorno.
A precisarlo è stato il ministero del lavoro nell'interpello 16.04.2019 n. 2/2019 (si veda ItaliaOggi del 17 aprile).
La pausa sul lavoro. La questione riguarda il diritto alla pausa pranzo, e alla conseguente attribuzione del buono pasto o alla fruizione del servizio mensa, da parte delle lavoratrici che, fruendo dei riposi giornalieri per allattamento (due ovvero un'ora giornaliera, anche cumulabili, a seconda che l'orario di lavoro sia o meno superiore a sei ore), sono presenti al lavoro per cinque ore e 12 minuti, cioè per una durata inferiore a sei ore giornaliere, limite eccedendo il quale scatta il diritto all'intervallo mensa.
L'Ispra (istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale) ha chiesto al ministero di sapere se, in questi casi, si deve procedere alla decurtazione dei 30 minuti della pausa pranzo e se, per altro verso, la lavoratrice ha facoltà di rinunciare alla pausa pranzo e/o al buono pasto, per non vedere decurtare le ore considerate come lavoro effettivo.
La disciplina sulle «pause» di lavoro, e, in particolare, sulla pausa pranzo, è prevista all'art. 8 del dlgs n. 66/2003. La norma, in via di principio, stabilisce che qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e dell'eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.
In difetto di disciplina collettiva, che preveda un intervallo a qualsivoglia titolo attribuito, aggiunge sempre l'art. 8, al lavoratore deve essere comunque concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l'inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo.
I due istituti (riposi per allattamento e pausa pranzo), ha spiegato il ministero, hanno scopi distinti: il primo è volto a favorire la conciliazione tra la vita professionale e vita familiare; il secondo è finalizzato al recupero delle energie e all'eventuale consumazione del pasto con la relativa norma che non sembra lasciare dubbi circa il riferimento ad attività lavorativa effettivamente prestata. Ciò premesso, secondo il ministero è da escludere che una presenza effettiva della lavoratrice nella sede di lavoro per cinque ore e 12 minuti dia diritto alla pausa. Pertanto, non si deve procedere alla decurtazione dei 30 minuti dal totale delle ore effettivamente lavorate dalla lavoratrice.
La mensa? È retribuzione in natura. Il servizio mensa è uno degli esempi di retribuzione in natura. In mancanza di una definizione di legge, per retribuzione in natura (numerosi sono i casi) s'intende l'insieme delle prestazioni di beni o servizi, di una determinata utilità, a favore del lavoratore o dei suoi familiari.
I casi più frequenti sono, come detto, il servizio mensa, l'alloggio per i portieri o i domestici, il vitto e il vestiario, l'uso del riscaldamento. In altre ipotesi, soprattutto con riferimento a soggetti che svolgono mansioni dirigenziali, la retribuzione in natura può consistere nell'utilizzo di beni o di servizi specifici (l'auto, per esempio) che vengono chiamati normalmente «fringe benefits».
Il problema che si pone riguardo alla retribuzione in natura è quello della sua quantificazione ai fini dell'incidenza su altri istituti retributivi, per esempio sul tfr (trattamento fine rapporto lavoro) e della determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali da versare all'Inps.
Nello specifico della mensa, essa consiste nel mettere a disposizione dei dipendenti il servizio pasti durante l'intervallo di lavoro realizzato mediante:
   • una mensa aziendale interna con gestione propria o affidata in appalto ad apposita ditta;
   • una mensa esterna presso apposite strutture;
   • attribuzione di buoni pasto di un determinato valore, da utilizzare in esercizi e negozi convenzionati.
In alcuni casi, in mancanza del servizio, il datore di lavoro è tenuto a concedere l'indennità sostitutiva, cioè una quantificazione monetaria, che può essere corrisposta anche in presenza del servizio mensa qualora il lavoratore non lo utilizzi.
I buoni pasto, che possono essere utilizzati anche quando l'orario di lavoro non prevede una pausa per il pasto (dm n. 122/2017); sono incedibili; possono essere cumulati per essere usati contemporaneamente fino al limite di otto; non possono essere commercializzati o convertiti in denaro; sono utilizzabili soltanto dal titolare esclusivamente per l'intero valore facciale.
La somministrazione del pasto o le prestazioni sostitutive del servizio mensa sono soggette al regime di imponibilità indicato in tabella
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni, assunzioni più libere. Premiati i virtuosi. Turnover sganciato dalle cessazioni. Il decreto Crescita lega i reclutamenti al peso della spesa per stipendi sulle entrate correnti.
Per regioni e comuni virtuosi future assunzioni più libere.
La novità è prevista nel decreto crescita (D.L. 30.04.2019 n. 34) che punta a sganciare i nuovi reclutamenti dalle cessazioni, misurando l'ampiezza del turnover in base al peso della spesa per il pagamento degli stipendi sulle entrate correnti.
In pratica, si potrà assumere a tempo indeterminato sino ad una spesa complessiva (al lordo degli oneri riflessi a carico dell'amministrazione) non superiore ad un valore soglia definito come percentuale, differenziata per fascia demografica, delle entrate relative ai primi tre titoli del rendiconto dell'anno precedente, al netto del fondo crediti dubbia esigibilità.
Quindi, dopo oltre un decennio di vincoli parametrati sui risparmi derivanti dalle cessazioni di personale intervenute negli esercizi precedenti (con un complesso meccanismo di recupero dei «resti» non utilizzati), il legislatore cambia rotta: il budget assunzionale dipenderà esclusivamente dalla sostenibilità delle uscite, misurata in relazione alla capacità finanziaria ordinaria. Chi spende meno in rapporto a quanto incassa potrà assumere di più, chi spende di più (sempre in rapporto alle entrate) avrà margini inferiori.
Sarà un decreto della Funzione pubblica, da adottare di concerto con il Mef e il Viminale e previa intesa in Conferenza, ad individuare le fasce demografiche e i relativi valori soglia per fascia demografica. Gli enti che avranno un rapporto fra la spesa di personale e le entrate correnti sopra soglia dovranno avviare un percorso di graduale riduzione fino al conseguimento del predetto valore soglia, anche applicando un turn-over inferiore al 100%.
Peraltro, il decreto attuativo potrà anche individuare le percentuali massime annuali di incremento del personale in servizio per coloro che si collocano al di sotto del predetto valore soglia. Il che lascia comunque aperta la possibilità di far rientrare dalla finestra le vecchie regole appena uscite dalla porta. Le nuove assunzioni, inoltre, saranno consentite a condizione che vi sia coerenza con i piani triennali dei fabbisogni di personale e fermo restando il rispetto pluriennale dell'equilibrio di bilancio asseverato dall'organo di revisione.
La norma precisa, infine, che «il limite al trattamento accessorio del personale di cui all'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 27.05.2017, n. 75 è adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l'invarianza del valore medio pro capite, riferito all'anno 2018, del fondo per la contrattazione integrativa nonché delle risorse per remunerare gli incarichi di posizione organizzativa, prendendo a riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31.12.2018».
Ciò significa che gli enti cui sarà permesso di assumere più personale di quello cessato in precedenza, potranno incrementare il fondo rispetto all'omologa voce di spesa del 2016, mentre gli altri, cui verrà chiesto di contenere la spesa, potrebbero invece vedersi costretti a tagliarlo
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

APPALTIContratti, meno vincoli per la p.a.. Aggiudicazioni sottosoglia Ue con il massimo ribasso. Novità dello «Sblocca cantieri»: centrale unica non obbligatoria, ritorno a progettazioni incentivate.
Niente obbligo di centralizzazione della domanda per comuni non capoluogo di provincia; ritorno alla progettazione interna «incentivata», ma anche semplificata; più spazio per gli affidamenti con procedura negoziata; aggiudicazione dei contratti sotto soglia Ue con il prezzo più basso.
Sono queste alcune delle principali scelte, destinate alle pubbliche amministrazioni, operate dal
D.L. 18.04.2019 n. 32Sblocca cantieri») che ha iniziato questa settimana il suo iter parlamentare al senato, con l'obiettivo di avviare l'esame dei singoli articoli dopo il 7 maggio e nell'auspicio di giungere in aula il 17 maggio. Poi il testo, dopo le elezioni europee, passerà alla camera (il provvedimento dovrà comunque essere convertito entro il 17 giugno).
Un primo intervento importante sul fronte delle pubbliche amministrazioni riguarda il tema generale della qualificazione delle stazioni appaltanti e della riduzione del loro numero (si puntava all'epoca a una sforbiciata di circa il 70%). Su questo, prima del decreto 32 i comuni non capoluogo di provincia dovevano affidare contratti o ricorrendo centrali di committenza (stazione unica appaltante o centrali di unioni di comuni) o soggetti aggregatori qualificati.
Con il decreto «Sblocca cantieri» l'obbligo diventa una facoltà perché al posto della parola «
procede» si scrive «può procedere direttamente e autonomamente oppure…».
Sempre guardando al mondo delle amministrazioni rileva la scelta di intervenire a favore dei tecnici interni alle stazioni appaltanti che fra i loro compiti hanno anche la progettazione (cosiddetta progettazione interna), ma che dal 2016 fino al 18.04.2019 non potevano più contare sull'incentivo (una quota del 2% del valore dell'opera) previsto dall'art. 113 del codice dei contratti pubblici.
Tutto cambia con il decreto «Sblocca cantieri»: si torna alla progettazione «incentivata». Non solo, si aggiunge anche la progettazione cosiddetta «semplificata»: per le manutenzioni ordinarie e per quelle straordinarie (ad eccezione degli interventi che prevedano il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali) si potrà anche prescindere dalla predisposizione del progetto esecutivo.
Andando avanti, si passa poi alla fase di aggiudicazione dei contratti dove si prevede l'innalzamento da 150 mila a 200 mila della soglia per gli affidamenti di lavori con procedura negoziata senza bando e invito di tre operatori economici, contratti di piccolo importo guarda caso proprio di interesse dei comuni non capoluogo di provincia. Oltre i 200 mila euro, invece, si utilizzerà direttamente la procedura aperta con applicazione dell'esclusione automatica delle offerte anomale. Sì perché, in altra disposizione, si inserisce la regola generale (sotto soglia Ue) che si deve aggiudicare al prezzo più basso, tranne che (motivando) si scelga il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Rimangono fuori da quest'obbligo i servizi sociali e di ristorazione, quelli di ingegneria e architettura e quelli ad alta intensità di manodopera sempre da affidare misurando il rapporto qualità-prezzo. Dovrebbe semplificare anche l'inversione procedimentale della verifica dei requisiti (prima si esaminano le offerte e poi si guardano i requisiti).
Infine, altro punto sensibile nel mondo delle pubbliche amministrazioni, il decreto riapre alla possibile nomina dei commissari di gara, anche solo parzialmente, da parte della stazione appaltante in caso di indisponibilità o di disponibilità insufficiente di esperti iscritti nella sezione ordinaria dell'Albo Anac (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

APPALTIMercato elettronico, aumentano le incertezze sui requisiti degli operatori.
Il decreto sblocca cantieri aumenta le incertezze sui requisiti generali che deve possedere l'operatore economico aggiudicatario o affidatario di contratti attraverso i mercati elettronici.

I commi 6-bis e 6-ter inseriti nell'art. 36 dal
D.L. 18.04.2019 n. 32 non hanno creato un sistema solido per garantire che la p.a. contratti solo con imprese in regola con la rilevante quantità di requisiti di carattere generale, imposti dall' art. 80 del codice stesso.
Il nuovo comma 6-bis stabilisce che «ai fini dell'ammissione e della permanenza degli operatori economici nei mercati elettronici di cui al comma 6, il soggetto responsabile dell'ammissione verifica l'assenza dei motivi di esclusione di cui all' art. 80 su un campione significativo di operatori economici».
Da un lato, quindi, Consip e soggetti competenti a gestire i mercati elettronici regionali o i soggetti aggregatori sono sollevati dal compito di verificare il possesso dei requisiti nei confronti degli operatori ammessi, tramite i vari bandi di selezione generale, a presentare offerte ai fini degli ordini diretti o ad accreditarsi per le procedure di selezione. Infatti, solo un campione di tali operatori economici sarà soggetto ai controlli.
È evidente che l'intento della norma consiste nel semplificare le operazioni, anche dal lato delle imprese, puntando sempre di più sul valore delle dichiarazioni sostitutive.
La scelta operata non porrebbe alcun problema, se fosse corroborata dall'attribuzione alle amministrazioni appaltanti del compito di effettuare a valle delle procedure selettive le verifiche quanto meno sui soggetti selezionati o aggiudicatari a seguito di gara.
Sta di fatto, però, che il comma 6-ter dispone: «Nelle procedure di affidamento effettuate nell'ambito dei mercati elettronici di cui al comma 6, la stazione appaltante verifica esclusivamente il possesso da parte dell'aggiudicatario dei requisiti economici e finanziari e tecnico professionali».
Vi è quindi un'ulteriore semplificazione: l'utilizzo dei mercati elettronici consente, sì, di limitare le verifiche ai soli aggiudicatari; però, come indica la norma piuttosto perentoriamente, dette verifiche si limitano ai requisiti previsti dall'art 83 senza estendersi a quelli generali previsti dall' art. 80 del codice.
Sembra evidente che la semplificazione perseguita dal legislatore col combinato disposto dei commi 6-bis e 6-ter dell'art. 36 rischi la creazione di forti vuoti: parecchi operatori economici potrebbero contrattare con la pubblica amministrazione senza mai una verifica preventiva sui loro requisiti generali.
Una situazione che genera ovvi rischi di qualità, ma anche evidenti sperequazioni tra imprese: infatti, queste restano soggette a controlli capillari nei casi di procedure ordinarie o comunque al di fuori dei mercati elettronici; operatori economici che intendano restare più nell'ombra potrebbero limitarsi ad accreditarsi esclusivamente in questi mercati ed aspirare a non entrare mai a far parte del campione, evitando comunque il fastidio dei controlli anche nel caso dell'aggiudicazione.
Il problema della verifica dei requisiti è divenuto molto grave perché non ha mai visto la nascita l'unico modo per semplificare davvero il sistema: la Banca dati nazionale degli operatori economici, prevista dall' art. 81, comma 1, del codice, ma attesa almeno dal 2012.
La banca dati dovrebbe contenere «la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-professionale ed economico e finanziario, per la partecipazione alle procedure» di gara «e per il controllo in fase di esecuzione del contratto della permanenza dei suddetti requisiti». Se funzionasse davvero, i controlli risulterebbero estremamente semplici: basterebbe che ogni stazione appaltante potesse accedere per controllare il possesso dei requisiti.
Il comma 6-bis inserito nell'art. 36, sul tema si limita a stabilire che i soggetti titolari dei mercati elettronici effettueranno le loro verifiche (a campione o estese a tutti?) dalla data di entrata in vigore del decreto di cui all'art. 81, comma 2, del codice. Ma non aggiunge altro, come se, una volta vigente il sistema centralizzato, avessero senso ancora controlli solo a campione.
C'è infine il problema di coordinare questa disciplina con il nuovo comma 5, ultimo periodo, dell'art. 36, ai sensi del quale «resta salva, dopo l'aggiudicazione, la verifica sul possesso dei requisiti richiesti ai fini della stipula del contratto». Norma che chiede, come appare ovvio, il controllo dei requisiti per l'aggiudicatario.
Non si capisce, però, se sia un obbligo valevole solo per le procedure sotto soglia non svolte mediante mercati elettronici, oppure un principio generale da rispettare per qualsiasi procedura di individuazione del contraente (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

INCARICHI PROGETTUALIProgettisti, la paga è certa. La stazione garantirà il pagamento al tecnico. Lo sbloccacantieri arriva in Senato. Termine emendamenti il 7 maggio.
Pagamenti più sicuri per i progettisti che partecipano a gare pubbliche. Le stazioni appaltanti, infatti, dovranno indicare nei documenti di gara le modalità per la «corresponsione diretta» della quota del compenso destinato agli oneri di progettazione. Il rapporto economico, quindi, non sarà più tra progettista e impresa ma direttamente tra professionista e stazione appaltante.
È quanto prevede un articolo del cosiddetto «decreto sbloccacantieri» (D.L. 18.04.2019 n. 32), il cui testo è stato incardinato ieri in commissione lavori pubblici del Senato. Il termine finale per la presentazione degli emendamenti è stato fissato alle ore 18 del prossimo 7 maggio.
Il decreto opera una serie di modifiche al codice degli appalti (decreto 50/2016), cambiandone circa un terzo degli articoli (si veda ItaliaOggi del 20.04.2019). Tra le novità, spicca la nuova forma di tutela per i compensi dei progettisti, con l'aggiunta del comma 1-quater all'articolo 59, in cui si afferma che nel caso l'operatore economico si avvalga di uno o più progettisti, la stazione appaltante dovrà indicare nei documenti di gara le modalità per la corresponsione «diretta» del compenso.
In sostanza, non si interviene sul livello dei compensi (la cui definizione rimane di competenza dell'operatore economico, ovvero dell'impresa che partecipa alla gara) ma, piuttosto, sulla certezza che gli stessi vengano elargiti al progettista: infatti, i soldi non passeranno più dalle imprese ma direttamente dalle stazioni appaltanti. In questo modo dovrebbe essere scongiurato il rischio che l'impresa, una volta terminato il lavoro, non corrisponda il compenso dovuto al professionista.
Una disposizione di tenore simile era già presente nella vecchia versione del codice degli appalti, ma era prevista come opportunità: da oggi, se il testo rimarrà lo stesso dopo il passaggio parlamentare, diventerà un obbligo. Previste misure anche per i tecnici delle pubbliche amministrazioni: verrà ripristinato l'incentivo del 2% per la fase di progettazione.
La reintroduzione dell'incentivo ha suscitato una serie di reazioni negative tra i professionisti tecnici, in particolare tra ingegneri ed architetti: «Queste misure rappresentano un duro colpo e un attacco alla dignità degli architetti e ingegneri liberi professionisti», ha dichiarato il presidente di Inarcassa Egidio Comodo. «La reintroduzione dell'incentivo del 2% rischia di avvantaggiare i soli dipendenti pubblici e svilire il ruolo dei liberi professionisti».
Ma l'approvazione dello sbloccacantieri ha portato ad altre critiche, in particolare per una norma (art. 1, num. 4, lettera n) che recita: «un operatore economico può essere escluso dalla partecipazione di una procedura d'appalto se la stazione appaltante è a conoscenza e può adeguatamente dimostrare che lo stesso non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali non definitivamente accertati».
Sono proprio queste ultime parole ad aver alimentato le polemiche, in quanto sarebbe prevista una esclusione di professionisti e imprese che non abbiano ricevuto una sentenza definitiva di non regolarità fiscale, previdenziale e contributiva. Se l'impostazione della norma non verrà modificata in Parlamento, c'è il rischio concreto che vengano escluse dagli appalti pubblici imprese verso le quali aleggiano dei semplici sospetti di mancati pagamenti non ancora definitivamente accertati dall'Agenzia delle entrate
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIASfalci urbani, deroghe ridotte. Fuori dal regime dei rifiuti solo se residui non pericolosi. La legge europea 2018 limita l’esonero dal Codice ambientale a potature dei comuni.
Sfalci e potature prodotti dalla manutenzione del verde urbano gestibili fuori dal regime dei rifiuti solo se provenienti da aree pubbliche appartenenti a enti comunali.
Con la legge europea 2018, approvata in via definitiva dal parlamento il 16 aprile scorso, il legislatore nazionale ha ristretto il novero dei residui verdi che non soggiacciono alle stringenti regole sui rifiuti nel tentativo di riparare lo scollamento prodotto dalla legge 154/2016 tra norme nazionali e direttiva 2008/98/Ce e ottenere la chiusura della relativa procedura di verifica di compatibilità avviata dall' Ue nel 2017.
Le nuove disposizioni. La legge europea 2018 (annuale strumento, insieme alla «legge di delegazione», per adeguare l'Ordinamento interno alle novità Ue) modifica l'articolo 185 del dlgs 152/2006 in materia di esclusioni dal campo di applicazione delle norme sui rifiuti eliminando in toto le deroghe (introdotte dalla legge del 2016) a favore dei residui da attività agricole e agro-industriali e riducendo, nei termini accennati, quella per gli sfalci del verde urbano.
In base al nuovo articolo 185 del Codice ambientale l'esclusione dalla disciplina sui rifiuti dettata dalla Parte IV del dlgs 152/2006 riguarderà in futuro solo i seguenti residui verdi: «la paglia e altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, gli sfalci e le potature effettuati nell' ambito delle buone pratiche colturali, nonché gli sfalci e le potature derivanti dalla manutenzione del verde pubblico dei comuni, utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l' ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Cosa cambia. La novità nodale riguarda la riduzione delle categorie «nominali» di residui che potranno, una volta in vigore le nuove disposizioni, godere di una esclusione dalla disciplina sui rifiuti.
Tale riduzione avviene con tre interventi sostanziali: in primo luogo la legge Ue 2018 ripristina un regime generale di deroga per il solo «materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso»; in secondo luogo cancella la maxi specifica esclusione prevista dall'uscente articolo 185 del dlgs 152/2006 per la «paglia, gli sfalci e le potature provenienti dalle attività di cui all'articolo 184, comma 2, lettera e), e comma 3, lettera a)» dello stesso dlgs 152/2006» (ossia, quella a favore di: residui vegetali da giardini, parchi, aree cimiteriali; rifiuti derivanti da attività agricole e agro-industriali); in terzo luogo, introduce al posto della citata maxi specifica esclusione una mini deroga «nominale» al regime dei rifiuti, limitata questa volta a «gli sfalci e le potature derivanti dalla manutenzione del verde pubblico dei comuni».
Per la sua particolare collocazione sistematica all' interno dell' articolo 185 del dlgs 152/2006 (si veda la tabella riportata in pagina), la nuova mini deroga nominativa a favore di sfalci e potature del verde pubblico appare essere ancora più stretta del mero dato testuale.
Poiché, infatti, detti residui da manutenzione del verde pubblico dei comuni vengono indicati dalla nuova formula legislativa come un sottoinsieme («esemplificativo») dell'insieme «materiale naturale non pericoloso» gestibile fuori dal regime dei rifiuti, per poter godere di tale regola devono rispettarne le caratteristiche qualitative prima ancora che di provenienza. Da ciò sembrerebbe dunque derivare il delicato onere, per gli operatori intenzionati ad agire fuori dalla disciplina sui rifiuti, di accertare la natura non pericolosa dei materiali in questione.
Sul punto appare opportuno ricordare che La Corte di giustizia Ue con la recente sentenza 28.03.2019 (cause riunite C-487/17 e C-489-17 ha ricordato che in base al principio di precauzione ambientale di matrice comunitaria se dopo una valutazione «quanto più possibile completa» ci si trovi nell' impossibilità di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che un residuo può presentare, questo devono senz' altro essere classificato come rifiuto pericoloso.
Ulteriore novità introdotta dalla legge Ue 2018 è la precisazione che gli sfalci e le potature devono essere «effettuati nell' ambito delle buone pratiche colturali».
La compatibilità con il diritto Ue. La riformulazione dell' articolo 185 del Codice ambientale è stata effettuata per rispondere ai rilievi sollevati dall'Ue (Caso Eu-Pilot 9180/17/ENVI) sulla non conformità della normativa nazionale a quanto previsto dalla direttiva 2008/98/Ce sui rifiuti.
Sebbene in misura attenuata rispetto alla precedente formulazione, anche il tenore del nuovo articolo 185 del dlgs 152/2006 appare però (come emergerebbe anche dalla documentazione dei lavori parlamentari) non essere pienamente allineato con le norme comunitarie di riferimento.
L'articolo 2 della direttiva 2008/98/Ce, infatti, anche nel testo risultante dalla riformulazione effettuatane a opera dell'omonimo provvedimento 2018/851/Ue (facente parte del cd. «pacchetto economia circolare», in vigore dal 04.07.2018) riserva l'espressa escludibilità dal regime dei rifiuti ai soli residui verdi coincidenti con «paglia e altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati nell' attività agricola, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l' ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Da un confronto con il testo della direttiva, il nuovo testo dell' articolo 185 appare essere disallineato almeno sotto due profili: in primis, laddove conserva una (mini) deroga a favore di sfalci e potature derivanti dalla manutenzione del verde pubblico dei comuni (che oltre a non essere contemplati tra le esclusioni ex articolo 2 della direttiva 2008/98/Ce sono invece ricompresi nella definizione di «rifiuti organici» ex successivo articolo 3); in secundis per il (continuare a) prevedere la possibilità di gestire gli scarti vegetali fuori dal regime dei rifiuti anche ove siano portati al di fuori del luogo di produzione o oggetto di cessione a terzi
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019).

EDILIZIA PRIVATAAppalti, niente tagliola. Ricorsi al Tar anche post aggiudicazione. Il dl Sbloccacantieri cancella la disposizione del Codice contratti.
Stop alla tagliola ai ricorsi amministrativi negli appalti. Dal 19 aprile scorso, data di entrata in vigore del
D.L. 18.04.2019 n. 32 (il cosiddetto Sbloccacantieri), risulta semplificata la procedura per presentare ricorsi al tribunale amministrativo regionale in materia di appalti.
Il decreto, infatti, ha eliminato il meccanismo introdotto nel 2016 dal Codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016) che aveva come obiettivo la riduzione del contenzioso negli appalti. Parliamo del rito super-accelerato, che prevedeva un vero e proprio sbarramento alle contestazioni attinenti ai requisiti di partecipazione alla gara.
In sintesi, attraverso tale procedimento, si stabiliva che l'ammissione di un concorrente alla gara andasse impugnata al Tar immediatamente, senza la possibilità di attendere l'esito della procedura. In caso di mancato ricorso contro le ammissioni, si determinava la cristallizzazione della rosa dei concorrenti, venendo meno la possibilità di contestazioni successive alla comunicazione dell'aggiudicazione.
Il rito super-accelerato, previsto dagli articoli 29 e 204 del dlgs 50/2016 e dall'art. 120, commi 2-bis e 6-bis, del Codice sul processo amministrativo, recepiva l'obiettivo della legge delega 11/2016 (articolo 1, comma 1, lett. bbb) di razionalizzare il processo in materia di appalti attraverso una «preclusione della contestazione di vizi attinenti alla fase di esclusione dalla gara o ammissione alla gara nel successivo svolgimento della procedura di gara».
L'introduzione del rito super-accelerato aveva fatto sorgere un'accesa discussione tra gli addetti del settore. Le critiche maggiori hanno riguardato il superamento del consolidato principio secondo cui, per poter ricorrere alla magistratura amministrativa, è necessario avere un interesse diretto, concreto e attuale. Presupposto che mancherebbe durante la fase delle ammissioni, in quanto, non essendo ancora stata stilata la graduatoria, l'eventuale accoglimento del ricorso non determinerebbe l'aggiudicazione della gara in favore del ricorrente.
Tali questioni sono approdate anche nella aule dei tribunali amministrativi, nonché innanzi la Corte costituzionale e la Corte di giustizia dell'Unione europea. In particolare il Tar Puglia-Bari nel 2018 (con ordinanze n. 903 e 109) ha rimesso per ben due volte la questione, tuttora pendente, innanzi alla Consulta per possibile violazione, tra l'altro, degli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione. Il Tar Piemonte, invece, con ordinanza n. 88/2018, ha sollevato la questione innanzi alla Corte di giustizia Ue.
Quest'ultima, con la recente ordinanza del 14/02/2019 (causa C-54/18), si è pronunciata ritenendo compatibile l'istituto con il diritto europeo. In particolare, il giudice europeo, ha ritenuto prevalenti le esigenze di rapida definizione delle procedure rispetto alle possibili limitazioni all'esercizio del diritto di difesa. Ciò a patto che il termine per contestare le ammissioni venga fatto decorrere dal giorno in cui il concorrente sia messo in condizione di conoscere la documentazione presentata in gara agli altri concorrenti, tramite accesso agli atti.
La decisione di abrogare il rito super-accelerato determina un positivo impatto sull'attività delle imprese. Queste avranno a disposizione maggiori strumenti per contestare l'esito delle procedure di gara. Soprattutto sarà possibile attenderne l'esito per valutare, in base alla propria posizione in graduatoria, se il ricorso possa determinare chance di aggiudicazione. In tale modo, si potranno anche evitare inutili contenziosi posti in essere in via preliminare al solo scopo di ridurre il numero dei potenziali avversari
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2019).

APPALTIAppalti, obbligatorio motivare la scelta delle procedure sotto soglia.
Obbligatorio motivare la scelta di utilizzare le procedure sotto soglia e la scelta degli operatori economici da invitare.

Molte amministrazioni avevano sperato che il
D.L. 18.04.2019 n. 32, cosiddetto «Sblocca cantieri» rendesse realmente più lineare l'utilizzo delle cosiddette «procedure semplificate» regolate dall'articolo 36 del codice dei contratti, ma sono rimaste deluse. Il testo modificato dell'articolo 36 si limita solo a ridurre le soglie delle procedure semplificate e consente di invitare solo tre operatori economici per gli appalti di lavori di importo compreso tra i 40 mila e i 200 mila euro (le aziende da invitare per forniture e servizi comprese tra 40 mila euro e la soglia comunitaria restano 5); ma, lascia totalmente in piedi tutti i problemi operativi connessi alle procedure sotto soglia.
Per un verso, il dl 32/2019, pur ispirato al divieto posto dalla normativa europea di introdurre nella normativa nazionale norme ulteriori che aggravino il peso della regolazione (divieto di gold plating) ha mantenuto il deleterio «principio di rotazione». Un rompicapo, mai risolto dalle Linee Guida Anac, sulla portata del quale la giurisprudenza è divisa da anni e che, interpretato come impedimento dell'affidatario di una selezione di mercato (il principio appare senza dubbio applicabile nel caso di affidatario senza alcuna selezione), pare in chiarissimo contrasto con la tutela della concorrenza e dell'apertura dei mercati.
Per altro verso, prime indiscrezioni sul contenuto dello «Sblocca cantieri» avevano illuso che nel caso di affidamenti diretti o di affidamenti a un limitato numero di operatori economici, come nell'ipotesi prevista dall'articolo 36, comma 2, lettera b), sarebbe stato eliminato l'obbligo di motivare la scelta del così ridotto lotto di aziende da invitare. Così non è stato. Cambiano solo in parte le soglie per gli affidamenti semplificati dei lavori, ma non cambia per nulla l'impianto complessivo.
Dunque, gli enti, ai sensi del comma 1 dell'articolo 36, che consente di procedere con gli affidamenti sotto soglia in alternativa alle procedure ordinarie, dovranno continuare in primo luogo a spiegare perché utilizzano la procedura «semplificata» invece di quella ordinaria. Soprattutto, dovranno continuare a corroborare le determinazioni a contrattare della necessaria ed approfondita motivazione che sta alla base della scelta dei tre imprenditori da invitare alla selezione nel caso di appalti di lavori, e dei cinque nel caso di forniture e servizi. Sempre con l'ostacolo della rotazione. Quindi, continua l'onere di selezionare le ditte da invitare a seguito delle indagini di mercato o della costituzione dell'elenco degli operatori economici, come previsto dalle Linee Guida Anac, che restano in vigore finché non siano riviste dal regolamento di attuazione del codice, la cui emanazione dovrebbe intervenire entro i prossimi sei mesi.
Poiché proprio l'onere di motivare la scelta delle aziende da invitare, nonché le complesse procedure connesse all'indagine di mercato e alla gestione dell'elenco dei fornitori erano, insieme col principio di rotazione, i veri e propri ostacoli procedurali (confermati dall'ondivaga giurisprudenza su questi temi) nella sostanza il dl 32/2019 con riferimento alle procedure sotto soglia «semplificate» non ha semplificato assolutamente nulla. L'unico elemento di riduzione dei pesanti oneri amministrativi si riscontra nel nuovo comma 5 dell'articolo 36, che consente la cosiddetta «inversione procedimentale» in fase di apertura delle buste.
La norma permette alle stazioni appaltanti di esaminare le offerte economiche prima di verificare la documentazione relativa al possesso dei requisiti di carattere generale e di quelli di idoneità e di capacità degli offerenti, purché l'esercizio di detta facoltà sia previsto nel bando di gara o nell'avviso con cui si indice la procedura e purché si verifichino sempre le condizioni di ammissibilità del miglior offerente e di un campione predeterminato degli altri operatori economici.
Di fatto serve a poco nel caso delle procedure di cui all'articolo 36, comma 2, lettera b), poiché invitare solo tre operatori per i lavori e cinque per forniture e servizi non costituisce un grave problema operativo (articolo ItaliaOggi del 26.04.2019).

APPALTIOpere pubbliche, la Ue accelera sui pagamenti.  Stato di avanzamento lavori da saldare in 7 giorni alle imprese.
Entro sette giorni dall'adozione dello stato di avanzamento lavori (Sal) deve essere emesso il certificato di pagamento.
Lo stabilisce la legge di delegazione europea, approvata in via definitiva, che corregge l'articolo 113-bis del codice dei contratti pubblici rendendo più rapido l'iter di pagamento delle imprese affidatarie di appalti pubblici da parte delle stazioni appaltanti. La disposizione introduce alcune novità sia per i pagamenti in acconto (i Sal durante l'esecuzione dei lavori) sia sul saldo finale (dopo il collaudo) e si focalizza sull'emissione del certificato di pagamento.
Ad oggi, il tempo limite per l'emissione dei certificati di pagamento da parte del responsabile del procedimento (Rup) sulla base del Sal rilasciato dal direttore dei lavori è stabilito in 30 giorni. Con la modifica al codice contenuta nella Legge europea viene stabilita la regola generale dell'emissione contestuale «rispetto all'emissione di ogni stato di avanzamento dei lavori», introducendo come limite massimo «un termine non superiore a sette giorni» contro gli attuali trenta.
Con il nuovo 113-bis si stabilisce che l'emissione del certificato di pagamento deve essere contestuale all'emissione del Sal (stato avanzamento lavori) e comunque entro un termine massimo di sette giorni.
Il primo effetto è quindi quello di ridurre termine, inizialmente fissato dal codice in un mese, di 23 giorni. L'impresa potrà quindi emettere la propria fattura con tre settimane di anticipo rispetto ad oggi anche se per il saldo della fattura rimangono i consueti problemi, visto che la disciplina generale (europea e nazionale) risulta largamente inapplicata dalle amministrazioni pubbliche: il pagamento effettivo dei compensi contrattuali dovrebbe arrivare entro i successivi 30 giorni, ma la normalità dei casi vede imprese che ricevono i pagamenti molti mesi dopo l'emissione della fattura. La regola sarebbe quella del pagamento degli acconti entro trenta giorni «salvo che sia espressamente concordato nel contratto un diverso termine, comunque non superiore a 60 giorni e purché ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche».
Stessa regola per il pagamento a valle del collaudo: la norma prevede che all'esito positivo del collaudo o della verifica di conformità, e comunque entro un termine non superiore a sette giorni dagli stessi, il responsabile unico del procedimento rilasci il certificato di pagamento ai fini dell'emissione della fattura da parte dell'appaltatore. Rimane, però, il problema del momento dal quale decorrono i sette giorni perché (per gli acconti) il momento dell'«adozione di ogni stato di avanzamento dei lavori» è comunque sempre rimesso alla stazione appaltante. E di questa discrezionalità le stazioni appaltanti fanno grande uso cosicché la norma, sia pure corretta, risulta nella sostanza elusa.
Peraltro va ricordato che la Commissione europea, con riguardo alla eccepita legittimità di clausole contrattuali sui pagamenti previste da alcuni atti di gara emessi da Anas e Rfi, ha ribadito, prima delle recenti modifiche, che i pagamenti degli stati di avanzamento lavori devono comunque avvenire entro 30 giorni dalla data di emissione del Sal
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2019).

APPALTIAppalti, più flessibilità per i centri minori.
Più flessibilità sugli affidamenti diretti, consentendo per i lavori sotto i 40 mila euro la deroga ai principi di libera concorrenza, non discriminazione e proporzionalità. Rendere facoltativi la previsione dei criteri minimi ambientali e dell'appalto digitale nei contratti di lavori e servizi sotto i 209 mila euro. Unificazione delle funzioni di Rup (Responsabile unico del procedimento) e responsabile dei servizi nei comuni sotto i 5 mila abitanti. Discrezionalità della scelta dei legali sulla base di un elenco predisposto dagli enti. Superamento del principio di rotazione negli affidamenti sotto soglia in modo da mettere al riparo i sindaci dei piccoli comuni dalla spada di Damocle dell'imputazione per abuso d'ufficio o turbativa d'asta che rischia di scattare ogni qual volta un ente si affida per piccoli lavori a ditte di fiducia. Centrali uniche di committenza solo per i lavori a partire da 209 mila euro.

Sono alcune delle tante osservazioni tecniche sull'applicazione del Codice appalti illustrate dall'Anpci lo scorso 9 aprile in audizione dinanzi alla Commissione lavori pubblici del senato che ha avviato un'indagine conoscitiva sul dlgs n. 50/2016.
A illustrare le problematiche che i piccoli comuni vivono ogni giorno e che necessitano di snellimento, adeguamento e rimodulazione è stato l'ingegner Roberto Sella, sindaco di Lozzolo (Vc) e referente Anpci per la provincia di Vercelli. Il messaggio che l'Anpci ha voluto lanciare nell'audizione è che c'è bisogno di semplicità normativa e applicativa sia per le esigenze quotidiane dei piccoli comuni che per i lavori più grandi. Le proposte dell'Anpci hanno suscitato un vivace dibattito in commissione.
Il senatore Agostino Santillo (M5S) ha condiviso quanto esposto da Anpci in materia di rotazione dei lavori, pur ribadendo la necessità che nei comuni più grandi essa continui a essere applicata per evitare che i lavori vengano assegnati sempre alle stesse imprese. Il senatore Emanuele Dessì (M5S) ha rimarcato la necessità di dotarsi di un sistema semplice ed efficace per controllare le aziende, affinché non siano solo delle «scatole vuote», e le ditte subappaltatrici.
Infine è intervenuta la senatrice Simona Pergreffi (Lega) che ha condiviso la necessità di rapporti fiduciari soprattutto per i lavori ordinari e le prestazioni di servizi a cui ogni giorno il comune deve provvedere, cosa che cozza con il principio della rotazione. Anche l'Asmel, l'Associazione per la modernizzazione e la sussidiarietà degli enti locali, ha partecipato al ciclo di audizioni sul codice appalti.
Il segretario generale dell'associazione, Francesco Pinto, ha consegnato al presidente della ottava commissione, Mauro Coltorti, una proposta concreta per evitare di continuare a procedere con misure tampone in attesa del varo del Codice. La proposta Asmel prevede il mantenimento dell'attuale Codice, ma depurato da tutte quelle norme inserite in violazione del divieto di «gold plating», ossia quelle norme irragionevolmente dettagliate che rinviano ad atti successivi, legislativi e para legislativi.
Al loro posto, Asmel propone il ripristino del vecchio Regolamento, il dlgs 207/2010, opportunamente aggiornato. Asmel ha affidato il lavoro di «ripulitura» del Codice allo studio legale internazionale Nctm. «Abbiamo così predisposto un contenitore normativo che potrà essere integrato con le diverse opzioni di modifica che governo e parlamento intendessero inserire nel percorso di trasformazione», ha dichiarato Pinto (articolo ItaliaOggi del 26.04.2019).

VARILa class action cambia pelle. Per ottenere i risarcimenti occorre un doppio passaggio. Molte le modifiche apportate dalla legge approvata in via definitiva dal parlamento.
Nuova class action: doppio passaggio per ottenere i risarcimenti. Procedure automatizzate per l'adesione alla classe. «Quota lite» per gli avvocati che rappresentano la classe. Sono numerose le modifiche apportate all'istituto della class action dalla legge approvata in via definitiva dal senato il 3 aprile e ora in attesa di pubblicazione in G.U.
Le novità però avranno una gestazione lenta, visto che entreranno in vigore dopo 12 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta e varranno per i danni commessi successivamente. Entro tale termine, il ministero della giustizia dovrà approvare una serie di provvedimenti per: a) disciplinare le attività che dovranno essere compiute tramite il portale telematico; b) individuare i requisiti per l'iscrizione nell'elenco delle organizzazioni e associazioni legittimate all'azione di classe, nonché determinare il contributo dovuto ai fini dell'iscrizione e del mantenimento della stessa.
Le principali novità. Innanzitutto la trasmigrazione della disciplina dal codice del consumo (dlgs 206/2005) al codice di procedura civile, con l'inserimento di un nuovo titolo nel Libro IV sui Procedimenti speciali. La nuova collocazione consegue al carattere «generalista» della nuova class action, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo. L'istituto non è più infatti collegato alla materia del «consumo», piuttosto a tutte le circostanze a seguito delle quali dall'attività di aziende private e enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità sia derivata una lesione a diritti individuali omogenei (i cosiddetti mass torts).
Non vi è più dunque la limitazione soggettiva del dover essere «un consumatore», e oggettiva, potendo l'azione di classe riguardare qualsiasi situazione soggettiva maturata a fronte di condotte lesive delle aziende.
Il nuovo procedimento. Il nuovo titolo del Libro IV è intitolata ai Procedimenti collettivi. In particolare l'azione di classe si svolgerà in due step. Il primo, finalizzato alla ordinanza di ammissibilità della class action, viene introdotto con ricorso e segue esclusivamente il rito sommario ordinario nel tribunale delle imprese del distretto dove ha sede l'azienda resistente. Le cause di inammissibilità replicano le attuali. Ammessa l'azione di classe e pubblicata l'ordinanza nel portale del ministero della giustizia (a fine di pubblicità legale), entro 60 giorni sarà possibile presentare altre azioni di classe basate sugli stessi presupposti.
Nuove modalità di adesione alla classe. Dopo l'ammissione della class action ha inizio la procedura «progressiva», con le nuove modalità di adesione, che potrà avvenire immediatamente dopo la ordinanza di ammissibilità (tra i 60 e i 150 giorni); o anche dopo la sentenza (tra i 60 e 150 giorni).
Nel procedimento, l'acquisizione delle prove penalizzerà con una sanzione amministrativa pecuniaria sia la parte che rifiuta senza giustificato motivo di esibire le prove, sia alla parte o al terzo che distrugge prove rilevanti ai fini del giudizio; la sanzione è devoluta alla Cassa delle ammende.
La sentenza che accoglie l'azione di classe, adottata dal tribunale delle imprese, ha carattere «dichiarativo» sull'accertamento della responsabilità, stabilisce le caratteristiche dei diritti individuali che possono far parte della classe, quale documentazione le parti sono tenute a produrre, sui diritti al risarcimento o alla restituzione, nomina il giudice delegato e il rappresentante comune degli aderenti (con stessi requisiti del curatore fallimentare).
La stessa sentenza provvede sulle domande risarcitorie e restitutorie, ma solo se esse sono proposte da soggetti diversi da associazioni organizzazioni. Infatti per queste ultime, la nuova disciplina rimanda al giudice delegato. Sarà quest'ultimo ad accogliere le adesioni e a condannare al pagamento delle somme dovute ad ogni aderente, con un decreto che è titolo esecutivo. La procedura di adesione è informatizzata: la domanda di adesione va inviata mediante posta elettronica certificata (Pec) o servizio elettronico di recapito certificato qualificato (Serc) e non richiede l'assistenza del difensore;
Accordi transattivi. È una ulteriore novità, per favorire conciliazioni tra le parti prima della sentenza. La prima proposta può essere formulata dal tribunale prima della discussione orale della causa. Dopo la sentenza che accoglie l'azione, il rappresentante comune degli aderenti può stipulare con l'impresa o con l'ente gestore di servizi pubblici o di pubblica utilità un analogo schema di accordo di natura transattiva.
La quota lite per l'avvocato che rappresenta gli aderenti. Viene disciplinato il compenso derivante dalla cd. quota lite, cioè una somma che, a seguito del decreto del giudice delegato, il resistente deve corrispondere al rappresentante comune degli aderenti e al difensore del ricorrente. Si tratta di un compenso ulteriore, quindi, rispetto alla somma che il resistente dovrà pagare a ciascun aderente come risarcimento. Tale somma costituisce una percentuale dell'importo complessivo che il resistente dovrà pagare, calcolata in base al numero dei componenti la classe in misura inversamente proporzionale (la percentuale scende all'aumentare del numero dei componenti), sulla base di sette scaglioni. Tali percentuali possono essere modificate con decreto del ministro della giustizia.
L'azione inibitoria. In base alla riforma, con l'azione inibitoria collettiva «chiunque abbia interesse» (nonché le organizzazioni e alle associazioni iscritte nell'elenco del ministero della giustizia) può chiedere al giudice di ordinare a imprese o enti gestori di servizi di pubblica utilità: la cessazione di un comportamento lesivo di una pluralità di individui ed enti commesso nello svolgimento delle rispettive attività; o il divieto di reiterare una condotta commissiva o omissiva.
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Le associazioni di categoria temono l'inefficacia delle norme.
Buone intenzioni ma norme poco efficaci, quando non dannose. Potremmo sintetizzare così le osservazioni che alcune associazioni di categoria hanno indirizzato alle nuove norme in materia di class action, nei documenti depositati in Parlamento durante il dibattito parlamentare. Preoccupa soprattutto il doppio step, «merito» affidato al tribunale delle imprese e «risarcimento» affidato al giudice delegato che, nonostante i tempi tassativi previsti per la procedura, si annuncia farraginoso e time spending.
Consiglio nazionale dei consumatori e utenti. Pur apprezzando i significativi miglioramenti, il Cncu ha evidenziato che sotto diversi aspetti alcune norme segnano un «grave arretramento» della disciplina attuale sia in termini di legittimazione ad agire sia con riguardo alle azioni inibitorie e risarcitorie.
AltroConsumo. Pur apprezzando le finalità di ampliamento dell'azionabilità di classe, l'associazione di consumatori, ha evidenziato criticità nella natura puramente dichiarativa della sentenza di accoglimento, «inappropriata e peggiorativa»; e nel rinvio obbligatorio della condanna a favore degli aderenti a una fase successiva alla sentenza, eccessivamente e inutilmente complessa, lunga e costosa.
Ha rilevato inoltre la farraginosità dei passaggi della fase post-sentenza e delle relative adesioni, per le quali il ddl prevede meccanismi eccessivamente complessi (sostanzialmente mutuati dal processo fallimentare), destinati a divenire ostacoli insuperabili per l'adesione degli interessati, oltre che richiedere tempi lunghi e incerti di definizione.
Confindustria. Molto critica sulla estensione della disciplina a tutte le ipotesi di illecito extracontrattuale, che «rischia di vanificare le finalità di economia processuale dello strumento, nonché l'effettività dello stesso» e sulla previsione di una fase per l'adesione successiva alla sentenza di accoglimento, «uno dei punti più critici». Non piace il «poderoso incentivo all'azione di classe» tramite la cosiddetta quota lite, numerose previsioni di carattere processuale e la mancata previsione di rimedi per eventuali danni di immagine dell'impresa resistente in caso di rigetto della domanda.
Confcommercio. Rileva positivamente che la conseguenza immediata dell'ampliamento del campo d'applicazione dell'istituto, sul piano soggettivo, consiste nell'estensione anche alle imprese della possibilità di esercitare un'azione di classe che la disciplina attualmente vigente invece esclude.
Ma lamenta l'esclusione della possibilità di intentare azioni collettive di tipo risarcitorio anche nei confronti della Pa che costituirebbe un importante strumento offerto a cittadini ed imprese per stimolare comportamenti efficienti e virtuosi delle amministrazioni pubbliche ed un efficace deterrente per contrastare comportamenti contrari al buon funzionamento.
Denuncia il permanere nel testo di forti elementi di criticità che potrebbero penalizzare eccessivamente l'attività d'impresa e, al contempo, incentivare il numero di contenziosi meramente speculativi, incrementando il carico già eccessivo dei procedimenti pendenti dinnanzi ai tribunali italiani le cui attività verrebbero ulteriormente ingolfate
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019).

PUBBLICO IMPIEGOValutazione, arbitrati per le liti. La conciliazione non si configura come ricorso gerarchico. Non si applicano le regole di revisione dei provvedimenti di stampo pubblicistico.
Alla conciliazione a tutela del lavoratore pubblico che non concorda sulla valutazione ricevuta ai fini della produttività non si applicano le regole di revisione dei provvedimenti di stampo pubblicistico, ma quelle di disciplina del rapporto di lavoro.
L'articolo 7, comma 2-bis, del dlgs 150/2009 come novellato (forse non del tutto opportunamente) dall'articolo 5 del dlgs 74/2017, stabilisce che nei sistemi di valutazione sono previste, altresì, «le procedure di conciliazione, a garanzia dei valutati, relative all'applicazione del sistema di misurazione e valutazione della performance».
Molte amministrazioni ritengono che la procedura di conciliazione possa, nella sostanza, coincidere con un procedimento volto ad ottenere un riesame di un soggetto diverso dal valutatore, dotato del potere quindi di rivedere l'esito della valutazione. Nella gran parte dei casi, il procedimento viene configurato come una sorta di ricorso gerarchico.
Si tratta di un errore di configurazione della procedura e dei diritti in gioco. La valutazione espressa nei confronti dei dipendenti non è un provvedimento amministrativo, bensì un atto di natura privatistica di gestione del rapporto di lavoro, che come tale è adottato dai dirigenti (o, nei comuni che ne sono privi, dai funzionari posti ai vertici delle strutture), nell'esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, ai sensi dell'articolo 5, comma 2, del dlgs 165/2001.
Non emergono, quindi, possibilità di ricorso gerarchico di carattere amministrativo, trattandosi, invece, di tutela di diritti soggettivi. La combinazione, poi, degli articoli 7, 8 e 9, del dlgs 150/2009 assegna in via esclusiva agli organismi indipendenti di valutazione o nuclei di valutazione la pronuncia sugli obiettivi organizzativi e sul risultato dei dirigenti; a questi ultimi (o ai funzionari apicali) la valutazione dei risultati individuali del personale non avente qualifica dirigenziale.
Se la conciliazione, allora, non può consistere in un ricorso gerarchico, essa altro non può essere se non una procedura conciliativa ed arbitrale, di natura speciale, regolabile per analogia con le disposizioni degli articoli da 410 a 412-quater del codice di procedura civile. In effetti, poiché la valutazione è un atto del datore di lavoro, adottato come presupposto per quantificare un eventuale premio di produttività, il lavoratore può sempre tutelarsi rivolgendosi al giudice del lavoro.
I sistemi di valutazione potrebbero anche non specificare procedure conciliative, limitandosi a richiamare le norme di conciliazione del codice di procedura di civile, nel caso di potenziale contrasto tra valutatore e valutato. Qualora, invece, si intendesse regolare la «conciliazione», di fatto si introdurrebbe una disciplina conciliativa, analoga a quella prevista dall'articolo 412-quater del codice di procedura civile.
Il sistema di valutazione deve disciplinare il modo per costituire un collegio di conciliazione e arbitrato irrituale, composto da un rappresentante del lavoratore, un rappresentante del datore di lavoro (che potrebbe comunque coincidere col medesimo valutatore) e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dalle parti. Questo collegio è chiamato a promuovere la conciliazione tra le parti, in assenza della quale resta comunque la facoltà di ciascuna delle parti di adire l'autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato previste dalla legge.
Laddove il sistema di valutazione regolasse il collegio di conciliazione nel rispetto pieno dell'articolo 412-quater del codice di procedura civile, nel caso di mancata conciliazione detto organo potrebbe spingersi fino alla decisione della controversia: in questo caso l'arbitro della parte datoriale non può coincidere col valutatore, né può essere l'Oiv o un suo componente o, nei comuni, il segretario generale; lo stesso, a maggior ragione, vale per il presidente, in quanto occorre garantire la terzietà maggiore possibile dei componenti del collegio.
Se, invece, l'organo di conciliazione richiami solo per analogia l'articolo 412-quater, non potrà spingersi fino alla decisione della «controversia», ma eventualmente invitare il valutatore a meglio motivare la propria decisione, qualora non intenda conciliare. In ogni caso il lavoratore potrà comunque decidere di tutelarsi direttamente davanti al giudice o attivare le procedure conciliative previste dal codice di procedura civile
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).

ENTI LOCALISpese ordinarie, fondi limitati. Non sono finanziabili con gli avanzi.
L'avanzo non può (più) finanziare spese ordinarie.
Tale possibilità, un tempo ammessa, anche se solo in assestamento, è venuta dopo la riforma contabile imposta dal dlgs 118/2011. Per le altre tipologie ammesse, inoltre, vale uno stringente ordine di priorità, per cui l'ente può destinare l'avanzo a spese di investimento o a spese correnti non permanenti solo in mancanza acclarata di debiti fuori bilancio e di criticità sugli equilibri.
Resta salva la facoltà di impiegare l'eventuale quota del risultato di amministrazione «svincolata», in occasione dell'approvazione del rendiconto, sulla base della determinazione dell'ammontare definitivo della quota del risultato di amministrazione accantonata per il Fcde, per finanziare lo stanziamento riguardante il medesimo fondo nel bilancio di previsione.
L'avanzo di amministrazione non vincolato non può essere utilizzato dagli enti che si trovino in una delle situazioni previste dagli artt. 195 e 222 del Tuel, ossia a quelli che utilizzano entrate a specifica destinazione o che fanno ricorso ad anticipazioni di tesoreria.
A livello procedurale, a rendiconto approvato, è sempre necessaria la deliberazione consiliare, fatta eccezione per la quota vincolata su economie di spesa derivanti da stanziamenti dell'esercizio precedente, per cui basta una determinazione del responsabile del servizio finanziario o (se previsto dal regolamento di contabilità) dal responsabile della spesa.
Nessun problema, invece, per gli equilibri di competenza: dopo la cancellazione del pareggio di bilancio, disposta dalla legge 145 in attuazione delle sentenze n. 247/2017 e 101/2018 della Corte costituzionale, l'avanzo è sempre rilevante e non necessita di essere nuovamente «coperto». Ciò, secondo le recenti stime dell'Ufficio parlamentare di bilancio, garantisce un potenziale incremento degli investimenti dell'ordine di circa 4 miliardi di euro
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità bloccata per 5 anni. I dipendenti neoassunti non possono cambiare sede. Lo prevede la legge di conversione del decretone su Reddito di cittadinanza e Quota 100.
Mobilità bloccata per cinque anni negli enti locali, per i dipendenti neoassunti. La legge 26/2019, di conversione del dl 4/2019 (su reddito di cittadinanza e quota 100) introduce una novità rilevante per la gestione del personale alle dipendenze di regioni ed enti locali.
L'articolo 14-bis della legge 26/2019, infatti, inserisce nel corpo dell'articolo 3 del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, un nuovo comma 5-septies, ai sensi del quale «i vincitori dei concorsi banditi dalle regioni e dagli enti locali, anche se sprovvisti di articolazione territoriale, sono tenuti a permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi».
È piuttosto evidente la stretta somiglianza di questa disposizione con quella contenuta, da ben prima, nel comma 5-bis, dell'articolo 35 del dlgs 165/2001: «I vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi».
Entrambe le previsioni sono finalizzate a consentire ai dipendenti neo assunti di trasferirsi volontariamente presso un altro ente, anche di comparto diverso, solo dopo aver prestato servizio nella prima sede di destinazione per almeno 5 anni.
Perché, allora, una disposizione come quella contenuta nella legge 26/2019? Non si tratta, a ben vedere, di una semplice replica di quanto già da tempo previsto nel testo unico sul pubblico impiego. Sta di fatto che l'articolo 35, comma 5-bis, del dlgs 165/2001 è stato considerato, da gran parte della dottrina e soprattutto dagli operatori concreti, come una disposizione valevole solo per le amministrazioni dello Stato o, comunque, organizzate con uffici distribuiti su territori ampi. I comuni, in particolare, si sono sempre ritenuti non soggetti a tale previsione, dal momento che tecnicamente non era possibile identificare una «sede di prima destinazione» geograficamente autonoma rispetto ad altre.
La legge 26/2019 estende espressamente il divieto di trasferimento volontario presso altre amministrazioni prima di 5 anni dall'assunzione anche alle amministrazioni locali sprovviste «di articolazione territoriale», proprio allo scopo di privare di effetto l'interpretazione restrittiva che fin qui di fatto aveva vanificato la portata dell'articolo 35, comma 5-bis, del dlgs 165/2001 negli enti locali.
Tuttavia, lo scopo appare anche un altro. È noto che il disegno di legge delega per la riforma della pubblica amministrazione, approvato dal consiglio dei ministri poco tempo fa, intende riproporre un'idea, molte volte già espressa in precedenza e sempre naufragata: abolire il nulla osta alla mobilità volontaria dei dipendenti. Il che consentirebbe, quindi, ai dipendenti pubblici di trasferirsi da un'amministrazione all'altra, senza dipendere dal consenso alla mobilità del datore di lavoro.
Ovviamente, simile disposizione avrebbe la controindicazione di rendere poco controllabile la dotazione organica operante negli enti. L'articolo 14-bis della legge 26/2019, allora, introducendo l'obbligo di permanenza per cinque anni nella prima sede di destinazione intende porre un argine al rischio di una serie incontrollabile di mobilità.
C'è da osservare che la norma introdotta dall'articolo 14-bis della legge 26/2019 non è, però, di interpretazione autentica e, quindi, non ha efficacia retroattiva; pertanto, è corretto concludere che l'obbligo di permanenza per almeno cinque anni valga solo per i dipendenti che saranno assunti dopo la sua entrata in vigore.
Gli altri dipendenti, la stragrande maggioranza dei quali ha oltre cinque anni, se davvero si esercitasse la delega tendente ad abolire il nulla osta, potrebbe di conseguenza avere un domani mano libera nel trasferirsi dove ritenuto più opportuno.
Se davvero, dunque, il Legislatore ritiene che l'obbligo della permanenza di cinque anni nella sede costituisca un limite alle mobilità, una volta liberalizzate, è da evidenziare che ha sottostimato le conseguenze di simile decisione. La parte preponderante del personale degli enti locali potrebbe decidere di andare in mobilità verso altre amministrazioni, in una girandola incontrollabile che per altro vanificherebbe del tutto le regole sulla programmazione dei fabbisogni, che diverrebbe poco più che carta straccia. Un ripensamento maggiormente meditato dell'intenzione manifestata di eliminare il nulla osta è quanto mai necessario
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATARisultato di amministrazione, la corretta allocazione degli oneri di urbanizzazione.
Nell'ambito delle operazioni di scomposizione del risultato di amministrazione 2018 gli enti si trovano di fronte a un nodo da sciogliere: in quale voce dell'avanzo allocare gli eventuali proventi che derivano dal rilascio dei permessi di costruire e relative sanzioni non utilizzati. Avanzo vincolato o avanzo destinato?
Il comma 460 della legge 232/2016
Innovando la precedente disciplina, il comma 460 dell'articolo 1 della legge 232/2016 ha previsto che «A decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per opere pubbliche».
La finalizzazione di queste entrate a un elenco predefinito di spese (siano esse correnti o di investimento) pare avere mutato la natura dei proventi, in precedenza genericamente destinabili a tutte le spese in conto capitale e come tali collocati tra i fondi destinati del risultato di amministrazione.
La Faq n. 28/2018 di Arconet
Secondo la Commissione Arconet (Faq n. 28/2018), «l'art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n. 232 individua un insieme di possibili destinazioni, la cui scelta è rimessa alla discrezionalità dell'ente. Si ritiene pertanto che tale elenco, previsto dalla legge, non rappresenti un vincolo di destinazione specifico ma una generica destinazione ad una categoria di spese».
Ne consegue che, secondo l'interpretazione fornita da Arconet, i proventi dell'attività edilizia non devono essere considerati vincolati di cassa, in quanto l'elencazione delle spese contenute nel comma 460 non è idoneo ad imporre un vincolo puntuale di destinazione, lasciando l'ente libero di decidere nell'ambito di una pluralità di spese comunque perimetrate dal legislatore.
Già la Corte dei conti – Sezione Autonomie, con deliberazione n. 31/2015 aveva precisato che il vincolo di cassa sussiste unicamente laddove vi sia un vincolo irreversibile di destinazione a garanzia del raggiungimento della finalità pubblica programmata, con finanziamento della spesa da parte di un soggetto terzo o tramite indebitamento.
Quale natura assegnare agli oneri di urbanizzazione?
Acclarato, sulla scorta dei chiarimenti di Arconet, che i proventi dell'attività edilizia non sono vincolati di cassa, occorre stabilire se per questi oneri sussista comunque un vincolo di competenza e come tali debbano essere allocati tra i fondi vincolati da leggi e principi contabili del risultato di amministrazione oppure tra i fondi destinati.
A favore della prima soluzione depone la considerazione secondo cui il comma 460 della legge 232/2016 ha sottratto tali entrate dalla loro generica destinazione per spese di investimento, imponendo che siano utilizzate per una categoria più ristretta di spese che abbraccia non sono le spese in conto capitale ma anche le spese correnti.
Va rilevato, a onor del vero, che questa categoria di entrate rappresenta una via intermedia tra i fondi vincolati a spese ben individuate (spese finanziate da mutuo o da contributo), per le quali i principi contabili hanno introdotto percorsi privilegiati di utilizzo e i fondi destinati a spese generiche di investimento, il cui impiego viene assimilato ai fondi liberi, stante anche l'assenza di un obbligo di rendicontazione.
Allocare tali entrate nei fondi destinati del risultato di amministrazione, però, risulterebbe non conforme al disposto normativo, nella misura in cui gli enti diventerebbero liberi di utilizzarle per tutto il genus degli investimenti (anche autovetture o computer, non ammessi dal comma 460) e, inoltre, non potrebbero essere utilizzati per finanziare le spese correnti come la manutenzione ordinaria delle urbanizzazioni primarie e secondarie. Nei fondi vincolati quindi dovranno confluire non solo i proventi accertati nel 2018 e non utilizzati, ma anche i proventi che residuano dalle gestioni precedenti. Il comma 460 infatti non esalta il momento dell'accertamento dell'entrata quanto piuttosto la sua destinazione, con ciò attraendo nella nuova disciplina anche tutte le somme non spese alla data del 31.12.2017.
Si auspica, quindi, che per tutti i casi in cui la legge vincola l'utilizzo di entrate a spese generiche il legislatore chiarisca se l'ente potrà utilizzarli alla stregua delle quote di mutuo o di contributo confluite in avanzo, stante l'assenza di scadenze o di rendicontazioni che non ne giustificano l'utilizzo tempestivo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.03.2019).

URBANISTICAUrbanistica, utopia liberalizzazioni.
È dal 2011 (Dl Salva Italia) che il legislatore italiano ha espressamente codificato l'obbligo di abrogazione o non applicazione delle norme sia di legge che di regolamenti locali che vietano o limitano la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio. Fanno eccezione solo le dimostrate esigenze di tutela della salute o dell'ambiente o dei beni culturali. Gli enti locali e le regioni avevano 90 giorni di tempo per adeguare le loro normative a questo principio che trae origine dalla Direttiva Bolkestein recepita nel 2010. E nel 2012 questa esigenza di liberalizzazione è stata estesa a tutte le iniziative economiche.

Nel rispetto dell'art. 41 della Costituzione l'art. 1 della legge 27/2012 ha espressamente abrogato tutte le norme che pongono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell'amministrazione o pongono divieti o restrizioni per avviare un'attività economica. Tutte le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale che pongono limiti, o ritardi, programmi e controlli non ragionevoli o comunque non proporzionati rispetto ad eventuali e particolari finalità pubbliche, sono abrogate, per cui per legge non possono essere applicate.
Ma è costante, invece, il mantenimento di tali norme negli atti programmatori della disciplina urbanistica locale se non addirittura in norme regionali, per cui ogni volta l'operatore deve misurarsi con l'ente locale e richiamare questa liberalizzazione se non addirittura fare intervenire il giudice amministrativo, che si è già pronunciato più volte, ribadendo la necessità di rispettare tali principi.
Il ritardo che troppo spesso le amministrazioni locali determinano a causa di questi ostacoli normativi in contrasto con la legge creano certamente un danno economico all'operatore privato (sia industriale che commerciale), poiché i divieti abrogati riguardano tutto il panorama riferito alla libertà di iniziativa economica.
È diritto, pertanto, del privato ingiustamente penalizzato chiedere al giudice anche il risarcimento del danno, poiché l'amministrazione locale che ritarda o impedisce nuove aperture di attività, se non lo giustifica entro i pochi stretti limiti indicati dalle normative che hanno sancito la liberalizzazione, viola la legge per cui il privato ha la possibilità di ottenere il conseguente risarcimento (articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).

ENTI LOCALIBilancio, parere dei revisori obbligatorio anche per le variazioni urgenti.
Secondo i principi di revisione e controllo degli organi di revisione degli enti locali licenziati definitivamente dal Cndcec il 22 febbraio scorso (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 28 febbraio, del 1° marzo, del 4 marzo e del 5 marzo), gli enti locali devono acquisire preventivamente il parere dell'organo di revisione sulla proposta di deliberazione della giunta comunale di variazione d'urgenza al bilancio di previsione.
Le variazioni d'urgenza al bilancio
L'articolo 175, comma 4 del Tuel attribuisce alla giunta comunale, in via del tutto eccezionale, la facoltà di approvare variazioni d'urgenza al bilancio di previsione che normalmente ricadono nella competenza dell'organo consiliare, il quale è chiamato a ratificare la variazione entro 60 giorni e comunque entro il 31 dicembre dell'esercizio. Con l'avvento dell'armonizzazione contabile l'esercizio del potere surrogatorio da parte della giunta deve essere debitamente motivato, al fine di scongiurare un indebito svuotamento delle funzioni poste in capo al consiglio.
Le ragioni d'urgenza che rendono necessario procedere senza indugio, quindi, devono essere evidenziate nella delibera e sono decisive per garantire legittimità alla variazione. Mentre non vi sono dubbi sulla necessità di acquisire il parere dell'organo di revisione sulla variazione di bilancio (articolo 239, comma 1, lettera b.2, del Tuel) rimane incerto il momento in cui occorre acquisire il parere sulle variazioni d'urgenza: se sulla proposta di giunta ovvero sulla proposta consiliare di ratifica. In assenza di una espressa previsione normativa, sul punto si registrano posizioni divergenti.
Secondo la Corte dei conti Abruzzo (delibera n. 347/2010) tale parere deve essere espresso sulla delibera di giunta in ragione del «concomitante interesse pubblico alla corretta e completa istruttoria del percorso formativo della proposta deliberativa che il predisponente (assessore e/o sindaco) sottopone all'attenzione della Giunta comunale».
Di avviso contrario il ministero dell'Interno che, con la risoluzione n. 6741/1995, ha invece ritenuto che il parere possa essere acquisito sulla proposta consiliare di ratifica della variazione, in considerazione sia delle ragioni d'urgenza della variazione che del fatto che l'organo di revisione opera a supporto dell'attività del Consiglio. La prassi più diffusa tra gli enti è quella che di acquisire il parere sulla proposta di consiglio, in quanto i tempi per la sua acquisizione contrastano con l'urgenza della decisione.
La posizione del Cndcec
Confermando la posizione già espressa con i precedenti principi di revisione del 2016, il documento n. 2 dedicato alle funzioni dell'organo di revisione: attività di collaborazione, pareri obbligatori e vigilanza prevede che il parere dell'organo di revisione sia espresso obbligatoriamente sulla proposta di variazione al bilancio adottata dalla giunta per motivi d'urgenza.
L'anticipo del vaglio di legittimità da parte dei revisori appare funzionale a verificare la sussistenza delle ragioni d'urgenza che rendono necessario il ricorso al potere surrogatorio e ad accertare il rispetto degli equilibri finanziari nonché la rispondenza della variazione all'ordinamento contabile. Verifiche che, se poste a valle della variazione (quando questa viene sottoposta a ratifica da parte del Consiglio), finirebbero per essere attenuate dal fatto che eventuali rilievi non potrebbero che condurre una mancata ratifica dell'atto ma non alla sua modifica, con tutte le conseguenze del caso.
D'altro canto, l'obbligo di acquisire il parere dell'organo di revisione mal si concilia con l'urgenza della variazione. Risulterà quindi opportuno concordare con l'organo di revisione i tempi per il rilascio del parere, affiché questo venga espresso con immediatezza. La tempistica potrà essere disciplinata nel regolamento di contabilità ovvero nel disciplinare di incarico. Solo in questo modo sarà possibile ottemperare alle prescrizioni dei principi di revisione e nel contempo conciliare le esigenze di funzionalità dell'ente.
Riaccertamento parziale
Sempre in tema di variazioni, vale la pena evidenziare come i principi di revisione attribuiscano alla competenza del responsabile finanziario il riaccertamento parziale dei residui anche in esercizio provvisorio. Il punto 9.2 del principio contabile allegato 4/2 al Dlgs 118/2011 in proposito si presta ad una duplice interpretazione, rendendo plausibile anche la lettura che attribuisce la competenza del riaccertamento parziale in esercizio provvisorio alla giunta comunale.
In entrambi i casi è necessario acquisire il parere preventivo dell'organo di revisione economico finanziario (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.03.2019).

EDILIZIA PRIVATA - VARICase in costruzione, più tutele. Preliminare per atto pubblico o scrittura autenticata.  Il Codice della crisi introduce garanzie per gli acquirenti delle future unità immobiliari.
Maggiori tutele per gli acquisti degli immobili «su carta».
Con la pubblicazione in G.U. (So) n. 38 del 14 febbraio del dlgs n. 14 del 12.01.2019, recante il c.d. «Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza», sono operative alcune modifiche apportate dagli articoli 385 e seguenti al dlgs n. 122/2005, con il quale erano state introdotte una serie di garanzie a beneficio degli acquirenti di unità immobiliari ancora da costruire.
Le novità saranno applicabili ai contratti relativi a immobili da costruire per i quali il titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16.03.2019, data di entrata in vigore del dlgs n. 14/2019.
Inoltre, con appositi decreti da adottarsi entro 90 giorni da tale data, dovranno essere definiti i modelli standard di fideiussione e polizza assicurativa decennale (fino a quel momento il contenuto di detti atti dovrà essere determinato contrattualmente dalle parti nel rispetto di quanto previsto dalle nuove disposizioni di legge). Ma vediamo di capire meglio cosa cambierà.
Il contenuto del contratto preliminare. Il contratto preliminare con cui una persona fisica si impegna ad acquistare la proprietà o altro diritto reale su un immobile in costruzione dovrà essere stipulato per atto pubblico o scrittura privata autenticata. Si tratta di una delle più importanti novità introdotte dal dlgs n. 14/2019 a tutela dell'acquirente, diventando così necessario operare la redazione del contratto dinanzi a un notaio che potrà quindi esercitare un doveroso controllo in merito alla sussistenza della fideiussione e della polizza assicurativa decennale, come si dirà a breve.
Per il resto, il contenuto minimo del preliminare, dovrà comprendere le indicazioni previste agli articoli 2659, primo comma, n. 1), e 2826 del codice civile, la descrizione dell'immobile e di tutte le sue pertinenze di uso esclusivo, gli estremi di eventuali atti d'obbligo e convenzioni urbanistiche stipulati per l'ottenimento dei titoli abilitativi alla costruzione e l'elencazione dei vincoli previsti, le caratteristiche tecniche della costruzione, con particolare riferimento alla struttura portante, alle fondazioni, alle tamponature, ai solai, alla copertura, agli infissi e agli impianti, i termini massimi di esecuzione della costruzione, anche eventualmente correlati alle varie fasi di lavorazione, l'indicazione del prezzo complessivo da corrispondersi in denaro o il valore di ogni altro eventuale corrispettivo, i termini e le modalità per il suo pagamento, la specificazione dell'importo di eventuali somme a titolo di caparra (le modalità di corresponsione del prezzo devono essere rappresentate da bonifici bancari o versamenti diretti su conti correnti bancari o postali indicati dalla parte venditrice e alla stessa intestati o da altre forme che siano comunque in grado di assicurare la prova certa dell'avvenuto pagamento), gli estremi della fideiussione e l'attestazione della sua conformità al modello che sarà individuato con un futuro decreto ministeriale, l'eventuale esistenza di ipoteche o trascrizioni pregiudizievoli di qualsiasi tipo sull'immobile con la specificazione del relativo ammontare, del soggetto a cui favore risultano e del titolo dal quale derivano, nonché la pattuizione espressa degli obblighi del costruttore a esse connessi e, in particolare, se tali obblighi debbano essere adempiuti prima o dopo la stipula del contratto definitivo di vendita, gli estremi del permesso di costruire o della sua richiesta se non ancora rilasciato, nonché di ogni altro titolo, denuncia o provvedimento abilitativo alla costruzione, l'eventuale indicazione dell'esistenza di imprese appaltatrici, con la specificazione dei relativi dati identificativi.
La fideiussione. L'obbligo del rilascio di una fideiussione a carico dell'impresa costruttrice (art. 3 dlgs 122/05) è finalizzato a garantire la restituzione all'acquirente delle somme versate (generalmente in acconto) e dei relativi interessi legali maturati nel caso in cui si verifichi una situazione di crisi a carico della stessa, ovvero in ipotesi di trascrizione del pignoramento relativo all'immobile oggetto del contratto, di pubblicazione della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, di presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o di pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato di insolvenza o, se anteriore, del decreto che dispone la liquidazione coatta amministrativa o l'amministrazione straordinaria.
La fideiussione, che in precedenza poteva essere rilasciata anche da intermediari finanziari iscritti nell'elenco di cui all'art. 107 Tub, potrà ora provenire solo da banche e assicurazioni. Inoltre la stessa garantirà l'acquirente, oltre che nelle ipotesi indicate in precedenza, anche ove l'impresa costruttrice sia stata inadempiente all'ulteriore obbligo di rilascio della polizza assicurativa decennale sull'immobile prevista dall'art. 4 del dlgs n. 122/2005.
In relazione a questa eventualità è stato specificamente previsto che la fideiussione potrà essere escussa a decorrere dalla data dell'attestazione del notaio di non aver ricevuto per la data dell'atto di trasferimento della proprietà la polizza assicurativa in questione e a condizione che l'acquirente abbia espresso al costruttore la volontà di recedere dal contratto. Il ministero della giustizia è stato poi onerato ad adottare un decreto, di concerto con il ministero dell'economia e delle finanze ed entro 90 giorni dall'entrata in vigore del decreto legislativo, per determinare il modello standard di fideiussione da utilizzare ai fini di cui sopra.
L'assicurazione sull'immobile. L'art. 4 del dlgs n. 122/2005 prevede per il costruttore l'obbligo di consegnare all'acquirente all'atto del trasferimento della proprietà una polizza assicurativa indennitaria decennale e con effetto dalla data di ultimazione dei lavori a copertura dei danni materiali e diretti all'immobile, compresi i danni ai terzi, ai quali sia tenuto ai sensi dell'art. 1669 c.c., derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, e comunque manifestatisi successivamente alla stipula del contratto definitivo di compravendita o di assegnazione (in caso di cooperative edilizie).
Il dlgs n. 14/2019 interviene sulla disposizione in questione sancendo in primo luogo la nullità dell'atto di trasferimento della proprietà in caso di mancata consegna della predetta polizza assicurativa.
Trattasi di una nullità relativa c.d. di protezione, nel senso che può essere azionata soltanto dall'acquirente, nel cui interesse detta sanzione è disposta. Sarà quindi quest'ultimo, in caso di assenza della polizza, a decidere se porre nel nulla il contratto, con conseguente diritto alla restituzione delle somme versate a titolo di prezzo. Anche in questo caso, con decreto del ministro dello sviluppo economico, da adottarsi entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del dlgs n. 14/2019, di concerto con il ministero della giustizia e con il ministero dell'economia e delle finanze, saranno definiti il contenuto e le caratteristiche minime della polizza assicurativa e il relativo modello standard.
Vengono quindi aggiunti due ulteriori commi al predetto art. 4 del dlgs n. 122/2005, rispettivamente i commi 1-ter e 1-quater. Nel primo di essi è previsto che in caso di inadempimento dell'obbligo di consegna dell'assicurazione al momento del trasferimento della proprietà dell'immobile l'acquirente che abbia comunicato al costruttore la volontà di recedere dal contratto possa escutere la fideiussione.
Nell'ulteriore comma aggiunto è invece stabilito che nell'atto di trasferimento della proprietà debbano essere indicati gli estremi identificativi della polizza assicurativa e della sua conformità al contenuto minimo che, come detto, sarà stabilito con decreto ministeriale. Soltanto a questa condizione, come previsto dal nuovo comma 7 dell'art. 3 del dlgs n. 122/2005, l'efficacia della fideiussione si intenderà cessata nel momenti in cui il fideiussore riceverà dal costruttore o da un altro dei contraenti copia dell'atto di trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento sull'immobile o dell'atto definitivo di assegnazione
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIAMud 2019, più dati alle Cciaa. Per presentare la dichiarazione c’è tempo fino al 22/6. Pubblicato in G.U. il modello unico annuale per le eco-informazioni di enti e imprese.
Più tempo a enti e imprese per presentare alle Camere di commercio la dichiarazione ambientale Mud 2019, che potrà essere inoltrata fino al 22 giugno in luogo della rituale e più stretta scadenza del 30 aprile, ma con l'obbligo di fornire rispetto alla scorsa edizione maggiori informazioni sui rifiuti prodotti o gestiti nel 2018.
A far slittare, ex lege istitutiva 70/1994, i termini per la dichiarazione verde è la pubblicazione avvenuta solo lo scorso 22.02.2019 (dunque ad anno nuovo già iniziato) del decreto recante neo modulistica e istruzioni che produttori/gestori di rifiuti nonché fabbricanti di alcuni beni a potenziale impatto ambientale devono utilizzare per denunciare residui/materiali generati o trattati nell'anno precedente. Ad imporre invece la maggiore analiticità dei dati da comunicare alle Cciaa è il tenore dello stesso nuovo decreto, il dpcm 24.12.2018, recante in attuazione della legge del 1994 l'«Approvazione del modello unico di dichiarazione ambientale (Mud) per l'anno 2019».
Termini di presentazione. La legge 70/1994 fissa il termine di presentazione del Mud nel 30 aprile di ogni anno. In base alla stessa legge, eventuali modifiche al modello unico in vigore possono essere introdotte anche nello stesso anno della sua presentazione, ma solo mediante decreto da pubblicarsi in G.U. entro il 1° marzo e con l'effetto di spostare in avanti la dead-line dell'adempimento di 120 giorni a decorrere da tale pubblicazione. Essendo il dpcm 24.12.2018 stato pubblicato sul Supplemento ordinario n. 8 alla G.U. 22.02.2019 n. 45 il termine finale di presentazione è dunque ex lege posticipato al 22.06.2019.
Soggetti obbligati. Il novero dei soggetti tenuti ad effettuare il Mud è plasmato dal nuovo Dpcm 24.12.2018 sulle sei sezioni che scandiscono il modello unico di dichiarazione, ossia: «comunicazione rifiuti», «veicoli fuori uso», «imballaggi», «Raee», «rifiuti urbani», «Aee» (si veda la tabella riportata in questa pagina).
Obbligati alla comunicazione rifiuti sono in primo luogo i produttori e i gestori di rifiuti individuati dall'articolo 189, comma 3, del dlgs 152/2006, che il nuovo dpcm 24.12.2018 conferma doversi applicare nella sua versione precedente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010 (essendo queste ultime state abrogate dal dl 135/2018, si veda ItaliaOggi Sette dell'11/02/2019).
Alla comunicazione rifiuti sono altresì tenuti gli impianti portuali di raccolta ed i gestori del servizio di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi individuati dal dlgs 182/2003.
Sono invece esentati dalla comunicazione rifiuti le imprese agricole e gli operatori del settore servizi alla persona (tra cui parrucchieri e tatuatori) identificati dai codici Ateco contemplati dall'articolo 69 della legge 221/2015.
Tenuti alla comunicazione veicoli fuori uso sono i soggetti che gestiscono i rifiuti dei mezzi di trasporto che rientrano nel campo di applicazione del dlgs 209/2003, mentre i residui degli analoghi beni rientranti nel dlgs 152/2006 devono essere dichiarati nella summenzionata comunicazione rifiuti.
La comunicazione imballaggi interessa il relativo sistema consortile e i gestori di impianti di rifiuti di imballaggio individuati dal dlgs 152/2006. La comunicazione Raee è invece appannaggio degli impianti di trattamento rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche individuati dal dlgs 49/2014, mentre i tecno-residui da tale decreto non contemplati devono esse oggetto della comunicazione rifiuti ex dlgs 152/2006.
La comunicazione rifiuti urbani, assimilati e raccolti in convenzione riguarda i soggetti istituzionali responsabili ex articolo 189, comma 5, del dlgs 152/2006 del servizio di gestione integrata rifiuti.
Obbligati alla comunicazione Aee sono infine i produttori e venditori di apparecchiature elettriche ed elettroniche con proprio marchio, nonché i rivenditori con proprio marchio di apparecchiature altrui individuati dal dlgs 49/2014.
Novità 2019. Il Mud 2019 impone una maggiore analiticità delle informazioni da comunicare. A livello generale, tutti i gestori di rifiuti dovranno sempre indicare la specifica tipologia di trattamento cui sono stati sottoposti i rifiuti ricevuti dall'estero.
A livello particolare, invece, nella comunicazione rifiuti sono inoltre richieste: a recuperatori e smaltitori di alcuni rifiuti (tra cui quelli da trattamento meccanico di altri residui, compost fuori specifica) la relativa dichiarazione di origine (urbana o non); ai gestori di rifiuti di pile e accumulatori, l'indicazione della derivazione da beni portabili o meno.
Nella comunicazione imballaggi, gli impianti interessati dovranno (tra le altre) indicare in via separata le quantità di rifiuti prodotte da beni rispettivamente mono e multi-materiale.
Nella comunicazione Raee trovano collocazione le due nuove categorie dedicate a pannelli fotovoltaici e lampade a scarica, per le quali occorrerà indicare le informazioni richieste.
Nella comunicazione rifiuti urbani nuove informazioni sono richieste in relazione ai rifiuti avviati ai diversi tipi di compostaggio.
Una stretta arriva infine per la comunicazione rifiuti in semplificata: la modalità che consente ai piccoli produttori di rifiuti di inviare a mezzo posta elettronica certificata un documento «pdf» del Modello, in luogo della trasmissione telematica previa interlocuzione con il relativo portale web, non potrà essere utilizzata da chi ha spedito oltre confine i residui
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019).

ENTI LOCALIEventi privati, costi-sicurezza dei Comuni sempre a carico degli organizzatori.
Le istruzioni dell'Anci sul regolamento necessario ad attuare la norma. Vanno applicate le tariffe del lavoro ordinario o extra e regolati esenzioni e sconti.
I costi aggiuntivi che i Comuni devono sostenere per garantire la presenza di vigili alle manifestazioni di privati devono sempre essere posti a carico dei soggetti organizzatori; questi oneri devono essere quantificati sulla base delle tariffe di lavoro ordinario o straordinario, a seconda dell’impegno richiesto.
È necessario che le amministrazioni municipali provvedano preventivamente a disciplinare l'ambito di applicazione, i casi di esenzione o riduzione del corrispettivo, le modalità di quantificazione degli oneri, le regole procedurali.
Lo spiega l'Anci in un nuovo Quaderno con le istruzioni operative per attuare la norma introdotta dall'articolo 22 del Dl 50/2017. Nelle indicazioni dell' Anci, la competenza alla approvazione del regolamento è della giunta. Oltre all'approvazione del regolamento, condizione per l'erogazione di questo compenso è l'adozione di una disciplina nell'ambito del contratto collettivo decentrato integrativo.
Le amministrazioni locali devono procedere alla quantificazione presuntiva dei costi che derivano dall' assegnazione del proprio personale di vigilanza allo svolgimento delle attività necessarie per le manifestazioni organizzate da privati.
A questo fine è necessario che il comando di polizia locale proceda alla definizione di un progetto ad hoc, in cui quantificare i costi aggiuntivi che l'ente è chiamato a sostenere.
Per il personale questi costi aggiuntivi vanno determinati sulla base del costo orario globale, per come evidenziato dalla deliberazione della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti dell' Emilia Romagna 123 del 15.10.2018.
A questi costi vanno aggiunti quelli necessari per sostenere gli altri oneri che il Comune è chiamato a sopportare, dalle spese di carburante degli automezzi da utilizzare, ai costi organizzativi. Il regolamento targato Anci evidenzia l'opportunità che i privati forniscano adeguate garanzie al Comune sull' effettivo pagamento di quanto stabilito dall'ente, o versando un acconto o attraverso una cauzione.
Al termine della manifestazione, il comando della polizia municipale quantificherà gli oneri effettivamente sostenuti dall'ente e li comunicherà al privato, assegnandogli un termine per versamento.
Ai vigili che sono impegnati al di là del proprio orario di lavoro, sulla scorta delle previsioni dell' articolo 56-ter del contratto nazionale del 21.05.2018, spetta un compenso che deve essere calcolato con le tariffe del lavoro straordinario, comprese le maggiorazioni per il lavoro notturno o quello festivo oppure per il notturno festivo. Mentre nel caso di svolgimento di queste attività nell'ambito del normale orario di lavoro non devono essere versati compensi aggiuntivi ai vigili.
Le ore aggiuntive non entrano nel tetto del fondo per il lavoro straordinario, e si deve ritenere che vadano anche al di fuori del tetto delle risorse per il salario accessorio in quanto finanziate interamente da privati e perché questi compensi possono essere erogati solamente ai vigili e non a tutto il personale.
Occorre ricordare inoltre che anche i vigili che sono titolari di posizione organizzativa hanno diritto, per esplicita previsione contrattuale, ricevere questi compensi in deroga al principio dell' onnicomprensività delle indennità di posizione e di risultato. I vigili possono, nell'ambito di queste manifestazioni, essere impegnati esclusivamente per le attività connesse alla sicurezza e alla polizia stradale (articolo Il Sole 24 Ore del 04.02.2019).

TRIBUTIComodato formato extralarge. Agevolazione Imu e Tasi per l'immobile estesa al coniuge. Lo prevede la legge di Bilancio in caso di decesso del comodatario e se ci sono figli.
Benefici fiscali anche per il coniuge del comodatario. La manovra di bilancio, infatti, per l'immobile concesso in comodato gratuito, estende l'agevolazione Imu e Tasi al coniuge del comodatario in caso di morte dello stesso, ma solo se vi è la presenza di figli minori.
La novità è contenuta nell'articolo 1, comma 1092, della legge di bilancio 2019. In esso viene richiamata la norma che disciplina l'Imu, la quale riconosce per gli immobili dati in comodato la riduzione al 50% della base imponibile.
Il trattamento agevolato si applica anche alla Tasi, considerato che per i due tributi l'imponibile si calcola nello stesso modo. Il legislatore ha integrato la disposizione contenuta nell'articolo 13 del dl 201/20011, estendendo l'agevolazione al coniuge del comodatario qualora vi sia la presenza di figli minori.
Regole e adempimenti per fruire del beneficio. L'articolo 13 sopra citato, per gli immobili concessi in comodato dal titolare ai parenti in linea retta entro il primo grado, utilizzati come abitazione principale, prevede una riduzione della base imponibile al 50%. Sono escluse le unità immobiliari classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9.
 È richiesto che il contratto sia registrato e che il comodante, oltre all'immobile adibito a propria abitazione principale, possieda un solo immobile in Italia, risieda anagraficamente e dimori abitualmente nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in comodato. Occorre, inoltre, che il titolare attesti il possesso dei requisiti nel modello di dichiarazione da inviare al comune. Del resto, la dichiarazione deve essere sempre presentata per gli immobili relativamente ai quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini della determinazione dell'imposta dovuta e del soggetto obbligato al pagamento.
Per esempio, anche gli enti non commerciali che sono stati esonerati fino al 2011 dall'obbligo di presentare la dichiarazione Ici, sono invece tenuti a denunciare ai comuni gli immobili posseduti per l'Imu. Non è più applicabile l'articolo 10 della normativa Ici (decreto legislativo 504/1992), che escludeva dall'obbligo dichiarativo gli immobili esenti.
Dichiarazione: obbligati ed esonerati. Bisogna ricordare che c'è un termine unico per le dichiarazioni Imu, Tasi e Tari. Devono infatti essere presentate entro il 30 giugno dell'anno successivo alla data di inizio del possesso o della detenzione di locali e aree. Nel caso di occupazione in comune di un immobile, la dichiarazione può essere presentata solo da uno degli obbligati.
Per la Tari restano ferme le superfici già dichiarate per Tarsu, Tia1, Tia2 e Tares. All'imposta sui servizi indivisibili, invece, si applicano le stesse regole stabilite per l'imposta municipale. Anche per la Tasi, dunque, la dichiarazione non va presentata se gli elementi rilevanti sono acquisibili attraverso la consultazione della banca dati catastale o gli enti sono già in possesso delle informazioni necessarie per verificare il corretto adempimento dell'obbligazione tributaria.
Per la dichiarazione Tasi può essere utilizzato lo stesso modello già approvato per l'Imu. Il dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia, con la circolare 2/2015, ha sostenuto che per l'imposta sui servizi non serve un modello di dichiarazione ad hoc e che i comuni in molti casi già dispongono delle informazioni necessarie per effettuare i controlli e gli accertamenti sui due tributi, nonostante siano diversi i soggetti passivi, vale a dire proprietari, inquilini, comodatari. Le dichiarazioni sono ultrattive e producono effetti anche per gli anni successivi se i contribuenti non devono denunciare modifiche intervenute sulla loro posizione soggettiva, anche per quanto concerne il diritto a fruire delle agevolazioni fiscali.
In questi termini si è espresso il dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia (risoluzione 3/2018) in merito all'esenzione dall'imposta municipale sui terreni, che spetta a coltivatori diretti e imprenditori agricoli in presenza dei requisiti di legge. Una volta stabilito, come evidenziato dal Ministero, che la dichiarazione deve essere ripresentata solo in presenza di variazioni, va sottolineato che l'adempimento va posto in essere nel caso in cui l'interessato intenda fruire di esenzioni o riduzioni d'imposta. Ecco perché la dichiarazione va presentata per avere diritto alla riduzione della base imponibile Imu e Tasi al 50% per i fabbricati concessi in comodato. Sono tenuti a osservare l'obbligo di presentare la dichiarazione i titolari di fabbricati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, coloro che possiedono immobili di interesse storico o artistico.
Inoltre, vanno denunciati tutti i casi in cui l'amministrazione comunale non possiede le notizie utili per verificare la correttezza dell'operato dei contribuenti. Tra i casi più significativi, l'adempimento è richiesto quando: l'immobile ha formato oggetto di locazione finanziaria o di un atto di concessione amministrativa su aree demaniali; l'immobile viene concesso in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in seguito alla demolizione di un fabbricato.
Obblighi dichiarativi e interpretazioni dei giudici. I giudici tributari vanno in ordine sparso sul riconoscimento dei benefici per le imposte locali, in caso di mancata comunicazione all'amministrazione comunale delle informazioni necessarie.
La commissione tributaria regionale di Palermo, sezione XIV, con la sentenza 2804 del 09.07.2018, in controtendenza rispetto ad altri giudici di merito, ha stabilito che il contribuente non ha diritto a fruire delle agevolazioni se non dichiara al comune che l'immobile è stato concesso in comodato gratuito al figlio.
Il mancato adempimento dell'obbligo imposto dal regolamento comunale esclude che il contribuente possa averne diritto. È necessario che il contribuente informi il comune che l'immobile è stato dato in comodato al figlio. Per i giudici d'appello, «sulla scorta del regolamento comunale la contribuente era tenuta a comunicare la concessione dell'immobile in comodato gratuito al figlio, non risultando che l'ente fosse a conoscenza di tale circostanza».
In senso contrario, invece, si è espressa la commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia (sentenza 93/2018), che ha ritenuto irrilevante l'omessa dichiarazione per l'immobile affittato a canone concordato. In particolare, ha precisato che i rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuenti devono essere improntati al principio della collaborazione e della buona fede.
Ha affermato che non può essere negata l'aliquota ridotta Imu per un immobile affittato a canone concordato solo perché l'interessato non ha inviato all'amministrazione un'apposita comunicazione con gli estremi del contratto, prevista dal regolamento comunale, entro il termine fissato. Com'è noto, la legge prevede uno sconto Imu del 25% per gli immobili locati a canone concertato.
Per il giudice tributario, l'omessa dichiarazione non può far venir meno il diritto alla riduzione dell'aliquota, in quanto gli atti erano stati regolarmente registrati presso l'Agenzia delle entrate e l'amministrazione ne era a conoscenza, poiché le informazioni sul patrimonio immobiliare sono acquisibili dalla banca dati catastale.
Lo stesso principio dovrebbe valere per gli immobili dati in uso gratuito, la cui destinazione di fatto potrebbe essere accertata attraverso la residenza anagrafica. Anche se, ex lege, normalmente è imposto di presentare la dichiarazione qualora si vanti il diritto a fruire di un trattamento agevolato.
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Mef: conta la data di conclusione.
Secondo il Ministero dell'economia e delle finanze (nota 8876/2016), per il contratto di comodato d'uso verbale non conta la data di registrazione, ma quella di conclusione del contratto stesso per poter fruire delle agevolazioni fiscali. La riduzione al 50% della base imponibile Imu e Tasi in caso di concessione in comodato di un immobile a un parente in linea retta entro il primo grado, che lo utilizzi come abitazione principale, decorre dalla conclusione del contratto, a prescindere dalla data di registrazione del contratto verbale.
Ha inoltre precisato che non c'è un termine per la registrazione del contratto di comodato verbale. L'obbligo di registrazione del contratto per avere diritto alla riduzione del tributo, in effetti, è un adempimento che risulta eccessivo. Sarebbe stato sufficiente richiedere una scrittura privata autenticata, per assicurare la certezza della data di decorrenza del contratto e, per l'effetto, dell'agevolazione (articolo ItaliaOggi Sette del 21.01.2019).

URBANISTICAEdilizia, convenzioni svincolate. Ampliata la platea dei soggetti legittimati agli accordi. Il Consiglio nazionale del notariato prende in esame le novità retroattive del dl 119/2018.
Colpo di spugna sull'edilizia convenzionata. Con la conversione in legge del dl n. 119/2018, collegato fiscale alla legge di bilancio, sono state introdotte con efficacia retroattiva una serie di modifiche alla disciplina delle convenzioni in diritto di superficie e di proprietà stipulate dai privati con i comuni.
Viene infatti ampliata la platea dei soggetti che possono ricorrere a tale strumento e, soprattutto, viene per così dire sgonfiato il contenzioso in essere per le pretese risarcitorie avanzate da quanti abbiano acquistato detti immobili a prezzo di mercato, invece che a quello calmierato imposto dalla legge.
Basterà che il vecchio proprietario stipuli con il comune una convenzione per la rimozione dei vincoli legali per azzerare qualsiasi pretesa degli acquirenti alla restituzione del maggior prezzo. Le novità in questione sono state approfondite in un recente studio del Consiglio nazionale del notariato.
L'ambito di applicazione della nuova normativa. L'art. 25-undecies della legge n. 136/2018, entrata in vigore il 19.12.2018, di conversione del dl n. 119/2018, contenente disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria, ha apportato una serie di modifiche all'art. 31, commi 49-bis e seguenti, della legge n. 448/1998, relativi alle convenzioni in diritto di superficie e in diritto di proprietà, stipulate in base all'art. 35 della legge n. 865/1971.
Come anticipato viene quindi ampliata la platea dei soggetti che possono ricorrere alla stipulazione delle convenzioni (per atto pubblico e, ora, anche con scrittura privata autenticata), per la rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione degli immobili.
I soggetti legittimati sono ora le persone fisiche che vi abbiano interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul bene immobile (la precedente disposizione parlava dei singoli proprietari dell'unità immobiliare). Ne consegue che l'eliminazione del vincolo, purché siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, può essere ottenuta anche dal soggetto che non sia più proprietario dell'alloggio.
Deve però trattarsi di una persona fisica (quindi sono escluse le società) che, in passato, sia stata titolare di diritti reali sul bene. Il Notariato ritiene che la richiesta possa provenire anche dal soggetto che, pur non essendo l'ultimo venditore, si collochi comunque all'interno della catena dei trasferimenti immobiliari, anche a seguito di vicende successorie.
Dal punto di vista oggettivo, come spiegato dal Notariato, la predetta disciplina retroattiva si applica indistintamente a tutte le convenzioni stipulate in passato. Il dubbio maggiore riguarderebbe infatti le convenzioni in diritto di proprietà stipulate dopo il 01.01.1997, per le quali il vincolo alla circolazione dell'alloggio sarebbe quello previsto dalla c.d. legge Bucalossi, nel testo attualmente previsto dalla legge n. 865/71, come modificato dalla legge n. 662/96.
Dopo questa legge, infatti, il costruttore che intenda stipulare con il comune una convenzione in diritto di proprietà, deve utilizzare uno schema nel quale è richiesto di indicare il prezzo massimo di cessione degli alloggi realizzati. La sanzione prevista nell'ultimo comma di questa norma è la nullità della pattuizione stipulata in misura eccedente il prezzo massimo.
Ora, il limite temporale del 15.03.1992 indicato nel vecchio comma 49-bis della legge n. 448/1998, aveva fatto sorgere il dubbio se per le convenzioni in proprietà stipulate dopo il primo gennaio 1997 fosse possibile la rimozione del vincolo sul prezzo massimo di cessione. Secondo il Notariato, con l'eliminazione del predetto limite temporale, il legislatore sembra aver dato un segnale a favore dell'estensione della facoltà di rimozione del vincolo sul prezzo massimo di cessione anche per quest'ultimo tipo di convenzioni.
Se si aderisce a questa interpretazione, a seguito della modifica del comma 49-bis, il comma 49-ter della legge n. 448/1998 assume un nuovo e più ampio significato, potendo ora essere utilizzato per rimuovere i limiti sul prezzo di cessione contenuti nelle convenzioni di cui all'art. 18 del Testo unico dell'edilizia nate come tali e nelle convenzioni in proprietà stipulate nella forma della convenzione ex art. 18 T.U. edilizia dopo l'01.01.1997.
Gli effetti pratici. La rimozione dei vincoli da parte del venditore, rendendo il bene liberamente alienabile a prezzi di mercato, porta quindi a escludere la sussistenza di un danno in capo al nuovo proprietario per l'eventuale differenza di prezzo. Lo scopo della norma è quindi quello di prevenire le pretese restitutorie degli acquirenti nei confronti dei venditori ai quali sia stato corrisposto un prezzo superiore a quello vincolato.
La nuova disciplina, applicandosi anche agli atti traslativi stipulati prima dell'entrata in vigore della legge n. 136/2018, avvenuta lo scorso 19.12.2018, è indubbiamente retroattiva. L'intento è quindi quello, da una parte, di produrre un effetto deflattivo sui giudizi in corso e, dall'altra, prevenire nuove richieste restitutorie da parte degli acquirenti.
Il Notariato ha comunque evidenziato l'infelice formulazione del nuovo comma 49-quater aggiunto all'art. 31 della legge n. 448/98, giudicandolo di oscuro significato. Sia per la parte in cui si accenna alla rimozione di qualsiasi vincolo di natura soggettiva che deriverebbe dal venir meno del vincolo sul prezzo massimo di cessione. Sia per quella in cui si sancisce che l'efficacia della differenza di prezzo pagata in eccedenza dal compratore, non produrrebbe effetti fino al momento in cui non fosse stata attivata la procedura per la rimozione del vincolo sul prezzo.
La norma, secondo il centro studio del Consiglio nazionale del notariato, sembra in ogni caso avere più una portata processuale che sostanziale, prevedendo che la stipula della convenzione di rimozione dei vincoli (anche successiva alla vendita) determini l'estinzione di ogni pretesa risarcitoria della differenza di prezzo pagata in eccedenza.
Per i giudizi in itinere è infatti prevedibile che la disposizione conseguirà l'obiettivo deflattivo avuto di mira dal legislatore in quanto, a seguito della stipula della convenzione di rimozione dei vincoli, il giudice chiamato a decidere sulla ripetizione del maggior prezzo versato dovrà, nel caso anche d'ufficio, accertare con sentenza la cessazione della materia del contendere, pur non potendosi escludere l'insorgenza delle problematiche interpretative e applicative normalmente connesse con l'introduzione di norme retroattive destinate a incidere su atti e rapporti in corso.
Con riguardo, invece, all'ipotesi in cui alla data di entrata in vigore della legge (ovvero il 19.12.2018) il compratore, attuale proprietario, non abbia avviato alcuna azione giudiziaria, secondo il Notariato il venditore potrà precludere l'azione di risarcimento mediante la stipula con il comune del negozio di rimozione dei vincoli. Naturalmente il compratore potrà stipulare egli stesso la convenzione in parola. In questo caso, però, a meno di accordi con il venditore, sarà più difficile recuperare gli oneri sostenuti per l'atto stipulato con l'ente locale.
Da ultimo si sottolinea come in base al comma 49-bis della predetta disposizione, la nuova disciplina potrà avere completa attuazione solo a seguito dell'emanazione del decreto del ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di conferenza unificata, che dovrà stabilire la percentuale per la determinazione del corrispettivo da pagare al comune per la rimozione del vincolo sul prezzo, oltre ai criteri e le modalità per la concessione da parte dei comuni di dilazioni di pagamento del corrispettivo.
Non si pongono problemi, invece, per le procedure di rimozione dei vincoli avviate secondo la vecchia disciplina, per le quali l'istanza al comune di determinazione del corrispettivo sia stata già presentata alla data del 19.12.2018
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.01.2019).

LAVORI PUBBLICIProgetti opere complesse, il Bim ora è obbligatorio. Innovazione in vigore dal 1° gennaio per importi oltre 100 mln.
Dal 1° gennaio è in vigore l'obbligo di progettare opere pubbliche complesse di importo superiore a 100 milioni con il Bim (Building information modelling); necessari piani di formazione professionali e di acquisizione di hardware e software per le stazioni appaltanti.
È questo l'effetto dell'entrata in vigore del primo step dell'articolata road map prevista dal decreto 560/2017 che dovrà portare all'integrale applicazione del (Bim) entro il 2025.
Si tratta di una delle innovazioni di maggiore importanza contenuta nel codice dei contratti pubblici del 2016 finora confermata dal nuovo governo che, per bocca del ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, già nel luglio scorso ebbe a dire: «Il Building information modeling può far fare un salto di qualità agli appalti pubblici. Si possono ridurre drasticamente i tempi di progettazione e i costi di costruzione, ottimizzando la gestione delle infrastrutture realizzate. Ecco perché lavorerò duramente alla diffusione della digitalizzazione nel settore delle costruzioni».
In realtà, il governo Conte raccoglie anche i frutti del lavoro dei governi precedenti che avviarono l'implementazione del Bim in Italia, a valle del decreto legislativo 50/2016 (attuando l'articolo 23, comma 13), attraverso un'apposita commissione ministeriale presieduta dal provveditore alle opere pubbliche di Lombardia ed Emilia-Romagna, Pietro Baratono, che mise a punto i contenuti del decreto ministeriale primo dicembre 2017 n. 560. È in questo provvedimento che, all'articolo 6, comma 1, lettera a) del decreto n. 560, si rinviene l'obbligo di utilizzo del Bim dal 01.01.2019 per i lavori complessi relativi ad opere di importo a base di gara pari o superiore a 100 milioni di euro.
Si tratta di una prima tappa perché il decreto ministeriale entrerà compiutamente in vigore per le opere di qualsiasi importo soltanto dal 01.01.2025 secondo la seguente tempistica: per i lavori complessi relativi a opere di importo a base di gara pari o superiore a 100 milioni di euro, a decorrere dal 01.01.2019; per i lavori complessi relativi a opere di importo a base di gara pari o superiore a 50 milioni di a decorrere dal 01.01.2020; per i lavori complessi relativi a opere di importo a base di gara pari o superiore a 15 milioni di euro a decorrere dal 01.01.2021; per le opere di importo a base di gara pari o superiore alla soglia di cui all'articolo 35 del codice dei contratti pubblici (soglie comunitarie), a decorrere dal 01.01.2022; per le opere di importo a base di gara pari o superiore a 1 milione di euro, a decorrere dal 01.01.2023; per le opere di importo a base di gara inferiore a un milione di euro, a decorrere dal 01.01.2025.
In una prima fase, quindi, si tratterà di un'applicazione obbligatoria destinata alle opere complesse, sostanzialmente ad elevato contenuto tecnologico, ma poi si applicherà indistintamente a tutte le opere. Nel frattempo, nulla toglie che le stazioni appaltanti possano comunque chiedere il Bim anche al di sotto dei 100 milioni, ma a condizione che abbiano predisposto un piano di formazione del personale, un piano di acquisizione o di manutenzione di hardware e software di gestione dei processi decisionali e informativi e un atto organizzativo che espliciti il processo di controllo e gestione, i gestori dei dati e la gestione dei conflitti
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODue budget assunzionali per i nuovi vigili urbani.
Due budget assunzionali per i nuovi vigili urbani La legge di conversione del dl n. 113/2018, ha introdotto disposizioni in materia di assunzioni del personale di polizia locale, speciali e derogatorie rispetto al regime ordinario per le assunzioni a tempo indeterminato.

L'Anci ha predisposto una specifica nota contenente linee di indirizzo operativo-gestionali per supportare i comuni nell'attuazione di tali disposizioni. L'art. 35-bis del dl n. 113/2018 individua come disciplina oggetto di deroga l'art. 1, c. 228, legge n. 208/2015, che cessa la sua efficacia proprio al 31/12/2018. Pertanto la disciplina derogatoria opera sulla ordinaria capacità assunzionale di cui all'art. 3, c. 5, dl n. 90/2014, che prevede il 100% del turnover nel 2019.
L'art. 35-bis è ispirato dalla ratio del rafforzamento delle attività connesse al controllo del territorio e del potenziamento degli interventi in materia di sicurezza urbana, determinando un budget assunzionale migliorativo per il personale di polizia locale rispetto a quello ordinariamente previsto per tutti gli altri profili.
I comuni in regola con gli obiettivi posti dai vincoli di finanza pubblica nel triennio 2016-2018 (rispetto del saldo finanziario), ferma la sostenibilità finanziaria in termini di equilibri di bilancio (requisiti abilitanti all'incremento delle facoltà assunzionali), nell'anno 2019 potranno assumere a tempo indeterminato personale di polizia municipale nel limite della spesa sostenuta per il personale a tempo indeterminato dell'area di vigilanza nell'anno 2016.
Ad avviso di Anci, l'interpretazione letterale del richiamo al limite della spesa 2016 non impedisce di utilizzare, nel 2019, la spesa per cessazioni di personale di polizia locale eventualmente già utilizzata come capacità assunzionale in altri settori. Un elemento di criticità è dato dalla previsione per cui le cessazioni nell'anno 2018 del personale di polizia municipale «non rilevano ai fini del calcolo delle facoltà assunzionali del restante personale».
Questa limitazione non appare coordinata con le vigenti regole che disciplinano la determinazione della facoltà assunzionale, la programmazione dei fabbisogni e le procedure assunzionali. Questa previsione introduce infatti un fattore di rigidità organizzativa senza offrire alcun vantaggio in termini assunzionali imponendo a molte amministrazioni la modifica del piano dei fabbisogni 2019-2021, e determinando criticità operative in tutti quei casi in cui i comuni abbiano già diversamente programmato l'utilizzo di tali risorse.
Inoltre, tenendo conto che tutte le procedure di reclutamento devono essere precedute dalla pubblicazione di un avviso di mobilità volontaria, l'eventuale finalizzazione positiva della mobilità in ingresso determinerebbe, sulla base di una lettura rigida e formale della norma, la perdita della capacità assunzionale generata dal personale di polizia municipale cessato nell'anno 2018. Sul punto Anci ritiene necessario un intervento normativo volto ad abrogare l'ultimo periodo dell'art. 35-bis.
L'applicazione della nuova disciplina implica innanzitutto l'individuazione, per l'anno 2019, di due distinti budget assunzionali: uno specifico per il personale della polizia municipale, ove l'ente si avvalga della disciplina derogatoria, e uno relativo al restante personale, in applicazione del regime ordinario (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019).

TRIBUTIIncentivi per gli uffici tributi. Negli enti che varano presto i bilanci e non esternalizzano. La chance è prevista nella legge di Bilancio. Ma la norma non brilla per chiarezza.
Così come più volte auspicato dall'Anutel, la finanziaria appena licenziata ha introdotto, con il comma 1091 dell'art. 1 della legge 30.12.2018, n. 145, una norma volta ad incrementare la capacità di contrasto all'evasione dei comuni che certo non brilla per chiarezza e che deve quindi essere correttamente inquadrata al fine della corretta applicazione.
Il meccanismo delineato dal legislatore prevede la costituzione di un fondo utilizzabile sia per il potenziamento delle risorse strumentali degli uffici preposti alla gestione delle entrate (acquisto pc, software, elaborazioni informatiche, specifici servizi professionali ecc.) sia per l'incremento delle risorse da destinare al trattamento economico accessorio del personale ivi impiegato.
Non tutti i comuni potranno beneficiarne, essendo l'ambito di applicazione limitato solo a quelli che provvedono ad approvare nei termini il bilancio preventivo e consuntivo e che non abbiano esternalizzato l'attività di accertamento e riscossione dei tributi. La concreta applicazione dell'incentivo è affidata alla potestà regolamentare dell'ente che dovrà disciplinarne gli aspetti operativi quali, ad esempio, le risorse strumentali acquistabili, le modalità di costituzione dei gruppi di lavoro e di individuazione dei soggetti che vi partecipano, la quantificazione degli importi erogabili quale trattamento accessorio ecc.
Le somme utilizzabili sono quelle derivanti dal recupero evasione Imu e Tari e dalla partecipazione dei comuni all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non corrisposti (il cui maggior gettito è devoluto integralmente ai comuni per il 2019), con la precisazione che, stante il tenore della norma, questi ultimi concorrono solo ad alimentare il trattamento accessorio e non anche il potenziamento delle risorse strumentali.
Onde assicurare la spendita di somme «certe» il legislatore ha statuito che occorre fare riferimento al «maggiore gettito accertato e riscosso nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal conto consuntivo approvato nella misura massima del 5%». Siffatta previsione, unitamente alla natura e alla finalità delle somme di cui si discute, fa propendere per l'operatività della norma solo per il futuro e quindi dal 2020 in relazione ai dati risultanti dal consuntivo 2019.
Infatti, è necessario che sia prima definito l'intero impianto incentivante perché poi si possa provvedere alla utilizzazione dei fondi. E questo anche in considerazione della distribuzione del trattamento economico accessorio, nel limite del 15% del trattamento tabellare annuo lordo individuale, (riconoscibile anche al personale di qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017) vincolato al raggiungimento di obiettivi che possano essere misurabili e valutabili
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019).

APPALTIDal 15/1 gare d’appalto con commissari esterni. Vanno scelti tra gli esperti iscritti all’albo tenuto dall’Anac.
Dal 15.01.2019 scatta l'obbligo di nomina dei commissari di gara esterni per l'affidamento di contratti pubblici da aggiudicarsi con l'offerta economicamente più vantaggiosa. La nomina dei commissari avverrà dopo la presentazione delle offerte scegliendo fra gli esperti iscritti nell'albo Anac previsto dagli articoli 77 e 78 del codice dei contratti pubblici (decreto 50/2016).
La scadenza non è una novità, anche se in molti si attendevano una proroga che al momento non ci sarà: già con il comunicato Anac di cui alla delibera 648 del 18.07.2018 si era previsto che «ai fini dell'estrazione degli esperti, l'Albo è operativo, per le procedure di affidamento delle quali i bandi e gli avvisi prevedono termini di scadenza della presentazione dell'offerte a partire, dal 15.01.2019».
Per gli appalti di lavori l'obbligo si applicherà a tutti i contratti di importo superiore a un milione di euro; per servizi e forniture vale per affidamenti di importo superiore alla soglia di applicazione della normativa Ue, cioè oltre 221.000 euro. Generalmente si tratterà di nominare tre o cinque commissari, presidente incluso quando il criterio di aggiudicazione non è quello del prezzo più basso (ammesso per i lavori fino a due milioni, per servizi e forniture fino a 40 mila euro o anche fino alla soglia Ue se a «carattere di elevata ripetitività»). Le stazioni appaltanti potranno però ancora nominare commissari interni non soltanto al di sotto delle soglie previste (un milione per lavori e 211 mila euro per servizi e forniture), ma anche per contratti «che non presentano particolare complessità».
Si tratta dei contratti che vengono affidati con sistemi dinamici di acquisizione (art. 55 del decreto 50/2016) e con le procedure interamente gestite tramite piattaforme telematiche di negoziazione. La procedura passa per l'utilizzo di un applicativo che l'Anac ha predisposto e reso operativo dal 10 settembre 2018 e che ha lo scopo di iscrivere e selezionare, attraverso sorteggio, i componenti esterni incluso il presidente della commissione. I candidati in possesso dei requisiti di esperienza, di professionalità e di onorabilità previsti dalle Linee guida Anac n. 5 possono iscriversi, in qualsiasi momento dell'anno, all'Albo, attraverso l'applicativo, autocertificando, ai sensi del dpr 28.12.2000 n. 445, il possesso dei requisiti. Il richiedente deve essere in possesso di un dispositivo per la firma digitale, di un indirizzo Pec e disporre di credenziali username e password rilasciate dal sistema dell'Autorità. Il ricorso all'applicativo Anac è obbligatorio quando i «bandi o gli avvisi prevedono termini di scadenza della presentazione delle offerte a partire dal 15.01.2019».
Le stazioni appaltanti dovranno però prestare particolare attenzione ai tempi perché le linee guida Anac n. 5 scadenzano con precisione gli adempimenti a loro carico, a partire dalla richiesta sull'applicativo del numero di esperti da estrarre, in misura pari al doppio o al triplo degli esperti da nominare.. Nel bando la stazione appaltante dovrà inserire anche i criteri di scelta del presidente e la durata prevista dei lavori della commissione. L'Anac potrà scegliere i componenti della commissione giudicatrice «anche tra gli esperti interni alla stazione appaltante, previa richiesta della stazione appaltante e con un confronto con la stessa». In questo caso la stazione appaltante dovrà inviare all'Anac una richiesta motivata entro 30 giorni antecedenti il termine per la richiesta dell'elenco dei candidati
(articolo ItaliaOggi del 09.01.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALICorrotti e corruttori al bando. La riabilitazione può attendere. Stretta a 360 gradi sui delitti contro la p.a. con le norme approvate il 18 dicembre
Via per sempre (o quasi) dalla vita economica del Paese corrotti e corruttori: i primi saranno interdetti dai pubblici uffici a vita, oltre che per i reati attualmente previsti, anche in caso di corruzione impropria e aggravata, induzione indebita a dare o promettere utilità, per corruzione di persona incaricata di pubblico servizio, corruzione attiva, istigazione alla corruzione; traffico di influenze illecite.
I secondi saranno esclusi dalla vita economica pubblica anche per i reati di peculato, escluso quello d'uso; corruzione in atti giudiziari; traffico di influenze illecite.
E non solo. Anche se dovesse intervenire la riabilitazione (che estingue la condanna) a seguito dell'esito positivo dell'affidamento in prova ai servizi sociali, le pene accessorie interdittive sarebbero comunque perpetue.
Insomma: niente più casi «Berlusconi», il quale è tornato ad essere candidabile dopo che il Tribunale di sorveglianza di Milano nella primavera scorsa lo ha riabilitato a seguito del servizio sociale svolto presso l'istituto della Sacra Famiglia di Cesano Boscone.
I «faccendieri» non potranno più far sentire la loro influenza, reale o millantata che sia.

La stretta del governo giallo-verde sulla corruzione si annuncia destinata a propagare i suoi effetti in un futuro espanso, e non solo nei termini della maggiore incisività investigativa e di accertamento dei reati contro la pubblica amministrazione nel processo, ma anche con l'intento, in effetti anche dichiarato, di «spazzare via» dalla vita pubblica tutti coloro che si sono macchiati di comportamenti illeciti nei confronti dell'amministrazione pubblica.
Sono forse questi gli aspetti di maggiore incisività, che si aggiungono ai temi più prettamente processuali, della legge «spazzacorrotti» approvata in via definitiva dal Senato lo scorso 18 dicembre. Ed ai quali si sommano le altre novità, oltre il cosiddetto «Daspo» appunto: aumento dell'entità delle pene accessorie, arresto in flagranza di reato, aumento a due anni dei termini delle indagini preliminari e preclusioni ad accedere ai benefici penitenziari e misure alternative. Introduzione del «pentito» e delle operazioni sotto copertura (ma non agente provocatore) e della possibilità di utilizzare le intercettazioni con trojan (finora limitate alle ipotesi di criminalità organizzata e terrorismo) anche per i reati contro la p.a. Congelamento della prescrizione dopo le sentenze di primo grado e nuove regole per la trasparenza del finanziamento dei partiti.
L'andamento parlamentare. Approvata con la fiducia al Senato il 23 novembre scorso, il testo esaminato in seconda lettura da Montecitorio è pressoché identico a quello licenziato in prima lettura se non fosse per la modifica che ha eliminato la disposizione volta ad assorbire nell'abuso d'ufficio una fattispecie configurata attualmente come peculato e perciò punita più severamente.
«Questa legge è per tutti i cittadini onesti», ha detto il ministro guardasigilli Alfonso Bonafede commentando il voto finale, «per tutti gli imprenditori che vogliono fare bene il loro lavoro e per tutte le persone che faranno rinascere questo Paese. Per noi questa è una legge molto importante, il mio primo pensiero va ai giovani italiani e al loro futuro».
Per magistrati e avvocati però la musica è diversa: Anm e Ucpisi si sono ritrovate nelle critiche alle modifiche alla norma sulla prescrizione, destinate, è la denuncia, a rendere il processo penale una spada di Damocle permanente sulla testa degli indagati o imputati.
Anche il Csm, con un parere arrivato a legge approvata, lo scorso 19 dicembre, ha espresso critiche sulla riforma della prescrizione e sulla previsione del Daspo a vita per i corrotti adombrando seri rischi di incostituzionalità anche per gli effetti sui diritti alla difesa e alla ragionevole durata dei processi. Con conseguente probabile ricaduta sugli esborsi ex Legge Pinto.
L'inasprimento dei reati contro la Pa. Per grandi linee, il provvedimento interviene su due questioni: i reati contro la pubblica amministrazione e la trasparenza nel finanziamento ai partiti.
Sul primo fronte, la legge interviene sul codice penale (inasprendo le pene dei reati contro la pa), sul codice di procedura penale (potenziando strumenti di indagine e di accertamento), sul codice civile (rendendo perseguibile d'ufficio la corruzione tra privati), sull'ordinamento penitenziario e sulla legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa da reato per le persone giuridiche (vedi altro articolo nella pagina affianco).
Il testo introduce un'aggravante del delitto di indebita percezione di erogazioni a danno della Stato, quando il fatto sia commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio; aumenta le pene per i delitti di corruzione per l'esercizio della funzione e di appropriazione indebita.
Ridefinisce la fattispecie del traffico di influenze illecite, assorbendo il millantato credito e rendendo passibile di pena anche colui che dà o promette la somma di denaro, non più reputato alla stregua di una vittima del raggiro.
Inasprimento delle pene accessorie (Daspo). Il provvedimento introduce l'incapacità di contrarre con la p.a. (cosiddetto Daspo) nell'ipotesi di un ventaglio molto ampio di reati, così come la interdizione perpetua dai pubblici uffici.
La riabilitazione sarà possibile, sulla carta, non prima di sette anni e con la prova di buona condotta. Aumentano i termini della interdizione temporanea.
L'accesso alla sospensione condizionale della pena sarà più oneroso: non solo riguarderà anche il corruttore «privato» e sarà condizionato al pagamento, all'amministrazione lesa, della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria; ma il giudice potrà decidere di non estenderne gli effetti alla interdizione dai pubblici uffici o al cosiddetto Daspo.
Viene introdotta la figura del «pentito». La legge introduce una causa di non punibilità (nuovo articolo 323-ter), in presenza di autodenuncia (prima di essere iscritto nel registro degli indagati e in ogni caso entro sei mesi dal fatto, mettendo a disposizione l'utilità ricevuta) e di collaborazione con l'autorità giudiziaria.
Il millantato credito viene abrogato come fattispecie a sé e ricompreso nella nuova formulazione del traffico di influenze illecite.
Agente sotto copertura. Il provvedimento estende la disciplina delle operazioni di polizia sotto copertura al contrasto di alcuni reati contro la pubblica amministrazione.
La nuova prescrizione. Per quanto riguarda la prescrizione, il testo prevede una parziale riforma modificando gli articoli 158, 159 e 160 del codice penale.
Il provvedimento individua nel giorno di cessazione della continuazione il termine di decorrenza della prescrizione in caso di reato continuato (si tratta di un ritorno alla disciplina anteriore alla legge ex Cirielli del 2005); sospende il corso della prescrizione dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione) o dal decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla data di irrevocabilità del citato decreto.
L'entrata in vigore della riforma della prescrizione è fissata (comma 2 dell'art. 1) al 1° gennaio 2020.
Trojan per investigazioni domiciliari ad ampio raggio. Sono consentite sempre le intercettazioni mediante l'uso dei captatori informatici (cd. trojan) su dispositivi elettronici portatili nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Inoltre cade il paletto del loro utilizzo domiciliare, che sarà possibile anche quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa (articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2019).

ENTI LOCALIRevisori, aumentano i compensi.
Aumentano dal 01.01.2019 i compensi spettanti ai revisori dei conti degli enti locali, calcolati in relazione alla classe demografica e alle spese di funzionamento e di investimento.
A provvedervi il decreto 21.12.2018 del ministero dell'interno pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 3 del 04.01.2019. Il Viminale ha proceduto agli incrementi considerando che, come si legge nel preambolo al dm, che «le funzioni del revisore contabile nell'ultimo decennio sono esponenzialmente aumentate alla luce della legislazione della finanza pubblica e che questo impone l'adeguamento dei compensi base, anche per rispettare i principi sull'equo compenso, di cui all'art. 13-bis della legge 31.12.2012, n. 247» (articolo ItaliaOggi del 05.01.2019).

EDILIZIA PRIVATA - VARIUn pieno di tax credit nel 2019. Tra le novità sgravi (fino a 20 mila €) per compostabili. LEGGE DI BILANCIO/ Una conferma anche per evergreen come i bonus energetici.
Pieno di crediti d'imposta e detrazioni nella manovra 2019. Dalla conferma di misure ormai consolidate, come le agevolazioni per ristrutturazioni e riqualificazione energetica degli edifici, alla riproposizione di sport bonus e bonus verde. Ma con il maxi-emendamento governativo alla legge di Bilancio sono arrivate anche novità come il tax credit per le imprese che acquistano prodotti riciclati o imballaggi compostabili.
Una misura analoga era già stata prevista lo scorso anno, ma a causa della mancata emanazione del dm attuativo è rimasta lettera morta. L'incentivo per il 2019-2020 consentirà alle aziende un risparmio fiscale pari al 36% delle spese sostenute per l'acquisto dei prodotti «eco-friendly»: non si tratta solo di materiali derivanti dalla raccolta degli imballaggi in plastica, ma anche di quelli originati dallo smaltimento differenziato di carta e alluminio. Il bonus potrà arrivare fino a 20 mila euro per ciascun beneficiario. Le modalità tecniche saranno definite da un decreto del ministero dell'ambiente, che dovrà vedere la luce entro il 01.04.2019.
Tra le misure inserite in zona Cesarini nella legge 145/2018 (si veda tabella a lato) la detrazione Irpef per l'installazione di colonnine per la ricarica di veicoli elettrici nelle case private: saranno agevolate le spese fino a 3 mila euro sostenute tra il 01.03.2019 e il 31/12/2021. Sgravio pari al 50% dell'investimento, utilizzabile dal contribuente in dieci quote annuali direttamente nella dichiarazione dei redditi. Servirà un decreto da emanare entro il 2 marzo (articolo ItaliaOggi del 05.01.2019).

PUBBLICO IMPIEGOUno stop alla speranza di vita. Cade l’aggancio al requisito per la pensione anticipata. QUOTA 100/ Cosa prevede la bozza di decreto che sarà varato entro il 14 gennaio.
Stop alla speranza di vita. Almeno per la pensione anticipata. Stando ad anticipazioni, infatti, il decreto attuativo della riforma delle pensioni (quota 100 e altre misure) potrebbe cancellare l'adeguamento all'aspettativa di vita del requisito unico previsto per la pensione anticipata (ex pensione d'anzianità), cristallizzandolo a 41 anni e 10 mesi alle donne, a 42 anni e 10 mesi agli uomini e a 41 anni ai precoci (chi ha iniziato a lavorare in giovane età).
La novità avrebbe effetto dal 1° gennaio (facendo così venir meno l'incremento che c'è appena stato di cinque mesi), come tutte le altre novità di riforma che riguardano quota 100, opzione donna, Ape sociale.
Le misure finiranno in un unico provvedimento, insieme con quelle legate al reddito di cittadinanza (si veda ItaliaOggi del 2 gennaio), che verrà approvato dal consiglio dei ministri entro il prossimo 14 gennaio.
Speranza di vita
La novità potrebbe essere, dunque, l'abrogazione dell'adeguamento all'aspettativa di vita che viene cristallizzata in 41 anni e 10 mesi alle donne, 42 anni e 10 mesi agli uomini e 41 anni ai precoci.
La novità riguarderebbe il requisito contributivo previsto per la pensione anticipata che, dal 1° gennaio, per effetto proprio dell'adeguamento alla speranza di vita che è scattato quest'anno (pari a cinque mesi), risulta pari a 42 anni e 3 mesi alle donne e 43 anni e 3 mesi agli uomini.
La porta d'accesso al riposo, però, si aprirà trascorsi tre mesi dalla maturazione dei requisiti. La misura dovrebbe interessare i lavoratori iscritti all'Ago dell'Inps (dipendenti e autonomi del settore privato), nonché quelli iscritti alla gestione separata (parasubordinati). Resterebbero, dunque, fuori i dipendenti pubblici.
Quota 100
L'attesa misura «quota 100» avrà durata sperimentale di tre anni, con uno stanziamento di 21 miliardi così da interessare una potenziale platea di circa 800 mila beneficiari.
Riguarderà il trattamento di pensione anticipata che si potrà conseguire, appunto, maturando «quota 100» con la somma di età e contributi, a partire dai 62 anni di età e 38 anni di contributi. La misura, come detto, sarà retroattiva, con decorrenza cioè dal 1° gennaio.
Anche in tal caso, la porta di accesso al riposo si aprirà trascorsi tre mesi dalla maturazione dei requisiti.
Opzione donna
Scompare il riferimento a scadenze e rinnovi, con l'ipotesi di rendere la misura strutturale. Si ricorda che il regime c.d. «opzione donna», la cui ultima operatività si è chiusa al 31.12.2015, ha consentito alle lavoratrici donne (appunto) di andare in pensione prima rispetto ai requisiti ordinari fissati per il pensionamento, ossia in presenza di almeno 35 anni di contributi e di un'età non inferiore a 57 anni e tre mesi (58 anni e tre mesi se lavoratrici autonome).
La facoltà era esercitabile a una condizione: optare per il calcolo contributivo della pensione (di tutta la pensione).
Il regime è una misura a esclusivo favore delle lavoratrici sia del settore pubblico sia del privato, e sia titolari di un rapporto di lavoro dipendenti sia autonomo.
Ape sociale
Ha chiuso i battenti il 31.12.2018. La riforma prevede il rinnovo per un altro anno, il 2019.
Si ricorda che l'Ape (acronimo che sta per «anticipo pensionistico») consente di mettersi in pensione prima dell'età stabilita dalla legge e, in particolare, a 63 anni d'età a patto che nei successivi 3 anni e 7 mesi venga maturato il diritto alla pensione di vecchiaia
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019).

ENTI LOCALI - VARIMulte auto, scatta l’aumento. Restyling per i servizi Ncc. Ztl aperte a veicoli ibridi. CIRCOLAZIONE STRADALE/ Ecco tutte le novità in vigore dal 01.01.2019.
Aumento degli importi delle sanzioni stradali del 2,2%. Nuove regole per il servizio di noleggio con conducente. Accesso libero alle ztl per i veicoli a propulsione elettrica o ibrida. Circolazione in via sperimentale di segway, hoverboard e monopattini nelle strade delle città. Rinvio al 2020 del documento unico di circolazione. Stop agli autobus Euro 0 a benzina o gasolio.
Sono alcune delle novità in materia di circolazione stradale previste da vari provvedimenti in vigore dal 01.01.2019.
Sanzioni del codice della strada. Da capodanno è scattato l'aumento degli importi delle sanzioni previste dal codice stradale (si veda quanto anticipato da ItaliaOggi del 23/11/2018) in seguito alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 29.12.icembre 2018 del decreto del ministero della giustizia del 27 dicembre, che ha disposto l'aggiornamento nella misura del 2,2%, corrispondente alla variazione biennale dell'indice di variazione percentuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (si veda tabella in pagina).
Come chiarito anche dalla circolare prot. n. 300/A/9857/18/101/3/3/14 del 31.12.2018 del ministero dell'interno, nel calcolo si applica la consueta regola dell'arrotondamento all'unità di euro per eccesso se la frazione decimale è pari o superiore a 50 centesimi di euro oppure per difetto se è inferiore. L'arrotondamento va applicato alle sanzioni edittali, ma non agli importi che costituiscono il risultato di operazioni di divisione rispetto ai valori minimi o massimi previsti dal codice della strada, come, per esempio, le somme da iscrivere a ruolo o le somme richieste a titolo di cauzione.
Noleggio con conducente. Con il decreto legge n. 143 del 29.12.2018, recante «disposizioni urgenti in materia di autoservizi pubblici non di linea», pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 29 dicembre, sono entrate in vigore dal 30 dicembre nuove regole per il servizio di noleggio con conducente. La richiesta di tale servizio può adesso essere trasmessa anche mediante l'utilizzo di strumenti tecnologici; inoltre, non più soltanto presso la rimessa, ma anche presso la sede.
Il vettore può disporre di ulteriori rimesse nel territorio di altri Comuni della medesima Provincia o area metropolitana in cui ricade il territorio del Comune che ha rilasciato l'autorizzazione, previa comunicazione ai Comuni predetti, salvo diversa intesa raggiunta in Conferenza unificata entro il 28 febbraio 2019. Oltre a ciò, il decreto legge n. 143/2018, che modifica la legge n. 21 del 15.01.1992 («legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea»), prevede che il foglio di servizio debba essere compilato e tenuto dal conducente in formato elettronico, secondo le specifiche tecniche che saranno stabilite dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti con proprio decreto, adottato di concerto con il ministero dell'interno.
Fino all'adozione del decreto, il foglio di servizio elettronico è sostituito da una versione cartacea dello stesso (caratterizzato da numerazione progressiva delle singole pagine, con gli stessi contenuti previsti per quello in formato elettronico), da tenere in originale a bordo del veicolo per un periodo non inferiore a quindici giorni, per essere esibito agli organi di controllo, con copia conforme depositata in rimessa.
L'inizio di un nuovo servizio può avvenire senza il rientro in rimessa, quando sul foglio di servizio siano registrate, sin dalla partenza dalla rimessa o dal pontile d'attracco, più prenotazioni di servizio oltre la prima, con partenza o destinazione all'interno della Provincia o dell'area metropolitana in cui ricade il territorio del Comune che ha rilasciato l'autorizzazione. Infine, il decreto legge dispone che è consentita la fermata su suolo pubblico durante l'attesa del cliente che ha effettuato la prenotazione del servizio e nel corso dell'effettiva prestazione del servizio stesso.
Come precisato dalla circolare del ministero dell'interno prot. 300/A/18/19/113/11 del 2 gennaio, le sanzioni di cui all'art. 11-bis della legge n. 21/1992, relative all'inosservanza degli art. 3 e 11, si applicheranno dal 30.03.2019; fino a tale data non potranno essere contestate le violazioni di cui all'art. 85, commi 4 e 4-bis, del codice della strada limitatamente ai soggetti titolari di autorizzazione per l'esercizio del servizio di noleggio con conducente.
Hoverboard in strada. La legge di bilancio n. 145 del 30.12.2018 (gazzetta ufficiale del 31 dicembre) prevede che con decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, da adottare entro il 30 gennaio 2019, sarà regolamentata la circolazione stradale in via sperimentale di veicoli per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica, come segway, hoverboard e monopattini.
Documento unico di circolazione. La legge di bilancio n. 145/2018 ha disposto il rinvio al 01.01.2020 del termine a decorrere dal quale la nuova carta di circolazione, come regolamentata dal decreto legislativo n. 98 del 29.05.2017, costituirà il documento unico di circolazione dei veicoli, contenente i dati di circolazione e di proprietà.
Stop agli autobus Euro 0. Come previsto dall'articolo 1, comma 232, della legge n. 190 del 23.12.2014 (legge di stabilità 2015), dal 01.01.2019 è vietata la circolazione di veicoli a motore categorie M2 e M3 alimentati a benzina o gasolio con caratteristiche antinquinamento Euro 0. Si tratta degli autobus per il trasporto di persone con più di otto posti a sedere oltre al sedile del conducente.
Tuttavia, ai sensi del decreto del ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 03.11.2016 (gazzetta ufficiale del 16.12.2016), sono esclusi dal divieto i veicoli di interesse storico e collezionistico iscritto in uno dei registri di cui all'articolo 60, comma 4, del codice della strada
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Due budget assunzionali per assumere i vigili.
Due distinti budget assunzionali per i comuni. Uno specifico per il personale della polizia locale, in applicazione della disciplina derogatoria prevista dal decreto sicurezza (art. 35-bis). E l'altro in applicazione del regime ordinario che, tuttavia, non si può escludere che possa essere destinato dagli enti «anche per un ulteriore potenziamento dell'organico della polizia locale».
A chiarirlo è l'Anci in una nota operativa sulle assunzioni di vigili potenziate dal decreto Salvini.
L'art. 35-bis del dl 113 prevede infatti che «al fine di rafforzare le attività connesse al controllo del territorio e di potenziare gli interventi in materia di sicurezza urbana, i comuni che nel triennio 2016-2018 hanno rispettato gli obiettivi dei vincoli di finanza pubblica possono, nell'anno 2019, in deroga alle disposizioni di cui all'articolo 1, comma 228, della legge 28.12.2015, n. 208, assumere a tempo indeterminato personale di polizia municipale, nel limite della spesa sostenuta per detto personale nell'anno 2016 e fermo restando il conseguimento degli equilibri di bilancio. Le cessazioni nell'anno 2018 del predetto personale non rilevano ai fini del calcolo delle facoltà assunzionali del restante personale».
La norma che, come ha chiarito l'Anci, non si applica alle città metropolitane e alle province, ha creato più di un problema interpretativo soprattutto con riferimento al parametro della spesa del 2016 e all'inciso secondo cui le cessazioni 2018 del personale di polizia municipale non rilevano ai fini del calcolo delle facoltà assunzionali del restante personale.
Con riguardo al primo profilo, l'Anci ritiene che «l'interpretazione letterale del richiamo al limite della spesa 2016, non impedisce di utilizzare, nel 2019, la spesa per cessazioni di personale di polizia locale eventualmente già utilizzata come capacità assunzionale in altri settori».
Mentre per quanto riguarda il secondo profilo, secondo l'Anci, la limitazione opera esclusivamente nell'ipotesi in cui l'ente abbia deciso di avvalersi dello speciale regime derogatorio di cui all'art. 35-bis. Pertanto, nel caso in cui l'ente intenda applicare la disciplina ordinaria del turnover, prevista dall'art. 3, comma 5, del dl 90/2014, potrà computare nel buget assunzionale complessivo anche le cessazioni intervenute nel 2018 nell'ambito del personale assegnato all'area della vigilanza (articolo ItaliaOggi del 04.01.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIABonifiche con lo sgravio del 65%. CREDITO D’IMPOSTA.
In arrivo un credito d'imposta del 65% per chi finanzia interventi di bonifica e prevenzione su edifici e terreni pubblici. Il bonus fiscale, aperto a persone fisiche, enti non commerciali e società, coprirà anche i lavori per la rimozione dell'amianto, per il risanamento del dissesto idrogeologico e per la realizzazione di parchi e aree verdi attrezzate.
È una delle novità contenute nella legge di Bilancio 2019. La misura recata dai commi 156-161 rientra in un più ampio pacchetto di norme finalizzate alla messa in sicurezza del territorio, con particolare attenzione anche alla cosiddetta «terra dei fuochi» (va precisato comunque che l'incentivo sarà operante in tutta Italia).
Il tax credit sarà riconosciuto a chi effettua, a partire dal 01.01.2019, erogazioni liberali in denaro per sostenere progetti di recupero presentati dagli enti proprietari dei fabbricati e/o delle aree inquinate o contaminate. L'incentivo, fruibile in tre quote annuali, potrà arrivare a un massimo del 20% del reddito imponibile per le persone fisiche e del 10 per mille dei ricavi annui per le imprese. Ciò significa che un privato cittadino che presenta un reddito di 30 mila euro potrà recuperare dall'Irpef fino a 6 mila euro in tre anni (che corrisponde a una donazione di circa 9.230 euro), mentre un'azienda che fattura un milione di euro potrà ottenere uno sgravio Ires di 10 mila euro (donandone 15.384).
Come già avvenuto lo scorso anno per lo sport bonus, le donazioni potranno essere effettuate anche a favore dei soggetti concessionari o affidatari dei beni oggetto degli interventi. Per garantire un regime di piena trasparenza, i beneficiari delle somme dovranno rendicontare mensilmente al ministero dell'ambiente gli importi ricevuti. Prevista anche la pubblicazione on-line delle informazioni sull'uso dei fondi in un apposito portale, gestito dall'Ambiente. A fissare le regole operative del credito d'imposta sarà un dpcm, entro il 01.04.2019. La misura è stata finanziata con un milione di euro per il 2019, 5 per il 2020 e 10 annui dal 2021
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONiente idonei per i concorsi avviati a partire dal 2019.
Niente idonei ma solo per i concorsi avviati a partire dal 2019. Gli enti potranno continuare a scorrere le graduatorie dei concorsi degli anni precedenti (si veda ItaliaOggi di ieri) a partire dalle graduatorie approvate dal 01.01.2010, e utilizzare anche quelle vigenti presso altri enti, in applicazione dell'articolo 3, comma 61, della legge 350/2003, finché resteranno valide.
Gli enti debbono coordinare le previsioni della legge di Bilancio 2019 con le disposizioni vigenti, in particolare quelle che impongono di scorrere le graduatorie di altre amministrazioni, prima di effettuare nuovi concorsi.
È evidente che questa possibilità di attingere agli idonei di graduatorie di amministrazioni diverse (qualora quelle proprie siano per qualsiasi ragione esaurite) si riferisce esclusivamente alle graduatorie che nel passato avevano legittimamente prodotto idonei: si tratta di tutte le graduatorie approvate dall'01.01.2010 e fino al 31.12.2018. Le amministrazioni, dunque, per scorrere le proprie graduatorie ed eventualmente quelle di altre, dovranno guardare con attenzione lo scadenzario della loro validità, disposto dall'articolo 1, comma 362, della legge 145/2018.
Per quanto riguarda le graduatorie che si produrranno a partire dall'1.1.2019, esse avranno validità triennale, ma da esse sarà vietato attingere agli idonei per posti nuovi e diversi rispetto a quelli banditi. L'articolo 1, comma 361, della legge di Bilancio, infatti dispone che le graduatorie «sono utilizzate esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso»: dunque, gli idonei potrebbero entrare in gioco solo qualora il vincitore del concorso non prenda servizio oppure cessi dal servizio per qualsiasi causa, entro il triennio di validità della graduatoria.
Poiché le graduatorie formatesi a partire dall'01.01.2019 sono utilizzabili solo per i posti messi a concorso, altre amministrazioni potrebbero utilizzarle solo per assunzioni a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001: è chiaro che l'amministrazione titolare della graduatoria a tempo indeterminato potrà in ogni momento chiamare in servizio il dipendente eventualmente assunto a termine presso un altro ente. Il sistema congegnato dalla legge 145/2019 si regge sulla fiducia nella capacità concreta di realizzare i concorsi unici nazionali previsti dall'articolo 1, comma 360, della legge 145/2018. Questi concorsi, infatti, dovrebbero produrre graduatorie nazionali, molto ampie, tali da consentire alle amministrazioni di attingervi, senza dover più preoccuparsi dell'utilizzo di graduatorie di amministrazioni differenti.
Ovviamente, tutto ciò richiede il rispetto di alcune condizioni.
In primo luogo, occorre che i concorsi unici procedano senza intoppi: cosa alquanto complessa, visto che il rischio di ricorsi, nelle procedure di reclutamento, è elevatissimo e quindi la prospettiva di mega concorsi fermi per anni è tutt'altro che astratta. In secondo luogo, il Ripam (acronimo di Riqualificazione della pubblica amministrazione), ovverosia la struttura chiamata a realizzare i concorsi unici, dovrà essere capace di indire i bandi per tutte, ma proprio tutte, le figure ed i profili professionali necessarie alle migliaia di amministrazioni: oggi non esiste nemmeno una mappatura completa di questi profili. In terzo luogo, occorrerà che la quantità di posti messi a bando sia perfettamente corrispondente ai fabbisogni evidenziati dagli enti: tuttavia, la definizione dei fabbisogni, come introdotta dalla riforma Madia, è ancora agli albori e una banca dati unitaria e fruibile è ancora ad oggi assente.
Ancora, bisognerà stabilire criteri di «precedenza» tra enti per attingere alle graduatorie, qualora ciò si renda necessario perché, ad esempio, un vincitore di concorso receda dal rapporto di lavoro per qualsiasi causa; altrettanti criteri di priorità dovrebbero essere disposti per consentire di attingere alle graduatorie uniche nazionali per assumere vincitori di concorso a tempo indeterminato con contratti a termine, nel rispetto dell'articolo 36, comma 2
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta Cv, il datore può chiedere solo la verifica dei requisiti. IL GARANTE ANALIZZA LE COMPATIBILITÀ TRA IL CODICE PRIVACY E IL GDPR SUL TRATTAMENTO DATI PARTICOLARI.
Nel form per la raccolta del curriculum, il datore di lavoro deve inserire solo i dati necessari alla verifica dei requisiti di chi aspira all'assunzione.
È una delle regole relative al trattamento dei dati particolari da parte dei datori di lavoro contenuta nelle vecchie autorizzazioni generali per il trattamento dei dati sensibili, ritenuta compatibile dal Garante della privacy, chiamato a passare al setaccio le norme del codice della privacy (dlgs 196/2003) rispetto al regolamento europeo n. 2016/679 (operativo dal 25.05.2018).
La verifica di compatibilità delle vecchie autorizzazioni generali è prevista dall'articolo 21 del dlgs 101/2018 ed è stata realizzata dal Garante con il provvedimento n. 497 del 13.12.2018. In merito alle autorizzazioni generali (1/2016, 3/2016, 6/2016, 8/2016 e 9/2016) il provvedimento del Garante ha individuato le prescrizioni compatibili con il regolamento Ue e con il dlgs n. 101/2018 di adeguamento del codice.
La cernita delle prescrizioni previgenti ha portato il Garante a ritenere in piedi una serie di prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati nei rapporti di lavoro (n. 1/2016); al trattamento di categorie particolari di dati da parte degli organismi di tipo associativo, delle fondazioni, delle chiese e associazioni o comunità religiose (n. 3/2016); al trattamento di categorie particolari di dati da parte degli investigatori privati (n. 6/2016); al trattamento dei dati genetici (n. 8/2016); al trattamento dei dati personali effettuato per scopi di ricerca scientifica (n. 9/2016).
L'autorizzazione generale al trattamento dei dati giudiziari da parte di privati, di enti pubblici economici e di soggetti pubblici n. 7/2016, non rientrando tra quelle richiamate dall'articolo 21, comma 1, dlgs n. 101/2018, ha cessato di produrre effetti giuridici alla data del 19.09.2018 ai sensi del comma 3 del citato articolo 21.
Inoltre le autorizzazioni generali 2/2016, 4/2016 e 5/2016 (rispettivamente «autorizzazione al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale», «autorizzazione al trattamento dei dati sensibili da parte dei liberi professionisti» e «autorizzazione al trattamento dei dati sensibili da parte di diverse categorie di titolari») risultano prive di specifiche prescrizioni e, pertanto, esulano dall'ambito delle disposizioni di cui all'articolo 21, comma 1, dlgs n. 101/2018.
Il provvedimento di ricognizione è in consultazione pubblica e sarà adottato in via definitiva entro 60 giorni dal relativo esito. Si rammenta che, in base all'art. 21, comma 5, del dlgs n. 101/2018 la violazione delle prescrizioni contenute nelle autorizzazioni generali e nel provvedimento generale n. 497/2018 sono soggette alla sanzione amministrativa di cui all'articolo 83, paragrafo 5, del regolamento Ue (fascia massima fino a 20 milioni o 4% del fatturato per le imprese).
Inoltre i dati trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento di dati personali non possono essere utilizzati, salvo quanto previsto dall'art. 160-bis del Codice della privacy. Il provvedimento in esame potrà non essere l'ultima parola, in quanto produrrà effetti fino all'adozione di future regole deontologiche e delle misure di garanzia di cui agli articoli 2-quater e 2-septies (dati sanitari, genetici e biometrici) del Codice della privacy
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGraduatorie, proroga allargata. LEGGE DI BILANCIO/ Saranno necessari un corso di aggiornamento e un colloquio di idoneità.
Lo slittamento si estende fino al 2010. Ma serve un esame.

La proroga delle graduatorie allarga i confini e torna indietro nel tempo fino al 2010, salvando così molti idonei «storici» della p.a. che da anni attendono di essere immessi in ruolo. Ma per poter sperare di essere ripescati, i soggetti inseriti nelle graduatorie più risalenti (dal 01.01.2010 al 31.12.2013) dovranno obbligatoriamente frequentare corsi di formazione e aggiornamento e superare un esame-colloquio volto a verificare «la perdurante idoneità».
In poche parole, dovranno dimostrare di non aver smarrito col passare del tempo quel patrimonio di conoscenze e preparazione che ha consentito loro di vincere il concorso anni addietro. Rispetto alle prime versioni della Manovra che mettevano in sicurezza solo le graduatorie approvate dal 2014 in avanti, il testo finale del maxiemendamento del governo, approvato prima dal senato e poi in terza lettura dalla camera, viene parzialmente incontro alle richieste del popolo degli idonei (stimato in 150 mila unità), salvando anche le graduatorie più vecchie.
Ma, come più volte auspicato dal ministro della Funzione pubblica, Giulia Bongiorno, questo slittamento non sarà fine a se stesso. La proroga dovrà essere funzionale al rinnovamento e al ricambio generazionale nella p.a. e per questo l'accertamento della preparazione degli idonei sarà essenziale. Soprattutto quando, come nel caso delle graduatorie del 2010, sono trascorsi molti anni dal concorso.
La Manovra (legge 30.12.2018 n. 145, pubblicata sul Supplemento ordinario n. 62 alla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 31/12/2018) stabilisce la regola (che però si applicherà solo per il futuro e cioè per le graduatorie dei concorsi banditi successivamente al 01.01.2019) secondo cui le graduatorie devono essere utilizzate «esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso».
«Per il futuro chi vince vince, chi non vince non vince», aveva detto a fine dicembre il ministro Bongiorno, rispondendo a un'interrogazione alla camera (si veda ItaliaOggi del 20/12/2018) e la legge di Bilancio recepisce il principio all'art. 1, comma 361. Inoltre, viene stabilito il ripristino «graduale» della durata triennale delle graduatorie, attraverso una scansione temporale precisa. Le graduatorie più vecchie (approvate dal 01.01.2010 al 31.12.2013) saranno valide fino al 30.09.2019 e, come detto, potranno essere utilizzate solo alle condizioni viste sopra (corsi di formazione+esame).
Nessuna condizione di validità è invece prevista per le altre graduatorie, la cui validità sarà estesa come segue:
   - la validità delle graduatorie approvate nel 2014 è prorogata al 30.09.2019;
   - la validità delle graduatorie approvate nel 2015 slitta al 31.03.2020;
   - la validità delle graduatorie approvate nel 2016 è estesa fino al 30.09.2020;
   - la validità delle graduatorie approvate nel 2017 è estesa fino al 31.03.2021;
   - la validità delle graduatorie approvate nel 2018 è estesa fino al 31.12.2021;
   - la validità delle graduatorie che saranno approvate nel 2019 avrà durata triennale decorrente dal giorno di approvazione di ciascuna graduatoria.
Dal 01.01.2019 i nuovi statali assunti saranno scelti sulla base di concorsi unici in relazione a figure professionali omogenee. I concorsi unici saranno organizzati dalla Funzione pubblica con modalità semplificate, sulla base dei piani di fabbisogno trasmessi dalle amministrazioni. I concorsi dovranno essere espletati entro fine febbraio 2019 e saranno in deroga alle procedure di mobilità tra enti (articolo ItaliaOggi del 02.01.2019).

PUBBLICO IMPIEGOMeno chance per i contratti a termine.
Minori possibilità di stipulazione di contratti a tempo determinato nelle pubbliche amministrazioni.

La legge di Bilancio 2019 riduce di molto la possibilità delle amministrazioni pubbliche di avviare contratti a termine. Il dl 101/2013, convertito in legge 125/2013 modificò l'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego), inserendo la seguente previsione: «Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato».
Si tratta di una norma finalizzata espressamente a evitare il fenomeno dei contratti a termine inanellati, che, quindi, obbliga i datori di lavoro pubblici ad assumere a tempo determinato esclusivamente attingendo a graduatorie di vincitori di concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, estendendo tale possibilità anche agli idonei.
È evidente che se un vincitore di concorso non possa essere, per qualsiasi ragione (prevalentemente di ordine finanziario di rispetto dei tetti di spesa) assunto subito con contratto a tempo indeterminato, il suo eventuale impiego con contratto a termine riduce di molto, quasi ad azzerare, il rischio di «precarizzazione».
Infatti, la norma autorizza ad attivare con chi ha comunque acquisito un diritto ad avviare un rapporto di lavoro stabile un precedente contratto a termine: non si tratta, quindi, di abusare di contratti precari, ma di fare fronte a reali esigenze a termine con rapporti di lavoro conclusi con chi prima o poi comunque costituirà col datore un lavoro a tempo indeterminato, sicché il pericolo di un contenzioso successivo sostanzialmente si annulla.
Nella realtà dei fatti, questa norma è stata assai poco rispettata. Infatti, sono ancora moltissime le amministrazioni che pubblicano bandi o avvisi per la formazione di graduatorie per lavori a tempo determinato in vari profili. Una violazione diffusa, nonostante la giurisprudenza avesse evidenziato l'illegittimità di questi avvisi, come ad esempio la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, con la delibera n. 31/2017, la quale ricorda che se l'ente non disponga di una propria graduatoria a tempo indeterminato deve avvalersi di quella di altri enti.
Sta di fatto, comunque, che la legge di bilancio entra prepotentemente in questo merito, perché priva della possibilità di assumere con contratti a tempo determinato, per le graduatorie che si formeranno dal 2019 in poi, gli idonei, abolendo implicitamente il contenuto dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 riferito a essi.
Per un verso, l'impossibilità di assumere a tempo determinato gli idonei è più coerente con l'intento di evitare la formazione di precariato. Gli idonei, infatti, non hanno un diritto soggettivo all'assunzione, sicché una loro chiamata per un lavoro a termine espone al rischio di precarizzazione, visto che nulla garantirebbe una successiva assunzione stabile. Per altro verso, però, per le amministrazioni si limitano le possibilità di attingere alle graduatorie a tempo indeterminato, perché una volta esaurita la provvista di vincitori, non potranno assumere a tempo determinato idonei, visto che le graduatorie dovranno essere utilizzate esclusivamente per la copertura di posti messi a concorso. Una restrizione che a maggior ragione pare debba valere per le assunzioni con contratti a termine.
Risulterà, dunque, ancora più complicato dare corretta attuazione alla previsione dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, specie in particolare per amministrazioni caratterizzate da profili professionali molto spiccati e peculiari.
La soluzione è l'estensione più ampia possibile dell'utilizzo delle graduatorie di altri enti valevoli per l'assunzione di personale a tempo indeterminato da cui attingere per contratti a termine, in applicazione dell'articolo 3, comma 61, della legge 350/2003, anche non risulta semplice l'accordo tra amministrazioni.
Rimane ancora irrisolto, se non in parte e solo per via deduttiva relativamente alla polizia municipale, il problema delle assunzioni con contratti a termine per esigenze stagionali e sostitutive: in questi casi, infatti, attingere a graduatorie a tempo indeterminato non è la soluzione più opportuna: occorrerebbero norme per autorizzare espressamente concorsi a tempo determinato finalizzati a queste particolari esigenze (articolo ItaliaOggi del 02.01.2019).

LAVORI PUBBLICI: Più risorse per le opere da realizzare con il Ppp.
Più soldi per la progettazione delle opere da realizzare mediante contratti di Partenariato pubblico privato (Ppp). La manovra appena approvata dal parlamento cambia la destinazione del fondo per la progettazione preliminare gestito dalla Cassa depositi e prestiti, vincolandolo esclusivamente a tale diversa finalità.

La novità è contenuta nel comma 174 del testo finale, il quale, a sua volta, modifica una disciplina più che ventennale che finora non ha prodotto risultati significativi. Si tratta dell'art. 4 della legge n. 144/1999, che ha istituito un fondo per il finanziamento della progettazione preliminare delle amministrazioni regionali e locali, individuando la Cdp come soggetto erogatore dei relativi contributi.
Uniche condizioni per accedere alle risorse erano l'acquisizione della prescritta certificazione da parte dei nuclei regionali di valutazione e verifica degli investimenti (istituiti dall'art. 1 della stessa legge n. 144) e la successiva ratifica con provvedimento del presidente della giunta regionale. Dopo un inizio promettente, questa linea di credito è risultata quasi sempre sottoutilizzata, sebbene i relativi finanziamenti siano a fondo perduto.
La legge di Bilancio 2019 è quindi intervenuta cambiando completamente pelle allo strumento. Esso, innanzitutto, viene indirizzato unicamente verso «opere da realizzare mediante contratti di partenariato pubblico privato». Si tratta delle tipologie contrattuali previste in via generale dall'art. 180 del codice dei contratti, ovvero, in particolare, delle seguenti: concessione di costruzione e gestione, concessione di servizi, sponsorizzazione, locazione finanziaria. In secondo luogo, non sarà più preso in considerazione il progetto preliminare (non più previsto), ma il documento di fattibilità delle alternative progettuali, se redatto, il progetto di fattibilità tecnico economica e il progetto definitivo.
I finanziamenti saranno sempre erogati da Via Goito, con proprie determinazioni. Scompare, quindi, la certificazione dei nuclei regionali, così come il decreto presidenziale. Con decreto di natura non regolamentare del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, sentita la stessa Cassa, saranno definiti termini e condizioni di utilizzo delle risorse. L'assegnazione potrà essere incrementata, con uno o più decreti ministeriali, a valere sulle risorse disponibili del fondo per la progettazione di fattibilità delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese di cui all'articolo 202, comma 1, lettera a), del dlgs 50/2016 (articolo ItaliaOggi del 02.01.2019).

GIURISPRUDENZA

ESPROPRIAZIONE: Riparto di giurisdizione in materia di retrocessione.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità – Retrocessione – Giurisdizione giudice amministrativo – Condizione.
In presenza di una controversia che involga la retrocessione totale di un fondo, la potestas dedicendi del giudice amministrativo, in funzione di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. g) c.p.a., sussisterà non solo se la richiesta di retrocessione totale sia avanzata nello stesso giudizio innanzi al giudice amministrativo in uno alla domanda di retrocessione parziale (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che sebbene si registri una successiva decisione della Suprema Corte, che si conforma al diverso e tradizionale orientamento interpretativo (Corte di Cassazione, Sez. II, 17.10.2017, n. 24485), l’innovativa opzione ermeneutica è stata ribadita in via incidentale da altra ordinanza delle Sezioni Unite, in cui è statuito che “in tema di espropriazione per pubblica utilità, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g), dell'all. 1 al d.lgs. n. 104 del 2010, allorquando il comportamento della P.A., cui si ascrive la lesione, sia la conseguenza di un assetto di interessi conformato da un originario provvedimento ablativo, legittimo o illegittimo, ma comunque espressione di un potere amministrativo (in concreto) esistente, cui la condotta successiva si ricollega in senso causale. Pertanto, poiché, diversamente dalla mancata retrocessione del fondo occupato, l'eventuale usucapione della proprietà di quest'ultimo non è immediatamente riconducibile al pregresso esercizio del potere espropriativo, ma ne costituisce una conseguenza meramente occasionale …, il relativo suo accertamento appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 11.07.2017, n. 17110).
Sulla scorta del revirement operato in argomento dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pertanto, in presenza di una controversia che involga la retrocessione totale di un fondo, la potestas dedicendi del g.a., in funzione di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. g) c.p.a., sussisterà non solo, come già affermato in passato, se la richiesta di retrocessione totale sia avanzata nello stesso giudizio innanzi al g.a. in uno alla domanda di retrocessione parziale (ex multis, Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 27.01.2014, n. 1520) ma anche ove proposta in via autonoma (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 16.05.2019 n. 990 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAa) per pacifica giurisprudenza l'applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente vincolato: presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del necessario titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con l'accertamento dell'abuso e non necessitano di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico che è in re ipsa;
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   b) per la costante giurisprudenza in materia, l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio della sua consistenza e, quindi, in ultima analisi, della sua sanabilità, incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge;
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   c) la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non dell'amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto, dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico in base al quale la ripartizione dell'onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova;
   d) spetta a colui che ha commesso l'abuso l'onere di provare la data di realizzazione e la consistenza originaria dell'immobile abusivo, in quanto solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto; in mancanza di tali prove, l'Amministrazione può negare la sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il diretto interessato fornisca la prova suddetta, l'onere della prova contraria viene trasferito in capo all'amministrazione.
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Va inoltre osservato che:
   a) per pacifica giurisprudenza l'applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente vincolato: presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del necessario titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con l'accertamento dell'abuso e non necessitano di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico che è in re ipsa;
   b) per la costante giurisprudenza in materia (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 13.09.2013 n. 4546; Sez. IV, 10.01.2014 n. 46 e 14.02.2012 n. 703; Cons. Stato, Sez. V, 20.08.2013 n. 4182; Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2013 n. 6159 e 01.02.2013 n. 631), l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio della sua consistenza e, quindi, in ultima analisi, della sua sanabilità, incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge;
   c) si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non dell'amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto, dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico in base al quale la ripartizione dell'onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova;
   d) tali principi sono stati ancora di recente ribaditi dalla Sezione (Cons. Stato, Sez. VI, 19.10.2018 n. 5984: “Spetta a colui che ha commesso l'abuso l'onere di provare la data di realizzazione e la consistenza originaria dell'immobile abusivo, in quanto solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto; in mancanza di tali prove, l'Amministrazione può negare la sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il diretto interessato fornisca la prova suddetta, l'onere della prova contraria viene trasferito in capo all'amministrazione”) e da essi il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.05.2019 n. 3133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un porticato non può considerarsi attività attratta alla natura pertinenziale dell’opera, di talché necessita di un apposito permesso di costruire per la sua costruzione.
Invero, “una tettoia pertinenziale ad un'unità immobiliare, costituita da un porticato in muratura sormontato da una tettoia di rilevanti dimensioni, ancorata a terra, e da un muro perimetrale, non può essere considerata una struttura equiparabile ad un gazebo o pergolato e, pertanto, non è riconducibile nell'ambito dell'edilizia libera”.

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10. - In ragione di quanto sopra appare essere documentalmente comprovato che i fabbricati di proprietà della odierna appellante presentano gli interventi edilizi abusivi per come contestati dal comune appellato e plasticamente riprodotti con puntualità nei provvedimenti impugnati in primo grado ed in particolare nella determinazione n. 8 del 02.05.2011.
Le opere realizzate anche in difformità avrebbero dovuto esserlo solo dopo avere ottenuto un permesso di costruire e non successivamente alla presentazione di una denuncia di inizio attività edilizia, peraltro realizzati in area paesaggisticamente vincolata.
Ed infatti la realizzazione di un porticato non può considerarsi attività attratta alla natura pertinenziale dell’opera, di talché necessita di un apposito permesso di costruire per la sua costruzione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 26.09.2018 n. 5541, nella quale osserva che “una tettoia pertinenziale ad un'unità immobiliare, costituita da un porticato in muratura sormontato da una tettoia di rilevanti dimensioni, ancorata a terra, e da un muro perimetrale, non può essere considerata una struttura equiparabile ad un gazebo o pergolato e, pertanto, non è riconducibile nell'ambito dell'edilizia libera”)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.05.2019 n. 3133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa Soprintendenza è onerata, alla luce dei canoni di leale collaborazione e proporzionalità, a proporre soluzioni alternative per l'esecuzione dell'intervento edilizio richiesto dal cittadino.
A quest’ultimo riguardo:
   (b) gli errori edificatori del passato non possono essere bilanciati mediante una sorta di compensazione intertemporale, bloccando tutte le innovazioni dello stato dei luoghi. Parimenti, non è possibile presumere che qualsiasi edificazione abbia un impatto negativo sul territorio, come se l’esistente trattenesse valori paesistici che sarebbero irrimediabilmente perduti per il solo fatto che vengano realizzate nuove opere. Ogni nuovo progetto deve invece essere valutato in concreto per stabilirne la compatibilità con il vincolo paesistico, utilizzando la prospettiva ideale di un osservatore che descrive uno scenario dove sono percepibili molti elementi connessi tra loro in modo coerente;
   (c) qualora in un progetto siano effettivamente ravvisabili criticità o dettagli potenzialmente dissonanti, l’autorità che effettua la valutazione paesistica è tenuta in primo luogo a graduare il proprio giudizio attraverso prescrizioni limitative o mitigative. È infatti prioritario stabilire se, con differenti modalità costruttive o con una diversa scelta di materiali e colori, ovvero con schermature vegetali o interventi di ingegneria naturalistica, sia possibile diluire e confondere il significato delle nuove opere nella visione d’insieme. Un giudizio completamente negativo può essere espresso solo dopo aver scartato queste ipotesi intermedie.
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I ricorrenti censurano i provvedimenti della Soprintendenza e della Comunità montana, che hanno rigettato l’istanza per la realizzazione di una nuova rimessa interrata.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
1. Sotto il primo profilo, la relazione paesaggistica attesta che sul versante la vegetazione non è particolarmente fitta, e che la percettibilità da Via Coste è limitata e marginale (cfr. materiale fotografico doc. 11, individuato nella narrazione in fatto).
La foto-simulazione delle pagine 13 e 14 restituisce in effetti un’incidenza sullo stato dei luoghi di non particolare rilievo, tenuto conto dei muri di contenimento già esistenti lungo via Coste, cosicché il giudizio negativo per “perdita materica e testimoniale” della storia del piccolo ambito non appare allineato con l’effettiva interferenza (anche visiva) dell’opera rispetto al contesto in cui si inserirebbe.
Sul punto, la Soprintendenza non produce alcun documento (fotografia o altra rappresentazione utile alla scopo), né chiarisce in concreto come possono evincersi l’impatto del manufatto in progetto e la sua seria percettibilità dalle strade all’intorno (in particolare da Via Coste).
Ferma la potestà attribuita dal legislatore all’autorità preposta alla tutela del vincolo, si rivela indispensabile una riedizione del potere che prenda in considerazione, in modo puntuale, lo stato dei luoghi e le caratteristiche dell’intervento quale rappresentato nel progetto e illustrato con il materiale fotografico, salvi ulteriori approfondimenti.
2. Acquista altresì rilevanza, ai fini di un giudizio d’insieme, il contesto circostante, caratterizzato da un limitrofo complesso residenziale edificato alla fine degli anni 80 del secolo scorso e da un’area in costruzione a fini residenziali, come da rappresentazione fotografica del 22/05/2014 (doc. 15) e del 09/01/2015 (doc. 16).
E’ ben vero che una situazione paesaggistica compromessa o seriamente incisa non giustifica ulteriori interventi dannosi per l’ambiente, e pur tuttavia l’autorità preposta deve illustrare in modo esauriente i connotati dei luoghi e motivare una decisione sfavorevole malgrado la presenza di un’edificazione diffusa.
3. Se la parte ricorrente ha offerto solide argomentazioni (ed elementi probatori) a sostegno della scarsa visibilità e incidenza dell’intervento, l’amministrazione non ha suggerito (pur essendone onerata alla luce dei canoni di leale collaborazione e proporzionalità) soluzioni alternative per la sua esecuzione.
A quest’ultimo riguardo, può essere richiamata la recente sentenza di questa Sezione 08/06/2018 n. 552, che a sua volta ha evocato il precedente 09/02/2016 n. 228 (che risulta oggetto di appello), secondo il quale <<(b) gli errori edificatori del passato non possono essere bilanciati mediante una sorta di compensazione intertemporale, bloccando tutte le innovazioni dello stato dei luoghi. Parimenti, non è possibile presumere che qualsiasi edificazione abbia un impatto negativo sul territorio, come se l’esistente trattenesse valori paesistici che sarebbero irrimediabilmente perduti per il solo fatto che vengano realizzate nuove opere. Ogni nuovo progetto deve invece essere valutato in concreto per stabilirne la compatibilità con il vincolo paesistico, utilizzando la prospettiva ideale di un osservatore che descrive uno scenario dove sono percepibili molti elementi connessi tra loro in modo coerente (v. TAR Brescia Sez. I 08.01.2015 n. 14);
(c) qualora in un progetto siano effettivamente ravvisabili criticità o dettagli potenzialmente dissonanti, l’autorità che effettua la valutazione paesistica è tenuta in primo luogo a graduare il proprio giudizio attraverso prescrizioni limitative o mitigative. È infatti prioritario stabilire se, con differenti modalità costruttive o con una diversa scelta di materiali e colori, ovvero con schermature vegetali o interventi di ingegneria naturalistica, sia possibile diluire e confondere il significato delle nuove opere nella visione d’insieme. Un giudizio completamente negativo può essere espresso solo dopo aver scartato queste ipotesi intermedie
>>.
4. In conclusione, la pretesa avanzata merita apprezzamento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo monumentale su uno specifico immobile non opera automaticamente come un vincolo paesistico a beneficio della vista che dal suddetto immobile si rivolge verso il paesaggio circostante.
L’estensione del vincolo monumentale alle aree esterne deve essere espressamente disposta da un provvedimento che crei un vincolo indiretto ex art. 45 del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
Al di fuori di questa ipotesi, non esiste alcun diritto di prevenzione sul paesaggio a favore di chi ha edificato per primo, neppure quando l’edificazione abbia prodotto un bene di interesse culturale.
Un simile diritto di prevenzione privatizzerebbe di fatto una parte della fruizione del paesaggio, trasformandosi in un divieto di edificazione a carico di tutti coloro che chiedono un titolo edilizio in un momento successivo.
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Sulle conseguenze paesistiche del progetto di ampliamento
23. Passando al progetto di ampliamento del porto turistico, la tesi del ricorrente è in sostanza che le nuove opere inciderebbero negativamente sia sul vincolo paesistico relativo alla sponda bresciana del lago di Iseo sia sul pregio monumentale di Villa Mazzucchi. Gli argomenti proposti non sono però condivisibili.
24. In primo luogo, è necessario evitare equivoci e sovrapposizioni tra la tutela paesistica e la tutela monumentale.
Il vincolo monumentale su uno specifico immobile non opera automaticamente come un vincolo paesistico a beneficio della vista che dal suddetto immobile si rivolge verso il paesaggio circostante. L’estensione del vincolo monumentale alle aree esterne deve essere espressamente disposta da un provvedimento che crei un vincolo indiretto ex art. 45 del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
Al di fuori di questa ipotesi, non esiste alcun diritto di prevenzione sul paesaggio a favore di chi ha edificato per primo, neppure quando l’edificazione abbia prodotto un bene di interesse culturale. Un simile diritto di prevenzione privatizzerebbe di fatto una parte della fruizione del paesaggio, trasformandosi in un divieto di edificazione a carico di tutti coloro che chiedono un titolo edilizio in un momento successivo.
25. A favore di Villa Mazzucchi non è stato disposto un vincolo indiretto sulla sponda del lago, e tanto meno sul lago stesso, e dunque il proprietario dell’immobile non ha un’aspettativa a opporsi con successo, per un interesse proprio, agli strumenti urbanistici e alle concessioni demaniali che consentono l’occupazione di una maggiore superficie lacuale per l’ampliamento del porto turistico.
Una tutela è invece possibile entro limiti più ristretti, ossia qualora venga fornita la dimostrazione che le nuove opere potrebbero alterare in modo rilevante, non per un singolo proprietario ma per tutti gli osservatori collocati in punti accessibili al pubblico, lo scenario sottoposto a vincolo paesistico (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2019 n. 467 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICANel silenzio dell'art. 92, L.R. 11.03.2005 n. 12, che al c. 7 si limita ad affermare che spetta alla Provincia esprimere il parere circa la compatibilità del programma integrato di intervento predisposto dal Comune con il sopraordinato piano territoriale di coordinamento provinciale, senza però precisare a quale organo provinciale spetti tale potere, trova applicazione il criterio di riparto fra gli organi di governo degli enti locali fissato dall'art. 42, c. 2, lett. h), T.U. 18.08.2000 n. 267, per effetto del quale detta competenza spetta alla Giunta provinciale, e non al Consiglio provinciale, trattandosi non di un parere in senso tecnico, ma di una mera verifica di conformità, che non è espressione di potestà pianificatoria, ma esprime un mero raffronto, privo di ogni valutazione discrezionale, tra il programma comunale ed il piano territoriale provinciale.
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1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza ha chiarito che nel silenzio dell'art. 92, L.R. 11.03.2005 n. 12, che al c. 7 si limita ad affermare che spetta alla Provincia esprimere il parere circa la compatibilità del programma integrato di intervento predisposto dal Comune con il sopraordinato piano territoriale di coordinamento provinciale, senza però precisare a quale organo provinciale spetti tale potere, trova applicazione il criterio di riparto fra gli organi di governo degli enti locali fissato dall'art. 42, c. 2, lett. h), T.U. 18.08.2000 n. 267, per effetto del quale detta competenza spetta alla Giunta provinciale, e non al Consiglio provinciale, trattandosi non di un parere in senso tecnico, ma di una mera verifica di conformità, che non è espressione di potestà pianificatoria, ma esprime un mero raffronto, privo di ogni valutazione discrezionale, tra il programma comunale ed il piano territoriale provinciale (C.S., Sez, IV, 28.05.2009 n. 3333, che ha riformato TAR Lombardia, Milano, Sez., II, 29.10.2008 n. 5219) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2018 n. 205) (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Il Consiglio di stato, dopo avere evidenziato che la Valutazione ambientale strategica (Vas) non è configurata come un procedimento o un sub procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ha affermato che è legittima, e anzi quasi fisiologica l'evenienza che l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica (Vas) sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa Autorità procedente.
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2. Il secondo motivo è parimenti infondato e quindi non occorre scrutinare l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Comune.
In merito alla distinzione tra Autorità competente e Autorità procedente nella VAS la giurisprudenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.09.2018 n. 2163) ha chiarito che il Consiglio di stato, sezione IV, con la sentenza del 12.01.2011, numero 133, dopo avere evidenziato che la Valutazione ambientale strategica (Vas) non è configurata come un procedimento o un sub procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ha affermato che è legittima, e anzi quasi fisiologica l'evenienza che l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica (Vas) sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa Autorità procedente (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Se è vero che il Comune non può imporre un vincolo forestale né un vincolo paesistico, ciò non preclude al Comune di prevedere una destinazione a verde agricolo, conformativa dello stato dei suoli, che include le aree destinate all’esercizio sia di attività propriamente agricole che di delle attività boschive, tanto è vero che l’art. 59, comma 3°, lett. b), della l.r. Lombardia n. 12/2005 riconosce un indice fondiario anche su <<terreni a bosco>>.
La giurisprudenza poi riconosce che la classificazione a zona agricola possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell’insediamento urbano ed assumendo, per tale via, la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano.
Ne consegue che la previsione boschiva prevista nel PGT non può ritenersi illegittima in quanto riconducibile ad una destinazione a verde agricolo.

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4. Con riferimento al quarto motivo, le parti sono in disaccordo in merito alla questione se il P.I.F. o il P.T.C.P. prevedano un vero e proprio vincolo sull’area interessata e sulla riconducibilità al concetto di bosco dei c.d. “elementi boscati minori”.
In merito occorre precisare che, se è vero che il Comune non può imporre un vincolo forestale né un vincolo paesistico, ciò non preclude al Comune di prevedere una destinazione a verde agricolo, conformativa dello stato dei suoli, che include le aree destinate all’esercizio sia di attività propriamente agricole che di delle attività boschive, tanto è vero che l’art. 59, comma 3°, lett. b), della l.r. Lombardia n. 12/2005 riconosce un indice fondiario anche su <<terreni a bosco>>.
La giurisprudenza (ex plurimis TAR Valle d'Aosta, sentenza 02.11.2011 n. 73) poi riconosce che la classificazione a zona agricola possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell’insediamento urbano ed assumendo, per tale via, la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano.
Ne consegue che la previsione boschiva prevista nel PGT non può ritenersi illegittima in quanto riconducibile ad una destinazione a verde agricolo (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Per quanto riguarda il sindacato del giudice amministrativo in materia di osservazioni ai piani regolatori, le osservazioni medesime costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà.
In merito poi all’onere motivazionale, cui l’amministrazione è tenuta, la giurisprudenza afferma comunemente che le osservazioni proposte dai cittadini nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici ma semplici apporti collaborativi e, pertanto, il loro rigetto o il loro accoglimento non richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento pianificatorio.

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5. In merito al quinto motivo occorre premettere, per quanto riguarda il sindacato del giudice amministrativo in materia di osservazioni ai piani regolatori, che la giurisprudenza costante (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 04.02.2018 n. 418) afferma che le osservazioni costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà.
In merito poi all’onere motivazionale, cui l’amministrazione è tenuta, la giurisprudenza afferma comunemente che le osservazioni proposte dai cittadini nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici ma semplici apporti collaborativi e, pertanto, il loro rigetto o il loro accoglimento non richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento pianificatorio (Consiglio di Stato, sez. IV, 18.06.2009, n. 4024; TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 20.04.2010 n. 2043).
Nel caso di specie l’amministrazione non doveva controdedurre in modo specifico alla richiesta di cancellazione del suddetto vincolo a "bosco" per illegittimità del medesimo, in quanto, come visto, esso è legittimo.
Per quanto riguarda poi gli altri profili (capacità insediativa, necessità di acquisire le aree in questione per garantire la "continuità" di aree a servizi in tale zona, presenza di aree di sviluppo in Comuni contermini) si tratta di valutazioni ampliamente discrezionali che rientrano nel merito dell’azione amministrativa e quindi non possono essere sindacate dal giudice.
In definitiva quindi il ricorso va respinto (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASui cartelli pubblicitari si abbassa la sanzione.
È illegittima la forte sanzione prevista dal Codice della strada per l'installazione di cartelli pubblicitari in modo difforme dall'autorizzazione. Detta sanzione deve essere ribassata e allineata a quella applicabile in caso di mezzi pubblicitari abusivi.

Lo ha deciso la Corte Costituzionale con la sentenza 10.05.2019 n. 113.
L'art. 36, comma 10-bis, del decreto legge n. 98 del 06.07.2011, convertito con modificazioni in legge n. 111 del 15.07.2011, ha introdotto una nuova formulazione del comma 12 dell'art. 23 del codice della strada, disponendo che chiunque non osserva le prescrizioni indicate nelle autorizzazioni per il posizionamento di cartelli pubblicitari è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.388 a 13.876 euro (importi poi aggiornati), in via solidale con il soggetto pubblicizzato.
Aumentando in tal modo da 159 a 1.388 euro nel minimo e da 639 a 13.876,00 euro nel massimo l'importo della sanzione da pagare, quando invece, all'epoca della violazione oggetto della decisione della Corte costituzionale, la somma da pagare per il posizionamento di pubblicità abusiva era compresa tra un minimo di 422 e un massimo di 1.695 euro.
Secondo la Corte costituzionale, il forte aumento deciso dal legislatore nel 2011 per la sanzione relativa alla collocazione di mezzi pubblicitari in modo difforme dall'autorizzazione è manifestamente irragionevole, in quanto tale condotta è certamente connotata da minor disvalore rispetto a quella dell'installazione senza autorizzazione. Non è, in sostanza, giustificabile l'eccessiva e non proporzionata misura dell'aumento della sanzione correlata all'infrazione meno grave in materia di pubblicità.
Pertanto, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 111 depositata il 10.05.2019, per l'inosservanza delle prescrizioni autorizzative non sono più applicabili gli attuali importi da un minimo di 1.420 a 14.196 euro, ma gli importi di cui all'art. 23, comma 11, del codice della strada, ovvero da un minimo di 431 a un massimo di 1.734 euro (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso civico generalizzato.
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Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Ascesso ordinario l. n. 241 del 1990 – Permane.
  
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Limiti – Individuazione.
  
Anche dopo l’entrata in vigore delle norme che disciplinano l’accesso civico ‘generalizzato’, permane un settore ‘a limitata accessibilità, nel quale continuano ad applicarsi le più rigorose norme della l. 07.08.1990, n. 241 (1).
  
Ai sensi dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. n. 33 del 2013, il criterio individuato dal legislatore per la valutazione delle esclusioni dall’accesso generalizzato è quello del solo pregiudizio, mentre resta escluso, contrariamente alle altre esperienze FOIA, la previsione espressa di un test dell’interesse pubblico, cioè la possibilità di effettuare, ai fini della decisione finale sull’istanza di accesso, un bilanciamento tra la tutela da assicurare all’interesse da proteggere dalla disclosure e la tutela dell’interesse pubblico alla diffusione della informazione, per cui se il secondo dovesse risultare prevalente si procederebbe comunque alla diffusione (2).
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   (1) Il Tar ha richiamato quanto di recente affermato dal Consiglio di Stato, sez. VI, 31.01.2018, n. 651, secondo cui “se è vero che ormai è legislativamente consentito a chiunque di conoscere ogni tipo di documento o di dato detenuto da una pubblica amministrazione (oltre a quelli acquisibili dal sito web dell’ente, in quanto obbligatoriamente pubblicabili), nello stesso tempo, qualora la tipologia di dato o di documento non può essere resa nota per il pericolo che ne provocherebbe la conoscenza indiscriminata, mettendo a repentaglio interessi pubblici ovvero privati, l’ostensione di quel dato e documento sarà resa possibile solo in favore di una ristretta cerchia di interessati in quanto titolati, secondo le tradizionali e più restrittive regole recate dalla legge 241/1990…; pur introducendo nel 2016 (d.lgs. 97/2016) il nuovo istituto dell’accesso civico ‘generalizzato’, espressamente volto a consentire l’accesso di chiunque a documenti e dati e quindi permettendo per la prima volta l’accesso (ai fini di un controllo) diffuso alla documentazione in possesso delle amministrazioni (e degli altri soggetti indicati nella norma appena citata) e privo di un manifesto interesse da parte dell’accedente, ha però voluto tutelare interessi pubblici ed interessi privati che potessero esser messi in pericolo dall’accesso indiscriminato.
Il legislatore ha quindi operato per un verso mitigando la possibilità di conoscenza integrale ed indistinta dei documenti detenuti dall’ente introducendo dei limiti all’ampio accesso (art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. 33/2013) e, per altro verso, mantenendo in vita l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi e la propria disciplina speciale dettata dalla legge 241/1990 (evitando accuratamente di novellare la benché minima previsione contenuta nelle disposizioni da essa recate), anche con riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia sotto il versante della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse in capo al richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle richieste volte ad ottenere un accesso diffuso
".
   (2) Ha chiarito la Sezione che nonostante la scelta esplicita operata dal legislatore italiano per il solo criterio del “pregiudizio concreto”, deve ritenersi che la scelta finale dell’amministrazione sull’istanza di accesso generalizzato deve tenere conto anche dell’interesse alla divulgazione che fonda la richiesta dell’istante. L’amministrazione è chiamata, infatti, non solo a considerare e verificare la serietà e la probabilità del danno all’interesse-limite, ma anche a contemperarlo con l’interesse alla conoscenza del richiedente.
Anche richieste di accesso civico presentate per finalità “egoistiche” possono favorire un controllo diffuso sull’amministrazione, se queste consentono di conoscere le scelte amministrative effettuate, in quanto il controllo diffuso di cui parla la legge non è da riferirsi alla singola domanda di accesso, ma è il risultato complessivo cui “aspira” la riforma sulla trasparenza la quale, ampliando la possibilità di conoscere l’attività amministrativa, favorisce forme diffuse di controllo sul perseguimento dei compiti istituzionali e una maggiore partecipazione dei cittadini ai processi democratici e al dibattito pubblico; pertanto, l’accesso generalizzato deve essere riguardato come estrinsecazione di una libertà e di un bisogno di cittadinanza attiva, i cui relativi limiti debbono essere considerati di stretta interpretazione e saranno solo quelli espressamente previsti dal legislatore.
Nella eventualità in cui l’istanza di accesso generalizzato si riferisca a una mole di documenti tale da rappresentare (ad esempio, anche per mancanza di procedure informatizzate) una aggravio per l’attività dell’Ente, di cui si darà conto motivatamente, questo attiverà l’istituto del “dialogo cooperativo” con il richiedente.
L’amministrazione, infatti, deve consentire l’accesso generalizzato anche quando l’istanza fa riferimento a un numero cospicuo di documenti ed informazioni; non vi è tenuta allorquando la richiesta risulti massiva ovvero idonea a interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione, incombendo sulla stessa l’obbligo di motivare espressamente su detta ritenuta interferenza (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.05.2019 n. 2486 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Le questioni che vengono in evidenza nella presente decisione sono molteplici e concernono aspetti propri sia della disciplina dell’accesso documentale (ex art. 22 e ss. della legge 241/1990), per i quali già esiste un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che sarà in questa sede richiamato ai fini della decisione, che dell’accesso civico generalizzato (art. 5, co. 2 e ss., del d.lgs. 33/2013), istituto quest’ultimo, che al contrario del primo, risulta tuttora poco “esplorato” nel nostro ordinamento quanto a presupposti, finalità e limiti, in ragione della sua recente introduzione, in particolare quanto alla sua differenziazione con l’accesso documentale.
Le questioni che vengono qui in rilievo riguardano, quanto all’accesso documentale, i presupposti per consentire l’accesso, le finalità dello stesso e l’ampiezza oggettiva; per l’accesso generalizzato, invece, vengono in evidenza gli aspetti relativi ai presupposti, alle finalità, all’attività che svolge l’amministrazione nel decidere l’istanza, ai limiti, alle ipotesi di istanze massive, al c.d. dialogo collaborativo in caso di istanze che contengono richieste onerose, all’obbligo di motivare la decisione dell’amministrazione, all’intervento del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) in sede di riesame.
Tanto premesso, si deve considerare quanto segue.
1)- L’accesso documentale.
L’accesso ai documenti è stato considerato per anni il principale strumento di trasparenza, costituendo, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, principio generale dell’attività amministrativa, finalizzato a favorire la partecipazione e ad assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa.
Come è noto, l’istituto dell’accesso ai documenti consente all’interessato di accedere a quei documenti amministrativi la cui conoscenza è importante per la tutela di una propria situazione giuridicamente rilevante, in pratica consentendogli di soddisfare un interesse individuale e qualificato alla conoscenza. L’istituto, quindi, più che uno strumento di controllo democratico delle decisioni amministrative da parte dei cittadini generalmente considerati, sostanzia uno strumento a disposizione del singolo per tutelare propri interessi giuridici nei rapporti con l’amministrazione.
Chi chiede i documenti non è un quisque de populo, ma è un soggetto “interessato” al documento e cioè, come la stessa legge lo definisce, un soggetto, di regola privato (la norma include anche i portatori di interessi pubblici o diffusi), che abbia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento oggetto dell’istanza di accesso.
In definitiva,
il diritto di accesso ai documenti amministrativi non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita, così che la domanda tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l’anzidetta situazione, ma anche dall’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe proporre una volta conosciuti gli atti (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 11.06.2012, n. 3398, nonché Cons. St., Ad. Plen., 24.04.2012, n. 7).
In altri termini,
la nozione di “interesse giuridicamente rilevante”, che fonda il diritto di accesso è più ampia rispetto a quella di “interesse all’impugnazione (Cons. St., sez. V, 17.03.2015, n. 1370; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 10.10.2017, n. 4727).
Il diritto di accesso quale principio generale dell’attività amministrativa può, quindi, subire limitazioni nei soli casi indicati dalla legge e non già sulla base di unilaterali valutazioni dell’amministrazione in ordine alla maggiore o minore utilità dell’accesso ai fini di una proficua tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive dell’istante (Cfr. Cons. St., sez. IV, 28.07.2016, n. 3431; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 23.08.2017, n. 4115).
2) - I presupposti per esercitare il diritto di accesso.
Come già anticipato, è legittimato all’accesso il soggetto che ha un interesse diretto, concreto e attuale corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento che intende conoscere. Il carattere dell’attualità non è collegato all’interesse ad agire in giudizio, ma direttamente alla richiesta di conoscere il documento; inoltre, il carattere della concretezza impone che si tratti di un interesse effettivo e tangibile. Il soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non emulativo, deve essere ricollegabile alla persona dell’istante da uno specifico rapporto.
Ciò che è importante è che il richiedente intenda, con la documentazione da acquisire, supportare una situazione di cui è titolare, che l’ordinamento stima meritevole di tutela, con la conseguenza che «non è sufficiente addurre il generico e indistinto interesse di qualsiasi cittadino alla legalità o al buon andamento dell’attività amministrativa» (Cfr. Cons. St., sez. VI, 10.11.2015, n. 5111), bensì è necessario che il richiedente dimostri che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti amministrativi richiesti, verrà inequivocabilmente a trovarsi “titolare” di «poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque a intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso, così come l’esercizio del secondo prescinde dalla prima» (Cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 31.03.2016, n. 3941; in conformità, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 28.01.2016, n. 521; TAR Lazio, Roma, sez. II, 11.01.2016, n. 232).
La norma se, da una parte, consente la possibilità di accedere ai documenti in base alla prospettazione dell’interesse fatta dal richiedente, dall’altra impone che venga evidenziato il nesso logico-funzionale tra il fine dichiarato e la documentazione richiesta.
3)- I limiti all’accesso documentale: istanze preordinate al controllo generalizzato.
L’art. 24, della legge 241/1990 prevede gli interessi pubblici e privati che devono essere tutelati in caso di istanza di accesso documentale e che necessariamente devono essere considerati e bilanciati in sede di decisione.
Il co. 3 del medesimo articolo dispone, inoltre, che non possono essere ammesse istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni, intendendosi con ciò che l’istituto dell’accesso ai documenti (contrariamente a ciò che consente la disciplina in tema di accesso civico, di cui si dirà a breve) non è preordinato a soddisfare, in senso lato, l’interesse al buon andamento dell’attività amministrativa, ovvero ad assicurare un regime di trasparenza finalizzato a consentire “il controllo” sull’efficienza o sull’efficacia dell’azione amministrativa.
Infatti, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che
il diritto di accesso ai documenti non è assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti. Tale diritto non si sostanzia in un’azione popolare e neppure può tradursi in un controllo generalizzato sulla legittimità dell’azione amministrativa, ma deve essere strumentale alla tutela di un interesse personale del richiedente. La posizione legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico e indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa.
Proprio di recente il supremo consesso della Giustizia Amministrativa ha ulteriormente chiarito che,
pur rientrando la valorizzazione del principio della massima ostensione nell’ambito del nuovo modo di concepire il rapporto tra cittadini e potere pubblico, improntato a trasparenza e accessibilità dei dati e delle informazioni, ciò non vuol dire che esso possa estendersi fino al punto da legittimare un controllo generalizzato, generico e indistinto del singolo sull’operato dell’amministrazione.
È chiaro, quindi, che anche dopo l’entrata in vigore delle norme che «disciplinano l’accesso civico ‘generalizzato’, permane un settore ‘a limitata accessibilità’, nel quale continuano ad applicarsi le più rigorose norme della legge 241/1990 e se è vero che ormai è legislativamente consentito a chiunque di conoscere ogni tipo di documento o di dato detenuto da una pubblica amministrazione (oltre a quelli acquisibili dal sito web dell’ente, in quanto obbligatoriamente pubblicabili), nello stesso tempo, qualora la tipologia di dato o di documento non può essere resa nota per il pericolo che ne provocherebbe la conoscenza indiscriminata, mettendo a repentaglio interessi pubblici ovvero privati, l’ostensione di quel dato e documento sarà resa possibile solo in favore di una ristretta cerchia di interessati in quanto titolati, secondo le tradizionali e più restrittive regole recate dalla legge 241/1990…; pur introducendo nel 2016 (d.lgs. 97/2016) il nuovo istituto dell’accesso civico ‘generalizzato’, espressamente volto a consentire l’accesso di chiunque a documenti e dati e quindi permettendo per la prima volta l’accesso (ai fini di un controllo) diffuso alla documentazione in possesso delle amministrazioni (e degli altri soggetti indicati nella norma appena citata) e privo di un manifesto interesse da parte dell’accedente, ha però voluto tutelare interessi pubblici ed interessi privati che potessero esser messi in pericolo dall’accesso indiscriminato. Il legislatore ha quindi operato per un verso mitigando la possibilità di conoscenza integrale ed indistinta dei documenti detenuti dall’ente introducendo dei limiti all’ampio accesso (art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. 33/2013) e, per altro verso, mantenendo in vita l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi e la propria disciplina speciale dettata dalla legge 241/1990 (evitando accuratamente di novellare la benché minima previsione contenuta nelle disposizioni da essa recate), anche con riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia sotto il versante della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse in capo al richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle richieste volte ad ottenere un accesso diffuso» (Cons. St., sez. VI, 31.01.2018, n. 651).
Alla luce dei principi sopra richiamati, l’istanza di accesso documentale formulata dal ricorrente deve essere respinta in quanto soggiace al limite di cui all’art. 24, co. 3, poiché preordinata ad un controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione, avendo richiesto il ricorrente di avere copia di “tutte le licenze commerciali di qualunque natura rilasciate nel comune di Serrara Fontana; dei certificati di agibilità di dette attività commerciali (alberghi, ristoranti, negozi, ecc.); delle domande di condono non ancora evase ovvero a cui non è stata ancora concessa la sanatoria in relazione ad immobili in cui vengono esercitate attività commerciali per le quali è stata rilasciata licenza di commercio; di tutte le continuità d’uso rilasciate per immobili sottoposti a pratica di condono non ancora esaminata e concessa”.
4) - Il ricorso, quindi, con riguardo all’accesso ai documenti richiesti in base alla legge 241/1990 deve essere respinto in quanto la mole dei documenti indicati nell’istanza, sebbene collegati all’interesse del ricorrente di conoscere, relativamente al territorio del Comune di Serrara Fontana, quanti esercizi commerciali operano in regime di agibilità provvisoria in pendenza di istanza di condono, non trattata dal Comune, nonché all’interesse (se del caso) di far emergere che l’ente locale “normalmente” opera nei termini quali censurati dal TAR Campania con la sentenza n. 3100/2018, sostanzia, per la sua ampiezza, un accesso rivolto, in senso lato, a soddisfare l’interesse al buon andamento dell’attività amministrativa ovvero a consentire “il controllo” sull’efficienza o sull’efficacia dell’azione amministrativa, non consentito dalla legge 241/1990.
5) - A diverso esito si giunge allorquando si esamina la domanda di accesso del ricorrente in base all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013.
6) - Accesso civico generalizzato: ambito oggettivo e finalità.
Sulla scia dei concetti introdotti dal d.lgs. n. 150 del 2009 in materia di trasparenza e in attuazione della delega recata dall’art. 1, commi 35 e 36 della l. 28.11.2012, n. 190, in tema di “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, è stato adottato il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, come modificato dal d.lgs. 97/2016, che ha operato una importante estensione dei confini della trasparenza intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.
L’accesso civico generalizzato è stato introdotto in Italia sulla base della delega di cui all’art. 7, comma 1, lett. h), della cd. Legge Madia (legge 124/2015), ad opera dell’art. 6 del d.lgs. 25.05.2016, n. 97 che ha novellato l’art. 5 del decreto trasparenza (d.lgs. 33/2013).
L’ampio diritto all’informazione e alla trasparenza dell’attività delle amministrazioni di cui al decreto 33/2013 resta temperato solo dalla necessità di garantire le esigenze di riservatezza, di segretezza e di tutela di determinati interessi pubblici e privati (come elencati nell’art. 5-bis del d.lgs. 33/2013) che diventano l’eccezione, alla stregua degli ordinamenti caratterizzati dal modello FOIA, (Freedom of Information Act, la legge sulla libertà di informazione adottata negli Stati Uniti il 04.07.1966).
Nonostante alcuni punti di contatto di tipo “testuale” tra la disciplina in tema di accesso ai documenti (legge 241/1990) e quella riferita all’accesso civico generalizzato (d.lgs. 33/2013), quest’ultimo si pone su un piano diverso rispetto all’accesso documentale, che come già detto rimane caratterizzato da un rapporto qualificato del richiedente con i documenti che si intendono conoscere, derivante proprio dalla titolarità in capo al soggetto richiedente di una posizione giuridica qualificata tutelata dall’ordinamento.
Il nuovo accesso civico, che attiene alla cura dei beni comuni a fini d’interesse generale, si affianca, senza sovrapposizioni, alle forme di pubblicazione on-line del 2013 e all’accesso agli atti amministrativi del 1990, consentendo, del tutto coerentemente con la ratio che lo ha ispirato (e che lo differenzia dall’accesso qualificato previsto dalla legge generale sul procedimento), l’accesso alla generalità degli atti e delle informazioni, senza onere di motivazione, a tutti i cittadini singoli e associati, in guisa da far assurgere la trasparenza a condizione indispensabile per favorire il coinvolgimento dei cittadini nella cura della “cosa pubblica”, oltre che mezzo per contrastare ogni ipotesi di corruzione e per garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’Amministrazione (cfr. Cons. St. sez. III, 06.03.2019, n. 1546).
Con il d.lgs. n. 33 del 2013, infatti, viene assicurata ai cittadini la possibilità di conoscere l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni anche attraverso l’obbligo a queste imposto di pubblicare sui siti istituzionali, nella sezione denominata “Amministrazione trasparente”, i documenti, i dati e le informazioni concernenti le scelte amministrative operate (artt. 12 e ss.), ad esclusione dei documenti per i quali è esclusa la pubblicazione, in base a norme specifiche ovvero per ragioni di segretezza, secondo quanto indicato nello stesso decreto.
7) - Presupposti.
Alla luce del dettato normativo,
si comprende bene la rilevante differenza che esiste tra accesso ai documenti e accesso civico generalizzato che, pur condividendo lo stesso tipo di tutela processuale, non possono considerarsi sovrapponibili: il primo è strumentale alla tutela degli interessi individuali di un soggetto che si trova in una posizione differenziata rispetto agli altri cittadini, in ragione della quale ha il diritto di conoscere e di avere copia di un documento amministrativo; il secondo è azionabile da chiunque, senza la previa dimostrazione della sussistenza di un interesse attuale e concreto per la tutela di situazioni rilevanti, senza dover motivare la richiesta e con la sola finalità di consentire una pubblicità diffusa e integrale dei dati, dei documenti e delle informazioni che sono considerati, in base alle norme, come pubblici e quindi conoscibili.
L’art. 5, co. 2, del decreto 33/2013 consente ai cittadini di accedere a dati e documenti (detenuti dalle Amministrazioni) “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati individuati all’art. 5-bis del decreto, conoscenza che deve portare a favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
Tale controllo è, quindi, funzionale a consentire la partecipazione dei cittadini al dibattito pubblico e finalizzato ad assicurare un diritto a conoscere in piena libertà anche dati “ulteriori” e cioè diversi da quelli pubblicati, naturalmente senza travalicare i limiti previsti dal legislatore e posti a tutela di eventuali interessi pubblici o privati che potrebbero confliggere con la volontà di conoscere espressa dal cittadino.
Per facilitare il raggiungimento di tale obiettivo la disciplina prevista per l’accesso civico generalizzato dispone che questo non sia sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente; l’istanza non deve essere motivata; deve esclusivamente limitarsi a indicare i dati, le informazioni o i documenti che si intendono conoscere.
8) - I limiti all’accesso civico generalizzato.
La disciplina dell’accesso civico generalizzato, avendo l’istituto ambiti di applicazione molto estesi in quanto riferito ai dati, alle informazioni e ai documenti inerenti l’attività e l’organizzazione delle amministrazioni, non poteva non prevedere anche una serie di limiti cui lo stesso è sottoposto, in ragione degli interessi pubblici e privati che devono essere necessariamente salvaguardati; e ciò alla stregua di quanto si rinviene anche nell’ambito della disciplina sull’accesso ai documenti (art. 24, legge 241/1990) e nel decreto sulla trasparenza (d.lgs. 33/2013) in merito agli obblighi di pubblicazione (art. 7-bis, d.lgs. 33/2013).
L’art. 5-bis. co. 1, individua i limiti da applicare alle richieste di accesso civico generalizzato, prevedendo che detto accesso deve essere rifiutato se il diniego è necessario per evitare un “pregiudizio concreto” alla tutela di uno dei seguenti interessi pubblici, allorquando cioè il diritto a conoscere possa pregiudicare la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la difesa e le questioni militari, le relazioni internazionali, la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato, la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento, il regolare svolgimento di attività ispettive.
Ancora, ai sensi dell’art. 5- bis, co. 2, l’accesso generalizzato deve essere negato se ciò risulti necessario per evitare un “pregiudizio concreto” alla tutela di uno dei seguenti interessi privati, quali la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia, la libertà e la segretezza della corrispondenza e gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali.
Dal dato normativo (art. 5-bis, co. 1 e 2) emerge che il criterio individuato dal legislatore per la valutazione delle esclusioni dall’accesso generalizzato è quello del solo pregiudizio (harm test), mentre resta escluso, contrariamente alle altre esperienze FOIA, la previsione espressa di un test dell’interesse pubblico (the public interest test), cioè la possibilità di effettuare, ai fini della decisione finale sull’istanza di accesso, un bilanciamento tra la tutela da assicurare all’interesse da proteggere dalla disclosure e la tutela dell’interesse pubblico alla diffusione della informazione, per cui se il secondo dovesse risultare prevalente si procederebbe comunque alla diffusione.
Nonostante la scelta esplicita operata dal legislatore italiano, con riguardo all’accesso generalizzato, per il solo criterio del “pregiudizio concreto”,
deve ritenersi che la scelta finale dell’amministrazione sull’istanza di accesso generalizzato non deve tenere conto solo del “pregiudizio concreto” ma anche dell’interesse alla divulgazione che fonda la richiesta dell’istante. L’amministrazione nell’esercizio dell’attività discrezionale (attività che esercita quando è chiamata a decidere se dare in ostensione i documenti e in che termini, al fine di proteggere gli interessi pubblici e privati previsti) è chiamata, infatti, non solo a considerare e verificare la serietà e la probabilità del danno all’interesse-limite, ma anche a contemperarlo con l’interesse alla conoscenza del richiedente. In caso di pregiudizio concreto a uno degli interessi pubblici e privati, infatti, ciò dovrebbe rappresentare solo una condizione necessaria, ma non sufficiente, per negare l’ostensione.
Sul punto va richiamata la giurisprudenza del Supremo consesso della giustizia amministrativa secondo cui «
la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del richiedente» (Cons. Stato, sez. IV, 12.08.2016, n. 3631).
9) - L’amministrazione intimata, dovrà operare una valutazione comparativa, secondo il principio di proporzionalità, (sull’applicazione di tale principio in materia di trasparenza e obblighi di pubblicazione si veda anche la recente sentenza della Corte Cost. n. 20/2019) fra il beneficio che potrebbe arrecare la disclosure richiesta e il sacrificio causato agli interessi pubblici e privati contrapposti che vengono in gioco. In base al bilanciamento condotto secondo il principio di proporzionalità, l’interesse alla conoscenza dell’informazione, del dato o del documento (di cui all’istanza di accesso generalizzato del richiedente) non soccomberà rispetto al pregiudizio concreto di un interesse-limite, se ritenuto di minore impatto.
L’amministrazione dovrà assumere la decisione nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia di tutti gli interessi coinvolti, quindi anche di quello del richiedente.
Il principio di proporzionalità impone all’amministrazione di valutare le esigenze di tutti i titolari degli interessi presenti nell’azione amministrativa, compreso quello del richiedente, al fine di ricercare la soluzione che comporti il minor sacrificio per tutti gli interessi coinvolti.
La necessaria considerazione dell’interesse alla disclosure si impone, così, direttamente all’amministrazione nell’esercizio dell’attività discrezionale di cui è titolare e che svolge quando è chiamata a decidere l’istanza di accesso generalizzato. Il risultato di questa ponderazione diventa comprensibile per il cittadino con la motivazione, strumento di esplicitazione e di comprensione delle ragioni della scelta effettuata e di valutazione degli interessi contrapposti.
In pratica l’amministrazione, nonostante il riferimento nella norma al solo “test del pregiudizio concreto”, dovrà considerare non solo il danno che l’ostensione può creare all’interesse (limite) “protetto” dall’ordinamento, ma anche valutare l’aspettativa che ha il richiedente di conoscere i dati, le informazioni o i documenti oggetto dell’istanza (riferibili all’attività e all’organizzazione amministrativa) e quale potrebbe essere il contributo positivo alla “conoscenza diffusa” dell’attività amministrativa che l’ostensione richiesta potrebbe comportare.
La regola della generale accessibilità è, così, temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati che possono subire un pregiudizio dalla rivelazione generalizzata di talune informazioni, ma che comunque non si trasformano in limiti tout court alla trasparenza amministrativa dovendo essere riguardati anche alla luce dell’interesse alla accessibilità delle informazioni, dei dati e dei documenti richiesti.
10) - Finalità della legge.
Per quanto concerne le finalità della legge che sono, con riguardo alla trasparenza amministrativa, quella di «promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (cfr. art. 1, co. 1, d.lgs. 33/2013) e, più in particolare, con riguardo all’accesso generalizzo, quella di «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» (art. 5, co. 2. d.lgs. 33/2013), le dette finalità rappresentano gli obiettivi che la legge vuole perseguire, essendo l’accesso civico generalizzato solo uno degli strumenti volti a realizzare un ordinamento democratico, a consentire la partecipazione dei cittadini alla vita politico-amministrativa, a comprendere le scelte effettuate dalle amministrazioni, a promuovere il libero formarsi dell’opinione pubblica.
Naturalmente queste finalità non possono trasformarsi in limiti “impliciti”: l’amministrazione non potrà negare un accesso generalizzato ritenendo che la conoscenza dei documenti richiesti non sia utile alle finalità della legge ovvero che l’ostensione richiesta “non risulti finalizzata al controllo diffuso”; così interpretando il dato normativo si corre, infatti, il rischio di introdurre limiti alla libertà di informazione non previsti espressamente dal legislatore.
La finalità soggettiva che spinge il richiedente a presentare istanza di accesso civico non è, infatti, sindacabile se non correndo il rischio di confondere la finalità della legge con la finalità soggettiva del richiedente.
11) - Alla luce di quanto argomentato, quindi,
anche richieste di accesso civico presentate per finalità “egoistiche” possono favorire un controllo diffuso sull’amministrazione, se queste consentono di conoscere le scelte amministrative effettuate.
Il controllo diffuso di cui parla la legge, infatti, non è da riferirsi alla singola domanda di accesso ma è il risultato complessivo cui “aspira” la riforma sulla trasparenza la quale, ampliando la possibilità di conoscere l’attività amministrativa, favorisce forme diffuse di controllo sul perseguimento dei compiti istituzionali e una maggiore partecipazione dei cittadini ai processi democratici e al dibattito pubblico.
In definitiva, l’accesso generalizzato deve essere riguardato come estrinsecazione di una libertà e di un bisogno di cittadinanza attiva, i cui relativi limiti debbono essere considerati di stretta interpretazione e saranno solo quelli espressamente previsti dal legislatore.
Potranno trovare, così, accoglimento anche istanze tese all’acquisizione di informazioni utili a fini personali, ad esempio professionali, se l’istanza riguarda informazioni, dati e documenti amministrativi e ciò perché ai fini della trasparenza e del diritto a conoscere rileva “che cosa si può conoscere” e non “perché si vuole conoscere”. Se i dati e i documenti richiesti sono inerenti a scelte amministrative, all’esercizio di funzioni istituzionali, all’organizzazione e alla spesa pubblica, questi potranno essere considerati di “interesse pubblico” e quindi conoscibili, a meno che non si rinvengano concomitanti interessi pubblici e privati prevalenti da salvaguardare.

12) - Fatta questa premessa di carattere normativo-interpretativo, e passando all’esame dell’istanza di accesso, il ricorrente ha chiesto di avere copia, ex art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013:
   «- di tutte le licenze commerciali di qualunque natura rilasciate nel comune di Serrara Fontana;
   - dei certificati di agibilità di dette attività commerciali (alberghi, ristoranti, negozi, ecc.);
   - delle domande di condono non ancora evase ovvero a cui non è stata ancora concessa la sanatoria in relazione ad immobili in cui vengono esercitate attività commerciali per le quali è stata rilasciata licenza di commercio;
   - di tutte le continuità d’uso rilasciate per immobili sottoposti a pratica di condono non ancora esaminata e concessa visto che il TAR non l’ha riconosciuta come equipollente del necessario requisito dell’agibilità
».
L’intento principale del ricorrente (come esplicitato in ricorso) è quello di sapere, anche per difendersi adeguatamente, se ha subito discriminazioni e quindi di verificare l’osservanza del principio della par condicio civium. Afferma di voler sapere se il diniego di agibilità basato effettivamente sulla pendenza di una domanda di condono edilizio, non ancora evasa dall’amministrazione comunale, è principio applicato per la generalità dei cittadini e se l’ente ha rilasciato per gli esercizi commerciali, la cui attività è svolta in locali oggetto di domanda di condono edilizio, l’agibilità provvisoria.
13) - Va in primo luogo ricordato, come detto sopra, che
non rileva ai fini dell’accesso generalizzato la legittimazione rappresentata. Ciò che diventa dirimente è se, alla luce delle finalità della legge, i documenti richiesti risultino conoscibili in quanto in grado di contribuire a realizzare il controllo diffuso sull’attività dell’amministrazione e sulle scelte dalla stessa effettuate (salvaguardando concomitanti limiti ritenuti prevalenti).
In merito alla istanza nella specie proposta, certamente può ritenersi che la conoscenza dei documenti e dei dati richiesta consentono un controllo diffuso da parte del cittadino in quanto permettono di sapere, per esempio, quante sono le domande di condono pendenti presso il Comune, e da quanti anni pendono, se sono stati rilasciati certificati di agibilità provvisoria (anziché evadere le domande di condono) ovvero se sono autorizzate continuità d’uso per immobili sottoposti a pratica di condono non ancora esaminata.
Non rilevano in questa sede i motivi di ricorso che potrebbero essere proposti successivamente, in merito agli atti conosciuti, così come non rileva il fatto che gli stessi potrebbero risultare in ipotesi inammissibili o infondati, in quanto, ai fini della presente decisione, è importante solo decidere se i dati e i documenti richiesti ai sensi dell’art. 5, co. 2, possono ritenersi utili ai fini della conoscenza di come un’amministrazione pubblica svolge la propria attività e di come organizza i proprio uffici al fine di garantire efficienza, efficacia e credibilità dell’azione amministrativa.
L’istanza di accesso che viene qui in esame poteva essere formulata da qualunque cittadino, non necessariamente e/o esclusivamente dall’odierno ricorrente.
L‘amministrazione comunale chiamata a provvedere su questa istanza avrebbe dovuto esaminarla tenendo distinti i presupposti dell’accesso documentale di cui alla legge 241/1990 da quelli previsti per l’accesso generalizzato; avrebbe dovuto, quindi, operare la sua scelta operando un bilanciamento tra l’interesse del richiedente (nella sua qualità di quisque de populo) a vedere i documenti e quindi a conoscere l’attività amministrativa di che trattasi e la protezione da assicurare agli interessi pubblici e privati di cui all’elencazione dell’art. 5-bis del d.lgs. 33/2013, dando conto in motivazione della ponderazione effettuata e della prevalenza, nel caso, degli uni sull’altro.
14) - Sul punto deve ritenersi che l’atto impugnato risulta certamente affetto da motivazione carente in quanto non dà conto delle ragioni per cui è stato negato l’accesso civico generalizzato e cioè dell’eventuale pregiudizio a interessi pubblici e privati che si intendono tutelare (gli unici limiti, questi, previsti dal legislatore per negare l’accesso), limitandosi invece il comune a richiamare la giurisprudenza che fa riferimento a istanze c.d. “massive” che si pongono come causa di intralcio dell’azione della pubblica amministrazione (di cui si dirà a breve) e ritenendo inaccoglibile l’istanza del ricorrente in quanto rivolta solo a soddisfare un “bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico”.
15) - In merito all’ultimo punto deve ritenersi non legittima, alla luce del dettato normativo in tema di accesso generalizzato, la decisione dell’amministrazione in quanto riferita ad “istanza egoistica”, circostanza questa che non può rappresentare un limite in quanto non prevista dal legislatore come tale, e dunque inidonea a limitare la conoscenza “diffusa”.
La norma non prevede alcuna motivazione “a conoscere” da porre a supporto dell’istanza di accesso generalizzato e anche se l’amministrazione, nella istanza presentata dal ricorrente, sia stata a conoscenza dell’interesse “personale” di questi a conoscere, (che certamente rileva nell’ambito della disciplina sull’accesso ai documenti ex legge 241/1990), in quanto destinatario di precedenti atti amministrativi dallo stesso impugnati, questo non può ridondare sull’accesso generalizzato, per il quale la norma dispone che sia “il chiunque” a poter chiedere, senza dover spiegare le sue “ragioni”; tali considerazioni portano il Collegio a ritenere che anche finalità “egoistiche e personali” possono essere poste a fondamento di una istanza di accesso civico generalizzato, il quale ultimo, dunque, può essere soddisfatto purché non crei pregiudizio agli interessi pubblici e privati da salvaguardare.
Va anche chiarito che gli atti richiesti con l’istanza di accesso generalizzato sono atti che rilevano ai fini della conoscenza dell’attività amministrativa, in quanto espressione di scelte amministrative e certamente come tali idonei a realizzare quel processo di accountability che anima la recente riforma in tema di trasparenza.
L’amministrazione non dà conto, nella specie, dei concomitanti interessi che intende salvaguardare, facendo solo un generico riferimento alla inammissibilità dell’istanza in quanto tesa a un controllo generalizzato, alla mancanza di prova (da parte dell’istante) della posizione legittimante all’esercizio dell’actio exibendum, al (probabile) carico di lavoro che l’istanza avrebbe prodotto, in grado di interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione e infine, alla circostanza che alcuni atti non sarebbero neppure soggetti a pubblicazione obbligatoria.
16) - In merito ai diversi aspetti ora riportati e considerati dall’amministrazione come argomenti per rigettare l’istanza deve considerarsi che:
   - il limite dell’istanza intesa al controllo generalizzato rileva solo ai fini dell’applicazione dell’art. 22 della legge 241/1990 e non ai fini dell’applicazione dell’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013, che è invece proprio rivolto ad assicurare un controllo diffuso da parte dei cittadini;
   - la legittimazione al diritto all’accesso rileva solo con riferimento all’accesso documentale, alla luce dell’art. 22 della legge 241/1990;

   - la mole di atti richiesti ed effettivamente da concedere in ostensione non si apprezza in nessun modo in quanto l’amministrazione non dà conto del numero di istanze di condono pendenti, del numero di esercizi commerciali autorizzati, di certificati di agibilità provvisoria rilasciati e di cessione d’uso consentite ma fa genericamente riferimento a “un carico di lavoro per l’amministrazione in grado di interferire con il buon funzionamento della stessa”; trattandosi di un piccolo comune (poco più di tremila abitanti) doveva essere l’amministrazione a rappresentare, con “dati alla mano” l’aggravio lavorativo riferito e rappresentato nell’atto impugnato;
   - l’amministrazione non tiene conto che l’accesso civico generalizzato si riferisce a documenti “ulteriori” che possono essere richiesti dal cittadini, ulteriori cioè rispetto a quelli per i quali esiste l’obbligo di pubblicazione; l’accesso civico generalizzato è, quindi, normalmente richiesto per i dati e i documenti per i quali non esiste un obbligo di pubblicazione. In tal ultimo caso si sarebbe trattata di attività vincolata posta in capo all’amministrazione (per la quale alcuna valutazione era rimessa all’amministrazione) e il ricorrente avrebbe potuto far valere l’art. 5. co. 1 del d.lgs. 33/2013;
   - l’istanza di accesso generalizzato di cui è questione non può essere considerata “massiva” in quanto circoscritta a un segmento di attività dell’amministrazione il cui rigetto per “grave” carico di lavoro avrebbe potuto essere giustificato solo in base alla rappresentazione del numero (in caso notevole) di documenti esistenti;
   - il comune non tiene conto che l’accesso generalizzato consente una conoscenza “ampia” ma meno “profonda” di quella che si può ottenere in base alla legge 241/1990 per cui il richiedente potrà, di regola, accedere alle copie delle istanze inoltrate, ai certificati rilasciati, ma non a tutti gli atti allegati alle istanze;
   - l’amministrazione non ha tenuto conto della eventualità che per molti dei documenti richiesti non sussistono “controinteressati” cioè titolari della sfera di riservatezza da coinvolgere nel procedimento di accesso e che non basta il richiamo di un terzo soggetto, nell’ambito del documento, per renderlo effettivamente tale. Sul punto il Collegio aderisce a quell’orientamento in base al quale, con specifico riguardo alla materia dell’accesso ai documenti amministrativi, per controinteressati devono intendersi tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza; tale tutela deve essere assicurata nei confronti dei titolari dei dati sensibili e personali (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1034 del 2012).
Quella di controinteressato non è qualità che si ravvisa in tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma, appunto, solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza. Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento richiesto, ma occorre in capo a tale soggetto un quid pluris, vale a dire la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento. La veste di controinteressato in tema di accesso è una proiezione, perciò, del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto. Se ne desume che non tutti i dati riferibili ad un soggetto sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso, ma solo quelli rispetto ai quali sussiste, per la loro inerenza alla personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero discendere da una loro diffusione, una precisa e ben qualificata esigenza di rischio (Consiglio di Stato, Sezione V, n. 3190 del 2011, sez. VI, n. 2863/2016);
   - l’amministrazione non tiene conto, inoltre, della possibilità di non fornire alcuni dati personali che possono considerarsi non utili al fine di garantire la conoscenza dell’attività amministrazione, previo oscuramento degli stessi dai documenti da dare in ostensione;
   - infine,
l’amministrazione, a fronte di una istanza, che potrebbe risultare gravosa in ragione della mole di dati “in teoria” coinvolti, potrebbe fornire, rispetto alla documentazione richiesta, almeno il dato aggregato che ai fini della “conoscenza diffusa” comunque risulta un dato utile e importante.
17) - Alla luce di tali considerazioni il Collegio ritiene che il rigetto impugnato, per quanta parte è riferito all’istanza formulata ex art. 5, co. 2, d.lgs. 33/2013, deve essere annullato per difetto di motivazione in quanto non risultano sufficientemente rappresentate le ragioni per cui deve essere negato l’accesso generalizzato richiesto.
18) – Al fine di consentire concreta esecuzione alla presente decisione, il Collegio ritiene, infine, di fornire ulteriori indicazioni che hanno rilievo sul piano degli effetti conformativi della sentenza.
Il Collegio chiarisce, infatti, che
nella eventualità in cui l’istanza di accesso generalizzato proposta si riferisca a una mole di documenti tale da rappresentare (ad esempio, anche per mancanza di procedure informatizzate) una aggravio importante per l’attività dell’Ente, di cui si darà conto motivatamente, questo attiverà l’istituto del “dialogo cooperativo” con il richiedente considerato che esso ha un «valore immanente alle previsioni della legge istitutiva dell’accesso civico generalizzato e della finalità di condividere con la collettività il patrimonio di informazioni in possesso della pubblica amministrazione» (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. III, 19.02.2018, n. 234).
19) -
L’amministrazione, infatti, deve consentire l’accesso generalizzato anche quando l’istanza fa riferimento a un numero cospicuo di documenti ed informazioni; non vi è tenuta allorquando la richiesta risulti massiva «tale cioè da comportare un carico di lavoro in grado di interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione», incombendo sulla stessa l’obbligo di motivare su detta ritenuta “interferenza” e di esplicitare «le condizioni suscettibili di pregiudicare in modo serio ed immediato il buon funzionamento dell’amministrazione» (Delibera ANAC n. 1309/2016).
20) - Il Collegio condivide certamente i pronunciamenti del giudice amministrativo secondo cui
l’istituto dell’accesso generalizzato è teso a costituire uno strumento di partecipazione all’attività dell’amministrazione, di partecipazione al c.d. dibattito pubblico e che non può essere «utilizzato in maniera disfunzionale rispetto alla predetta finalità e non può essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione» (Cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 16.10.2017, n. 1971, 09.03.2018, n. 669).
Anche questo Tribunale ritiene del resto che
il principio generale del divieto di abuso del diritto, inteso come ogni ipotesi in cui un diritto cessa di ricevere tutela, poiché esercitato al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge, è legato alla tematica della buona fede, intesa come criterio per stabilire un limite alle pretese e ai poteri del titolare di un diritto.
In ragione di tali principi,
pur considerando che la valutazione dell’utilizzo dell’istituto secondo buona fede vada operata caso per caso, al fine di garantire un bilanciamento delle situazioni e per assicurare che non venga aggirata l’applicazione dell’istituto, è sicuramente importante evidenziare che l’accesso generalizzato non può trasformarsi in un boomerang per l’efficienza dell’amministrazione e che il dovere di solidarietà trova posto in Costituzione come il diritto alla trasparenza.
21) - Alla luce di tali argomentazioni il Collegio ritiene che quella formulata dal ricorrente non possa considerarsi istanza massiva tale da comportare un carico di lavoro in grado di interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione.
Come di recente affermato,
il diniego opposto –motivato con riferimento alla compromissione del buon andamento della Pubblica Amministrazione, per il carico di lavoro ragionevolmente ed ordinariamente esigibile dagli uffici– non può ritenersi tout court fondato (TAR Firenze, n. 133/2019).
Il buon andamento della Pubblica Amministrazione rappresenta –in qualunque forma di accesso- un valore cogente e non recessivo, la cui sussistenza, tuttavia, non può essere genericamente affermata bensì adeguatamente dimostrata da parte dell’amministrazione che nega l’accesso (cfr. Circolare della Funzione Pubblica 30.05.2017 n. 2/2017).
Il dialogo endoprocedimentale di cui alla menzionata circolare, impone che qualora la trattazione dell’istanza di accesso civico generalizzato sia suscettibile di arrecare un pregiudizio serio ed immediato al buon funzionamento della pubblica amministrazione, quest’ultima «prima di decidere sulla domanda, dovrebbe contattare il richiedente e assisterlo nel tentativo di ridefinire l’oggetto della richiesta entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e di proporzionalità».
Anche il punto 4.2. della delibera ANAC n. 1309 del 28.12.2016 prevede che “
nei casi particolari in cui venga presentata una domanda di accesso per un numero manifestamente irragionevole di documenti, imponendo così un carico di lavoro tale da paralizzare, in modo molto sostanziale, il buon funzionamento dell’amministrazione, la stessa può ponderare, da un lato, l’interesse dell’accesso del pubblico ai documenti e, dall’altro, il carico di lavoro che ne deriverebbe, al fine di salvaguardare, in questi casi particolari e di stretta interpretazione, l’interesse ad un buon andamento dell’amministrazione”.
Tale norma agendi deve essere intesa, alla luce dei generali principi di proporzionalità e ragionevolezza, come un invito a cercare una soluzione consensuale, ad esempio mediante la sollecitazione del richiedente a rimodulare la propria istanza in modo da ridurne l’ambito, così da salvaguardare sia l’interesse pubblico al buon andamento della p.a. sia l’interesse, anch’esso di rilievo pubblicistico, di garantire l’accesso generalizzato ai dati in possesso della amministrazione (TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, 05.05.2018, n. 4977).
22) - Come di recente affermato dal giudice amministrativo,
detto comportamento deve ritenersi in linea con il percorso e le finalità dell’accesso civico atteso che il principio del dialogo cooperativo con i richiedenti deve ritenersi un valore immanente alle previsioni della legge istitutiva dell’accesso generalizzato e della finalità di condividere con la collettività il patrimonio di informazioni in possesso della Pubblica Amministrazione (TAR Toscana, Firenze, sez. I, 28.01.2019, n. 133, TAR Puglia, Bari, sez. III, 19.02.2018, n. 234).
23) - Per quanto riguarda la presente fattispecie, la richiesta del ricorrente non costituiva ragione, per come formulata, per procedere, sic et simpliciter, al rigetto definitivo dell’istanza, (senza che venisse nemmeno rappresentato in concreto la mole di documenti in discussione); ciò avrebbe imposto, infatti, di attivare un dialogo procedimentale teso a permettere al ricorrente una diversa specificazione della documentazione di interesse (e ragionevolmente ostensibile), anche rappresentando allo stesso l’effettiva mole di dati presenti (“mole” di dati tutta da far emergere considerate le dimensioni dell’ente che, come detto sopra, supera di poco i tremila abitanti).
Il ricorrente avrebbe, quindi, potuto, in sede procedimentale, delimitare l’ambito di conoscenza.
24) - Il provvedimento di diniego dell’istanza deve pertanto essere annullato, per quanta parte si riferisce alla richiesta di accesso generalizzato, con conseguenziale obbligo, per il comune resistente, di riattivare il procedimento, attraverso (se del caso) una fase di dialogo endoprocedimentale tesa a permettere la specificazione dei documenti richiesti (nei termini sopra indicati); ciò rende ovviamente impossibile l’accoglimento dell’azione di accertamento e condanna all’ostensione dei documenti proposta dal ricorrente (cfr. TAR Toscana, Firenze, n. 133/2019 cit.).
Ne consegue l’obbligo dell’amministrazione intimata di dare corso, senza alcun indugio, alla domanda di “accesso civico” quale, se del caso, riformulata dal ricorrente, previa attivazione e conclusione, nei termini di legge, della procedura di confronto con i potenziali controinteressati; l’amministrazione potrà, se del caso, tenere conto (mediante il parziale oscuramento dei dati) solo di eventuali specifiche ragioni di riservatezza dei controinteressati, puntualmente motivate e circostanziate, eventualmente ritenute meritevoli di protezione (cfr. Cons. St., sez. III, 06.03.2019, n. 1546).
25) - Infine, va solo fatto un breve cenno, per respingerlo, al motivo di ricorso formulato dal ricorrente e riguardante la procedura di riesame secondo cui l’amministrazione avrebbe agito illegittimamente, in violazione dell’art. 5, co. 7, del d.lgs. 33/2013, adottando tout court un rigetto senza attivare il controllo “interno” prevista in capo al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
Detto motivo è infondato in ragione dell’espresso dato normativo che impone in capo al solo richiedente (o eventualmente al controinteressato) di attivare la procedura di riesame e non all’amministrazione, di procedere d’ufficio.
L’art. 5, co. 7, del decreto trasparenza prevede infatti che “Nei casi di diniego totale o parziale dell'accesso o di mancata risposta entro il termine indicato al comma 6, il richiedente può presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, di cui all'articolo 43, che decide con provvedimento motivato, entro il termine di venti giorni”.
Come è evidente,
al contrario di quanto previsto per l’accesso civico semplice, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) non viene in gioco nella fase di presentazione dell’istanza di accesso generalizzato in quanto allo stesso è assegnato il preciso compito di riesaminare, stimolato dal richiedente, l’eventuale rigetto o accoglimento parziale dell’istanza di accesso civico ovvero di far fronte all’inerzia dell’ufficio ricevente.
Per come è agevole rilevare, tra i tre tipi di accesso esaminati (documentale, semplice e generalizzato) si rilevano differenze anche in ragione del diverso ruolo svolto dal RPCT.
In caso di accesso ai documenti, l’istanza è generalmente inviata all’ufficio che detiene o forma il documento ovvero all’URP, che smista le istanze agli uffici e non è previsto riesame (tutela interna) da parte dell’amministrazione procedente; in caso di accesso civico semplice, l’istanza deve essere rivolta al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza e in caso di diniego e di silenzio le amministrazioni possono prevedere l’intervento del responsabile dei poteri sostitutivi
(in questo senso Delibera ANAC n. 1310/2016); infine, in caso di accesso civico generalizzato, l’istanza va inviata a uno dei tre soggetti individuati dall’amministrazione di cui all’art. 5, co. 3, lett. a), b) e c), del d.lgs. 33/2013, mentre in caso di diniego totale o parziale dell’accesso o di mancata risposta è espressamente previsto l’intervento del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza con il compito di “riesaminare” la precedente decisione.
26) - Alla luce delle esposte argomentazioni il ricorso va accolto in parte, con riguardo all’istanza di accesso generalizzato richiesto ai sensi dell’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013, e per l’effetto annullato, in parte qua, il provvedimento impugnato e intrapresa una nuova interlocuzione procedimentale con il richiedente secondo quanto affermato in motivazione.

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOLicenziabile il responsabile unico del procedimento che non esegue i compiti affidati.
L'inerzia protratta del RUP nell'eseguire le consegne ricevute, nonostante i reiterati inviti ad eseguire le attività, può costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento traducendosi in un reiterato e consapevole inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione e dei doveri che ne derivano e la sanzione può essere considerata proporzionale secondo le regole del contratto collettivo degli enti locali.
Sono queste le conclusioni confermate dalla Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza 08.05.2019 n. 12160).
La vicenda
La Giunta Comunale affidava un incarico di Responsabile Unico del Procedimento ad un architetto dipendente dell'ente, ma a seguito della sua protratta inerzia e nonostante i diversi solleciti ricevuti, il Segretario comunale, in qualità di responsabile del procedimento disciplinare, previa formale contestazione, ha irrogato la sanzione del licenziamento con preavviso.
Il RUP nel ricorso innanzi al giudice del lavoro, oltre ad evidenziare il mancato rispetto dei termini del procedimento disciplinare, ha difeso la propria posizione evidenziando, tra l'altro, l'incompetenza della Giunta Comunale alla sua nomina che spetta invece al dirigente, e che inoltre, la sua nomina era stata deliberata quando il progetto esecutivo era stato già approvato e dunque in violazione del principio di unicità del responsabile del procedimento.
Il ricorrente ha, infine, evidenziato specifiche problematiche riguardo tra l'altro all'ufficio in dotazione e alle modalità di consegna della corrispondenza, ovvero in riferimento alla mancata disponibilità di strumenti idonei per operare proficuamente nel senso richiesto nell'interesse dell'amministrazione.
Rispetto al giudice di primo grado, che ne aveva accolto la domanda di reintegrazione per violazione del termine del procedimento disciplinare avvenuto oltre i venti giorni dalla conoscenza della inerzia del dipendente, la Corte di Appello ha riformato la sentenza, giudicando, invece legittima e proporzionale la sanzione del licenziamento. La causa è stata quindi portata dal ricorrente davanti alla Corte di Cassazione evidenziando gli errori in cui è incorsa la Corte territoriale.
La conferma della Cassazione
In via preliminare, per la Cassazione non sono degne di nota le eccezioni sollevate dal ricorrente sul ritardo della contestazione disciplinare, la quale è correttamente avvenuta nei termini facendo decorrere i medesimi dalla comunicazione ufficiale pervenuta al responsabile del procedimento disciplinare e non dalla data di conoscenza del dirigente responsabile.
Nel merito la Corte di Appello ha correttamente valutato il fatto costituito dalla validità dell'incarico di RUP, ritenendo irrilevante ogni relativa questione di legittimità dell'organo competente posto che il RUP aveva accettato lo stesso con specifica nota, vincolandosi così all'espletamento delle attività richieste. Inoltre, la deliberazione della Giunta Comunale di nomina riguardava sia la fase preliminare che quella definitiva ed esecutiva, per cui l'approvazione del progetto definitivo non aveva esaurito l'incarico stesso permanendo così per il RUP la responsabilità di coordinare risorse interne ed esterne per la realizzazione del progetto esecutivo.
Avuto riguardo alla sanzione disciplinare erogata, secondo i giudici di Piazza Cavour, la stessa è stata correttamente giudicata dai giudici di appello proporzionale avendo tenuto conto della condotta inadempiente e della stessa posizione difensiva assunta dal RUP che nelle risposte fornite, alle varie sollecitazioni del Sindaco e del dirigente del Settore, si è sempre concentrato sulle proprie problematiche personali (ufficio in dotazione, modalità di consegna della corrispondenza) piuttosto che fornire adeguate e credibili giustificazioni.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con condanna alle spese di giudizio a seguito della soccombenza (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.05.2019).

APPALTI: Occultare la risoluzione di un contratto penalizza. È causa di esclusione dal concorso.
La mancata trasmissione di informazioni sulla risoluzione di un contratto precedente legittima l'esclusione dalla gara.

Lo ha precisato l'Avvocato generale della Corte di Giustizia Ue nelle sue conclusioni 08.05.2019 nella causa C-267/18 e che verosimilmente saranno confermate in sede di pronuncia definitiva dalla Corte. L'argomento trattato afferiva all'esclusione di un operatore economico da una procedura di gara a causa della risoluzione di un contratto precedente non comunicato all'amministrazione aggiudicatrice. Nella causa si discuteva in particolare della nozione di «carenze significative o persistenti» che giustificano ai sensi della normativa eurounitaria l'esclusione dalla gara d'appalto.
La vicenda riguarda l'applicazione dell'articolo 57, paragrafo 4, lettera g), della direttiva 2014/24 che, secondo l'avvocato generale, deve essere interpretato nel senso che un'amministrazione aggiudicatrice, in linea di principio, è autorizzata ad escludere dalla procedura di appalto di lavori pubblici un operatore economico nei cui confronti sia stata disposta la cessazione anticipata di un precedente contratto di appalto pubblico per violazione della clausola che lo obbligava a comunicare, ai fini della necessaria autorizzazione, che parte di tali lavori era assegnata a un subappaltatore. Ciò premesso l'avvocato generale ha aggiunto che spetta al giudice nazionale chiarire, alla luce delle particolari circostanze della controversia e in applicazione del principio di proporzionalità, se la cessazione anticipata del (primo) contratto di appalto pubblico fosse dovuta a una significativa carenza nell'esecuzione di un requisito sostanziale richiesto nell'ambito di detto contratto, sufficiente per escludere l'operatore economico dal (secondo) contratto. Inoltre, in base alla lettera h) dell'articolo 57 l'amministrazione aggiudicatrice può escludere da un (secondo) contratto di appalto pubblico l'offerente che abbia occultato, dinanzi ad essa, la cessazione anticipata di un contratto precedente per significative carenze nell'esecuzione di un requisito sostanziale richiesto nel contesto di tale (primo) contratto. Spetterà al giudice nazionale valutare, alla luce del principio di proporzionalità, la gravità di tale occultamento di informazioni
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA: All’Adunanza plenaria se la società incorporante è soggetto direttamente responsabile dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata.
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Inquinamento – Inquinamento ambientale – Società incorporante – responsabile per fatti della società incorporata – Dubbi e rimessione all’Adunanza plenaria
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria la questione se una società che abbia incorporato un’altra società (direttamente o tramite incorporazioni intermedie) nel regime anteriore alla modifica del diritto societario non possa essere considerata essa stessa, ai sensi e per gli effetti dell’applicazione dell’art. 17 del “decreto Ronchi” (e, in seguito, degli artt. 242 e ss., d.lgs. n. 152 del 2006), soggetto direttamente responsabile dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’antecedente condotta di inquinamento posta in essere dall’incorporata, in quanto già allora anti-giuridica, ha generato in capo ad essa, secondo il criterio norma-fatto-effetto, una responsabilità che, a seguito dell’incorporazione, non potendo andare dispersa (il principio della conservazione dei valori giuridici è immanente nell’ordinamento – cfr. art. 1367 c.c.), non può che essere confluita, come posta passiva, nel patrimonio dell’incorporante.
In tale ottica, peraltro, non si ravviserebbe alcuna applicazione retroattiva dell’art. 17, posto che una conclusione siffatta si limiterebbe a riconnettere ad un danno ancora attuale le conseguenze che il vigente diritto contempla: di tale conseguenze non potrebbe che rispondere la società succeduta a titolo universale al soggetto che ebbe a causare quel danno.
Altrimenti argomentando, si ritiene, non solo si potrebbe consentire un commodus discessus per eludere le norme imperative a tutela del bene ambiente, ma –da un punto di vista sistematico– si ammetterebbe la possibilità di una sorta di limitazione extra ordinem della responsabilità giuridica per la commissione di condotte illecite produttive di un danno ancora attuale.
Sotto altro aspetto, potrebbe altresì circoscriversi praeter legem (se non addirittura contra legem) la pienezza contenutistica del fenomeno successorio a titolo universale, funzionale proprio a consentire -a tutela non tanto delle parti interessate, quanto soprattutto dei terzi e dell’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche- la prosecuzione a tutti gli effetti giuridici del patrimonio del soggetto estinto, salve solo specifiche e tassative eccezioni (ad esempio, i cd. “diritti intrasmissibili”).
In una visuale più ampia, poi, che una condotta ab origine contra jus possa essere oggetto di conseguenze previste anche da leggi emanate in epoca successiva alla condotta del danneggiante, purché il danno sia ancora attuale, è positivamente escluso solo con riguardo alla pena (giova peraltro evidenziare, sul punto, la differenza fra gli artt. 1 e 2 c.p. da un lato, e gli artt. 199 e 200 c.p. dall’altro) e, in generale, alle misure amministrative a contenuto sanzionatorio (cfr. art. 1, l. n. 689 del 1981) (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 07.05.2019 n. 2928 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Condizioni di partecipazione dei privati alle società in house.
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Il Consiglio di Stato ha stabilito tre importanti principi:
   a) che nel settore dei servizi idrici, sino a quando una specifica disposizione di legge nazionale, diversa dagli artt. 5, d.lgs. n. 50 del 2016 e 16, d.lgs. n. 175 del 2016, non stabilirà la possibilità per i privati di partecipare ad una società in house –indicando anche la misura della partecipazione, la modalità di ingresso del socio privato, il ruolo all’interno della società e i rapporti con il socio pubblico– deve ritenersi preclusa al privato la partecipazione alla società in house.
   b) che l’art. 149-bis Codice dell’ambiente, nella parte in cui effettua un richiamo all’ “ordinamento europeo”, non permette, allo stato, la partecipazione dei privati alla società in house perché proprio il richiamo all’ordinamento europeo effettuato dalla predetta norma nazionale impone una specifica previsione nazionale che ammetta, e disciplini, la partecipazione dei privati alle società in house (in termini analoghi i già richiamati articoli 5 Codice dei contratti pubblici e 16, d.lgs. n. 175 del 2016).
   c) che, in attesa della decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea (cui, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, spetta l’interpretazione dei trattati e degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione), a prescindere dall’eccezionalità o meno dell’in house providing, le norme che disciplinano tale istituto vanno interpretate restrittivamente anche per evitare che applicazioni analogiche, di fatto ampliandone il ricorso, possano trasformarsi in una lesione delle concorrenza che, come è noto, è tra i principi dell’Unione. (1)

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   (1) La Sezione osserva che l'articolo 7 della legge della regione Piemonte 20.01.1997, n. 13, nel riferirsi alla legge 142/1990, prende in considerazione l’affidamento del servizio o attraverso concessione a terzo scelto tramite gara oppure attraverso le società miste pubblico-privato; nessuna indicazione, invece, fornisce per il possibile affidamento in house anche in considerazione del fatto che all’epoca l’in house non si era ancora sviluppato e certamente non era oggetto di disciplina normativa.
Inoltre, l’articolo 149-bis del codice dell'ambiente, facendo richiamo ai principi nazionali e comunitari, va interpretato nel senso che, nel rispetto dell’articolo 34, comma 20, d.l. 179/2012, si possa, tra l’altro, scegliere:
   a) di esperire una gara per la scelta del concessionario-gestore privato cui affidare la gestione del servizio idrico;
   b) di costituire una società mista, con socio operativo/industriale, cui conferire la gestione del servizio, a condizione che la gara per la scelta del socio sia preordinata alla individuazione del socio industriale od operativo che concorra materialmente allo svolgimento del servizio pubblico nel rispetto di quanto oggi stabilito dal d.lgs. 175/2016 (e, tra l’altro, dagli articoli 7 e 17 d.lgs. ora citato) nonché dalla giurisprudenza comunitaria (Corte UE, sez. III, 15.10.2009 C196/08) e nazionale.
   c) di affidarlo a società in house.
In quest’ultimo caso, come detto, occorrerà rispettare le condizioni richieste dalla disciplina europea così come sopra delineate.
Con la conseguenza che il dubbio sollevato dalla regione Piemonte va sciolto nel senso che la partecipazione di privati al capitale della persona giuridica controllata è ammessa solo se prescritta espressamente da una disposizione legislativa nazionale, in conformità dei trattati e a condizione che si tratti di una partecipazione che non comporti controllo o potere di veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle decisioni della persona giuridica controllata.
Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio, poiché, per un verso, la norma di riferimento per l’affidamento della gestione del servizio idrico è l’articolo 149-bis del codice dell’ambiente che chiaramente lo esclude e, per altro verso, manca una norma di legge che espressamente lo prescriva, la risposta al primo quesito deve essere negativa: sino a quando una specifica disposizione di legge nazionale, diversa dagli articoli 5 d.lgs. 50/2016 e 16 d.lgs. 175/2016, infatti, non prescriverà che i privati partecipino ad una società in house –indicando anche la misura della partecipazione, la modalità di ingresso del socio privato, il ruolo all’interno della società e i rapporti con il socio pubblico– l’apertura dell’in house ai privati deve ritenersi esclusa.
Giova altresì ribadire che non può giungersi a diversa conclusione, come prospettato dalla regione richiedente, in considerazione del richiamo all’“ordinamento europeo” che vi è nell’articolo 149-bis Cod. amb. perché, proprio l’ordinamento europeo richiamato, impone una specifica previsione nazionale che prescriva (e disciplini) la partecipazione dei privati alle società in house (in termini analoghi i già richiamati articoli 5 Codice dei contratti pubblici e 16 d.lgs. 175/2016).
Per chiarezza terminologica la Sezione rileva, inoltre, che il riferimento al socio industriale contenuto a pagina 6 del quesito risulta corretto per le società miste mentre nel caso di società in house non può, per le ragioni prima esposte, portare a dare rilievo/influenza (maggiore di quella voluta dalla direttiva comunitaria) al socio privato a prescindere da come lo si voglia qualificare.
La risposta in termini negativi al primo quesito esonera la Sezione dal rispondere al secondo quesito. Tuttavia il Consiglio, ferma restando l’autonomia del legislatore regionale nel valutare l’ambito di un suo intervento, ricorda che le discipline esposte in questo parere afferiscono -come sopra detto- alla “tutela della concorrenza” e, dunque, rientrano in larga parte nella materia indicata dall’articolo 117, comma 2, lett. e), Cost. riservata al legislatore nazionale (ex multis, Corte cost. 401/2007; Corte cost., 16.07.2014 n. 199) (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 07.05.2019 n. 1389 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
2. La gestione dei servizi pubblici: profili storici

Prima di dare risposta ai quesiti, il Consiglio ritiene che sia necessario effettuare una ricostruzione storica della disciplina degli affidamenti della gestione del servizio pubblico, anche in considerazione del fatto che la citata legge regionale fa espresso riferimento ai modelli all’epoca delineati dalla legge 142/1990.
2.1. Innanzi tutto è utile ricordare che nei servizi pubblici è possibile individuare tre distinti momenti logici e giuridici: 1) l’assunzione; 2) la regolazione; 3) la gestione del servizio.
Momento iniziale è l’assunzione da parte dei pubblici poteri di un’attività come servizio pubblico, con legge o con atto amministrativo emanato in base ad una legge; si tratta di una decisione di carattere politico determinata dal fatto che il mercato non è in grado di offrire alla collettività un adeguato livello qualitativo o quantitativo di un determinato bene o servizio. Ne deriva una nozione di servizio pubblico storicamente relativa poiché varia in base all’epoca ed al contesto territoriale di riferimento; ciò spiega perché è estremamente difficile dare una definizione univoca di servizio pubblico.
Quando un’attività viene assunta come servizio pubblico, il potere pubblico deve provvedere alla sua regolazione, secondo momento logico, dando attuazione a determinati principi giuridici che si ricavano anche, e soprattutto, dal diritto eurounitario e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, tra i quali ricordiamo: il principio di legalità; il principio di doverosità (i pubblici poteri devono garantire direttamente o indirettamente alla collettività l’erogazione del servizio secondo criteri quantitativi e qualitativi predeterminati); il principio della continuità della gestione ed erogazione dei servizi; il principio di imparzialità; il principio di universalità (le imprese che gestiscono servizi pubblici devono offrire prestazioni anche a fasce di clienti e in aree territoriali non convenienti); il principio dell’accessibilità dei prezzi per tutti; il principio dell’economicità (nel senso che il gestore del servizio deve poter conseguire un margine ragionevole di utile); il principio di trasparenza; il principio di proporzionalità.
Per quanto riguarda il terzo, e fondamentale, momento, le forme di gestione dei servizi pubblici con rilevanza economica si caratterizzano per la minore o maggiore afferenza del gestore all’organizzazione pubblica; la gestione può infatti essere:
   a) diretta, ossia eseguita dalle strutture dello stesso ente che ha assunto il servizio pubblico (aziende speciali, gestione in economia);
   b) indiretta, ossia affidata ad un altro ente pubblico, ad esempio un ente pubblico economico;
   c) affidata ad una società in house providing;
   d) affidata ad una società mista a partecipazione pubblica e privata (c.d. partenariato pubblico privato istituzionale - PPPI);
   e) affidata in concessione a privati scelti mediante procedure di evidenza pubblica (c.d. concorrenza per il mercato);
   f) autorizzata a più gestori che erogano il servizio in concorrenza nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico stabiliti dal regolatore (c.d. concorrenza nel mercato).
Dagli anni novanta in poi, per effetto delle direttive comunitarie, si è passati da un modello di organizzazione del servizio pubblico caratterizzato dalla riserva originaria dell’attività, con i c.d. diritti speciali o di esclusiva, ad un modello sempre più concorrenziale. Le direttive volte alla liberalizzazione dei diversi settori e dei differenti mercati operano una distinzione tra “concorrenza nel mercato” e “concorrenza per il mercato”: nel primo caso, quando le caratteristiche del mercato lo consentono, il servizio può essere svolto da operatori economici in concorrenza tra loro, sulla base di un provvedimento autorizzatorio, non discrezionale, che realizza quindi la piena concorrenza; nel secondo caso, ragioni di tipo tecnico o economico (monopolio naturale, costi eccessivi di duplicazione delle reti e delle infrastrutture), suggeriscono che il servizio pubblico venga svolto in modo efficiente soltanto da un unico gestore.
Pertanto, l’amministrazione indice una procedura selettiva di affidamento della concessione del servizio, alla quale possono partecipare tutti gli operatori economici interessati, per la scelta del gestore cui viene riconosciuto un diritto speciale o di esclusiva.
In questo modello di gestione, dunque, la concorrenza si realizza a monte, secondo due modalità alternative ed equivalenti che più avanti si approfondiranno: procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento del servizio a soggetto privato ovvero procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato industriale cui affidare la gestione operativa del servizio in una società a partecipazione mista pubblica e privata.
In ogni caso, non va dimenticato che, in base all’attuale disciplina generale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, le pubbliche amministrazioni possono sempre decidere di gestire direttamente il servizio a mezzo di un soggetto rispondente al modello in house providing, modello quest’ultimo da non confondere con quello delle società miste a partecipazione pubblico-privata per le ragioni che saranno meglio specificate in seguito.
2.2. Considerato che l’art 149-bis Codice ambiente, qui in esame, fa riferimento ai “servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica”, è opportuno approfondire la nozione di servizio di rilevanza economica per verificarne l’eventuale coincidenza con la nozione comunitaria di servizio di interesse economico generale.
L’articolo 2, comma 1, lett. i), d.lgs. 175/2016 definisce “«servizi di interesse economico generale»: i servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato”; la lett. h), d.lgs. cit. definisce invece “«servizi di interesse generale»: le attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell'ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l'omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale”.
Sulla nozione di servizio pubblico locale avente rilevanza economica e sui rapporti con la nozione europea di servizi di interesse economico generale-SIEG, ora riferita, la Corte costituzionale, con sentenza n. 325 del 2010, ha affermato: “In àmbito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE, 18.06.1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea (in specie, nelle Comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in Europa del 26.09.1996 e del 19.01.2001; nonché nel Libro verde su tali servizi del 21.05.2003), emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’àmbito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo», come riconosciuto da questa Corte con la sentenza n. 272 del 2004. … Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio che:
   a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato» …;
   b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni (Corte di giustizia UE, 21.09.1999, C-67/96, Albany International BV).
Le due nozioni, inoltre, assolvono l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica
”.
Tale precisazione è di particolare importanza perché, riconosciuta la corrispondenza tra l'espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica» e quella di «servizio di interesse economico generale», ne consegue la riconducibilità all'ambito materiale relativo alla tutela della concorrenza (Corte cost., 16.07.2014 n. 199) con conseguente attrazione nella sfera della potestà legislativa esclusiva dello Stato.
2.3. Giova inoltre osservare che, a livello locale, vi era una dettagliata disciplina legislativa dei servizi pubblici che, a partire dai primi anni novanta, ha subito una profonda evoluzione.
La prima normativa risale al 1903, la c.d. legge Giolitti, che disciplinò la gestione dei pubblici servizi da parte dell’ente locale, riconoscendo all’amministrazione ampia discrezionalità nella scelta degli strumenti più idonei, rappresentati all’epoca dall’azienda municipalizzata (con cui l’autorità pubblica agisce da imprenditore), dalla gestione diretta in economia e dalla concessione a terzi.
Dopo il T.U. 15.10.1925, n. 2578 ed il decreto di attuazione d.P.R. n. 602/1926, con la legge n. 142 del 1990 (Ordinamento delle autonomie locali), e in particolare con l’articolo 22, si abbandonò la visione prevalentemente pubblicistica del servizio pubblico (avvalorando la nozione mista, oggettivo-soggettiva, di servizio pubblico) e si passò a modelli di gestione più efficienti ed economici individuando cinque tipologie organizzative:
   1) la gestione in economia, nei casi in cui non è opportuno per le modeste dimensioni del servizio e l’esiguità del valore della prestazione creare un’autonoma azienda o una s.p.a.;
   2) l’azienda speciale dotata di autonomia operativa, gestionale, contabile e statutaria;
   3) la società mista a capitale pubblico-privato;
   4) la concessione a terzi (provvedimento fiduciario che consente l’affidamento diretto senza l’espletamento di una gara);
   5) l’istituzione per servizi di rilevanza non economica, organismo strumentale dell’ente pubblico dotato di autonomia, ma privo di propria personalità giuridica.
Va evidenziato che nell’articolo 22 ora citato nessun riferimento vi era, né poteva esserci, alle società in house.
Avviata la privatizzazione dei servizi pubblici nazionali ed istituite le Autorità di regolazione di servizi di pubblica utilità per energia elettrica, gas e telecomunicazioni, nel 1997, con la legge Bassanini, iniziò la privatizzazione dei gestori dei servizi pubblici a livello locale, con l’obbligo di trasformare le aziende pubbliche in s.p.a. e di dismissione progressiva del pacchetto azionario.
Nel 2000, il T.U. enti locali disciplinò i servizi pubblici locali all’articolo 113, articolo quest’ultimo che nel tempo è stato modificato più volte.
Successivamente intervenne l’articolo 23-bis, introdotto dalla legge n. 133/2008 (di conversione del decreto legge n. 112/2008, c.d. decreto Bersani) a delineare un’ampia riforma dei servizi pubblici locali. Con il d.l. 135/2009 (c.d. decreto Ronchi), l’articolo 23-bis venne interamente riformulato, da un lato, confermando che le sue disposizioni prevalevano sull’articolo 113 d.lgs. 267/2000 e, dall’altro, prevedendo espressamente la possibilità dell’affidamento a società miste, con una sola gara “a monte” per la scelta del socio privato a condizione che con la gara si attribuisse la qualità di socio operativo e non solo finanziatore.
In seguito alle modifiche citate, l’articolo 113 TUEL divenne norma di riferimento per la disciplina della proprietà delle reti e delle infrastrutture e della loro gestione mentre la gestione ed erogazione del servizio fu disciplinata dall’articolo 23-bis citato.
Tuttavia l’articolo 23-bis venne abrogato a seguito del referendum popolare del 12-13 giugno del 2011. A distanza di qualche tempo, con l’articolo 4 d.l. 138/2011 il legislatore adeguò la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica ai principi informatori sanciti a livello europeo, prevedendo come regola generale che gli enti locali avrebbero dovuto liberalizzare le attività economiche (c.d. concorrenza nel mercato), ove fosse stata possibile una gestione dei servizi pubblici rispettosa dei principi di proporzionalità, sussidiarietà ed efficienza; quando invece, in base ad una analisi di mercato, fosse stato accertato che lasciare il servizio alla libera concorrenza avrebbe pregiudicato l’universalità e l’accessibilità del servizio, l’amministrazione avrebbe potuto derogare alla concorrenza nel mercato prevedendo l’attribuzione di diritti di esclusiva e conseguentemente scegliere di indire una gara pubblica per selezionare il privato gestore (concorrenza per il mercato), oppure affidare in house il servizio oppure ancora costituire una società mista.
La norma è stata tuttavia dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con sentenza 199/2012, che l’ha ritenuta elusiva dell’esito del referendum del 2011.
Per effetto della sentenza n. 199/2012 si è quindi creato nuovamente un vuoto normativo sui servizi pubblici locali.
3. La gestione dei servizi pubblici: la disciplina attuale
In attuazione degli articoli 16 e 19 della L. 07.08.2015, n. 124 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, è stato deliberato dal Consiglio dei Ministri del 20.01.2016 uno “schema di decreto legislativo recante testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale”. Tuttavia, tale schema di decreto legislativo non è stato mai approvato in via definitiva perché -prima della sua adozione– è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale 25.11.2016, n. 251.
Pertanto la disciplina oggi è affidata ai principi dell’ordinamento UE, alla direttiva sulle concessioni e a quelli affermati dalla Corte di Giustizia U.E. nonché a specifiche disposizioni interne in materia di servizi pubblici. Occorre richiamare, sotto tale ultimo aspetto, l’articolo 113 TUEL per la disciplina della proprietà e della gestione delle reti, mentre, per la disciplina della gestione e dell’erogazione dei servizi pubblici si ricordano l’articolo 3-bis del d.l. n. 138/2011 (disciplina gli ambiti territoriali dei servizi pubblici locali), l’articolo 34, commi 20-27, d.l. n. 179/2012 (sui servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica) nonché l’articolo 8 del d.l. n. 1/2012 (disciplina delle carte dei servizi pubblici).
Tra queste disposizioni, in relazione ai quesiti formulati, va posto in evidenza l’articolo 34, comma 20, d.l. cit. che prevede: “Per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”.
4. Le concessioni
La concessione è uno strumento antico, utilizzato sin dalla fine dell’800, per la realizzazione e la gestione delle opere pubbliche, in alternativa all’appalto. In origine era uno strumento di diritto pubblico, un atto unilaterale ed autoritativo con cui la PA, per realizzare un’opera pubblica, sceglieva fiduciariamente il concessionario, al quale poi l’opera era concessa in gestione per consentirgli di recuperare le spese di costruzione.
Per tutelare la libertà di concorrenza e la parità degli operatori economici nel mercato, è intervenuto il diritto dell’Unione europea prevedendo la necessità di affidare anche le concessioni tramite procedure di evidenza pubblica; con la direttiva 2014/23/UE del 26.02.2014, “Sull’aggiudicazione dei contratti di concessione”, infine, il legislatore europeo ha dettato per la prima volta una disciplina organica e dettagliata per la concessione di lavori e servizi.
Mentre il previgente codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006), all’articolo 30, disponeva soltanto che la scelta del concessionario dovesse avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici, il codice attualmente vigente (d.lgs. 50/2016), recependo la direttiva 23 del 2014, contiene una dettagliata procedura di selezione del concessionario.
Per il Codice dei contratti pubblici, la concessione di servizi è un “contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall'esecuzione di lavori di cui alla lettera ll) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi” (articolo 3, lett. vv) codice dei contratti pubblici).
Dalle disposizioni in questione emerge che le concessioni sono individuate in base a due elementi:
   1) il diritto di gestire le opere o i servizi oggetto del contratto (quale corrispettivo riconosciuto in favore del concessionario);
   2) il trasferimento al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dell’opera o del servizio.
Sino alla direttiva del 2014 non esisteva una definizione normativa di rischio operativo, con conseguente incertezza sull’individuazione della soglia oltre la quale tale rischio doveva ritenersi eliminato e trasferito sull’amministrazione concedente. La direttiva 2014/23/Ue, spiega efficacemente che “… la caratteristica principale di una concessione, ossia il diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi aggiudicati in condizioni operative normali, anche se una parte del rischio resta a carico dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore. L’applicazione di norme specifiche per la disciplina dell’aggiudicazione di concessioni non sarebbe giustificata se l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore sollevasse l’operatore economico da qualsiasi perdita potenziale garantendogli un introito minimo pari o superiore agli investimenti effettuati e ai costi che l’operatore economico deve sostenere in relazione all’esecuzione del contratto” (considerando 18) e che “… Un rischio operativo dovrebbe derivare da fattori al di fuori del controllo delle parti. Rischi come quelli legati a una cattiva gestione, a inadempimenti contrattuali da parte dell’operatore economico o a cause di forza maggiore non sono determinanti ai fini della qualificazione come concessione, dal momento che rischi del genere sono insiti in ogni contratto, indipendentemente dal fatto che si tratti di un appalto pubblico o di una concessione. Il rischio operativo dovrebbe essere inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato, che possono derivare da un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta ovvero contestualmente da un rischio sul lato della domanda e sul lato dell’offerta” (considerando 20).
L’art. 164 del codice dei contratti pubblici individua oggetto e ambito di applicazione delle concessioni. In particolare, è previsto che alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II del codice, relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione. Inoltre, è espressamente detto che i servizi non economici di interesse generale non rientrano nell'ambito di applicazione delle norme sulle concessioni.
5. Società in house
Con l’espressione in house providing si fa riferimento all’affidamento di un appalto o di una concessione da parte di un ente pubblico in favore di una società controllata dall’ente medesimo, senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica, in virtù della peculiare relazione che intercorre tra l’ente pubblico e la società affidataria.
La società in house è una società dotata di autonoma personalità giuridica che presenta connotazioni tali da giustificare la sua equiparazione ad un "ufficio interno" dell’ente pubblico che l’ha costituita, una sorta di longa manus; non sussiste tra l’ente e la società un rapporto di alterità sostanziale, ma solo formale. Queste caratteristiche della società in house giustificano e legittimano l’affidamento diretto, senza previa gara, per cui un’amministrazione aggiudicatrice è dispensata dall’avviare una procedura di evidenza pubblica per affidare un appalto o una concessione. Ciò in quanto, nella sostanza, non si tratta di un effettivo "ricorso al mercato" (outsourcing), ma di una forma di "autoproduzione" o, comunque, di erogazione di servizi pubblici "direttamente" ad opera dell'amministrazione, attraverso strumenti "propri" (in house providing).
L’istituto, le cui radici si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, è espressione del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche di cui all’articolo 2 della direttiva 2014/23/Ue che afferma: “le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni”.
In definitiva, un affidamento diretto ad un soggetto che non è sostanzialmente diverso dall’amministrazione affidante non può dare luogo alla lesione dei principi del Trattato e, in particolare, del principio di concorrenza, proprio perché si tratta non di esternalizzazione ma di autoproduzione della stessa P.A.
L’in house segna, dunque, una delicata linea di confine tra i casi in cui non occorre applicare le direttive appalti e concessioni, e la relativa normativa nazionale di trasposizione, ed i casi in cui invece è necessaria l’applicazione.
I requisiti delle società in house sono stati elaborati nel tempo dalla Corte UE; secondo la giurisprudenza della Corte, a partire dalla sentenza Teckal del 1999 sino alle direttive UE 23, 24 e 25/2014 in materia di appalti e concessioni, le procedure di evidenza pubblica possono escludersi tutte le volte in cui:
   1) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello operato sui propri servizi interni (requisito strutturale);
   2) il soggetto affidatario realizza la parte più importante della propria attività a favore dell’amministrazione aggiudicatrice che lo controlla (requisito funzionale).
Le condizioni necessarie per la configurazione del controllo analogo sono la partecipazione pubblica totalitaria e l’influenza determinante; sin dal 2005, la Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE 11.01.2005, C-26/03, Stadt Halle; Corte di Giustizia UE 21.07.2005, C-231/03, Consorzio Coname; Corte di Giustizia UE, sez. I, 18.01.2007, C-225/05, Je. Au.) ha chiarito che la partecipazione, pur minoritaria, di soggetti privati al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi. La partecipazione pubblica totalitaria rappresenta una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, dovendosi ulteriormente verificare la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente pubblico più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile a favore del socio totalitario. L'amministrazione aggiudicatrice, infatti, deve essere in grado di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti dell'entità affidataria e il controllo esercitato deve essere effettivo, strutturale e funzionale (in tal senso, Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza 29.11.2012, C-182/11 e C-183/11, Econord).
La Corte di Giustizia ha riconosciuto altresì che, a determinate condizioni, il controllo analogo può essere esercitato congiuntamente da più autorità pubbliche che possiedono in comune l'ente affidatario, c.d. in house frazionato (Corte di Giustizia UE, 29.11.2012, in cause riunite C-182/11 e C-183/11, Econord), e che è configurabile un controllo analogo anche nel caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto azionario non è detenuto direttamente dall’ente pubblico di riferimento, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo, c.d. in house a cascata (Corte di Giustizia UE 11.05.2006 C-340/04).
Il secondo requisito indicato dalla Corte è costituito dalla prevalenza dell’attività svolta con l’ente affidante, ossia il soggetto in house deve svolgere la parte più importante della propria attività con il soggetto o i soggetti pubblici che lo controllano e la diversa attività, eventualmente svolta, deve risultare accessoria, marginale e residuale.
Sino alle direttive UE del 2014 non vi era una percentuale di attività predeterminata che doveva essere svolta in favore dell’ente affidante e, pertanto, l’interprete era tenuto a prendere in considerazione tutte le circostanze sia qualitative che quantitative del caso concreto.
Nel contesto sopra descritto sono intervenute le nuove direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26.02.2014 sugli appalti pubblici e le concessioni.
I requisiti dell’in house sono adesso chiaramente indicati dall’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24/UE, dall’articolo 28, paragrafo 1, della direttiva 2014/25/UE e dall’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE; tutte norme di identico tenore. Non è disciplinato solo l’in house, ma anche la cooperazione tra amministrazioni aggiudicatrici (c.d. accordi di collaborazione), la quale però rimane al di fuori dell’in house, in quanto non comporta la costituzione di organismi distinti rispetto alle amministrazioni interessate all’appalto o alla concessione.
In particolare, l’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, relativo alle concessioni tra enti nell’ambito del settore pubblico, prevede che una concessione aggiudicata da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva quando siano soddisfatti tutti i requisiti del controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi, quando oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante e non vi sia alcuna partecipazione di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto.
Le direttive sono state attuate con il d.lgs. 50/2016, recante il nuovo codice dei contratti pubblici che all’articolo 5, rubricato “principî comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico”, stabilisce una disciplina di principio che tratteggia nelle sue linee essenziali le caratteristiche principali dell’in house; le previsioni codicistiche ricalcano in buona parte le direttive.
Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, primo periodo, in presenza di determinate condizioni, le norme del codice non si applicano ai contratti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una “persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato”; ciò significa che i confini dell’in house sono stati estesi al di fuori del fenomeno delle società di diritto privato comprendendovi anche gli enti pubblici.
Per l’individuazione dell’in house sono richiesti adesso tre requisiti:
   1) controllo analogo;
   2) oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante;
   3) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati.
In ordine al controllo analogo, è stabilito che “un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ... qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata” (articolo 5, comma 1, lett. a).
Quanto alla prevalenza dell’attività “intra moenia”, è previsto che oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante (articolo 5, comma 1, lett. b). Per determinare la citata percentuale deve prendersi in considerazione il fatturato totale medio, o altra idonea misura alternativa basata sull’attività quale, ad esempio, i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione (articolo 5, comma 7).
Si è chiarito che ove a causa della recente data di costituzione della persona giuridica o dell’amministrazione aggiudicatrice, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, i criteri citati non sono utilizzabili “è sufficiente dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile” (art. 5, comma 8).
Il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo rispetto a quello del controllo analogo e, al contempo, sono state consentite forme di partecipazione di capitali privati -le quali però non devono comportare controllo o potere di veto- previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica.
Oltre al c.d. in house di tipo tradizionale, dalle direttive UE e dall’articolo 5 del codice dei contratti pubblici sono ricavabili anche altre forme di in house:
   - in house a cascata: si caratterizza per la presenza di un controllo analogo indiretto “tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo” (articolo 5, comma 2); l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su un ente che a propria volta esercita un controllo analogo sull’organismo in house ed anche se tra la l’amministrazione aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta è comunque ammesso l’affidamento diretto;
   - in house frazionato o pluripartecipato: ai sensi dell’articolo 5, comma 4, l’affidamento diretto è consentito anche in caso di controllo congiunto; le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono congiuntamente soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti;
b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica;
c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti;
   - in house verticale “invertito” o “capovolto”, si ha quando il soggetto controllato, essendo a sua volta amministrazione aggiudicatrice, affida un contratto al soggetto controllante senza procedura di evidenza pubblica: per il Codice degli appalti “il presente codice non si applica anche quando una persona giuridica controllata che è un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore, aggiudica un appalto o una concessione alla propria amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore controllante …” (articolo 5, co. 3). Si verifica, pertanto, una sorta di bi-direzionalità dell’in house; la giustificazione a tale possibilità di affidamento diretto risiede nel fatto che mancando una relazione di alterità, i rapporti tra i due soggetti sfuggono al principio di concorrenza qualunque sia la “direzione” dell’affidamento;
   - in houseorizzontale” che implica, invece, l’esistenza di tre soggetti; un soggetto A aggiudica un appalto o una concessione a un soggetto B, e sia A che B sono controllati da un altro soggetto C. Non vi è quindi alcuna relazione diretta tra A e B, ma entrambi sono in relazione di in house con il soggetto C, che controlla sia A che B; l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro.
6. Affidamento in house: regola o eccezione?
Per lungo tempo è stato ritenuto che i requisiti dell'in house providing dovessero essere interpretati restrittivamente (Cons. Stato, sez. II, n. 456/2007; Cons. Stato, sez. V, n. 5620/2010; Cons. Stato, sez. I, n. 2577/2011).
Si rilevava, al riguardo, che l'in house, così come costruito dalla giurisprudenza comunitaria, rappresentava, più che un modello di organizzazione dell'amministrazione, un'eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono la previa gara (Cons. Stato, Ad. Pl. n. 1/2008).
E ciò sulla base del principio secondo cui, in via generale, l’assenza totale di procedura concorrenziale per l’affidamento di una concessione di servizi pubblici non è conforme alle esigenze di cui agli artt. 43 CE e 49 CE, e nemmeno ai principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (C. giust. CE, 06.04.2006, C-410/04 e 13.10.2005, C-458/03).
In particolare si considerava che “l’affidamento diretto del servizio viola il principio di concorrenza sotto un duplice profilo: a) da una parte, sottrae al libero mercato quote di contratti pubblici, nei confronti dei quali le imprese ordinarie vengono escluse da ogni possibile accesso; b) dall’altra, si costituisce a favore dell’impresa affidataria una posizione di ingiusto privilegio, garantendole l’acquisizione di contratti. Il tutto si traduce nella creazione di posizioni di vantaggio economico che l’impresa in house può sfruttare anche nel mercato, nel quale si presenta come ‘particolarmente’ competitiva, con conseguente alterazione della par condicio” (Cons. Stato, Ad. Pl. n. 1/2008).
Anche di recente questo Consiglio ha ritenuto di ribadire che l’in house rappresenta “un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante la gara” (sez. III, n. 2291/2015; sez. VI, n. 2660/2015; sez. III, n. 5732/2015; sez. II, n. 298/2015).
Occorre peraltro prendere atto dei mutamenti normativi e giurisprudenziali sopravvenuti, soprattutto a seguito delle direttive europee in materia di appalti (n. 2014/24/UE), di concessioni (n. 2014/23/UE) e sui settori speciali (n. 2014/25/UE), del codice appalti (d.lgs. n. 50/2016) e del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175/2016), di cui si dirà.
E pertanto, secondo una diversa prospettiva, l’autorità pubblica, in virtù del principio di libera amministrazione, può discrezionalmente decidere come devono essere gestiti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, vale a dire:
   - mediante il ricorso al mercato -individuando l’affidatario mediante gara ad evidenza pubblica-;
   - attraverso il c.d. partenariato pubblico privato -ossia per mezzo di una società mista e quindi con una gara a doppio oggetto per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio-;
   - ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente, ma che ne costituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo (Cons. Stato, sez. V, n. 4599/2014; sez. V, n. 257/2015; sez. V, n. 1900/2016).
In ogni caso, da ultimo, il Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanze 07.01.2019, n. 138 e 14.01.2019, n. 293 e n. 296, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale originata dal dubbio che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate (quindi su un piano subordinato ed eccezionale) rispetto alle altre modalità di affidamento, siano compatibili con le pertinenti disposizioni e principi del diritto primario e derivato dell'Unione europea, trattandosi di stabilire se il citato restrittivo orientamento ultradecennale dell'ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell'Unione europea (con particolare riguardo al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall'articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione).
Per completezza si segnala che il Tribunale amministrativo regionale della Liguria (ordinanza n. 886/2018) ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, (nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”) sulla base del principio secondo cui sarebbe acquisito –quantomeno in ambito europeo– il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica.
In attesa della decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea (cui, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, spetta l’interpretazione dei trattati e degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione), il Consiglio ritiene che, a prescindere dall’eccezionalità o meno dell’in house providing, le norme che disciplinano questo istituto vadano interpretate restrittivamente anche per evitare che applicazioni analogiche, di fatto ampliandone il ricorso, possano trasformarsi in una lesione delle concorrenza che, come è noto, è tra i principi dell’Unione.
7. Le società a partecipazione pubblica
La disciplina delle società a partecipazione pubblica è oggi contenuta nel d.lgs. 19.08.2016, n. 175, adottato in attuazione della delega di cui alla l. 124/2015; il T.U. costituisce il primo tentativo di disporre una disciplina organica in materia di società a partecipazione pubblica, ispirata a criteri di efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, di tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché di razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica.
Il Testo unico introduce disposizioni dedicate alla disciplina dei comportamenti delle pubbliche amministrazioni che vogliano acquisire o mantenere lo status di soci di società di capitali ed un altro gruppo di norme contenenti le deroghe al diritto delle società necessarie in ragione della natura pubblica delle partecipazioni societarie.
Il legislatore delegato ha classificato le società pubbliche in base al controllo pubblico o alla partecipazione (diretta o indiretta) pubblica. La distinzione è, dunque, quella tra società controllate e società meramente partecipate (articolo 2, comma 1, lett. n).
L’intento perseguito dal legislatore con il Testo unico è stato quello di applicare la disciplina civilistica alle società a partecipazione pubblica, contenendo le deroghe nella misura strettamente necessaria al concreto soddisfacimento dell’interesse pubblico di volta in volta perseguito attraverso la costituzione di una società o la detenzione di partecipazioni societarie. Conseguentemente, il testo stabilisce che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato” (articolo 1, comma 3, T.U.).
Il D.Lgs. 16.06.2017, n. 100 ha poi previsto "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" anche per adeguarsi alla sentenza della Corte cost. 25.11.2016, n. 251 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale di buona parte dell'art. 18 della L. 07.08.2015, n. 124 (c.d. legge Madia) e cioè della norma di delega in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. 19.08.2016, n. 175 recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.
8. Società in house e società miste
Giova ora sottolineare che i due modelli della società mista e della società in house non vanno sovrapposti. Il Consiglio di Stato ha avuto modo di esprimersi, con parere n. 456 del 2007, sulle distinte modalità di affidamento chiarendo che “l’evoluzione giurisprudenziale consente, altresì, di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house providing”.
Sul punto, si ricorda che l’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008 ha definito i requisiti e le condizioni di affidamento alle società in house ed alle società a partecipazione mista pubblico privata, delineando i rispettivi tratti distintivi. Tale impostazione si è poi consolidata con la decisione della Corte di Giustizia secondo cui “gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE non ostano all'affidamento diretto di un servizio pubblico che preveda l'esecuzione preventiva di determinati lavori, come quello di cui trattasi nella causa principale, a una società a capitale misto, pubblico e privato, costituita specificamente al fine della fornitura di detto servizio e con oggetto sociale esclusivo, nella quale il socio privato sia selezionato mediante una procedura ad evidenza pubblica, previa verifica dei requisiti finanziari, tecnici, operativi e di gestione riferiti al servizio da svolgere e delle caratteristiche dell'offerta in considerazione delle prestazioni da fornire, a condizione che detta procedura di gara rispetti i principi di libera concorrenza, di trasparenza e di parità di trattamento imposti dal Trattato per le concessioni” (Corte UE, sez. III, 15.10.2009 C-196/08).
Per quanto di interesse in questa sede, giova sottolineare che dal testo unico, in linea con l’evoluzione normativa che si è delineata, emerge chiaramente la differenza tra le società in house, oggetto di disciplina all’articolo 16, e le società miste a partecipazione pubblico-privato, disciplinate al successivo articolo 17.
Più precisamente l’articolo 16 stabilisce che le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto; in modo sensibilmente differente, invece, il successivo articolo 17 stabilisce che nelle società a partecipazione mista pubblico-privata la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al trenta per cento e la selezione del medesimo si svolge con procedure di evidenza pubblica a norma dell'articolo 5, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e ha a oggetto, al contempo, la sottoscrizione o l'acquisto della partecipazione societaria da parte del socio privato e l'affidamento del contratto di appalto o di concessione oggetto esclusivo dell'attività della società mista.
Emergono dunque notevoli differenze sia con riferimento alle modalità di affidamento del contratto sia in relazione al diverso ruolo del socio privato che, nelle società in house non deve avere un ruolo determinante e che, al contrario, nelle società miste deve essere determinante tanto che l’articolo 17, comma 2, prescrive per quest’ultimo il possesso dei requisiti di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita.
8.1 Società in house e partecipazione dei privati
In effetti uno dei requisiti tradizionalmente caratterizzanti la definizione comunitaria di in house providing è dato dalla natura integralmente pubblica del capitale della società controllata, ritenendosi invece non ammissibile la partecipazione anche minoritaria di soci privati.
Ad. es. Corte Giust. CE, sez. I, 11.01.2005, C-26/03, caso Standt Halle, ha statuito che “la partecipazione, anche minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice … esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”. E ciò in quanto “il rapporto tra un'autorità pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un'impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente” e “una procedura siffatta offrirebbe ad un'impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.
Tali considerazioni sono state, più di recente, ribadite da Corte giust., sez. I, 19.06.2014, C-574/12, caso Centro Hospitalar de Setúbal EPE, secondo cui “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, poiché qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente rispetto a quelli di interesse pubblico”.
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato è giunta alle medesime conclusioni, a partire dall’Adunanza plenaria n. 1/2008: “La sussistenza del controllo "analogo" viene esclusa in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato, essendo necessaria la partecipazione pubblica totalitaria: deve pertanto escludersi, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della società mista a quello dell'"in house providing" (v. anche Cons. Stato, sez. V, n. 5079/2014; Cons. Stato, sez. VI, n. 2660/2015; Cons. Stato, sez. V, n. 4253/2015; Cons. Stato, sez. I, n. 1645/2018; Cons. Stato, sez. I, n. 2583/2018; Cons. Stato, sez. I, n. 883/2019; Cons. Stato, sez. I, n. 1645/2018).
Tale orientamento peraltro è stato anche condiviso dalla Corte di Cassazione: “È possibile che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici, e che occorre pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari” (Cass. SS.UU. n. 5491-2014).
Sennonché –come prima accennato al paragrafo 5– il quadro di riferimento normativo è stato parzialmente modificato dalla direttiva 2014/24/UE che, se da un lato ha confermato e sottolineato che “l'aggiudicazione di un appalto pubblico senza una procedura competitiva offrirebbe all'operatore economico privato che detiene una partecipazione nel capitale della persona giuridica controllata un indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti” (32° considerando), dall’altro ha consentito forme di partecipazione di capitali privati, purché sussistano i requisiti di cui all'art. 12, comma 1, lett. c) (“nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata”).
In tal modo sono stati modificati, in parte, i tratti distintivi dell’in house (Cons. Stato, Comm. Spec. n. 268/2016).
In definitiva, nel rispetto di determinati presupposti, appare astrattamente consentita la partecipazione diretta di capitali privati nell'ente in house controllato, quale –è bene sottolinearlo- eccezione di stretta interpretazione alla regola della totale partecipazione pubblica.
In ogni caso gli interpreti hanno sottolineato che tale radicale riforma normativa -che, come visto, si pone in contrasto con gli orientamenti consolidati della Corte di giustizia- introdurrebbe modi di gestione estranei alla tutela degli interessi pubblici e, comunque, il capitale privato sarebbe ammesso solo per quelle esigenze imperative che consentono di derogare ai principi del Trattato.
8.2 Partecipazione dei privati, codice dei contratti e T.U. sulle società a partecipazione pubblica
In attuazione della direttiva 2014/24/UE, l’art 5, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016 (Codice dei contratti) ha previsto che nella persona giuridica controllata non vi debba essere “alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.
Successivamente l’articolo 16, comma 1, del d. lgs. 175/2016 (T.U. sulle società a partecipazione pubblica) ha stabilito che: “le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l'esercizio di un'influenza determinante sulla società controllata”.
Al riguardo, non può non evidenziarsi che, mentre il Codice dei contratti fa riferimento a forme di partecipazione di capitali previste dalla legislazione nazionale, il T.U. sulle società a partecipazione pubblica considera ammessa una partecipazione al capitale sociale dei privati a condizione che la stessa sia prescritta da una disposizione di legge nazionale.
Tale differenza semantica tre le due disposizioni nazionali (previste-prescritta) ha fatto ritenere che non occorre che partecipazione sia “prescritta” ma è sufficiente che sia consentita. E ciò in quanto la partecipazione di soggetti privati al capitale di un ente societario, in ossequio all'autonomia che li caratterizza, può essere prevista ma non può essere imposta da una norma di legge nel nostro ordinamento.
Tali considerazioni –che pure hanno un qualche fondamento– non considerano, però, il dato positivo, peraltro conseguente ad una fonte (il Testo unico sulle società a partecipazione pubblica) che si pone quale equiordinata alla precedente (Codice dei contratti) ma prevalente in quanto lex posterior.
D’altro canto l’espressione “prescritta” è esattamente quella contenuta nella direttiva comunitaria.
E, in effetti, i “considerando” n. 32 della direttiva appalti e n. 46 della direttiva concessioni espressamente affermano la necessità di una partecipazione non facoltativa, ma obbligatoria, in ragione di valutazioni effettuate dal legislatore interno: “L’esenzione non dovrebbe estendersi alle situazioni in cui vi sia partecipazione diretta di un operatore economico privato al capitale della persona giuridica controllata poiché, in tali circostanze, l’aggiudicazione di un appalto pubblico senza una procedura competitiva offrirebbe all’operatore economico privato che detiene una partecipazione nel capitale della persona giuridica controllata un indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti. Tuttavia, date le particolari caratteristiche degli organismi pubblici con partecipazione obbligatoria, quali le organizzazioni responsabili della gestione o dell’esercizio di taluni servizi pubblici, ciò non dovrebbe valere nei casi in cui la partecipazione di determinati operatori economici privati al capitale della persona giuridica controllata è resa obbligatoria da una disposizione legislativa nazionale in conformità dei trattati, a condizione che si tratti di una partecipazione che non comporta controllo o potere di veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle decisioni della persona giuridica controllata. Si dovrebbe inoltre chiarire che l’unico elemento determinante è la partecipazione privata diretta al capitale della persona giuridica controllata. Perciò, in caso di partecipazione di capitali privati nell’amministrazione aggiudicatrice controllante o nelle amministrazioni aggiudicatrici controllanti, ciò non preclude l’aggiudicazione di appalti pubblici alla persona giuridica controllata, senza applicare le procedure previste dalla presente direttiva in quanto tali partecipazioni non incidono negativamente sulla concorrenza tra operatori economici privati”.
Occorre quindi che, a livello interno, la partecipazione sia “prescritta”, e non meramente consentita perché:
   - la direttiva usa il termine “prescritte”, e non semplicemente “previste”;
   - i considerando n. 32 della direttiva appalti e n. 46 della direttiva concessioni espressamente affermano la necessità di una partecipazione non facoltativa, ma obbligatoria, in ragione di valutazioni effettuate dal legislatore interno;
   - anche l’analisi comparativo-linguistica della direttiva, fondamentale ai fini dell’indagine del suo significato letterale, conferma il significato forte dell’impiego del termine “prescritta” (Corte dei Conti, sez. controllo Campania, 108/2016).
A tali esiti, del resto, è giunto anche questo Consiglio con il parere Comm. Spec. n. 968/2016 secondo cui la norma europea “non ha inteso autorizzare in generale la partecipazione dei privati ma ha rinviato alle specifiche disposizioni di legge che le «prevedono». Tale forma di rinvio deve però essere fatto a disposizioni di legge che “prescrivono” e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente “prevedono” la partecipazione”.
È stato rilevato, inoltre, che, all'art. 5, comma 1 del Codice dei contratti si prevede che i privati non debbono esercitare "un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata", ma non si fa menzione del potere di controllo e di quello di veto, cui si riferisce invece l'art. 16, comma 1, del T.U. Tale differenza appare tuttavia superabile in base ad una interpretazione comunitariamente orientata dell'art. 5, comma 1, lett. c) del Codice, con la conseguenza che il contenuto di quest'ultima disposizione, anche sotto questo profilo, non sembra sostanzialmente diverso da quello dell'art. 16, comma 1, del T.U..
La ulteriore diversa formulazione della disposizione del codice degli appalti (“forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale”) rispetto a quella del T.U. sulle società a partecipazione pubblica (“ad eccezione di quella prescritta da norme di legge”) potrebbe far insorgere il dubbio se fonti diverse da quelle statali - quali quelle regionali - possano prevedere l'ingresso dei privati.
In senso favorevole si era espresso il Consiglio di Stato nel parere n. 2583/2018 –su quesito proposto dalla stessa Regione Piemonte- che peraltro riguardava la specifica materia del turismo che –come è noto– appartiene alla competenza "esclusiva" delle Regioni a statuto ordinario.
In via generale, invece -anche alla luce del canone ermeneutico sopra detto secondo cui i requisiti dell'in house providing, costituendo un'eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati restrittivamente- la disciplina sulle società in house appartiene alla potestà esclusiva del legislatore nazionale, trattandosi di materia attinente alla concorrenza.
Quindi non v’è spazio per la legislazione regionale.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La disposizione contenuta nel secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 dispone che la violazione costituita dall’omessa comunicazione di avvio non determina l’annullabilità del provvedimento finale, anche se si tratti di provvedimento a contenuto discrezionale (quali sono i provvedimenti di secondo grado come l’annullamento d’ufficio), purché «l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Ciò appare in linea con la consolidata giurisprudenza, secondo la quale la predetta disposizione deve essere interpretata nel senso di «evitare che l’amministrazione sia onerata in giudizio di una prova diabolica, e cioè della dimostrazione che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso in relazione a tutti i possibili contenuti ipotizzabili, per cui si deve comunque porre previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto meno in termini di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare l’amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta».
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3. Con il primo motivo del ricorso introduttivo i ricorrenti deducono la violazione della normativa sul procedimento amministrativo, in quanto non sarebbe stato comunicato loro l’avviso di avvio del procedimento.
3.1. La doglianza è infondata.
Nella fattispecie de qua è pacifico che l’Amministrazione comunale non ha comunicato ai ricorrenti l’avviso di avvio del procedimento finalizzato all’annullamento in autotutela del permesso di costruire in sanatoria rilasciato il 27.05.2016.
Tuttavia risulta altrettanto pacifico che il contenuto del provvedimento adottato in sede di autotutela non avrebbe potuto avere un contenuto diverso, atteso che risulta oggettivamente dimostrato –come risulta anche dall’attività istruttoria posta in essere dalle parti all’esito dell’ordinanza cautelare n. 1479/2016 e, da ultimo, come confermato anche dalla relazione e dalle tavole allegate all’istanza di sanatoria datata 20.12.2018 (all. 29-30 al ricorso)– che il manufatto realizzato non è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, per violazione delle distanze tra costruzioni stabilite dal codice civile.
A tale fattispecie va applicata quindi la disposizione contenuta nel secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, secondo la quale la violazione costituita dall’omessa comunicazione di avvio non determina l’annullabilità del provvedimento finale, anche se si tratti di provvedimento a contenuto discrezionale (quali sono i provvedimenti di secondo grado come l’annullamento d’ufficio), purché «l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Ciò appare in linea con la consolidata giurisprudenza, secondo la quale la predetta disposizione deve essere interpretata nel senso di «evitare che l’amministrazione sia onerata in giudizio di una prova diabolica, e cioè della dimostrazione che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso in relazione a tutti i possibili contenuti ipotizzabili, per cui si deve comunque porre previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto meno in termini di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare l’amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta» (così Consiglio di Stato, V, 18.04.2012, n. 2257; altresì Consiglio di Stato, VI, 04.03.2015, n. 1060; V, 05.12.2014, n. 5989; più di recente, TAR Sardegna, I, 08.08.2018, n. 739).
3.2. Ciò determina il rigetto della prima doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.05.2019 n. 1020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento [né del preavviso di rigetto], non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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L’ordinanza di ripristino, in quanto atto di carattere del tutto vincolato, ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli interventi, non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
Difatti, nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi, il carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e «la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti».
Con riguardo invece al legittimo affidamento del ricorrente in ordine alla conformità del proprio comportamento, legato anche al trascorrere del tempo, va evidenziato che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto».
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4. Con la prima censura del ricorso per motivi aggiunti, i ricorrenti reiterano la doglianza di violazione della normativa sul procedimento amministrativo, in quanto non sarebbe stato comunicato loro l’avviso di avvio del procedimento.
4.1. La doglianza è infondata.
In data 29.05.2017 è stato comunicato ai ricorrenti l’avviso di avvio del procedimento finalizzato al riesame della situazione riguardante la conformità edilizia del muro di contenimento realizzato nella loro proprietà (cfr. all. 22 al ricorso). All’esito di tale comunicazione, i ricorrenti hanno potuto produrre una perizia di parte (all. 23 al ricorso) e successivamente partecipare, tramite un proprio tecnico di fiducia, al sopralluogo avvenuto in data 10.07.2017 e svolto in contraddittorio presso l’area di loro proprietà (cfr. all. 24 al ricorso).
Pertanto, le parti ricorrenti, avendo ricevuto l’avviso di avvio del procedimento, hanno potuto prendere parte all’attività istruttoria svolta dall’Amministrazione, senza lesione dei loro diritti di partecipazione.
Ciò è avvenuto nonostante un costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è ragione di discostarsi, preveda che «l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento [né del preavviso di rigetto], non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto» (TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2018, n. 2098; 06.08.2018, n. 1946; 05.03.2018, n. 616; altresì Consiglio di Stato, VI, 29.11.2012, n. 6071; 24.09.2010, n. 7129).
4.2. Ne discende il rigetto della predetta censura.
...
5.2. Sulla base di tali elementi fattuali è stata poi adottata anche l’ordinanza di ripristino; quest’ultima in quanto atto di carattere del tutto vincolato, ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli interventi, non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 21.01.2019, n. 112; 06.08.2018, n. 1946; 02.05.2018, n. 1190).
Difatti, nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi, il carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e «la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti» (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9).
Con riguardo invece al legittimo affidamento del ricorrente in ordine alla conformità del proprio comportamento, legato anche al trascorrere del tempo, va evidenziato che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto» (Consiglio di Stato, IV, 16.04.2012, n. 2185; altresì, Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2018, n. 2098; 03.05.2018, n. 1198) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.05.2019 n. 1020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ragione del consolidato orientamento giurisprudenziale si deve ritenere che «in tema di distanze legali, (…) mentre il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 codice civile per la parte che adempie alla sua specifica funzione, devono ritenersi soggetti a tale norma, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente».
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5. Con la seconda e la terza doglianza, sia del ricorso introduttivo che del ricorso per motivi aggiunti, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittimità degli atti impugnati, in quanto gli stessi non conterrebbero alcuna motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione e in relazione al legittimo affidamento dei ricorrenti alla permanenza del titolo edilizio rilasciato in sanatoria e quindi dell’opera realizzata.
5.1. Le doglianze sono infondate.
Il provvedimento di annullamento in autotutela è stato motivato con l’avvenuto accertamento della «realizzazione di un muro di contenimento terra realizzato ad una distanza variabile di mt 1,50 in contrasto con la vigente normativa del Codice Civile, in materia di distanze nelle costruzioni», tenuto altresì conto della «necessità di tutelare l’ordinato assetto urbanistico dell’area interessata dall’intervento, soprattutto in considerazione dell’elevata naturalità dove ricade l’intervento» (cfr. motivazioni poste a sostengo dell’atto impugnato: all. 21 al ricorso).
Difatti, non è contestato che è stato realizzato un terrapieno di natura artificiale, con un’altezza superiore a 4 m e posta in prossimità del confine ad una distanza di circa 1,2/1,5 m dal medesimo (cfr. relazione tecnica acclusa alla richiesta del P.d.C. in Sanatoria, all. 30 al ricorso).
Di conseguenza, in ragione del consolidato orientamento giurisprudenziale si deve ritenere che «in tema di distanze legali, (…) mentre il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 codice civile per la parte che adempie alla sua specifica funzione, devono ritenersi soggetti a tale norma, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente» (Cass. civ., II, 16.03.2015, n. 5163; anche Consiglio di Stato, IV, 01.02.2017, n. 412; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2018, n. 180).
Ne deriva che la motivazione posta a supporto degli atti impugnati –e in particolare dell’atto di autotutela– appare satisfattiva dell’obbligo imposto all’Amministrazione, vista la sussistenza di un interesse pubblico legato sia al rispetto delle distanze tra le costruzioni, sia alla tutela da riservare ad un ambito particolarmente sensibile a livello ambientale; a ciò vanno aggiunte, in contrapposizione all’interesse dei ricorrenti, la necessità di tutelare la posizione dei controinteressati che subiscono la violazione del limite delle distanze e la brevità del lasso di tempo trascorso tra il rilascio del permesso in sanatoria e il successivo annullamento in autotutela (soltanto 22 giorni, ossia dal 26.05. al 17.06.2016: cfr., in tal senso, Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 8).
 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.05.2019 n. 1020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Risolvere l’irregolarità fiscale prima della gara. Ammissione delle imprese ai concorsi.
Ai fini dell'ammissione a una gara d'appalto il requisito della regolarità fiscale si considera sussistente soltanto ove, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l'istanza di rateizzazione sia stata accolta con l'adozione del relativo provvedimento costitutivo.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la sentenza 03.05.2019 n. 5596.
Per i giudici, che richiamano la precedente giurisprudenza sul punto, non è quindi da considerarsi ammissibile alla gara il concorrente che versi nelle ipotesi in cui l'iniziale irregolarità abbia dato luogo alla richiesta di dilazione, solo successivamente accolta.
Questa linea si giustifica, si legge nella sentenza anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 80, comma 4, del decreto n. 50 del 2016: la mera presentazione dell'istanza di rateizzazione non comporta l'automatico recupero della posizione di regolarità fiscale, atteso che, con la presentazione di tale istanza, il partecipante non assume alcun impegno vincolante a onorare il debito in quel momento gravante a suo carico, ma semmai ad adempiere l'obbligazione originante dall'eventuale successiva istanza di rateizzazione da parte dell'Agente della riscossione.
In altre parole, la circostanza che l'agente della riscossione dei tributi abbia proceduto a pignorare presso un soggetto pubblico debitore somme da questo dovute all'impresa concorrente, pur assicurando la soddisfazione del credito fiscale, non è di per sé idonea a determinare il venir meno della situazione di irregolarità in cui versa detta impresa.
Peraltro, in passato (vigente il decreto 163/2006) era stata ritenuta inammissibile la partecipazione alla procedura di gara del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non avesse conseguito il provvedimento di accoglimento dell'istanza di rateizzazione, dal momento che la regolarità contributiva e fiscale, richiesta come requisito indispensabile per la partecipazione ad una gara di appalto deve essere mantenuta per tutto l'arco di svolgimento della gara fino al momento dell'aggiudicazione, sussistendo l'esigenza della stazione appaltante di verificare l'affidabilità del soggetto partecipante alla gara fino alla conclusione della stessa
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2019).
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MASSIMA
II) In ordine ai profili dedotti nell’odierno giudizio, la più recente giurisprudenza (v. Consiglio di Stato, sez. V, 19/02/2018 , n. 1028), è orientata a ritenere che
il requisito della regolarità fiscale si considera sussistente soltanto ove, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l'istanza di rateizzazione sia stata accolta con l'adozione del relativo provvedimento costitutivo e non anche nelle ipotesi in cui l'iniziale irregolarità abbia dato luogo alla richiesta di dilazione, solo successivamente accolta; ciò anche in quanto (v. TAR, Roma , sez. II , 28/12/2017, n. 12742), anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 80, comma 4, d.lgs. n. 80 del 2016, la mera presentazione dell'istanza di rateizzazione non comporta l'automatico recupero della posizione di regolarità fiscale, atteso che, con la presentazione di tale istanza, il partecipante non assume alcun impegno vincolante a onorare il debito in quel momento gravante a suo carico, ma semmai ad adempiere l'obbligazione novata, originante dall'eventuale successivo dell'istanza di rateizzazione da parte dell'Agente della riscossione (tanto che, secondo la medesima decisione appena richiamata, “la circostanza che l'agente della riscossione dei tributi abbia proceduto a pignorare presso un soggetto pubblico debitore somme da questo dovute all'impresa concorrente, pur assicurando la soddisfazione del credito fiscale, non è di per sé idonea a determinare il venir meno della situazione di irregolarità in cui versa detta impresa”; cfr. anche TAR Milano, sez. I , 29/12/2016, n. 2490, secondo cui “non è ammissibile la partecipazione alla procedura di gara, ex art. 38, comma 1, lett. g, cod. contr. pubbl., del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell'istanza di rateizzazione; infatti per giurisprudenza costante, la regolarità contributiva e fiscale, richiesta come requisito indispensabile per la partecipazione ad una gara di appalto ai sensi dell'art. 38 d.lgs. 12.04.2006 n. 138, deve essere mantenuta per tutto l'arco di svolgimento della gara fino al momento dell'aggiudicazione, sussistendo l'esigenza della stazione appaltante di verificare l'affidabilità del soggetto partecipante alla gara fino alla conclusione della stessa, restando irrilevante un eventuale adempimento tardivo degli obblighi contributivi e fiscali, ancorché con effetti retroattivi, giacché la (ammissibilità della) regolarizzazione postuma si tradurrebbe in una integrazione dell'offerta, configurandosi come violazione della par condicio”).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La legittimazione sostanziale ad agire sul piano processuale o legitimatio ad causam spetta al titolare della situazione giuridica sostanziale che si assume essere stata ingiustamente lesa dal provvedimento amministrativo e che viene dedotta in giudizio, da valutare alla stregua delle affermazioni del ricorrente.
Nel caso di specie, invece, dichiarando di agire nella veste di promissario acquirente dell'immobile, il ricorrente non aveva veste giuridica per l'esercizio dell'azione impugnatoria, posto che all’epoca di introduzione del giudizio, il ricorrente era titolare di rapporto obbligatorio non idoneo a fondare quel rapporto di stabile collegamento con i luoghi interessati dai provvedimenti asseritamente illegittimi, sicché non può predicarsi in capo a tale soggetto l'esistenza di una posizione di interesse legittimo che sia stata lesa dal provvedimento di sanatoria, bensì di un interesse di mero fatto eventuale e certamente non attuale potendo venire meno anche sulla base della semplice rinuncia ad effettuare l'acquisto con la stipula del contratto definitivo.
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Il Collegio deve preliminarmente esaminare l'eccezione di difetto di legittimazione ad agire del ricorrente attenendo essa a una condizione dell'azione, la quale deve esistere al momento della presentazione della domanda e deve poi permanere fino a quello della decisione, rivestendo essa carattere pregiudiziale rispetto alle altre eccezioni di rito, oltre cha alla disamina del merito.
In proposito, i controinteressati eccepiscono che all’epoca dell’introduzione del giudizio il ricorrente non era proprietario dell'immobile confinante, né possessore o titolare di altro diritto reale o personale di godimento sullo stesso e ritengono che il ricorrente -promissario acquirente dell'immobile confinante- era privo, all’epoca dell’introduzione del giudizio, della legittimazione ad agire.
L'eccezione è fondata.
La legittimazione sostanziale ad agire sul piano processuale o legitimatio ad causam spetta al titolare della situazione giuridica sostanziale che si assume essere stata ingiustamente lesa dal provvedimento amministrativo e che viene dedotta in giudizio, da valutare alla stregua delle affermazioni del ricorrente; nel caso di specie, invece, dichiarando di agire nella veste di promissario acquirente dell'immobile, il ricorrente non aveva veste giuridica per l'esercizio dell'azione impugnatoria, posto che all’epoca di introduzione del giudizio, il ricorrente era titolare di rapporto obbligatorio non idoneo a fondare quel rapporto di stabile collegamento con i luoghi interessati dai provvedimenti asseritamente illegittimi, sicché non può predicarsi in capo a tale soggetto l'esistenza di una posizione di interesse legittimo che sia stata lesa dal provvedimento di sanatoria, bensì di un interesse di mero fatto eventuale e certamente non attuale potendo venire meno anche sulla base della semplice rinuncia ad effettuare l'acquisto con la stipula del contratto definitivo (Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2018 n. 389; TAR Lombardia-Milano Sez. II, 18.06.2014, n. 1592; TAR Campania-Napoli, sez. VIII, 07.03.2013 n. 1285; TAR Toscana, Sez. III, 12.10.2018, n. 1309).
E’, inoltre, smentita dagli atti di causa la circostanza che all’epoca dell’introduzione del giudizio il ricorrente potesse qualificarsi alla stregua di un “qualificato possessore”, come dallo stesso riferito a pag. 3 del ricorso, poiché nel contratto preliminare del 26.11.2007 (pag. 5) le parti avevo espressamente convenuto che “proprietà, possesso legale e possesso materiale saranno trasferiti dalla parte promittente venditrice alla parte promittente acquirente alla stipula dell’atto pubblico di trasferimento” (cfr. sulla medesima questione ordinanza n. 6/2010 del Tribunale di Catania – sezione di Giarre che in relazione alla domanda di reintegra del ricorrente ha ritenuto fondata l’eccezione di difetto di legittimazione attiva).
Il ricorso è, pertanto, inammissibile per difetto di legittimazione ad agire del ricorrente il quale all’epoca dell’introduzione del giudizio era promissario acquirente del bene immobile confinante con quello dei controinteressati (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 03.05.2019 n. 992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine per l'impugnazione delle concessioni edilizie in sanatoria comincia a decorrere dalla piena conoscenza del titolo che, nella fattispecie in esame e in assenza di ulteriori elementi forniti dalla parte ricorrente in ordine all’effettiva conoscenza, si presume avvenuta dalla loro pubblicazione all'albo pretorio.
In questi termini, si è espressa la giurisprudenza amministrativa ritenendo che in presenza di attività edilizia ex post sanata, ma comunque già percepibile nella sua consistenza fisica e nella sua valenza assunta come lesiva degli interessi e/o dei diritti dei terzi, non valgono i criteri utilizzati per valutare la tempestività delle impugnative avverso il rilascio della concessione edilizia (completamento dell'involucro esterno, ultimazione dei lavori), poiché nel caso della concessione edilizia in sanatoria, viene sanata ex post un'attività edilizia già ultimata e quindi percepibile dal vicino confinante prima ancora del rilascio del titolo e deve, quindi, applicarsi il principio generale di decorrenza dei termini dalla sua pubblicazione; non esiste, infatti, alcuna ragione di temperamento, quale si riscontra invece per le concessioni ordinarie, dalla non immediata percezione della lesività dell'atto che il solo provvedimento concessorio formalmente emanato può non evidenziare, dal momento che in mancanza di una tempestiva denunzia e, a fortiori, nelle ipotesi in cui quanto edificato sul fondo del vicino è stato tollerato per molto tempo dal proprietario limitrofo, quest'ultimo sostanzialmente accetta il rischio che l'opera abusiva venga poi sanata e che l'atto di sanatoria si consolidi nei suoi confronti per il decorso del termine decadenziale d'impugnativa.
Ciò al fine di tutela della certezza dei rapporti giuridici che verrebbe pregiudicata dalla possibilità di impugnazione in ogni tempo dei titoli edilizi a sanatoria.
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Il ricorso è, in ogni caso, irricevibile e in ordine alla contestata tardività del ricorso si formulano le seguenti considerazioni.
Preliminarmente, il Collegio rileva che il ricorso è stato notificato con spedizione eseguita tramite raccomandata postale del 12.07.2013. Tuttavia, parte ricorrente si è sottratta all’onere di dichiarare in quale data avesse avuto conoscenza dei provvedimenti impugnati, reputando erroneamente che tale elemento di fatto dovesse essere provato dalla controparte.
Al contrario, deve rilevarsi come gravi sul ricorrente dichiarare tutti gli elementi salienti della fattispecie posta all’attenzione del giudice, ivi inclusa la data di conoscenza dell’atto impugnato, allo scopo di consentire a quest’ultimo di vagliare tutti gli elementi necessari alla decisione, che includono non solo l’eventuale fondatezza nel merito delle censure dedotte ma –preliminarmente– la sussistenza delle condizioni dell’azione e dei presupposti processuali, ivi inclusa la tempestività dell’impugnazione.
Mancando -per omissione addebitabile alla parte ricorrente- l’indicazione della data di conoscenza dell’atto (ed esempio quella dell’esercizio del diritto di accesso) il Collegio non è posto in condizione di valutare la tempestività del ricorso.
Va poi aggiunto che la concessione edilizia in sanatoria è stata pubblicata il 03.04.2010 per quindici giorni consecutivi (v. allegato n. 1 depositato il 18.12.2018) e, pertanto, il termine decadenziale di impugnazione iniziava a decorrere il 19.04.2010 e scadeva il 17.06.2010, con conseguente fondatezza dell’eccezione di tardività formulata dalle parti resistenti.
A tale riguardo va precisato che il termine per l'impugnazione delle concessioni edilizie in sanatoria comincia a decorrere dalla piena conoscenza del titolo che, nella fattispecie in esame e in assenza di ulteriori elementi forniti dalla parte ricorrente in ordine all’effettiva conoscenza, si presume avvenuta dalla loro pubblicazione all'albo pretorio.
In questi termini, si è espressa la giurisprudenza amministrativa ritenendo che in presenza di attività edilizia ex post sanata, ma comunque già percepibile nella sua consistenza fisica e nella sua valenza assunta come lesiva degli interessi e/o dei diritti dei terzi, non valgono i criteri utilizzati per valutare la tempestività delle impugnative avverso il rilascio della concessione edilizia (completamento dell'involucro esterno, ultimazione dei lavori), poiché nel caso della concessione edilizia in sanatoria, viene sanata ex post un'attività edilizia già ultimata e quindi percepibile dal vicino confinante prima ancora del rilascio del titolo e deve, quindi, applicarsi il principio generale di decorrenza dei termini dalla sua pubblicazione; non esiste, infatti, alcuna ragione di temperamento, quale si riscontra invece per le concessioni ordinarie, dalla non immediata percezione della lesività dell'atto che il solo provvedimento concessorio formalmente emanato può non evidenziare, dal momento che in mancanza di una tempestiva denunzia e, a fortiori, nelle ipotesi in cui quanto edificato sul fondo del vicino è stato tollerato per molto tempo dal proprietario limitrofo, quest'ultimo sostanzialmente accetta il rischio che l'opera abusiva venga poi sanata e che l'atto di sanatoria si consolidi nei suoi confronti per il decorso del termine decadenziale d'impugnativa.
Ciò al fine di tutela della certezza dei rapporti giuridici che verrebbe pregiudicata dalla possibilità di impugnazione in ogni tempo dei titoli edilizi a sanatoria (Cfr. Cons. Stato sez. IV, 11.11.2010, n. 8017; TAR Sicilia-Palermo sez. II, 05.09.2012, n. 1835; TAR Lazio–Latina, sez. I, 09.01.2013, n. 21 e 25.01.2012, n. 52).
A ciò consegue che il ricorso all'esame, notificato il 12.07.2010 a fronte di un titolo in sanatoria pubblicato il 03.04.2010, deve ritenersi irricevibile.
Va pertanto ribadita la complessiva inammissibilità del ricorso (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 03.05.2019 n. 992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Nel rendere il giudizio di valutazione ambientale, l'amministrazione esercita un'amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all'apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato giurisdizionale sulla determinazione finale emessa.
Il corollario principale di siffatta impostazione è che l’apprezzamento e la ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti nell’esecuzione dell’opera “è sindacabile dal giudice amministrativo, nella pienezza della cognizione del fatto, soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato e risulti perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione".
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In materia ambientale le funzioni assolte dai piani e dai programmi rispondono a logiche e finalità diverse da quelle delle “autorizzazioni” qual è la VIA.
La funzione di pianificazione si esplica per mezzo di atti generali volti a distribuire sul territorio, o in senso ampio tra i consociati, le risorse a disposizione e a predisporre un intervento complessivo in un settore per mezzo di un insieme coordinato di misure.
Dal momento che l’eventuale pregiudizio dell’interesse ambientale si connota nella maggioranza dei casi come irreversibile, un’efficace tutela può essere approntata predisponendo un controllo a monte dell’incidenza degli altri interessi su quello ambientale.
Lo strumento che consente il più efficace espletamento di tale funzione è quello autorizzatorio (VIA, VAS) che in materia ambientale è quantitativamente preponderante.
E’ noto che la VIA è una procedura che viene utilizzata per la valutazione dei progetti e delle singole opere.
Essa si adotta nella fase di progettazione, ossia quella in cui è più facile individuare scientificamente i potenziali impatti ambientali e le possibili alterazioni delle componenti naturali causate dalla messa in opera. Infatti, il principio che regola la sua attuazione è quello della prevenzione del rischio, che viene quindi previsto e studiato al fine di vagliare alternative e soluzioni più compatibili.
A differenza della VAS che si svolge in un momento antecedente all’adozione del singolo progetto per valutare l’impatto dell’intera attività di pianificazione, essa trova applicazione per progetti più 'circoscritti', in quanto mira a valutare l'incidenza sul territorio delle singole opere e di progetti univoci.
Va inoltre precisato che la VIA non ha ad oggetto i contenuti degli atti di pianificazione e di programmazione, né la conformità ai medesimi, ancorché i citati elementi conoscitivi devono essere forniti all’Amministrazione attraverso lo strumento dello studio di impatto ambientale, appositamente predisposto dal soggetto proponente l’opera.
In questo senso, lo strumento pianificatorio è un mero strumento di descrizione imposto ai fini di una attività istruttoria completa ed esaustiva che si inserisce nell’ambito di una più vasta attività istruttoria asservita alla determinazione finale di VIA e, conseguentemente, “il potere riconosciuto all’attività amministrativa competente per la VIA non è un mero potere di riconoscimento di compatibilità con soluzioni pianificatorie già definite ma un potere di incisione diretta, con valutazione di possibili soluzioni alternative, anche svincolate dagli strumenti pianificatori preesistenti”.
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11. E’ controversa in giudizio la legittimità della valutazione negativa di compatibilità ambientale formulata, sulla scorta di conformi pareri istruttori della Struttura Tecnica di Valutazione interna (d’ora in avanti STV), dalla Direzione generale reggente del Dipartimento n. 11 “Ambiente e Territorio” della Regione Calabria sul progetto di riqualificazione costiera per la realizzazione di un porto turistico in località Oliveto nel Comune di Scilla (RC).
Prima di procedere allo scrutinio del ricorso nel merito, il Collegio ritiene opportuno richiamare in breve, in quanto decisivi ai fini del presente giudizio, i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa relativamente ai limiti del sindacato giurisdizionale in tema di valutazione di impatto ambientale.
Secondo il più recente indirizzo “nel rendere il giudizio di valutazione ambientale, l'amministrazione esercita un'amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all'apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato giurisdizionale sulla determinazione finale emessa” (Cons. St. sez. IV, 18.05.2018 n. 3011; TAR Lazio sez. II, 26.11.2018 n. 11460; Cons.St. sez. IV, 10.02.2017 n. 575).
Il corollario principale di siffatta impostazione è che l’apprezzamento e la ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti nell’esecuzione dell’opera “è sindacabile dal giudice amministrativo, nella pienezza della cognizione del fatto, soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato e risulti perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione” (cfr. Cons. St. sez. IV, 27.03.2017 n. 1392; TAR Veneto sez. III, 02.11.2016 n. 1225).
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La censura è infondata anche nella parte in cui è rivolta a far risaltare la contraddittorietà tra la VIA negativa e gli strumenti pianificatori approvati dagli organi rispettivamente competenti (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, Piano regionale degli interventi portuali) che pure contemplano la realizzazione di nuovi porti turistici con la specifica previsione di quello di Scilla, progettato ora dalla società ricorrente ,rispetto al quale rileverebbe il nulla osta rilasciato dal Settore Pianificazione Territoriale ed Urbanistica della Provincia di Reggio Calabria anche per quanto riguarda la compatibilità del progetti con la tutela dei siti Natura 2000.
A tal proposito, il Collegio osserva che in materia ambientale le funzioni assolte dai piani e dai programmi rispondono a logiche e finalità diverse da quelle delle “autorizzazioni” qual è la VIA.
La funzione di pianificazione si esplica per mezzo di atti generali volti a distribuire sul territorio, o in senso ampio tra i consociati, le risorse a disposizione e a predisporre un intervento complessivo in un settore per mezzo di un insieme coordinato di misure.
Dal momento che l’eventuale pregiudizio dell’interesse ambientale si connota nella maggioranza dei casi come irreversibile, un’efficace tutela può essere approntata predisponendo un controllo a monte dell’incidenza degli altri interessi su quello ambientale.
Lo strumento che consente il più efficace espletamento di tale funzione è quello autorizzatorio (VIA, VAS) che in materia ambientale è quantitativamente preponderante.
E’ noto che la VIA è una procedura che viene utilizzata per la valutazione dei progetti e delle singole opere.
Essa si adotta nella fase di progettazione, ossia quella in cui è più facile individuare scientificamente i potenziali impatti ambientali e le possibili alterazioni delle componenti naturali causate dalla messa in opera. Infatti, il principio che regola la sua attuazione è quello della prevenzione del rischio, che viene quindi previsto e studiato al fine di vagliare alternative e soluzioni più compatibili.
A differenza della VAS che si svolge in un momento antecedente all’adozione del singolo progetto per valutare l’impatto dell’intera attività di pianificazione, essa trova applicazione per progetti più 'circoscritti', in quanto mira a valutare l'incidenza sul territorio delle singole opere e di progetti univoci.
Va inoltre precisato che la VIA non ha ad oggetto i contenuti degli atti di pianificazione e di programmazione, né la conformità ai medesimi, ancorché i citati elementi conoscitivi devono essere forniti all’Amministrazione attraverso lo strumento dello studio di impatto ambientale, appositamente predisposto dal soggetto proponente l’opera.
In questo senso, lo strumento pianificatorio è un mero strumento di descrizione imposto ai fini di una attività istruttoria completa ed esaustiva che si inserisce nell’ambito di una più vasta attività istruttoria asservita alla determinazione finale di VIA e, conseguentemente, “il potere riconosciuto all’attività amministrativa competente per la VIA non è un mero potere di riconoscimento di compatibilità con soluzioni pianificatorie già definite ma un potere di incisione diretta, con valutazione di possibili soluzioni alternative, anche svincolate dagli strumenti pianificatori preesistenti” (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 15.04.2005 n. 1028).
Pertanto, l’ipotesi contenuta nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, piuttosto che nel Piano degli interventi portuali o altro equipollente, che a Scilla possa realizzarsi un porto turistico non equivale, sotto il profilo dell’impatto ambientale, ad automatica assentibilità, dell’opera poiché l’ulteriore attività forma oggetto di autonoma valutazione, positiva o negativa che sia.
Lo stesso dicasi in ordine al parere favorevole espresso dalla stessa STV del Dipartimento Regionale Territorio Ambiente relativamente alla VAS e alla valutazione di incidenza sul PTCP che prevede la realizzazione di un porto, in quanto evidentemente rilasciato non solo in una fase antecedente all’adozione del singolo progetto presentato dal soggetto proponente, ma anche in funzione di un interesse (strategico) diverso che è quello di accompagnare la redazione stessa dell’atto di pianificazione e programmazione e non quello di controllare la compatibilità ambientale dello stesso
(TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 03.05.2019 n. 306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Regione Sicilia - Opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici - Nozione di natura precaria e limiti al criterio strutturale - Carattere eccezionale - Prevalenza del criterio funzionale - Riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso.
La natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014 - dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro: fattispecie in cui è stata esclusa la natura precaria della chiusura di due verande mediante mattoni forati legati da malta cementizia) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.05.2019 n. 18000 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATACome costantemente affermato da questa Corte, in materia edilizia una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile.
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Va, inoltre, ricordato che la natura precaria delle opere di chiusura e di  copertura di spazi e superfici per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti.
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3. Il secondo motivo è infondato.
3.1. Secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, l'imputata, pur non essendo in possesso dei prescritti titoli autorizzativi, ha realizzato una veranda coperta adiacente al fabbricato principale, occupante una superficie di 55 mq. e un volume di 180 mc., avente struttura portante in legno e copertura a falde, circostanza peraltro nemmeno oggetto di contestazione.
Nel caso di specie, a differenza di quanto ritenuto dalla ricorrente, la costruzione della veranda, vista nella sua completezza, necessitava del preventivo rilascio del permesso di costruire.
Come costantemente affermato da questa Corte, infatti, in materia edilizia, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile (Sez. 3, n. 14329 del 10/01/2008 - dep. 07/04/2008, Iacono Ciulla, Rv. 239707).
3.2. Va, inoltre, ricordato che la natura precaria delle opere di chiusura e di  copertura di spazi e superfici per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014 - dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261156: fattispecie in cui è stata esclusa la natura precaria della chiusura di due verande mediante mattoni forati legati da malta cementizia).
3.3. La Corte territoriale si è uniformata ai principi ora evocati, avendo accertato che la veranda coperta, occupante una superficie e una volumetria propria, era un'opera stabilmente infissa al suolo, ciò che ne esclude il carattere di precarietà (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.05.2019 n. 18000).

EDILIZIA PRIVATA: Ambito di operatività dell’esclusione del vincolo paesaggistico imposto per legge per le zone A e B ex D.M. 1444/1968.
L’esclusione dell’operatività del vincolo paesaggistico imposto per legge (c.d. vincolo Galasso) prevista dall’art. 1 del D.L. 27.06.1985, n. 312, convertito in legge con modificazioni, con l’art. 1 della l. n. 431 del 1985 -secondo il quale «Il vincolo di cui al precedente comma non si applica alle zone A, B e -limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione- alle altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del dm 02.04.1968, n. 1444, e, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ai centri edificati perimetrati ai sensi dell’art. 18 della legge 22.10.1971, n. 865» (disposizione poi riprodotta nell’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999 e quindi nell’art. 142 del d.lgs. n. 42/2004, così come sostituito dall'art. 12, comma 1, d.lgs. 24.03.2006, n. 157, successivamente integrato e modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008)- riguarda solo le opere avviate o previste alla data del 06.09.1985 e non i lavori autonomamente e abusivamente realizzati successivamente, non intendendo la norma introdurre un’eccezione all’applicazione dei vincoli per i centri storici, quanto quello di non bloccare l’esecuzione di piani urbanistici approvati prima dell’introduzione del vincolo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.05.2019 n. 979 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Con il primo ed il terzo motivo di ricorso la ricorrente contesta che l’abuso sarebbe stato realizzato in zona A del territorio comunale e quindi potrebbe valersi dell’esclusione dell’operatività del vincolo paesaggistico imposto per legge (c.d. vincolo Galasso) prevista dall’art. 1 del D.L. 27.06.1985, n. 312, convertito in legge con modificazioni, con l’art. 1 della l. n. 431 del 1985 secondo il quale «Il vincolo di cui al precedente comma non si applica alle zone A, B e -limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione- alle altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, e, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ai centri edificati perimetrati ai sensi dell’art. 18 della legge 22.10.1971, n. 865».
In merito la giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 17/10/2018 n. 5945) ha chiarito che "Tali disposizioni sono state poi riprodotte nell’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999 e quindi nell’art. 142 del d.lgs. n. 42/2004 (così come sostituito dall'art. 12, comma 1, d.lgs. 24.03.2006, n. 157, successivamente integrato e modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008), in particolare nel comma 2, secondo cui, «La disposizione di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), e), g), h), l), m), non si applica alle aree che alla data del 06.09.1985:
   a) erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee A e B;
   b) erano delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee diverse dalle zone A e B, limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani pluriennali di attuazione, a condizione che le relative previsioni siano state concretamente realizzate;
   c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri edificati perimetrati ai sensi dell'articolo 18 della legge 22.10.1971, n. 865
».
Le specificazioni contenute in tali disposizioni, come noto, rappresentano la trasposizione dell’interpretazione delle norme originariamente contenute nella legge Galasso, quale consolidatasi nell’elaborazione giurisprudenziale.
Risulta quindi chiaro che
l’esclusione dall’ambito di operatività del vincolo paesaggistico introdotto per i centri storici riguarda solo le opere avviate o previste alla data del 6 settembre 1985 e non i lavori autonomamente ed abusivamente realizzati successivamente, non intendendo la norma introdurre un’eccezione all’applicazione dei vincoli per i centri storici, quanto quello di non bloccare l’esecuzione di piani urbanistici approvati prima dell’introduzione del vincolo.
Infatti (v. Cons. Stato, IV, 17/10/2018 n. 5945) non appare poi inutile ricordare quale fosse la ragione della deroga ivi introdotta al regime ordinario di tutela paesistica. Essa aveva infatti lo scopo di consentire la realizzazione di opere già avviate in esecuzione dei piani vigenti all’entrata in vigore della legge (Cons. Stato, Sez. VI, 02.10.2007, n. 5072, con riferimento ai piani pluriennali di attuazione) nonché in relazione ad aree già urbanizzate o comunque «oggetto di una pianificazione che ha ritenuto maturo il tempo dell’esecuzione di interventi sul territorio» (Cass. pen., Sez. III, 17.12.1997, n. 3882,; cfr. anche 30.03.1999, n. 5923).
A ciò si aggiunge che non era sufficiente che il centro storico fosse stato genericamente individuato ma occorreva che fosse stata approvata la zonizzazione prevista dal DM 1444/1968.
Infatti la delimitazione negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, delle zone territoriali omogenee A e B […], non concerne la percezione di un fatto bensì un apprezzamento giuridico, relativo alla portata della deroga, dal Collegio d’appello intesa, in applicazione del prevalente orientamento giurisprudenziale, come limitata a “quelle aree già indicate come zone territoriali omogenee A) e B) prima del 06.09.1985 (c.d. legge Galasso), per tener conto dell’esistente, e sino a che vige quello strumento urbanistico, così consentendo di portare a compimento una scelta già fatta al momento dell’entrata in vigore della legge Galasso … (Cons. Stato, Sez. IV, 11/01/2019 n. 272).
Infatti «la c.d. “zonizzazione” non postula e non presuppone solo l’individuazione di un territorio -ossia una operazione puramente ricognitiva- bensì la qualificazione di esso, e pertanto una valutazione, alla stregua delle categorie offerte dal legislatore» (Cons. Stato, Sez. IV, 28.06.2018, n. 3987).
In merito anche la D.G.R. Lombardia n. 6/30194/97 ha chiarito che
affinché scatti l’esclusione dai vincoli c.d. Galasso, le zone A e B devono risultate delimitate dai piani regolatori generali che risultino definitivamente approvati dalla Regione alla data di entrata in vigore della L. 431/1985.
Nel caso di specie, invece, come evidenziato dal Comune, la ripartizione formale del territorio comunale risale alla successiva variante generale di PRG approvata con DGR 39450 del 07.02.1989, che ha fatto ricadere all’interno della Zona A anche quella qui di interesse.
In merito poi al fatto che la suddetta variante fosse stata già adottata con deliberazione del consiglio comunale n. 132/2 del 20.07.1984, si tratta di un fatto irrilevante.
Infatti secondo la giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 17/10/2018 n. 5945) è tuttavia destituita di fondamento, in primo luogo, l’argomentazione secondo cui, sia pure ai soli fini di cui trattasi, l’approvazione del P.R.G. abbia efficacia retroattiva.
Al contrario, è giurisprudenza del tutto pacifica quella secondo cui
il piano regolatore (oggi variamente denominato nelle legislazioni regionali) è un atto complesso, il cui procedimento si conclude solo con l’approvazione da parte della Regione.
Gli unici effetti anticipati del piano adottato dal Consiglio comunale concernono le misure di salvaguardia le quali giustificano il diniego di concessioni difformi (cfr. Cons. St., Adunanza plenaria, n. 1 del 09.03.1983; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. V, 06.12.2007, n. 6226, relativa a vicenda per certi versi speculare a quella qui in esame).
In definitiva quindi il primo e terzo motivo vanno respinti in quanto le opere realizzate ed oggetto della domanda di condono non formavano oggetto di una previsione di PRG approvata anteriormente al 06.09.1985 e la disciplina urbanistica della zona, per la sua incompletezza, non era idonea a permettere l’esclusione dall’applicazione del vincolo paesaggistico presente sull’area.

APPALTI: Sì al soccorso istruttorio per i costi di manodopera. Gli offerenti devono poter sanare la situazione per i giudici Ue.
In assenza di previsioni del bando di gara sull'indicazione del costo della manodopera, è ammesso il soccorso istruttorio quando i moduli messi a disposizione dalla stazione appaltante non consentono comunque tale indicazione.

Lo ha precisa la Corte di giustizia dell'Unione europea, con la
sentenza 02.05.2019 (causa C-309/18), nella quale sono stati affrontati i limiti dell'integrazione della documentazione nei casi di omissione dei costi della manodopera.
La fattispecie, relativa alla causa n. C-309/18, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta alla Corte dal Tar del Lazio, riguardava l'interpretazione della direttiva 2014/24/Ue e in particolare l'aggiudicazione di un appalto pubblico a una società che aveva omesso di indicare separatamente i costi della manodopera nella propria offerta economica.
Nel caso di specie, il bando di gara non richiamava espressamente l'obbligo incombente agli operatori di indicare nella loro offerta economica i costi della manodopera, prescritto all'articolo 95, comma 10, del codice dei contratti pubblici. Dopo la scadenza del termine per la presentazione delle offerte, l'amministrazione aggiudicatrice, facendo ricorso alla procedura di soccorso istruttorio di cui all'articolo 83, comma 9, del codice dei contratti pubblici, ha invitato alcuni degli offerenti a indicare i loro costi della manodopera per poi aggiudicare l'appalto ad una di queste imprese oggetto di soccorso istruttorio.
Di qui il ricorso della ditta seconda classificata che eccepiva che l'aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura di gara per aver omesso di indicare, nella sua offerta, i costi della manodopera, senza possibilità di riconoscerle il beneficio della procedura di soccorso istruttorio.
Ad avviso dei giudici europei in un primo momento apparirebbe lecita l'esclusione perché, «seppure il bando non contenesse l'obbligo di indicare i suddetti costi, è onere del concorrente adempiere a tale incombenza prevista dalla normativa». Rimane però il fatto», hanno detto i giudici, «che le disposizioni della gara d'appalto non hanno consentito agli offerenti di indicare i citati costi di manodopera nelle loro offerte economiche perché il modulo predisposto che gli offerenti della gara d'appalto dovevano obbligatoriamente utilizzare non lasciava loro alcuno spazio fisico per l'indicazione separata dei costi della manodopera»; né era possibile presentare alcun documento che non fosse stato specificamente richiesto dall'amministrazione aggiudicatrice.
Pertanto, i principi di certezza del diritto, parità di trattamento e di trasparenza legittimano una disciplina come quella italiana secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera comporta l'esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio.
Tuttavia, ha aggiunto la Corte, se le disposizioni della gara d'appalto non consentono agli offerenti di indicare tali costi nelle loro offerte economiche si deve consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine stabilito dall'amministrazione aggiudicatrice (articolo ItaliaOggi del 10.05.2019).

APPALTI: Gare, sì alla sanatoria se il bando crea confusione.
Negli appalti gli obblighi di legge valgono anche se non richiamati dal bando. Ma, se questo crea confusione, deve essere consentito agli offerenti di sanare la loro situazione.

Lo ha deciso la Corte di giustizia Ue (
sentenza 02.05.2019 (causa C-309/18) interpellata dal Tar Lazio sull'applicazione della direttiva 2014/24 in materia di appalti pubblici.
La Corte ha osservato che l'obbligo di indicare separatamente i costi della manodopera, a pena di esclusione dalla gara e senza possibilità di soccorso istruttorio, discende chiaramente dalla legge italiana e vale anche se non espressamente richiamato nel bando. Tuttavia, se il giudice accerta che questo ha generato confusione, può essere consentito agli offerenti di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale entro un termine stabilito (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

APPALTI: Mancata indicazione separata dei costi della manodopera in un’offerta economica.
La Corte d Giustizia UE in ordine alle conseguenze della mancata indicazione separata dei costi della manodopera in un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico statuisce che: “
I principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l’esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d’appalto, sempre che tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione.
Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine stabilito dall’amministrazione aggiudicatrice
” (Corte di Giustizia UE, Sez. IX, sentenza 02.05.2019 (causa C-309/18) - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).

APPALTI: Mancata separata indicazione dei costi di manodopera: la CGUE salva la disciplina italiana ma indica i limiti entro cui è indispensabile il soccorso istruttorio.
La Corte di giustizia UE, pronunciando su un rinvio pregiudiziale del Tar per il Lazio, chiarisce che le norme del nuovo codice dei contratti (artt. 95, comma 10, ed 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016), le quali escludono il rimedio del soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione separata dei costi della manodopera, sono in linea di principio compatibili con la direttiva n. 2014/24/UE, salva tuttavia la situazione –che spetta al giudice nazionale verificare– in cui sussista una “materiale impossibilità”, per l’offerente, di indicare separatamente quei costi (Corte di giustizia dell’Unione Europea, Sez. IX,
sentenza 02.05.2019 - causa C-309/18).
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Contratti pubblici – Offerta economica – Mancata separata indicazione dei costi della manodopera – Esclusione – Compatibilità – Condizioni.
I principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l’esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d’appalto, sempre che tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione.
Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine stabilito dall’amministrazione aggiudicatrice. (1)

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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna, la Corte di giustizia UE si pronuncia in merito all’annosa questione dell’indicazione separata, in sede di offerta, dei costi per la manodopera, giungendo alla conclusione che la normativa italiana –laddove non consente all’amministrazione di attivare il soccorso istruttorio per consentire all’offerente di indicare, ex post, i costi per la manodopera che si sia omesso di indicare in sede di offerta (combinato disposto tra l’art. 95, comma 10, e l’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016)– deve considerarsi, in linea di principio, compatibile con la direttiva n. 2014/24/UE, ed in particolare con il suo art. 56, par. 3, il quale, come è noto, consente alle amministrazioni aggiudicatrici di attivare il rimedio del soccorso istruttorio “salvo disposizione contraria del diritto nazionale che attua la presente direttiva”.
Tuttavia, ha aggiunto la Corte, quel rimedio dovrà comunque essere assicurato, in ossequio ai principi euro-unitari di trasparenza e di proporzionalità, tutte le volte in cui sia ravvisabile –con indagine rimessa al giudice nazionale– una situazione di “materiale impossibilità”, per l’offerente, di procedere all’indicazione separata nell’ambito della sua offerta.
La questione pregiudiziale era stata sollevata dal Tar per il Lazio, sezione II-bis, con ordinanza 24.04.2018, n. 4562 (oggetto della News US in data 04.08.2018, cui si rinvia per un’analitica ricostruzione della problematica), nell’ambito di una controversia insorta intorno all’aggiudicazione di una procedura aperta, bandita da un Comune della Provincia romana, per l’affidamento del servizio di raccolta differenziata, trasporto dei rifiuti solidi urbani ed assimilati ed altri servizi d’igiene urbana, la cui lex specialis non aveva espressamente previsto l’onere di indicare separatamente, nell’offerta economica, i costi della manodopera.
L’offerta dell’impresa poi risultata aggiudicataria aveva omesso tale separata indicazione ma l’amministrazione, azionando il rimedio del soccorso istruttorio, le aveva consentito di integrare ex post l’elemento mancante. Ricorreva, pertanto, l’impresa seconda classificata invocando l’esclusione dell’aggiudicataria per violazione dell’art. 95, comma 10, del codice dei contratti, in quanto norma chiara ed inequivoca nello statuire l’obbligo per l’operatore economico di indicare specificamente, tra gli altri, i costi della manodopera, quale elemento essenziale dell’offerta economica.
Il Giudice capitolino, nel formulare il rinvio, aveva esposto i propri dubbi circa l’aderenza al diritto dell’Unione della normativa nazionale che non consente il soccorso istruttorio, “nei casi in cui l’offerta economica, che non riporta l’indicazione dei costi della manodopera, sia stata redatta dall’impresa partecipante alla gara di appalto in conformità alla documentazione all’uopo predisposta dalla stazione appaltante”, evidenziando peraltro che, nel caso di specie, non fosse contestato che l’offerta, dal punto di vista sostanziale, rispettasse la disciplina in materia dei costi di manodopera, in quanto correttamente computati dall’offerente.
   II. – Nel rispondere al quesito, la Corte di giustizia UE opera una preliminare ricognizione della propria giurisprudenza in subiecta materia, procedendo quindi ad applicarla alla fattispecie in esame:
      a) nella ricostruzione dei precedenti giurisprudenziali, vengono anzitutto valorizzati il principio di parità di trattamento e quello di proporzionalità.
Quanto al primo (ed al connesso principio di trasparenza, che ne costituisce il corollario), la Corte ricorda che:
         a1) in base a tali principi, è necessario “che gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione dei termini delle loro offerte”, da ciò derivandone “che tali offerte siano soggette alle medesime condizioni per tutti gli offerenti” e dovendosi “eliminare i rischi di favoritismo e di arbitrio da parte dell’amministrazione aggiudicatrice”; di conseguenza, tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione devono essere formulate “in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d’oneri, in modo che, da un lato, si permetta a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l’esatta portata e d’interpretarle allo stesso modo e, dall’altro, all’autorità aggiudicatrice di essere in grado di verificare effettivamente se le offerte degli offerenti rispondano ai criteri che disciplinano l’appalto in questione” (con richiamo alla sentenza della stessa Corte di giustizia UE del 02.06.2016, Pizzo, C-27/15, punto 36, in Foro it., 2017, IV, 206, con nota di M. CONDORELLI);
         a2) se, quindi, i richiamati principi devono essere interpretati nel senso che ostano ad un provvedimento di esclusione a seguito del mancato rispetto di un obbligo che non risulta espressamente, se non in via interpretativa, dai documenti di gara o dal diritto nazionale vigente (così, ancora, la sentenza del 02.06.2016, Pizzo, cit., nonché l’ordinanza del 10.11.2016, Spinosa Costruzioni Generali e Melfi, C-162/16, punto 32, in Urbanistica e appalti, 2017, 346, con nota di BALDI), quegli stessi principi “non possono invece, di norma, ostare all’esclusione di un operatore economico dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a causa del mancato rispetto, da parte del medesimo, di un obbligo imposto espressamente, a pena di esclusione, dai documenti relativi alla stessa procedura o dalle disposizioni del diritto nazionale in vigore”, essendo preclusa, in tal caso, qualsiasi rettifica (con richiamo, oltre alla sentenza Pizzo, anche alla sentenza del 06.11.2014, Cartiera dell’Adda, C-42/13, punti 46 e 48, in Urbanistica e appalti, 2015, 137, con nota di PATRITO, ed in Dir. proc. amm., 2015, 1006, con nota di MAMELI, ed alla sentenza del 10.11.2016, Ciclat, C-199/15, punto 30, in Nuovo notiziario giur., 2017, 317, con nota di PALMIERI, ed in Riv. dir. sicurezza sociale, 2017, 631, con nota di D'ALOISIO, nonché oggetto della News US in data 15.11.2016, cui si rinvia per ulteriori indicazioni);
         a3) in tale cornice, ricorda la Corte, l’articolo 56, paragrafo 3, della direttiva n. 2014/24/UE “autorizza gli Stati membri a limitare i casi nei quali le amministrazioni aggiudicatrici possono chiedere agli operatori economici interessati di presentare, integrare, chiarire o completare le informazioni o la documentazione asseritamente incomplete, errate o mancanti entro un termine adeguato”;
      b) quanto, poi, al principio di proporzionalità, la Corte ricorda che la normativa nazionale sulle procedure d’appalto pubblico, pur se finalizzata a garantire la parità di trattamento degli offerenti, tuttavia “non deve eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito” (con richiamo alla sentenza dell’08.02.2018, Lloyd’s of London, C-144/17, punto 32, in Foro amm., 2018, 163, solo massima);
      c) analizzando il caso in concreto, la Corte osserva che:
         c1) nella normativa italiana, l’obbligo, a pena di esclusione, di indicare separatamente i costi della manodopera “discende chiaramente dal combinato disposto dell’articolo 95, comma 10, del codice dei contratti pubblici e dell’articolo 83, comma 9, del medesimo”, disposizioni attraverso le quali il legislatore italiano, così come gli era consentito dall’articolo 56, paragrafo 3, della direttiva 2014/24, “ha deciso, all’articolo 83, comma 9, del succitato codice, di escludere dalla procedura di soccorso istruttorio, in particolare, l’ipotesi in cui le informazioni mancanti riguardino i costi della manodopera”;
         c2) pur se il bando di gara oggetto della controversia non richiamava espressamente l’obbligo di legge dell’indicazione separata, esso comunque specificava che “[p]er quanto non espressamente previsto nel presente bando, nel capitolato e nel disciplinare di gara si applicano le norme del [codice dei contratti pubblici]”, da ciò derivandone “che qualsiasi offerente ragionevolmente informato e normalmente diligente era, in linea di principio, in grado di prendere conoscenza delle norme pertinenti applicabili alla procedura di gara di cui al procedimento principale, incluso l’obbligo di indicare nell’offerta economica i costi della manodopera”;
         c3) da queste considerazioni, la Corte ricava la prima, generale, risposta al quesito posto dal Tar per il Lazio, affermando che “i principi della parità di trattamento e di trasparenza non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, secondo la quale la mancata indicazione dei costi della manodopera comporta l’esclusione dell’offerente interessato senza possibilità di ricorrere alla procedura di soccorso istruttorio, anche in un caso in cui il bando di gara non richiamasse espressamente l’obbligo legale di fornire detta indicazione”;
      d) la Corte rileva, in punto di fatto, che “il modulo predisposto che gli offerenti della gara d’appalto di cui al procedimento principale dovevano obbligatoriamente utilizzare non lasciava loro alcuno spazio fisico per l’indicazione separata dei costi della manodopera. In più, il capitolato d’oneri relativo alla medesima gara d’appalto precisava che gli offerenti non potevano presentare alcun documento che non fosse stato specificamente richiesto dall’amministrazione aggiudicatrice”; da questa osservazione la Corte ricava che:
         d1) spetta al giudice del rinvio “verificare se per gli offerenti fosse in effetti materialmente impossibile indicare i costi della manodopera conformemente all’articolo 95, comma 10, del codice dei contratti pubblici e valutare se, di conseguenza, tale documentazione generasse confusione in capo agli offerenti, nonostante il rinvio esplicito alle chiare disposizioni del succitato codice”;
         d2) qualora il giudice del rinvio accerti l’effettivo verificarsi di tali circostanze, in considerazione dei principi della certezza del diritto, di trasparenza e di proporzionalità, “l’amministrazione aggiudicatrice può accordare a un simile offerente la possibilità di sanare la sua situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla legislazione nazionale in materia entro un termine stabilito dalla stessa amministrazione aggiudicatrice” (con richiamo, qui, alle già citate sentenze Pizzo e Spinosa Costruzioni Generali e Melfi).
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      e) con ordinanze del 24.01.2019, nn. 1, 2 e 3 (quest’ultima oggetto della News US n. 18 del 04.02.2019), l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che le norme del nuovo codice dei contratti (in specie, il combinato disposto dell’art. 83, comma 9, con l’art. 95, comma 10) devono essere interpretate nel senso di imporre l’esclusione dell’offerta che non abbia indicato separatamente i costi per la manodopera e per gli oneri di sicurezza –pure nelle ipotesi in cui quell’offerta, dal punto di vista sostanziale, abbia effettivamente computato quei costi–, senza alcuna possibilità di invocare, da parte dell’impresa così esclusa, il rimedio del c.d. soccorso istruttorio;
      f) nella stessa sede, tuttavia, l’Adunanza plenaria ha affermato che questa soluzione presenta possibili profili di incompatibilità con i principi euro-unitari di legittimo affidamento, di certezza del diritto, di libera circolazione, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, nonché con le norme della direttiva n. 2014/24/UE, sollevando, di conseguenza, quale giudice di ultima istanza, questione pregiudiziale dinnanzi alla Corte di giustizia UE;
      g) ciò nondimeno, la stessa Adunanza plenaria ha segnalato che vi sono importanti argomenti di ordine letterale e logico che farebbero propendere per la compatibilità comunitaria dell’obbligo di esclusione dalla gara, quale ormai imposto, a livello legislativo, dalle richiamate disposizioni del Codice dei contratti del 2016; ciò, in particolare, avuto riguardo alle seguenti considerazioni:
         g1) i principi di tutela della concorrenza e di proporzionalità in favore degli offerenti dovrebbero far ritenere prevalenti le esigenze di certezza del diritto, di parità di trattamento e di effettività della tutela economica e sociale del lavoro e della sicurezza dei prestatori;
         g2) una volta che la legge nazionale abbia definitivamente, formalmente e, soprattutto, chiaramente sancito l’obbligo per l’offerente di dichiarare in sede di offerta separatamente i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, si deve conseguentemente ritenere “che gli offerenti, anche di altri Stati membri, non possano più addure a loro discolpa la sussistenza di un condizione meno favorevole”;
         g3) l’imposizione dell’obbligo di dichiarare gli oneri nell’offerta, peraltro, “non costituisce affatto un adempimento meramente formale, in quanto la presenza della dichiarazione non preclude la verifica della sua correttezza sostanziale attraverso la richiesta ‘di spiegazioni’, di cui all’articolo 69 della Dir. 2014/24 (ed all’art. 97, comma 5, del d.lgs. n. 50/2014), che è tipica della fase successiva all’apertura delle offerte economiche ed ha un profilo eminentemente oggettivo”;
         g4) non può dunque parlarsi affatto di “soccorso istruttorio”, “che come tale afferisce propriamente alla fase dell’ammissione e della verifica dei requisiti e quindi a profili tipicamente soggettivi”, in quanto la normativa nazionale, utilizzando la facoltà concessa dall’art. 56, par. 3, della direttiva n. 2014/24/UE, all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 ha limitato il soccorso istruttorio agli elementi formali “del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta economica e all'offerta tecnica”;
         g5) gli offerenti che partecipano alle gare comunitarie sono soggetti imprenditoriali, che si presumono in possesso di adeguate professionalità, per i quali il mancato adempimento di un onere obbligatoriamente previsto dalla legge costituisce una grave negligenza addebitabile ai medesimi concorrenti;
         g6) ulteriori argomenti sono stati, poi, desunti dalla giurisprudenza della stessa Corte di giustizia (con riguardo, in particolare, alle sentenze Pizzo e Cartiera dell’Adda, richiamate anche dalla Corte di Lussemburgo nella decisione qui in rassegna), a partire dall’affermazione secondo cui il diritto euro-unitario non impedisce l’esclusione di un concorrente dalla gara per ragioni di carattere formale e dichiarativo a condizione:
i) che le ragioni e le condizioni dell’esclusione siano chiaramente e previamente stabilite dal diritto nazionale o dal bando di gara;
ii) che le clausole che dispongono l’esclusione mirino a propria volta a conseguire obiettivi e princìpi di interesse per il diritto UE (quali il principio della par condicio competitorum fra concorrenti professionali);
      h) non può non segnalarsi che i principi adesso formulati dalla Corte di giustizia UE con la sentenza qui in rassegna esauriscono, nella sostanza, le questioni pregiudiziali che erano state sollevate dalle menzionate ordinanze nn. 1, 2 e 3 del 2019 dall’Adunanza plenaria la quale, a questo punto, potrebbe chiedere, in base alle Raccomandazioni della Corte UE pubblicate in GUCE del 25.11.2016, il ritiro dei propri quesiti interpretativi;
      i) anche il Tar per la Basilicata aveva rimesso analoga questione alla Corte di giustizia UE (ordinanza 25.07.2017, n. 525, in Foro amm., 2017, 1749, nonché oggetto della News US in data 21.08.2017) la quale è stata dichiarata irricevibile dalla Corte di giustizia UE, sezione VI, con la decisione del 23.11.2017, C-486/17, Olympus Italia (oggetto della News US in data 03.08.2018, cui si rinvia per approfondimenti in materia di ricevibilità dei rinvii pregiudiziali);
      j) con la sentenza in rassegna la Corte di giustizia UE conferma i propri precedenti arresti che già avevano, in parte, ridimensionato la portata ed il fondamento europeo del soccorso istruttorio in materia di appalti pubblici; al riguardo:
         j1) la sentenza Cartiera dell’Adda, del 06.11.2014, cit. (ai punti nn. 46 e 48), aveva affermato che l’art. 51 della direttiva n. 2004/18/CE, il quale dispone(va) che l’amministrazione aggiudicatrice può invitare gli operatori economici ad integrare o a chiarire i certificati e i documenti presentati dall’offerente, “non può essere interpretato nel senso di consentirle di ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni dei documenti dell’appalto, debbono portare all’esclusione dell’offerente”, essendo necessario che l’amministrazione aggiudicatrice assicuri “il rispetto dei criteri da essa stessa fissati, di modo che essa è tenuta ad escludere dall’appalto un operatore economico che non abbia comunicato un documento o un’informazione la cui produzione era imposta dai documenti di tale appalto sotto pena di esclusione”;
         j2) le successive sentenze Pizzo, del 02.06.2016, e Ciclat, del 10.11.2016, citt., hanno ribadito il concetto affermato nel precedente del 2014, richiamando le stesse parole;
         j3) rilevante è, tuttavia, la conclusione cui giunge la Corte nella sentenza qui in rassegna, in merito alle situazioni di accertata “materiale impossibilità” di effettuare l’indicazione separata dei costi di manodopera, nella quale si riespande la piena possibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di procedere al soccorso istruttorio “in considerazione dei principi della certezza del diritto, di trasparenza e di proporzionalità”, previa fissazione di un termine di adempimento da imporre al concorrente interessato;
      k) sul principio di proporzionalità, dalla Corte di giustizia UE considerato quale principio generale del diritto dell'Unione Europea, in base al quale le misure adottate dai legislatori nazionali non devono eccedere quanto necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito, cfr., da ultimo, Corte di giustizia UE, sentenza 22.10.2015, C-425/14, Edilux (in Appalti & Contratti, 2015, 12, 90, con nota di CANAPARO, in Giur. it., 2016, 1459, con nota di CRAVERO, ed in Giorn. dir. amm., 2016, 318, con nota di VINTI), secondo la quale gli impegni e le dichiarazioni contenuti nel c.d. protocollo di legalità non possono oltrepassare i limiti di ciò che è necessario al fine di salvaguardare i principi di concorrenza, parità di trattamento e non discriminazione nonché l'obbligo di trasparenza che ne deriva; in caso contrario, tali impegni e dichiarazioni sono da interpretarsi contrari al principio di proporzionalità e, perciò, inidonei a produrre l'effetto esclusivo del partecipante inadempiente (Corte di giustizia dell’Unione Europea, Sez. IX,
sentenza 02.05.2019 - causa C-309/18 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAScatta il reato per mancata bonifica anche in assenza del progetto.
L'omessa bonifica non può giustificarsi con la mancanza dello specifico progetto o per l'assenza di fondi da parte del consorzio intercomunale.

Come spiega la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 30.04.2019 n. 17813, l'attività di ripristino di luoghi inquinati è attività prioritaria rispetto a qualsiasi mission dell'ente responsabile del sito. In particolare se tale ente è gestore di una discarica di rifiuti.
I giudici rispediscono al mittente anche l'argomento difensivo secondo cui non scatterebbe il reato previsto dal testo unico dell'ambiente (articolo 257) per la mancata adozione del piano di bonifica, ma solo quando questo sia stato adottato e poi non eseguito. Come giustamente fa notare la Cassazione sarebbe una piena violazione del principio di ragionevolezza affermare che il reato sussiste se il responsabile si è adoperato per l'adozione del piano di caratterizzazione del danno ambientale e del progetto esecutivo di bonifica senza poi procedervi mentre sarebbe "innocente" chi non adotta tali atti prodromici in quanto non può violarli.
L'indirizzo prescelto
La Cassazione -districandosi tra i diversi e complessi orientamenti che riporta in sentenza- aderisce all'interpretazione che ravvisa il reato come permanente -a partire dalla rilevazione del danno- e che definisce la bonifica come attività riparatoria che fa venir meno le conseguenze penali.
Ciò indica che il Legislatore ha messo al punto più alto di queste fattispecie la tutela del diritto costituzionale alla salute, che quando ripristinato esclude appunto la sussistenza del reato: spingendo di fatto verso una condotta riparatoria che può essere realizzata fino all'adozione della sentenza di condanna. Ma l'attività riparatoria, rilevante come esimente per la persona fisica responsabile di un ente, non è solo quella della concreta bonifica, ma ricomprende anche tutte quelle che la rendono possibile.
È quindi rilevante, come nel caso in esame, che il presidente del consorzio proceda a segnalare alla Regione e alle Province coinvolte la situazione dannosa e sottoporre il progetto di bonifica, anche per l'eventuale erogazione di risorse. Non poteva quindi considerare illegittima la condanna il presidente del consorzio che non aveva dato impulso non solo all'adozione del progetto di bonifica, ma anche delle rilevazioni delle soglie di rischio e contaminazione e del piano di caratterizzazione.
Dal canto suo la persona giuridica non potrà sottrarsi alle negative conseguenze economiche della violazione del principio di "chi inquina paga" (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato.
2. Occorre ripercorrere preliminarmente e brevemente la disciplina in tema di obblighi di bonifica penalmente rilevanti.
L'art. 58 del D.Lgs. n. 152 del 1999, prevedeva che «chi con il proprio comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del presente decreto provoca un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di inquinamento ambientale, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno ovvero deriva il pericolo di inquinamento, ai sensi e secondo il procedimento di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 17» e sanzionava con l'arresto e con l'ammenda l'inosservanza della disposizione anzidetta.
Si richiedeva per la configurabilità del reato un danno o un pericolo di danno all'ambiente causato non da un qualsivoglia comportamento bensì dalla violazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 152 del 1999 ossia, essenzialmente dalle violazioni delle disposizioni in materia di scarichi di acque reflue industriali (cfr. Sez. 3, n. 40191 del 11/10/2007 Rv. 238057 - 01 Schembri).
Va aggiunto che a seguito delle modificazioni apportate con il D.Lgs. n. 258 del 2000, per scarico doveva intendersi qualsiasi immissione tramite condotta di acque reflue, liquide o semiliquide nel suolo sottosuolo o rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante. Gli scarichi di reflui di cui il detentore si disfi senza versamento diretto tramite condotta o comunque senza una canalizzazione rientravano nella disciplina dei rifiuti di cui al Decreto Ronchi e non in quella sulle acque e potevano dare luogo o ad uno smaltimento di rifiuti o ad un abbandono degli stessi. In mancanza quindi di uno scarico, anche in tema di bonifica dei siti inquinati, non era applicabile la disciplina sulle acque bensì quella sui rifiuti (Sez. 3, n. 40191 del 11/10/2007 Rv. 238057 - 01 cit.).
2.1. A sua volta con l'art. 51-bis il D.Lgs. n. 22 del 1997 prescriveva che chiunque avesse cagionato l'inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, previsto dall'art. 17, comma 2, era punito con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno e con l'ammenda da L. 5 milioni a L. 50 milioni se non provvedeva alla bonifica secondo il procedimento di cui all'art. 17. 
Si applicava la pena dell'arresto da un anno a due anni e la pena dell'ammenda da L. 10 milioni a L. 100 milioni in caso di inquinamento provocato da rifiuti pericolosi e, al comma 2 si precisava che chiunque avesse cagionato, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero avesse determinato un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi,  era tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, dibonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali derivava il pericolo di inquinamento.
Si è così osservato come dal raffronto emergesse che la fattispecie del D.Lgs. n. 22 del 1997 aveva un ambito diverso e, per alcuni aspetti, più circoscritto e limitato rispetto a quella di cui al D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58, facendo riferimento non genericamente a un danno all'ambiente o ad un pericolo di inquinamento ambientale, bensì al superamento o al pericolo di superamento di limiti precisi specificati dal D.M. 25.10.1999, n. 471.
Inoltre, mentre, il decreto sulle acque del 1999 richiedeva che il danno o il pericolo di inquinamento ambientale fosse stato provocato da un comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del decreto stesso, l'articolo 17, comma 2, del Decreto Ronchi faceva discendere l'obbligo della bonifica anche se il fatto fosse stato cagionato in maniera accidentale.
2.2. Il D.Lgs. n. 152 del 2006, ha riprodotto in parte il contenuto delle predette norme.
Il legislatore ha articolato la disciplina penale ed amministrativa della bonifica dei siti inquinati nel titolo V del D.Lgs. 152/2006, in particolare con gli artt. 242 e ss., avendo riguardo oltre ai suoli, ed al sottosuolo, anche alle acque sotterranee e disponendo -con l'art. 242 cit.- che «al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'art. 304, comma 2».
Il responsabile dell'inquinamento inoltre, deve svolgere anche, una volta attuate le citate misure di prevenzione, una preliminare indagine sui parametri oggetto dell'inquinamento e, «ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata dandone notizia con apposita autocertificazione al comune ed alla provincia» (art. 242, comma 2 cit.). 
Nel caso in cui invece, accerti l'avvenuto superamento delle anzidette concentrazioni, anche per un solo parametro, deve darne immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure adottate e, nei  successivi trenta giorni, deve presentare alle amministrazioni predette ed alla regione competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all'allegato n. 2 alla parte quarta del D.Lgs. 152/2006. La segnalazione è dovuta a prescindere dal superamento delle soglie di contaminazione e la sua omissione è sanzionata dall'art. 257, che non punisce solo l'omessa bonifica ma anche l'omessa segnalazione.
2.3.
Con particolare riferimento alla bonifica, quest'ultimo articolo punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato, «chiunque cagiona l'inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni di soglia di rischio, [...] se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli artt. 242 e seguenti».
2.4.
La struttura del reato richiede, quale indefettibile presupposto, la sussistenza dell'evento di danno dell'inquinamento, la cui configurazione implica l'accertato superamento [attraverso la complessa procedura stabilita dall'articolo 242 del T.U.A.) della concentrazione soglia di rischio (CSR) (che è un livello di rischio superiore ai livelli delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC)] (Sez. 3, n. 9794 del 20/11/2006, Montigiani, Rv. 235951; Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007 Rv. 237134 Magni; Sez. 3, n. 9492 del 29/01/2009 Rv. 243115, Capucciati).
Rispetto alla previgente fattispecie di cui all'art. 51-bis del D.lgs. 22/1997, quella nuova di cui all'art. 257 D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, è meno grave, essendo stata ridotta l'area dell'illecito ed attenuato il trattamento sanzionatorio.
In particolare:
   a) mentre in precedenza l'evento del reato poteva consistere nell'inquinamento del sito o nel pericolo concreto ed attuale di inquinamento, l'art. 257 fa riferimento al solo evento di danno dell'inquinamento;
   b) per aversi inquinamento è ora necessario il superamento della concentrazione soglia di rischio (CSR), che costituisce un livello di rischio superiore rispetto ai livelli delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC);
   c) la sanzione penale è ora prevista con pena pecuniaria o detentiva alternativa, diversamente dalla precedente disposizione che prevedeva la pena congiunta
(cfr. da ultimo Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016 Rv. 267843 Silva).
Si tratta, secondo talune pronunce della Suprema Corte, di un reato di evento a condotta libera o di un reato causale puro, nel quale l'evento incriminato è l'Inquinamento, cagionato da una qualsiasi condotta dolosa o colposa, la cui punizione è però subordinata all'omessa bonifica (configurata come condizione obiettiva di punibilità a contenuto negativo).
Inoltre, secondo una lettura elaborata con riguardo al previgente art. 51-bis del Dlgs 22/1997, ma che date le analogie strutturali tra i reati potrebbe, ove condivisa, riguardare anche l'attuale fattispecie di cui all'art. 257 in esame, una valutazione costituzionalmente orientata imporrebbe che sia l'inquinamento nel senso anzidetto, sia l'omessa bonifica, quale condizione intrinseca o impropria di punibilità, siano coperti dal principio di colpevolezza penale desumibile dall'art. 27, comma 1, della Carta fondamentale. (cfr. Sez. 3, n. 9794 del 29/11/2006 Rv. 235951 Montigiani; Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007 Rv. 237134 Magni, cit).
In proposito, è stato precisato che la condizione obiettiva di punibilità "intrinseca" a contenuto negativo incide sull'interesse tutelato dalla fattispecie in quanto il mancato raggiungimento dell'obiettivo della bonifica determina un aggravarsi dell'offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, già perpetrata dalla condotta di inquinamento (cfr. Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007 Rv. 237134 Magni, cit.). Secondo altro arresto di legittimità invece, è configurabile un reato omissivo di pericolo che si consuma ove il soggetto, a fronte della situazione d'inquinamento, inquadrata tra i presupposti di fatto del reato, non proceda all'adempimento dell'obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentalizzate.
Tale interpretazione, nell'ottica della richiamata sentenza, si presenterebbe più rispondente ai principi di offensività e di proporzionalità della pena, perché, attraverso il rafforzamento penalistico dell'effettività delle misure reintegratorie del bene offeso, si fa assumere all'interesse pubblico alla riparazione una connotazione particolare, che permea di sé il precetto e diviene esso stesso bene giuridico protetto (cfr. con illustrazione riguardante la precedente fattispecie dell'art. 51-bis del D.Lgs. 22/1997, Sez. 3 , n. 1783 del 28.4.2000, Pizzuti, rv. 216585).
Conferma le medesime finalità ripristinatorie, seppure attraverso una diversa ricostruzione ermeneutica, distante rispetto alla suddetta tesi del reato omissivo, un ulteriore indirizzo di legittimità, secondo cui con l'entrata in vigore dell'art. 257 in esame la disciplina del reato già previsto ai sensi del citato articolo 51-bis del D.lgs. 22/1997 non sarebbe sostanzialmente mutata, atteso che la struttura della fattispecie di cui all'art. 257 sarebbe «del tutto corrispondente a quella del precedente reato di cui all'art. 51-bis, [...], poiché continua a prevedere la punibilità del fatto di inquinamento se l'autore 'non provvede alla bonifica in conformità al progetto di cui all'art. 242 (in precedenza era previsto che la bonifica dovesse avvenire secondo il procedimento del corrispondente art. 17). Il che significava e significa che la bonifica, se integralmente eseguita escludeva ed esclude la punibilità del fatto anche secondo la precedente normativa (come è stato sempre pacifico anche in giurisprudenza)».
Attraverso tale ricostruzione si è voluto sottolineare che «in sostanza il legislatore, proprio per agevolare la bonifica dei siti inquinati (secondo il principio "chi inquina paga" formalizzato testualmente in legge nell'art. 239 del nuovo codice ambientale, ma già esistente come tale anche nel cd. decreto Ronchi ) e quindi impedire la prescrizione del reato nei tempi estremamente brevi previsti per le contravvenzioni, insufficienti di regola per gli interventi di ripristino ambientale dei sin contaminati, ha strutturato il reato di cui si tratta come reato la cui permanenza persiste fino alla bonifica ovvero fino alla sentenza di condanna, ma la cui punibilità può essere fatta venire meno, sempre fino alla sentenza di condanna, attraverso la condotta riparatoria, in tal modo creando un particolare interesse per l'autore dell'inquinamento -che non può invocare la prescrizione se non ha provveduto alla bonifica- ad attuare le condotte riparatorie, onde eliminare la punibilità del reato» (cfr. Sez. 1, n. 29855 del 13/06/2006 Rv. 235255 Pezzotti e altro).
2.5. Quest'ultimo aspetto relativo al carattere permanente del reato è stato ribadito in altre pronunzie della suprema Corte.
Infatti si è osservato che «si versa in ipotesi di reato di natura permanente anche dopo l'entrata in vigore della D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 242 e 257 [...] -non bastando ai fini della interruzione della condotta il sequestro del sito inquinante, preordinato all'eliminazione del danno, ma occorrendo l'esecuzione di interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale delle aree, condotte riparatorie- queste -previste anche dal nuovo testo unico D.Lgs. n. 152 del 2006, ex art. 247, che, ove poste in essere prima della pronuncia giudiziale- fanno venire meno la punibilità del reato» (cfr. Sez. 3, n. 11498 del 15/12/2010 (dep. 22/03/2011) Rv. 249743 Ciabattoni).
2.6. Costituisce un tema dibattuto in dottrina e giurisprudenza, rilevante nel caso di specie alla luce del primo motivo di impugnazione, quello della ricostruzione della condotta di omessa bonifica, con particolare riferimento alla necessità o meno che la stessa, per assumere rilevanza penale in rapporto all'art. 257 cit., presupponga o meno la previa redazione e adozione del progetto di bonifica ex art. 242 cit. In altri termini, si tratta di stabilire se l'obbligo di bonifica, a fronte della cui omissione sussiste la punibilità del responsabile dell'inquinamento del sito, sia o meno quello che si delinea solo di seguito all'approvazione del citato progetto operativo della medesima (cfr. art. 242, comma 7 cit.).
In tale ultimo senso si rinvengono diverse decisioni con cui la Suprema Corte ha rilevato come, a fronte della riformulazione della pregressa fattispecie criminosa (art. 51-bis del D.L. vo. 22/1997) ai sensi del D.L.vo. 152/2006, si debba considerare che, mentre per il procedimento richiamato dal Decreto n. 22 del 1997, art. 51-bis, il reato era configurabile per la violazione di uno qualsiasi dei numerosi obblighi gravanti sul privato ex art. 17, con l'introduzione del Decreto n. 152 del 2006, art. 257, la consumazione del reato non può prescindere dall'adozione del progetto di bonifica ex art. 242 (cfr. Sez. 3, n. 9492 del 29/01/2009 Rv. 243115 Capucciati; Sez. 3, Sentenza n. 17817 del 2012 Rv. 252616 Bianchi; nel medesimo senso Sez. 3, n. 22006 del 13/04/2010 Rv. 247651 Mazzocco e altri; Sez. 3, n. 18502 del 16/03/2011, Rv. 250304, Spirineo).
A tale orientamento che valorizza il dato letterale delle disposizioni (laddove l'art. 51-bis cit. stabiliva la punibilità di chi avesse cagionato l'inquinamento o un pericolo di inquinamento nel caso in cui non avesse provveduto «alla bonifica secondo il procedimento di cui all'art. 17 [...]» del T.U.A, descrittivo di tutti i passaggi funzionali alla approvazione del progetto di bonifica, mentre l'art. 257 prevede la sanzione penale dell'autore dell'inquinamento «se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato [...] nell'ambito del procedimento di cui agli artt. 242 e seguenti»), se ne contrappone un altro che valorizza un'interpretazione sistematica.
Nell'ambito infatti di quest'ultimo indirizzo si è sostenuto che il reato in questione è configurabile non solo allorquando chi sia tenuto alla bonifica non vi provveda in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui all'art. 242 e ss., bensì anche nell'ulteriore caso in cui addirittura impedisca la stessa formazione del progetto di bonifica e quindi la sua realizzazione, attraverso la mancata attuazione del piano di caratterizzazione, necessario per predisporre il progetto di bonifica. Non si tratterebbe, in tal caso, di una non consentita interpretazione estensiva in malam partem né di un'applicazione analogica della norma penale incriminatrice, bensì «dell'unica interpretazione sistematica atta a rendere il sistema razionale e non in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Invero [..] sarebbe manifestamente irrazionale una disciplina che prevedesse la punizione di un soggetto che dà esecuzione al piano di caratterizzazione ma poi omette di eseguire il conseguente progetto di bonifica ed invece esonerasse da pena il soggetto che addirittura omette anche di adempiere al piano di caratterizzazione così ostacolando ed impedendo la stessa formazione del progetto di bonifica» (cfr. Sez. 3, n. 35774 del 02/07/2010 Rv. 248561, Morgante).
2.7. Quest'ultimo indirizzo è condiviso nelle sue conclusioni e motivazioni dal Collegio.
Invero non pare discutibile, come rilevato da talune delle sentenze sopra richiamate, pur nella diversità dogmatica della ricostruzione della struttura del reato, che attraverso l'elaborazione delle fattispecie di cui all'art. 51-bis prima e dell'art. 257 poi, si sia voluto «agevolare la bonifica dei siti inquinati» così che secondo un già citato indirizzo si sarebbe strutturata la contravvenzione come «reato la cui permanenza persiste fino alla bonifica ovvero fino alla sentenza di condanna, ma la cui punibilità può essere fatta venire meno, sempre fino alla sentenza di condanna, attraverso la condotta riparatoria onde eliminare la punibilità del reato ,..]» (cfr. Sez. 1, n. 29855 del 13/06/2006 Rv. 235255 Pezzotti, cit.); per un altro indirizzo di legittimità «attraverso il rafforzamento penalistico dell'effettività delle misure reintegratorie del bene offeso, si fa assumere all'interesse pubblico alla riparazione una connotazione particolare, che permea di sè il precetto e diviene esso stesso bene giuridico protetto» (cfr. Sez. 3 , n. 1783 del 28.4.2000, Pizzuti, rv. 216585 cit.), ovvero «il mancato raggiungimento dell'obiettivo della bonifica determina un aggravarsi dell'offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, già perpetrata dalla condotta di inquinamento» (cfr. Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007 Rv. 237134 Magni, cit.).
In altri termini, può cogliersi, in ordine alla fattispecie in esame, la condivisione del rilievo per cui il bene giuridico della tutela dell'ambiente contro particolari situazioni qualificate di contaminazione risulta "rafforzato" attraverso la valorizzazione di condotte riparatorie: così inteso, esso deve quindi guidare l'interprete verso la più corretta ricostruzione della norma.
2.8. Consegue che a fronte della tecnica di redazione della fattispecie in esame, che tipicizza il fatto di reato anche attraverso il riferimento a "fonti" esterne, ovvero, nello specifico, ad un elemento normativo extrapenale quale la bonifica, sotto il profilo della relativa omissione, quest'ultima, alla luce delle suesposte finalità di tutela perseguite dalla norma, non può che intendersi in senso ampio, come riferita al complesso delle attività ed iniziative che il soggetto tenuto alla bonifica deve avviare a fronte dell'insorgere di tale obbligo; dovere che consegue all'avvenuto accertamento del superamento «di una o più delle concentrazioni soglia di rischio» (cfr. art. 242, comma 6 e ss, del D.L.vo 152/2006) e come tale impone all'interessato di attivarsi per pervenire al progetto operativo di bonifica, quale documento finale che stabilisce le corrette modalità di effettuazione della predetta attività di ripristino.
Cosicché, il mancato rispetto dell'obbligo dovrà ritenersi integrato, in conformità al già citato indirizzo giurisprudenziale (cfr. Sez. 3, n. 35774 del 02/07/2010 Rv. 248561, Morgante), sin dall'omissione di qualsivoglia condotta funzionale alla redazione e approvazione del progetto operativo degli interventi di bonifica di cui al comma 7 e ss. dell'art. 242 cit., piuttosto che restringersi alla mera omissione di bonifica a fronte dell'intervenuta approvazione del relativo progetto.
Così ricostruita la  fattispecie, deve ritenersi che la relativa permanenza decorre sin dalla configurazione della situazione di inquinamento «qualificata» di cui al comma 1 dell'art. 257 cit., mentre la punibilità «può essere fatta venire meno, fino alla sentenza di condanna, attraverso la condotta riparatoria» (cfr. Sez. 1, n. 29855 del 13/06/2006 Rv. 235255 Pezzotti.); consegue che nella disposizione in esame il riferimento alla bonifica e alla sua conformità al progetto approvato assume una plurima portata: da una parte il richiamo alla bonifica assume il valore di rinvio sintetico, mediante elementi normativi extrapenali, alla più complessa e ampia procedura scaturente dall'avvenuto accertamento del superamento di taluna delle «concentrazioni soglia di rischio»; dall'altra, la indicazione della sua conformità al progetto approvato dall'autorità competente ai sensi dell'art. 242 e ss. citato, specifica le caratteristiche che devono rinvenirsi per  ritenere l'attività di bonifica idonea ad escludere la punibilità del reato: non basta una qualsivoglia bonifica bensì quella conforme al  progetto operativo emergente dalla procedura di cui agli artt. 242 e ss. del T.U.A. Cosicché il reato permane anche in caso di intervento eseguito in difformità da quanto formalmente pianificato (Sez. 3, n. 35774 del 02/07/2010, Morgante, Rv. 248571, cit.).
2.9. Quanto al soggetto responsabile della condotta, un punto nodale è dato dal caso in cui il sito inquinato sia riconducibile ad un ente.
Invero l'art. 242 T.U.A. riferisce l'obbligo di attivare le procedure di bonifica al "responsabile" dell'inquinamento e tale obbligo grava sull'ente in virtù del rapporto organico con il soggetto in esso incardinato e della conseguente imputazione alla persona giuridica del suo comportamento e dei relativi obblighi, salvo che sia dimostrato che egli abbia agito di propria ed esclusiva iniziativa ed in contrasto con gli interessi della società. Mentre alla persona fisica dell'amministratore fa capo la responsabilità penale per i singoli atti delittuosi, ogni altra conseguenza patrimoniale non può non ricadere sull'ente esponenziale in nome e per conto del quale la persona fisica abbia agito, con esclusione della sola ipotesi di rottura del rapporto organico, per avere il soggetto agito di propria esclusiva iniziativa.
In sostanza, l'obbligo di bonificare è del soggetto collettivo, mentre, per la sua inosservanza, occorre distinguere tra il profilo patrimoniale, del quale risponde la società, e quello della responsabilità penale, che riguarda l'organo rappresentativo (cfr. Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016 Rv. 267842, Silva).
4. Quanto al secondo motivo di impugnazione, riguardante l'omessa motivazione in ordine alla asserita assenza di risorse, va ricordato il principio già affermato con riferimento alla disciplina di cui al D.L.vo. 22/1997 (cfr. Sez. 3, n. 25926 del 21/03/2002 Rv. 222100 Di Giorgio) e che può rinvenirsi anche nell'attuale disciplina di cui al D.L.vo 152/2006, atteso che sul punto non è stata introdotta alcuna innovazione: non esiste un principio di giustificazione di tipo economico nel sistema così disciplinato e quindi gli enti locali, così come, deve ritenersi, le loro promanazioni (tra cui può rinvenirsi un consorzio di comuni, come nel caso di specie, peraltro deputato alla gestione di una discarica cui si riconnette l'obbligo di bonifica in esame), hanno il dovere di dare priorità alle spese necessarie per gli adempimenti in materia di corretta gestione dei rifiuti e delle connesse attività, tra cui quella in esame. In questa materia dunque, per escludere la responsabilità dell'agente è necessario rinvenire una determinata causa di giustificazione fra quelle positivamente disciplinate dall'ordinamento, non essendo invocabile un inesistente principio generale di inesigibilità della condotta, se non quando si traduca in una positiva causa di esclusione della punibilità (oggettiva o soggettiva) (cfr. in tal senso sez. 3, n. 4441 del 06/03/1996 Rv. 204423 Giffoni.).
Consegue che
le difficoltà economiche in materia di rifiuti non integrano causa di giustificazione e di non esigibilità. La gestione dei rifiuti e delle connesse e conseguenziali attività costituiscono infatti un'assoluta priorità, in quanto incidono su interessi di rango costituzionale, come la salute dei cittadini e la protezione delle risorse naturali,  sicché non ha rilievo giuridico l'insufficienza delle risorse, dovendo le stesse essere destinate in via prioritaria al soddisfacimento delle anzidette esigenze, rispetto ad altre.
Tanto più che nel caso in esame emerge da parte dell'imputato la titolarità di un ente consortile nascente dalla partecipazione di più comuni e su tutti (compreso l'ente esponenziale) incombe, attraverso i relativi organi, l'obbligo di gestione in via prioritaria della materia suddetta (cfr. in tal senso, seppure con riferimento ad un singolo comune e ad un suo sindaco, Sez. 3, n. 2109 del 10/01/2000 Rv. 215527 Mucci P.).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: La nozione di “azienda agricola” è diversa da quello di imprenditore agricolo.
Ai fini dell'applicazione della normativa statale, è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17.05.1999, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro.
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In tema di ICI, le agevolazioni di cui all'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992, consistenti nel considerare agricolo anche il terreno posseduto da una società agricola di persone si applicano -a seguito della modifica dell'art. 12 della l. n. 153 del 1975 da parte dell'art. 10 del d.lgs. n. 228 del 2001 e della sua successiva abrogazione e sostituzione con l'art. 1 del d.lgs. n. 99 del 2004- qualora detta società possa essere considerata imprenditore agricolo professionale ove lo statuto preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all'art. 2135 c.c. ed almeno un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo ovvero abbia conoscenze e competenze professionali, ai sensi dell'art. 5 del Regolamento (CE) n. 1257 del 1999 del Consiglio, e dedichi alle attività agricole di cui all'art. 2135 c.c. almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo ricavando da dette attività almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro.
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"... in relazione alle annualità in contestazione, erano già entrate in vigore le disposizioni di cui al d.lgs. n. 228/2001 e del d.lgs. n. 99/2004, che hanno profondamente inciso sulla stessa configurazione del requisito soggettivo per la fruizione dell'agevolazione, il primo, oltre ad individuare la nuova nozione codicistica (art. 2135 c.c.) d'imprenditore agricolo, stabilendo, per quanto qui interessa, (art. 12 della legge 09.05.1975, n. 153 quale sostituito dall'art. 10 del citato d.lgs. n. 228/2001), che "Le società sono considerate imprenditori agricoli a titolo principale qualora lo statuto preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo dell'attività agricola" e, nel caso di società di persone (lett. a) "qualora almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale"; disposizione ora facente parte dell'art. 1 del d.lgs. n. 99/2004, a seguito della disposta abrogazione dell'art. 12 della legge n. 153/1975, nell'art. 1 del decreto da ultimo citato, che reca la nuova definizione dell'imprenditore agricolo professionale come "colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17.05.1999, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di  socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro".
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La Corte di Giustizia, intervenuta con due successivi arresti in materia tributaria sulla nozione di "imprenditore agricolo a titolo principale", ha affermato che non è possibile ricavare dalle disposizioni del trattato o dalle norme di diritto comunitario derivato una definizione comunitaria generale ed uniforme di "azienda agricola", valida per tutte le disposizioni di legge e di regolamento concernenti la produzione agricola, riguardando il Regolamento 797/85 un regime di aiuti agli investimenti nel settore agricolo rigorosamente determinati, mentre altre modalità di aiuti (nella specie agevolazioni tributarie in tema di imposta di registro) riguardano esclusivamente il legislatore nazionale; concetto quest'ultimo riferibile evidentemente ad altri tributi (e nella specie all'ICI) e ribadito con la sentenza della stessa Corte 11.01.2001 n. 403 in C-403/98 nella quale si afferma che le disposizioni dei Regolamenti Comunitari (e nella specie quelle dei Regolamenti 797/85 e 232/91 in materia di aiuti agli investimenti nell'agricoltura) non producono tutte effetti immediati nell'ordinamento nazionale, ma richiedono norme attuative in assenza delle quali" gli art. 2, n. 5, u.c. del reg. 797/85 e 5 n. 5 u.c. del reg. 2328/91 (che richiedono la parificazione delle persone giuridiche a quelle fisiche nel settore agricolo) non possono essere invocati davanti ad un giudice nazionale da società di capitali al fine di ottenere il riconoscimento dello status di imprenditore agricolo a titolo principale allorché il legislatore di uno Stato membro non ha adottato le misure necessarie per la loro esecuzione nel suo ordinamento giuridico interno", misure che possono in effetti riscontrarsi nel d.lgs. n. 228 del 2001, di portata non retroattiva....".
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4.1. Il motivo è infondato per le ragioni di seguito svolte.
4.2. La questione centrale della controversia è se in tema di ICI le agevolazioni previste dall'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992, per gli "imprenditori agricoli che esplicano la loro attività a titolo principale", trovino applicazione anche a favore delle società di persone, nella fattispecie società di fatto o semplici, aventi qualifica di imprenditore agricolo professionale.
Nella presente controversia è pacifico che: il contribuente è proprietario del terreno oggetto di imposizione ed è imprenditore agricolo professionale; l'attività agricola è gestita, attraverso una società semplice, dal contribuente ed i suoi due figli, anch'essi imprenditori agricoli; per lo svolgimento di tale attività il contribuente ed i suoi figli hanno aperto un'unica partita iva con codice attribuito alle società semplici o di fatto.
Ai sensi dell'art. 1 del d.lgs. n. 99 del 2004, Imprenditore agricolo professionale, "
Ai fini dell'applicazione della normativa statale, è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17.05.1999, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro."
Ritiene il collegio di condividere i principi espressi in sede di legittimità, da un orientamento recente, ma in via di consolidamento, secondo cui le disposizioni di cui al d.lgs. n. 228/2001 e del d.lgs. n. 99/2004 hanno profondamente inciso sulla stessa configurazione del requisito soggettivo per la fruizione dell'agevolazione fornendo una lettura più in linea con la normativa eurounitaria.
In particolare è stato affermato che "I
n tema di ICI, le agevolazioni di cui all'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992, consistenti nel considerare agricolo anche il terreno posseduto da una società agricola di persone si applicano -a seguito della modifica dell'art. 12 della l. n. 153 del 1975 da parte dell'art. 10 del d.lgs. n. 228 del 2001 e della sua successiva abrogazione e sostituzione con l'art. 1 del d.lgs. n. 99 del 2004- qualora detta società possa essere considerata imprenditore agricolo professionale ove lo statuto preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all'art. 2135 c.c. ed almeno un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo ovvero abbia conoscenze e competenze professionali, ai sensi dell'art. 5 del Regolamento (CE) n. 1257 del 1999 del Consiglio, e dedichi alle attività agricole di cui all'art. 2135 c.c. almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo ricavando da dette attività almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro" (Cass. n. 28062 del 2018, Cass. n. 375 del 2017).
In motivazione è chiarito che: "... in relazione alle annualità in contestazione, erano già entrate in vigore le disposizioni di cui al d.lgs. n. 228/2001 e del d.lgs. n. 99/2004, che hanno profondamente inciso sulla stessa configurazione del requisito soggettivo per la fruizione dell'agevolazione, il primo, oltre ad individuare la nuova nozione codicistica (art. 2135 c.c.) d'imprenditore agricolo, stabilendo, per quanto qui interessa, (art. 12 della legge 09.05.1975, n. 153 quale sostituito dall'art. 10 del citato d.lgs. n. 228/2001), che "Le società sono considerate imprenditori agricoli a titolo principale qualora lo statuto preveda quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo dell'attività agricola" e, nel caso di società di persone (lett. a) "qualora almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale"; disposizione ora facente parte dell'art. 1 del d.lgs. n. 99/2004, a seguito della disposta abrogazione dell'art. 12 della legge n. 153/1975, nell'art. 1 del decreto da ultimo citato, che reca la nuova definizione dell'imprenditore agricolo professionale come "colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17.05.1999, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di  socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro".
Sulla portata novativa del d.l. n. 228 del 2001, anche in epoca più risalente, tuttavia, era stato osservato che: "la Corte di Giustizia, intervenuta con due successivi arresti in materia tributaria sulla nozione di "imprenditore agricolo a titolo principale", ha affermato che non è possibile ricavare dalle disposizioni del trattato o dalle norme di diritto comunitario derivato una definizione comunitaria generale ed uniforme di "azienda agricola", valida per tutte le disposizioni di legge e di regolamento concernenti la produzione agricola (C. Giust. 15/10/1992 in C-162/91 par. 19), riguardando il Regolamento 797/85 un regime di aiuti agli investimenti nel settore agricolo rigorosamente determinati, mentre altre modalità di aiuti (nella specie agevolazioni tributarie in tema di imposta di registro) riguardano esclusivamente il legislatore nazionale; concetto quest'ultimo riferibile evidentemente ad altri tributi (e nella specie all'ICI) e ribadito con la sentenza della stessa Corte 11.01.2001 n. 403 in C-403/98 nella quale si afferma (par. 26 e segg.) che le disposizioni dei Regolamenti Comunitari (e nella specie quelle dei Regolamenti 797/85 e 232/91 in materia di aiuti agli investimenti nell'agricoltura)non producono tutte effetti immediati nell'ordinamento nazionale, ma richiedono norme attuative in assenza delle quali (par. 29)" gli art. 2, n. 5, u.c. del reg. 797/85 e 5 n. 5 u.c. del reg. 2328/91 (che richiedono la parificazione delle persone giuridiche a quelle fisiche nel settore agricolo) non possono essere invocati davanti ad un giudice nazionale da società di capitali al fine di ottenere il riconoscimento dello status di imprenditore agricolo a titolo principale allorché il legislatore di uno Stato membro non ha adottato le misure necessarie per la loro esecuzione nel suo ordinamento giuridico interno", misure che possono in effetti riscontrarsi nel d.lgs. n. 228 del 2001, di portata non retroattiva...." (Cass. n. 5931 del 2010).
Nella specie i giudici di merito (sentenza di I grado) hanno accertato che il contribuente è proprietario e coltivatore diretto e che nella società semplice di cui lo stesso fa parte anche tutti gli altri soci sono coltivatori diretti del terreno per cui è causa.
Tali accertamenti in fatto non risultano più contestati e sulla base di essi la pronuncia impugnata ha reso un dispositivo conforme al diritto.
5. Ne consegue il rigetto del ricorso (Corte di cassazione, Sez. V civile, sentenza 30.04.2019 n. 11415).

APPALTIConsiglio di Stato: acquisti entro 5mila euro senza rotazione ma il Rup deve motivare la deroga.
Con il parere 30.04.2019 n. 1312 -sul nuovo schema di linee guida n. 4 dell'Anac– il Consiglio di Stato conferma che nell'ambito dei 5mila euro (nuova soglia affrancata dall'obbligo di acquisto dal mercato elettronico), il responsabile unico del procedimento può derogare al criterio della rotazione, e quindi anche ribadire l'affidamento diretto al vecchio affidatario, purché la determinazione di affidamento contenga la motivazione di questa scelta.
La modifica della legge di bilancio
La novità introdotta dalla legge di bilancio 145/2018 con il comma 130 dell'articolo 1 (di modifica del comma 450 dell'articolo 1 della legge 296/2006) ha innalzato la soglia entro la quale le pubbliche amministrazioni non hanno l'obbligo di procedere con gli acquisti di beni e servizi dal mercato elettronico (Mepa).
L'importo, come noto, è stato innalzato fino alla somma (inferiore) dei 5mila euro. La modifica, come rilevato dall'Anac nello schema delle nuove linee guida n. 4 (in tema di acquisizioni in ambito sottosoglia comunitaria), introduce la questione dei rapporti tra gli acquisti di questi importi e il rispetto (o meno) del rigoroso criterio dell'alternanza tra imprese.
In sostanza, circa i vincoli imposti dalla rotazione secondo cui –nell'ambito di acquisizioni anche solo omogenee- sia il vecchio affidatario (tale anche in seguito a una gara pubblica) sia il precedente soggetto economico già invitato (in caso di procedura a inviti) non possono risultare affidatari diretti né concorrere alla eventuale microcompetizione avviata dal Rup.
La problematica, come si evince dalle riflessioni dell'Autorità anticorruzione, si è posta considerato che nell'ambito dei mille euro le linee giuda n. 4 ammettono la deroga della rotazione anche con sitentica motivazione. Si trattava, quindi, di comprendere se la deroga -per effetto delle modifiche apportata con la legge di bilancio– ora dovesse riguardare anche la nuova "micro" soglia dei 5mila euro.
Il parere del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato si esprime positivamente in merito al fatto che anche per le nuove soglie –affrancate (con decisione facoltativa rimessa al Rup) da ogni rapporto con il Mepa– il criterio della rotazione possa o meno subire delle deroghe con motivazione sintetica.
La commissione, a fronte dell'opportunità espressa dall'Anac (di consentire la deroga), evidenzia di condividere «l’innalzamento della soglia entro la quale è possibile, con scelta motivata, derogare al principio di rotazione».
Sotto il profilo pratico, l'indicazione risulta di estremo rilievo fermo restando che, in primo luogo, si ribadisce che la scelta di derogare alla rotazione deve comunque essere motivata. Ciò implica che nella determinazione semplificata di affidamento diretto (articolo 32 del codice dei contratti), il Rup non potrà esimersi dall'indicare –pur in modo sintetico– le ragioni che hanno indotto la deroga e quindi situazioni oggettive specifiche: vuoi l'esiguità dell'importo ma anche l'esigenza di procedere in modo spedito riducendo i formalismi esasperati dell'azione amministrativa.
Non può sfuggire, infatti, che un riaffido reiterato per soglie di poco inferiori ai 5mila euro, potrebbero –in realtà– similare artificiosi frazionamenti. Comportamento/circostanze che il responsabile unico del procedimento deve assolutamente evitare a pena di responsabilità.
È chiaro poi che, sotto il profilo della responsabilità, se l'affidamento diretto a un soggetto che sia stato solo invitato (e non sia risultato aggiudicatario) al precedente "micro" procedimento non sembra comportare particolari implicazioni ben diverso è il caso di riaffido reiterato (e quindi la scelta ripetuta di affidare allo stesso aggiudicatario) che avrà necessità di una motivazione maggiormente adeguata con riferimento esteso oltre il dato economico (ad esempio al tipo di prestazione) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2019).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Aggiornamento Linee Guida sul sotto-soglia, il parere del Consiglio di Stato. Il parere del Consiglio di Stato sulle modifiche delle Linee Guida Anac n. 4 sugli appalti sotto-soglia e affidamenti diretti.
Il Consiglio di Stato rende parere sull’aggiornamento delle Linee Guida ANAC n. 4, denominate «Linee guida – Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici».
Il Parere 1312/2019, in particolare, richiede alcune modifiche in materia di appalti sotto soglia di interesse transfrontaliero e delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire.
Rapporto tra Linee Guida n. 4 e Decreto Sblocca Cantieri
Il problema è che si è posto è che tali Linee Guida si pongono come già “superate” dalle novità sugli appalti sotto soglia nel Decreto 32/2019, Sblocca Cantieri.
Il Consiglio di Stato affronta il problema, nel passaggio che si riporta integralmente: “Il d.l. 18.04.2019, n. 32 c.d. sblocca-cantieri. Dopo l’invio della richiesta di parere, è stato pubblicato il d.l. 18.04.2019 n. 32, c.d. decreto sblocca-cantieri nella gazzetta ufficiale 18.04.2019, n. 32.
Qualora tale decreto dovesse essere convertito, verranno introdotte numerose, e consistenti, modifiche al Codice dei Contratti pubblici. Per quanto di interesse in questa sede, il decreto legge in questione novella l’articolo 36 Codice dei Contratti pubblici e, più in generale, ripensa il ruolo delle linee guida Anac perché, attraverso l’introduzione dell’articolo 216, comma 27-octies, e la modifica delle norme del Codice dei contratti che le prevedono, l’esecuzione, l’attuazione e l’integrazione del codice sono affidate ad un regolamento unico.
Naturalmente non è possibile prevedere se il decreto verrà convertito o meno e se verrà convertito nel suo testo attuale o con modifiche, tuttavia reputa la Sezione che su alcune delle richieste formulate dall’ANAC possa essere comunque reso parere anche in considerazione del fatto che le linee guida rimarranno “in vigore o efficaci” sino alla data di entrata in vigore del regolamento in questione
” (commento tratto da www.giurdanella.it).
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OGGETTO: Autorità nazionale anticorruzione - Linee guida n. 4, denominate «Linee guida - Procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici».
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1. La richiesta dell’Autorità nazionale anticorruzione.
L’Autorità nazionale anticorruzione, con la nota in epigrafe indicata, ha trasmesso lo schema di linee guida n. 4 -denominate «Linee guida - Procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici», elaborate con delibera n. 206 del 01.03.2018- riferendo che si è reso necessario un intervento di aggiornamento a seguito dell'avvio della procedura di infrazione sulle opere di urbanizzazione a scomputo e delle modifiche normative sopravvenute.
L’ANAC riferisce, altresì, che la Commissione Europea ha segnalato un possibile contrasto del paragrafo 2.2 delle Linee guida in esame con l'articolo 5, paragrafo 8 della direttiva 2014/24/UE nella parte in cui sembra ammettere che, in caso di esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di tipo funzionale, ammessa dall'articolo 16, comma 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 per importi di rilievo infracomunitario, il valore di tali opere, appaltabile in deroga alle procedure di evidenza pubblica regolate dal Codice dei contratti pubblici, possa essere determinato senza tenere conto del valore complessivo delle opere di urbanizzazione (ossia escludendo anche le restanti opere di urbanizzazione - secondaria, e primaria non funzionali).
Espone che è emersa, altresì, l'esigenza di operare ulteriori modifiche/integrazioni alle Linee guida in esame nella parte relativa all'esclusione automatica delle offerte anomale. L'articolo 97, comma 8, del codice dei contratti pubblici stabilisce che per lavori, servizi e forniture, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e comunque per importi inferiori alle soglie di cui all'articolo 35, la stazione appaltante può prevedere nel bando l'esclusione automatica delle offerte che presentino un ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia.
Per l’Autorità, secondo l'orientamento della Corte di Giustizia europea, i principi comunitari vietano l'esclusione automatica delle offerte anormalmente basse nei contratti sotto-soglia che abbiano carattere transfrontaliero certo. L’Autorità riferisce poi che la Commissione Europea, sulla base delle sentenze emesse nelle cause C-318/15, C-147/06 e C-148/06, ha contestato all'Italia la possibile violazione della normativa comunitaria, in quanto l'articolo 97, comma 8, del codice dei contratti pubblici si applica indiscriminatamente a tutti gli affidamenti sotto-soglia, indipendentemente dall'esistenza di un interesse transfrontaliero certo.
Inoltre, la Commissione ha ritenuto insufficiente il limite di dieci offerte valide per poter giustificare il ricorso all'esclusione automatica. L’ANAC espone infine che, per tale ragione, in sede di revisione delle Linee guida, ha ritenuto di poter fornire un'interpretazione comunitariamente orientata della norma, nonché indicazioni interpretative, sulla base delle citate sentenze della Corte, al fine di individuare gli indicatori dell'interesse transfrontaliero certo.
Riferisce, in ultimo, che si è reso necessario adeguare le linee guida in esame alle novità introdotte dalla legge 30.12.2018, n. 145, articolo 1, comma 912.
2. Il d.l. 18.04.2019, n. 32 c.d. sblocca-cantieri. Dopo l’invio della richiesta di parere, è stato pubblicato il d.l. 18.04.2019 n. 32, c.d. decreto sblocca-cantieri nella gazzetta ufficiale 18.04.2019, n. 32.
Qualora tale decreto dovesse essere convertito, verranno introdotte numerose, e consistenti, modifiche al Codice dei Contratti pubblici. Per quanto di interesse in questa sede, il decreto legge in questione novella l’articolo 36 Codice dei Contratti pubblici e, più in generale, ripensa il ruolo delle linee guida Anac perché, attraverso l’introduzione dell’articolo 216, comma 27-octies e la modifica delle norme del Codice dei contratti che le prevedono, l’esecuzione, l’attuazione e l’integrazione del codice sono affidate ad un regolamento unico.
Naturalmente non è possibile prevedere se il decreto verrà convertito o meno e se verrà convertito nel suo testo attuale o con modifiche, tuttavia reputa la Sezione che su alcune delle richieste formulate dall’ANAC possa essere comunque reso parere anche in considerazione del fatto che le linee guida rimarranno “in vigore o efficaci” sino alla data di entrata in vigore del regolamento in questione.
3. Appalti sotto-soglia di interesse transfrontaliero.
3.1.Inquadramento di carattere sistematico. In via generale, occorre rilevare che le procedure specifiche previste dalle direttive comunitarie si applicano soltanto ai contratti il cui valore supera la soglia prevista espressamente nelle direttive stesse (Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, Vestergaard). Pertanto, in via di massima, gli Stati non sono obbligati a rispettare le disposizioni contenute nelle direttive per gli appalti il cui valore non raggiunge la soglia fissata da queste ultime (v., in tal senso, Corte di Giustizia, sentenza 21.02.2008, causa C-412/04, punto 65).
Ciò non significa tuttavia che questi ultimi appalti siano del tutto esclusi dall'ambito di applicazione del diritto comunitario (ancora Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, punto 19): infatti, conformemente alla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, per quanto concerne l'aggiudicazione degli appalti che, in considerazione del loro valore, non sono soggetti alle procedure previste dalle norme comunitarie, le amministrazioni aggiudicatrici sono cionondimeno tenute a rispettare le norme fondamentali e i principi generali del Trattato FUE e, in particolare, il principio di parità di trattamento e il principio di non discriminazione in base alla nazionalità (Corte di Giustizia, ordinanza 03.12.2001, causa C-59/00, punti 20 e 21; Corte di Giustizia, sentenza 20.10.2005, causa C-264/03, punto 32; Corte di Giustizia, 14.06.2007, causa C-6/05, punto 33) nonché l'obbligo di trasparenza che ne deriva.
L’applicazione delle norme fondamentali e dei principi generali del Trattato alle procedure di aggiudicazione degli appalti di valore inferiore alla soglia comunitaria è dunque imposta quando gli appalti in questione presentino un interesse transfrontaliero certo (Corte di Giustizia, sentenza 13.11.2007, causa C-507/03, punto 29).
Un appalto di lavori può, ad esempio, presentare interesse transfrontaliero in ragione del suo valore stimato, in relazione alla propria tecnicità o all'ubicazione dei lavori in un luogo idoneo ad attrarre l'interesse di operatori esteri.
Per la Corte di Giustizia, “spetta in linea di principio all'amministrazione aggiudicatrice interessata valutare, prima di definire le condizioni del bando di appalto, l'eventuale interesse transfrontaliero di un appalto il cui valore stimato è inferiore alla soglia prevista dalle norme comunitarie, fermo restando che tale valutazione può essere oggetto di controllo giurisdizionale” (Corte di Giustizia, 15.05.2008, C. 147/06).
Tuttavia, prosegue la Corte, “una normativa può certamente stabilire, a livello nazionale o locale, criteri oggettivi che indichino l'esistenza di un interesse transfrontaliero certo. Tali criteri potrebbero sostanziarsi, in particolare, nell'importo di una certa consistenza dell'appalto in questione, in combinazione con il luogo di esecuzione dei lavori. Si potrebbe altresì escludere l'esistenza di un tale interesse nel caso, ad esempio, di un valore economico molto limitato dell'appalto in questione (v., in tal senso, sentenza 21.07.2005, causa C-231/03, Coname, Racc. pag. I-7287, punto 20). È tuttavia necessario tenere conto del fatto che, in alcuni casi, le frontiere attraversano centri urbani situati sul territorio di Stati membri diversi e che, in tali circostanze, anche appalti di valore esiguo possono presentare un interesse transfrontaliero certo” (ancora Corte di Giustizia, 15.05.2008, C. 147/06).
Se l’appalto sotto-soglia presenta interesse transfrontaliero, la costante giurisprudenza della Corte reputa contrario al diritto eurounitario l’esclusione automatica delle offerte sospettate di anomalia.
3.2. Il più recente intervento della Corte di Giustizia. Di recente la Corte di Giustizia ha affermato che “per quanto riguarda i criteri oggettivi atti a indicare l'esistenza di un interesse transfrontaliero certo … [questi] potrebbero sostanziarsi, in particolare, nell'importo di una certa consistenza dell'appalto in questione, in combinazione con il luogo di esecuzione dei lavori o, ancora, nelle caratteristiche tecniche dell'appalto e nelle caratteristiche specifiche dei prodotti in causa. A tal riguardo, si può altresì tenere conto dell'esistenza di denunce presentate da operatori ubicati in altri Stati membri, purché sia accertato che queste ultime sono reali e non fittizie” (Corte di Giustizia, 06.10.2016, n. 318).
3.3. Le modifiche da apportare al punto 1.5.
Effettuata tale premessa, per la Sezione, il punto 1.5 dello schema di linee guida deve essere modificato per:
   a) chiarire meglio che il luogo in cui si trova la stazione appaltante può avere rilievo ai fini della sussunzione dell’appalto tra quelli di interesse transfrontaliero, come già specificato dalla sentenza della Corte di Giustizia 15.05.2008, C. 147/06;
   b) per specificare in modo netto quali regole si applicano, una volta definito l’appalto sotto-soglia come di interesse transfrontaliero.
Il punto 1.5. va, dunque, così modificato: «Le stazioni appaltanti verificano se per un appalto o una concessione di dimensioni inferiori alle soglie di cui all’articolo 35 del Codice dei contratti pubblici vi sia un interesse transfrontaliero certo in conformità ai criteri elaborati dalla Corte di Giustizia. Tale condizione non può essere ricavata, in via ipotetica, da taluni elementi che, considerati in astratto, potrebbero costituire indizi in tal senso, ma deve risultare in modo chiaro da una valutazione concreta delle circostanze dell’appalto in questione quali, a titolo esemplificativo, l’importo dell’appalto, in combinazione con il luogo di esecuzione dei lavori o, ancora, le caratteristiche tecniche dell’appalto e le caratteristiche specifiche dei prodotti in causa, tenendo anche conto, eventualmente, dell’esistenza di denunce (reali e non fittizie) presentate da operatori ubicati in altri Stati membri (si veda la Comunicazione della Commissione Europea 2006/C 179/02, relativa al diritto comunitario applicabile alle aggiudicazioni di appalti non o solo parzialmente disciplinate dalle direttive «appalti pubblici»). Possono essere considerati, al riguardo, anche precedenti affidamenti con oggetto analogo realizzati da parte della stazione appaltante o altre stazioni appaltanti di riferimento. È necessario tenere conto del fatto che, in alcuni casi, le frontiere attraversano centri urbani situati sul territorio di Stati membri diversi e che, in tali circostanze, anche appalti di valore esiguo possono presentare un interesse transfrontaliero certo. Per l’affidamento di appalti e concessioni di interesse transfrontaliero certo le stazioni appaltanti adottano le procedure di aggiudicazione adeguate e utilizzano mezzi di pubblicità atti a garantire in maniera effettiva ed efficace l’apertura del mercato alle imprese estere nonché il rispetto delle norme fondamentali e dei principi generali del Trattato e in particolare il principi di parità di trattamento e il principio di non discriminazione in base alla nazionalità oltre che l'obbligo di trasparenza che ne deriva».
4. La disciplina delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo.
4.1. Premessa. Come prima riferito, a seguito dell’avvio della procedura di infrazione in sede europea, si è resa necessaria la modifica della disciplina relativa al compimento delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo.
Sulle opere di urbanizzazione a scomputo, la commissione speciale, con parere 24.12.2018 n. 2942, reso all’adunanza del 03.12.2018 sempre su richiesta dell’ANAC, ha affermato che “l'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -a mente del quale "nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7 (del medesimo art. 16, n.d.rr.), di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163"- contiene una evidente (ed eccezionale) deroga normativa all'applicazione delle disposizioni codicistiche in materia di affidamento di commesse pubbliche laddove l'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria (purché realizzate "Nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, (...) funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, (...)") sia attuata direttamente dal titolare dell'abilitazione a costruire e l'importo delle stesse sia inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria;
   - giova precisare che per “opere funzionali” si intendono le opere di urbanizzazione primaria (ad es., fogne, strade e tutte gli ulteriori interventi elencati, in via esemplificativa, dall’articolo 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) la cui realizzazione è diretta in via esclusiva al servizio della lottizzazione ovvero della realizzazione dell’opera edilizia di cui al titolo abilitativo a costruire (quest’ultimo nelle varie articolazioni previste dalle leggi, anche non nazionali) e, comunque, solo quelle assegnate alla realizzazione a carico del destinatario del titolo abilitativo a costruire e da quest’ultimo specificate;
   - fermo quanto sopra si presenta necessario ribadire, ancora una volta, che il calcolo complessivo delle opere di urbanizzazione, intesa nella sua interezza, è dato dalla somma di tutte le opere di urbanizzazione che il privato deve realizzare a scomputo, funzionali e non. Tale operazione, avente dunque ad oggetto la definizione dell’importo complessivo al quale ammonta la realizzazione delle opere di urbanizzazione, deve essere effettuata prima di ogni ulteriore valutazione circa la possibilità di applicazione della deroga di cui all'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, giacché l’operatività di quest’ultima resta direttamente condizionata dall’esito dell’accertamento in ordine al calcolo complessivo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi;
   - se il valore complessivo di tali opere –qualunque esse siano– non raggiunge la soglia comunitaria, calcolata ai sensi dell’articolo 35, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, solo allora il privato potrà avvalersi della deroga di cui all’articolo 16, comma 2 bis, d.P.R. n. 380 del 2001 ed esclusivamente per quelle funzionali;
   - al contrario, qualora il valore complessivo di tali opere superi la soglia comunitaria, il privato sarà tenuto al rispetto delle regole di cui al Codice di contratti pubblici sia per le opere funzionali che per quelle non funzionali;
   - in termini ancora più semplici si deve ribadire l’iter logico già seguito nel parere n. 361 del 2018 di questo Consiglio, vale a dire che l’insieme delle opere di urbanizzazione il cui onere è accollato al titolare del permesso di costruire come scomputo degli oneri di urbanizzazione, deve essere considerato nel suo insieme come se fosse un'unica opera pubblica da realizzarsi contestualmente, sia pure costituita da diverse tipologie (opere di urbanizzazione primaria, primaria funzionali, secondaria) le quali, ciascuna per sé, possono essere considerate come singoli lotti in relazione alla loro singola natura (fogne, strade, illuminazione etc.). Ne consegue che, per valutare se questo complessivo appalto virtualmente unitario, composto da più opere disomogenee, superi o meno la soglia comunitaria, in applicazione dell’art. 35, comma 9, del Codice occorre sommare il valore di ciascuna di esse. Ciò refluisce, per altro, sulla soluzione al secondo quesito posto dall’Anac di cui più avanti.
   - tale essendo l’iter argomentativo del sottopunto 2.2 inserito nel punto 2 delle Linee guida n. 4 del 2018, per come redatto dall’Anac in seguito al parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato n. 361 del 2018, spetterà alla predetta Autorità, sfuggendo tale compito ai poteri di questa Commissione speciale, valutare se si renda indispensabile o meno esternare tali motivazioni in seno alle Linee guida già approvate e quale sia la procedura corretta per effettuare tale integrazione”.
Sempre nel parere innanzi citato, la commissione speciale, su specifico quesito posto dall’Autorità, ha precisato che “il coacervo delle opere di urbanizzazione a scomputo addossate al titolare del permesso di costruire deve essere considerato, agli effetti del calcolo delle soglie, come una unica “opera prevista” oggetto di un unico appalto. Si è già precisato che se la sommatoria di tale coacervo supera la soglia europea tutte le opere dovranno essere assoggettate al codice.
Si rende tuttavia applicabile in questo caso anche l’art. 35, comma 11, del Codice, il quale, in diretta, letterale e pedissequa applicazione dell’art. 5, par. 10 della direttiva 2014/24/UE, stabilisce che, in via di eccezione, quando un’opera prevista può dar luogo ad appalti aggiudicati per lotti separati, e quand’anche il valore complessivo stimato della totalità dei lotti di cui essa si compone sia superiore alla soglia, ciò non ostante ai lotti frazionati in questione non si applica la direttiva, e dunque possono essere aggiudicati senza le procedure in essa previste come obbligatorie. Ciò può avvenire però a due condizione 1. Che, i lotti in cui è stata frazionata l’”opera prevista” siano ciascuno inferiore a € 1.000.000,00¸ 2. Che la somma di tali lotti non superi il 20 per cento della somma di tutti i lotti in cui l’opera prevista è stata frazionata. In questo caso per “opera prevista” si deve intendere, appunto, il coacervo delle opere di urbanizzazione addossate al titolare del permesso.
In questo senso, potendosi su tale aspetto concordare con quanto suggerito dall’Anac nel quesito qui in esame, applicando l'articolo 35, comma 11, del Codice e sussistendo le relative condizioni, sarebbe possibile scorporare il lotto relativo alle opere di urbanizzazione primaria funzionali, affidandolo in via diretta ai sensi dell'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, anche se il valore complessivo dell'opera fosse di rilevanza comunitaria, a condizione che esso fosse di valore inferiore a € 1.000.000,00, e non superasse il venti per cento di tutte le opere a scomputo addossate al titolare
”.
4.2. Le modifiche da apportare. Alla luce della predetta ricostruzione, e considerato quanto riferito dall’ANAC con la richiesta di parere, la Sezione reputa che il punto 2.2 dello schema di linee guida sottoposto a parere, debba essere modificato per:
   a) chiarirne meglio l’ambito applicativo, coordinando le disposizione del Codice dei Contratti con quelle del testo unico edilizia (d.P.R. 380/2001);
   b) specificare il concetto di opere funzionali;
   c) specificare che le opere di urbanizzazione possono riguardare anche i permessi convenzionati (articolo 28-bis d.P.R. 380/2001) e le convenzioni di lottizzazione (articolo 28 l.urb.);
   d) coordinare l’articolo 16 TUE con l’articolo 36, comma 4, Codice;
   e) eliminare “medesimo intervento” perché creerebbe il rischio di una lettura elusiva.
Per tale ragione, la Sezione propone la modifica del punto 2.2. dello schema di linee guida nei seguenti termini: "Per le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire, nel calcolo del valore stimato devono essere cumulativamente considerati tutti i lavori di urbanizzazione primaria e secondaria anche se appartenenti a diversi lotti, connessi ai lavori oggetto di permesso di costruire, permesso di costruire convenzionato (articolo 28-bis d.P.R. 06.06.2001 n. 380) o convenzione di lottizzazione (articolo 28 l. 17.08.1942 n. 1150) o altri strumenti urbanistici attuativi.
Quanto disposto dall’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 36, comma 4, Codice dei contratti pubblici si applica unicamente quando il valore di tutte le opere di urbanizzazione, calcolato ai sensi dell’articolo 35, comma 9, Codice dei contratti pubblici, non raggiunge le soglie di rilevanza comunitaria. Per l’effetto: se il valore complessivo delle opere di urbanizzazione a scomputo –qualunque esse siano– non raggiunge la soglia comunitaria, calcolata ai sensi dell’articolo 35, comma 9, Codice dei contratti pubblici, il privato potrà avvalersi della deroga di cui all’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, esclusivamente per le opere funzionali; al contrario, qualora il valore complessivo di tutte le opere superi la soglia comunitaria, il privato sarà tenuto al rispetto delle regole di cui al Codice di contratti pubblici sia per le opere funzionali che per quelle non funzionali.
Per opere funzionali si intendono le opere di urbanizzazione primaria (ad es. fogne, strade, e tutti gli ulteriori interventi elencati in via esemplificativa dall’articolo 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) la cui realizzazione è diretta in via esclusiva al servizio della lottizzazione ovvero della realizzazione dell’opera edilizia di cui al titolo abilitativo a costruire e, comunque, quelle assegnate alla realizzazione a carico del destinatario del titolo abilitativo a costruire
”.
5. Le ulteriori modifiche alle linee guida. Lo schema di linee guida trasmesso dall’Autorità prevede la modifica del punto 5.1 per adeguare le predette linee guida a quanto stabilito dall’articolo 1, comma 912, l. 145/2018 e del punto 3.7 per innalzare da € 1.000 ad € 5.000 l’importo degli affidamenti per i quali è consentito derogare al principio di rotazione con scelta sinteticamente motivata contenuta nella determina a contrarre o in atto equivalente.
In relazione alla modifica del punto 5.1 dello schema di linee guida, la Sezione reputa di non poter esprimere parere in considerazione del fatto che la disciplina è stata modificata dal d.l. 18.04.2019 n. 32.
Reputa, invece, di poter condividere l’innalzamento della soglia entro la quale è possibile, con scelta motivata, derogare al principio di rotazione.
P.Q.M.
nelle suesposte considerazione è il parere della Sezione
 (Consiglio di Stato, Sez. consultiva, parere 30.04.2019 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Consiglio di Stato tratteggia gli elementi caratterizzanti l'accesso civico generalizzato rispetto all'accesso documentale.
Nell'ordinamento attuale, che prevede due canali di accesso agli atti e ai documenti di una P.A., il primo istituzionalizzato in via generale con la L. n. 241 del 1990 e il secondo contenuto del D.Lgs. n. 33 del 2013, è ammessa una domanda di accesso articolata in formula cumulativa, quale istanza di accesso civico generalizzato e alternativamente/subordinatamente di accesso documentale.
Il giudizio avente a oggetto il silenzio-diniego provocato dall'inerzia dell'amministrazione sull'istanza di accesso ai documenti amministrativi, i provvedimenti espressi dall'amministrazione medesima aventi contenuto di diniego ed accoglimento totale o parziale della richiesta ostensiva nonché di differimento dell'esercizio del relativo diritto, per come emerge dalla disciplina di cui all'art. 116 c.p.a., anche se si atteggia come impugnatorio, in realtà consiste nella verifica sostanziale della spettanza o meno del diritto di accesso.
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In ossequio alla consolidata interpretazione della disciplina sull’accesso documentale, plasticamente applicabile al nuovo istituto dell’accesso civico generalizzato, la tutela da parte dell’aspirante accedente nei confronti del silenzio-rifiuto, del provvedimento espresso di diniego, totale o parziale e del provvedimento con cui si dispone il differimento, formatisi o resi dall’amministrazione su una istanza ostensiva, deve essere esercitata entro e non oltre il termine decadenziale di trenta giorni (ai sensi dell’art. 116, comma 1, c.p.a.), decorrente dallo spirare del termine procedimentale di trenta giorni (previsto dall’art. 25, quarto comma, l. 241/1990 per l’accesso documentale e, per l’accesso civico, dall’art. 5, comma 6, d.lgs. 33/2013), sicché la proposizione della domanda giudiziale oltre il termine decadenziale di impugnazione del diniego di accesso civico generalizzato:
   1) rende irricevibile il ricorso tardivamente proposto dinanzi al giudice amministrativo (ovvero nelle sedi giustiziali indicate nell’art. 5, commi 8 e 9, d.lgs. 33/2013);
   2) rende inammissibile la (ri)proposizione di una domanda di accesso (civico generalizzato) dello stesso tenore di quella fatta oggetto del silenzio-diniego, del provvedimento espresso di diniego parziale o totale ovvero del provvedimento di differimento non tempestivamente impugnati.

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Il giudizio avente ad oggetto il silenzio-diniego provocato dall’inerzia dell’amministrazione sull’istanza di accesso ai documenti amministrativi, i provvedimenti espressi dall’amministrazione medesima aventi contenuto di diniego ed accoglimento totale o parziale della richiesta ostensiva nonché di differimento dell’esercizio del relativo diritto, per come emerge dalla disciplina di cui all’art. 116 c.p.a., anche se si atteggia come impugnatorio, si compendia nella verifica della spettanza o meno del diritto di accesso, piuttosto che nella verifica della sussistenza o meno di vizi di legittimità dell'atto amministrativo e quindi è indipendente rispetto alla mera indagine circa la correttezza o meno delle ragioni addotte dall'amministrazione per giustificare il diniego o l’accoglimento o che hanno provocato l’inerzia.
Infatti, il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, se ne sussistono i presupposti (art. 116, comma 4, c.p.a.).
Il che implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione dell'atto amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati dal provvedimento amministrativo ovvero ravvisare motivi ostativi all'accesso diversi da quelli opposti dall'amministrazione ovvero ancora ritenere l’accesso giuridicamente possibile.

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Il diverso istituto dell’accesso civico (sia semplice che generalizzato) è stato interamente costruito sul principio, di recente introduzione nel nostro ordinamento, della “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 1, comma 1, d.lgs. 33/2013), ma tale istituto e gli obiettivi che con esso si propone il legislatore nazionale di raggiungere non interferiscono con il diverso istituto e la diversa disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi di cui alla l. 241/1990, tanto è vero che tale impermeabilità è consacrata da una disposizione specifica del Codice della trasparenza all’art. 5, comma 11, d.lgs. 33/2013, nella parte in cui il legislatore puntualizza che “Restano fermi (…), nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della legge 07.08.1990, n. 241”.
I due istituti vivono e operano in due “compartimenti stagni” legislativi, mantenendo ciascuno le proprie specifiche regole sia con riferimento ai presupposti per l’esercizio di ciascun “diritto” sia con riguardo alla procedura (si pensi, ad esempio, che solo per l’accesso civico generalizzato è prevista la sospensione, fino ad un massimo di dieci giorni, del termine procedimentale di trenta, per come stabilito all’art. 5, comma 5, d.lgs. 33/2013, con una disposizione non riprodotta nella l. 241/1990 né estensibile in altro modo alla procedura di accesso documentale), confluendo soltanto, come un corpo giuridico unico, nella disciplina processuale di cui all’art. 116 c.p.a..
Riferito quanto sopra va quindi ribadito che:
   - l’art. 24, comma 3, l. 241/1990 opportunamente esclude dall’accesso le istanze preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni, tenuto conto che lo strumento dell’accesso documentale, postulando, a norma dell’art. 22, comma 1, lett. b), l. 241/1990 “un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” non è dato in funzione della tutela di un interesse generico e diffuso alla conoscenza degli atti amministrativi, vale a dire a un controllo generalizzato da parte di chiunque sull'attività dell'amministrazione, ma alla salvaguardia di singole posizioni differenziate e qualificate e correlate a specifiche situazioni rilevanti per la legge, che vanno dimostrate dal richiedente che intende tutelarle.
   - il diritto all'accesso postula sempre un accertamento concreto dell'esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i documenti, che non si traduce in un potere di controllo generale e preliminare, espressione di una funzione di vigilanza dell'operato del gestore di pubblici servizi, ma ne impone l'esercizio al fine di inibire o sanzionare comportamenti, atti o situazioni effettivamente lesivi degli interessi rappresentati;
   - l'accesso ai documenti è posto come strumento necessario per verificare la sussistenza di quei presupposti di fatto per l'esercizio di un'azione in giudizio (ovvero per una diversa cura della stessa, a mente dell’art. 24, comma 7, primo periodo, l. 241/1990) ai fini della tutela di situazione giuridiche, individuali o superindividuali, concretamente lese e rispetto alla quale l'eventualità di una futura azione giudiziale, a carattere individuale o collettivo, non può invece legittimare, mediante l'accesso a documenti amministrativi, la ricerca di lacune o di manchevolezze nell'operato dell’amministrazione, poiché darebbe luogo ad una richiesta ostensiva meramente esplorativa, anche qualora se ne ipotizzi un possibile sbocco giudiziario, non consentita dalla chiara formula dell’art. 24, comma 3, l. 241/1990.

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In punto di diritto preme ricordare che, in ossequio alla consolidata interpretazione della disciplina sull’accesso documentale, plasticamente applicabile al nuovo istituto dell’accesso civico generalizzato, la tutela da parte dell’aspirante accedente nei confronti del silenzio-rifiuto, del provvedimento espresso di diniego, totale o parziale e del provvedimento con cui si dispone il differimento, formatisi o resi dall’amministrazione su una istanza ostensiva, deve essere esercitata entro e non oltre il termine decadenziale di trenta giorni (ai sensi dell’art. 116, comma 1, c.p.a.), decorrente dallo spirare del termine procedimentale di trenta giorni (previsto dall’art. 25, quarto comma, l. 241/1990 per l’accesso documentale e, per l’accesso civico, dall’art. 5, comma 6, d.lgs. 33/2013), sicché la proposizione della domanda giudiziale oltre il termine decadenziale di impugnazione del diniego di accesso civico generalizzato (tenendo conto della impostazione interpretativa riferita all’accesso documentale, cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 18.04.2006 n. 6 e 20.04.2006 n. 7, perfettamente applicabile anche alla simmetrica disciplina processuale riferita dal legislatore all’accesso civico generalizzato nella comune applicazione dell’art. 116 c.p.a.):
   1) rende irricevibile il ricorso tardivamente proposto dinanzi al giudice amministrativo (ovvero nelle sedi giustiziali indicate nell’art. 5, commi 8 e 9, d.lgs. 33/2013);
   2) rende inammissibile la (ri)proposizione di una domanda di accesso (civico generalizzato) dello stesso tenore di quella fatta oggetto del silenzio-diniego, del provvedimento espresso di diniego parziale o totale ovvero del provvedimento di differimento non tempestivamente impugnati.
...
Ad avviso del Collegio si presenta questo il momento in cui è necessario rammentare che, per costante giurisprudenza di questo Consiglio, il giudizio avente ad oggetto il silenzio-diniego provocato dall’inerzia dell’amministrazione sull’istanza di accesso ai documenti amministrativi, i provvedimenti espressi dall’amministrazione medesima aventi contenuto di diniego ed accoglimento totale o parziale della richiesta ostensiva nonché di differimento dell’esercizio del relativo diritto, per come emerge dalla disciplina di cui all’art. 116 c.p.a., anche se si atteggia come impugnatorio, si compendia nella verifica della spettanza o meno del diritto di accesso, piuttosto che nella verifica della sussistenza o meno di vizi di legittimità dell'atto amministrativo e quindi è indipendente rispetto alla mera indagine circa la correttezza o meno delle ragioni addotte dall'amministrazione per giustificare il diniego o l’accoglimento o che hanno provocato l’inerzia.
Infatti, il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, se ne sussistono i presupposti (art. 116, comma 4, c.p.a.).
Il che implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione dell'atto amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati dal provvedimento amministrativo ovvero ravvisare motivi ostativi all'accesso diversi da quelli opposti dall'amministrazione ovvero ancora ritenere l’accesso giuridicamente possibile (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 05.03.2018 n. 1396, Sez. VI 19.01.2012 n. 201 e 12.01.2011 n. 117).
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Sul punto va precisato che il diverso istituto dell’accesso civico (sia semplice che generalizzato) è stato interamente costruito sul principio, di recente introduzione nel nostro ordinamento, della “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 1, comma 1, d.lgs. 33/2013), ma tale istituto e gli obiettivi che con esso si propone il legislatore nazionale di raggiungere non interferiscono con il diverso istituto e la diversa disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi di cui alla l. 241/1990, tanto è vero che tale impermeabilità è consacrata da una disposizione specifica del Codice della trasparenza all’art. 5, comma 11, d.lgs. 33/2013, nella parte in cui il legislatore puntualizza che “Restano fermi (…), nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della legge 07.08.1990, n. 241”.
I due istituti vivono e operano in due “compartimenti stagni” legislativi, mantenendo ciascuno le proprie specifiche regole sia con riferimento ai presupposti per l’esercizio di ciascun “diritto” sia con riguardo alla procedura (si pensi, ad esempio, che solo per l’accesso civico generalizzato è prevista la sospensione, fino ad un massimo di dieci giorni, del termine procedimentale di trenta, per come stabilito all’art. 5, comma 5, d.lgs. 33/2013, con una disposizione non riprodotta nella l. 241/1990 né estensibile in altro modo alla procedura di accesso documentale), confluendo soltanto, come un corpo giuridico unico, nella disciplina processuale di cui all’art. 116 c.p.a..
Riferito quanto sopra va quindi ribadito che:
   - l’art. 24, comma 3, l. 241/1990 opportunamente esclude dall’accesso le istanze preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni, tenuto conto che lo strumento dell’accesso documentale, postulando, a norma dell’art. 22, comma 1, lett. b), l. 241/1990 “un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” non è dato in funzione della tutela di un interesse generico e diffuso alla conoscenza degli atti amministrativi, vale a dire a un controllo generalizzato da parte di chiunque sull'attività dell'amministrazione, ma alla salvaguardia di singole posizioni differenziate e qualificate e correlate a specifiche situazioni rilevanti per la legge, che vanno dimostrate dal richiedente che intende tutelarle (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23.05.2017, n. 2415 e 15.06.2011 n. 3650).
   - il diritto all'accesso postula sempre un accertamento concreto dell'esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i documenti, che non si traduce in un potere di controllo generale e preliminare, espressione di una funzione di vigilanza dell'operato del gestore di pubblici servizi, ma ne impone l'esercizio al fine di inibire o sanzionare comportamenti, atti o situazioni effettivamente lesivi degli interessi rappresentati (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 04.12.2017 n. 5643 e Sez. IV, 06.10.2015 n. 4644);
   - l'accesso ai documenti è posto come strumento necessario per verificare la sussistenza di quei presupposti di fatto per l'esercizio di un'azione in giudizio (ovvero per una diversa cura della stessa, a mente dell’art. 24, comma 7, primo periodo, l. 241/1990) ai fini della tutela di situazione giuridiche, individuali o superindividuali, concretamente lese e rispetto alla quale l'eventualità di una futura azione giudiziale, a carattere individuale o collettivo, non può invece legittimare, mediante l'accesso a documenti amministrativi, la ricerca di lacune o di manchevolezze nell'operato dell’amministrazione, poiché darebbe luogo ad una richiesta ostensiva meramente esplorativa, anche qualora se ne ipotizzi un possibile sbocco giudiziario, non consentita dalla chiara formula dell’art. 24, comma 3, l. 241/1990 (cfr., ancora sul punto, Cons. Stato, Sez. V, 05.04.2018 n. 2105)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.04.2019 n. 2737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' noto come l’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 preveda che “nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori” e che “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita” tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga;
E' altresì noto come, secondo l’orientamento prevalente nella giurisprudenza amministrativa, la decadenza del permesso di costruire per inutile decorrenza dei su indicati termini opera di diritto in conseguenza dell’inutile decorso del tempo, e non dipende da un atto amministrativo, che ove intervenga assume comunque carattere meramente dichiarativo, e ciò al fine di non far conseguire la decadenza ad un comportamento dell’Amministrazione, con possibili disparità di trattamento tra situazioni identiche.
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Se è indubitabile che la proroga del citato termine annuale ben possa essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari, è altresì indubitabile che la richiesta di proroga debba essere in ogni caso presentata prima della decorrenza del termine ultimo previsto nel titolo edilizio e ciò proprio in virtù del fatto che la decadenza del permesso di costruire costituisce un effetto automatico del trascorrere del tempo, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha mera natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione, oltre che un carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15 D.P.R. 380/2001 citato.
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Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è infondato nel merito e va pertanto rigettato.
Ed invero, è noto come l’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 preveda che “nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori” e che “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita” tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga; è altresì noto come, secondo l’orientamento prevalente nella giurisprudenza amministrativa, la decadenza del permesso di costruire per inutile decorrenza dei su indicati termini opera di diritto in conseguenza dell’inutile decorso del tempo, e non dipende da un atto amministrativo, che ove intervenga assume comunque carattere meramente dichiarativo, e ciò al fine di non far conseguire la decadenza ad un comportamento dell’Amministrazione, con possibili disparità di trattamento tra situazioni identiche (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.05.2012, n. 2915, Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.04.2016, n. 1520; Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.04.2014, n. 1747).
Tanto premesso, il Tribunale evidenzia come risulti infondato in primo luogo il primo motivo di gravame articolato dal ricorrente nella spiegata impugnazione, con cui quest’ultimo si duole, in buona sostanza, che l’atto impugnato sarebbe affetto da un’istruttoria carente e dal mancato rispetto dei principi di proporzionalità e razionalità che dovrebbero caratterizzare l’agere della pubblica amministrazione.
Al riguardo, il Collegio si limita ad evidenziare come le pur valide ragioni addotte dal ricorrente, tuttavia solo in data 29.01.2015, per giustificare la richiesta di sospensione del procedimento di declaratoria di decadenza del permesso di costruire, ben avrebbero potuto e dovuto essere rappresentate all’Amministrazione Comunale resistente prima del decorso del termine annuale per l’inizio dei lavori di cui al permesso a costruire n. 152/2012 del 15.11.2012, non interrotto dalla comunicazione di inizio lavori effettuata dal ricorrente in data 15.07.2013, in quanto ritenuta dall’Amministrazione Comunale resistente sfornita della necessaria documentazione per potere intraprendere gli annunciati lavori; ciò in quanto, se è indubitabile che la proroga del citato termine annuale ben possa essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari (cfr. ex multis TAR Puglia Lecce, sez. I, 10/04/2018, n. 603, TAR Lombardia Milano, sez. II, 07/11/2018, n. 2522), è altresì indubitabile che la richiesta di proroga debba essere in ogni caso presentata prima della decorrenza del termine ultimo previsto nel titolo edilizio (cfr. TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 05/11/2018, n. 333, Consiglio di Stato sez. IV, 26/04/2018, n. 2508, TAR Valle d'Aosta, 18/04/2018, n. 26) e ciò proprio in virtù del fatto che la decadenza del permesso di costruire costituisce un effetto automatico del trascorrere del tempo, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha mera natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione, oltre che un carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15 D.P.R. 380/2001 citato.
Da quanto sin qui osservato consegue altresì il rigetto anche del secondo motivo di impugnazione articolato dal ricorrente nella spiegata impugnazione, considerato che la decadenza del permesso di costruire è stata comminata per inutile decorrenza del termine annuale di inizio lavori e non per quello finale di ultimazione degli stessi e che, se indubbiamente la proposizione di un’azione ex art. 700 c.p.c. per superare la dedotta condotta ostruzionistica dei vicini può in astratto giustificare una richiesta di proroga dei termini del permesso di costruire, è altrettanto indubitabile che, in ogni caso, detta proroga debba essere richiesta prima del decorso dei citati termini di cui all’art. 15 D.P.R. 380/2001 citato.
Conclusivamente, per le ragioni sopra sinteticamente indicate, lo spiegato ricorso è infondato nel merito e va pertanto respinto mentre sussistono i presupposti di legge, in considerazione della complessità e di taluni aspetti di assoluta novità dell’oggetto del giudizio, per dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese di lite (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.04.2019 n. 2276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Decalogo del Consiglio di Stato per la corretta gestione dei concorsi pubblici.
Requisito di esperto per i commissari; utilizzo di penne di colore diverso; presenza di cancellature negli elaborati; quote rosa; mancanza dell'indicazione dell'ora di chiusura delle operazioni; incompatibilità tra esaminatore e concorrente.

Sono le questioni affrontate dalla III Sez. del Consiglio di Stato che, con la sentenza 29.04.2019 n. 2775 propone una sorta di decalogo sui concorsi pubblici.
Le ragioni dei ricorrenti
La terza sezione ha esaminato la sentenza con cui il Tar Lazio ha respinto il ricorso volto a ottenere l'annullamento di un concorso per posti di dirigente di ragioneria.
I ricorrenti avevano prospettato una nutrita serie di censure: due commissari nominati quali esperti nelle materie oggetto di concorso non potevano ritenersi tali; numerosi elaborati dei vincitori o idonei erano contrassegnati da inequivoci segni di riconoscimento dovuti all'utilizzo di penne con colori diversi e atipiche cancellature; omesso rispetto della parità di genere; insufficienza del solo punteggio numerico; omessa indicazione dell'orario di chiusura delle operazioni di correzione degli elaborati; omessa collegialità nella conduzione delle prove orali; non rinvenibilità del verbale di chiusura delle operazioni concorsuali; violazione dell'obbligo di astensione di due commissari che avevano direttamente collaborato con candidati poi risultati vincitori.
Gli appellanti, inoltre, hanno riproposto la domanda di risarcimento del danno a titolo di perdita di chances, commisurata al rapporto tra i posti disponibili e i concorrenti, da applicare alla retribuzione prevista per la fascia dirigenziale per tutta la durata del rapporto di lavoro.
Esperti e anonimato
Nessuna delle doglianze è stata accolta dalla terza sezione del Consiglio di Stato che ha dichiarato inammissibili i motivi aggiunti e respinto l'appello. Circa il requisito di esperto nelle materie oggetto di concorso, i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che la nomina a componente della commissione «non richiede il possesso di particolari titoli di studio, ma implica una valutazione discrezionale basata sulla considerazione della pregressa esperienza in relazione al contenuto delle prove previste». Dunque non vi è un rigido riferimento a specifiche categorie professionali, anche per evitare paralisi dell'attività a causa di eventuali carenze di personale disponibile.
Circa l'anonimato dei compiti scritti, l'utilizzo di penne con colori diversi e la presenza di cancellature, per poter essere considerati segno di identificazione «devono risultare oggettivamente anomali ed estranei al contesto proprio dell'elaborato – altrimenti, qualsivoglia scritto aggiunto ovvero alterato, apposto nell'elaborato, dovrebbe ritenersi sufficiente ad identificarne l'autore». Tanto più che il cambio della penna capita di frequente e gli sbarramenti di parti del testo sono i modi con cui si procede alle cancellature.
Quote rosa e giudizi
La sezione ha esaminato poi la questione delle «quote rosa» imposte dell'articolo 3, comma 3, del Dpcm 439/1994, il regolamento di accesso alla qualifica di dirigente, vincolo che, in primo luogo, può essere rispettato solo qualora vi siano componenti femminili in possesso dei previsti requisiti di esperienza; in secondo, la giurisprudenza si è ormai attestata nel ritenere che l'inosservanza del requisito può inficiare il concorso solo qualora sia dimostrato, o quanto meno possa supporsi, che la commissione abbia assunto una reale condotta discriminatoria.
Anche sul voto numerico la giurisprudenza si è consolidata nel ritenere che sia sufficiente a esprimere il giudizio tecnico discrezionale della commissione, contenendo in sé stesso la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni, tutte le volte in cui la commissione stessa abbia prefissato i criteri di valutazione.
La mancata indicazione dell'ora di chiusura nel verbale costituisce mera irregolarità non viziante, posto che è analiticamente descritto l'intero iter procedimentale; così come la non rinvenibilità del verbale di chiusura delle operazioni concorsuali e degli elaborati di alcuni concorrenti, fatto deprecabile ma che non può di per sé invalidare il concorso.
L'incompatibilità
L'ultimo aspetto riguarda la collaborazione tra alcuni dei vincitori e due commissari interni. Secondo il Consiglio di Stato una simile evenienza è «praticamente inevitabile, tutte le volte che i concorrenti siano già in servizio presso l'Amministrazione che bandisce il concorso e i commissari siano dirigenti della stessa».
L'obbligo di astensione scatta solo se ricorrono le condizioni tassativamente previste dall'articolo 51 del codice di procedura civile, senza possibilità di estensione analogica. L'incompatibilità implica l'esistenza di una comunanza di interessi economici o di vita ovvero la sussistenza di un potenziale conflitto di interessi per una causa pendente tra le parti, o la sussistenza di grave inimicizia tra di esse.
Il criterio fissato dalla terza sezione è che, in presenza di candidati interni, ciò che deve orientare la condotta dei commissari ai fini del rispetto dell'obbligo di astensione è l'esistenza di pregressi rapporti di collaborazione basata su scelte fiduciarie o di carattere personale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.05.2019).
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MASSIMA
6.1. Va anzitutto sottolineato che
il requisito di “esperto nelle materie oggetto di concorso”, necessario per essere nominato componente della commissione, non richiede il possesso di particolari titoli di studio, ma implica una valutazione discrezionale basata sulla considerazione della pregressa esperienza in relazione al contenuto delle prove previste.
E’ stato condivisibilmente affermato che
la scelta di prevedere anche gli esperti è imposta da ragioni di prudenza ed efficienza dell'azione amministrativa che consigliano di prescindere se del caso -per evitare paralisi dell'attività in presenza di eventuali carenze di personale disponibile nelle categorie predeterminate in modo specifico (dirigenti e professori)- dal rigido riferimento a specifiche categorie professionali, menzionando una categoria generale di esperti compulsabili per fare i componenti, come clausola di sicurezza volta a conferire certezza applicativa alla disposizione così assicurando la più facile costituzione delle commissioni (cfr. Cons. Stato, VI, n. 5325/2006).
In questa prospettiva, non è stato messo in discussione che i due commissari su indicati, entrambi dirigenti di ragioneria, avessero maturato, nell’ambito dell’Amministrazione dell’Interno ed in relazione ai particolari posti messi a concorso, una significativa e pluriennale esperienza nella direzione di uffici contabili.
6.2. La censura relativa al difetto di anonimato dei compiti scritti evidenzia circostanze che non sono idonee a far ritenere superata la soglia di rilevanza necessaria.
L’utilizzo di penne con colori diversi, ovvero le cancellature sull’elaborato, per poter essere considerati segno di identificazione del candidato, devono risultare oggettivamente anomali ed estranei al contesto proprio dell’elaborato – altrimenti, qualsivoglia scritto aggiunto ovvero alterato, apposto nell’elaborato, dovrebbe ritenersi sufficiente ad identificarne l’autore.
Per esperienza comune,
il cambio di colore della penna è accadimento che può capitare di frequente, e gli sbarramenti di parti del testo trasversali o ad andamento sinusoidale sono i modi con cui si procede alle cancellature, in assenza di una diversa regola prefissata ed imposta nello svolgimento della prova.
Non vi è pertanto il presupposto di fatto per poter applicare al concorso in esame il principio di rilevanza (presuntiva) dell’inosservanza da parte della commissione di concorso di cautele ed accorgimenti posti a garanzia dell’anonimato, affermato dalla Adunanza Plenaria n. 26/2013 - peraltro, in quel caso ritenuta viziante in una situazione ben diversa, posto che, dopo la conclusione della procedura, la commissione si era trovata in possesso di un elenco alfabetico in cui al codice (segreto) contrassegnante l'elaborato era inequivocabilmente associato il nome del candidato.
6.3. Il Collegio osserva che,
ai sensi dell’art. 3 del d.P.C.M. 439/1994, almeno un terzo dei posti è riservato alle donne “salva motivata impossibilità” e “purché in possesso dei requisiti, e che, come sottolineato dal TAR, in primo grado la difesa dell’Amministrazione aveva argomentato circa la impossibilità di nominare un componente femminile in possesso dei previsti requisiti di esperienza.
Senza contare che
l’inosservanza del previsto requisito di genere può inficiare il concorso qualora sia dimostrato, o quanto meno possa supporsi che la commissione abbia assunto una reale condotta discriminatoria (cfr. Cons. Stato, VI, n. 7962/2006, n. 2217/2012, n. 703/2015); ma, al riguardo, gli appellanti nulla hanno specificamente dedotto, e, comunque, l’attività della Commissione che ha condotto al non superamento delle prove scritte da parte degli appellanti, per quanto esposto, deve ritenersi svolta nel rispetto dell’anonimato.
6.4. La Commissione di concorso ha esplicitato i criteri di attribuzione del punteggio nel verbale in data 07.09.1999.
Ciò premesso, è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., da ultimo, Cons. Stato, IV, n. 4745/2018), secondo la quale
il voto numerico, in mancanza di una contraria disposizione, esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione di concorso, contenendo in sé stesso la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni, quale principio di economicità amministrativa di valutazione, assicura la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute dalla commissione nell'ambito del punteggio disponibile e del potere amministrativo da essa esercitato e la significatività delle espressioni numeriche del voto, sotto il profilo della sufficienza motivazionale in relazione alla prefissazione, da parte della stessa commissione esaminatrice, di criteri di massima di valutazione che soprassiedono all'attribuzione del voto, da cui desumere con evidenza, la graduazione e l'omogeneità delle valutazioni effettuate mediante l'espressione della cifra del voto, con il solo limite della contraddizione manifesta tra specifici elementi di fatto obiettivi, i criteri di massima prestabiliti e la conseguente attribuzione del voto.
Inoltre, ai fini della verifica di legittimità dei verbali di correzione e dei conseguenti giudizi non occorre l'apposizione di glosse, segni grafici o indicazioni di qualsivoglia tipo sugli elaborati in relazione a eventuali errori commessi. In definitiva, solo se mancano criteri di massima e precisi parametri di riferimento cui raccordare il punteggio assegnato, si può ritenere illegittima la valutazione dei titoli in forma numerica
(così, da ultimo, la decisione dell’Adunanza plenaria n. 7/2017).
6.5.
L’asserita mancata indicazione dell’ora di chiusura nel verbale costituisce mera irregolarità non viziante, posto che, come affermato dal TAR, occorre applicare il principio della strumentalità delle forme secondo cui il raggiungimento dello scopo segna il discrimine tra mera irregolarità ed invalidità ad effetto viziante: poiché nei verbali è analiticamente descritto l’intero iter procedimentale, la mancata indicazione dell’ora di chiusura del verbale, in sé, non comporta alcun pregiudizio delle operazioni che la commissione attesta aver svolto.
6.6. Quanto al difetto di collegialità della commissione in occasione della prova orale, è evidente la mancanza di interesse in capo agli appellanti, in quanto esclusi da detta prova.
6.7.
La non rinvenibilità, verificata in esito ad accesso, del verbale della Commissione di chiusura delle operazioni concorsuali e degli elaborati di ben sedici concorrenti, tra cui dieci vincitori e sei non vincitori, è certamente un fatto deprecabile (e meritevole di essere approfondito in altra sede), che tuttavia non può di per sé comportare l’invalidazione del concorso.
6.8. Infine,
riguardo alla circostanza che alcuni dei vincitori avessero collaborato direttamente con i due commissari “interni”, deve rilevarsi come una simile evenienza sia praticamente inevitabile, tutte le volte che i concorrenti siano già in servizio presso l’Amministrazione che bandisce il concorso e i commissari siano dirigenti della stessa.
Nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51, c.p.c., senza che le cause di incompatibilità possano essere oggetto di estensione analogica (cfr. Cons. Stato, V, n. 3956/2014).
L'incompatibilità tra esaminatore e concorrente implica quindi o l’esistenza di una comunanza di interessi economici o di vita -di intensità tale da far ingenerare il sospetto che il candidato sia giudicato non in base alle risultanze oggettive della procedura, ma in virtù della conoscenza personale con l'esaminatore (cfr. Cons. Stato, VI, n. 1057/2015) ed idonea a far insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di imparzialità, di trasparenza e di parità di trattamento (comunque inquadrabile nell'art. 51, comma 2, c.p.c.)- ovvero la sussistenza di un potenziale conflitto di interessi per l’esistenza di una causa pendente tra le parti, o la sussistenza di grave inimicizia tra di esse.
In definitiva,
in presenza di candidati interni all’Amministrazione presso cui prestano servizio, ciò che deve orientare la condotta dei commissari ai fini del rispetto dell’obbligo di astensione, è l’esistenza di pregressi rapporti di collaborazione basata su scelte fiduciarie, ovvero di carattere personale; ma nel caso in esame non è argomentato che ciò si sia verificato.
7. In conclusione, l’appello –nella parte non dichiarata inammissibile- deve essere respinto.

APPALTIGara, soccorso istruttorio per l’offerta difforme. Se lente appaltante sbaglia il fac-simile.
Se in una gara d'appalto l'impresa formula l'offerta in conformità a un facsimile predisposto dalla stazione appaltante, ma difforme dal disciplinare di gara, non può essere esclusa; eventuali difformità rispetto al disciplinare di gara sono sanabili con il soccorso istruttorio.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 29.04.2019 n. 2720.
La questione rimessa ai giudici di secondo grado riguardava l'offerta economica del concorrente per la quale il disciplinare di gara presupponeva fossero rese, secondo un facsimile, una serie di dichiarazioni da parte dell'offerente.
In realtà esistevano alcune incongruenze tra il modello di offerta predisposto dalla stazione appaltante e gli obblighi dichiarativi previsti dalla
lex specialis di gara.
Dopo la pronuncia di primo grado, che aveva comunque legittimato la non esclusione dell'offerente, in appello veniva chiesto se l'utilizzo dei moduli predisposti dalla stazione appaltante potesse giustificare l'erronea formulazione dell'offerta e se le omissioni dell'offerta integrassero la violazione dell'art. 94, comma 1, lett. a), del codice appalti e quindi non potessero essere suscettibili di soccorso istruttorio.
La sentenza ha precisato che per giurisprudenza consolidata, il principio del favor partecipationis, volto a favorire la più ampia partecipazione alle gare pubbliche, ha di norma carattere recessivo rispetto al principio della par condicio.
Ciò premesso, però, il Consiglio di stato ha spiegato che l'esigenza di apprestare tutela all'affidamento inibisce alla stazione appaltante di escludere dalla gara pubblica un'impresa che abbia compilato l'offerta in conformità al facsimile, perché eventuali parziali difformità rispetto al disciplinare possono costituire oggetto di richiesta di integrazione (necessariamente, mediante soccorso istruttorio).
La ragione di questa impostazione risiede nel fatto che nessun addebito poteva essere contestato all'impresa per essere stata indotta in errore, all'atto della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, da un negligente comportamento della stazione appaltante, che aveva predisposto la modulistica da allegare alla domanda (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione sia del piazzale di considerevoli dimensioni sia del tratto di strada oggetto dell’ordinanza impugnata, costituiscono opere dirette a modificare in modo permanente il territorio circostante e perciò necessitanti del previo rilascio del permesso di costruire ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001.
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Il lungo periodo intercorso tra la realizzazione delle opere abusive e l’attività repressiva posta in essere dal Comune, stante il carattere di illecito permanente dell’abuso edilizio, non è circostanza idonea a ingenerare, nell’autore delle opere abusive, alcun tipo di affidamento giuridicamente tutelato; né tale fatto può comportare un aggravio motivazionale del provvedimento sanzionatorio emesso dall’amministrazione comunale.

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Con il presente ricorso, il proprietario di un’area sita nel comune di San Giovanni Marignano chiede l’annullamento dell'ordinanza di ingiunzione di demolizione ex art. 13 L.R. Emilia Romagna n. 23 del 2004 emessa in data 28/08/2013 dal comune di San Giovanni in Marignano nei suoi confronti.
L’ordinanza ingiunge la demolizione di opere edilizie consistenti nella realizzazione di un piazzale per il parcheggio di autoveicoli di dimensioni m. 41,00 x m. 33,00 e di una strada asfaltata di m. 3,87 x m. 4,26.
A sostegno del ricorso, il deducente rileva i seguenti motivi in diritto: Violazione lett. G 1 L.R. n. 31 del 2000 per non essere, gli interventi in oggetto, assoggettati al regime del previo rilascio del permesso di costruire; violazione art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001; violazione L.R. n. 15 del 2012; eccesso di potere per illogicità e violazione del principio dell’affidamento.
...
Il Collegio osserva che il ricorso non merita accoglimento.
La realizzazione sia del piazzale di considerevoli dimensioni sia del tratto di strada oggetto dell’ordinanza impugnata, costituiscono opere dirette a modificare in modo permanente il territorio circostante e perciò necessitanti del previo rilascio del permesso di costruire ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001 (v. TAR Campania –NA- sez. VIII, 10/3/2016 n. 1397).
Nella specie, inoltre, le suddette opere abusive sono state oggetto di precedente provvedimento ripristinatorio e di diniego di sanatoria; atti entrambi adottati dal comune di San Giovanni Marignano e citati nella ordinanza impugnata (v. provv. impugnato doc. n. 1 ric.).
Il lungo periodo intercorso tra la realizzazione delle opere abusive e l’attività repressiva posta in essere dal Comune, stante il carattere di illecito permanente dell’abuso edilizio, non è circostanza idonea a ingenerare, nell’autore delle opere abusive, alcun tipo di affidamento giuridicamente tutelato; né tale fatto può comportare un aggravio motivazionale del provvedimento sanzionatorio emesso dall’amministrazione comunale.
Pertanto, il ricorso è respinto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 29.04.2019 n. 380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di paesaggio.
La nozione di paesaggio delineata dall'art. 1 della Convenzione europea del 2000, entrata in vigore sul piano internazionale il 01.09.2006 e la cui ratifica ed esecuzione è effettua in Italia con L. n. 14 del 2006, definisce il paesaggio come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
Nozione che testimonia la peculiare polisemia del concetto in esame al cui interno sono ricompresi sia sostrati naturalistici (il territorio è, infatti, inteso come res extensa), sia elementi prettamente culturali; lo conferma la disamina delle considerazioni inserite nel Preambolo della Convenzione ove si afferma che:
   a) il “paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all'attività economica e che salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro”;
   b) “il paesaggio concorre all'elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell'Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell'identità europea”.
La Convenzione europea adotta, pertanto, una nozione ampia di paesaggio che è inteso come “elemento importante della qualità della vita delle popolazioni nelle area urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana”.
Tale concetto non ricomprende, soltanto, le c.d. bellezze naturali, o il solo patrimonio storico, archeologico e artistico, o ancora i c.d. beni ambientali: al contrario, si tratta di nozione che supera le sovrapposizioni spesso presenti nella legislazione interna tra ambiente, paesaggio e beni culturali, e che reclama un’autonomia del paesaggio riconoscendo, al contempo, la necessità di una visione integrale e olistica del concetto in esame; in sostanza, il paesaggio descrive un patrimonio di risorse identitarie non riducibili alle sole bellezze naturali in sé o alle testimonianze storico-artistiche di eccezionale valenza, ma assume rilievo ogni qual volta sussistano elementi morfologici a cui sia attribuibile una valenza estetica.
A questo contesto non è certamente estranea la materia del Governo del territorio che, al contrario, costituisce uno degli strumenti attraverso il quale la Repubblica realizza la tutela del bene in esame (fattispecie relativa alla rilevanza paesaggistica di un intervento di recupero del sottotetto all’interno di una corte)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.04.2019 n. 932 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti si ripropongono le questioni già a fondamento del ricorso introduttivo e relative all’esatta delimitazione dello spettro del potere della Commissione per il paesaggio. Il nucleo sostanziale della censura risiede, infatti, nell’asserita non corretta applicazione dei parametri di tutela del paesaggio che non verrebbero in gioco stante la collocazione dell’intervento nel solo cortile interno.
3.1. Osserva il Collegio come la Commissione ponga a fondamento della propria valutazione la nozione di paesaggio delineata dalla Convenzione europea del 2000 (entrata in vigore sul piano internazionale il 01.09.2006), la cui ratifica ed esecuzione è effettua in Italia con L. n. 14 del 2006. La disposizione contenuta all’interno dell’articolo 1 dell’atto normativo internazionale definisce il paesaggio come “una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
Nozione che testimonia la peculiare polisemia del concetto in esame al cui interno sono ricompresi sia sostrati naturalistici (il territorio è, infatti, inteso come res extensa), sia elementi prettamente culturali. Lo conferma la disamina delle considerazioni inserite nel Preambolo della Convenzione ove si afferma che:
   a) il “paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all'attività economica e che salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro”;
   b) “il paesaggio concorre all'elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell'Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell'identità europea”.
3.2. La Convenzione europea adotta, pertanto, una nozione ampia di paesaggio che è inteso come “elemento importante della qualità della vita delle popolazioni nelle area urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana”.
Tale concetto non ricomprende, soltanto, le c.d. bellezze naturali (al pari di quanto avviene, in precedenza, in forza della previsione di cui all’articolo 1 della L. 29.06.1939 n. 1497; nella giurisprudenza di legittimità costituzionale, cfr. Corte Costituzionale, 29.05.1968 n. 56; Id., 24.07.1972 n. 141; Id., 03.08.1976 n. 210), o il solo patrimonio storico, archeologico e artistico (come può inferirsi dalle previsioni di contenute nella legge 26.04.1964 n. 310), o ancora i c.d. beni ambientali (come emerge dal d.P.R. 24.07.1977 n. 616 che colloca il paesaggio nel pur ampio crinale tra l’ambiente e il governo del territorio).
Al contrario, si tratta di nozione che supera le sovrapposizioni spesso presenti nella legislazione interna tra ambiente, paesaggio e beni culturali, e che reclama un’autonomia del paesaggio riconoscendo, al contempo, la necessità di una visione integrale ed olistica del concetto in esame.
In sostanza, il paesaggio descrive un patrimonio di risorse identitarie non riducibili alle sole bellezze naturali in sé o alle testimonianze storico-artistiche di eccezionale valenza ma assume rilievo ogni qual volta sussistano elementi morfologici a cui sia attribuibile una valenza estetica. A questo contesto non è certamente estranea la materia del Governo del territorio che, al contrario, costituisce uno degli strumenti attraverso il quale la Repubblica realizza la tutela del bene in esame (articolo 9 Costituzione; in giurisprudenza, cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 05.04.2017, n. 797; id., 13.07.2018, n. 1690).
3.3. Declinando i principi esposti al caso di specie, il Collegio non ravvisa nei provvedimenti impugnati i vizi denunciati dai ricorrenti. Il parere della Commissione muove dalla corretta attribuzione di una rilevanza paesaggistica al contesto che l’intervento in esame risulta idoneo a compromettere.
Infatti, come emerge dalla documentazione di progetto versata in atti, il recupero del sottotetto termina per alterare la linea architettonica unitaria degli immobili finitimi. Né una simile alterazione può escludersi in ragione del confinamento interno delle opere in quanto, in tal modo, si terminerebbe per disconoscere la risorsa identitaria della corte interna che, al contrario, è correttamente messa a fondamento del parere reso.
Negarne la valenza significherebbe, infatti, retrocedere ad una nozione ristretta di paesaggio che, al contrario, l’evoluzione dell’ordinamento pur cursoriamente descritta abbandona in favore di una visione più ampia e maggiormente acconcia al benessere estetico che tale visione mira a realizzare.
3.4. In definitiva, la valutazione operata dall’Amministrazione costituisce una corretta declinazione delle regole tecniche che sorreggono il giudizio espresso. Ne consegue l’infondatezza del motivo proposto.

APPALTI: Partecipazione alla gara pubblica come Raggruppamento verticale o orizzontale.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Partecipazione in raggruppamento orizzontale o verticale – Art. 48, d.lgs. n. 50 del 2016 – Condizione.
Al fine di individuare la partecipazione alla gara pubblica come Raggruppamento verticale o orizzontale il testuale riferimento legislativo al "tipo" di prestazione (e non alla prestazione concretamente svolta, e così ad un concetto astratto piuttosto che concreto) va inteso nel senso che ciascun operatore economico dev'essere in grado, per le competenze possedute, di partecipare all’esecuzione dell’unica prestazione; quest’ultima, poi, altro non può essere che la prestazione oggetto del servizio da affidare e le competenze non possono essere che quelle richieste dal bando di gara.
Ciò significa che la diversità delle prestazioni, tale da escludere il carattere orizzontale del raggruppamento, ricorre solo se ciascuna delle imprese possiede specializzazioni e competenze diverse da quelle richieste dal bando, finalizzate all’esecuzione di un’attività non corrispondente a quella oggetto del contratto.
La simmetria tra competenze possedute e prestazioni assunte dalle imprese raggruppate, quale principio costitutivo del RTI, deve essere verificata (non in chiave assoluta ed astratta, ma) nel prisma delle prescrizioni di gara: sì che solo qualora la ripartizione delle prestazioni all’interno del raggruppamento sia tale da spezzare quel rapporto simmetrico, potrebbe affermarsi il carattere derogatorio della formula organizzativa prescelta rispetto al sistema di qualificazione che presiede alla disciplina della partecipazione delle imprese alla specifica gara (1).

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   (1) Cons. St., sez. V, 04.01.2018, n. 51.
Ha chiarito la Sezione che la possibilità per le imprese raggruppate -in forza “orizzontale” o “verticale”- di indicare le “parti” del servizio da ciascuna rispettivamente assunte in termini contenutistici e/o quantitativi è stata riconosciuta dalla giurisprudenza nomofilattica di questo Consiglio di Stato (cfr. Adunanza Plenaria n. 12/2012, cit.), secondo la quale “l’obbligo deve ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia in caso di indicazione, in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese, tenendo conto della natura complessa o semplice dei servizi oggetto della prestazione e della sostanziale idoneità delle indicazioni ad assolvere alle finalità di riscontro della serietà e affidabilità dell’offerta ed a consentire l’individuazione dell’oggetto e dell’entità delle prestazioni che saranno eseguite dalle singole imprese raggruppate”.
Né potrebbe farsi riferimento alla simmetria tra le prestazioni assunte dalle imprese raggruppate e le relative competenze (in termini di mezzi ed autorizzazioni possedute).
Deve invero osservarsi che, laddove non sia contestata (o dimostrata) la violazione dei criteri di qualificazione fissati dalla lex specialis, anche per le ipotesi di partecipazione di soggetti pluri-strutturati, la ripartizione delle prestazioni tra le imprese raggruppate, anche nell’ipotesi di raggruppamento di tipo “orizzontale”, non può che essere rimessa alle loro scelte organizzative: scelte il cui criterio direttivo non può che essere la coerenza di quella ripartizione con le capacità ed i titoli abilitativi da ciascuna posseduti, ferma restando la comune responsabilità solidale in ordine al servizio oggetto di appalto complessivamente considerato (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 24.04.2019 n. 2641 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
In primo luogo, infatti, è lo stesso art. 48, comma 4, d.lvo n. 50/2016 ad esigere, con riferimento alle modalità partecipative dei raggruppamenti temporanei (abbiano essi struttura orizzontale o verticale) che “nell’offerta devono essere specificate…le parti del servizio…che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti” (cfr., nel senso che l’obbligo di specificare le parti del servizio che saranno svolte da ciascuna impresa raggruppata sussiste anche in capo al RTI di tipo “orizzontale”, Consiglio di Stato, Ad. Plen., n. 22 del 13.06.2012).
Le dichiarazioni contestate del RTI controinteressato risultano quindi prima facie rispecchiare il citato disposto normativo, recando l’indicazione –qualitativa e quantitativa– delle specifiche parti del servizio che ciascuna delle imprese costituenti si propone di eseguire.
Né la specificazione contenutistica –e non solo percentuale– delle parti del servizio demandate a ciascuna delle imprese raggruppate potrebbe essere addotta a dimostrazione della volontà delle stesse di frammentare pro quota la loro responsabilità in ordine all’esecuzione della prestazione complessiva, secondo lo schema proprio dei raggruppamenti di tipo “verticale”: deve infatti osservarsi che, in mancanza (incontestata) di una indicazione della lex specialis in ordine alla suddivisione del servizio in prestazioni “principale” e “secondarie”, che sola potrebbe conferire rilevanza giuridica (anche ai fini della conseguente responsabilità) allo schema organizzativo di tipo “verticale”, quella specificazione non è idonea a produrre alcun effetto se non quello, appunto, di assolvere all’onere ex lege di precisare le “parti del servizio” che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti in associazione.
In altre parole, in assenza della attribuzione a quella ripartizione –che solo la lex specialis potrebbe sancire– del crisma della distinzione tra prestazioni “principale” e “secondarie”, essa resta “interna” all’unica prestazione, giuridicamente intesa pur se descrittivamente complessa, costituente oggetto dell’appalto.
Deve solo osservarsi che la possibilità per le imprese raggruppate -in forza “orizzontale” o “verticale”- di indicare le “parti” del servizio da ciascuna rispettivamente assunte in termini contenutistici e/o quantitativi è stata riconosciuta dalla giurisprudenza nomofilattica di questo Consiglio di Stato (cfr. Adunanza Plenaria n. 12/2012, cit.), secondo la quale “l’obbligo deve ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia in caso di indicazione, in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese, tenendo conto della natura complessa o semplice dei servizi oggetto della prestazione e della sostanziale idoneità delle indicazioni ad assolvere alle finalità di riscontro della serietà e affidabilità dell’offerta ed a consentire l’individuazione dell’oggetto e dell’entità delle prestazioni che saranno eseguite dalle singole imprese raggruppate”.
Né le deduzioni attoree potrebbero trovare fondamento nella simmetria che la parte appellante deduce essere ravvisabile tra le prestazioni assunte dalle imprese raggruppate e le relative competenze (in termini di mezzi ed autorizzazioni possedute).
Deve invero osservarsi che, laddove non sia contestata (o dimostrata) la violazione dei criteri di qualificazione fissati dalla lex specialis, anche per le ipotesi di partecipazione di soggetti pluri-strutturati, la ripartizione delle prestazioni tra le imprese raggruppate, anche nell’ipotesi di raggruppamento di tipo “orizzontale”, non può che essere rimessa alle loro scelte organizzative: scelte il cui criterio direttivo non può che essere la coerenza di quella ripartizione con le capacità ed i titoli abilitativi da ciascuna posseduti, ferma restando la comune responsabilità solidale in ordine al servizio oggetto di appalto complessivamente considerato.
Con specifico riferimento alla fattispecie in esame, nessuna specifica allegazione viene formulata dalla parte appellante in ordine alla carenza, in capo alle imprese raggruppate, dei titoli necessari all’esecuzione del servizio oggetto di gara, così come contenutisticamente declinato dalla relativa lex specialis e tra esse ripartito alla stregua delle dichiarazioni presentate in sede partecipativa.
Quanto ad esempio al requisito di cui all’art. 3, lett. e), del disciplinare di gara (iscrizione nell’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali), deve osservarsi che il successivo art. 4 prevede che esso “deve essere posseduto dalle imprese che svolgeranno le prestazioni contrattuali per cui è richiesta l’iscrizione all’Albo”: ebbene, se da un lato la previsione conferma la frazionabilità delle prestazioni contrattuali pur nel contesto di un RTI di tipo “orizzontale” (l’unico che, come correttamente dedotto dalla parte appellante, è contemplato dalla lex specialis), dall’altro lato essa non richiede che il requisito de quo debba sussistere in capo all’impresa associata non preposta all’esecuzione delle prestazioni (raccolta e trasporto) per le quali esso è necessario (come, nella specie, la mandante, cui è affidata l’esecuzione del solo “smaltimento”, sul quale si dirà meglio infra).
Parallelamente, non potrebbe imputarsi alla società mandataria la carenza dell’AIA, come fa la parte appellante, sia perché non è preposta all’attività di smaltimento, per la quale essa è necessaria, sia perché, comunque, la stessa disciplina di gara (recte, il capitolato tecnico) ammette che, ai fini dell’esecuzione del suddetto segmento della complessiva prestazione, l’impresa concorrente (a titolo individuale o collettivo) possa avvalersi di un impianto di cui non abbia la diretta disponibilità (sebbene munito dei necessari titoli autorizzativi).
Deve solo aggiungersi che le conclusioni esposte sono in linea con quelle raggiunte dalla giurisprudenza maggioritaria, dalla quale si ricava il principio interpretativo secondo cui “il testuale riferimento legislativo al "tipo" di prestazione (e non alla prestazione concretamente svolta, e così ad un concetto astratto piuttosto che concreto) va inteso, insomma, nel senso che ciascun operatore economico dev'essere in grado, per le competenze possedute, di partecipare all’esecuzione dell’unica prestazione; quest’ultima, poi, altro non può essere che la prestazione oggetto del servizio da affidare (in tal senso, cfr. Cons. Stato, V, 16.04.2013, n. 2093) e le competenze non possono essere che quelle richieste dal bando di gara. Ciò significa che la diversità delle prestazioni, tale da escludere il carattere orizzontale del raggruppamento, ricorre solo se ciascuna delle imprese possiede specializzazioni e competenze diverse da quelle richieste dal bando, finalizzate all’esecuzione di un’attività non corrispondente a quella oggetto del contratto” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 51 del 04.01.2018).
La citata giurisprudenza recepisce infatti la tesi interpretativa secondo cui la simmetria tra competenze possedute e prestazioni assunte dalle imprese raggruppate, quale principio costitutivo del RTI, deve essere verificata (non in chiave assoluta ed astratta, ma) nel prisma delle prescrizioni di gara: sì che solo qualora la ripartizione delle prestazioni all’interno del raggruppamento sia tale da spezzare quel rapporto simmetrico, potrebbe affermarsi il carattere derogatorio della formula organizzativa prescelta rispetto al sistema di qualificazione che presiede alla disciplina della partecipazione delle imprese alla specifica gara.

APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALI: Partecipate, illegittima la fuoriuscita del Comune che non motiva le cause del recesso.
Il Comune azionista non può recedere «ad nutum» da una società partecipata, adducendo in modo generico le inefficienze e gli inadempimenti in cui la società è incorsa nel disimpegno delle prestazioni convenute nel contratto di servizio. Infatti, il recesso dalla società è un procedimento vincolato all'osservanza di regole ben precise, predeterminate dal codice civile e dallo statuto sociale, sicché se il socio opera trascurando questo onere il recesso deve considerarsi illegittimo e inefficace.

Sulla base di queste argomentazioni, la Corte d'appello di Brescia, con la sentenza n. 621/2019, ha rigettato il ricorso proposto da un Comune avverso la sentenza del Tribunale di Brescia e ha confermato l'illegittimità del recesso dell'ente da una società operante nel settore del servizio idrico integrato.
Le motivazioni del recesso
Il recesso era stato deciso con una delibera del Consiglio comunale, che a sostegno della scelta di uscire dalla società adduceva i seguenti elementi:
   • una serie di inefficienze, inadempimenti e ritardi nella gestione del servizio idrico, con la conseguente esigenza dell'amministrazione di utilizzare una diversa modalità di affidamento per la gestione del servizio;
   • il dissenso, già manifestato dall'ente in sede di assemblea dei soci, rispetto a un'operazione di riassetto organizzativo del gruppo, che ha portato la società ad assumere la configurazione organizzativa di una holding pura, e a gestire quindi il servizio pubblico in via indiretta, attraverso la partecipazione nelle società operative del gruppo.
La specifica causa di recesso dalla società su cui verte la controversia è la «modifica dell'oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell'attività della società» (articolo 2437, lettera a) e articolo 31 dello statuto sociale).
La decisione dei giudici
Il Tribunale di Brescia aveva dato torto al Comune, osservando che il diritto di recesso del socio sorge solo in presenza di una delle cause previste dalla legge o dallo statuto, per cui spetta al socio recedente, a fronte di eventuali contestazioni, provare la sussistenza della causa di recesso (articolo 2697 del codice civile), mentre l'ente convenuto non aveva assolto a questo onere.
Sia il Tribunale, sia la Corte d'Appello di Brescia hanno concordato nel ritenere che il riassetto organizzativo della società con la conseguente trasformazione di quest'ultima da società operativa a holding pura non rappresentava un elemento indicatore di un cambiamento dell'oggetto sociale, perché a seguito delle modifiche statutarie il medesimo servizio pubblico locale sarebbe stato realizzato con diverse modalità operative.
Secondo i giudici dell'appello, il Comune non ha esercitato in forma corretta il recesso dalla società neppure sotto il profilo dell'affidamento del servizio, adducendo lagnanze sulle inefficienze gestionali.
Il recesso dalla società poteva essere attivato in base alle previsioni statutarie, che effettivamente consentivano all'ente socio di sganciarsi dal soggetto gestore nel caso di gravi e reiterate violazioni del contratto di servizio. Però, lo statuto prescriveva l'adozione di un'apposita procedura preventiva, ossia la convocazione del comitato del controllo analogo, quale organo consultivo tra i soci per l'esercizi del controllo analogo sulla gestione sociale, che è stata invece trascurata.
La negligenza è costa cara al Comune soccombente, a conferma del fatto che la gestione dei rapporti tra l'ente locale e le partecipate esige una particolare cura nell'osservanza delle regole civilistiche, oltre che del diritto amministrativo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019).

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare l’ammissione di un concorrente alla gara - Iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali da parte di ciascun componente il raggruppamento temporaneo di imprese.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione – Dies a quo – Individuazione.
  
Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di imprese – Albo Nazionale Gestori Ambientali - Iscrizione - Da parte di ciascun componente il raggruppamento temporaneo di imprese – Necessità - Limiti
   Il termine di impugnazione di esclusioni e ammissioni (ma il problema si pone chiaramente soprattutto per le ammissioni che di regola non sono specificamente motivate –a differenza delle esclusioni– e le cui cause di illegittimità di regola non sono conoscibili dagli altri concorrenti se non quando essi sono posti nelle condizioni di conoscere la documentazione che correda la istanza di partecipazione) non può farsi decorrere sic et simpliciter dalla pubblicazione sul profilo del committente del verbale della seduta che reca esclusioni e ammissioni (salvo che sia pubblicata anche la documentazione amministrativa presentata dai concorrenti) bensì, come stabilito dall’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 “dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione” (1).
  
Tutti i componenti di un raggruppamento temporaneo dì imprese, partecipanti ad una gara per l’affidamento di lavori compresi nella categoria OG 12, devono essere in possesso dell’iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali, quale requisito di natura soggettiva, ma, in coerenza con il predetto istituto, è consentito alle imprese associate procedere al cumulo delle “classi” di iscrizione al fine di soddisfare i requisiti di esecuzione richiesi nel bando, in ragione dell’importo dei lavori che ciascuna di esse deve eseguire all’interno della categoria OG12 (2).
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   (1) Il Tar ha ricordato l’art. 29, comma 1, periodi secondo terzo e quarto, d.lgs. n. 50 del 2016 stabiliscono letteralmente che “al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell' art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sono altresì pubblicati, nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito della verifica della documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui all'art. 80, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali. Entro il medesimo termine di due giorni è dato avviso ai candidati e ai concorrenti, con le modalità di cui all'art. 5-bis, d.lgs. 07.03.2005, n. 82, recante il Codice dell'amministrazione digitale o strumento analogo negli altri Stati membri, di detto provvedimento, indicando l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti. Il termine per l'impugnativa di cui al citato art. 120, comma 2-bis, c.p.a. decorre dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione”.
A sua volta l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. prevede che l’impugnazione di esclusioni e ammissioni vada proposta nel termine di trenta giorni “decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'art. 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici”.
Come si vede le due previsioni non sono perfettamente coordinate, perché la prima (cioè quella dell’articolo 29) è stata inserita nel codice degli appalti dal d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, mentre la seconda, cioè quella del c.p.a., è stata introdotta all’interno di quest’ultimo dal d.lgs. n. 50 del 2016; in altri termini il legislatore che nel 2017 ha modificato il codice degli appalti (inserendo le previsioni in punto di comunicazione della pubblicazione nel sito web e di decorrenza dell’impugnazione dalla data di concreta disponibilità degli atti, corredati di motivazione) non ha coordinato queste nuove previsioni con quella del comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. che rifletteva l’originario testo dell’articolo 29.
È chiaro però che, data anche la posteriorità delle modifiche all’art. 29, nell’opera di coordinamento è necessariamente a quest’ultimo che occorre dare la prevalenza.
Ha quindi affermato il Tar che la mera pubblicazione di esclusioni e ammissioni infatti di regola non garantisce la “concreta disponibilità dell’atto corredato da motivazione”, come richiede l’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 o, meglio, il più delle volte la pubblicazione sarà sufficiente per le esclusioni, dato che esse recano la motivazione e l’interessato ovviamente conosce la documentazione amministrativa che correda la sua istanza di partecipazione, ma non per le ammissioni, perché normalmente l’ammissione si basa su una mera presa d’atto del possesso dei requisiti richiesti e colui che sarebbe legittimato alla impugnazione –che ovviamente non conosce la documentazione amministrativa presentata dagli altri concorrenti– perché possa dirsi integrata la concreta disponibilità dell’atto corredato da motivazione ha bisogno di conoscere tale documentazione.
Come sottolineato in un recente precedente del Consiglio di Stato (sez. V, 27.12.2018, n. 7256), “la concreta disponibilità dalla quale è fatto ora decorrere il termine di impugnazione è nozione diversa dalla piena conoscenza di cui all’art. 41, comma 2, c.p.a.; il legislatore, infatti, con detta formula, ha inteso riferirsi al momento in cui l’impresa è venuto in possesso dell’atto –perché comunicatole ovvero pubblicato con il suo intero contenuto o, ancora, in mancanza dell’uno e dell’altro, ottenuto mediante accesso ai documenti– e ne ha compreso l’effettiva illegittimità; la “piena conoscenza”, invece, è conseguita per acquisizione della notizia della lesione prodotta da un provvedimento amministrativo alla propria posizione soggettiva, anche a prescindere dalla conoscenza del contenuto dell’atto”.
Nella medesima direzione si è espressa ancor più di recente la Corte di Giustizia europea con l’ordinanza 14.02.2019 secondo cui la decadenza prevista dalla normativa italiana richiede che i termini prescritti per proporre ricorso “inizino a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente abbia avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza dell’asserita violazione” che in concreto lamenta sicché le previsioni dell’art. 120 c.p.a. risultano compatibili con il diritto europeo “a condizione che i provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti tale da garantire che detti interessati siano venuti o potessero venire a conoscenza della violazione del diritto dell'Unione dagli stessi lamentata”.
   (2) Il Tar ha ricordato quanto precisato dall’Anac nella delibera n. 498 del 10.05.2017, secondo cui “nel confermare che l’iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali costituisce un requisito di natura soggettiva, che tutte le imprese in ATI devono possedere, quanto alle classi e categorie di iscrizione richieste nel bando, si osserva quanto segue. Come emerge dalla disciplina di riferimento (art. 212, d.lgs. n. 152 del 2006 e d.m. n. 140 del 2010), l’iscrizione al predetto Albo è articolata in “categorie” corrispondenti al settore di attività dell’impresa, e “classi” relative alla popolazione complessivamente servita, alle tonnellate annue di rifiuti gestiti, all’importo dei lavori di bonifica cantierabili (art. 8, d.m. n. 140 del 2010). Si tratta, quindi, di un’iscrizione basata, oltre che su requisiti di moralità (art. 10, d.m. n. 140 del 2010), anche su requisiti di idoneità tecnica e finanziaria (art. 11, d.m. n. 140 del 2010) inerenti la capacità di svolgere un determinato servizio/lavoro in ordine ai su indicati criteri di assegnazione delle “classi”. Consegue da quanto sopra, che in ossequio alle caratteristiche ed alle finalità dell’istituto del RTI, pur confermando la necessità che tutti i componenti del raggruppamento debbano essere in possesso dell’iscrizione all’Albo, quale requisito di natura soggettiva, in coerenza con il predetto istituto appare consentito alle imprese associate procedere al cumulo delle “classi” di iscrizione al fine di soddisfare i requisiti di esecuzione richiesi nel bando, in ragione dell’importo dei lavori che ciascuna di esse deve eseguire all’interno della categoria OG12. Tale interpretazione è conforme anche al principio del favor partecipationis, poiché di fatto consente una maggiore partecipazione alle gare d’appalto da parte delle piccole e medie imprese iscritte all’Albo ed operanti nel settore”.
A sostegno di questa impostazione può anche richiamarsi la recente sentenza della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 6 del 27.03.2019, che ha affrontato una analoga problematica, sia pure relativa alla attestazione SOA, affermando il principio secondo cui in caso di raggruppamento temporaneo di imprese ogni componente del raggruppamento deve “coprire” con la propria attestazione la quota di lavori che si è impegnata a eseguire (TAR Valle d’Aosta, sentenza 23.04.2019 n. 22 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).  

PATRIMONIOCimiteri islamici, niente esclusiva per le associazioni. La sepoltura non può essere subordinata a un certificato religioso. 
Problemi di convivenza anche nei luoghi di culto e, in particolare, nei cimiteri.
Se ne occupa il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II (sentenza 20.04.2019 n. 383), regolando la gestione di un’area riservata a fedeli musulmani che chiedono il rispetto delle loro tradizioni religiose.
E fissando il principio che è possibile utilizzare la collaborazione dei privati per la corretta gestione delle aree in concessione, ma  non affidare un ruolo troppo rilevante a una singola associazione.
L’orientamento verso la Mecca, la vestizione, il coinvolgimento di religiosi islamici pongono una serie di problemi ai Comuni. Il Comune di Bergamo aveva, in questo caso, risolto parte dei problemi assegnando alla Comunità islamica un’area in diritto di superficie, attrezzata e gestita dal Centro culturale islamico. In questo modo, l’orientamento e le altre forme della liturgia coranica potevano essere rispettate accogliendo chi lo richiedesse, con una professione di fede attestata dall’associazione religiosa.
Il Comune aveva solo chiesto che non si facesse distinzione di sesso, censo, etnia o tradizione, nella verifica da parte dell’associazione, garantendo il diritto di libertà di espressione del rito religioso.
In altri termini, l’associazione culturale avrebbe dovuto verificare l’effettiva professione di fede islamica, garantendo la possibilità a qualsiasi musulmano, qualunque fosse la sua tradizione, di ottenere un’adeguata accoglienza. Questo equilibrio è stato tuttavia contestato da altre associazioni islamiche, ritenendo che non si potesse affidare a una specifica associazione l’attestazione di appartenenza alla specifica fede. Di qui la controversia, che è stata risolta dai giudici amministrativi prendendo atto che l’obiettivo da raggiungere era quello di migliorare il servizio ed evitare usi scorretti, sicché quando ciò ha coinvolto più associazioni, tutte rappresentative, è sembrato discriminatorio riservare in esclusiva l’organizzazione del servizio a un’unica  associazione privata. Occorre, infatti, coniugare i principi di libertà religiosa con le necessità organizzative, stabilendo ad esempio adeguati strumenti di controllo. Ciò tanto più che il settore islamico, nel locale cimitero, era stato costruito con oneri a carico di una specifica organizzazione. Il Tar ha quindi escluso che, in aggiunta alla richiesta dei familiari o alle disposizioni del defunto, sia possibile richiedere un attestato di fede, rilasciato da una specifica associazione privata circa la pratica del credo religioso.
Prevale, quindi, il diritto alla libertà di espressione religiosa: chiunque può accedere al rito funebre islamico senza passare per una specifica verifica affidata ad un’associazione privata. Quindi, i Comuni possono utilizzare la collaborazione dei privati per la corretta gestione delle aree in concessione, ma non possono affidare un ruolo troppo rilevante ad una singola associazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.04.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIANon è il danno che fa il reato. La condotta in sé, pur se non lesiva, configura l’illecito. L’intervento della Cassazione nel caso di violazioni nella gestione di rifiuti pericolosi.
Anche se non c'è danno all'ambiente è condannato chi recupera rifiuti pericolosi violando le prescrizioni dell'Aia. È la condotta in sé che configura l'illecito, senza che sia necessario un danno effettivo al bene tutelato. In tal caso l'ambiente.
Questo è il principio posto dalla Corte di Cassazione -Sez. III penale- con la sentenza 18.04.2019 n. 17056, nel caso di violazioni compiute da parte di un amministratore di società alle prescrizioni inerenti alle modalità di gestione dei rifiuti pericolosi impartite dall'amministrazione provinciale.
In particolare all'imputato era stato contestato di avere effettuato nella sua qualità di dirigente aziendale, un'attività diretta al recupero di rifiuti pericolosi, le cui modalità contrastavano con le prescrizioni individuate in apposita autorizzazione integrata, emessa dalla provincia di Asti, la quale ne delimitava i confini e le modalità.
A seguito di tale condotta, accertata durante un accesso ispettivo da parte di un pubblico ufficiale, durante il quale era emersa la presenza di opere in loco che provavano in maniera indiscutibile la condotta illecita, conseguiva, come ovvio, la contestazione del reato di cui all'art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006, il cosiddetto Testo unico ambientale, che sanziona il trattamento dei rifiuti pericolosi e non al di fuori delle prescrizioni regolamentari che ne governano lo stoccaggio.
Nel procedimento di merito, sulla base delle dichiarazioni rese del pubblico ufficiale che ne confermavano il precedente operato, era stato possibile raggiungere la prova positiva circa la condotta illecita dalla quale conseguiva la condanna per il reato di cui 29.quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006.
L'imputato, ritenendosi leso nei propri diritti, ricorreva per Cassazione al fine di ottenere l'annullamento della decisione di secondo grado.
Osservava il ricorrente come la figura di reato applicata a carico del suo assistito, da parte dei giudici della Corte d'appello, veniva prevista dall'ordinamento per altri casi e condotte ben diverse rispetto a quella contestata all'imputato, la quale era comunque estranea alle previsioni normative.
In particolare il legale, nella sua tesi difensiva, a sostegno della propria linea diretta a ottenere l'annullamento della sentenza di secondo grado, osservava che per potersi ritenere configurabile il reato contestato al ricorrente era a ogni modo necessario un danno effettivo all'interesse tutelato dalla norma, costituito dall'integrità dell'ambiente, che la previsione normativa da parte dell'ordinamento della figura di reato mira a tutelare.
L'applicazione, infatti, di una sanzione penale a una condotta come quella contestata al ricorrente configurerebbe l'assurdo giuridico di punire una condotta in concreto priva di ogni effetto lesivo per il bene tutelato dalla norma e sostanzialmente innocua.
Il procedimento, dopo avere esaurito il proprio corso, veniva deciso da parte degli ermellini con la sentenza recentemente depositata.
Nella motivazione della sentenza n. 17056/2019 viene fatto oggetto d'esame, come ovvio, il motivo di ricorso afferente l'effettivo contenuto e la concreta estensione della figura di reato applicata nel caso di specie.
Gli ermellini prendono le mosse delle modalità d'accertamento della condotta illecita, compiuta, nel caso di specie, da parte di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni.
Si trattava nel caso di specie di un funzionario dell'Arpa, il quale nel corso di un accesso ispettivo aveva verificato la presenza di tutti gli elementi che portavano a ritenere che l'attività di recupero dei rifiuti veniva effettuata al di fuori e contrariamente alle prescrizioni impartite dall'amministrazione provinciale che, ai sensi della normativa vigente, era l'organo competente in materia.
Il pubblico ufficiale confermava nel corso del procedimento di merito il suo operato, sotto l'aspetto della prova del fatto illecito la norma che prevedeva la sanzione penale era stata legittimamente applicata non potendosi in alcun modo discutere l'effettiva esistenza del fatto costituente reato.
La motivazione passa a esaminare l'ulteriore aspetto rappresentato da parte del ricorrente riguardante, invece, il contenuto normativo del reato dal quale discende la concreta operatività del reato previsto dall'art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006.
La questione viene risolta da parte dei giudici della Corte suprema di cassazione sulla base dell'esame del contenuto della disposizione; dalla sua osservazione, infatti, emerge indiscutibilmente come la norma non compia alcun riferimento o menzione all'entità della condotta e alla sua concreta lesività; in altre parole dall'esame del dettato normativo risulta evidente come non abbia alcun peso nel disegno legislativo l'eventuale carattere pericoloso della condotta, la quale risulta, proprio per il suo carattere meritevole di punizione, anche nel caso in cui si concretizzi in una semplice violazione formale delle prescrizioni impartite dall'amministrazione provinciale.
La tesi difensiva pertanto si palesa come insostenibile, in quanto fondata su di una lettura della norma palesemente errata e non rispondente al suo contenuto e alla sua funzione.
Infatti, proseguono i magistrati della corte suprema di Cassazione il dettato normativo delinea in maniera piuttosto ampia la condotta illecita, senza che venga prevista alcuna condizione di punibilità per l'applicazione della sanzione, che diviene operativa e perfettamente applicabile nel caso di realizzazione degli elementi costitutivi della figura di reato.
Tale conclusione consegue alla natura riconosciuta all'art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006. Tale illecito, infatti, secondo i magistrati della corte suprema presenta una indiscutibile natura formale, con la conseguenza che per la sua configurabilità non divengono necessari elementi ulteriori rispetto alla condotta.
L'applicazione della sanzione, infatti, discende in tali casi dalla mera violazione formale della normativa, la quale viene ritenuta da parte del legislatore di per sé lesiva del bene tutelato dall'ordinamento.
La conclusione sarebbe diametralmente opposta, invece, nel caso in cui al reato previsto dall'art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006 venisse attribuita una natura sostanziale, in tali casi, infatti, la semplice violazione formale delle norme non sarebbe sufficiente a ritenere configurabile il reato che per la sua perfezione, richiederebbe altresì l'ulteriore elemento di una lesione al bene ambiente alla cui tutela è preordinata la norma.
L'opinione dei giudici della Corte suprema, pertanto, è tale da estendere la portata applicativa della norma la quale viene ritenuta operativa anche nel solo caso di una semplice violazione della normativa prevista per la gestione dei rifiuti
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019).

APPALTI: Niente esclusione automatica dall’appalto con il rinvio a giudizio per grave illecito professionale.
Secondo il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 18.04.2019 n. 897, la richiesta di rinvio a giudizio dell'impresa può legittimare l'esclusione dalla gara, ma la stazione appaltante deve motivare il relativo provvedimento in modo adeguato, basandosi su accertamenti specifici e non sull'accettazione acritica delle valutazioni del pubblico ministero.
L'impugnazione
La stazione appaltante ha escluso la ricorrente da una procedura aperta «per l’affidamento, tramite accordo quadro con un unico operatore, dei lavori occorrenti per la realizzazione di interventi di rimozione fibre di vetro e bonifica amianto», in quanto colpita da una richiesta di rinvio a giudizio per illecito amministrativo (relativa ai delitti previsti dagli articoli 319, 319-bis, 321 e 353, comma 1, codice penale).
Il provvedimento era fondato esclusivamente sulle valutazioni espresse dal pubblico ministero, come compscritto nel verbale di gara. A propria difesa, la stazione appaltante si è limitata a ribadire che la prerogativa risulta rimessa direttamente dall'articolo 80, comma 5, lettera c) del codice dei contratti per il quale «le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alle gare i concorrenti che si siano resi colpevoli di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la loro integrità od affidabilità», qualora ciò sia dimostrato con «mezzi adeguati».
La replica della ricorrente eccepiva la scorretta applicazione della norma sostenendo che la stessa, per legittimare i provvedimenti estromissivi, imporrebbe l'accertamento definitivo delle violazioni e, soprattutto, adducendo il difetto di motivazione e di istruttoria del provvedimento impugnato, che si sarebbe limitato a un «mero richiamo per relationem ai contenuti della richiesta di rinvio a giudizio, non operando alcuna ulteriore valutazione o approfondimento istruttorio sulla vicenda».
In sostanza, il responsabile univoco del procedimento avrebbe dato «per assodato tutto quello che la Procura della Repubblica ha contestato come capo d’imputazione».
La decisione
Il ragionamento della ricorrente persuade il giudice. In sentenza si puntualizza che, in via generale, anche «i fatti oggetto di accertamento in un procedimento penale ancora in corso possano essere considerati mezzi adeguati da parte di un’amministrazione aggiudicatrice, per dimostrare che un operatore economico si sia reso responsabile di gravi illeciti professionali». Non è necessario quindi un provvedimento definitivo di condanna.
Il problema, e quindi l'aspetto critico del provvedimento di esclusione adottato, è che la stazione appaltante ha aderito acriticamente alle conclusioni del pubblico ministero. E in questo senso, pur potendo il rinvio a giudizio determinare l'adozione di un provvedimento di esclusione è altresì vero, come sostenuto dalla Corte di Giustizia (C-124/17 del 24.10.2018, p. 26), che le amministrazioni aggiudicatrici «devono valutare i rischi cui potrebbero essere esposte aggiudicando un appalto a un offerente la cui integrità o affidabilità sia dubbia».
La circostanza che la norma (articolo 80, comma 5, lettera c) attribuisca un ampio potere discrezionale alla stazione appaltante impone di raggiungere un punto di equilibrio «tra la tutela della concorrenza e le esigenze» della stessa che sono tenute a «giustificare l’esercizio dei più ampi poteri discrezionali loro attribuiti, mediante congrua motivazione».
La norma del codice rapporta l'ampio potere della stazione appaltante correlandone l'esercizio ad un «concetto giuridico indeterminato», e consentendo di declinare, caso per caso, «la condotta dell’operatore economico colpevole di gravi illeciti professionali».
La categoria dei concetti giuridici a contenuto indeterminato, prosegue il giudice, «attiene a una particolare tecnica legislativa nella quale, per individuare il fatto produttivo di effetti, la norma non descrive la fattispecie astratta in maniera tassativa ed esaustiva, ma rinvia, per la sussunzione del fatto concreto nell'ipotesi normativa, all'integrazione dell'interprete, mediante l'utilizzo di concetti che vanno completati e specificati con elementi o criteri extragiuridici (Consiglio di Stato, sentenza n. 5467/2017)».
Un potere così ampio deve trovare un suo bilanciamento nell'obbligo di motivazione rafforzato che implica una verifica autonoma sulla gravità dell'illecito professionale. Mentre nel caso specifico non sono emerse valutazioni «dei fatti indicati nel procedimento penale» mancando «finanche la loro descrizione, così come degli elementi di prova ivi raccolti, non essendovi alcun riferimento alle risultanze delle annotazioni, intercettazioni telefoniche, verbali di interrogatorio e altro su cui è fondata la richiesta di rinvio a giudizio» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019).

APPALTI: Richiesta di rinvio a giudizio e provvedimento di esclusione da una gara d’appalto.
Una richiesta di rinvio a giudizio non è certamente ostativa all’adozione di un provvedimento di esclusione da una gara d’appalto, non essendo infatti a tal fine necessario che il procedimento penale avviato a carico di un concorrente si sia concluso con una sentenza di condanna a suo carico.
Tuttavia, una richiesta di rinvio a giudizio, sebbene per gravi reati, in assenza di un autonomo accertamento dei fatti idonei a configurare un grave illecito professionale da parte della stazione appaltante, e di una congrua motivazione sul punto, non può di per sé essere sufficiente a giustificare un provvedimento amministrativo di esclusione, spesso suscettibile di arrecare gravissimi pregiudizi all’operatore economico e, in taluni casi, la cessazione della sua attività
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 18.04.2019 n. 897 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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I.1) Le vicende poste a fondamento del presente giudizio traggono origine da un procedimento penale, in cui l’amministratore della società ricorrente è accusato di aver messo a disposizione le proprie maestranze per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione di un centro estetico di proprietà della figlia di un funzionario comunale, al fine di essere favorito nella procedura per l’affidamento dell’appalto n. 67/2011, aggiudicatole dal Comune di Milano, in data 01.08.2012.
In particolare, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio dell’operatore economico -OMISSIS- formulata dal pubblico ministero, con il provvedimento impugnato, il Comune resistente ha dato applicazione all’art. 80, c. 5, lett. c), del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50, secondo cui, le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alle gare i concorrenti che si siano resi colpevoli di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la loro integrità od affidabilità, qualora ciò sia dimostrato con “mezzi adeguati”.
I.2) Sotto un primo aspetto, la ricorrente deduce la violazione di detta norma, sostenendo che la stessa presupporrebbe l’esistenza di un “accertamento definitivo”, non essendo a tal fine sufficiente una richiesta di rinvio a giudizio, come ha invece avuto luogo nel caso di specie.
Sotto altro profilo, l’istante lamenta il difetto di motivazione e di istruttoria del provvedimento impugnato, che si sarebbe limitato ad un “mero richiamo per relationem ai contenuti della richiesta di rinvio a giudizio”, non operando “alcuna ulteriore valutazione o approfondimento istruttorio sulla vicenda”, limitandosi invece “a dare acriticamente per assodato tutto quello che la Procura della Repubblica ha contestato come capo d’imputazione”.
II) Ritiene il Collegio che, in linea generale, anche i fatti oggetto di accertamento in un procedimento penale ancora in corso possano essere considerati “mezzi adeguati” da parte di un’amministrazione aggiudicatrice, per dimostrare che un operatore economico si sia reso responsabile di gravi illeciti professionali.
Come recentemente affermato dalla Corte di Giustizia, nell’ambito delle “ricerche e verifiche” che le stazioni appaltanti possono condurre per accertare l’integrità di un operatore economico, laddove esista “una procedura specifica disciplinata dal diritto dell'Unione o dal diritto nazionale per perseguire determinate violazioni, e in cui particolari organismi sono incaricati di effettuare indagini al riguardo, l'amministrazione aggiudicatrice, nell'ambito della valutazione delle prove fornite, deve basarsi in linea di massima sull'esito di siffatta procedura” (C-124/17 del 24.10.2018, punti 24-25).
Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la Corte di Giustizia non ha affermato l’impossibilità per una stazione appaltante di procedere ad un’autonoma valutazione dei fatti oggetto di accertamento in sede penale, statuendo invece che “occorre tener conto delle funzioni rispettive, da un lato, delle amministrazioni aggiudicatrici e, dall'altro, delle autorità investigative. Mentre queste ultime hanno il compito di stabilire la responsabilità di determinati agenti nel commettere una violazione a una norma di diritto, accertando con imparzialità la realtà di fatti che possono costituire una siffatta violazione, nonché punendo il comportamento illecito pregresso di detti agenti, le amministrazioni aggiudicatrici devono valutare i rischi cui potrebbero essere esposte aggiudicando un appalto a un offerente la cui integrità o affidabilità sia dubbia” (v. punto 26).
Ad analoghe conclusioni è giunta la giurisprudenza amministrativa, ritenendo che, in linea generale, l'art. 80, c. 5, lett. c) cit., rimetta alla stazione appaltante il potere di apprezzamento delle condotte dell'operatore economico che possono integrare un “grave illecito professionale”, tale da metterne in dubbio la sua integrità o affidabilità, anche oltre le ipotesi elencate nel medesimo articolo (C.S., Sez. V, 03.09.2018 n. 5142).
In particolare, non è indispensabile che i gravi illeciti professionali posti a fondamento della sanzione espulsiva del concorrente dalla gara siano accertati con sentenza, anche se non definitiva, essendo infatti sufficiente che gli stessi siano ricavabili da altri gravi indizi (C.S., Sez. V, 27.02.2019 n. 1367, 20.03.2019 n. 1846).
III.1) Più in generale, il Collegio evidenzia che l’ampiezza della formulazione utilizzata dall’art. 57, c. 4, lett. c), della Direttiva 2014/24, consentendo di escludere i partecipanti che abbiano commesso “gravi illeciti professionali”, riconosce un ampio potere discrezionale alle amministrazioni aggiudicatrici, ciò che ha indotto la giurisprudenza a dubitare della legittimità degli automatismi previsti dall’art. 80, c. 5, lett. c) cit., e più recentemente, lo stesso legislatore, a modificare tale norma.
In particolare, a fronte del quesito posto dal TAR Campania (ordinanza n. 5893 del 13.12.2017), nelle proprie conclusioni rese nella causa C-41/18 in data 07.03.2019, l’Avvocato Generale ha affermato che la normativa italiana, nella parte in cui precludeva la partecipazione ad un operatore economico che non avesse contestato in giudizio la risoluzione anticipata di un precedente contratto di appalto, “sottrae all’amministrazione aggiudicatrice la facoltà di valutare pienamente l’affidabilità del candidato” (v. punto 53), restringendone indebitamente il campo di azione (v. punto 55. Un’analoga questione è stata peraltro sollevata da C.S., 03.05.2018 n. 2639).
A sua volta, l’art. 5, c. 1, del D.L. 14.12.2018, n. 135, convertito con L. 11.02.2019 n. 12, ha modificato l’art. 80, c. 5 cit., consentendo alle amministrazioni aggiudicatrici di escludere il concorrente cha abbia subito una risoluzione per inadempimento, una condanna al risarcimento, o altre sanzioni, anche a fronte dalla loro mancata contestazione, richiedendo tuttavia che, in tali casi, “la stazione appaltante motiva anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa” (v. nuovo comma c-ter).
III.2) Alla luce di quanto sopra evidenziato, il Collegio dà atto che, ai fini dell’individuazione dei “gravi illeciti professionali”, si assiste ad una tendenziale riduzione delle fattispecie generali e astratte normativamente previste, venendo tale onere direttamente demandato alle amministrazioni aggiudicatrici.
Il punto di equilibrio tra la tutela della concorrenza e le esigenze delle stazioni appaltanti, è conseguentemente spostato in favore di queste ultime, che essendo chiamate ad individuare in concreto le condotte suscettibili ad integrare un “grave illecito professionale”, devono perciò giustificare l’esercizio dei più ampi poteri discrezionali loro attribuiti, mediante congrua motivazione.
III.3) Come espressamente affermato da C.S., Sez. III, 23.11.2017, n. 5467, l’art. 80, c. 5, lett. c) cit. ha infatti esteso il potere discrezionale delle amministrazioni aggiudicatrici di escludere i concorrenti da una gara d’appalto, correlandone l’esercizio ad un “concetto giuridico indeterminato”, e consentendo loro di declinare, caso per caso, la condotta dell’operatore economico “colpevole di gravi illeciti professionali”.
Come noto, la categoria dei concetti giuridici a contenuto indeterminato, attiene ad una particolare tecnica legislativa nella quale, per individuare il fatto produttivo di effetti, la norma non descrive la fattispecie astratta in maniera tassativa ed esaustiva, ma rinvia, per la sussunzione del fatto concreto nell'ipotesi normativa, all'integrazione dell'interprete, mediante l'utilizzo di concetti che vanno completati e specificati con elementi o criteri extragiuridici (C.S. n. 5467/2017 cit.).
A fronte di concetti giuridici indeterminati, l’Amministrazione dispone pertanto di un più ampio potere discrezionale, ciò che è potenzialmente suscettibile di pregiudicare il principio di legalità, dovendo pertanto richiedersi l’adempimento di un onere motivazione rafforzato.
Conseguentemente, come ha avuto luogo nel caso di specie, quando la stazione appaltante esclude dalla partecipazione alla gara un operatore economico perché considerato colpevole di un grave illecito professionale non compreso nell'elenco dell'art. 80, c. 5 lett. c) cit., deve adeguatamente motivare l'esercizio di siffatta discrezionalità, ed in maniera ben più rigorosa ed impegnativa rispetto a quanto avviene a fronte delle particolari ipotesi esemplificate dal testo di legge (C.S., Sez. V, 02.03.2018 n. 1299).
III.4) In conclusione, in linea generale, non può pertanto che riconoscersi alla stazione appaltante la facoltà di escludere un concorrente, a prescindere dalla definitività degli accertamenti compiuti in sede penale, e dunque, anche a fronte di una richiesta di rinvio a giudizio, ferma restando tuttavia la necessità di accertare che ciò abbia in concreto avuto luogo a fronte di una congrua motivazione.
...
V) Pur comprendendo il disagio di un’Amministrazione che si trovi di fronte ad un aggiudicatario indagato in una vicenda penale che l’ha vista coinvolta, e dando atto che a fondamento dell’operato del Comune di Milano, vi sia l’intenzione di voler tutelare l’interesse pubblico, il Collegio non può tuttavia che annullare il provvedimento impugnato.
Come evidenziato nel precedente punto II), una richiesta di rinvio a giudizio non è certamente ostativa all’adozione di un provvedimento di esclusione da una gara d’appalto, non essendo infatti a tal fine necessario che il procedimento penale avviato a carico di un concorrente si sia concluso con una sentenza di condanna a suo carico. Tuttavia, una richiesta di rinvio a giudizio, sebbene per gravi reati, in assenza di un autonomo accertamento dei fatti idonei a configurare un grave illecito professionale da parte della stazione appaltante, e di una congrua motivazione sul punto, non può di per sé essere sufficiente a giustificare un provvedimento amministrativo di esclusione, spesso suscettibile di arrecare gravissimi pregiudizi all’operatore economico, e in taluni casi, la cessazione della sua attività.
In assenza di un’autonoma valutazione dei fatti posti a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio, a cui il provvedimento impugnato ha invece sostanzialmente rinviato, lo stesso deve essere annullato, avvallandosi in contrario il principio secondo cui, a fronte di un atto proveniente dal solo p.m., prima ancora che il g.i.p. si sia potuto pronunciare sulla sufficienza ed idoneità degli elementi acquisiti, e prima ancora di potersi difendere nel dibattimento dalle accuse rivoltegli, un operatore economico si vedrebbe preclusa la possibilità di partecipare alle gare d’appalto, ciò che violerebbe i principi fondamentali dell’ordinamento (artt. 27, c. 2, Cost. e 6, c. 2, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).
E’ certamente vero che, come evidenziato dalla difesa comunale e da Corte Giustizia C-124/17 cit., mentre nel processo penale deve essere raggiunta la prova piena degli elementi del reato contestato, un’amministrazione aggiudicatrice che intenda escludere un operatore economico, deve invece solo dimostrare i fatti che ne rendano dubbia l’integrità ed affidabilità. Come tuttavia indicato nel precedente punto III), il giudizio con cui una stazione appaltante accerti la sussistenza di un grave illecito professionale, non può essere incentrato su un automatismo, e pertanto, sulla mera sussistenza di una richiesta di rinvio a giudizio, richiedendo invece un’articolata ed autonoma motivazione.
In conclusione, ritiene il Collegio che il mero richiamo alla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero, posta a fondamento del provvedimento impugnato, in assenza di ulteriori ed autonome valutazioni da parte della stazione appaltante, non costituisca “mezzo adeguato” di prova della sussistenza di un grave illecito professionale di cui all’art. 80, c. 5, lett. c) cit., dovendosi pertanto accogliere il presente ricorso.
VI.1) Quanto sopra pare al Collegio in linea con le prime pronunce giurisprudenziali rese nella materia per cui è causa.
TAR Toscana, Sez. I, 01.08.2017 n. 1011, ha accolto un ricorso avverso un provvedimento di esclusione per difetto di motivazione, essendo quest’ultimo incentrato unicamente sulla mancata contestazione in giudizio di una risoluzione contrattuale da parte della concorrente, che tuttavia negava di essersi resa inadempiente. In particolare, il TAR Toscana ha ritenuto di non poter considerare consolidata la risoluzione contrattuale posta a fondamento del provvedimento impugnato, in difetto “di alcun accertamento giudiziale”.
TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 05.10.2018, n. 955, ha a sua volta accolto un ricorso avverso un’esclusione, a fronte di un difetto di motivazione del provvedimento impugnato, che si era limitato a richiamare un precedente inadempimento contrattuale, evidenziando la mancanza di un “percorso logico che ha condotto all'adozione del provvedimento qui gravato, lungi dallo svolgersi attraverso il compiuto accertamento in ordine alla presenza di elementi effettivamente, quanto concretamente, suscettibili di condurre all'espressione di un giudizio di non affidabilità”.
Nei casi sopra evidenziati, la giurisprudenza non ha pertanto ritenuto sufficiente il mero rinvio della stazione appaltante ad un fatto (precedente inadempimento contrattuale), richiedendone invece espressamente una sua valutazione autonoma.
A maggior ragione, nella fattispecie per cui è causa, in cui i fatti esterni a cui il provvedimento impugnato ha rinviato, sono oggetto di accertamento in un procedimento penale, avrebbero dovuto essere approfonditamente ed autonomamente valutati in sede amministrativa.
VI.2) In una fattispecie pressoché identica a quella per cui è causa, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 04.03.2019 n. 2771, ha infatti accolto un ricorso avverso l’esclusione da una gara d’appalto indetta dal Consiglio Superiore della Magistratura, disposta in considerazione della sussistenza di un procedimento penale per corruzione a carico dell’ex amministratore unico e legale rappresentante della concorrente.
In particolare, oltre a dare atto della pendenza del citato procedimento penale, il provvedimento impugnato si fondava sulla “esigenza del Consiglio di verificare l’affidabilità, complessivamente considerata, dell'operatore economico con cui andrà a contrarre per evitare, a tutela del buon andamento dell'azione amministrativa, che entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale; dato atto che i casi di gravi illeciti professionali sono elencati all'art. 80, c. 5, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016 e che, secondo la più recente e affermata giurisprudenza, detta elencazione è da ritenersi meramente esemplificativa; ritenuto pertanto che è facoltà dell'Amministrazione disporre l'esclusione in tutti i casi in cui è dubbia l'integrità e affidabilità del concorrente al di là delle tipizzazioni elencate dalla norma in questione”.
Analogamente al provvedimento impugnato nel presente giudizio, anche quello adottato dal C.S.M. era in sostanza incentrato sulla “gravità dei fatti contestati che, pur in pendenza di giudizio, rende dubbia l'integrità o l'affidabilità dei concorrenti”, ciò che non è stato tuttavia reputato sufficiente dal TAR Lazio, secondo cui, “la motivazione, invero, per come formulata nel provvedimento, che fa generico riferimento alla gravità dei fatti contestati, si risolve nella applicazione di una sanzione automatica, riconnessa alla sola pendenza del giudizio per il reato di corruzione. Un simile automatismo, tuttavia, non è previsto dalla norma primaria e, anzi, si palesa contrario alla stessa ratio dell’art. 80 del Codice, che impone alla stazione appaltante un particolare rigore probatorio qualora intenda escludere un concorrente in presenza di una fattispecie non ricompresa tra quelle menzionate dalla norma di legge o dalle linee guida”.
VI.3) Né in contrario il Collegio ritiene che le pronunce invocate dalla difesa comunale ostino all’accoglimento del ricorso.
Se infatti è pur vero che TAR Puglia, Bari, Sez. I, 13.04.2018 n. 562, confermata da C.S., Sez. V, 27.02.2019 n. 1367, ha ritenuto legittimo un provvedimento di esclusione motivato con riferimento ad un rinvio “per relationem, sia ai gravi indizi di colpevolezza”, che “al pericolo di reiterazione del reato”, ciò ha tuttavia avuto luogo a fronte di un’ordinanza applicativa di una misura cautelare disposta dal giudice delle indagini preliminari, e non invece, come nel caso di specie, di una mera richiesta formulata dalla pubblica accusa.
Quanto a TAR Lazio, Sez. II, 13.02.2019 n. 1931, ha affrontato una fattispecie in cui il g.i.p. aveva accolto la richiesta di giudizio immediato formulata dal p.m, ciò che, ai sensi dell’art. 453 c.p.p., presuppone che le prove a carico della persona sottoposta alle indagini siano ritenute “evidenti”, diversamente dal caso di specie, in cui la richiesta di rinvio a giudizio, oltre ad essere avanzata dal solo p.m., presuppone semplicemente la sussistenza di elementi sufficienti a sostenere l'accusa (nel caso sottoposto al TAR Lazio, la gravità delle prove raccolte, aveva inoltre giustificato, pochi giorni prima dell’adozione del provvedimento impugnato, l’applicazione della sanzione interdittiva cautelare del divieto di contrarre con la Pubblica Amministrazione).
La lettura di TAR Lazio n. 1931/2019 cit., pare in realtà confermare l’illegittimità del provvedimento in questa sede impugnato, atteso che, in quel caso, la stazione appaltante aveva espressamente richiamato specifici contenuti di taluni “verbali degli interrogatori”, ed in particolare, di uno riferito ad un proprio dipendente, indicando i fatti oggetto degli stessi, e ritenuti rilevanti ai fini della dimostrazione di un “grave illecito professionale”, diversamente da quanto avuto luogo nella fattispecie per cui è causa, in cui il Comune di Milano ha invece effettuato un rinvio generico ed omnicomprensivo alla richiesta di rinvio a giudizio.
Anche TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 08.01.2019 n. 21 e C.S., Sez. V, 20.03.2019 n. 1846 non paiono pertinenti, essendo entrambe riferite a fattispecie relative ad appalti secretati, disciplinate dall’art. 162 del D.Lgs. 50/2016, che deroga alla disciplina ordinaria, avendo infatti dette sentenze espressamente riconosciuto alle stazioni appaltanti la possibilità di valutare “ogni circostanza che possa incidere negativamente sulla corretta esecuzione dell’attività”, ciò che “supera necessariamente le cause di esclusione codificate nell’art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016, e anche il livello di accertamento previsto da tale norma”.
Quanto infine a C.S., Sez. III, 12.12.2018 n. 7022, osserva il Collegio che, in primo luogo, in quel caso, la gravità degli elementi raccolti nel procedimento penale era stata confermata dal giudice nelle indagini preliminari, che aveva infatti accolto la richiesta di sequestro inoltrata dal p.m., diversamente da quello per cui è causa, come detto, incentrato sulla sola richiesta di rinvio a giudizio. Inoltre, nella fattispecie decisa da C.S., n. 7022/2018 cit., “l’Amministrazione, nella motivazione del provvedimento di esclusione, ha dato conto non solo delle specifiche circostanze risultanti dal decreto di sequestro, ma anche dei profili per cui ha ritenuto rilevanti tali elementi”, ciò che non ha invece avuto luogo nel provvedimento oggetto del presente giudizio, che si è invece limitato ad un rinvio per relationem al procedimento penale.
In ogni caso, la fattispecie sottoposta a C.S., n. 7022/2018 cit. non è equiparabile a quella per cui è causa, essendo il provvedimento di esclusione ivi impugnato in realtà incentrato sulla mancata regolarità contributiva della ricorrente, che come detto, risultava altresì coinvolta in un procedimento penale, sul cui rilievo, il giudice di primo grado non si era peraltro neppure pronunciato, diversamente dal caso di specie, in cui la richiesta di rinvio a giudizio ne ha costituito l’unico presupposto.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Monetizzazione sostitutiva della realizzazione di opere a standard e della cessione delle aree a standard.
La monetizzazione sostitutiva della realizzazione di opere a standard, come la monetizzazione della cessione delle aree a standard, costituisce il contenuto di un potere discrezionale del Comune il quale deve in primo luogo soddisfare l’interesse pubblico a rendere effettivamente edificabile l’area su cui sorgerà l’intervento edilizio, dotandola dei manufatti e dei servizi indispensabili per l’agibilità e la fruibilità del fabbricato secondo la destinazione d’uso.
Per tali ragioni non sussiste l’obbligo del Comune di aderire alla proposta del privato di corresponsione degli oneri di urbanizzazione, rimanendo l’Amministrazione titolare di una facoltà di scelta tra la monetizzazione e la cessione delle aree.
Ne consegue che qualora la monetizzazione sia stata concessa e non sia stata ritirata dall’amministrazione o annullata dal giudice essa osta all’accoglimento di richieste che si pongano in contrasto con essa; a ciò si aggiunge che qualora la proposta di monetizzazione delle opere provenga dal privato spetta, comunque, all'amministrazione, in base all'obbligazione unilateralmente assunta dalla parte, accettare o meno la proposta e subordinarla a condizioni o prescrizioni specifiche; con la conseguenza che la parte promittente non può mutare unilateralmente, in un momento successivo, le condizioni sulle quali è intervenuto il consenso comunale, altrimenti venendosi ad alterare ingiustificatamente, mediante l'iniziativa unilaterale del medesimo obbligato principale, le basi stesse del consenso espresso nella convenzione o in un successivo atto di accettazione della monetizzazione che integri la suddetta convenzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.04.2019 n. 882 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
L’infondatezza del gravame esime il Collegio dall’esame dell’eccezione di estinzione del giudizio per tardiva riassunzione.
Nel merito occorre evidenziare che non è discusso tra le parti che la scelta di non realizzare i tre posti auto mancanti consegue a precisa richiesta avanzata dalla società ricorrente accolta dal Comune con un provvedimento che ha quantificato le somme sostitutive dovute dal privato in € 16.362.00, interamente pagate e non contestate né nell’an che nel quantum.
Nel caso di specie si discute se il privato possa cambiare idea, presentare un permesso a costruire per la realizzazione delle opere prima monetizzate e chiedere la restituzione delle somme versate in esecuzione di un atto non contestato.
In merito occorre premettere che in attuazione del comma 9, il D.M. 02.04.1968 n. 1444, ha disciplinato per ogni zona omogenea le misure concrete dei parametri che devono essere rispettate in sede di formazione degli strumenti urbanistici generali, ovvero di varianti al PRG, la cui concreta quantificazione spetta –nel rispetto del D.M. 1444 cit.– agli organi della pianificazione urbanistica.
Come visto, tra gli standard speciali rientrano anche quelli che –sia per le zone residenziali, che per quelle produttive– individuano le quantità minime di spazi che devono essere destinati alle attività collettive, a verde pubblico, ovvero a parcheggi.
A sua volta l’art. 46 della legge regionale 12/2005 reca: “La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire, ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l'acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica;
   b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere devono essere esattamente definite; ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti distintamente per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al piano attuativo, nonché all'entità ed alle caratteristiche dell'insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale
”.
Dal complesso delle norme citate risulta chiaro che
la monetizzazione sostitutiva della realizzazione di opere a standard, come la monetizzazione della cessione delle aree a standard, costituisce il contenuto di un potere discrezionale del Comune, il quale deve in primo luogo soddisfare l’interesse pubblico a rendere effettivamente edificabile l’area su cui sorgerà l’intervento edilizio, dotandola dei manufatti e dei servizi indispensabili per l’agibilità e la fruibilità del fabbricato secondo la destinazione d’uso.
Per tali ragioni la giurisprudenza ha chiarito che cui
non sussiste l’obbligo del Comune di aderire alla proposta del privato di corresponsione degli oneri di urbanizzazione, rimanendo l’Amministrazione titolare di una facoltà di scelta tra la monetizzazione e la cessione delle aree (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 13.07.2005, n. 749; Cons. St., Sez. IV, 08.01.2013, n. 32, secondo cui la monetizzazione si configura quale facoltà eminentemente discrezionale «dell’Amministrazione Comunale e non già quale diritto del privato»).
Ne consegue che, qualora la monetizzazione sia stata concessa e non sia stata ritirata dall’amministrazione od annullata dal giudice, essa osta all’accoglimento di richieste che si pongano in contrasto con essa.
A ciò si aggiunge che q
ualora la proposta di monetizzazione delle opere provenga dal privato spetta, comunque, all'amministrazione, in base all'obbligazione unilateralmente assunta dalla parte, accettare o meno la proposta e subordinarla a condizioni o prescrizioni specifiche; con la conseguenza che la parte promittente non può mutare unilateralmente, in un momento successivo, le condizioni sulle quali è intervenuto il consenso comunale, altrimenti venendosi ad alterare ingiustificatamente, mediante l'iniziativa unilaterale del medesimo obbligato principale, le basi stesse del consenso espresso nella convenzione od in un successivo atto di accettazione della monetizzazione che integri la suddetta convenzione.
Ne consegue che il ricorso va respinto.

INCARICHI PROFESSIONALI: La fattura vincola l’avvocato. No al decreto ingiuntivo per una parcella più alta. CASSAZIONE/ Un’ordinanza sulla quantificazione dei compensi professionali.
Il legale non può pretendere dal cliente mediante decreto ingiuntivo un compenso maggiore rispetto a quello preventivato nel preavviso di fattura: lo hanno chiarito i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione nell'ordinanza 17.04.2019 n. 10757, intervenendo sul ricorso di un avvocato avverso la sentenza di appello a seguito della quale in totale riforma della decisione di I grado veniva revocato il decreto ingiuntivo ottenuto per compensi professionali.
A fronte del secondo motivo di censura, relativo al fatto che la Corte di appello aveva fondato la propria decisione sulla circostanza che l'avvenuta presentazione di una nota spese nel giudizio avesse precluso la liquidazione di maggiori compensi, senza considerare che la determinazione degli onorari nei confronti del cliente soggiace a criteri legali diversi rispetto a quelli applicabili nei confronti del soccombente, gli ermellini rispondono non solo rilevando che già in precedenza il medesimo avvocato aveva trasmesso alla propria assistita due preavvisi di fattura nei quali per l'impiego professionale profuso con riferimento alla causa in questione aveva indicato un determinato importo; ma richiamano altresì un costante orientamento sul punto, secondo il quale «ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l'annullamento della sentenza».
Ora, la suddetta ratio decidendi è stata presa dal giudice di appello «del tutto coerentemente, come base di calcolo del valore della prestazione»: ne deriva che il professionista non poteva pretendere, così come ha fatto con la proposta monitoria, la corresponsione di compensi per importi superiori, quanto meno a quelli di cui alla nota spese depositata.
Così argomentando, hanno quindi rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio oltre al contributo unificato
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019).

URBANISTICA: Necessità della ripubblicazione del PGT.
Con riguardo alla necessità di una ripubblicazione del PGT, legata ad un asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Tale disposizione appare del tutto ragionevole alla luce della interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, avendone limitato l’operatività alle situazioni in cui non risulta essersi prodotto uno stravolgimento del piano o delle sue linee portanti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 868 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Con la seconda doglianza si assume che il Piano, attraverso lo stralcio del RCC18, sarebbe stato modificato e ciò avrebbe dovuto condurre ad una ripubblicazione dello stesso, al fine di consentire alla parte interessata di interloquire sul nuovo assetto urbanistico.
3.1. La doglianza è infondata.
In primo luogo, si deve sottolineare come nessuno stravolgimento del Piano risulta essere stato posto in essere, considerato che destinazione a zona agricola della proprietà dei ricorrenti non ha prodotto effetti così rilevanti sull’assetto territoriale complessivo, o almeno ciò non è stato oggetto di inequivoca dimostrazione; in tal modo è stato altresì garantito un minore consumo di suolo complessivo.
In ogni caso, con riguardo alla necessità di una ripubblicazione del Piano, legata ad un asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, va sottolineato che, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2677; altresì, 19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, come avvenuto nella fattispecie de qua (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”. Tale disposizione appare del tutto ragionevole alla luce della interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, avendone limitato l’operatività alle situazioni in cui non risulta essersi prodotto uno stravolgimento del piano o delle sue linee portanti (TAR Lombardia, Milano, II, 04.04.2019, n. 751; 26.11.2018, n. 2677).
3.2. Ciò determina il rigetto della predetta censura.

URBANISTICASecondo la consolidata giurisprudenza, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
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La destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano.
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La più recente evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
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In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento delle capacità edificatorie del comparto di proprietà dei ricorrenti, rispetto alle previsioni contenute nel Piano adottato, deve richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
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Del resto, secondo la consolidata giurisprudenza, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 04.04.2019, n. 751; 27.02.2017, n. 451).
Difatti, lo strumento urbanistico previgente classificava l’area in parte in zona omogenea F (attrezzature pubbliche) ed in parte in zona omogenea E (agro-silvo-pastorale).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2017, n. 451).
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento delle capacità edificatorie del comparto di proprietà dei ricorrenti, rispetto alle previsioni contenute nel Piano adottato, deve richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi. E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
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Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili adiacenti.
In ordine, poi, all’avvenuta compressione delle capacità edificatorie del comparto di proprietà della ricorrente, rispetto alle previsioni contenute nel previgente strumento urbanistico, deve richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
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Nel ribadire l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione nel perseguimento degli obiettivi legati ad un armonico e ordinato sviluppo del territorio, va pure sottolineato che la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano.
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3. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo si assume l’illegittimità della qualificazione come Ambito di Riqualificazione Urbana (A.R.U.) dell’area di proprietà della ricorrente, non trattandosi di area dismessa o sottoutilizzata, né di ambito con funzioni non coerenti con il contesto, né di comparto che necessiti di interventi di trasformazione finalizzati alla riqualificazione; sarebbe inoltre illegittima anche la scelta di subordinare la realizzazione della residua capacità edificatoria all’acquisizione di aree equoperequate.
3.1. La doglianza è infondata.
La motivazione posta a base della qualificazione del comparto di proprietà della ricorrente è contenuta nella controdeduzione all’osservazione proposta rispetto al Piano adottato: si è specificato difatti che “il ricorso alla predisposizione di un piano attuativo risulta indispensabile se si valuta le opportunità offerte dalla specifica disciplina d’ambito. Il PGT, anche al fine di garantire il consolidamento dell’attività in essere, consente una molteplicità di interventi, fino alla riorganizzazione complessiva del comparto. In quest’ultimo caso ci si troverebbe di fronte ad un intervento di trasformazione urbanistica e, nel rispetto dei disposti normativi nazionali e regionali, il medesimo intervento deve necessariamente essere sottoposto a pianificazione esecutiva preventiva. Resta inteso che, ai sensi dell’art. 19 delle norme di PGT, in assenza di piano attuativo, sono fatte salve le attività in essere e, sugli edifici esistenti, sono ammessi interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. In merito alla realizzazione di una stazione di distribuzione del carburante, il PGT non intende in alcun modo interferire con atti o sentenze o pregiudicarne gli effetti” (all. 7 al ricorso).
Come evidenziato dalla difesa comunale, l’art. 49 delle N.d.A. del P.d.R. qualifica come A.R.U. anche i “comparti che necessitano di interventi di trasformazione funzionale ed edilizia finalizzati alla loro riattivazione in senso urbano e al potenziamento delle infrastrutture e dei servizi”, con la conseguenza che non è necessario trovarsi al cospetto di aree degradate o dimesse, ma apparendo sufficiente il ricorrere della necessità o dell’opportunità di valorizzare e consolidare, attraverso un loro potenziamento, una parte del territorio comunale al fine di migliorarne le condizioni di vivibilità e l’assetto complessivo.
Inoltre, la previsione del Piano attuativo è legata alle possibilità di sviluppo del comparto che, a giudizio del Comune, richiedono una valutazione contestuale e unitaria, anche al fine di comprendere l’impatto complessivo degli interventi sul tessuto esistente, indipendentemente dall’assetto già raggiunto (cfr. la destinazione integrativa contenuta nella scheda A.R.U. 26 Via De Gasperi: all. 4 al ricorso).
Ne deriva la non illogicità della determinazione comunale, in linea con la consolidata giurisprudenza, secondo la quale le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 04.04.2019, n. 751).
3.2. La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656). E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
3.3. Quanto alla contestazione del meccanismo perequativo, deve sottolinearsi come la discrezionalità dell’Amministrazione in ambito pianificatorio sia talmente ampia da non poter essere sindacata né nel merito, né con riguardo a supposte disparità di trattamento tra aree contigue.
Del resto, in assenza di una perfetta omogeneità delle zone poste in comparazione, affatto dimostrata nel presente giudizio, non è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una parità di trattamento, tanto meno in relazione all’assetto urbanistico del territorio, dove l’Amministrazione dispone della più ampia discrezionalità, non rilevando affatto la specifica collocazione delle diverse aree. Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili adiacenti (TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2018, n. 567; si veda pure Consiglio di Stato, IV, 16.01.2012, n. 119).
In ordine, poi, all’avvenuta compressione delle capacità edificatorie del comparto di proprietà della ricorrente, rispetto alle previsioni contenute nel previgente strumento urbanistico, deve richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
3.4. Ciò determina il rigetto della suesposta censura.
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Nel ribadire l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione nel perseguimento degli obiettivi legati ad un armonico e ordinato sviluppo del territorio, va pure sottolineato che la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2017, n. 451)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 866 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In tema di pianificazione urbanistica la nozione di lotto intercluso ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
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4.2. Quanto alla natura di lotto (pressoché) intercluso dell’area di proprietà della ricorrente, va rimarcato come in tema di pianificazione urbanistica la nozione di lotto intercluso ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, IV, 20.07.2016, n. 3293; 21.12.2012, n. 6656); nella fattispecie de qua non risulta affatto sussistere un lotto intercluso, come dimostrato dalle cartografie di Piano (cfr. all. 3 e 14 del Comune), essendo edificata soltanto una parte del confine del lotto, mentre un lato è delimitato da una strada (SP109) e l’altro da un’area agricola (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 866 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Rapporti tra accesso ai documenti ordinario e civico nel settore degli appalti con riferimento agli atti della fase esecutiva.
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Accesso ai documenti - Contratti della Pubblica amministrazione – Accesso civico – Fase esecutiva del contratto – Limiti.
Nei rapporti tra accesso ai documenti ordinario e accesso civico nel settore degli appalti, per quanto riguarda dati, informazioni e documenti inerenti la fase esecutiva, successiva all’aggiudicazione del contratto di appalto, caratterizzata da rapporti paritari, l’interesse della ex partecipante alla gara può configurarsi solo nel rispetto delle condizioni e dei limiti dell’accesso ordinario.
Va quindi escluso l’accesso civico esercitato dal concorrente relativamente agli atti della fase di esecuzione del contratto sull’art. 140, d.lgs. n. 163 del 2006, in base al quale, in caso di fallimento o di liquidazione coatta e concordato preventivo, ovvero in caso di risoluzione del contratto, le stazioni appaltanti potranno interpellare i soggetti che hanno partecipato alla originaria procedura di gara, al fine di stipulare un nuovo contratto.
Non sussistendo alcuna ipotesi di risoluzione per inadempimento o di recesso dal contratto che possa giustificare il ricorso all’interpello previsto dalla norma, l’istanza si traduce in un’indagine esplorativa tesa alla ricerca di una qualche condotta inadempiente dell’attuale aggiudicataria, di per sé inammissibile, non risultando da alcuna fonte di provenienza delle amministrazioni interessate, né avendo la ricorrente altrimenti fornito alcun elemento o indicato concrete circostanze in tal senso, la sussistenza di qualsivoglia inadempimento dell’aggiudicatario nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali.

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   (1) Ha preliminarmente chiarito il Tar che circa l’ambito di operatività dell’istituto dell’accesso civico ed in particolare sulla sua applicabilità nella materia degli appalti pubblici, la giurisprudenza ha finora espresso orientamenti non univoci (Tar Napoli, sez. VI, n. 6028 del 2017; Tar Marche n. 677 del 2018; Tar Lazio, sez. II, n. 425 del 2019; da ultimo, anche TAR Toscana, sez. I, n. 422 del 2019).
Secondo un primo indirizzo, i documenti afferenti alle procedure di affidamento ed esecuzione sono esclusivamente sottoposti alla disciplina di cui all’art. 53 d.lgs. 50/2016 e pertanto restano esclusi dall’accesso civico c.d. generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013 (Tar Parma n. 197 del 2018; Tar Milano, sez. I, n. 630 del 2019).
In base ad un diverso indirizzo l’art. 53, d.lgs. n. 50 del 2016 non va inteso come un rinvio fisso ma come volontà del legislatore di sottoporre l’accesso ai documenti di gara generici (non sensibili) alle norme ordinarie in tema di accesso, nella loro evoluzione storica e, pertanto, attualmente alla disciplina introdotta dal d.lgs. n. 33 del 2016, oltre tutto successivo al codice dei contratti, che afferma la regola generale della integrale trasparenza la quale implica il diritto di chiunque, senza la prova di una particolare legittimazione e senza onere di motivare la relativa istanza, di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria, compresi tutti quelli attinenti alla fase del rapporto contrattuale tra stazione appaltante ed aggiudicatario dell’appalto.
Ha ancora ricordato il Tar che l’art. 37, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 33 del 2013, poi sostituito dall’art. 31, comma 1, d.lgs. 25.05.2016, n. 97, prevede che “Le pubbliche amministrazioni e le stazioni appaltanti pubblicano: b) gli atti e le informazioni oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”. La norma da ultimo citata è infatti coerentemente inserita nel capo V (rubricato come “Obblighi di pubblicazione in settori speciali”) del decreto legislativo, che sottopone ad accesso civico generalizzato tutta la documentazione oggetto di pubblicazione obbligatoria secondo il codice degli appalti. Ne consegue una disciplina complessa, risultante dall’applicazione dei diversi istituti dell’accesso ordinario e di quello c.d. civico, che hanno un diverso ambito di operatività e grado di profondità con effetti diversificati con riferimento al settore speciale dei pubblici appalti.
In particolare, per quanto riguarda gli atti e documenti della fase pubblicistica del procedimento, oltre all’acceso ordinario è consentito anche l’accesso civico generalizzato, “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”; per quanto riguarda atti e documenti della fase esecutiva del rapporto contrattuale tra stazione appaltante ed aggiudicataria, l’acceso ordinario è consentito ai sensi degli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 e nel rispetto delle condizioni e dei limiti individuati dalla giurisprudenza, che nella fattispecie non risultano osservati (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2019, n. 577 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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2.1 - La ricorrente fonda la propria pretesa di accedere agli atti della fase di esecuzione del contratto sull’art. 140 d.lgs. 162/2006 (applicabile ratione temporis) in base al quale, in caso di fallimento o di liquidazione coatta e concordato preventivo, ovvero in caso di risoluzione del contratto, le stazioni appaltanti potranno interpellare i soggetti che hanno partecipato alla originaria procedura di gara, al fine di stipulare un nuovo contratto.
Nella fattispecie (come già evidenziato da Consip nella nota del 02.05.2018 e dalla stessa Azienda USL Toscana Centro), non sussiste alcuna ipotesi di risoluzione per inadempimento o di recesso dal contratto che possa giustificare il ricorso all’interpello previsto dalla norma.
Pertanto, l’istanza formulata dalla ricorrente –per il contenuto con cui è formulata- si traduce in un’indagine esplorativa tesa alla ricerca di una qualche condotta inadempiente dell’attuale aggiudicataria, di per sé inammissibile, non risultando da alcuna fonte di provenienza delle amministrazioni interessate, né avendo la ricorrente altrimenti fornito alcun elemento o indicato concrete circostanze in tal senso, la sussistenza di qualsivoglia inadempimento di C.N.S. nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali.
Sul punto, come condivisibilmente affermato da consolidata giurisprudenza (da ultimo, TAR Lazio, Roma, III, 07.12.2018 n. 11875; TAR Emilia Romagna, Bologna, 04.04.2016 n. 366), è inammissibile una richiesta di accesso agli atti amministrativi avente natura meramente esplorativa, volta quindi ad un mero controllo generalizzato dell'operato della pubblica amministrazione.
2.2 – Né può convenirsi con la diversa prospettazione introdotta dalla ricorrente in sede di ricorso avverso il diniego impugnato, con la quale essa qualifica la propria domanda come istanza di accesso generalizzato ai sensi dell’art. 3 d.lgs. n. 33/2013 (come modificato con d.lgs. 97/2016), pur tralasciando il rilievo formale della differente qualificazione normativa dell’istanza rispetto alla formulazione prescelta in sede amministrativa alla quale soltanto si riferisce la determinazione impugnata.
In via generale, “il legislatore, pur introducendo nel 2016 (l. 25.05.2016, n. 97) il nuovo istituto dell’accesso civico “generalizzato”, espressamente volto a consentire l’accesso di chiunque a documenti e dati detenuti dai soggetti indicati nel neo-introdotto art. 2-bis d.lgs. 14.03.2013, n. 33 e quindi permettendo per la prima volta l’accesso (ai fini di un controllo) diffuso alla documentazione in possesso delle amministrazioni (e degli altri soggetti indicati nella norma appena citata) e privo di un manifesto interesse da parte dell’accedente, ha però voluto tutelare interessi pubblici ed interessi privati che potessero esser messi in pericolo dall’accesso indiscriminato. Il legislatore ha quindi operato per un verso mitigando la possibilità di conoscenza integrale ed indistinta dei documenti detenuti dall’ente introducendo dei limiti all’ampio accesso (art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. 33/2013) e, per altro verso, mantenendo in vita l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi e la propria disciplina speciale dettata dalla l. 241/1990 (evitando accuratamente di novellare la benché minima previsione contenuta nelle disposizioni da essa recate), anche con riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia sotto il versante della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse in capo al richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle richieste volte ad ottenere un accesso diffuso” (cfr. Cons. Stato, VI, n. 651/2018).
Circa l’ambito di operatività dell’istituto dell’accesso civico ed in particolare sulla sua applicabilità nella materia degli appalti pubblici, il Collegio non ignora che la giurisprudenza ha finora espresso orientamenti non univoci (TAR Campania, Napoli, VI, n. 6028/2017; TAR Marche, I, n. 677/2018; TAR Lazio, Roma, II, n. 425/2019; da ultimo, anche TAR Toscana, I, n. 422/2019).
Secondo un primo indirizzo, i documenti afferenti alle procedure di affidamento ed esecuzione sono esclusivamente sottoposti alla disciplina di cui all’art. 53 d.lgs. 50/2016 e pertanto restano esclusi dall’accesso civico c.d. generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013 (TAR Emilia Romagna, Parma, n. 197/2018; TAR Lombardia, Milano, I, n. 630/2019).
In base ad un diverso indirizzo (come interpretato dalla ricorrente Diddi) l’art. 53 d.lgs. 50/2016 non va inteso come un rinvio fisso ma come volontà del legislatore di sottoporre l’accesso ai documenti di gara generici (non sensibili) alle norme ordinarie in tema di accesso, nella loro evoluzione storica e, pertanto, attualmente alla disciplina introdotta dal d.lgs. 33/2016, oltre tutto successivo al codice dei contratti, che afferma la regola generale della integrale trasparenza la quale implica il diritto di chiunque, senza la prova di una particolare legittimazione e senza onere di motivare la relativa istanza, di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria, compresi tutti quelli attinenti alla fase del rapporto contrattuale tra stazione appaltante ed aggiudicatario dell’appalto.
Invero, la sentenza del TAR Lombardia (Milano, sez. IV, n. 45/2019 citata dalla ricorrente in opposizione alla precedente sentenza del TAR Emilia Romagna, sez. Parma, n. 197/2018), ha statuito su un’istanza di accesso “alle offerte tecniche ed economiche e al piano finanziario”.
dell’aggiudicataria, e cioè ad atti che si collocano nella fase pubblicistica della procedura di affidamento, rispetto alla quale soltanto ha, condivisibilmente, affermato la piena applicabilità dell’acceso civico (sia pure nei limiti di cui all’art. 5-bis d.lgs. 33/2016).
2.3 - Nella fattispecie in esame, l’istanza di accesso agli atti si riferisce ad una serie di dati e documenti strettamente attinenti allo svolgimento del servizio, oggetto di appalto, laddove esistenti e detenuti dalla stazione appaltante, al fine di “verificare che l’esecuzione del servizio si svolga nel pieno rispetto di quanto richiesto dal Capitolato Tecnico”….; a tal fine si chiede di accedere “alla documentazione che attesti la corretta esecuzione delle prestazioni”.
Ritiene il Collegio che l’esame della disciplina applicabile debba prendere le mosse dall’art. 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013 n. 33, il quale dispone: “2. Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis.”
Il successivo comma 11, a sua volta, sancisce: “11. Restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della legge 07.08.1990, n. 241”.
Il successivo art. 5-bis, dopo aver previsto i casi in cui l’accesso deve essere negato a tutela di taluni interessi pubblici (comma 1), nonché a tutela di taluni interessi privati (comma 2), al comma 3 dispone: “Il diritto di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990”.
Ne segue che non solo permane, in via generale, la disciplina delle forme di accesso agli atti diverse da quella introdotta dal d.lgs. 33/2013 (neppure richiamato dal pur successivo d.lgs. 50/2016), ma che l’accesso c.d. civico è escluso ove esso sia subordinato dalla legge vigente “al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”.
2.4 - Con specifico riferimento al profilo in questione, il Collegio ritiene pertanto che debba trovarsi il necessario punto di equilibrio risultante dall’applicazione dell’art. 53 d.lgs. 50/2016, che rinvia alla disciplina di cui all’art. 22 e seguenti della legge n. 241/1990, e dell’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. 33/2013.
Per quanto riguarda dati, informazioni e documenti inerenti la fase esecutiva, successiva all’aggiudicazione del contratto di appalto, caratterizzata come noto da rapporti paritari, l’interesse della ex partecipante alla gara può configurarsi solo nel rispetto delle condizioni e dei limiti dell’accesso ordinario; nella fattispecie esso va escluso, attesa la palese assenza di qualsivoglia prospettiva di risoluzione del rapporto contrattuale e di un interesse attuale della ricorrente al subentro, neanche ipotizzabile sulla base degli elementi acquisiti in giudizio.
Diversamente si deve ritenere laddove l’accesso abbia ad oggetto dati e documenti (es. offerte tecniche ed economiche, piano finanziario) della fase pubblicistica della procedura di affidamento.
Infatti, come sancito dall’art. 37, comma 1, lett. b), d.lgs. 33/2013 (poi sostituito dall’art. 31, comma 1, d.lgs. 25.05.2016 n. 97): “Le pubbliche amministrazioni e le stazioni appaltanti pubblicano: b) gli atti e le informazioni oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”.
La norma da ultimo citata è infatti coerentemente inserita nel capo V (rubricato come “Obblighi di pubblicazione in settori speciali”) del decreto legislativo, che sottopone ad accesso civico generalizzato tutta la documentazione oggetto di pubblicazione obbligatoria secondo il codice degli appalti.
Ne consegue una disciplina complessa, risultante dall’applicazione dei diversi istituti dell’accesso ordinario e di quello c.d. civico, che hanno un diverso ambito di operatività e grado di profondità con effetti diversificati con riferimento al settore speciale dei pubblici appalti.
In particolare, per quanto riguarda gli atti e documenti della fase pubblicistica del procedimento, oltre all’acceso ordinario è consentito anche l’accesso civico generalizzato, “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”; per quanto riguarda atti e documenti della fase esecutiva del rapporto contrattuale tra stazione appaltante ed aggiudicataria, l’acceso ordinario è consentito ai sensi degli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 e nel rispetto delle condizioni e dei limiti individuati dalla giurisprudenza, che nella fattispecie non risultano osservati.
3 – Conclusivamente, per le ragioni esposte, il ricorso va respinto in quanto infondato.

EDILIZIA PRIVATAIl potere di sospensione dei lavori edili in corso ha natura cautelare, in quanto è teso ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravio del danno urbanistico.
Dalla natura interinale e provvisoria del provvedimento in questione discende che, allo spirare del termine di quarantacinque giorni dalla sua adozione, laddove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia.
Tutto ciò nella considerazione che l'ordinanza di sospensione dei lavori è un provvedimento con efficacia strettamente limitata nel tempo, avente il solo scopo di impedire il procedere della costruzione, in modo da consentire all’Amministrazione di potersi determinare con una misura sanzionatoria (ordine di demolizione ovvero applicazione di una sanzione pecuniaria), non essendo consentito che il destinatario possa essere esposto sine die all'incertezza circa la sussistenza del proprio ius aedificandi.
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1. La domanda di annullamento dell’ordinanza n. 10 del Comune di Campodarsego in data 28.02.2005, prot. n. 4172, è inammissibile per carenza di interesse.
Deve premettersi che il potere di sospensione dei lavori edili in corso ha natura cautelare, in quanto è teso ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravio del danno urbanistico (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2017, n. 5110; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 22.01.2019, n. 849; TAR Campania, Napoli, sez. II, 03.09.2018, n. 5329).
Dalla natura interinale e provvisoria del provvedimento in questione discende che, allo spirare del termine di quarantacinque giorni dalla sua adozione, laddove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia; tutto ciò nella considerazione che l'ordinanza di sospensione dei lavori è un provvedimento con efficacia strettamente limitata nel tempo, avente il solo scopo di impedire il procedere della costruzione, in modo da consentire all’Amministrazione di potersi determinare con una misura sanzionatoria (ordine di demolizione ovvero applicazione di una sanzione pecuniaria), non essendo consentito che il destinatario possa essere esposto sine die all'incertezza circa la sussistenza del proprio ius aedificandi (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2016 n. 2758; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 15.05.2018, n. 1004; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 20.03.2017, n. 3709).
Orbene, l’ordinanza de qua è stata adottata in data 28.02.2005 e notificata in data 03.03.2005 alla società esponente (come risulta dall’epigrafe del ricorso introduttivo del giudizio) mentre la relata di notificazione del ricorso introduttivo reca la data del 03.05.2005, allorquando dunque l’impugnata ordinanza aveva perso efficacia.
Ne discende che la relativa domanda di annullamento deve essere dichiarata inammissibile in quanto rivolta avverso un provvedimento non idoneo a determinare alcuna lesione attuale e concreta della posizione giuridica della parte ricorrente (arg. ex TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 13.06.2017, n. 6987) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 487 - link a www.giustizia-amministrativa).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONei concorsi per dirigenti solo i criteri pre-determinati legittimano l’esclusione.
È illegittima l'esclusione del dirigente dalla selezione per il posto di direttore regionale se la scelta non è giustificata da criteri generali determinati preventivamente dall'amministrazione in relazione alla natura e alle caratteristiche del ruolo, alla luce dei principi di buona fede e correttezza.
È quanto emerge dall'ordinanza 16.04.2019 n. 10567 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Il caso
Protagonista della vicenda è un dirigente delle Regione Lazio -ora in pensione- il quale nel 2007 veniva escluso dalla procedura selettiva per la nomina di dirigente regionale dei servizi sociali, in quanto pochi mesi prima aveva ricevuto l'incarico biennale di direttore dell'area programmazione e qualità.
Il dirigente aveva chiesto all'amministrazione di poter partecipare alla selezione per il ruolo apicale, ma la Regione riteneva di dover rispettare l'impegno contrattuale assunto che prevedeva la revoca dell'incarico solo a fronte di assegnazione di nuovo incarico e non anche per la partecipazione alla selezione per un nuovo incarico.
Il dirigente aveva impugnato così la sua esclusione dalla procedura selettiva denunciando sostanzialmente la violazione dell'articolo 19 del testo unico sul pubblico impiego (Dlgs 165/2001) che detta le regole sull'assegnazione di incarichi di funzioni dirigenziali nonché in generale del principio di correttezza e buona fede fissati degli articoli 1175 e 1375 del codice civile nell'interpretazione del contratto individuale di lavoro.
La decisione
Dopo un doppio verdetto sfavorevole al dirigente, la questione è arrivata in Cassazione dove i giudici di legittimità hanno ribaltato la decisione accogliendo la tesi dell'inosservanza dei principi di correttezza e buona fede da parte dell'amministrazione regionale.
La Suprema corte ritiene che i giudici di merito abbiano incentrato la decisione sull'interpretazione del contratto individuale di conferimento dell'incarico al ricorrente senza tener conto dei principi espressi dal Testo unico sul pubblico impiego e dalla contrattazione collettiva sul tema del conferimento di incarichi apicali.
Secondo il Collegio, gli atti relativi all'assegnazione di incarichi dirigenziali «rivestono natura di determinazioni negoziali assunte dall'amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro» e perciò obbligano al rispetto della correttezza e buona fede, anche alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost. Ciò significa che l'amministrazione deve «adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternate le ragioni giustificatrici delle proprie scelte», pena l'inadempimento contrattuale.
Nel caso di specie, alla luce dei contratti del 1996, 1999 e 2006 e dell'attuale disciplina dell'articolo 19 del testo unico sul pubblico impiego, la Regione Lazio avrebbe dovuto tener conto «in relazione alla natura e caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente» e, dunque, determinare in via preventiva se la situazione in cui versava il dirigente corrispondesse a una causa di esclusione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019).

APPALTI FORNITURE: Apertura dei plichi contenenti la documentazione necessaria per l’attribuzione del punteggio tecnico in una gara per l’affidamento di un bene pubblico.
Anche in una gara per l’affidamento in concessione di beni e non di servizi o di lavori –in relazione alla quale non vi è applicazione diretta del D.Lgs. 50/2016– parimenti devono necessariamente trovare applicazione i principi di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa (cfr. l’art. 1 della legge 241/1990), nel rispetto della norma costituzionale (art. 97 della Costituzione) sul buon andamento e sull’imparzialità dell’amministrazione e dell’art. 41 della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sul diritto del cittadino “ad una buona amministrazione”.
Tali esigenze di trasparenza non possono limitarsi alla pubblicazione del bando di gara e degli atti di conclusione della gara stessa, ma impongono lo svolgimento trasparente della procedura e quindi l’apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti la documentazione necessaria per l’attribuzione del punteggio tecnico/qualitativo ai partecipanti alla gara
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 15.04.2019 n. 840 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
1.5 Nel quinto motivo, proposto in via subordinata, e per tale esaminato, è lamentata l’illegittimità dell’intera procedura di gara, in quanto l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche delle partecipanti è avvenuta in seduta segreta.
Il motivo appare suscettibile di accoglimento, per le ragioni seguenti.
In primo luogo risulta evidente che l’apertura della busta “B”, contenente ai sensi dell’art. 6 del bando tutti i documenti per l’attribuzione del punteggio tecnico (rilevanza dell’associazione, progetto di gestione e progetto tecnico), è avvenuta nella seduta riservata del 12.09.2018 (cfr. il doc. 4 della ricorrente).
La resistente e la controinteressata reputano però che, venendo in considerazione nel caso di specie una procedura per l’assegnazione in concessione di un bene pubblico non direttamente soggetta al codice dei contratti, le esigenze di trasparenza dell’azione amministrativa non richiedono l’apertura in seduta pubblica delle buste con la documentazione tecnica, in mancanza fra l’altro di una normativa specifica al riguardo.
Tale tesi difensiva non convince però il Collegio.
Infatti, se è pur vero che la presente concessione ha carattere di concessione di beni e non di servizi o di lavori –sicché non vi è applicazione diretta del D.Lgs. 50/2016– parimenti devono necessariamente trovare applicazione i principi di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa (cfr. l’art. 1 della legge 241/1990), nel rispetto della norma costituzionale (art. 97 della Costituzione) sul buon andamento e sull’imparzialità dell’amministrazione e dell’art. 41 della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sul diritto del cittadino “ad una buona amministrazione”.
Tali esigenze di trasparenza però, contrariamente a quanto sostenuto nelle difese delle parti intimate, non possono limitarsi alla pubblicazione del bando di gara e degli atti di conclusione della gara stessa, ma impongono lo svolgimento trasparente della procedura e quindi l’apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti la documentazione necessaria per l’attribuzione del punteggio tecnico/qualitativo ai partecipanti alla gara (sulla rilevanza dell’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica in seduta pubblica, cfr. la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 13/2011).
D’altronde lo stesso codice dei contratti pubblici, all’art. 4 ha cura di specificare che l’affidamento dei contratti attivi –come quello di cui è causa– pur se esclusi dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto di una serie di principi, fra cui quelli di trasparenza e pubblicità.
Parimenti, appare ispirato a pregnanti esigenze di pubblicità dell’attività dell’amministrazione anche il RD 827/1924, tuttora vigente, costituente il regolamento di contabilità generale dello Stato, dal quale possono senza dubbio desumersi principi generali sulla pubblicità dell’attività di scelta dei contraenti da parte di tutte le pubbliche amministrazioni.
Neppure potrebbe sostenersi, come sembrano adombrare le difese delle parti intimate, che l’apertura in seduta pubblica non sarebbe stata necessaria, giacché la busta “B” indicata dal bando non avrebbe quale suo contenuto una vera e propria offerta tecnica, bensì una dichiarazione sugli aspetti qualitativi dei concorrenti.
L’affermazione è smentita dalla semplice lettura del bando (cfr. ancora il doc. 8 della ricorrente), che prevede quale criterio di aggiudicazione quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa (si veda l’art. 5), con inserimento nella busta “B” di tutti gli elementi necessari per l’attribuzione del punteggio tecnico (che vale 70 punti su 100), fra cui il “progetto di gestione” ed il “progetto tecnico” (cfr. l’art. 6 del bando).
Del resto è sufficiente l’analisi dell’attività della commissione, quale risultante dai relativi verbali, per concludere senza smentita che è stata presentata dai concorrenti una vera e propria offerta tecnica: e va quindi nuovamente ribadito che l’apertura della busta che la conteneva costituiva “passaggio essenziale e determinante dell’esito della procedura concorsuale”, e richiedeva pertanto di essere effettuata in forma pubblica “a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento” (così, in motivazione, C.d.S., a.p., 13/2011, cit.), che non vengono meno solo perché la procedura riguarda un bene pubblico e non un servizio.
Infine, a conferma, nel caso di specie, che il principio di pubblicità –con un’inammissibile restrizione della tutela anche giudiziale– è stato pregiudicato, va rimarcato altresì che il verbale della seduta riservata di apertura delle buste (cfr. ancora il doc. 4 della ricorrente), è molto laconico nel proprio contenuto, dando atto solo dell’avvenuta apertura e dell’analisi della documentazione, senza altro aggiungere o specificare, il che rafforza la pronuncia di fondatezza del motivo su indicato.
Per effetto dell’accoglimento dell’ultima censura, pertanto, devono essere annullati il provvedimento finale di aggiudicazione e gli atti dell’intera procedura svolta, salvi ovviamente i successivi provvedimenti dell’amministrazione.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti - Ecodelitti - Art. 260 d.lgs. 152/2006 (ora 452-quaterdecies c.p.) - Natura di reato abituale proprio - Reato permanente - Cessazione dell'attività.
Il delitto di cui all'art. 260 d.lgs. 152/2006 (ora 452-quaterdecies codice penale) ha natura di reato abituale proprio, in quanto caratterizzato dalla sussistenza di una serie di condotte le quali, singolarmente considerate, potrebbero anche non costituire reato, con l'ulteriore conseguenza che la consumazione deve ritenersi esaurita con la cessazione dell'attività organizzata finalizzata al traffico illecito dei rifiuti (Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Bettelli e altro) e che alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge (Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta).
...
RIFIUTI - Ecoreati e natura di reato permanente - Contestazione della condotta con la formula "ad oggi" o "tuttora" o "tutt'oggi" - Momento della cessazione della permanenza - Disciplina della prescrizione - Reati abituale o "reato di durata"- Art. 452-quaterdecies codice penale - Giorno dell'ultima condotta tenuta.
Nei c.d. ecodelitti la natura di reato permanente si evince, anche, quando la contestazione contenuta nel decreto dispone il giudizio con la formula "ad oggi" o "tuttora" delimitando la durata della contestazione e, quindi, la cessazione della permanenza alla data di formulazione dell'accusa precisando, altresì, che tale regola processuale non deve essere confusa con la prova della protrazione della condotta criminosa fino a tale limite processuale, spettando all'accusa l'onere di fornire la prova a carico dell'imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all'indicato ultimo limite processuale.
Tali principi devono ritenersi utilizzabili anche con riferimento ai reati abituali, (in specie art. 452-quaterdecies codice penale), osservando come ogni reato abituale sia "reato di durata", che mutua la disciplina della prescrizione da quella prevista per i reati permanenti, sicché il decorso del termine di prescrizione avviene dal giorno dell'ultima condotta tenuta, che chiude il periodo consumativo iniziatosi con la condotta che, insieme alle precedenti, forma la serie minima di rilevanza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.04.2019 n. 16036 - link a www.ambientediritto.it).

CONDOMINIOArretrato, solidarietà limitata. L’acquirente paga solo per gestione in corso e precedente. La Cassazione interviene sulla ripartizione degli oneri condominiali in caso di vendita.
Chi acquista casa in condominio non può essere obbligato a pagare le spese non versate dal venditore, se non limitatamente a quelle pertinenti alla gestione annuale in corso e a quella precedente. E questo nemmeno se il regolamento condominiale preveda diversamente, addossando al nuovo condomino l'intero debito maturato da quello precedente.
Si tratta dell'interessante chiarimento contenuto nella sentenza 12.04.2019 n. 10346 della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la quale i giudici di legittimità sono intervenuti a meglio delineare i contorni della solidarietà dell'acquirente nel pagamento degli oneri condominiali.
Il caso concreto. Nella specie il soggetto che aveva acquistato un appartamento sito in un edificio condominiale era stato coinvolto nella procedura di recupero del credito promossa dal medesimo condominio nei confronti del venditore in mora nel pagamento degli oneri relativi ai beni e ai servizi comuni. Il regolamento condominiale, infatti, prevedeva che andassero posti a carico del nuovo proprietario anche i debiti maturati dal precedente condomino.
Nel caso in questione l'assemblea aveva quindi deliberato di imputare all'acquirente l'intero debito risultante a bilancio relativamente all'unità immobiliare oggetto del trasferimento di proprietà, chiedendo all'amministratore di procedere al recupero forzoso del credito in caso di mancato pagamento spontaneo. Il nuovo proprietario aveva però impugnato la delibera dinanzi al Tribunale di Torino, chiedendone la declaratoria di nullità per violazione degli articoli 63 e 72 delle disposizioni di attuazione del codice civile, contestando quindi anche la validità della menzionata disposizione regolamentare.
Il condominio si era costituito in giudizio sostenendo la piena legittimità di quest'ultima e la conseguente validità della delibera impugnata, che ne costituiva semplice esecuzione. Il tribunale, tuttavia, aveva ritenuto nulle sia la disposizione regolamentare sia l'impugnata deliberazione.
Di qui l'appello interposto dall'amministratore del condominio, il quale era stato viceversa accolto dai giudici di secondo grado, i quali avevano affermato il principio secondo cui la disposizione di cui all'art. 63 disp. att. c.c., la quale impone all'acquirente la solidarietà nel pagamento delle obbligazioni condominiali limitatamente a quelle maturate nella gestione annuale in corso e in quella precedente rispetto alla data del trasferimento di proprietà, avrebbe potuto essere derogata, a certe condizioni, da un regolamento condominiale di natura contrattuale. L'art. 72 disp. att. c.c. prevede infatti la non derogabilità, da parte del regolamento, delle disposizioni contenute negli artt. 63,66,67 e 69 delle medesime disposizioni di attuazione.
Tuttavia, secondo la Corte di appello di Torino, detta inderogabilità avrebbe dovuto essere interpretata in maniera meno restrittiva. Secondo i giudici, infatti, detta disposizione avrebbe avuto la finalità di evitare che un regolamento condominiale potesse escludere l'accollo al condomino acquirente dei debiti lasciati dal venditore nei limiti previsti dall'art. 63 disp. att. c.c..
In altre parole scopo della norma sarebbe stato quello di blindare la solidarietà del nuovo acquirente per le obbligazioni condominiali maturate nella gestione annuale in corso e in quella precedente, garanzia che nemmeno un regolamento di natura contrattuale avrebbe potuto far venir meno. Al contrario la normativa in questione sarebbe stata derogabile laddove la disposizione regolamentare avesse voluto ampliare detta garanzia e prevedere un accollo integrale al nuovo proprietario dei debiti accumulati dal precedente condomino, quindi anche oltre quelli maturati nel biennio.
Detta ricostruzione interpretativa, secondo la Corte di appello, sarebbe derivata dalla natura cosiddetta propter rem dei predetti debiti, essendo gli stessi relativi a spese oggettivamente connaturate al bene immobile di proprietà esclusiva al cui servizio sono poste le parti comuni, a prescindere dai mutamenti soggettivi derivati dai relativi trasferimenti di proprietà. La decisione dei giudici di appello torinesi, evidentemente, non aveva però convinto il condomino acquirente, il quale si era infatti affrettato a impugnare la sentenza dinanzi alla Suprema corte.
La decisione della Cassazione. I giudici di legittimità hanno quindi dovuto valutare la correttezza dell'opzione interpretativa avallata dalla Corte di appello di Torino e in base alla quale il limite temporale fissato dall'art. 63 disp. att. c.c. per il pagamento dei contributi condominiali pregressi da parte del condomino subentrante a precedente condomino moroso costituirebbe, per usare le parole della Cassazione, un limite inderogabile, ma soltanto nel limite minimo e non anche in quello massimo.
Quindi, come detto, nella specie si trattava di stabilire se la deroga al contenuto della predetta disposizione potesse essere operata con un regolamento contrattuale per le morosità condominiali arretrate anche oltre il biennio precedente all'acquisto dell'unità immobiliare sita in condominio.
La riferita lettura combinata degli articoli 63 e 72 delle disposizioni di attuazione del codice civile è stata però cassata dalla Suprema corte per due ordini di motivi. In primo luogo la seconda sezione civile della Cassazione ha evidenziato l'originaria estraneità dell'acquirente alla volontà contrattuale espressa nel regolamento condominiale a cui il medesimo, stando all'interpretazione avallata dai giudici di appello, dovrebbe soggiacere nel rimanere vincolato alle spese condominiali pregresse anche oltre il predetto biennio.
A questo proposito i giudici di legittimità hanno evidenziato come una tale lettura delle predette disposizioni di legge alimenterebbe una indubbia condizione di incertezza sui limiti della responsabilità solidale del nuovo acquirente per i debiti condominiali pregressi, che si tradurrebbe a sua volta in un possibile ostacolo alla circolazione dei beni immobili.
In secondo luogo, in maniera sicuramente più decisiva, la Suprema corte ha evidenziato come il ragionamento seguito nella specie dai giudici di merito poggiasse su un errato assunto di diritto. La Corte di appello di Torino, infatti, aveva ritenuto che il regolamento condominiale di natura contrattuale potesse derogare, nei termini già visti, all'art. 63 disp. att. c.c. per via della ritenuta natura propter rem dei debiti maturati, in quanto connessi a obbligazioni correlate all'utilizzo dei beni e dei servizi comuni.
Questa conclusione, tuttavia, è stata ritenuta erronea dai giudici di legittimità, in quanto, si legge nella sentenza in questione, «univocamente esclusa dalla giurisprudenza di questa Corte».
A questo proposito è stato quindi richiamato il precedente di cui alla sentenza n. 2979 del 27/02/2012 con la quale la medesima sezione della Suprema corte aveva stabilito che la responsabilità solidale dell'acquirente di una porzione di proprietà esclusiva per il pagamento dei contributi dovuti al condominio dal venditore è limitata al biennio precedente all'acquisto, trovando applicazione l'art. 63 disp. att. c.c. e non già l'art. 1104 c.c., norma dettata in materia di comunione e la quale prevede che il cessionario del partecipante sia tenuto in solido con il cedente a pagare i contributi da questo dovuti e non versati.
E questo perché, secondo quanto disposto dall'art. 1139 c.c., le norme sulla comunione in generale si estendono al condominio soltanto in mancanza di apposita disciplina.
Nel caso in questione, quindi, secondo il ragionamento seguito dalla Suprema corte, il disposto dell'art. 63 disp. att. c.c. rappresenta disposizione specifica che preclude l'applicabilità della norma generale di cui all'art. 1104 c.c.
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2019).

TRIBUTIEsenzione ICI solo se l'attività non ha fine di lucro.
Pagano l'Ici la casa del pellegrino e la scuola materna paritaria condotta da un istituto religioso.
Queste le conclusioni della Corte di Cassazione, Sez. V civile, in due ordinanze depositate venerdì scorso, la 12.04.2019 n. 10286 e la 12.04.2019 n. 10288.
La casa di riposo
L'immobile destinato agli anziani per attività esclusivamente assistenziali non sconta l'Ici. Discorso diverso per la struttura che ospita i pellegrini.
Questo è quanto ha stabilito la Cassazione con l'ordinanza 12.04.2019 n. 10286.
La Corte ha precisato, infatti, che mentre per il ricovero degli anziani ricorrevano sia il requisito soggettivo che oggettivo per l'esenzione, per l'immobile destinato ai pellegrini, invece, non era stato prodotto alcun documento che dimostrasse come il bene non avesse fine di lucro. Anche perché -si legge nella sentenza- un ente pur essendo non profit può perseguire finalità di lucro (si pensi ai circoli sportivi che offrono bibite e altro).
Altro chiarimento fornito dalla Cassazione riguarda l'autorizzazione rilasciata dal Comune a svolgere una certa attività (in riferimento ai pellegrini) che di per sé non è sufficiente a garantire il beneficio fiscale. Quindi con riferimento all'immobile destinato a offrire ricettività ai pellegrini ha sbagliato la commissione tributaria regionale ad affermare il diritto all'esenzione per il solo fatto che tale attività era tesa alla formazione e diffusione dei principi di solidarietà cattolica senza accertare che le attività cui gli immobili erano destinati non fossero svolte con le modalità di attività "esclusivamente" commerciale.
La scuola
Sempre sull'Ici la Cassazione si è espressa con l'ordinanza 12.04.2019 n. 10288 su un istituto scolastico religioso.
La Corte anche in questo caso ha analizzato la natura del bene e in funzione di ciò ha decretato o meno la debenza dell'Ici. Secondo la sentenza il versamento dell'imposta era dovuto a meno di non dimostrare che la struttura fosse una onlus senza alcun fine di lucro.
Ma solo il pagamento delle tasse annuali da parte degli alunni faceva rientrare la scuola nella sfera Ici, in quanto senza il pagamento ci sarebbe stato un buco nelle entrate con evidente concessione di aiuti di stato. Anche in questo caso, errore della commissione tributaria regionale nel ritenere idonee a escludere la natura economica alle attività didattiche svolte.
Queste, infatti, andavano analizzate con maggiore attenzione per verificare la gratuità delle attività ovvero che gli eventuali importi versati dagli alunni o dai loro genitori fossero, per loro entità, inidonei a costituire una retribuzione del servizio prestato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.04.2019).

EDILIZIA PRIVATALa destinazione d'uso di fatto di un fabbricato è irrilevante essendo, viceversa, da considerarsi soltanto quella che risulta da atti amministrativi.
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Quanto al terzo motivo di ricorso, il Collegio ritiene che il denunciato vizio di contraddittorietà estrinseca non può ritenersi sussistente a fronte della sopravvenienza –rispetto alla concessione rilasciata dal Comune di Venezia nel 1990– della variante per la “Città Giardino” di Marghera approvata con deliberazione della Giunta regionale del 16.12.1997, come detto sopra.
Va peraltro ribadito che la concessione del 1990 ha riguardato il solo piano terra dell’immobile in questione (N.C.E.U. foglio 1, mapp. N. 731, sub. 1, Via ... n. 13) ed è pertanto infondata l’argomentazione di parte ricorrente volta ritenere l’immobile -nella sua interezza- destinato ad attività commerciali e/o comunque del terziario.
Tale essendo lo stato di diritto e ferma l’irrilevanza dello stato di fatto (la destinazione d'uso di fatto è irrilevante essendo, viceversa, da considerarsi soltanto quella che risulta da atti amministrativi: arg. ex TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.05.2016, n. 2243; TAR Valle d'Aosta, sez. I, 19.09.2013, n. 62), nessuna contraddittorietà è ravvisabile nel caso in esame (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 12.04.2019 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTILa Cassazione ribadisce il no all'Ici sui ruderi.
La Corte di Cassazione -Sez. V civile- conferma l’impossibilità di assoggettare a Ici i fabbricati collabenti, iscritti nella categoria catastale fittizia F/2, con la sentenza 11.04.2019 n. 10122, in linea con sue precedenti pronunce.
I fabbricati collabenti
La questione concerne l’applicazione dell’imposta comunale sugli immobili su di un fabbricato “collabente”, risultante iscritto nella categoria F/2, senza attribuzione di rendita. Le unità immobiliari collabenti sono unità che per il loro sopraggiunto degrado non sono più in grado di produrre reddito, ma che comunque risultano individuabili (di norma con copertura parziale o totale o con muri perimetrali almeno per 1 metro).
In base all’art. 3, comma 2, del Dm 28/1998, sono tali le costruzioni caratterizzate da un notevole livello di degrado che ne determina una incapacità reddituale temporalmente rilevante.
I precedenti della Corte
In passato la Suprema Corte (sentenza n. 5166/2013), aveva ritenuto che laddove si trattasse di fabbricati che potevano essere demoliti e quindi ricostruiti, conservandosi quindi il diritto edificatorio corrispondente alla volumetria esistente, gli stessi andavano assoggettati ad ICI sulla base del valore venale in comune commercio di tale potenzialità edificatoria. In altri termini, veniva assoggettata all’imposta non il fabbricato, privo di rendita, ma l’area di sedime potenzialmente edificabile.
Tuttavia, tale tesi era stata già sconfessata dalla sentenza della Corte di cassazione n. 17815/2017, la quale evidenziava che il fabbricato iscritto nella categoria F2 non è assoggettabile all’Ici, non poiché viene meno il presupposto dell’imposta, in quanto lo stesso rimane un fabbricato, ma piuttosto per l’azzeramento della base imponibile in seguito all’impossibilità di produrre reddito. Eventualmente era onere del comune contestare l’errato classamento.
Non può tassarsi neppure come area edificabile, a parere della Corte, in quanto si tratta di fabbricato e comunque di un’area già edificata e non di un’area edificabile. Non può infatti considerarsi edificabile un’area in cui il Prg preveda solo interventi di recupero dell’esistente senza incrementi volumetrici.
Rincaravano la dose successivamente le pronunce n 23801/2017-24120/2017-25774/2017-7653/2018, le quali evidenziavano che il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F2) oltre a non essere tassabile come fabbricato in quanto privo di rendita, non lo è neppure come area edificabile, sino a quando l’eventuale demolizione restituisca autonomia all’area fabbricabile, che da allora è assoggettabile al tributo come tale, fino al subentro della tassazione del fabbricato ricostruito. Peraltro, non vi è a parere della Corte disparità di trattamento tra l’area occupata dal fabbricato collabente, non tassata e l’area sgombra, invece tassata. Questo perché la seconda è prontamente tassabile, mentre la prima richiede interventi di bonifica e demolizione.
L’intervento attuale della Corte
La recente pronuncia della Cassazione n. 10122/2019 ribadisce che è errato tassare il fabbricato collabente, in quanto la sottrazione ad imposta dello stesso, in ragione dell'azzeramento della relativa base imponibile, non può essere superata prendendo a riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree edificabili e costituita dal valore venale del terreno sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede l'imposizione Ici per le aree edificabili e non per quelle già edificate.
Effetti sull’Imu e considerazioni
La questione assume rilevanza anche per l’Imu, tenuto conto che i criteri di determinazione della base imponibile del tributo degli immobili soggetti sono sostanzialmente gli stessi dell’Ici.
Tuttavia sarebbe opportuna una riflessione sul tema, alla luce anche del rilevante fenomeno elusivo che una tale interpretazione può determinare, con rilevante calo del gettito tributario. Non è infatti infrequente il caso di fabbricati non utilizzati che vengono privati della copertura per poter essere declassati a collabenti e sfuggire all’Imu. La Corte ritiene in buona sostanza che il fabbricato collabente non sia soggetto al tributo in quanto privo di rendita e quindi di base imponibile, poichè, per la medesima Corte, il fabbricato collabente è pur sempre un fabbricato ai fini Ici (e Imu).
Tuttavia, a ben vedere, la definizione di fabbricato fornita dalla norma tributaria indentifica lo stesso con l’unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta in catasto (art. 2, comma 1, lettera a, Dlgs 504/1992). Il comma 2 dell’art. 3 del Dm 28/1998 precisa che l’iscrizione in catasto delle unità collabenti nell’ambito della categorie fittizie, non è un obbligo ma una mera facoltà. Ne deriva che l’unità collabente non iscritta in catasto non rientra nella definizione di fabbricato ai Imu.
Pertanto, seguendo la tesi della Cassazione, risulterebbero non soggette da Imu le unità collabenti iscritte in catasto per scelta del titolare, mentre per quelle non iscritte, non rientrando nella definizione di fabbricato (…unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta in catasto), l’imposta sarebbe dovuta sulla base dell’area edificabile, visto che il suolo su cui insistono esprime una volumetria utilizzabile. Venendosi a creare in tal modo una palese disparità di trattamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.04.2019).

TRIBUTIFabbricati fatiscenti, fisco light. Immobili privi di rendita non soggetti alle imposte locali. A parere della Suprema corte non sono dovute Ici, Imu o Tasi neppure sull’area
Le unità immobiliari fatiscenti e prive di rendita non sono soggette al pagamento delle imposte locali né come fabbricati né come aree edificabili. Questi beni immobili non possono essere assoggettati a imposizione fino a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia alle aree per poter essere nuovamente edificate.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 11.04.2019 n. 10122.
Per i giudici di piazza Cavour, «la sottrazione a imposta del fabbricato collabente, iscritto nella conforme categoria catastale F/2 (come quello di cui trattasi), in ragione dell'azzeramento della relativa base imponibile, non può essere superata prendendo a riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree edificabili e costituita dal valore venale del terreno sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge (dlgs n. 504 del 1992) prevede l'imposizione Ici per le aree edificabili e non per quelle già edificate».
Dunque, sui fabbricati privi di rendita i contribuenti non pagano l'Ici, e quindi anche l'Imu e la Tasi, né sui fabbricati né sulle aree edificabili sottostanti. Questi fabbricati, cosiddetti collabenti, non pagano le imposte locali non perché manca il presupposto impositivo, ma perché non può essere determinata la base imponibile considerato che il loro valore economico è pari a zero.
Tuttavia, questo non autorizza l'amministrazione comunale a richiedere il pagamento dei tributi sull'area edificabile poiché si tratta di un'area che è stata già edificata. Per il fabbricato iscritto in categoria catastale F/2, privo di rendita, la mancata imposizione è giustificata non dall'assenza del presupposto, ma dalla mancanza della base imponibile. E non può essere presa a base l'area su cui insiste il fabbricato.
Le categorie catastali prive di reddito. La categoria «F/2» (unità collabenti) viene attribuita ai fabbricati che non sono suscettibili di fornire reddito, come le costruzioni non abitabili o non agibili a causa di dissesti statici, fatiscenza o inesistenza di elementi strutturali e impiantistici, e comunque nel caso in cui la concreta utilizzabilità non sia conseguibile con soli interventi edilizi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Se le effettive condizioni dell'immobile siano tali da renderlo totalmente inutilizzabile, a meno di radicali interventi viene disposto anche l'azzeramento della rendita catastale. E agli atti viene conservata l'unità immobiliare e i relativi identificativi con l'attribuzione della categoria F/2. Secondo la Cassazione, in base alla normativa Ici contenuta nel decreto legislativo 504/1992 (ma la stessa regola vale per Imu e Tasi), non si può tassare l'area edificabile in presenza di un fabbricato regolarmente iscritto in catasto, anche se privo di rendita, perché per ragioni contingenti inagibile. S
ull'esclusione dell'assoggettamento a imposizione degli immobili inquadrati catastalmente in categorie cosiddette fittizie ci sono pochi precedenti della Cassazione. Con sentenza n. 10735/2013, però, la suprema Corte ha stabilito che ai fini Ici «la nozione di fabbricato, di cui al dlgs 30.12.1992, n. 504, art. 2, rispetto all'area su cui esso insiste, è unitaria, nel senso che, una volta che l'area edificabile sia comunque utilizzata, il valore della base imponibile ai fini dell'imposta si trasferisce dall'area stessa all'intera costruzione realizzata».
Ciò che rileva, dunque, è il fabbricato e non l'area edificabile.
Con la sentenza 23347/2004, la Cassazione ha ritenuto che le aree edificabili sono soggette a imposizione fino a quando venga realizzata una prima costruzione, in quanto da tale momento oggetto di imposta è la costruzione mentre l'area fabbricabile diviene area pertinenziale esente. Pertanto, non sono tenuti a pagare le imposte locali gli immobili in corso di costruzione e tutti quelli privi di rendita. In questi casi il tributo non è dovuto né sul fabbricato né sull'area edificabile utilizzata a fini edificatori.
Si tratta di un'interpretazione discutibile. In effetti l'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 504/1992 dispone che in caso di utilizzazione edificatoria dell'area, di demolizione di fabbricato, di interventi di recupero a norma dell'articolo 31, comma 1, lettere c), d) ed e), della legge 457/1978, la base imponibile è costituita dal valore dell'area, la quale è considerata fabbricabile anche in deroga a quanto previsto dall'articolo 2 del citato decreto, senza computare il valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque utilizzato.
Si ritiene che dalla lettura della norma sopra indicata non si possa arrivare alla conclusione che porta a escludere l'assoggettamento a imposizione anche dell'area edificata, solo perché il fabbricato momentaneamente inutilizzabile sia privo di rendita.
L'interpretazione ministeriale. Anche il ministero dell'economia e delle finanze si è allineato alla tesi della Cassazione. Con la risoluzione 8/2013 il dipartimento delle finanze, riguardo alla tassabilità o meno di un lastrico solare, ha escluso la tassazione come area edificabile e lo ha equiparato ai fabbricati classificati catastalmente in categoria F/2.
Anche secondo il ministero l'immobile può essere qualificato come area edificabile, nell'ipotesi in cui sulla stessa non insista alcuna unità immobiliare. Mentre, in presenza di un fabbricato occorre fare riferimento alla rendita catastale associata a ciascuna unità immobiliare, realizzata sull'area, incrementata del 5%, e poi moltiplicata per i coefficienti stabiliti dall'articolo 13 del dl 201/2011. Per l'inquadramento del lastrico solare, il ministero richiama la circolare 9/2001 dell'Agenzia del territorio, ora Agenzia delle entrate, nella quale sono individuate come categorie fittizie (F1 = area urbana, F2 = unità collabenti, F3 = unità in corso di costruzione, F4 = unità in corso di definizione ed F5 = lastrico solare) «quelle che, pur non previste nel quadro generale delle categorie (in quanto ad esse non è associabile una rendita catastale), sono state necessariamente introdotte per poter permettere la presentazione in catasto di unità particolari (lastrici solari, corti urbane, unità in via di costruzione ecc...) con la procedura informatica di aggiornamento Docfa».
Viene precisato che il lastrico solare è associato a un edificio che ospita una o più unità immobiliari e che occorre tenere conto delle sue potenzialità già espresse con l'avvenuta edificazione. Non va tenuto conto, invece, delle potenzialità risultanti dagli strumenti urbanistici in vigore, atteso che «la stima catastale riguarda l'uso attuale del bene (existing use) e non già l'uso fisicamente possibile e legalmente ammissibile, caratterizzato dalla massima produttività (highest and best use)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019).

EDILIZIA PRIVATACanne fumarie senza permessi. Demolizione illegittima: si tratta di volume tecnico. Ricognizione delle recenti pronunce sugli impianti di smaltimento dei fumi in condominio.
La canna fumaria del pub non va abbattuta, per quanto il locale della movida dia fastidio ai condomini. È illegittima l’ordinanza di demolizione adottata dal comune: l’impianto di trattamento di fumi e odori, infatti, non costituisce un manufatto che richiede il permesso di costruire, a meno che non modifichi il prospetto del fabbricato. E dunque non può essere colpito da un provvedimento di cui all’articolo 31 del Testo unico per l’edilizia.
Il sospetto è che l’amministrazione locale sia voluta intervenire per tutelare la salute dei condomini, da sempre ostili all’esercizio pubblico, ma abbia usato lo strumento sbagliato.

È quanto emerge dalla sentenza 11.04.2019 n. 592, pubblicata dalla Sez. II della sede di Salerno del TAR Campania.
Senza motivazione. Il ricorso del gestore è accolto perché il provvedimento del settore ambiente del comune integra lo sviamento denunciato dal privato. I fatti: durante il sopralluogo i vigili urbani scoprono che la cappa della cucina non è a norma. Il funzionario dell'ente dispone la demolizione minacciando l'acquisizione al patrimonio dell'amministrazione in caso d'inottemperanza; misura che i giudici reputano «sproporzionata». Il fatto è che l'impianto di trattamento deve ritenersi un volume tecnico, quindi un'opera priva di un'autonoma rilevanza dal punto di vista urbanistico e funzionale: il comune ne ingiunge la rimozione senza motivarla, per esempio perché il manufatto risulti molto evidente rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile.
Il pub, peraltro, risulta già multato per gli schiamazzi dei giovani che richiama ogni giorno, ma le immissioni acustiche rimangono fuori dal provvedimento annullato. Resta quindi l'impressione che «dietro lo schermo» dell'ordinanza edilizia il comune abbia voluto tutelare la salute dei condomini messa a rischio da fumi e odori di cucina: sarebbe però servito un provvedimento extra ordinem, quindi eccezionale. L'ordinanza contingibile e urgente deve tuttavia essere emessa dal sindaco, non dal dirigente dell'ente, e soltanto in caso di grave pericolo per la comunità.
I precedenti. La canna fumaria del ristorante, insomma, s'ha da fare quando il comune dà il via anche se il condominio dice no. E ciò perché il proprietario esclusivo dell'immobile ha facoltà di collocare un manufatto nell'area comune a patto che l'installazione non pregiudichi il pari diritto degli altri condomini: in tal caso ha titolo per ottenere il titolo edilizio che serve quando il manufatto risulta troppo evidente lungo il palazzo.
Lo ha chiarito la sentenza 648/2017, pubblicata dalla prima sezione del Tar Marche.
Bocciato il ricorso del vicino che non riesce a bloccare l'intervento al servizio del locale pubblico assentito dallo sportello unico per le attività produttive. E attenzione: il fatto che il singolo abbia partecipato senza opporsi all'assemblea condominiale che ha dato via libera al progetto non può essere considerato indice di acquiescenza alla realizzazione dell'opera. Il punto è che il placet del condominio non serve se la canna fumaria rispetta le norme sulle parti comuni del fabbricato. Sta al vicino provare che il cortile non sarebbe di proprietà comune. E certo non basta sostenere che l'area non sia menzionata nel contratto di compravendita dell'immobile per superare la presunzione di condominialità di cui all'articolo 1117 cc: la superficie risulta messa al servizio di tutti e l'assenza di comunione non può ritenersi dimostrata. La circostanza che il titolare della licenza commerciale sia il gestore del ristorante -dunque l'affittuario dell'immobile e non il proprietario- non preclude l'installazione del manufatto: d'altronde l'istanza all'ente risulta presentata da entrambi i soggetti.
Dimensioni ridotte. Ciò che conta è la natura di impianto tecnico della canna fumaria: è escluso che i vicini possano bloccare anche la sanatoria concessa alla pizzeria.
È il caso affrontato dalla sentenza 10/2015, pubblicata dalla prima sezione del Tar Marche.
La famiglia che abita sulla verticale del locale deve rassegnarsi a convivere con gli olezzi di frittura che vengono dal basso. E ciò al di là del caso specifico rappresentato dal locale pubblico: la struttura per l'esalazione dei fumi deve infatti essere considerata un volume tecnico che è necessario per l'utilizzo di tutti gli impianti termici, i quali sono indispensabili negli edifici moderni.
Un problema si potrebbe invece porre per strutture di grandi dimensioni, ma non è questo il caso: risulta innestato soltanto un tubo di piccolo diametro. La necessità dell'autorizzazione dei condomini risulta esclusa sulla base dell'articolo 1102 cc, comma primo. E nello specifico è escluso la canna fumaria stoni con le linee architettoniche del fabbricato.
Prima la snellezza. Sbaglia il comune, allora, se subordina il suo sì alla canna fumaria di un condomino al consenso degli altri. L'iter autorizzativo dell'ente locale e quello del condominio sono piani paralleli: non si intersecano. L'amministrazione non può imporre al singolo proprietario che vuole costruire la canna fumaria di farsi assentire i lavori dall'assemblea nello stesso momento in cui concede il via libera all'intervento edilizio: la legittimità dell'autorizzazione non può condizionare la regolazione dei rapporti fra le parti private.
Lo evidenzia una sentenza del Tar Campania, la 1985/2013, pubblicata dalla prima sezione della sede di Salerno.
Cade in errore l'ente locale quando vincola l'efficacia della sua stessa autorizzazione al placet dell'assemblea condominiale. L'amministrazione deve accertare che chi chiede di realizzare il progetto urbanistico sia titolare di un idoneo titolo di godimento sull'immobile ma non è anche tenuta a verificare limiti di natura civilistica per la realizzazione dell'opera edilizia: altrimenti il procedimento burocratico diverrebbe ancora più pesante, per via di accertamenti lunghi e complicati.
La richiesta installazione della canna fumaria costituisce un intervento riconducibile nella sfera di operatività della norma ex articolo 1102 cc perché colloca sì il manufatto «estraneo» sul muro comune a servizio di una sola unità immobiliare ma non preclude a nessuno dei proprietari esclusivi l'eventuale relativo uso della parte comune né ne altera la destinazione d'uso. Insomma: il singolo proprietario esclusivo trae dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto agli altri ma senza un intervento di particolare vastità.
Attività necessaria. Il principio vale anche quando non c'è un locale pubblico di mezzo.
È quanto emerge dalla sentenza 450/2018, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lombardia.
Il comune non può bloccare il ripristino del tubo coibentato che serve a smaltire i fumi dell'appartamento soltanto perché va installato in una condotta in muratura di proprietà anche di un altro condomino e manca l'assenso di quest'ultimo. Si tratta infatti di un intervento di manutenzione ordinaria che l'amministrazione può inibire soltanto per motivi tecnici e urbanistici e non sulla base della disciplina privatistica: dovrà essere il giudice civile a risolvere eventuali liti fra i condomini. Accolto il ricorso del singolo proprietario: la sua canna fumaria era stata bloccata perché non a norma e ora nella condotta detenuta «in condominio» col vicino deve essere inserito il nuovo tubo coibentato.
Non c'è dubbio che si tratti di lavori di manutenzione ordinaria: l'intervento si risolve nella sostituzione di un impianto esistente e non ha alcun impatto strutturale né estetico sul fabbricato. Anzi: è un'attività necessaria a rendere l'immobile conforme all'uso perché rimette in opera la canna fumaria, cioè un impianto esistente ma non utilizzabile. Insomma, il comune deve limitarsi a verificare la conformità del progetto allo strumento urbanistico e alle altre norme di settore (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019).
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MASSIMA
In ogni caso, e in disparte la seconda censura dell’atto introduttivo del giudizio, quelle che appaiono al Collegio dirimenti –trascorrendo agli aspetti di natura squisitamente urbanistico–edilizia, implicati dal provvedimento impugnato– sono la terza e la quarta doglianza, ivi contenute, le quali convergono nel senso dell’impossibilità d’adottare, con riferimento all’impianto di smaltimento di fumi e odori, installato dalla ricorrente, a servizio della propria attività commerciale, e in ragione della dedotta violazione dell’art. 80 del R.U.E.C., un’ordinanza di demolizione, ex art. 31 d.P.R. 380/2001, la quale appare al Collegio –come, del resto, la minacciata acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio del Comune, in caso d’inottemperanza– “francamente sproporzionata” (come recita la prefata ordinanza cautelare).
Più specificamente,
deve fondatamente escludersi, aderendo alle suddette censure, che la canna fumaria de qua possa essere assimilata, per le sue concrete caratteristiche (“l’impianto della ricorrente è di piccole dimensioni, con nessun impatto sul paesaggio e non modifica minimamente il prospetto condominiale”), ad opera, per la quale fosse necessario il permesso di costruire, con conseguente impossibilità d’ordinarne la demolizione, ex art. 31 d.P.R. 380/2001.
Cfr., in giurisprudenza, la massima seguente: “
La canna fumaria deve ritenersi un'opera priva di autonoma rilevanza urbanistico -funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, a meno che non si tratti di opere di palese evidenza rispetto alla costruzione ed alla sagoma dell'immobile, occorrendo solo in tal caso il permesso di costruire. Nella specie, il Comune ha completamente omesso qualsiasi indagine, dando per scontata la misura demolitoria, senza alcuna motivazione sul punto e comunque nell'implicito erroneo assunto che le canne fumarie debbano tout court ricondursi ad opere sottoposte a permesso” (TAR Abruzzo–L’Aquila, Sez. I, 07/04/2016, n. 209).
In motivazione, la stessa sentenza specificava che: “
(…) La canna fumaria deve ritenersi ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, senza essere conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione (ex multis, Tar Campania Napoli Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380)”.
In termini sostanzialmente identici, cfr. anche l’altra massima che segue: “
È illegittima l'ordinanza di demolizione adottata in relazione all'installazione di una canna fumaria, relativa ad un impianto ecocompatibile a basso impatto ambientale alimentato con materiali biodegradabili, in quanto trattasi di opera priva di autonoma rilevanza urbanistico — funzionale e che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio, costituendo peraltro un volume tecnico” (TAR Calabria–Catanzaro, Sez. I, 17/04/2012, n. 391).
Del resto, la necessità del p.d.c. è circoscritta, sempre dalla giurisprudenza, in aderenza al dato normativo, ad ipotesi ben circoscritte e senz’altro differenti da quella, considerata nella specie: “
L'installazione di una canna fumaria è riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett. d ), d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c ), dello stesso d.P.R., laddove comporti, come nella fattispecie, una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce” (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 01/10/2012, n. 4005).
In aderenza alle suddette argomentazioni, e prescindendo dagli ulteriori profili, pure evidenziati in ricorso, ne risulta provato che –non richiedendo, la contestata canna fumaria, il rilascio del p.d.c.- la stessa giammai poteva essere attinta dall’ordinanza di demolizione impugnata.
Né a diverse conclusioni può giungersi, in ragione dell’evidenziato contrasto dell’opera in questione con l’art. 80 del R.U.E.C. di Nocera Inferiore.
Stabilito, infatti, che nella specie -in base alla disciplina legislativa, di cui al d. P. R. 380/2001- non era necessario il titolo abilitativo maggiore, non rileva il dedotto contrasto con la norma di regolamento edilizio comunale, non potendo, evidentemente, quest’ultima derogare alla legge, instaurando la necessità di un titolo edilizio non previsto, in linea generale, dalla medesima.
Al riguardo, cfr. il principio, sancito da TAR Liguria, Sez. I, 20/06/2017, n. 540, ed agevolmente estensibile alla specie: “
L’art. 3, comma 2, del dPR 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento locale possa considerare un'attività costruttiva in modo differente rispetto ai principi generali posti dalla norma di legge citata (fattispecie relativa a norma di regolamento che sancisce l'obbligo di acquisizione del titolo edilizio per l'installazione dell'antenna)”.
In conformità alle suddette considerazioni, e con assorbimento della residua (quinta) doglianza esposta in ricorso, lo stesso va accolto, e il provvedimento gravato, sub a) dell’epigrafe, annullato, senza che occorra scendere all’analisi delle censure, specificamente rivolte all’impugnativa dell’art. 80 del R.U.E.C., che non rivestono un carattere dirimente, ai fini della decisione.

EDILIZIA PRIVATADeve ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
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A questo proposito, peraltro, occorre rammentare che <<la precarietà di un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera>>.
La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli rivolti ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
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Proprio con riferimento alle tettoie, è stato di recente affermato che deve ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite (in questo senso, TAR, Napoli, sez. III, 29/05/2018, n. 3545).
A questo proposito, peraltro, occorre rammentare che <<la precarietà di un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera>> (C. Stato, sez. IV, 26/09/2018, n. 5525; nello stesso senso, C. Stato, sez. VI, 11/01/2018, n. 150).
La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli rivolti ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (TAR, Brescia, sez. I, 07/08/2018, n. 800).
Ebbene, se anche fosse possibile affermare la natura meramente precaria della tettoia originariamente autorizzata, l’intervento oggetto di contestazione e per il quale è stata negata la sanatoria, ha trasformato uno spazio per lo più aperto in un corpo di fabbrica chiuso avente una struttura idonea ad un uso duraturo del tempo, come del resto confermato anche da parte ricorrente. Questa, infatti, ha sottolineato come tale chiusura si sia resa necessaria per garantire che l’attività imprenditoriale esercitata fosse conforme alla normativa nazionale e comunitaria.
Risulta, quindi, evidentemente venuto meno il carattere meramente precario della tettoia, avendo parte ricorrente realizzato, di fatto, una vera e propria costruzione potenzialmente duratura, per la quale non solo era necessario richiedere ed ottenere un permesso di costruire (rectius concessione edilizia, ratione temporis), ma non è nemmeno possibile revocare in dubbio la rilevanza dell’opera ai fini del rispetto delle distanze concernenti la c.d. fascia cimiteriale di rispetto ed il relativo vincolo di inedificabilità (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.04.2019 n. 458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura.
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Con riferimento alla natura del vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 338, r.d. n. 1256 del 1934, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici.
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La natura tendenzialmente assoluta del vincolo predetto comporta che, rispetto alle richieste dei privati, le deroghe, ammissibili tanto nella versione dell’art. 338 ante modifica da parte della l. 166 del 2002, quanto nella versione attuale, devono ritenersi del tutto eccezionali.
In particolare, in giurisprudenza è stato sottolineato che:
   a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell'elencazione delle opere ammissibili;
   b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti);
   c) l'art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate condizioni, della zona di rispetto per scelta dell'amministrazione:
- per la costruzione di nuovi cimiteri o per l'ampliamento di cimiteri esistenti (comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente fuori dalla fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici (comma 5).
Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato la portata e i limiti delle modifiche apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di privati.
Per quanto concerne, in particolare, la deroga di cui al comma 5, sia nella vecchia che nella nuova formulazione, richiede l’attivazione di uno specifico procedimento che comporta una valutazione da parte del Consiglio Comunale finalizzata ad una autorizzazione in deroga.
E’ evidente, a questo riguardo, che tale procedimento (che nella vecchia formulazione peraltro richiedeva altresì l’intervento del prefetto) difficilmente può ritenersi compatibile con l’istituto della concessione o permesso di costruire in sanatoria, oggetto del presente procedimento.
In ogni caso, quand’anche si dovessero ritenere astrattamente applicabili le disposizioni eccezionali e derogatorie dell’art. 338 citato ad una fattispecie in sanatoria quale quella in esame, in concreto, nel giudizio che ci occupa, tali norme non sarebbero invocabili da parte ricorrente in quanto eventuali deroghe al limite di 200 metri della c.d. fascia cimiteriale sono ammissibili solo purché sia mantenuta la distanza minima di 50 m tra la struttura cimiteriale e l’opera in contestazione.
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Fermo quanto sopra detto, peraltro, occorre sottolineare che la precarietà o meno di un’opera non è un elemento di per sé rilevante ai fini del rispetto delle distanze ed in particolare, con riguardo alla fascia di rispetto cimiteriale e relativo vincolo.
In merito al vincolo cimiteriale, infatti, non rileva tanto la precarietà o meno di una costruzione od opera, quanto la compatibilità della struttura in esame con il rispetto degli interessi pubblici che detto vincolo è diretto a tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, da un lato, e la sacralità del luogo, dall’altro.
Pertanto, in ogni caso, l’intervento edilizio posto in essere da parte ricorrente oggetto del presente giudizio risulta rilevante ai fini del rispetto della disciplina relativa al c.d. vincolo cimiteriale.
Al riguardo, si richiama l’insegnamento secondo il quale <<il vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura>> (C. Stato , sez. IV , 13/12/2017 , n. 5873)
Ebbene, nel caso di specie, se una mera tettoia meramente precaria può, eventualmente, considerarsi rispettosa di tale vincolo, ancorché realizzata all’interno della c.d. fascia di rispetto cimiteriale, non confliggendo con esso proprio per la sua intrinseca amovibilità e per la natura aperta della struttura, lo stesso non può dirsi per un edificio completamente chiuso e la cui finalità denota un utilizzo duraturo, che, insistendo all’interno della fascia di rispetto, si pone inevitabilmente in contrasto con gli interessi sottesi al vincolo cimiteriale predetto.
2.2. Con riferimento alla natura del vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 338, r.d. n. 1256 del 1934, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici (in ordine ai predetti principi si vedano, tra le altre, C. Stato, sez. IV, 05/12/2018, n. 6891; C. Stato, sez. VI, 02/07/2018, n. 4018; C. Stato, sez. IV, 13/12/2017, n. 5873).
La natura tendenzialmente assoluta del vincolo predetto comporta che, rispetto alle richieste dei privati, le deroghe, ammissibili tanto nella versione dell’art. 338 ante modifica da parte della l. 166 del 2002, quanto nella versione attuale, devono ritenersi del tutto eccezionali.
In particolare, in giurisprudenza è stato sottolineato che:
   a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell'elencazione delle opere ammissibili;
   b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti);
   c) l'art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate condizioni, della zona di rispetto per scelta dell'amministrazione:
- per la costruzione di nuovi cimiteri o per l'ampliamento di cimiteri esistenti (comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente fuori dalla fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici (comma 5) (in ordine ai principi di cui sopra vi vedano, tra le altre, C. Stato, sez. IV, 05/12/2018, n. 6891; C. Stato , sez. IV, 23/04/2018, n. 2407; C. Stato , sez. VI , 27/07/2015, n. 3667).
Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato la portata e i limiti delle modifiche apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di privati (C. Stato sez. IV, 23/04/2018, n. 2407; C. Stato, sez. VI, 02/07/2018, n. 4018; C. Stato, sez. IV, 06/10/2017, n. 4656).
Per quanto concerne, in particolare, la deroga di cui al comma 5, sia nella vecchia che nella nuova formulazione, richiede l’attivazione di uno specifico procedimento che comporta una valutazione da parte del Consiglio Comunale finalizzata ad una autorizzazione in deroga.
E’ evidente, a questo riguardo, che tale procedimento (che nella vecchia formulazione peraltro richiedeva altresì l’intervento del prefetto) difficilmente può ritenersi compatibile con l’istituto della concessione o permesso di costruire in sanatoria, oggetto del presente procedimento.
In ogni caso, quand’anche si dovessero ritenere astrattamente applicabili le disposizioni eccezionali e derogatorie dell’art. 338 citato ad una fattispecie in sanatoria quale quella in esame, in concreto, nel giudizio che ci occupa, tali norme non sarebbero invocabili da parte ricorrente in quanto eventuali deroghe al limite di 200 metri della c.d. fascia cimiteriale sono ammissibili solo purché sia mantenuta la distanza minima di 50 m tra la struttura cimiteriale e l’opera in contestazione.
Nel caso di specie parte ricorrente non ha contestato in alcun modo, né, a fortiori, ha minimamente confutato, il rilievo avanzato dal Comune, che ha sottolineato come l’opera in contestazione si trovi collocata a 30 metri dal confine con il cimitero. Detta opera, perciò, risulta trovarsi integralmente all’interno della fascia minima di rispetto.
Ne discende che in nessun caso l’opera in contestazione potrebbe essere considerata suscettibile di sanatoria e che, quindi, la censura di parte ricorrente è palesemente priva di fondamento.
Da ultimo, la contestazione di tardività del rilascio del permesso di costruire in sanatoria e della violazione del principio di buon andamento dell’Amministrazione è sia tardiva che inammissibile, in quanto articolata solo in memoria difensiva datata 26.2.2019 e non notificata.
2.3. Alla luce di quanto sopra detto, pertanto, il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.04.2019 n. 458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISì al soccorso istruttorio per le referenze bancarie. Ammesso per gare di appalti pubblici.
È ammesso il soccorso istruttorio per le referenze bancarie presentate in una gara d'appalto pubblico.
È quanto ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 10.04.2019 n. 2351 con riguardo all'accertamento della capacità economico finanziaria di un concorrente ad una gara di appalto pubblico, attraverso la produzione di referenze bancarie.
In particolare, i giudici di Palazzo Spada, dopo avere ribadito che le referenze assumono particolare rilievo «per il fatto notorio che il sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto tale profilo», ha precisato che è anche vero che le referenze bancarie «per quanto siano uno dei mezzi di prova per la qualificazione degli operatori economici sul piano economico-finanziario, possono rivelarsi in concreto inidonee a dimostrare i requisiti minimi di solidità economica e patrimoniale dell'impresa al momento della partecipazione alla gara».
Questo perché la stazione appaltante deve «sempre aver riguardo al dato sostanziale come emergente da tutti i documenti in suo possesso». Per il Consiglio di Stato, inoltre, le referenze bancarie «sono suscettibili di soccorso istruttorio da parte della stazione appaltante, che ha anche la possibilità di richiedere la loro integrazione mediante altra documentazione» e che «non devono essere consacrate in formule sacramentali, per essere sufficiente, per la loro idoneità, l'indicazione della correttezza e puntualità dei rapporti tra la cliente e l'istituto bancario».
Dal punto di vista, invece, della idoneità, a provare la capacità economico-finanziaria del concorrente, il Consiglio di stato ha chiarito che le referenze bancarie vanno considerate idonee qualora «gli istituti bancari abbiano riferito sulla qualità dei rapporti in atto con le società, per le quali le referenze sono richieste, con particolare riguardo alla correttezza e puntualità di queste nell'adempimento degli impegni assunti con l'istituto, l'assenza di situazioni passive con lo stesso istituto o con altri soggetti, che siano desumibili dai movimenti bancari o da altre informazioni in loro possesso».
Rimane però rimessa all'amministrazione aggiudicatrice la valutazione dell'idoneità dei documenti presentati dall'operatore economico, impossibilitato alla produzione delle referenze bancarie (articolo ItaliaOggi del 19.04.2019).
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MASSIMA
4. Il motivo di appello è infondato.
4.1. L’art. 41, comma 1, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 prevedeva che nelle procedure per l’affidamento di appalti di forniture o di servizi, la dimostrazione della capacità economico–finanziaria potesse essere fornita mediante, tra gli altri, “dichiarazione di almeno due istituti bancari o intermediari autorizzati ai sensi del decreto legislativo 01.09.1993, n. 383”, specificando, al comma 3, che “Se il concorrente non è in grado, per giustificati motivi, ivi compreso quello concernente la costituzione o l’inizio dell’attività da meno di tre anni, di presentare le referenze richieste, può provare la propria capacità economica e finanziaria mediante qualsiasi altro documento considerato idoneo dalla stazione appaltante”.
L’Agenzia del Demanio, nell’avviso pubblico che ha dato avvio alla procedura in esame, ha inteso far riferimento a tali prescrizioni per la dimostrazione della capacità economico–finanziaria degli offerenti ponendo a carico degli operatori offerenti l’onere documentale in precedenza esposto.
4.2.
In materia di referenze bancarie, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che:
   -
costituiscono uno dei mezzi di prova dei requisiti economico–finanziari necessari per l’aggiudicazione dei contratti pubblici, per il fatto notorio che il sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto tale profilo (cfr. Cons. Stato, sez. III, 17.12.2015, n. 5704);
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per quanto siano uno dei mezzi di prova per la qualificazione degli operatori economici sul piano economico–finanziario, possono rivelarsi in concreto inidonee a dimostrare i requisiti minimi di solidità economica e patrimoniale dell’impresa al momento della partecipazione alla gara, dovendo la stazione appaltante aver riguardo al dato sostanziale come emergente da tutti i documenti in suo possesso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.11.2018, n. 6292);
   -
sono suscettibili di soccorso istruttorio da parte della stazione appaltante, che ha anche la possibilità di richiedere la loro integrazione mediante altra documentazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 03.08.2018, n. 4810);
   -
non devono essere consacrate in formule sacramentali, per essere sufficiente, per la loro idoneità, l’indicazione della correttezza e puntualità dei rapporti tra la cliente e l’istituto bancario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.01.2016, n. 108);
   -
le referenze bancarie vanno considerate “idonee” qualora gli istituti bancari abbiano riferito sulla qualità dei rapporti in atto con le società, per le quali le referenze sono richieste, con particolare riguardo alla correttezza e puntualità di queste nell’adempimento degli impegni assunti con l’istituto, l’assenza di situazioni passive con lo stesso istituto o con altri soggetti, che siano desumibili dai movimenti bancari o da altre informazioni in loro possesso (cfr. Cons. Stato, sez. III, 27.06.2017, n. 3134; IV, 29.02.2016, n. 854; IV, 22.11.2013, n. 5542);
   -
è rimesso alla stazione appaltante la valutazione dell’idoneità dei documenti presentati dall’operatore economico, impossibilitato alla produzione delle referenze bancarie (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.07.2017, n. 3501).
4.3. Dall’esame degli approdi giurisprudenziali riportati emerge con ogni evidenza che le referenze bancarie, come anche ogni altro documento equivalente, devono consentire alla stazione appaltante di aver cognizione del grado di affidabilità economico–finanziario dell’operatore economico che abbia presentato domanda di partecipazione alla procedura di gara anche in relazione all’entità degli investimenti offerti; non può, pertanto, reputarsi idonea a tale scopo una documentazione (referenza bancaria o altre attestazioni) che non abbia riguardo alla situazione finanziaria dell’operatore, ma del suo rappresentante legale, per quanto ne sia il socio di maggioranza.
La stazione appaltante, come l’ente concedente, non ha interesse a conoscere i rapporti con il sistema bancario del rappresentante legale, i cui rapporti di credito/debito sono di regola intrattenuti anche per finalità estranee all’attività di impresa, ma di quale reputazione goda l’impresa offerente nell’ambito del sistema bancario e se essa possa dirsi in condizione di stabilità e solidità economico–finanziaria, tale da reggere gli investimenti economici programmati.

EDILIZIA PRIVATA: Intervento edilizio su immobili sottoposti a tutela paesaggistica o ambientale - Istituto del silenzio-assenso inoperatività - Preventivo parere o autorizzazione - Artt. 20, 22, 23-bis, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Dal combinato disposto degli artt. 20, 22, 23-bis, D.P.R. n. 380/2001 ed art. 20 della legge n. 07.08.1990, n. 241 è corretto desumere che, quando si intende realizzare un intervento edilizio per il quale è necessaria il permesso di costruire o la segnalazione certificata di inizio di attività, riguardanti immobili sottoposti a tutela paesaggistica o ambientale, è necessario acquisire preventivamente il parere o l'autorizzazione prevista dalle specifiche discipline di salvaguardia, e, inoltre, che l'istituto del silenzio assenso non opera con riferimento agli atti e procedimenti riguardanti la tutela del patrimonio paesaggistico o dell'ambiente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2019 n. 15523 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tutela del paesaggio e provvedimento autorizzatorio - Effetti del silenzio dell'amministrazione - Concorso di competenze statali e regionali - Definizione di pratiche edilizie mediante sanatoria - Art. 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004 - Speciale causa di estinzione del reato paesaggistico - Art. 39, c. 8, L. n. 724/1994 - Giurisprudenza - Fattispecie.
In tema di tutela del paesaggio, il provvedimento autorizzatorio previsto dalla legislazione di settore deve avere forma espressa, atteso che il silenzio dell'amministrazione proposta alla tutela del vincolo non può avere valore di assenso stante la necessità di valutare da parte della p.a. equilibri diversi e tenere conto del concorso di competenze statali e regionali. Identiche conclusioni, inoltre, sono state affermate anche con riferimento alla definizione di pratiche edilizie mediante sanatoria.
In particolare, si è osservato che la speciale causa di estinzione del reato paesaggistico introdotta dall'art. 39, comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724, è subordinata, in caso di opere eseguite in zona vincolata, al conseguimento delle autorizzazioni delle Amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, non essendo applicabile la procedura del silenzio-assenso, prevista dal comma 4 della medesima disposizione, che si riferisce alla sola ipotesi di violazioni edilizie eseguite in zona non vincolata
(così, per tutte, Sez. 3, n. 30059 del 16/05/2018, Quartucci).
Fattispecie: disciplina applicabile su immobile, in zona su cui insiste vincolo paesaggistico, in ristrutturazione e piscina in edificazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2019 n. 15523 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara se il Durc è negativo per una denuncia errata.
Secondo il Consiglio di Stato si può perdere una gara che vale milioni di euro e che coinvolge centinaia di lavoratori per il mancato inserimento del codice fiscale del figlio di una dipendente (su oltre duemila) e la conseguente scopertura contributiva di circa 330 euro.

Con una pronuncia di stampo estremamente formalistico (Sez. III, sentenza 09.04.2019 n. 2313), il giudice amministrativo smentisce l’approccio opposto tenuto dal giudice sul lavoro che, con riferimento alla stessa vicenda, pochi mesi fa è giunto a conclusioni diverse (sentenza 1490/2019 del tribunale di Roma - si veda il Sole 24 Ore del 27 febbraio scorso).
La questione esaminata dal Consiglio di Stato riguarda l’esclusione da un bando di gara di una società che non ha correttamente inserito un codice fiscale nelle denunce mensili relative al personale e quindi è incappata in un Durc negativo.
In primo grado il Tar ha confermato la validità dell’esclusione, sostenendo che nel concetto di violazione degli obblighi previdenziali rientri non solo il mancato versamento dei contributi, accertati e quantificati, ma anche l’omissione delle denunce obbligatorie, in quanto solo con la presentazione di una denuncia corretta e completa l’ente previdenziale è messo in condizione di controllare e quantificare i contributi dovuti.
La società ha fatto presente che l’omissione era di scarsa rilevanza, in quanto consisteva nella mancata specificazione del codice fiscale del figlio convivente di uno dei circa 2.000 dipendenti mensilmente dichiarati all’Inps, ed era scaturita, peraltro, dalle novità tecniche che avevano interessato la modalità di invio telematico dei flussi dei dati contributivi proprio nel periodo di interesse.
Nonostante questa incongruenza del tutto marginale, il Consiglio di Stato ha giudicato legittima l’esclusione. Infatti la ragione ostativa al rilascio di Durc regolare può consistere «anche nel solo mancato adempimento degli obblighi di presentazione delle denunce periodiche perché tale inadempimento, di per sé, integra violazione contributiva grave, a prescindere dal fatto che, in conseguenza della mancata presentazione delle denunce, sia stato omesso il versamento di contributi» per importi molto bassi, inferiori alla soglia di 150 fissata come “rilevante” dalla legge.
Un formalismo cieco che si concentra sulla procedura –indubbiamente, il codice fiscale del figlio della dipendente non era stato inserito– senza guardare in alcun modo al “bene giuridico” che questa vuole tutelare –la regolarità contributiva della società– e che travolge completamente ogni valutazione sulla rilevanza e sulla proporzionalità del danno prodotto dall’omissione (qui prossimo allo zero).
Questo formalismo arriva a travolgere anche l’accertamento delle responsabilità del mancato inserimento del codice fiscale: limitarsi a sostenere che una grande azienda «deve» applicare le procedure informatiche, senza verificare se queste erano concretamente fruibili, significa voler difendere un rapporto squilibrato tra Pubblica amministrazione e imprese (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019).
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MASSIMA
7.1. La giurisprudenza di questo Consiglio, anche di recente, ha sempre ribadito con costanza, e con fermezza, che
la ragione ostativa al rilascio di DURC regolari ben può consistere anche nel solo mancato adempimento degli obblighi di presentazione delle denunce periodiche perché tale inadempimento, di per sé, integra violazione contributiva grave, a prescindere dal fatto che, in conseguenza della mancata presentazione delle denunce, sia stato omesso il versamento di contributi per importi inferiori all’importo-soglia di cui all’art. 3, comma 3, del D.M. 30.01.2015.
7.2.
L’omessa o l’incompleta presentazione delle denunce obbligatorie impedisce il rilascio di DURC regolare prima della sanatoria, pur sempre possibile, ma non rilevante nei rapporti tra l’impresa e la stazione appaltante in riferimento alla gara in corso (v., da ultimo, Cons. St., sez. V, 18.02.2019, n. 1116).

INCARICHI PROGETTUALIOfferte, ammessi tecnici fuori da raggruppamenti. Dubbi su subappalto delle progettazioni.
In un raggruppamento di progettisti non è obbligatorio inserire il professionista nel raggruppamento; è sufficiente che nell'offerta sia indicata la parte della prestazione che svolgerà.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 08.04.2019 n. 2276.
Il caso esaminato riguardava un appalto di servizi di ingegneria e architettura cui aveva partecipato un raggruppamento di progettisti che aveva inserito nel proprio staff tecnico un ingegnere in possesso di una certificazione energetica che veniva quindi fatto «passare» per membro del raggruppamento, quando invece risultava soltanto indicato come facente parte del team indicato in offerta.
I giudici hanno ricostruito il quadro normativo di riferimento a partire dal contenuto dell'articolo 46 del codice appalti che ammette alla partecipazione sia di professionisti singoli, associati, sia di raggruppamenti temporanei.
Il Consiglio di stato ha ricordato anche che l'articolo 24, comma 5 espressamente prevede che «indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto affidatario, l'incarico è espletato da professionisti iscritti negli appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti professionali, personalmente responsabili e nominativamente indicati già in sede di presentazione dell'offerta, con la specificazione delle rispettive qualificazioni professionali».
Da tali norme il collegio desume che «è dunque evidente che non vi è alcun obbligo di inserire il professionista nel raggruppamento temporaneo di professionisti ma è necessario, e sufficiente, che l'offerta indichi analiticamente i singoli professionisti designati, le relative specifiche attività e le connesse necessarie qualificazioni professionali».
Il nuovo codice, ad avviso dei giudici, quindi, «ammette la possibilità alternativa dell'offerente di avvalersi di liberi professionisti singoli o associati» ovvero di inserirli nel raggruppamento temporaneo. Non sembra però chiaro, alla luce di questa posizione, come si debba affrontare il tema del divieto di subappalto della progettazione, laddove il professionista risulti nella sostanza estraneo al raggruppamento e, peraltro, non ne partecipi delle relative responsabilità contrattuali (articolo ItaliaOggi del 26.04.2019).

APPALTI SERVIZIServizi pubblici, gara illegittima senza la relazione che giustifica la forma dell’affidamento.
Le ragioni della scelta della migliore modalità di gestione del servizio pubblico devono essere compiutamente illustrate nella relazione prevista dall'articolo 34, comma 20, del Dl 179/2012, la cui mancanza determina l'illegittimità degli atti di gara.

Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 08.04.2019 n. 2275.
La questione
Un operatore economico, gestore uscente del servizio di igiene urbana oggetto di affidamento mediante gara, ha contestato la sentenza con cui il Tar ha dichiarato l'illegittimità del provvedimento del Comune di annullamento d'ufficio dell'intera procedura, ritenuta non viziata dalla carenza della relazione illustrativa (articolo 34, comma 20, del Dl 179/2012). L'omissione dell'adempimento costituirebbe, ad avviso dei giudici di primo grado, una mera irregolarità formale e sarebbe perciò inidonea a ledere in concreto l'interesse pubblico alla cui tutela la norma è preordinata.
Il comma 20 dell'articolo 24 dispone che per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che deve dare conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste.
Tra i motivi di appello, l'operatore ha criticato la sentenza del Tar in quanto ha ritenuto la valenza meramente formale e non sostanziale della relazione illustrativa, la cui mancanza sarebbe inidonea a ledere gli specifici interessi pubblici tutelati dalla norma che la prescrive e comunque a comportare il concorrente sacrificio degli altri interessi coinvolti nella vicenda, a cominciare da quello delle imprese ammesse alla prosecuzione della gara, ma anche quello della stessa amministrazione alla conservazione dell'attività amministrativa compiuta.
La relazione
La quinta sezione del Consiglio di Stato rileva la fondatezza dell'appello, contestando alla radice la valenza formale e non sostanziale dell'adempimento relativo alla relazione, in quanto smentita dall'articolo 3-bis, comma 1-bis, del Dl 138/2011 che, nel dettare i criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali, ha imposto agli enti di governo di effettuare la relazione in cui dare conto della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e motivarne le ragioni con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e qualità del servizio.
Nel contesto di sostanziale equiordinazione tra i vari modelli di gestione disponibili per la gestione dei servizi pubblici locali (partenariato pubblico-privato, società mista, affidamento in house), afferma la sezione, l'amministrazione è chiamata ad effettuare una scelta per l'individuazione della migliore modalità di gestione del servizio rispetto al contesto territoriale di riferimento e sulla base dei principi indicati dalla legge.
L'amministrazione è quindi chiamata all'esercizio di poteri discrezionali al fine di tutelare l'interesse generale al perseguimento degli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e qualità del servizio, che devono trovare esito proprio nella relazione illustrativa di cui all'articolo 34, che non può essere derubricata a «mero orpello procedimentale», scrivono i giudici di Palazzo Spada, in quanto si tratta di valutazioni con le quali l'amministrazione deve in maniera congrua e adeguata motivare sull'assenza di alternative praticabili, non potendo ciò essere supplito da una valutazione con prognosi postuma effettuata dal giudicante (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.04.2019).

APPALTI: Esclusione per condanna non dichiarata.
E' irrilevante che il reato non dichiarato non rientri tra quelli che ai sensi del comma 1 dell’articolo 80 del D.Lgs. n. 50/2016 sono preclusivi della partecipazione alla gara, estendendosi l’obbligo dichiarativo anche a quelle fattispecie astrattamente idonee a porre in dubbio l’affidabilità o l’integrità del concorrente, e tale è sicuramente una condanna per bancarotta fraudolenta, con la conseguenza che l’omissione della dichiarazione è essa stessa idonea ad incidere sull’affidabilità del concorrente.
E' poi irrilevante che la condanna, per effetto dell’accordato beneficio della non menzione, non risulti dai certificati del casellario giudiziario, posto che colui nei cui confronti la sentenza di condanna è stata pronunciata non può non esserne a conoscenza; sempre per il TAR, ancorché l’effetto estintivo del reato sia automatico al concretizzarsi dei presupposti di cui all’articolo 445 Cod. proc. pen., è pur sempre necessaria, affinché venga meno l’obbligo dichiarativo in gara, una pronuncia giudiziale che accerti il verificarsi della fattispecie estintiva, non potendosi gravare la stazione appaltante di controlli che non le competono
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 08.04.2019 n. 766 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Ritenuto:
   - che è irrilevante che il reato non dichiarato non rientri tra quelli che ai sensi del comma 1 dell’articolo 80 del D.Lgs. n. 50/2016 sono preclusivi della partecipazione alla gara, estendendosi l’obbligo dichiarativo anche a quelle fattispecie astrattamente idonee a porre in dubbio l’affidabilità o l’integrità del concorrente, e tale è sicuramente una condanna per bancarotta fraudolenta, con la conseguenza che l’omissione della dichiarazione è essa stessa idonea ad incidere sull’affidabilità del concorrente (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 1649/2019);
   - che l’obbligo dichiarativo si estende, giusta quanto dispone l’articolo 80, comma 3, D.Lgs. n. 50/2016, anche ai membri del Collegio sindacale, in virtù dei poteri controllo e, sia pure in via suppletiva, amministrativi che a esso competono secondo la disciplina contenuta negli articoli 2397 e ss. Cod. civ.;
   - che la falsa dichiarazione risulta per tabulas, e che è irrilevante che la condanna, per effetto dell’accordato beneficio della non menzione, non risultasse dai certificati del casellario giudiziario, posto che colui nei cui confronti la sentenza di condanna è stata pronunciata non può non esserne a conoscenza;
   - che, ancorché l’effetto estintivo del reato sia automatico al concretizzarsi dei presupposti di cui all’articolo 445 Cod. proc. pen., coerentemente con l’orientamento tradizionale che valorizza il dato testuale per cui l’estinzione deve essere “dichiarata” (e che il Collegio ritiene preferibile rispetto ad alcune recenti pronunce di segno contrario), è pur sempre necessaria, affinché venga meno l’obbligo dichiarativo in gara, una pronuncia giudiziale che accerti il verificarsi della fattispecie estintiva (cfr., TAR Toscana, Sez. II, sentenza n. 1041/2018), non potendosi gravare la stazione appaltante di controlli che non le competono;
   - che il provvedimento impugnato, in uno con il gli atti presupposti, rende intellegibile la ragione per la quale il RTI concorrente è stato escluso dalla gara, come dimostra il fatto che stesso che con il primo motivo di impugnazione la ricorrente abbia articolato ampie difese contro la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di decadenza dall’aggiudicazione;
Ritenuto, conseguentemente, che il ricorso sia manifestamente infondato e per questo vada respinto, e che le spese di giudizio vadano regolate secondo il principio della soccombenza.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Revisione prezzi.
La revisione dei prezzi si applica solo alle proroghe contrattuali e non anche agli atti successivi al contratto originario con cui, attraverso specifiche manifestazioni di volontà, siano stati costituiti tra le parti nuovi e autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto analogo a quello originario (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 08.04.2019 n. 764 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
1. In via preliminare appare opportuno premettere che, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm., le controversie in tema di revisione prezzi sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sia che la contestazione riguardi la spettanza della stessa, sia l’esatto suo importo come quantificato dal concreto provvedimento applicativo (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, III, 28.02.2018, n. 595).
2. Sempre in via preliminare va chiarito che il periodo di proroga contrattuale –ricompreso tra il 01.07.2014 e il 30.03.2017– preso in considerazione nella presente controversia è successivo a quello per cui è stato instaurato, tra le stesse parti di questo giudizio, il ricorso R.G. n. 2775/2013, conclusosi con la sentenza della Terza Sezione di questo Tribunale n. 595 del 28.02.2018, di parziale accoglimento del gravame.
3. Passando all’esame del merito del ricorso, lo stesso non è fondato.
4. Con l’unica complessa censura di gravame, si assume l’illegittimità del mancato riconoscimento in favore della parte ricorrente del compenso revisionale nella misura di € 1.605.219,33, per il periodo 01.07.2014/30.03.2017, nonostante il Comune di Milano abbia semplicemente posticipato più volte l’originario termine di esecuzione contrattuale, anziché rinegoziare/rivisitare i preesistenti obblighi pattizi.
4.1. La doglianza è infondata.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, la revisione dei prezzi si applica solo alle proroghe contrattuali e non anche agli atti successivi al contratto originario con cui, attraverso specifiche manifestazioni di volontà, siano stati costituiti tra le parti nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto analogo a quello originario (cfr. Consiglio di Stato, III, 05.03.2018, n. 1337; 09.01.2017, n. 25; 22.01.2016, n. 209; TAR Lombardia, Milano, III, 28.02.2018, n. 595).
Pertanto, nella controversia de qua, deve verificarsi se gli atti di proroga contrattuale posti in essere dal Comune di Milano nei confronti del Consorzio ricorrente risultino essere semplici estensioni dell’originario rapporto, come sostenuto nel ricorso, e quindi determinino la necessità di prevedere un compenso revisionale, oppure si tratti di rinnovi contenenti nuove manifestazioni di volontà, che danno vita ad autonomi rapporti giuridici e per i quali non è previsto alcun corrispettivo revisionale.
4.2. Il primo rinnovo contrattuale, relativo al periodo 01.07.2014/30.06.2015, è stato disposto con determinazione dirigenziale n. 276 del 30.06.2014 (all. 3 al ricorso e all. 8 e 9 del Comune). Dalla lettura dell’atto di sottomissione, debitamente sottoscritto e accettato dal Consorzio, si ricava che l’oggetto del contratto è stato certamente modificato rispetto al suo originario contenuto, in quanto la manutenzione programmata è stata estesa anche alle aree a verde pubblico ubicate nei cimiteri cittadini (per un ulteriore importo di € 888.787,81); inoltre la stessa parte ricorrente ha evidenziato l’effettuazione di una prestazione aggiuntiva gratuita riguardante l’installazione dei rilevatori su 11 cabine (per un valore di € 248.000,00).
Tali innovazioni, che non possono definirsi marginali né da un punto di vista del loro valore complessivo, né con riguardo alla loro funzione, unitamente ai contenuti motivazionali degli atti, attestano l’avvenuta effettuazione di una negoziazione con correlata valutazione circa la convenienza economica dell’operazione, che non si risolve in un mero differimento del termine di scadenza del precedente contratto, ma dà vita ad un nuovo rapporto negoziale (cfr. TAR Lombardia, Milano, III, 28.02.2018, n. 595).
Ne discende che per tale periodo non può essere riconosciuto alcun compenso revisionale.
4.3. Il secondo rinnovo contrattuale, relativo al periodo 01.07.2015/31.12.2015, formalizzato con le determinazioni dirigenziali n. 192 del 30.04.2015 e n. 196 del 05.05.2015 (all. 4 al ricorso e all. 10, 11 e 12 del Comune), è stato motivato con la necessità, sorta a seguito della ridefinizione delle competenze per la manutenzione del verde pubblico, di proseguire le nuove modalità di esecuzione degli interventi nelle Zone di Decentramento Territoriale; inoltre la manutenzione programmata è stata estesa anche alle aree a verde pubblico relative al sito di EXPO Milano 2015. Anche in tale frangente ci si trova al cospetto di un nuovo rapporto negoziale e non di una mera proroga, con la conseguente impossibilità di riconoscere alla parte ricorrente alcun compenso revisionale.
4.4. Il terzo rinnovo, riguardante il periodo 01.01.2016/30.04.2016, è stato approvato con la determinazione dirigenziale n. 485 del 29.12.2015 (all. 5 al ricorso e all. 13 e 14 del Comune); dal contratto è stata stralciata la manutenzione del verde cimiteriale, in quanto inserita in un diverso lotto, come pure risulta esaurita l’attività in relazione alla manifestazione EXPO Milano 2015, conclusasi il 31.10.2015, discendendo da ciò la modifica dell’oggetto della prestazione richiesta alla parte ricorrente. Anche in tale circostanza si tratta di un rinnovo del rapporto contrattuale e non delle sua mera proroga, con l’insussistenza di alcun obbligo di pagamento supplementare in capo al Comune di Milano.
4.5. Con il quarto rinnovo, relativo al periodo 01.05.2016/30.06.2016 e approvato con le determinazioni dirigenziali n. 247 del 15.04.2016 e n. 248 del 20.04.2016 (all. 7 al ricorso e all. 15, 16 e 17 del Comune), si è incluso nell’oggetto del contratto la manutenzione delle aree a verde pubblico presenti nel sito espositivo di EXPO Milano 2015, sebbene attraverso una rimodulazione delle attività prestata in ragione dell’avvenuta conclusione dell’evento. Ne discende anche in questo caso l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale.
4.6. I successivi rinnovi –quinto, sesto e settimo, rispettivamente per i periodi 01.07.2016/30.09.2016, 01.10.2016/31.12.2016 e 01.01.2017/31.03.2017 (all. 8, 9, 10 e 11 al ricorso e all. 18, 19, 20, 21, 22 e 23 del Comune)– sono stati motivati con la mancata conclusione della già intrapresa procedura di affidamento del servizio globale per la manutenzione ordinaria programmata delle aree a verde pubblico, da cui è scaturito il differimento dell’avvio dell’esecuzione dell’appalto; inoltre, per ogni periodo contrattuale è stato previsto l’obbligo per l’appaltatore di realizzare gli ulteriori interventi ordinati dall’Amministrazione, secondo le tipologie e con le modalità precisate dall’art. II/10 del Capitolato speciale d’appalto (cfr. all. 19, 20 e 23 del Comune; sul punto specifico, si veda anche TAR Lombardia, Milano, III, 28.02.2018, n. 595).
Ebbene, per i citati rinnovi –della durata complessiva di nove mesi (luglio 2016/marzo 2017)– appare dirimente la circostanza che gli stessi non si pongono in continuità con l’originario contratto d’appalto, ma si connotano per una cesura temporale certamente rilevante (luglio 2014/giugno 2016), che impedisce di attribuire al complessivo rapporto contrattuale una matrice unitaria, tale da giustificare il riconoscimento di un compenso revisionale; l’applicazione poi di un identico regime giuridico agli ultimi rinnovi si ricava direttamente dall’art. 115 del D.Lgs. n. 163 del 2006, considerato che il compenso revisionale non può spettare per il primo anno del rapporto contrattuale, giacché la previsione di una clausola “periodica” della revisione prezzi esclude la computabilità a tal fine dell’anno iniziale, dovendo trascorrere un significativo periodo di tempo tra la stipula del contratto d’appalto e l’adeguamento dei prezzi (cfr. TAR Campania, Napoli, III, 16.01.2018, n. 361).
4.7. All’infondatezza dell’unica censura di gravame, segue l’integrale rigetto del ricorso.

INCARICHI PROFESSIONALICompensi, un solo legittimato. Richiesta di restituzione da chi ha conferito procura. PARCELLE AVVOCATI/ Il chiarimento in una sentenza del tribunale di Imperia.
È la parte che ha conferito la procura alle liti l'unica legittimata a chiedere la restituzione del compenso versato: lo ha chiarito il TRIBUNALE di Imperia nella sentenza n. 231/2019, a seguito della quale è stata dichiarata l'inammissibilità della domanda proposta da una srl avverso due legali, volta alla restituzione di alcune somme versate a titolo di prestazione professionale e contestuale risarcimento del danno.
Nella decisione, il giudice monocratico rilevava, a proposito dell'eccezione di carenza di legittimazione attiva sollevata dalla parte attrice, che nei contratti di prestazione d'opera professionale, la qualità di cliente potrebbe non coincidere con quella del soggetto a favore del quale l'opera del professionista deve essere svolta, con la conseguenza che chiunque potrebbe dare incarico ad un legale affinché questi presti la propria opera a favore di un terzo.
Questo significa che il contratto si conclude tra il committente ed il professionista, «il quale resta obbligato verso il primo a compiere le prestazioni a favore del terzo, mentre il primo resta obbligato al pagamento del compenso»: ora se è vero che la qualità di cliente potrebbe non coincidere con quella del soggetto a favore del quale l'opera del professionista viene svolta, è altrettanto vero che l'obbligo di corrispondere il compenso all'avvocato, e quindi legittimato a richiedere eventualmente la restituzione, grava «in linea di principio sul soggetto che ha rilasciato la procura alle liti».
Nel caso di specie, tuttavia, la società attrice non aveva fornito alcuna prova a sostegno del fatto che il conferimento dell'incarico fosse avvenuto su mandato di altra società, né potevano dirsi valide le e-mail inviate prive di firma digitale, in quanto avevano natura di semplice riproduzione meccanica.
Andava dunque riconosciuta la presunzione che «parte sostanziale del rapporto intercorso» fosse colui che aveva rilasciato la procura alle liti e nella cui sfera giuridica si sarebbero prodotti gli effetti sostanziali delle sentenze, con il risultato di una assoluta mancanza di legittimazione attiva non potendo nessuno «far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Richiesta di rilascio di un permesso di costruire - Documentazione non veritiera attestante una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi - Falso ideologico in sede amministrativa - Configurabilità - Art. 20, c. 13, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 48 e 480 cod. pen..
Risponde del delitto di falso ideologico in autorizzazioni amministrative il privato che alleghi, a corredo della richiesta di rilascio di un permesso di costruire (in sanatoria o no), atto avente natura di autorizzazione amministrativa, documentazione non veritiera attestante una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, così inducendo in errore il pubblico ufficiale destinatario della richiesta (Sez. 3, n. 7273 del 09/01/2018, Cavallo).
Pertanto, laddove tale falsa dichiarazione abbia indotto il pubblico funzionario ad emanare il provvedimento di sanatoria, il privato si rende responsabile anche del delitto di cui agli artt. 48 e 480 cod. pen.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2019 n. 15011 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Provvedimento adottato da un pubblico ufficiale basato su atti o attestazioni non veri prodotti dal privato - Falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo - Effetti.
Tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto sia descrittivo sia dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell'art. 48 c.p., colui che ha posto in essere l'atto o l'attestazione non vera.
Sicché, il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo ben può investire le attestazioni anche soltanto implicite contenute nell'atto e quei fatti, giuridicamente rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti, con la parte dispositiva dell'atto medesimo, sia che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale sia che concernano altri "fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità" (art. 479 c.p., ultima parte) [...] La falsa premessa deve concernere un fatto del quale l'atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità e ciò va inteso anche quale "immutatio veri" circa l'esistenza di un presupposto in assenza del quale il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato.

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Rapporti tra il delitto di falso ideologico in atto pubblico per induzione ed il reato di falsità ideologica in atto pubblico commesso da privati - Rapporto di causa-effetto - Condotte riconducibili al decipiens - Artt. 48-479 o 48-480 e 483 cod. pen..
Con riferimento ai rapporti tra il delitto di falso ideologico in atto pubblico per induzione (artt. 48-479 o 48-480 cod. pen.) ed il reato di falsità ideologica in atto pubblico commesso da privati (art. 483 cod. pen.), stante il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato dal privato, quale presupposto dell'emanazione dell'atto del pubblico ufficiale, ed il contenuto dispositivo di quest'ultimo e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l'uno e l'altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa falsità di questo, sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore veste di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l'atto pubblico è destinato a provare la verità.
Si configurano, anche sotto il profilo naturalistico, due condotte riconducibili al decipiens: una prima condotta consistente nella redazione della falsa attestazione ed una seconda concretatasi nell'induzione in errore del pubblico ufficiale mediante la produzione della stessa ai fini dell'integrazione di un presupposto dell'atto pubblico emanando, con conseguente configurabilità del concorso materiale tra i due reati, legati anche da connessione teleologica.
Pertanto, si può trarre la conclusione secondo cui: il delitto di falsa attestazione del privato di cui all'art. 483 cod. pen. può concorrere -quando la falsa dichiarazione sia prevista di per sé come reato- con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell'atto al quale la attestazione inerisca (artt. 48 e 479 cod. pen.), sempre che la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l'atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità
(Sez. U., n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi e aa.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2019 n. 15011 - link a www.ambientediritto.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGODerivati dei Comuni, alla Corte Conti il giudizio su politici e funzionari.
Rischiano di dover risarcire il danno in prima persona funzionari e amministratori locali che -dopo il via libera alle operazioni di «finanza derivata» anche per gli enti territoriali (legge 448/2001)- hanno stipulato contratti di copertura del debito con effetti negativi sui bilanci.

Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza 05.04.2019 n. 9680, hanno infatti confermato la condanna per danno erariale del funzionario responsabile dell'area "Amministrativo Finanziaria" e dell'allora sindaco di un piccolissimo comune in provincia di Terni.
La Suprema Corte, in particolare, ha ribadito la piena legittimità della giurisdizione della Corte dei conti stabilendo che «è inammissibile il ricorso con cui si censuri la decisione del Giudice contabile per pretesa invasione della sfera della discrezionalità dell'amministrazione e, quindi, per eccesso di potere giurisdizionale».
Il Giudice contabile, dunque, è pienamente legittimato non a sindacare la scelta in sé –utilizzo o meno del derivato per ristrutturare il debito-, bensì la «concreta realizzazione ed esecuzione dell'operazione di finanza derivata». Vale a dire le condizioni a cui il contratto è stato poi effettivamente sottoscritto. Il caso affrontato è paradigmatico: il piccolo comune aveva accumulato un debito di quasi 800mila euro per mutui a tasso fisso contratti con la Cassa depositi e prestiti.
Per fronte alla ingente spesa aveva aderito alla proposta di ristrutturazione avanzata nel dicembre 2005 dalla Bnl attraverso un'operazione di finanza derivata del tipo Interest Rate Swap con clausole Floor e Cap. Tuttavia, come emerso successivamente, il contratto risultava sbilanciato a favore dell'istituto a causa dei "costi impliciti" non valutati dal cliente al momento della sottoscrizione.
Il mispricing ammontava a quasi 20mila euro, pari al 4,8% del nozionale medio. Ed è questa la somma a cui il funzionario, per la metà, e gli amministratori (tra cui il sindaco), per l'altra metà, sono stati condannati a risarcire il Comune (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.04.2019).
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MASSIMA
5. In base ai rilievi svolti il motivo è inammissibile sulla base del seguente principio di diritto: «
Nel regime dell'art. 1, comma 1, primo inciso della l. n. 20 del 1994, con riferimento ad una sentenza con cui la Corte dei Conti abbia ritenuto la responsabilità del sindaco e degli assessori comunali e di un funzionario in relazione alla conclusione, rivelatasi dannosa, di un'operazione di finanza derivata (del tipo Interest Rate Swap, con clausola Floor e di Cap) in funzione di un'esigenza di c.d. ristrutturazione del debito comunale ai sensi dell'art. 41 della I. n. 448 del 2001 e norme attuative, è inammissibile il motivo di ricorso con cui si censuri la decisione del Giudice contabile per pretesa invasione della sfera della discrezionalità dell'aministrazione e, quindi, per eccesso di potere giurisdizionale, lamentando l'erroneità della valutazione cui il Giudice contabile, per affermare la responsabilità, abbia proceduto a valutare l'operato del funzionario e degli amministratori comunali, addebitando rispettivamente al primo di avere concluso il relativo contratto senza avere esperienza sulle operazioni derivate e senza avvalersi di una preventiva consulenza sul contenuto del contratto, ed agli amministratori di avere consentito tale conclusione e di avere adottato la deliberazione senza i pareri previsti dall'art. 49 del d.lgs. n. 267 del 2000.
L'inammissibilità del motivo è giustificata perché la censura così prospettata inerisce ad una valutazione che il Giudice contabile ha effettuato sull'azione del funzionario e degli amministratori secondo i criteri di efficacia ed economicità di cui all'art. 1 della l. n. 241 del 1990 e, dunque, secondo parametri di legittimità che la collocano all'interno della giurisdizione contabile e non esprimono un sindacato del merito delle scelte discrezionali dell'amministrazione di  cui al citato art. 1 della l. n. 20 del 1994, come tale fonte del prospettato eccesso di potere giurisdizionale
».

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto. Con la conseguenza che, all’atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare (…).
Pertanto, a fronte di un’istanza di accertamento postumo di conformità, l’inerzia dell’amministrazione costituisce un’ipotesi tipica di silenzio significativo, i cui effetti si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto dell’istanza. In quanto tacito, tale provvedimento impone all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione.
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2. Passando all’esame del merito del ricorso, va premesso che “il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto. Con la conseguenza che, all’atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare (…). Pertanto, a fronte di un’istanza di accertamento postumo di conformità, l’inerzia dell’amministrazione costituisce un’ipotesi tipica di silenzio significativo, i cui effetti si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto dell’istanza. In quanto tacito, tale provvedimento impone all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione (…)” (TAR Calabria, Catanzaro, II, 22.08.2016, n. 1633; più di recente, TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2018, n. 179; TAR Puglia, Lecce, II, 12.01.2018, n. 30).
Nella fattispecie de qua, il ricorrente ha impugnato tempestivamente il silenzio-rigetto formatosi sulla sua istanza di accertamento di conformità e, di conseguenza, si può passare a scrutinare il merito del gravame
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.04.2019 n. 762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIServizi idrici integrati, gli immobili pagano l’Ici. Lo dice la Ctp di Parma. Il principio vale per Imu e Tasi.
Gli immobili utilizzati da una società per azioni che ha in concessione il servizio idrico integrato, destinati alla gestione di tale servizio e utilizzati come depositi di acquedotto e impianto di depurazione delle acque reflue, sono assoggettati ad Ici (e conseguentemente Imu/Tasi).
Con la sentenza n. 382/2018, la commissione Tributaria provinciale di Parma ha infatti respinto il ricorso di una società che per il comune resistente effettuava in concessione la gestione del servizio idrico integrato.
Nel ricorso presentato si sosteneva che i beni oggetto di accertamento Ici 2011 erano in proprietà di un'altra società privata a parziale partecipazione pubblica e che gli stessi erano entrati nella piena proprietà della ricorrente con atto notarile stipulato solo nell'anno 2016, pur avendone l'utilizzo e l'autonoma gestione dal 2011 per affidamento diretto in house providing avvenuto con atto dell'Autorità di ambito territoriale competente.
Il comune produceva memoria difensiva nella quale precisava che:
   a) l'accertamento riguardava immobili di categoria D insistenti su aree demaniali e non aveva come oggetto le aree demaniali stesse. I predetti fabbricati accertati insistevano su aree demaniali, essendo le reti acquedottistiche appartenenti ai beni demaniali (artt. 822 e 824 del codice civile);
   b) il servizio svolto dalla ricorrente riguardava la concessione del servizio idrico integrato, da cui conseguiva la soggettività passiva d'imposta. Infatti la Corte di cassazione, con diverse sentenze, ha affermato che i negozi relativi all'utilizzazione dei beni facenti parte del demanio pubblico, qual è il servizio idrico integrato, danno luogo ad atti di concessione in godimento temporaneo;
   c) pertanto, essendo la società ricorrente, concessionaria di beni insistenti su aree demaniali, ne consegue la soggettività passiva Ici ai sensi dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 504/1992: «Nel caso di concessione di aree demaniali, soggetto passivo è il concessionario».
La tesi del comune ha prevalso e il collegio, infatti, ha rigettato il ricorso.
Le motivazioni espresse nella sentenza rilevano come il servizio effettuato per conto del comune dalla società ricorrente sia da configurarsi come una concessione per la gestione del servizio idrico integrato, da cui consegue un diritto reale d'uso dei manufatti in cui viene svolto il servizio affidato, con decorrenza dalla data di concessione. Inoltre, essendo in presenza di una concessione su aree demaniali, ne deriva che, per i fabbricati insistenti sull'area, soggetto passivo dell'Ici è il concessionario, come statuito dall'art. 3, comma 2, dlgs 504/1992, modificato dall'art. 18, comma 3, legge n. 388/2000.
La Commissione ricorda che le reti costituenti il servizio idrico integrato fanno parte dei beni demaniali (artt. 822 secondo comma e 824 primo comma del codice civile) e che i beni utilizzati dal concessionario rientrano nella sfera dei cespiti soggetti ad Ici, come da consolidata giurisprudenza della Suprema corte
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di ristrutturazione edilizia - Disciplina applicabile - Applicazione retroattiva della norma extrapenale più favorevole - Artt. 3, 10, 22, 23, 44, D.P.R. n. 380/2001 - Art. 19, L. n. 241/1990 - Art. 2, c. 4, cod. pen..
In materia edilizia la modifica dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, (operata con art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con modiff., nella l. 11.11.2014, n. 164), ha escluso dagli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati a permesso di costruire quelli che comportino aumento di unità immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di tali ipotesi al reato di costruzione sine titulo di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 e deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., quale norma extrapenale più favorevole integratrice del precetto.
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Ristrutturazione edilizia e testo vigente - Successione di leggi - Interventi definiti di ristrutturazione edilizia c.d. "pesante" e ristrutturazione edilizia "leggera" - Differenze - Regime del permesso di costruire o s.c.i.a..
Rispetto alla definizione di ristrutturazione edilizia data dall'art. 3, comma 1, lett. d) di tale decreto, il successivo art. 10, comma 1, lett. c), nel testo oggi vigente, assoggetta al regime del permesso di costruire -salve le ipotesi della modifica della destinazione d'uso nei centri storici o delle modificazioni della sagoma di immobili vincolati- soltanto quegli interventi che «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti».
Si tratta degli interventi definiti di ristrutturazione edilizia c.d. "pesante" che, a differenza delle residuali ipotesi rientranti nella categoria -per la cui realizzazione è sufficiente la s.c.i.a. in forza della residuale previsione di cui all'art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001- sono assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire con conseguente realizzazione della fattispecie penale contestata nel caso di assenza del titolo.
Se, per contro, si tratti di ristrutturazione edilizia "leggera" per cui è sufficiente la s.c.i.a., quand'anche non fosse stata corretta la qualificazione dei lavori in termini di risanamento conservativo data dai richiedenti, il fatto non integrerebbe gli estremi del reato contestato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.04.2019 n. 14725 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Successione di leggi penali e punibilità del fatto precedentemente commesso - Principio di retroattività della norma favorevole - Giurisprudenza.
Nel sanzionare penalmente l'esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire, di fatti, la norma incriminatrice di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 richiama implicitamente proprio l'art. 10, comma 1, del testo unico (rubricato interventi subordinati a permesso di costruire), che vale dunque ad integrare il precetto penale nella sua essenziale struttura, individuando le opere che necessitano di tale titolo abilitativo.
Va pertanto applicato il principio secondo cui, in tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se tale norma è integratrice di quella penale.
Nel caso di specie, di fatti, non v'è dubbio che il citato art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 integri il precetto penale di cui al successivo art. 44, comma 1, lett. b), incidendo sulla struttura essenziale del reato e quindi sulla fattispecie tipica, sì che il principio di retroattività della norma favorevole, affermato dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., si applica anche in caso di successione nel tempo di norme extrapenali integratrici aventi tali caratteristiche
(cfr. Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, Branchi; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.04.2019 n. 14725 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità del progettista - Asseverazione della conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati - False dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni - C.d. segnalazione certificata - Tecnici abilitati - Eventuale concorso del privato committente - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Verifiche di competenza dell'amministrazione - Fedele rappresentazione dello stato dei luoghi attuale e quello in progetto - Art. 19, c. 1, L. 241/1990 e ss.mm..
In materia edilizia, l'art. 23, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 -anche, se espressamente riferito alla s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire, detta una disciplina generale applicabile a qualsiasi ipotesi di s.c.i.a. in materia edilizia- prescrive che il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo ad effettuare l'intervento «presenta allo sportello unico la segnalazione, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie».
A tali documenti occorre pertanto fare riferimento per applicare alle ipotesi in parola la norma incriminatrice contenuta nell'art. 19, comma 6, l. 241 del 1990, la quale, in via generale, punisce, «ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1».
I requisiti o presupposti, precisa poi la disposizione richiamata, sono quelli, richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, ai quali è subordinato lo svolgimento dell'attività per cui è presentata la segnalazione certificata e tra i documenti e gli atti richiamati sono espressamente menzionate le «attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati...corredati dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell'amministrazione» (art. 19, comma 1, L. 241 del 1990).
Pertanto, tali elaborati sono quelli espressamente richiamati dall'art. 23, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 che, allo scopo di consentire all'amministrazione di verificare la sussistenza dei presupposti perché l'intervento possa essere effettuato con s.c.i.a., debbono fedelmente rappresentare -secondo, peraltro, una prassi consolidata- lo stato dei luoghi attuale e quello in progetto.
Essi -ovviamente redatti dai tecnici abilitati e da essi sottoscritti- sono, dunque, atti che rientrano nella competenza, e nella responsabilità, dei professionisti incaricati.
Sanzionando la citata norma incriminatrice la condotta di "chiunque" attesti il falso nella redazione degli atti e documenti presentati a corredo della s.c.i.a., non v'è dubbio, pertanto, che - a prescindere da un eventuale concorso anche del privato committente - del fatto debba in via immediata rispondere l'autore del documento e dunque, nel caso di tavole progettuali, il tecnico redigente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.04.2019 n. 14725 - link a www.ambientediritto.it).

TRIBUTIServizio idrico, si paga l’Imu. Niente esenzione perché non è un’attività istituzionale.  Per la Cassazione l’immobile va inquadrato nella categoria catastale D e non nella E.
Un immobile destinato dall'amministrazione comunale alla gestione del servizio idrico non è esente da Ici e Imu, poiché non si tratta di attività istituzionale. Non a caso l'immobile è stato inquadrato dall'Agenzia delle entrate nella categoria «D» anziché «E», vale a dire tra quelli esenti.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza 04.04.2019 n. 9427.
Non sussistono i presupposti per ottenere il riconoscimento dell'esonero dal pagamento dell'imposta, considerato che l'art. 7, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 504/1992 riserva l'esenzione agli immobili posseduti dall'ente locale destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Per i giudici di legittimità, è «evidente che il servizio idrico esercitato non possa essere qualificato come compito istituzionale del comune».
Peraltro, la natura economica dell'attività esercitata non viene meno a seconda che a gestire il servizio sia direttamente l'ente territoriale o una azienda municipalizzata o una società partecipata dall'ente.
L'immobile, infatti, è stato classificato nella categoria «D», perché ciò «che rileva ai fini del classamento catastale sono le caratteristiche dell'immobile e la sua destinazione funzionale». La Cassazione (sentenza 8872/2016) ha chiarito anche che un immobile posseduto da una società costituita da più comuni e utilizzato per lo svolgimento dell'attività di smaltimento rifiuti non ha diritto a fruire dell'esenzione. Del resto, l'elencazione dei soggetti esenti dall'imposta municipale è tassativa e tra questi non rientra la società di capitali, ancorché costituita tra enti pubblici territoriali.
L'interpretazione dei giudici di legittimità è pienamente condivisibile. L'esenzione Ici, ma lo stesso vale per l'Imu, è prevista per gli immobili posseduti, oltre che dallo stato, da regioni, province, comuni ed è condizionata dalla destinazione effettiva che a questi viene data. L'elencazione è tassativa, poiché tutte le norme che prevedono agevolazioni sono di stretta interpretazione e non è ammesso ricorrere all'analogia. Per il riconoscimento dell'esenzione la destinazione dell'immobile per scopi istituzionali deve essere effettiva e concreta. In base all' art. 7 sopra citato non spetta l'esenzione Ici e Imu se l'ente pubblico non fornisce la prova che l'immobile abbia questa destinazione esclusiva.
Gli immobili, dunque, devono essere diretti a soddisfare compiti dell'ente pubblico (sede o ufficio) che ne è proprietario. È indispensabile che l'utilizzo avvenga in forma immediata e diretta, e cioè da soggetti interni alla struttura organizzativo- amministrativa dell'ente, poiché solo in questo caso l'uso può essere caratterizzato da fini istituzionali. Per esempio la commissione tributaria provinciale di Terni (sentenza 237/2011) ha sostenuto che la provincia è tenuta a pagare l'Ici (e dal 2012 anche l'Imu) se gli immobili non sono destinati al soddisfacimento di compiti dello stesso ente pubblico che ne è proprietario. Non è infatti sufficiente che li metta a disposizione di terzi, anche se la provincia è obbligata a darli in uso allo stato per lo svolgimento di attività didattiche (sede universitaria).
Va ricordato che con l'introduzione dell'Imu è stato ristretto l'ambito delle esenzioni prima riconosciute dalla disciplina Ici. Non possono più fruire dell'agevolazione fiscale gli immobili posseduti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura. Non è stata riproposta l'esenzione neppure per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili che vengono recuperati per essere destinati a attività assistenziali.
Infine, con la modifica dell'art. 7, lettera a) sono state ridisegnate le agevolazioni anche per gli immobili posseduti dalle amministrazioni locali, poiché l'esonero dal pagamento è limitato solo agli immobili siti sul proprio territorio e non compete più per quelli ubicati sul territorio di altri enti (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

INCARICHI PROGETTUALISenza contratto spetta solo il danno emergente.
Al professionista che lavora senza contratto con la p.a. spetta solo il danno emergente; non spetta il mancato guadagno: l'indennizzo dovuto dall'ente pubblico non si calcola in base alle tariffe o compensi professionali.

È quanto ha deciso la sentenza 04.04.2019 n. 9317 della III Sez. civile della Corte di Cassazione.
Nel caso specifico al centro della vicenda alcuni professionisti che avevano effettuato progettazioni per lavori di ristrutturazione di edifici. Il contenzioso ha riguardato la cifra da porre a carico della p.a. che si era avvalsa del lavoro dei professionisti, ma senza formalizzare il contratto.
L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività a favore della pubblica amministrazione, ma in difetto di un contratto, spiega la sentenza, non può essere determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse volto la sua opera a favore di un privato né in base all'onorario che la pubblica amministrazione avrebbe dovuto pagare se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto di un contratto valido.
L'indennità, aggiunge la cassazione, va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione con esclusione del lucro cessante (mancato guadagno), che si sarebbe incassato se il contratto fosse stato valido ed efficace (articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).
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MASSIMA
8. Osserva il Collegio come, secondo l'orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite di questa Corte,
in tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione, conseguente all'assenza di un valido contratto di appalto d'opera tra la pubblica amministrazione e un professionista, l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace (Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124 - 01). 9.
Pertanto,
ai fini della determinazione dell'indennizzo dovuto al professionista non possono essere assunte come parametro le tariffe professionali (ancorché richiamate da parcelle vistate dall'ordine competente), alle quali può ricorrersi solo quando le prestazioni siano effettuate dal professionista in base un valido contratto d'opera con il cliente (Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124 - 01, cit.).
10. Il richiamato insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (che questo Collegio integralmente condivide e fa proprio, al fine di assicurarne continuità, in consonanza con il successivo orientamento confermativo assunto da Sez. 3, Sentenza n. 19886 del 06/10/2015, Rv. 637195 - 01) ha con ampia motivazione dimostrato per quali ragioni la opposta tesi sia insostenibile.
11. Dall'affermazione secondo cui l'indennizzo dovuto all'impoverito, ai sensi dell'art. 2041 c.c., non possa comprendere il lucro che questi avrebbe realizzato se il contratto stipulato con la p.a. fosse stato valido ed efficace, la giurisprudenza successiva ha tratto il necessario corollario secondo cui l'impoverimento non può essere determinato (neppure indirettamente quale parametro: cfr. Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, cit., in motivazione, là dove richiama Sez. 2, Sentenza n. 9243 del 12/07/2000, Rv. 538406 - 01) sulla base della tariffa professionale applicabile alle prestazioni eseguite dall'impoverito.
Applicare quella tariffa, infatti, significherebbe accordargli un indennizzo esattamente pari a quanto avrebbe avuto diritto di pretendere dalla pubblica amministrazione nell'ipotesi di stipula con essa d'un contratto valido (così si sono pronunciate Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 3905 del 18/02/2010, Rv. 611568; Sez. 3, Sentenza n. 23780 del 07/11/2014, Rv. 633449; Sez. 3, Sentenza n. 19886 del 06/10/2015, Rv. 637195 - 01).
12. Questo Collegio non ignora che, dopo l'intervento delle Sezioni Unite, alcune decisioni delle singole sezioni di questa Corte sono tornate ad affermare che la tariffa professionale possa essere utilizzata per la stima dell'indennizzo dovuto, ex art. 2041 c.c., a chi abbia lavorato per la pubblica amministrazione senza la previa stipula d'un contratto scritto.
13. Tali decisioni, tuttavia non possono essere affatto condivise.
14. Non può essere condivisa, in primo luogo, la decisione pronunciata da Sez. 1, Sentenza n. 19942 del 29/09/2011, Rv. 619548: sia perché si pone in contrasto inconsapevole con la pronuncia delle Sezioni Unite sopra ricordata (nonché con Sez. U, Sentenza n. 23385 del 11/09/2008, Rv. 604467 - 01), senza spendere una parola per motivare la propria opinione dissenziente; sia soprattutto perché l'affermazione del principio (secondo cui l'indennizzo può essere liquidato in base alle tariffe professionali) è compiuta in modo apodittico e non corredato da ragioni giustificatrici.
15. Per le stesse ragioni non può essere condiviso il decisum di Sez. 3, Sentenza n. 26193 del 06/12/2011 (non massimata) e di Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 351 del 10/01/2017 (Rv. 642780 - 01): anch'esse infatti ignorano di fatto le indicazioni delle Sezioni Unite e non sono sorrette da alcuna approfondita motivazione.
16. Non costituisce, invece, una dissenting opinion rispetto alle decisioni delle Sezioni Unite sopra ricordate la sentenza pronunciata da Sez. 1, Sentenza n. 21227 del 14/10/2011, Rv. 619902.
Nel caso ivi deciso, infatti, il giudice di merito aveva negato la possibilità di liquidare l'indennizzo ex art. 2041 c.c. in base alla tariffa professionale, e la Corte di cassazione ritenne che "tale ratio decidendi [fosse] da condividersi".
17. È appena il caso di rilevare come le opinioni dissenzienti appena ricordate, oltre che isolate, neppure avrebbero potuto essere ritualmente pronunciate, ostandovi il divieto di cui all'art. 374, co. 3, c.p.c. (secondo cui "se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso").
18. Essendosi il giudice a quo espressamente uniformato all'orientamento fatto proprio da Sez. 1, Sentenza n. 19942 del 29/09/2011, Rv. 619548 (qui motivatamente confutato), in accoglimento del secondo motivo del ricorso (rigettato il primo ed assorbito il terzo), dev'essere disposta la cassazione della sentenza impugnata, con il conseguente rinvio alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, cui è rimesso di provvedere, sulla base degli elementi di fatto acquisiti al processo, alla decisione dell'odierna controversia in applicazione del seguente principio di diritto: "
L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività a favore della pubblica amministrazione, ma in difetto di un contratto scritto, non può essere determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore d'un privato, né in base all'onorario che la p.a. avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto d'un contratto valido".

URBANISTICA: Destinazione di un’area a verde agricolo.
La destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano.
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Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo.
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All’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
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In materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
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In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2017, n. 451).
...
Del resto, secondo la consolidata giurisprudenza, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento delle capacità edificatorie del comparto di proprietà della ricorrente deve richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa
).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di pianificazione urbanistica la nozione di lotto intercluso ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
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2.2. Quanto alla natura di lotto intercluso dell’area di proprietà della ricorrente, che avrebbe perciò richiesto un rafforzato onere motivazionale, va sottolineato come in tema di pianificazione urbanistica la nozione di lotto intercluso ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, IV, 20.07.2016, n. 3293; 21.12.2012, n. 6656); nella fattispecie de qua non risulta affatto sussistere un lotto intercluso, come dimostrato sia dalle cartografie (all. 2 del Comune) che dalla mappa aerea (all. 27 al ricorso), essendo edificato soltanto una parte del confine del lotto, mentre per tutto il lato sud il compendio è delimitato, per un lungo tratto, da una strada (Via Levi Montalcini)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa).

URBANISTICA: Con riguardo alla necessità di una ripubblicazione del Piano, legata ad un asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, va sottolineato che, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
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Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”. Tale disposizione appare del tutto ragionevole alla luce della interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, avendone limitato l’operatività alle situazioni in cui non risulta essersi prodotto uno stravolgimento del piano o delle sue linee portanti.

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4. Con la terza doglianza si assume che il Piano, attraverso la soppressione dell’Ambito di trasformazione afferente all’area di proprietà della ricorrente, sarebbe stato stravolto nelle sue linee portanti e ciò avrebbe dovuto condurre ad una ripubblicazione dello stesso, al fine di consentire alla parte interessata di interloquire sul nuovo assetto urbanistico.
4.1. La doglianza è infondata.
In primo luogo, si deve sottolineare come nessuno stravolgimento del Piano risulta essere stato posto in essere, considerato che la soppressione dell’Ambito di trasformazione “SP2” non ha prodotto effetti così rilevanti sull’assetto territoriale complessivo, o almeno ciò non è stato oggetto di inequivoca dimostrazione; in tal modo è stato altresì garantito un minore consumo di suolo complessivo. Peraltro, la contestazione riguardante la mancata cessione all’Amministrazione, in sede di perequazione, di aree per realizzare servizi pubblici non può essere accolta, stante l’accertato equilibrio complessivo del Piano, documentato in sede di Relazione al Piano dei servizi (cfr. all. 18 del Comune).
In ogni caso, con riguardo alla necessità di una ripubblicazione del Piano, legata ad un asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, va sottolineato che, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2677; altresì, 19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, come avvenuto nella fattispecie de qua (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”. Tale disposizione appare del tutto ragionevole alla luce della interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, avendone limitato l’operatività alle situazioni in cui non risulta essersi prodotto uno stravolgimento del piano o delle sue linee portanti (TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2677).
4.2. Ciò determina il rigetto della predetta censura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa).

URBANISTICA: Secondo una consolidata giurisprudenza, le censure inerenti al procedimento di valutazione ambientale strategica (V.A.S.) sono ammissibili nei limiti in cui la parte istante specifichi quale concreta lesione alla sua proprietà sia derivata dall’inosservanza delle norme sul procedimento, essendo pertanto inammissibile una doglianza meramente “strumentale”, visto che il generico interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è insufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo.
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La normativa in materia di V.A.S. non impone una rigorosa separazione fra Autorità competente e procedente, potendo le stesse essere scelte anche fra articolazioni o organi della stessa amministrazione, purché sia garantita la separazione e un adeguato grado di autonomia tra le stesse.
Infine, non possono essere censurate le valutazioni svolte dall’Autorità competente, attesa la discrezionalità che le connota, soprattutto avuto riguardo alla piena ammissibilità di una motivazione per relationem rispetto ad atti già adottati in precedenza, seppure da organi diversi.

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5. Con la quarta doglianza si deduce l’illegittimità del procedimento di V.A.S., attesa la mancata separazione tra l’Autorità competente e l’Autorità procedente, entrambe rappresentate da funzionari della stessa Amministrazione comunale e quindi non in posizione di reciproca indipendenza, che avrebbero adottato determinazioni perfettamente sovrapponibili nei contenuti.
5.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che, secondo una consolidata giurisprudenza, le censure inerenti al procedimento di valutazione ambientale strategica (V.A.S.) sono ammissibili nei limiti in cui la parte istante specifichi quale concreta lesione alla sua proprietà sia derivata dall’inosservanza delle norme sul procedimento, essendo pertanto inammissibile una doglianza meramente “strumentale”, visto che il generico interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è insufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo (cfr., in termini, TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2676; 15.12.2017, n. 2394; 26.05.2016, n. 1097).
In ogni caso, da un punto di vista sostanziale, deve sottolinearsi come la scelta dell’Autorità competente –ossia il Direttore dell’Area Politiche dell’Ambiente e Sviluppo Economico– sia avvenuta attraverso un procedimento che, oltre a garantire l’autonomia della stessa rispetto all’Autorità procedente (cfr. Consiglio di Stato, IV, 12.01.2011, n. 133), risulta essere stato posto in essere con Delibera di Giunta comunale n. 16 del 15.02.2012 (cfr. all. 9 del Comune).
Ne discende la legittimità della nomina dell’Autorità competente, essendo stata garantita, sia da un punto di vista sostanziale che procedurale, la sua autonomia rispetto all’Autorità procedente (rappresentata dal Direttore dell’Area Governo del Territorio ed Infrastrutture).
Del resto, la normativa in materia di V.A.S. non impone una rigorosa separazione fra Autorità competente e procedente, potendo le stesse essere scelte anche fra articolazioni o organi della stessa amministrazione, purché sia garantita la separazione e un adeguato grado di autonomia tra le stesse (Consiglio di Stato, IV, 17.09.2012, n. 4926; 12.01.2011, n. 133; TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2676; 23.02.2016, n. 374).
Infine, non possono essere censurate le valutazioni svolte dall’Autorità competente, attesa la discrezionalità che le connota, soprattutto avuto riguardo alla piena ammissibilità di una motivazione per relationem rispetto ad atti già adottati in precedenza, seppure da organi diversi.
5.2. Ciò determina il rigetto anche della suesposta doglianza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATASanatoria probabile. Demolizione stop. L’ordine era relativo a un manufatto abusivo.
L'ordine di demolizione di un manufatto abusivo può essere sospeso nel solo caso in cui appaia probabile l'accoglimento della richiesta di sanatoria.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con sentenza 03.04.2019 n. 14601, pone il principio di diritto, per il quale nel caso in cui venga ordinata la demolizione di un manufatto abusivo ne sia possibile la revoca, qualora appaia probabile l'accoglimento dell' istanza di sanatoria diretta a eliminare la situazione d' illiceità.
Il costruttore, infatti, era stato condannato, a seguito della contestazione del reato di cui all'art. 31 del dpr n. 380 (abusivismo edilizio), nella decisione era contenuto anche l'ordine di demolizione del manufatto, in quanto eretto in violazione alla normativa edilizia vigente nella zona. L'imputato tuttavia ritenendosi leso ne propri diritti ricorreva per Cassazione, rappresentava come la decisione di secondo grado, nella parte in cui imponeva la demolizione della costruzione, fosse stata emessa in palese violazione di legge difettandone i presupposti.
Deduceva in particolare come la situazione d'illiceità determinata dall'esistenza del manufatto abusivo sarebbe venuta meno a seguito della presentazione di un istanza di sanatoria dalla quale conseguirebbe la revoca dell'ordine di demolizione. Il procedimento esaurito il proprio corso veniva deciso da parte degli ermellini con la sentenza qui in commento. I giudici della Corte suprema di cassazione, ritengono infondata la tesi difensiva del ricorrente osservando come la normativa preveda in via automatica la rimessione in pristino dei luoghi, nel caso di condanna per il reato contestato al ricorrente.
Pertanto per potere provvedere alla revoca debbono presentarsi eventi, che rendano incompatibile la situazione con la sopravvivenza dell'ordine di demolizione. Nel caso poi della presentazione di un istanza di sanatoria, diviene compito del giudice dell'esecuzione, al quale è stata proposta la valutazione di due tipi di elementi. L'annullamento diverrà possibile nel solo caso in cui, considerato il contenuto della normativa e lo stato di fatto, appaia probabile l'accoglimento della richiesta e che la sua definizione paia probabile in tempi brevi e comunque ristretti
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2019).
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MASSIMA
4. - Il ricorso è fondato per le ragioni qui di seguito esposte.
Deve rammentarsi che
è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che in tema di reati edilizi, la revoca/sospensione dell'ordine di demolizione (e anche di rimessione in pristino), può essere disposto dal giudice dell'esecuzione previo accertamento di una situazione (presentazione di istanza di condono o provvedimento stesso) che lo renderebbe incompatibile (Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015, Rv 266763).
In presenza di un'istanza di condono o di sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il giudice dell'esecuzione investito della questione è tenuto a un'attenta disamina dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura ed, in particolare: a) ad accertare il possibile risultato dell'istanza e se esistono cause ostative al suo accoglimento; b) nel caso di insussistenza di tali cause, a valutare i tempi di definizione del procedimento amministrativo e sospendere l'esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento dello stesso (ex plurimis, Sez. 3, n. 47263 del 25/09/2014, Russo, Rv. 261212; Sez. 3, n. 11149 del 07.12.2011; Sez. 4, 11.10.2011, n. 44035; Sez. 3, 07.07.2011, n. 36992; Sez. 3, 21.06.2011, n. 29638). L'ordine di demolizione costituisce atto dovuto in quanto obbligatoriamente previsto, dalla normativa in vigore, in relazione alle opere abusivamente realizzate.
Tale sanzione, pur formalmente giurisdizionale, ha natura sostanzialmente amministrativa di tipo ablatorio che il giudice deve disporre, non trattandosi di pena accessoria ne' di misura di sicurezza, perfino nella sentenza applicativa di pena concordata tra le parti ex art. 444 c.p.p. a nulla rilevando che l'ordine medesimo non abbia formato oggetto dell'accordo intercorso tra le parti.
L'ordine di demolizione, infatti, essendo atto dovuto, non è suscettibile di valutazione discrezionale ed è sottratto, conseguentemente, alla disponibilità delle parti, e non è suscettibile di passare in giudicato avendo, il giudice dell'esecuzione, l'obbligo di revocare l'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito con la sentenza di condanna o di patteggiamento, ove sopravvengano atti amministrativi con esso del tutto incompatibili
(Sez. 3, ord. n. 25212 del 18/01/2012 Rv. 253050; Sez. 3, n. 24273 del 24/03/2010, P.G. in proc. Petrone, Rv. 247791).
5. Nel caso in esame, come osservato dal Procuratore generale, la Corte d'appello di Palermo non ha fatto corretta applicazione dei principi qui esposti e, con motivazione anche contraddittoria nella parte in cui rileva che non sarebbe stato emesso alcun ordine di demolizione, ha escluso la competenza a valutare la possibile incidenza di atti amministrativi sull'ordine di demolizione sul rilievo della limitazione del proprio accertamento alla regolarità formale del titolo esecutivo.
L'ordinanza impugnata ha omesso di compiere la valutazione degli atti amministrativi e segnatamente non ha esaminato la questione prospettata dell'incompatibilità del provvedimento in sanatoria con l'ordine dei demolizione; non ha compiuto alcuna valutazione omettendo di motivare se questo fosse già stato esaminato dal giudice della cognizione ovvero, intervenuto  successivamente, fosse incompatibile con l'ordine di demolizione impartito con la sentenza di condanna previo sindacato sulla sussistenza della condizioni formali e sostanziali della sanatoria.
A tale riguardo, rammenta il Collegio che
in materia edilizia, il giudice dell'esecuzione -investito dell'istanza di revoca o sospensione dell'ordine di demolizione conseguente a condanna per costruzione abusiva- ha il potere-dovere di verificare la legittimità e l'efficacia del titolo abilitativo, sotto il profilo del rispetto dei presupposti e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio, la corrispondenza di quanto autorizzato alle opere destinate alla demolizione e,  qualora trovino applicazione disposizioni introdotte da leggi regionali, la conformità delle stesse ai principi generali fissati dalla legislazione regionale (Sez. 3, n. 55028 del 09/11/2018, B., Rv. 274135 - 01), principi a cui dovrà uniformarsi il giudice nel procedimento conseguente all'annullamento dell'ordinanza.

APPALTIAppalti sottosoglia, l'invito all'affidatario uscente ha carattere eccezionale e va motivato.
Nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici sottosoglia non sussiste l'obbligo per la stazione appaltante di invitare il precedente affidatario. Si tratta di una facoltà di cui, proprio per il principio di rotazione, e in caso di effettivo esercizio, la stessa stazione appaltante deve dare adeguato conto all'esterno, motivando la concreta irrilevanza della partecipazione anche del gestore uscente per garantire massima trasparenza e concorrenzialità.

Così si è espresso il Consiglio di Stato, Sez. VI, nella sentenza 03.04.2019 n. 2209.
Il caso
Un operatore economico aggiudicatario di una convenzione quadro Consip sui servizi di pulizia, risolta da Consip stessa per grave inadempimento dell'affidataria, ha presentato ricorso al Tar nei confronti, tra gli altri, di un istituto scolastico che, data l'urgenza creata dalla risoluzione della convenzione, ha individuato una soluzione ponte per consentire il regolare svolgimento delle attività didattiche in ambienti con idonee condizioni igienico-sanitarie, con affidamento diretto del servizio di pulizia, omettendo di invitare il gestore uscente.
Il Tar ha rigettato il ricorso in virtù del principio di rotazione che giustifica l'esclusione dall'affidamento del precedente aggiudicatario per evitare il consolidarsi di indebite posizioni di favore e inaccettabili chiusure surrettizie del mercato in capo al gestore uscente. Dello stesso avviso anche i giudici di Palazzo Spada.
La decisione
L'articolo 36, comma 1, del codice appalti, infatti, quale lex specialis di disciplina delle gare sottosoglia, imponendo il rispetto della rotazione, prevale sulla normativa sulle gare in generale e comporta l'esclusione dall'affidamento del precedente operatore per evitare che la posizione di vantaggio dello stesso, derivante dal bagaglio informativo conseguente alla precede esecuzione del contratto, costituisca ragione di reale o presunto favoritismo.
Il principio di rotazione è concepito dal legislatore come un contrappeso normativo alla semplificazione procedimentale delle procedure informali e un bilanciamento del carattere "sommario" della scelta del contraente. La garanzia di massima trasparenza e concorrenzialità deve trovare tutela adeguata soprattutto nel settore degli appalti sottosoglia, nei quali è maggiore il rischio del consolidarsi di posizioni di rendita anticoncorrenziale da parte dei singoli operatori risultanti in precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio, soprattutto nei mercati in cui il numero degli operatori economici attivi non è elevato.
Corollario di questo principio, anche al fine di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, è il carattere eccezionale dell'invito al precedente gestore: ciò comporta un onere motivazionale aggravato in capo alla stazione appaltante che si determini in tal senso, che dovrà dar conto in modo esauriente delle ragioni che inducono a questa scelta, che possono derivare o da situazioni oggettive del mercato o da condizioni soggettive attinenti alle prestazioni particolarmente efficienti rese dal precedente affidatario.
In definitiva, la stazione appaltante nell'esercizio della mera facoltà di invitare l'operatore economico uscente è tenuta a illustrare le ragioni del mancato contrasto con il principio di rotazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019).

TRIBUTI: TASI anche sui fabbricati delle zone rurali.
La Tasi si applica anche agli immobili ubicati in zona rurale a prescindere dall'effettiva fruizione dei servizi comunali indivisibili quali l'illuminazione pubblica, la manutenzione delle strade e del verde pubblico.
Lo ha stabilito il TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la sentenza 03.04.2019 n. 1872, respingendo il ricorso di un contribuente che aveva impugnato la delibera di determinazione delle aliquote Tasi 2014 nella parte in cui non escludeva gli immobili che ricadevano in zona rurale.
Identikit di un tributo
La pronuncia in questione riguarda un tributo, introdotto nel 2014 e ormai giunto al sesto anno consecutivo di applicazione, che costituisce sostanzialmente un «doppione» dell'Imu (stessa base imponibile, stesso sistema di calcolo e stesse modalità di versamento), a parte qualche lieve differenza tra le due imposte.
Peraltro dal 2016 è stata soppressa l'applicazione della Tasi sull'abitazione principale, che come è noto rappresentava l'unica ragione fondante della istituzione del nuovo tributo, per cui la sua applicazione non ha più ragione di esistere.
Evidenti esigenze di semplificazione impongono quindi l'unificazione della Tasi con l'Imu che il legislatore non è ancora riuscito ad attuare principalmente per problemi di ordine economico-finanziario, considerato che per conservare la maggiorazione dello 0,8 per mille (oggi in vigore nei Comuni di grandi dimensioni) occorrerebbe elevare l'aliquota massima dell'Imu all'11,4 per mille, finendo così per aumentare la pressione fiscale complessiva.
Il caso
Nel caso sottoposto all'esame del Tar Napoli, un contribuente ha contestato la decisione dell'ente di applicare la Tasi anche agli immobili ubicati nella zona rurale, che non beneficerebbe in alcun modo dei servizi indivisibili al cui finanziamento è preordinato il tributo. In particolare, non vi sarebbe illuminazione pubblica, né servizi di manutenzione stradale, né verde pubblico. Il tributo non avrebbe quindi alcuna giustificazione, data l'assenza di spese sostenute dal Comune per i servizi indivisibili.
La decisione
Il Tar Napoli ha respinto il ricorso, ritenendo infondata la tesi del contribuente secondo cui la mancata fruizione dei servizi erogati dal Comune e finanziati con la Tasi, con specifico riferimento all'illuminazione pubblica, alla manutenzione stradale e al verde pubblico, renderebbe illegittima la pretesa impositiva.
In primo luogo tra i servizi indivisibili rientrano anche quelli socio-assistenziali, di protezione civile, servizi cimiteriali e di manutenzione del patrimonio artistico- culturale e degli edifici comunali. Nel caso specifico non vi è prova che il ricorrente non fruisca di questi servizi di cui l'amministrazione ha tenuto conto ai fini della determinazione del tributo, per cui la Tasi sarebbe in ogni caso dovuta in relazione alla porzione residua dei servizi erogati dal Comune e di cui il ricorrente fruisce in qualità di residente.
In secondo luogo il Tar non condivide il ragionamento del ricorrente secondo cui la mancata fruizione individuale dei servizi indivisibili resi dal Comune renderebbe illegittima la pretesa impositiva.
In senso contrario depone il fatto che il tributo è destinato a finanziare i servizi indivisibili resi sul territorio comunale, quindi non misurabili singolarmente, in quanto non erogati a uno specifico utente bensì all'intera comunità. Il presupposto impositivo della Tasi è quindi riconducibile all'erogazione dei servizi in favore della generalità dei consociati e non a domanda individuale, con conseguente necessità di provvedere al relativo finanziamento a giustificazione dell'imposizione tributaria (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019).

TRIBUTIIci, l’esenzione è plurivalente. Agevolati più immobili purché siano abitazione principale. La Corte di cassazione: conta l’effettiva utilizzazione, a prescindere dal numero di unità.
L'agevolazione Ici per la prima casa non è limitata a un solo immobile. Il contribuente può utilizzare anche più unità immobiliari e ha diritto all' esenzione su tutti gli immobili, purché vengano destinati a abitazione principale.

La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l'ordinanza 02.04.2019 n. 9079, ha ribadito che il contemporaneo utilizzo di più unità catastali non costituisce ostacolo all' applicazione dell' agevolazione su tutti gli immobili «sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono, assumendo rilievo a tal fine non il numero delle unità catastali, ma la prova dell' effettiva utilizzazione ad «abitazione principale» dell'iimmobile complessivamente considerato».
La tesi ministeriale.
Per la Cassazione, dunque, quello che conta è l' effettiva utilizzazione come abitazione principale dell' immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali.
Tuttavia, la tesi dei giudici di legittimità si pone in contrasto con quanto affermato dal dipartimento delle finanze del ministero dell'economia (risoluzione 6/2002) sui presupposti richiesti per usufruire dei benefici fiscali.
Il ministero ha infatti precisato che due o più unità immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a imposizione, «ciascuna per la propria rendita».
Solo una può essere considerata abitazione principale. Il contribuente, per usufruire dell'esenzione, dovrebbe richiedere l'accatastamento unitario degli immobili, per i quali è attribuita in catasto una distinta rendita, presentando all'ente una denuncia di variazione. Allo stesso modo si è espresso il ministero dell'economia con la circolare 3/2012 per limitare l'esenzione Imu. Dalla formulazione letterale della norma di legge (articolo 13 dl 201/2011) emergerebbe che l'abitazione principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto, a prescindere dalla circostanza che, di fatto, venga utilizzato più di un fabbricato distintamente iscritto in catasto.
In questo caso le singole unità immobiliari vanno assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita.
L'interessato può scegliere quale destinare ad abitazione principale, Secondo il ministero, le altre unità immobiliari «vanno considerate come abitazioni diverse da quella principale con l' applicazione dell' aliquota deliberata dal comune per tali tipologie di fabbricati».
Al riguardo, si ritiene di non condividere la posizione espressa con la circolare ministeriale, poiché anche per l'Imu il contribuente dovrebbe avere diritto al trattamento agevolato qualora utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come prima casa, considerato che l'articolo 13 richiede che si tratti di un'unica unità immobiliare iscritta o «iscrivibile» come tale in catasto. È sufficiente che le diverse unità immobiliari siano possedute da un unico titolare e siano contigue.
La posizione dei giudici di merito sull' uso congiunto.
I giudici di merito si sono allineati al principio affermato dalla Cassazione. Per esempio, la Commissione tributaria provinciale di Roma, sezione XXXVII, con la sentenza 16449/2017, ha sostenuto che il Comune di Roma non può negare il diritto a fruire dell'agevolazione Ici a un contribuente che utilizzi più immobili, distintamente iscritti in catasto, come abitazione principale. Il contemporaneo utilizzo di più unità catastali non costituisce impedimento all'applicazione, per tutte, dell'esenzione.
Per fruire delle agevolazioni fiscali non conta il numero delle unità catastali, ma l'effettiva utilizzazione degli immobili complessivamente considerati come prima casa.
Per i giudici capitolini, «la ricorrente ha fornito prova sufficiente di utilizzare tutto l'immobile (210 mq lordi) come abitazione principale, così come risulta dalla documentazione prodotta ed in particolare dalla certificazione anagrafica. D'altro canto, il nucleo familiare, composto di cinque membri di cui quattro adulti e di collaboratrice domestica, appare avere un' esigenza abitativa correlata correttamente all' estensione e caratteristiche del cespite».
La Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza 2830/2018) ha però precisato che i contribuenti che intendono fruire dell'esenzione devono presentare al comune un'apposita dichiarazione se utilizzano due o più immobili come unica unità immobiliare destinata a prima casa, per consentire all'ente di poter controllare la sussistenza dei requisiti.
Per il giudice d'appello, «è da accogliere l'eccezione del comune secondo cui il ricorrente, al fine di beneficiare di tale esenzione per i due appartamenti, che avrebbero dovuto costituire un' unica un' unità immobiliare, doveva farne apposita richiesta con variazione della dichiarazione, al fine di consentire i controlli per la verifica dei requisiti previsti».
L'esenzione Imu per abitazioni e pertinenze.
La nozione di prima casa per l'Imu è diversa rispetto a quella stabilita per l'Ici dall' articolo 8 del decreto legislativo 504/1992. In base a quanto disposto dall' articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente. Per pertinenze dell' abitazione principale si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto unitamente all' immobile adibito ad abitazione.
In presenza delle condizioni di legge gli immobili adibiti a prima casa sono esenti, tranne quelli iscritti nelle categorie catastali A1, A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il trattamento agevolato è limitato all' aliquota e alla detrazione. La legge, infatti, prevede per queste unità immobiliari l'applicazione di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro. Mentre l'aliquota di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che gli enti locali possono aumentare o diminuire di 3 punti percentuali.
Per fruire dell'agevolazione sulle pertinenze i giudici hanno posto dei limiti. La Commissione tributaria regionale di Milano (sentenza 3376/2018) ha sostenuto che non può essere riconosciuta l'esenzione Imu per il garage se la distanza dall' abitazione principale è tale che il vincolo pertinenziale può essere rimosso in qualsiasi momento secondo la convenienza del contribuente.
Pertanto, è necessaria la contiguità spaziale per avere diritto all'agevolazione fiscale. La distanza tra garage e abitazione fa venir meno il vincolo pertinenziale, che è indispensabile per poter fruire dell'esenzione Imu. Al riguardo, è stata richiamata dalla giurisprudenza la tesi sostenuta per le aree edificabili che sono pertinenze di fabbricati. In effetti, in base a quanto disposto dall' articolo 817 del codice civile, l'imposizione è esclusa solo in presenza di un'effettiva destinazione della pertinenza al servizio del bene principale.
Peraltro, secondo la Cassazione (ordinanza 15668/2017) è necessario anche il vincolo cartolare di contestuale destinazione al servizio dell'abitazione al momento del separato acquisto del garage. Naturalmente, non bastano solo i requisiti oggettivi per fruire dell' esenzione sulle pertinenze, occorre che il contribuente possieda anche quelli soggettivi.
Va evidenziato, infine, che anche la classificazione catastale è decisiva. La Cassazione (ordinanza 8017/2017) ha chiarito che non spetta l'esenzione se l'immobile destinato ad abitazione principale, ma il principio vale anche per la classificazione delle pertinenze nelle categorie C/2, C/6 e C/7, è inquadrato catastalmente come ufficio o studio.
Ai fini del trattamento esonerativo rileva l'oggettiva classificazione catastale dell'immobile. Nel caso in cui l'immobile sia iscritto in una diversa categoria catastale è onere del contribuente che pretenda l'esenzione impugnare l'atto di classamento (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019).

TRIBUTIICI agevolata per le unità catastali distinte utilizzate come unica abitazione.
Due immobili utilizzati unitariamente, anche se costituiscono unità catastali autonome, devono essere considerati ai fini Ici come unica abitazione.

La Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 02.04.2019 n. 9078, ha precisato che, conseguentemente, ai due beni si debba applicare l'aliquota Ici agevolata. Sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono.
Nei precedenti gradi di giudizio il contribuente aveva perso sul principio di analogia applicato dai giudici: Tarsu e Tia erano state versate separatamente e così anche l'Ici andava corrisposta in tal modo. Secondo la tesi del contribuente, accolta in Cassazione, ciò che rileva ai fini Ici è l'utilizzo unitario, indipendentemente dal separato accatastamento di plurime unità abitative che lo compongono.
I Supremi giudici hanno precisato che il contemporaneo uso di più unità catastali non rappresenta ostacolo all'applicazione, per tutte, dell'aliquota agevolata prevista per l'abitazione principale, sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono. Quindi ciò che conta è la prova dell'effettiva utilizzazione ad abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.04.2019).
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MASSIMA
Considerato che:
   - con l'unico motivo d'impugnazione, in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, il ricorrente denuncia violazione dell'art. 1 del d.l. n. 93 del 2008 convertito in legge n. 126 del 2008, dell'art. 10 della legge n. 212 del 2000, dell'art. 97 Cost. e del principio di leale collaborazione perché ai fini ICI ciò che rileva è l'utilizzo unitario, indipendentemente dal separato accatastamento di plurime unità abitative che la compongono;
   - ritenuto che il motivo è fondato in quanto
in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), il contemporaneo utilizzo di più unità catastali non costituisce ostacolo all'applicazione, per tutte, dell'aliquota agevolata prevista per l'abitazione principale, sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono, assumendo rilievo a tal fine non il numero delle unità catastali, ma assumendo rilievo, a tal fine, non il numero delle unità catastali ma la prova dell'effettiva utilizzazione ad "abitazione principale" dell'immobile complessivamente considerato (Cass. 29.10.2008, n. 25902; 12.02.2010, n. 3393);
   - ritenuto dunque che la Commissione Tributaria Regionale ha errato laddove, nel rigettare l'appello del contribuente, ha fatto unicamente riferimento al momento della variazione catastale;

PUBBLICO IMPIEGO: Compiti allargati per la polizia municipale.
La giunta comunale può attribuire alla polizia municipale compiti ulteriori e aggiuntivi a condizione che rientrino, anche in una nozione assai ampia, tra le competenze del settore. L'ente, nell'adottare questa scelta, non è tenuto a fornire specifica e analitica motivazione.

Possono essere così riassunte le principali indicazioni contenute nella sentenza 02.04.2019 n. 2174 della V Sez. del Consiglio di Stato che ribalta il giudizio negativo formulato in primo grado dal Tar di Lecce.
Alla base della pronuncia vengono poste le disposizioni contenute nel comma 221 della legge n. 208/2015, cd legge di stabilità 2016. Ricordiamo che questa disposizione amplia i compiti che possono essere assegnati sia ai dirigenti della polizia locale sia ai dirigenti dell'avvocatura, superando le indicazioni precedentemente fornite dalla giurisprudenza, per cui questi incarichi venivano ritenuti essere caratterizzati da una specialità tale che a questi dirigenti non potevano essere conferiti incarichi ulteriori e che queste articolazioni organizzative dovevano necessariamente avere al proprio vertice soggetti in possesso di queste caratteristiche.
La sentenza detta subito la indicazione che questa disposizione non può essere intesa in senso letterale, cioè limitata esclusivamente agli incarichi dirigenziali. Ricordiamo infatti che nella gran parte dei comuni non vi sono dirigenti, a seguito delle dimensioni ridotte dell'ente Si deve inoltre ricordare che, ex articolo 109 del D.Lgs. n. 267/2000, ai dirigenti sono equiparati, negli enti che ne sono sprovvisti, i responsabili. Per cui, sulla base di queste indicazioni, anche al comandante della polizia locale che è una posizione organizzativa possono essere assegnati compiti ulteriori e non si è vincolati a che esso debba svolgere esclusivamente le attività peculiari del settore.
Le materie ascrivibili -anche in una nozione ampia alle competenze della polizia locale- possono quindi essere assegnate a tale articolazione organizzativa. Nel caso specifico esse sono le seguenti: "procedimenti in materia di segnaletica stradale, ivi compresi quelli attinenti allo svolgimento delle procedure per l'acquisto ed eventuale posa in opera della segnaletica stradale verticale e orizzontale; rilascio dei contrassegni per auto per soggetti disabili, passi carrabili, tesserini per l'esercizio della caccia e per la raccolta dei funghi; di gestione dei servizi cimiteriali, inclusa la procedura di individuazione del gestore del servizio; concessione loculi comunali; notifica degli atti giudiziari e non giudiziari; autorizzazione all'occupazione di suolo pubblico e commercio e pubblici esercizi".
Siamo in presenza di attività che nel comune non erano assegnate alla polizia locale, ma nulla impedisce che la giunta possa, nell'ambito di una modifica del proprio modello organizzativo, procedere in questa direzione. Siamo dinanzi a compiti che quanto meno si devono considerare come connessi o, per usare il termine della sentenza, "non estranei" rispetto alla polizia locale.
Una ultima importante indicazione contenuta nella sentenza è che le scelte di modifica del modello organizzativo con cui vengono ampliati i compiti della polizia locale hanno la natura di una disposizione regolamentare, per cui –sulla base dei principi di carattere generale dettati dalla legge n. 241/1990 ed ancora pienamente in vigore- non occorre una specifica motivazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.04.2019).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAffidamenti semplificati efficaci solo dopo la verifica sul possesso dei requisiti.
Anche nei procedimenti di acquisto effettuati tramite il mercato elettronico, l'aggiudicazione diventa efficace solo dopo il riscontro sul possesso dei requisiti generali e speciali richiesti dalla stazione appaltante (comma 7 dell'articolo 32 del codice dei contratti).

È quanto ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la sentenza 01.04.2019 n. 4276.
La verifica sul possesso dei requisiti
L'importante chiarimento viene fornito sul possesso dei requisiti generali (e speciali eventualmente richiesti dalla stazione appaltante) anche in tema di procedimenti di affidamento semplificati secondo l'articolo 36 del codice dei contratti. La tematica –tra le altre– posta in rilievo era quella dei rapporti tra assegnazione della commessa avvenuta attraverso le dinamiche del mercato elettronico (nel caso di specie il Mepa di Consip) e l'efficacia dell'aggiudicazione che, da codice dei contratti, si verifica solo dopo il controllo sul possesso dei requisiti.
Il giudice, nel confermare la necessità anche nel caso di procedure negoziate e/o semplificate –del resto anche secondo quanto già sostenuto dall'Anac con le linee guida n. 4 in tema di acquisizione sottosoglia- puntualizza che in tal senso si è espressa la stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (decisione n. 8/2015 che richiama le decisioni n. 10 del 2014, nn. 15 e 20 del 2013; nn. 8 e 27 del 2012; n. 1 del 2010).
Secondo questo intervento, «il possesso dei requisiti di ammissione si impone a partire dall'atto di presentazione della domanda di partecipazione e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica» per una ovvia esigenza «di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col principio del favor partecipationis». In sostanza, la verifica del possesso nel soggetto concorrente –e in particolar modo nei confronti dell'aggiudicatario- «dei requisiti di partecipazione alla gara deve ritenersi immanente all'intero procedimento di evidenza pubblica».
Il giudice ha rammentato che la previsione è posta «a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell'impresa di presentare un'offerta credibile e, perciò, della sicurezza, per la stazione appaltante, dell'instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all'adempimento dell'obbligazione contrattuale» risulti provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e tecnico-economico-professionale necessari per addivenire alla stipula del contratto con la Pa.
La norma
In questo senso, del resto lo stesso articolo 36, comma 6-bis, del codice dei contratti puntualizza che «Nei mercati elettronici (…) per gli affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, la verifica sull'assenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80 è effettuata su un campione significativo in fase di ammissione e di permanenza, dal soggetto responsabile dell'ammissione al mercato elettronico» e che comunque (e quindi in ogni caso) «Resta ferma la verifica sull'aggiudicatario (…)».
Quindi, anche in caso di approvvigionamento mediante ricorso al mercato elettronico delle pubbliche amministrazioni, «pur essendo la verifica del possesso dei requisiti», effettuata a monte, in capo a tutti i concorrenti, «demandata alla Consip, alla quale è affidato il MEPA, è comunque necessario, per ciascuna stazione appaltante, accertarne il possesso rispetto al soggetto aggiudicatario».
Anche nei procedimenti semplificati, pertanto, torva applicazione il comma 7 dell'articolo 32 del codice dei contratti a memoria del quale «L'aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.04.2019).
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MASSIMA
9 - Il provvedimento risulta invece illegittimo nella parte in cui dispone l’aggiudicazione in favore di Un. S.r.l., in assenza del controllo dei requisiti in capo all’originaria concorrente Tr.Gr.Se. S.r.l..
9.1 - Occorre in primo luogo evidenziare che, come affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (decisione n. 8 del 20.7.2015, che richiama le decisioni n. 10 del 2014, nn. 15 e 20 del 2013; nn. 8 e 27 del 2012; n. 1 del 2010),
il possesso dei requisiti di ammissione si impone a partire dall’atto di presentazione della domanda di partecipazione e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica, in quanto, per esigenze di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col principio del favor partecipationis, la verifica del possesso, da parte del soggetto concorrente, dei requisiti di partecipazione alla gara deve ritenersi immanente all’intero procedimento di evidenza pubblica.
Tale previsione è a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, perciò, della sicurezza, per la stazione appaltante, dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e tecnico-economico-professionale necessari per contrattare con la Pubblica Amministrazione.

9.1 - Fatta questa dovuta puntualizzazione, deve altresì considerarsi che, pur avendo la Tr. sin dall’08.05.2017 stipulato un contratto d’affitto d’azienda con Un. S.r.l., comprendente anche il servizio oggetto della procedura qui in esame, tuttavia la decorrenza dell’efficacia del contratto de quo era indicata nel rilascio, da parte della Prefettura di Roma, del titolo di polizia a favore dell’affittuario nonché da dall’ottenimento delle licenze e concessioni per l’esercizio dell’attività di vigilanza. Quindi era la Tr. la Società partecipante alla procedura negoziata che ha poi trasferito a Un. il servizio de quo.
9.2 -
Ai sensi dell’art. 36, comma 6-bis, del d.lgs n. 50/2016: “Nei mercati elettronici di cui al comma 6, per gli affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, la verifica sull’assenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80 è effettuata su un campione significativo in fase di ammissione e di permanenza, dal soggetto responsabile dell’ammissione al mercato elettronico. Resta ferma la verifica sull’aggiudicatario ai sensi del comma 5.”.
Quindi, in caso di approvvigionamento mediante ricorso al mercato elettronico delle pubbliche amministrazioni, pur essendo la verifica del possesso dei requisiti a monte, in capo a tutti i concorrenti, demandata alla Consip, alla quale è affi
dato il MEPA, è comunque necessario, per ciascuna stazione appaltante, accertarne il possesso rispetto al soggetto aggiudicatario, che è qui rappresentato da Tr.Gr.Se. S.r.l..
9.3 -
Pertanto anche nelle procedure negoziate svolte facendo ricorso al MEPA si applica la previsione dell’art. 32, di cui in ricorso si assume la violazione, che dispone: “L’'aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti.”.

APPALTI SERVIZISpetta al tribunale annullare la risoluzione dell'appalto.
Secondo il Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 01.04.2019 n. 2128),
l'annullamento del provvedimento comunale di risoluzione del contratto di appalto per il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani ed assimilati (nel caso di specie, nell'esercizio di apposita clausola risolutiva espressa prevista dal capitolato speciale d'appalto), rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, afferendo alla fase di esecuzione del contratto.
Nell'occasione, il giudice d'appello, confermando la decisione del giudice di prime cure, ha respinto la tesi secondo cui la questione rientrava tra le materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo previste dalle lettere c) e p) dell'art. 133 del codice del processo amministrativo, relative, rispettivamente, alle «concessioni di pubblici servizi», con esclusione di quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettive, e «alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere».
Il servizio in discussione, infatti, era stato affidato dal comune mediante concessione anziché nelle forme dell'appalto, ma l'atto comunale impugnato costituiva esercizio del potere di scioglimento dal rapporto contrattuale stabilito con la stipulazione del contratto, quindi, indiscutibilmente riconducibile alla fase esecutiva del contratto stesso ossia ad una fase in cui, per costante giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione le posizioni delle parti hanno consistenza di diritto soggettivo e sono conseguentemente conoscibili dal giudice ordinario (v. Cass., Ss.uu., ordinanza 10.01.2019, n. 489).
Pertanto, il Consiglio di Stato, ha negato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto «non sono riconducibili all'esercizio di un potere autoritativo in materia gli atti compiuti nell'ambito di un rapporto obbligatorio avente la propria fonte in una pattuizione di tipo negoziale, intesa a regolare gli aspetti meramente patrimoniali della gestione dei rifiuti (articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).
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8. Con riguardo all’ipotesi concernente le concessioni di pubblico servizio la relativa nozione di origine europea incentrata sul trasferimento al privato concessionario del rischio operativo inerente all’esecuzione del contratto è –più precisamente: «legato alla gestione dei lavori o dei servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di entrambi», ex art. 3, comma 1, lett. zz), d.lgs. n. 50 del 2016– è ormai stata recepita sul piano normativo nazionale.
Ad essa è pertanto inevitabile riferirsi per stabilire se il contratto sia qualificabile come concessione o appalto.
9. Nel caso di specie è pacifico che nessun rischio operativo legato alla gestione dei servizi sul lato della domanda o dell’offerta risulta traslato a carico del contraente privato, ed in particolare dell’odierna appellante SO.GE.S.A., posto che, come sottolinea il Comune di Monteiasi, per esso è previsto il pagamento di un corrispettivo «fisso ed invariabile», soggetto a «revisione e/o adeguamento ai sensi della normativa vigente» (ai sensi dell’art. 3 del contratto).
Non muta le conclusioni il fatto che l’onere economico finale sia nella sostanza riversato all’utenza del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti e degli altri servizi di igiene urbana oggetto del contratto, attraverso l’imposizione tributaria realizzata con la tassa per i rifiuti. Rispetto a questo distinto rapporto, intercorrente tra l’ente comunale impositore e i contribuenti in esso residenti, l’appaltatore è estraneo e comunque garantito dal pagamento del corrispettivo contrattualmente stabilito.
10. Sulla base delle considerazioni finora svolte non vi sono elementi per ritenere, in contrasto con la qualificazione contrattuale data dalle stesse parti, che il servizio in questione –pur pacificamente qualificabile in base alle disposizioni del testo unico sull’ambiente richiamato dalla società appellante– sia stato affidato a quest’ultima mediante concessione anziché nelle forme espressamente previste dell’appalto.
11. Sulla base di questo inquadramento la ragione a base della declinatoria di giurisdizione emessa dal Tribunale è corretta, posto che l’atto impugnato (determinazione n. 251 del 18.09.2018, sopra menzionata) costituisce esercizio del potere di scioglimento dal rapporto contrattuale stabilito con la stipulazione del contratto d’appalto.
Come in particolare si evince dalla relativa motivazione la determinazione impugnata è atto di manifestazione della volontà del Comune di Monteiasi di avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista dall’art. 25 del capitolato speciale d’appalto e non invece -come sostiene l’appellante, sia pure ai fini dell’altro titolo di giurisdizione esclusiva invocato- atto di esercizio del potere previsto dall’art. 108 del codice dei contratti pubblici (impregiudicata peraltro ogni questione se quest’ultimo fondi un potere di carattere autoritativo del contraente pubblico).
Si tratta quindi di atto indiscutibilmente riconducibile alla fase esecutiva del contratto in cui per la costante giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, richiamata dal giudice di primo grado, le posizioni delle parti hanno consistenza di diritto soggettivo e sono conseguentemente conoscibili dal giudice ordinario (da ultimo in questo senso: Cass., SS.UU., ordinanza 10.01.2019, n. 489).
12. In linea con la posizione assunta dalla Suprema Corte deve anche escludersi che la presente controversia ricada nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la «complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere».
La Cassazione afferma infatti che non sono riconducibili all’esercizio di un potere autoritativo in materia gli atti compiuti nell’ambito di un rapporto obbligatorio avente la propria fonte in una pattuizione di tipo negoziale, intesa a regolare gli aspetti meramente patrimoniali della gestione dei rifiuti (tra le altre: Cass., SS.UU. 11.06.2010, n. 14126; cui aderisce questo Consiglio di Stato: cfr. le sentenze di questa Sezione 27.07.2016, n. 3399 e 09.04.2015, n. 1819).
Si tratta di un orientamento forse opinabile e da rimeditare, nella misura in cui trascura che:
   a) innanzitutto, l’affidamento di un contratto d’appalto per la raccolta dei rifiuti e lo svolgimento degli altri servizi di igiene urbana si pone a valle ed è attuativa di una scelta di carattere autoritativo concernente le modalità di gestione di un servizio pubblico;
   b) inoltre, la natura di diritto soggettivo delle posizioni giuridiche controverse non è decisiva, poiché è proprio nella logica di concentrazione delle tutele in situazioni di intreccio tra diritti soggettivi ed interessi legittimi che si giustifica l’istituto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dal legislatore. Nondimeno l’indirizzo in questione non può non essere seguito, dal momento che esso è stato espresso dal giudice regolatore della giurisdizione.

APPALTIGara da revocare se l'operatore economico è indagato.
In presenza di una gara che è oggetto di indagini penali, la stazione appaltante può disporre la revoca della procedura qualora ricorrano elementi precisi, diretti e concordanti, senza che occorra attendere l'esito del giudizio penale al fine di affermare l'inaffidabilità, l'incongruità o la mancanza di integrità della procedura stessa.

Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 01.04.2019 n. 2123.
Il fatto
Oggetto dell'appello è stata una procedura di project financing per l'affidamento della concessione del servizio di illuminazione votiva, con annessa realizzazione di sistemi di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e l'accollo da parte del concessionario del presumibile esborso del valore non ammortizzato delle immobilizzazioni e forniture riferibili ai precedenti concessionari.
A seguito della notifica di un avviso di conclusione indagini per i delitti di turbata libertà degli incanti e falso, la stazione appaltante ha revocato l'aggiudicazione definitiva e tutta la procedura di project financing, sul rilievo fondamentale per cui le circostanze emergenti dal procedimento penale in corso avevano determinato il venir meno dell'elemento fiduciario che deve ispirare i rapporti tra amministrazione e gli aggiudicatari concessionari. L'operatore economico e il Comune hanno impugnato la sentenza con cui il Tar Campania ha respinto la richiesta di annullamento della determina dirigenziale di revoca in autotutela dell'aggiudicazione.
La revoca
La quinta sezione non ha dubbi circa la sussistenza del potere discrezionale della stazione appaltante di revocare l'aggiudicazione definitiva in relazione all'emersione di un interesse pubblico concreto derivante dalla conoscenza di circostanze, risultanti dalle indagini penali, nel caso in cui questi riguardano specificamente una gara il cui esito potrebbe essere stato indebitamente influenzato.
In queste ipotesi, qualora ricorra un quadro di elementi precisi, diretti e concordanti, la stazione appaltante, al fine di addivenire al giudizio finale, può e deve far riferimento al complesso delle circostanze emergenti dalla fattispecie, senza che occorra necessariamente attendere sempre l'esito del giudizio penale al fine di affermare l'inaffidabilità, l'incongruità o la mancanza di integrità della procedura di gara.
In altre parole, per esercitare l'autotutela revocatoria è sufficiente che sussistano profili sintomaticamente concordanti e univoci della sussistenza di elementi tali da poter ricavare la ragionevole convinzione che si sia verificata un'indebita influenza dell'operatore economico nei processi decisionali dell'amministrazione. La valutazione in ordine alla rilevanza inquinante sul procedimento di specifici comportamenti è rimessa a valutazioni discrezionali di competenza esclusiva della stazione appaltante e non costituisce un'automatica e necessitata conseguenza delle indagini penali.
Il margine di apprezzamento
Anzi, afferma la quinta sezione, il potere di annullamento in autotutela del provvedimento amministrativo, nel preminente interesse pubblico al ripristino della legalità dell'azione amministrativa da parte della stessa amministrazione procedente, sussiste anche dopo l'aggiudicazione della gara. Gli elementi emersi in sede di indagine penale però non possono essere riletti in modo del tutto eccentrico rispetto a quello dell'Autorità Giudiziaria penale, almeno con riguardo alla loro oggettiva consistenza.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, l'immagine e la credibilità dell'amministrazione costituiscono un valore primario prevalente sull'affidamento maturato dall'operatore economico che ha partecipato alla gara. Nemmeno avallano l'idea che l'amministrazione avrebbe dovuto sottoporre ad autonoma verifica le situazioni fattuali oggetto di accertamento in sede penale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOReclutamento del personale, all'Ente resta il potere di scelta anche dopo aver bandito il concorso.
Dopo che il Comune ha indetto un concorso per reclutare nuovi dipendenti non perde il potere di organizzazione del personale rideterminando la dotazione organica e il fabbisogno di risorse umane.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la sentenza 29.03.2019 n. 4191, rigettando il ricorso proposto dai vincitori e dagli idonei del concorso bandito da un Comune per l'assunzione di 18 unità di personale di ruolo, categoria D.
La sentenza è interessante, in quanto riconosce alla Pa un ampio margine di manovra nel decidere le modalità di reclutamento di personale, anche modificando le scelte precedenti.
Il fatto
Un Comune, dopo aver portato a termine le procedure concorsuali e aver individuato con graduatoria i vincitori e i candidati idonei, ha modificato le politiche del personale approvando una riduzione della dotazione organica con una delibera di Giunta avente a oggetto il programma triennale del fabbisogno di personale.
Il cambio di rotta da parte del Comune non poteva essere più drastico, in quanto con la delibera di programmazione l'ente è tornato sui suoi passi e ha espresso la volontà di non avvalersi del personale individuato con il concorso.
Nello specifico, la giunta ha deciso di:
   • «cancellare» dalla dotazione organica i posti vacanti nella categoria D già messi a concorso;
   • sottoscrivere con la Provincia un protocollo d'intesa con l'impegno di assumere 4 unità di personale di categoria D, attingendo alle graduatorie provinciali;
   • conferire ad alcuni dipendenti di categoria C l'incarico di svolgere mansioni superiori ascrivibili alla categoria D;
   • sopperire alle residue carenze di organico con procedure di mobilità volontaria per la copertura di n. 3 posti, sempre di categoria D.
Su quest'ultimo punto va precisato che la preferenza accordata dall'ordinamento alla procedura di mobilità volontaria (articolo 30 del Dlgs 165/2001) rispetto al concorso pubblico apre la strada al Tar Lazio per sostenere la piena facoltà dell'ente di ritornare sui suoi passi, anche dopo aver attivato una procedura concorsuale giunta alla fase finale.
La decisione
I giudici hanno scritto che «il carattere privilegiato della mobilità volontaria quale procedura di approvvigionamento di personale rispetto ai concorsi e a graduatorie ancora attive, anche nell'ottica del raggiungimento del risparmio di spesa (…) è efficacemente sottolineato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato per cui l'esistenza di una graduatoria ancora valida, se limita (o in ipotesi, addirittura esclude) la libertà di indire un nuovo concorso, non incide sulla libertà di avviare una procedura di mobilità».
Viene pertanto ribadito il principio secondo cui l'ente, prima di procedere all'indizione di concorsi finalizzati alla copertura di posti vacanti, deve attivare le procedure di mobilità esterna del personale di altre amministrazioni pubbliche (Tar Calabria, sentenza n. 2185/2018).
In ogni caso, i giudici non hanno mosso rilievi al Comune anche per le ulteriori misure adottate in sede di programmazione del fabbisogno di personale. Infatti, l'eliminazione dei posti vacanti nella dotazione organica non solo è risultata conforme al Dm 24.07.2014 che fissa i rapporti medi dipendenti-popolazione per classe demografica, ma è stata oltremodo apprezzata dal collegio quale misura virtuosa per gli enti in condizioni di dissesto finanziario, come appunto il Comune chiamato in causa.
Anche il protocollo d'intesa siglato con la Provincia per l'utilizzo della graduatoria di questa amministrazione è uscito indenne dal vaglio dei magistrati, trattandosi di una condotta conforme al dettato normativo.
La sentenza ha segnato un punto a favore della potestà discrezionale della Pa in un frangente delicato, e ha scardinato la tesi a sostegno del ricorso secondo cui il potere di organizzazione del personale rispetto ai posti vacanti dopo l'indizione del concorso sarebbe oggetto di sviamento di potere, perché esercitato dal Comune «non già per organizzare e pianificare il fabbisogno dell'ente, ma per far "naufragare" il precedente concorso svolto» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.04.2019).
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MASSIMA
Anche le procedure indette dal Comune di Rieti per la mobilità volontaria anch’esse oggetto delle censure dei ricorrenti in quanto considerate indicative della volontà dell’Amministrazione Comunale di ignorare le graduatorie del concorso risultano, ad un attento esame degli atti di causa, immuni dai dedotti vizi di illegittimità, irragionevolezza illegittimità e sviamento.
Dall'art. 30, comma 2-bis, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 -secondo cui le Amministrazioni, prima di procedere all'indizione di pubblici concorsi finalizzati alla copertura di posti vacanti, devono attivare le procedure di mobilità esterna del personale di altre Amministrazioni pubbliche- si desume agevolmente la preferenza del legislatore per le procedure di mobilità… rispetto alle selezioni concorsuali e perciò anche rispetto allo scorrimento delle graduatorie concorsuali già pubblicate e tale prevalenza della mobilità rispetto al concorso ed allo scorrimento della graduatoria non risulta illogica, dal momento che risponde ad esigenze di efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa preferire l'utilizzazione di personale con esperienza acquista nell'esercizio dei compiti propri del posto da ricoprire, per aver già svolto la specifica funzione per un rilevante lasso di tempo continuativo, e perché si tratta di un lavoratore già stabilmente inserito nell'organizzazione della Pubblica amministrazione, non da reclutare mediante un'assunzione ex novo” (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 24.12.2018 n. 2185).
Il carattere privilegiato della mobilità volontaria quale procedura di approvvigionamento di personale rispetto ai concorsi e a graduatorie ancora attive, anche nell’ottica del raggiungimento del risparmio di spesa (finalità primaria ormai in tutte le realtà amministrative, ma obiettivo quanto mai essenziale per il Comune di Rieti, vista la sua particolare condizione economico-finanziaria) è efficacemente sottolineato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato per cui “
l’esistenza di una graduatoria ancora valida, se limita (o in ipotesi, addirittura esclude ) la libertà di indire un nuovo concorso, non incide sulla libertà di avviare una procedura di mobilità… (poiché) la preferenza accordata dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 14/2011 allo scorrimento della graduatoria rispetto all’indizione di una nuova procedura concorsuale … non può essere riferita al diverso caso in cui allo scorrimento della graduatoria sia preferito il ricorso alla procedura di mobilità di personale proveniente da altre Amministrazioni, ciò atteso il fatto che la mobilità consente varie finalità quali l’acquisizione del personale già formato, l’immediata operatività delle scelte, l’assorbimento di eventuale personale eccedentario ed i risparmi di spesa conseguenti a tutte le ricordate situazioni” (Cons. St., Sez. III, 19.06.2018 n. 3750; Cons. St., Sez. IV, 30.03.2018 n. 2027).

EDILIZIA PRIVATA: Volumi tecnici.
La nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono perciò esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità.
Ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2019 n. 2101 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
6 – La sentenza impugnata deve essere confermata anche nel punto in cui ha respinto le censure dirette a contestare l’ordine di demolizione del locale in alluminio e vetro, ubicato al di sotto di una tettoia, utilizzato per il riparo degli addetti al controllo del carico e scarico delle merci e del locale tecnologico, anch’esso ubicato al di sotto di una tettoia, destinato ad ospitare l’impianto antincendio.
L’appellante assume che tali strutture possano essere classificati come volumi tecnici.
6.1 - Le argomentazione a tal fine dedotte dalla società sono smentite dalle caratteristiche delle opere in esame e dalla loro entità rapportate ai criteri individuati dalla giurisprudenza al fine di delineare la nozione di vano tecnico.
Le dimensioni del primo locale sono “pari a circa mq = (3,80 mi x 5,75 mt.) = 21,85 mq con altezza esterna pari a mi 2,70”, quelle del secondo sono ”pari a circa mq = (4,60 mi x 5,95 mi) = mq 27,37 con altezza delle pareti rilevata esternamente pari a mi 2,70”.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza (ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2017, n. 5516),
la nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa.
Si è anche precisato che
i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza (cfr. Cons. St., Sez. VI, 04.11.2014).

EDILIZIA PRIVATAL’onere di fornire la prova dell’epoca della realizzazione delle opere incombe sul privato e non sull’amministrazione che, in presenza di un’opera non assistita da un titolo edilizio, ha solo il potere-dovere di sanzionarla.
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I provvedimenti di demolizione si pongono quale conseguenza necessitata dell’abuso, senza alcun margine di apprezzamento discrezionale in capo all’amministrazione.
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In generale, deve ribadirsi che l’onere di fornire la prova dell’epoca della realizzazione delle opere incombe sul privato e non sull’amministrazione che, in presenza di un’opera non assistita da un titolo edilizio, ha solo il potere-dovere di sanzionarla (cfr. Cons. St., sez. VI, 20.12.2013, n. 6159; Cons. St., sez. V, 08.07.2013, n. 3596; Cons. St. Sez. VI, n. 3177 del 18.07.2016).
...
7 – Rispetto alle predette opere eseguite senza l’idonea autorizzazione, sono destituite di fondamento le censure con le quali l’appellante lamenta il mancato rispetto delle norme in tema di partecipazione del privato al procedimento amministrativo, ed in particolare la mancata considerazione delle controdeduzioni presentate dalla società ricorrente.
Al riguardo, invero, deve ricordarsi che i provvedimenti di demolizione si pongono quale conseguenza necessitata dell’abuso, senza alcun margine di apprezzamento discrezionale in capo all’amministrazione (cfr. Cons. St. sez. VI, n. 3744 del 2015).
In tal senso si giustifica il richiamo all’art. 21-octies della legge 241/1990 da ritenersi idoneo a superare i rilievi dell’appellante, che come innanzi illustrati si rilevano infondati (cfr. Cons. St., 1208 del 2014)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini urbanistici ed edilizi il concetto di pertinenza assume un significato più circoscritto rispetto alla nozione civilistica e si fonda sulla assenza di: a) autonoma destinazione del manufatto pertinenziale; b) incidenza sul carico urbanistico; c) modifica all'assetto del territorio.
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La giurisprudenza ha altresì chiarito che una tettoia, quale quelle aventi le descritte caratteristiche, seppur collegata al muro di un edificio preesistente, non può essere considerata in senso proprio una pertinenza, in quanto fa corpo con la cosa principale a cui aderisce, di cui modifica la sagoma e ne comporta l’ampliamento, creando nuova volumetria e, pertanto, necessita di un adeguato titolo di autorizzatorio.

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5 – L’appello non può inoltre trovare accoglimento in riferimento al carattere abusivo delle tettoie oggetto di contestazione, dovendosi confermare la decisone del TAR che ha ritenuto che la loro realizzazione, per caratteristiche e dimensioni, necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo l’appellante, che cita anche la circolare ministeriale n. 1918/77, sostiene che le tettoie aperte sarebbero opere di natura meramente accessoria e pertinenziale, al servizio esclusivo dei capannoni e prive di una loro autonoma fruibilità.
5.1 – Come anticipato, la censura è infondata, muovendo da un concetto improprio di pertinenza e trascurando le caratteristiche concrete delle tettoie in discorso, costituite da struttura portante in ferro e copertura con lamiere grecate ed aventi dimensioni notevoli (“la tettoia individuata al punto 6) dell'allegato A), presenta una superficie coperta ad una sola falda inclinata pari a circa mq 12100,00, con altezze pari a circa mt. 5,60 max e mt. 5,20 min., mentre la tettoia individuata alpunto 7) dell’allegato A) presenta una superficie coperta pari a circa mq 504,00 ... con altezze pari a circa mt. 5,70 max e mt. 4,35 min”).
Invero, ai fini urbanistici ed edilizi il concetto di pertinenza assume un significato più circoscritto rispetto alla nozione civilistica e si fonda sulla assenza di: a) autonoma destinazione del manufatto pertinenziale; b) incidenza sul carico urbanistico; c) modifica all'assetto del territorio (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 23.07.2009, n. 4636; Cons. di Stato, sez. IV, 16.05.2013, n. 2678; Cons. di Stato, sez. V, 11.06.2013, n. 3221).
La giurisprudenza ha altresì chiarito che una tettoia, quale quelle aventi le descritte caratteristiche, seppur collegata al muro di un edificio preesistente, non può essere considerata in senso proprio una pertinenza, in quanto fa corpo con la cosa principale a cui aderisce, di cui modifica la sagoma e ne comporta l’ampliamento, creando nuova volumetria e, pertanto, necessita di un adeguato titolo di autorizzatorio (cfr. Cons. St. n. 6493 del 2012; Cons. St. n. 3939 e n. 4997 del 2013)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordinanza di demolizione e comunicazione di avvio del procedimento.
E' legittima l'ordinanza di demolizione adottata in assenza dell'avviso di inizio procedimento in quanto, essendo la repressione dell'abuso un atto dovuto, il provvedimento adottato dall'Amministrazione non avrebbe potuto in ogni caso essere diverso; secondo il Coniglio di Stato, l'ordinanza di demolizione, costituendo un atto doveroso e vincolato emesso all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, non deve quindi essere preceduta dall'avviso di avvio del relativo procedimento, considerando anche la sua conseguente intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.03.2019 n. 2086 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
7. Nel merito, l’appello è palesemente infondato.
8. La società appellante ripropone in appello la questione relativa al mancato avviso dell’avvio del procedimento che ha portato all’adozione dell’ordinanza di demolizione impugnata.
8.1. Il profilo dedotto è infondato. L’indirizzo costante della giurisprudenza è infatti quello di ritenere non necessaria la preventiva comunicazione di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990.
8.2.
Deve infatti considerarsi legittima l'ordinanza di demolizione adottata in assenza dell'avviso di inizio procedimento in quanto, essendo la repressione dell'abuso un atto dovuto, il provvedimento adottato dall'Amministrazione non avrebbe potuto in ogni caso essere diverso (cfr. ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 23/01/2018, n. 437.
8.3.
L'ordinanza di demolizione, costituendo un atto doveroso e vincolato emesso all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, non deve quindi essere preceduta, come affermato dall’appellante, dall'avviso di avvio del relativo procedimento, considerando anche la sua conseguente intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.04.2009, n. 2227).
8.4.
D’altra parte, la invocata partecipazione procedimentale non avrebbe potuto eliminare la circostanza, non contestata, che le opere erano state realizzate senza il necessario titolo. In tale contesto, il provvedimento, essendo rigidamente ancorato alla sussistenza dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non necessitava neppure di una specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che imponevano la rimozione dell'abuso (cfr. Cons. Stato sez. VI, 03.12.2018, n. 6839).
8.5. In sostanza, la natura vincolata del potere esercitato rendeva non necessario, come correttamente messo in rilievo dal primo giudice, la necessità della partecipazione procedimentale, che non sarebbe stata comunque in grado di incidere sull'assetto sostanziale del rapporto quale definito con la determinazione finale adottata dal Comune.
9. Quanto, infine, alla lamentata incompletezza della copia dell’ordinanza notificata, può essere condivisa la conclusione del giudice di primo grado che ha rilevato come tale evenienza fosse riferibile soltanto alla comunicazione e quindi all’efficacia dell’atto impugnato, ma non alla sua legittimità (il Comune ha poi depositato agli atti del giudizio di primo grado la copia completa, cui comunque non è seguita da parte della ricorrente la proposizione di motivi aggiunti).
10. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata.

CONSIGLIERI COMUNALI: L'assenza per astensionismo politico non fa decadere il consigliere comunale.
L’assenza del consigliere comunale per dichiarato astensionismo politico non può essere considerata causa di decadenza dalla carica.

Così si esprime la I Sez. del TAR Campania-Napoli con la sentenza 29.03.2019 n. 1765.
Il fatto
Un Consigliere comunale di un Comune del casertano, eletto alle elezioni amministrative del 2016, ha impugnato la delibera consiliare, con la quale è stata disposta la sua decadenza dalla carica per reiterate assenze dalle sedute del Consiglio comunale, contestandone la legittimità e chiedendone l’annullamento.
Il Tribunale del capoluogo partenopeo, con la sentenza in rassegna, ha annullato la deliberazione consiliare.
La decisione
Il Consigliere dichiarato decaduto, ha dimostrato che le sue assenze erano assenze per «dissenso politico» per contestare il comportamento della maggioranza e del Presidente del Consiglio comunale che, avrebbero violato disposizioni statutarie e regolamentari e violato così le prerogative della minoranza.
La sentenza in rassegna, nel dichiarare illegittima la delibera consiliare impugnata, tiene conto della giurisprudenza consolidata, che ha evidenziato che le circostanze da cui consegue la decadenza del Consigliere comunale vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus publicum, considerando dunque che gli aspetti garantistici della procedura devono essere valutati attentamente, anche al fine di evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione delle minoranze.
Ne consegue che le assenze danno luogo a decadenza dalla carica qualora la giustificazione addotta dall’interessato sia relegata alla sfera mentale soggettiva di colui che la adduce, sì da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi ovvero, più in generale, quando dimostrano con ragionevole evidenza un atteggiamento di disinteresse per motivi futili od inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo.
È stato evidenziato dal Consiglio di Stato che la decadenza, intesa quale misura sanzionatoria, non può riguardare il deliberato astensionismo di un Consigliere comunale che viene esercitato in un contesto di dialettica politica tra maggioranza ed opposizione di documentata conflittualità tanto più se l’astensionismo risulta deliberato e preannunciato, in conformità ad una decisione assunta dai gruppi consiliari di appartenenza ed adeguatamente motivata in relazione ad un asserito atteggiamento della maggioranza che li ha esclusi dalle scelte amministrative più significative.
Conclusioni
Il Collegio, nel caso di specie, ha ritenuto che è emerso nitidamente che l’astensionismo del ricorrente sia avvenuto per motivi di lotta politica per i comportamenti tenuti dalla maggioranza.
Ne consegue, pertanto, che le assenze dalle sedute consiliari del ricorrente non potevano essere apoditticamente ritenute ingiustificate e condurre alla decadenza del ricorrente senza una adeguata valutazione sulle loro motivazioni (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del'11.04.2019).
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MASSIMA
2. In via preliminare va respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Comune.
Il collegio è consapevole che la giurisprudenza consolidata, sia ordinaria che amministrativa, ritiene sussistente la giurisdizione del g.o. nelle materie attinenti all'elettorato passivo, tra cui rientra quella relativa alla decadenza del consigliere comunale, perché si verte in tema di diritti soggettivi.
Nel caso di specie, tuttavia, si verte in un’ipotesi di decadenza dei Consiglieri comunali per la mancata partecipazione alle sedute; l'art. 43, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000 statuisce che "Lo statuto stabilisce i casi di decadenza e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative".
Tale disposizione introduce una seppur limitata sfera di potestà discrezionale in capo ai singoli enti locali nell'identificazione dei presupposti per la dichiarazione di decadenza, con riflessi sulle posizioni giuridiche incise e sulla giurisdizione, che spetta al g.a. ove siano coinvolti interessi legittimi, come è accaduto nel caso di specie, in cui il consigliere comunale ricorrente contesta i presupposti di applicazione del provvedimento amministrativo impugnato.
Del resto, come si vedrà oltre, la giurisprudenza amministrativa, in casi esattamente sovrapponibili a quello oggetto del presente giudizio, ha sempre ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo.

Ne consegue, pertanto, che l’eccezione di difetto di giurisdizione va respinta.
3. Il ricorso è fondato.
E’ emerso che alcuni consiglieri comunali, tra cui il ricorrente, sono risultati assenti a più consigli comunali, in pretesa violazione dell’art. 12 dello Statuto Comunale e dell’art. 31 del Regolamento per il funzionamento del Consiglio Comunale.
Il predetto art. 12 dello Statuto del Comune di Villa Literno dispone che: “Il funzionamento del Consiglio è disciplinato da apposito regolamento, approvato a maggioranza assoluta dei componenti, in conformità ai seguenti principi: a) gli avvisi di convocazione dovranno essere recapitati ai consiglieri, nel domicilio dichiarato, rispetto al giorno di convocazione, almeno: - cinque giorni prima per le convocazioni in seduta ordinaria; - tre giorni prima per le convocazioni in seduta straordinaria; - un giorno prima per le sedute straordinarie dichiarate urgenti; il giorno di consegna non viene computato; b) nessun argomento può essere posto in discussione se non sia stata assicurata, ad opera della Presidenza, un'adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri”.
Il comma terzo prevede che il consigliere è tenuto a giustificare per iscritto l'assenza dalla seduta entro dieci giorni dalla stessa. Il comma quarto dispone che la mancata partecipazione a tre sedute consecutive ovvero a cinque sedute nell'anno solare, senza giustificato motivo, dà luogo all'avvio del procedimento da parte del Presidente del Consiglio, per la dichiarazione della decadenza del consigliere con contestuale avviso all'interessato che può far pervenire le sue osservazioni entro 15 giorni dalla notifica dell'avviso.
Il ricorrente, facente parte del gruppo politico di minoranza “Noi Liternesi”, è risultato assente a tre sedute consecutive del Consiglio Comunale; per tale motivo è stata disposta la sua decadenza con il provvedimento in questa sede impugnato.
Il ricorrente ha, tuttavia, evidenziato che le assenze dalle sedute del consiglio comunale sono state giustificate dal motivo di dissenso politico. Tanto, peraltro, si desume dalla nota n. 1214 del 01.02.2019, con cui il ricorrente provvedeva a fornire le richieste giustificazioni, rappresentando come la mancata presenza ai Consigli Comunali del 02.07.2018, 11.09.2018 e 11.12.2018, fosse stata voluta quale manifestazione di “deliberato astensionismo” riguardo alla continua convocazione dei Consigli Comunali nelle ore mattutine.
Di qui, l'astensionismo dei consiglieri del gruppo “Noi Liternesi” teso a contestare il comportamento della maggioranza e del Presidente del Consiglio Comunale che, secondo la loro prospettazione, avrebbe violato disposizioni statutarie e regolamentari e violato così le prerogative della minoranza. In data 11.09.2018 è stata, peraltro, presentata dal gruppo “Noi Liternesi”, istanza in cui veniva preannunciata la scelta politica di astensione dell’intero gruppo “Noi Liternesi”, comunicando testualmente che: “
I consiglieri del Gruppo “Noi Liternesi”, con la mancata presenza in Consiglio Comunale manifestano il loro dissenso vs. un presidente del consiglio che non tiene conto delle loro istanze e soprattutto non tiene conto delle istanze dei Cittadini a cui interessa ancora la “res pubblica” continuando a convocare l’assemblea in mattinata”.
La giurisprudenza consolidata, cui questo Collegio intende dare continuità, ha evidenziato che le circostanze da cui consegue la decadenza del consigliere comunale vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus publicum, considerando dunque che gli aspetti garantistici della procedura devono essere valutati attentamente, anche al fine di evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione delle minoranze (Cons. Stato, V, 20.02.2017, n. 743).
Ne consegue che le assenze danno luogo a decadenza dalla carica qualora la giustificazione addotta dall’interessato sia relegata alla sfera mentale soggettiva di colui che la adduce, sì da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi (Cons. Stato, V, 29.11.2004, n. 7761), ovvero, più in generale, quando dimostrano con ragionevole evidenza un atteggiamento di disinteresse per motivi futili od inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo (Cons. Stato, V, 09.10.2007, n. 5277).
Per tali motivi è stato evidenziato che "la decadenza, intesa quale misura sanzionatoria, non può riguardare il deliberato astensionismo di un consigliere comunale che viene esercitato in un contesto di dialettica politica tra maggioranza ed opposizione di documentata conflittualità" tanto più se l’astensionismo "risulta deliberato e preannunciato, in conformità ad una decisione assunta dai gruppi consiliari di appartenenza ed adeguatamente motivata in relazione ad un asserito atteggiamento della maggioranza che li ha esclusi dalle scelte amministrative più significative (cfr., Consiglio di Stato, Sez. V, Sentenza n. 4433/2017).
Nella stessa prospettiva si è posta anche la giurisprudenza amministrativa dei TAR, secondo cui
l'astensionismo deliberato e preannunciato di un consigliere comunale dalle sedute dell'organo cui appartiene, ancorché superiore al periodo previsto ai fini della decadenza, è da considerarsi uno strumento di lotta politico-amministrativa a disposizione delle forze di opposizione per far valere il proprio dissenso a fronte di atteggiamenti ritenuti non partecipativi, dialettici e democratici delle forze di maggioranza a cui non può conseguire la sanzione della decadenza dalla carica di consigliere, anche perché in tal caso l'amministratore non mostra disinteresse e negligenza nell'adempiere il proprio mandato e non genera alcuna grave difficoltà di funzionamento dell'organo collegiale cui appartiene (cfr., TAR Latina, (Lazio) sez. I, 29/07/2016, n. 510).
Nel caso di specie, è emerso nitidamente che l’astensionismo del ricorrente sia avvenuto per motivi di lotta politica per i comportamenti tenuti dalla maggioranza.
Ne consegue, pertanto, che le assenze dalle sedute consiliari del ricorrente non potevano essere apoditticamente ritenute ingiustificate e condurre alla decadenza del ricorrente senza una adeguata valutazione sulle loro motivazioni.
Peraltro, nel provvedimento impugnato non vi è alcuna motivazione sul punto, né replica alle giustificazioni prodotte dal ricorrente.
Ne consegue, pertanto, che il ricorso va accolto e il provvedimento impugnato, per l’effetto, va annullato.

TRIBUTICasa in comodato, per il bonus ICI-IMU non serve il modulo comunale.
La Cassazione interviene sui formalismi inutili: per avere diritto all’agevolazione Ici-Imu sulla casa concessa in comodato ai figli non serve aver compilato il modulo comunale, basta l’invio per fax dell’atto notorio.

Il principio è espresso nella sentenza 28.03.2019 n. 8627 della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
In sostanza, il Comune aveva notificato un avviso di accertamento per mancato pagamento dell’Ici dovuta per il 2004, senza tener conto della riduzione prevista per gli immobili concessi in comodato ai figli, in quanto non aveva ricevuto il modulo ufficiale con la comunicazione della variazione della situazione immobiliare del contribuente. Il quale, però, aveva mandato per fax un atto notorio dimostrando anche come questo immobile fosse effettivamente usato come abitazione principale dei figli, benché non ufficialmente residenti.
La Cassazione ha dato ragione su tutta la linea al contribuente, perché era stata fornita concretamente prova dell’uso come abitazione principale e perché il Comune doveva sapere (per via del fax) della concessione in comodato, anche in base al «principio di collaborazione e buona fede» espresso nello Statuto del contribuente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2019).

TRIBUTII ruderi non pagano il tributo né si può tassare l'area su cui poggiano.
Niente Ici sui ruderi.
A chiarirlo la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 28.03.2019 n. 8620.
La Corte ha precisato che i cosiddetti «fabbricati collabenti» non scontano l'imposta in quanto non si può tassare l'area eventualmente edificabile sulla quale poggiano, né possono essere considerati beni utilizzabili in mancanza di lavori di ristrutturazione.
Il Dlgs 504/1992 indica una categoria non ampliabile di terreni, immobili e altro per i quali l'imposta è dovuta. Nella sentenza si legge che ha sbagliato la Ctr a rendere imponibile l'immobile in quanto ha finito per introdurre nell'ordinamento, in via del tutto interpretativa, un nuovo e ulteriore presupposto dell'imposta, rappresentato dall'area edificata. Neppure rileva che, come fatto presente dal giudice di appello, l'area già sede della ex acciaieria possa essere oggetto di interventi edilizi di manutenzione e che, in ragione di ciò, essa mantenga una sua edificabilità.
La controversia, infatti, ha a oggetto non già il valore commerciale ipoteticamente attribuibile al terreno nella prospettiva della sua futura valorizzazione edilizia e urbanistica, ma soltanto i presupposti dell'imposizione Ici relativi a una determinata annualità e, in ordine a detta annualità si discute esclusivamente di un fabbricato collabente fatto oggetto di conforme e incontestata iscrizione catastale, senza che siano stati dedotti interventi o demolizioni in corso, convenzioni o pratiche amministrative pendenti di recupero e valorizzazione edilizia secondo l'articolo 5, comma, del Dlgs 504/1992 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2019).
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MASSIMA
La tesi della società contribuente, secondo cui l'IC non è dovuta perché i fabbricati de quibus sono collabenti e, pertanto, privi di rendita e non soggetti all'imposta, deve trovare accoglimento.
In particolare, afferma la parte ricorrente che la disciplina della vicenda andrebbe tratta dall'articolo 5 del d.lgs. n. 504 del 1992, che si riferisce alle costruzioni, e non, come sostenuto dalla CTR di Palermo, dall'articolo 11-quaterdecies, comma 16, del d.l. n. 203 del 2005, convertito con modificazioni con I. n. 248 del 2005, e dall'articolo 36 della I. n. 248 del 2006 che riguardano i terreni e stabiliscono che, per ciò che qui rileva, ai fini dell'applicazione del d.lgs. n. 504 del 1992, un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo.
Ai sensi dell'articolo 5, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 504 del 1992, nel caso di area edificata, la base imponibile ICI è determinata dal valore del fabbricato e, per í fabbricati iscritti in catasto, tale valore è stabilito applicando un determinato moltiplicatore alla rendita catastale vigente al 10 gennaio dell'anno di imposizione.
Peraltro, in base al comma 6 della disposizione in esame, la base imponibile è costituita dal valore dell'area, considerata fabbricabile, allorquando nell'anno di imposizione vi sia utilizzazione edificatoria in corso dell'area stessa, demolizione di fabbricato ovvero realizzazione di interventi di recupero ex articolo 31, comma 1, lett. c), d) ed e), l. n. 457 del 1978.
Alla luce di queste prescrizioni si deve escludere la fondatezza dell'avviso di accertamento e liquidazione opposto, relativo a fabbricati in stato di rovina e, come tali, iscritti fin dal 1999 in categoria catastale F/2 (circostanza che, dalla sentenza impugnata, risulta ammessa da entrambe le parti).
Infatti, l'attribuzione di questa categoria presuppone che il fabbricato si trovi in uno stato di degrado tale da comportarne l'oggettiva incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio e, per tale ragione, l'iscrizione in catasto avviene senza attribuzione di rendita ed al fine "della sola descrizione dei caratteri specifici e della destinazione d'uso", ai sensi dell'articolo 3, comma 2, lett. b), del D.M. n. 28 del 02.01.1998 del Ministero delle Finanze (sul punto, Cass., Sez. 5, n. 4308 del 2010).
In assenza di rendita, però, viene meno -secondo l'articolo 5 del d.lgs. n. 504 del 1992- la stessa materia determinativa della base imponibile. Neppure è possibile affermare che, esclusa sul fabbricato, l'imposizione ICI dovrebbe colpire l'area di insistenza del fabbricato medesimo.
Invero, la CTR di Palermo sembra accogliere questa impostazione nella misura in cui sostiene che, nella specie, vi erano gli estremi per reputare "edificabile l'area già edificata" in forza di un programma di fabbricazione e di un decreto assessoriale che "consentono per gli opifici industriali già esistenti interventi di manutenzione".
Questa soluzione non è condivisibile.
Infatti, gli elementi della fattispecie impositiva sono prestabiliti dalla legge secondo criteri di certezza e tassatività e -nel caso dell'ICI- l'articolo 1 del d.lgs. n. 504 del 1992 assoggetta ad imposta unicamente il possesso di fabbricati, aree fabbricabili e terreni agricoli. Peraltro, il fabbricato iscritto in categoria catastale F/2 non cessa di essere tale solo perché collabente e privo di rendita, poiché lo stato di rovina ed improduttività di reddito non fa perdere all'immobile, fino all'eventuale sua completa demolizione, la natura di fabbricato, la imposizione derivando, nella specie, dall'assenza della base imponibile ex articolo 5 del d.lgs. citato.
Ne consegue che, non essendo tassabile l'immobile collabente, l'imposizione ICI non potrebbe essere giustificata dall'amministrazione comunale facendo ricorso ad una base imponibile diversa, come quella attribuibile all'area di insistenza del fabbricato, giacché non si tratta di un'area edificabile, ma di un'area già edificata.
L'ente impositore, quindi, ha, nella sostanza, introdotto nell'ordinamento in via interpretativa un nuovo ed ulteriore presupposto d'imposta, rappresentato dall'area edificata, equiparando impropriamente l'ipotesi dell'area risultante dalla demolizione di un rudere, regolata dall'articolo 5, comma 6, del d.lgs. n. 504 del 1992, a quella dell'immobile dichiarato inagibile, ma non demolito.
Neppure rileva che, come rilevato dal giudice di appello, l'area già sede della ex-acciaieria possa essere oggetto di interventi edilizi di manutenzione e che, in ragione di ciò, essa mantenga una sua edificabilità.
La presente controversia ha ad oggetto non già il valore commerciale ipoteticamente attribuibile al terreno nella prospettiva della sua futura valorizzazione edilizia ed urbanistica, ma soltanto i presupposti dell'imposizione ICI relativi ad una determinata annualità (2007) e, in ordine a detta annualità si discute esclusivamente di un fabbricato collabente fatto oggetto di conforme ed incontestata iscrizione catastale, senza che siano stati dedotti interventi o demolizioni in corso, convenzioni o pratiche amministrative pendenti di recupero e valorizzazione edilizia ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del d.lgs. n. 504 del 1992.
Conforme a tale ricostruzione è la recente giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che,
in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), la sottrazione ad imposizione del fabbricato collabente, iscritto nella conforme categoria catastale F/2, in ragione dell'azzeramento della base imponibile, non può essere recuperata prendendo a riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree edificabili, costituita dal valore venale del terreno sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede l'imposizione ICI per le aree edificabili, e non per quelle già edificate, e che tale non può essere considerata l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di risanamento conservativo per la quale la normativa comunale preveda solo interventi edilizi di recupero (Cass., Sez. 5, n. 17815 del 2017).
In particolare,
il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile ai fini ICI come fabbricato, in quanto privo di rendita, non lo è neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile che, da allora, è soggetta a imposizione come tale, fino al subentro della imposta sul fabbricato ricostruito (Cass., Sez. 5, n. 7653 del 2018, non massimata; Cass., Sez. 6-5, n. 25774 del 2017; Cass., Sez. 5, n. 23801 del 2017).
Pertanto, la CTR di Palermo, nella misura in cui non ha tenuto conto della particolare natura dei fabbricati collabenti, ha violato la vigente normativa, non avendo neanche chiarito la ragione per la quale detta natura non ha assunto rilievo.
Ne consegue l'accoglimento dei motivi in esame.

TRIBUTILa p.a. ci ripensa? Sanzioni ko. Se l’orientamento cambia è dovuto soltanto il tributo. La Cassazione sottolinea il principio del legittimo affidamento del contribuente.
Il principio del legittimo affidamento del contribuente, sancito dallo Statuto, impone all'amministrazione di non irrogare le sanzioni fiscali se cambia orientamento e ritiene di non riconoscere un'esenzione della quale una società aveva fruito per i 20 anni precedenti. Il tributo, però, è sempre dovuto.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, con l'ordinanza 27.03.2019 n. 8548.
Secondo la Cassazione, «il legittimo affidamento del contribuente comporta, ai sensi dell'art. 10, commi 1 e 2, della legge 27.07.2000, n. 212, l'esclusione degli aspetti sanzionatori, risarcitori e accessori conseguenti all'inadempimento colpevole dell'obbligazione tributaria, ma non incide sulla debenza del tributo, che prescinde del tutto dalle intenzioni manifestate dalle parti del rapporto fiscale, dipendendo esclusivamente dall'obiettiva realizzazione dei presupposti impositivi
».
Il principio di buona amministrazione impone di richiedere l'imposta anche per i periodi pregressi. Il legittimo affidamento, per i giudici di legittimità, vale «ai fini delle sanzioni».
L'esclusione delle sanzioni fiscali. I contribuenti sono esonerati dal pagamento delle sanzioni se le norme di legge non sono chiare e se c'è incertezza oggettiva sugli adempimenti fiscali. L'incertezza oggettiva che giustifica l'esclusione delle sanzioni può derivare da contrasti giurisprudenziali e dottrinali.
Le sanzioni devono essere disapplicate se l'amministrazione comunale, come è avvenuto nel caso di specie, o l'amministrazione finanziaria si esprimono in modo non univoco, anche con note e circolari ministeriali, o comunque manifestano una diversa opinione sulle questioni tributarie rispetto a quanto sostenuto in precedenza.
La Cassazione, con la sentenza 18405/2018, ha già avuto modo di chiarire che si è in presenza di incertezza normativa oggettiva in materia tributaria quando è impossibile «individuare con sicurezza e univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie; l'incertezza normativa oggettiva costituisce una situazione diversa rispetto alla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto».
Non a caso viene precisato nella pronuncia che l'art. 6 del decreto legislativo 472/1997 «distingue in modo netto le due figure dell'incertezza normativa oggettiva e dell'ignoranza (pur ricollegandovi i medesimi effetti) e perciò l'accertamento di essa è esclusivamente demandata al giudice e non può essere operato dalla amministrazione». Incertezza normativa oggettiva non vuol dire ignoranza giustificata, ma impossibilità di pervenire «allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria».
In particolare rilevano: la difficoltà d'individuare le disposizioni normative e il loro significato; la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; la mancanza di precedenti giurisprudenziali o la presenza di orientamenti tra loro non uniformi; il contrasto tra opinioni dottrinali; l'adozione di norme di interpretazione autentica.
In buona sostanza, costituisce causa di esonero da responsabilità amministrativa l'inevitabile incertezza sul contenuto, sull'oggetto e sui destinatari delle disposizioni fiscali.
Tuttavia, l'incertezza sul contenuto, sull'oggetto e sui destinatari della norma fiscale deve avere carattere oggettivo. È assolutamente irrilevante, invece, l'incertezza soggettiva, che deriva da ignoranza incolpevole.
Statuto del contribuente e principi generali sulle sanzioni. L'esclusione delle sanzioni per i contribuenti, dunque, si rende necessaria se il legislatore con vari interventi normativi modifica più volte le regole di condotta e gli adempimenti fiscali, creando incertezza.
In queste situazioni è applicabile il principio generale contenuto nell'articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000) che, per garantire collaborazione e buona fede nei rapporti con il fisco, e per tutelare il legittimo affidamento del soggetto interessato, esclude l'irrogazione delle sanzioni quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e l'ambito di applicazione di una norma tributaria.
Oltre alla disposizione dello Statuto, poi, c'è un'altra norma che nel nostro ordinamento prevede che il contribuente non debba essere sanzionato se la legge non è chiara. L'articolo 6 del decreto legislativo 472/1997, che contiene i principi generali in materia di sanzioni fiscali, ammette l'errore dipendente da incertezza oggettiva sul significato della norma di legge e ne fa conseguire la non punibilità. Qualora il contribuente richieda la disapplicazione delle sanzioni per obiettiva incertezza, l'induzione in errore deve essere desunta dall'impossibilità di comprensione della legge ritenuta tale dal giudice, essendo del tutto irrilevante l'incertezza soggettiva derivante dall'erronea interpretazione della norma da parte del contribuente.
In questo modo si è espressa la Cassazione con la sentenza 14910/2016. Ex lege, ricorda la Cassazione (sentenza 13076/2015), rileva solo «l'obiettiva incertezza» della norma reputata tale dal giudice e non già quella «meramente soggettiva» riferita al contribuente.
Le cause esterne. Sono state individuate anche delle cause esterne che possono avere incidenza sull'esclusione delle penalità. Costituisce, infatti, causa di esonero dal pagamento delle sanzioni anche lo stato di forza maggiore. La forza maggiore è una causa esterna che obbliga il contribuente a comportarsi in modo difforme da quanto voluto e che lo costringe a commettere la violazione a causa di un evento imprevisto, imprevedibile e irresistibile.
In questo senso si è espressa la Cassazione con l'ordinanza 3049/2018.
La Suprema corte ha richiamato nella pronuncia la sentenza della Corte di giustizia Ce C/314/06, secondo cui la nozione di forza maggiore ha alla base un elemento oggettivo, che riguarda circostanze anormali del tutto estranee al soggetto che ne subisce gli effetti.
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Cause di esclusione, parola al giudice.
L'articolo 8 del decreto legislativo 546/1992 attribuisce al giudice tributario il potere di dichiarare non applicabili le sanzioni.
Per poter aver luogo l'applicazione di queste esimenti occorre che sussistano dubbi, per esempio, in ordine all'assoggettamento a tassazione di un determinato bene oppure sull'obbligo di presentazione della dichiarazione o, ancora, che vi siano incertezze interpretative su una determinata disposizione.
Le Commissioni tributarie possono annullare le sanzioni quando i dubbi derivano dall'emanazione di una legge interpretativa che intervenga successivamente alla constatazione di una violazione oppure quando la stessa amministrazione si esprima in termini contraddittori con circolari e risoluzioni.
In quest'ultimo caso non sono dovuti neppure gli interessi moratori. L'incertezza oggettiva può essere determinata anche da contrastanti decisioni giurisprudenziali e rileva nei casi in cui nulla può essere rimproverato al cittadino per non aver osservato la legge
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019).

INCARICHI PROFESSIONALIProcura sostanziale al legale. Nel procedimento della mediazione obbligatoria. La Cassazione la ritiene necessaria anche se si tratta del proprio avvocato.
Nel procedimento di mediazione obbligatoria è necessaria la comparizione personale delle parti, assistite dal difensore. In tale procedura, la parte può anche farsi sostituire da un proprio rappresentante sostanziale, eventualmente coincidente con il medesimo difensore che lo assiste, purché dotato di apposita procura sostanziale. Inoltre, la condizione di procedibilità può ritenersi realizzata al termine del primo incontro davanti al mediatore, qualora una o entrambe le parti, dopo essere state adeguatamente informate sulla mediazione, comunichino la propria indisponibilità di procedere oltre.

Sono i principi sanciti dalla sentenza 27.03.2019 n. 8473 della Corte di cassazione, pubblicata lo scorso 27 marzo, che chiarisce alcuni profili su cui si sono registrati orientamenti non convergenti nelle numerose sentenze di merito che si sono già occupate della materia.
Il ricorso al giudice di legittimità ha ad oggetto la presunta improcedibilità della domanda di risoluzione di un contratto di locazione di un'unità immobiliare per mancato previo esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, previsto dal decreto legislativo 28/2010.
Ricordano i giudici di piazza Cavour che «il successo dell'attività di mediazione è riposto nel contatto diretto tra le parti e il mediatore professionale il quale può, grazie alla interlocuzione diretta e informale con esse, aiutarle a ricostruire i loro rapporti pregressi, ed aiutarle a trovare una soluzione che, al di là delle soluzioni in diritto della eventuale controversia, consenta loro di evitare l'acuirsi della conflittualità e definire amichevolmente una vicenda potenzialmente oppositiva con reciproca soddisfazione». Ciò premesso, la sentenza osserva che la novella del 2013, che introduce la presenza necessaria dell'avvocato, segna la progressiva emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso.
«La previsione della presenza sia delle parti sia degli avvocati comporta che la parte non possa evitare di presentarsi davanti al mediatore, inviando soltanto il proprio avvocato», statuisce la Cassazione che, però, precisa come la parte che, per scelta o per impossibilità, non possa partecipare personalmente ad un incontro di mediazione, possa farsi sostituire da una persona a sua scelta e quindi anche, ma non solo, dal suo difensore. Con la condizione che tale potere debba essere conferito mediante procura avente lo specifico oggetto della partecipazione alla mediazione, con la previsione di disporre dei diritti sostanziali.
Pertanto, secondo gli ermellini, la procura conferita al difensore, e da questi autenticata, non può conferire anche il potere di disporre dei diritti sostanziali.
La Cassazione, inoltre, chiarisce che l'onere della parte, che intenda agire in giudizio, di dar corso alla mediazione obbligatoria possa ritenersi adempiuto con l'avvio della procedura di mediazione e con la comparizione al primo incontro. All'esito di tale incontro, ricevute dal mediatore le necessarie informazioni, si può liberamente manifestare il parere negativo sulla possibilità di utilmente iniziare o proseguire la procedura di mediazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019).

LAVORI PUBBLICIAti, requisiti imprese in linea con l’offerta. Altrimenti raggruppamento escluso dalla gara.
Se un componente di un raggruppamento temporaneo di imprese (Ati) non possiede i requisiti almeno nella stessa misura della quota di svolgimento delle attività indicata in sede di offerta, il raggruppamento va escluso dalla gara; non rileva il fatto che le altre imprese componenti il raggruppamento abbiano requisiti sovrabbondanti tali da coprire la parte di cui è carente la mandante.

È questo il principio affermato dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato (con la sentenza 27.03.2019 n. 6) che ha affrontato, con riguardo a un appalto di lavori, il tema della carenza dei requisiti di qualificazione, rispetto alla quota di lavori dichiarati, da parte di un componente di un raggruppamento di costruttori.
Il giudici di Palazzo Spada hanno precisato, in particolare, che se una delle imprese raggruppate non è in possesso di requisiti sufficienti per svolgere la quota di lavori dichiarati in sede di offerta, l'esclusione dalla gara deve essere comminata nei confronti dell'intero raggruppamento temporaneo.
L'adunanza plenaria non offre alcuno spazio per soluzioni di compromesso, neanche rispetto ad una ipotetica verifica da parte della commissione di gara in relazione al rilievo e all'entità della carenza del requisito, così come con riguardo alla possibilità che un'altra impresa del raggruppamento possa coprire i requisiti mancanti essendo in possesso di requisiti «sovrabbondanti» rispetto a quelli richiesti dal bando.
La sentenza era stata richiesta preliminarmente da una sezione dello stesso Consiglio di stato per risolvere il contrasto di giurisprudenza fra un orientamento improntato a una lettura restrittiva della disposizione (precisa corrispondenza fra requisiti e quote dichiarate) e un secondo e più flessibile indirizzo interpretativo che riteneva legittimi piccoli scostamenti a condizione che il raggruppamento nel suo complesso copra tutti i requisiti richiesti dal bando.
Nella sentenza si legge che, per i lavori, l'art. 92 del dpr 207/2010 (ancora in vigore) riconosce ai raggruppamenti la possibilità di suddividere in piena libertà le quote di lavori tra le imprese con un paletto ben preciso: il rispetto dei requisiti di qualificazione posseduti dalle singole imprese (articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Doppia tutela in materia edilizia e urbanistica.
Nel regime della doppia tutela in materia edilizia e urbanistica è possibile che la legittimità dell’edificazione venga riconosciuta dal giudice amministrativo, ma non dal giudice ordinario, in quanto quest’ultimo si riserva di disapplicare i titoli edilizi confrontandoli direttamente con il codice civile e con le norme integrative di natura civilistica.
La regola vale anche nell’altra direzione, e dunque le qualificazioni formulate dal giudice ordinario non sono vincolanti nell’indagine sulla legittimità dei titoli edilizi svolta dal giudice amministrativo.
Peraltro, nella giurisdizione amministrativa i rapporti privatistici tra i confinanti vengono presi in esame solo quando siano per sé evidenti, o quando gli interessati abbiano di loro iniziativa rappresentato agli uffici comunali eventuali contese in grado di incidere sulla legittimazione a chiedere il titolo edilizio.
Non è quindi utile trasferire materiali processuali da un giudizio civile a uno amministrativo per profili che nel secondo non sono normalmente utilizzabili ai fini della decisione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2019 n. 276 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
Sulla materia del contendere
16. In seguito ai motivi aggiunti e alla sentenza non definitiva n. 1163/2016, la vicenda contenziosa si è focalizzata sulla legittimità dei provvedimenti che hanno autorizzato l’attività edilizia della controinteressata. Prima di entrare nel dettaglio, è però necessario definire l’estensione del presente giudizio.
17. In primo luogo, occorre precisare che non possono avere rilievo in questa sede le questioni privatistiche relative alle distanze minime e alle servitù di veduta. Al riguardo, alcuni profili privatistici (in particolare, la contestazione della sagoma del porticato esistente, in origine abusivo, poi condonato, e infine ricostruito con altezza differente) sono già stati portati all’attenzione del giudice ordinario dall’attuale ricorrente, come documentato dalla stessa con il deposito del 07.11.2018. Anche la controinteressata, nella memoria dell’08.11.2018, ha descritto l’ampio contenzioso sviluppatosi nel tempo con la ricorrente, sia davanti al giudice ordinario sia davanti al giudice amministrativo.
18. Nel regime della doppia tutela in materia urbanistica è possibile che la legittimità dell’edificazione venga riconosciuta dal giudice amministrativo ma non dal giudice ordinario, in quanto quest’ultimo si riserva di disapplicare i titoli edilizi confrontandoli direttamente con il codice civile e con le norme integrative di natura civilistica. A questa possibilità accenna anche l’ordinanza della Corte d’Appello di Brescia del 03.04.2017, con la quale è stata negata la sospensione della sentenza del Tribunale di Bergamo n. 3290 del 10.11.2016, contenente la condanna della controinteressata alla demolizione del porticato ricostruito, per la parte che eccede la sagoma originaria.
19. La regola vale anche nell’altra direzione, e dunque le qualificazioni formulate dal giudice ordinario (nello specifico, il concetto di sagoma, prima e dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 309 del 23.11.2011) non sono vincolanti nell’indagine sulla legittimità dei titoli edilizi svolta dal giudice amministrativo. Peraltro, nella giurisdizione amministrativa i rapporti privatistici tra i confinanti vengono presi in esame solo quando siano per sé evidenti, o quando gli interessati abbiano di loro iniziativa rappresentato agli uffici comunali eventuali contese in grado di incidere sulla legittimazione a chiedere il titolo edilizio. Non è quindi utile trasferire materiali processuali da un giudizio civile a uno amministrativo per profili che nel secondo non sono normalmente utilizzabili ai fini della decisione.
20. Restando sul terreno amministrativo, occorre poi precisare che l’impugnazione proposta con i motivi aggiunti, rivolta contro la DIA del 27.11.2009 e contro l’autorizzazione paesistica del 19.04.2010, ha come presupposto logico il ricorso sul silenzio del Comune. Nel ricorso sul silenzio era contestata l’inerzia degli uffici comunali per il mancato intervento repressivo su alcune specifiche opere ritenute abusive (ampliamento della pavimentazione in porfido; porta-finestra con balcone al secondo piano; realizzazione del cappotto isolante con tinteggiatura della facciata). I motivi aggiunti perseguono lo stesso obiettivo, ossia eliminare le suddette opere, ma privandole preventivamente dei titoli edilizi. L’impugnazione riguarda quindi i titoli edilizi per la parte in cui autorizzano le opere indicate come abusive nel ricorso sul silenzio.
21. La controversia non può invece estendersi alle altre opere elencate nella DIA del 27.11.2009 e nell’autorizzazione paesistica del 19.04.2010, tra cui in particolare il porticato oggetto della sentenza del Tribunale di Bergamo n. 3290/2016. In proposito, si deve sottolineare che l’intervento sul porticato esistente, con realizzazione di una nuova terrazza, seppure richiamato anche nei suddetti provvedimenti, era stato in realtà autorizzato in precedenza con il permesso di costruire del 22.04.2009 e con la DIA depositata il 19.05.2009. Manca quindi un collegamento formale con gli atti richiamati dal Comune per rispondere al ricorso sul silenzio.
22. Una lettura restrittiva dei fatti processualmente rilevanti consente inoltre di mantenere i motivi aggiunti entro i limiti della ricevibilità e dell’ammissibilità. Da un lato, infatti, non sarebbe possibile considerare tempestiva, a distanza di anni, l’impugnazione di titoli edilizi riguardanti lavori già puntualmente contestati davanti al giudice ordinario con il ricorso per denuncia di nuova opera proposto nel 2009.
Dall’altro, non è chiaro quale interesse vi sarebbe a impugnare i titoli edilizi dopo che la sentenza n. 3290/2016 ha già disposto la condanna alla demolizione delle opere contestate (se la pronuncia fosse ribaltata, la situazione dell’interesse non cambierebbe, in quanto le opere sarebbero protette da un giudicato).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Tutela dei beni ambientali - Intervento abusivo su beni vincolati - Limiti volumetrici - Reato paesaggistico - Poteri del giudice dell'esecuzione - Prescrizione e procedimento di esecuzione - Corte Cost. 23.03.2016, n. 56 - Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 - Giurisprudenza.
In tema di tutela dei beni ambientali, per effetto della sentenza della Corte cost. 23.03.2016, n. 56, che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, integra la contravvenzione prevista dal comma primo di detto articolo ogni intervento abusivo su beni vincolati paesaggisticamente, tanto in via provvedimentale che per legge, configurandosi invece il delitto previsto dal successivo comma 1-bis nella sola ipotesi di lavori che superino i limiti volumetrici ivi precisati (Cass. Sez. 3, n. 38976 del 07/04/2017, Guadagno e a.).
Detti limiti sono alternativamente indicati: nell'aumento superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria; in un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi; nella realizzazione di una nuova costruzione con volumetria superiore a mille metri cubi.
Pertanto, il giudice dell'esecuzione, adito a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, può dichiarare l'estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna, riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma 1 della norma citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti
(Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017, Giordano).

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DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Efficacia del giudicato penale - Principio di certezza e stabilità giuridica - Divieto di "bis in idem" - Applicazione in sede esecutiva - Corte Cost. sent. n. 56/2016 - Fattispecie: illegittimità costituzionale parziale dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004.
L'efficacia del giudicato penale nasce dalla necessità di certezza e stabilità giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale, sicché si esprime essenzialmente nel divieto di "bis in idem", e non implica l'immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona (Conf. Corte cost. sentenze n. 115 del 1987, n. 267 del 1987, n. 282 del 1989).
In questi casi, il giudice dell'esecuzione, adito per l'applicazione in sede esecutiva della sent. Corte cost. n. 56 del 2016, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, il cui delitto sia stato ritenuto con la sentenza di condanna divenuta definitiva, deve dichiarare, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 30, quarto comma, legge n. 87 del 1953, l'estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna che debba essere riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma 1 della norma incriminatrice citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e gli effetti della condanna non siano ancora esauriti; negli stessi casi, laddove il reato non sia prescritto, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena in relazione alla diversa cornice edittale prevista per la fattispecie contravvenzionale; il relativo potere/dovere del giudice dell'esecuzione dev'essere esercitato quando ci si trovi di fronte ad una condanna definitiva a pena illegale derivante dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale della norma incriminatrice non ravvisata dal giudice della cognizione, senza che il medesimo si sia posto il relativo problema giuridico ed abbia espresso le sue valutazioni, non essendo in tal caso la correzione dell'errore preclusa dal giudicato neppure laddove questo si sia formato sulla base di una decisione assunta successivamente alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice; nel procedimento di esecuzione, nel rispetto del contraddittorio, il giudice, su richiesta di parte o "ex officio", può assumere tutte le prove necessarie per la decisione, ivi compresa l'audizione del consulente tecnico di parte nominato dal condannato e l'acquisizione della relazione dal medesimo predisposta, e non deve basarsi, solo ed esclusivamente, sulla sentenza in relazione alla quale è stato promosso l'incidente d'esecuzione. Fattispecie: abrogazione e dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.03.2019 n. 12916 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Responsabilità per la gestione dei rifiuti - Stoccaggio o smaltimento a mezzo di impianto indipendente - Sostanze gassose - Omessa classificazione - Produttore o detentore di rifiuto - Individuazione.
Possono costituire "rifiuto" anche le sostanze gassose qualora ai fini dello smaltimento siano immesse da sole o insieme ad altra sostanza in contenitori oppure quegli effluenti gassosi che vengono stoccati o smaltiti a mezzo di impianto indipendente diverso da quello in cui sono stati prodotto nel corso dell'attività produttiva. Inoltre, deve intendersi produttore o detentore di rifiuto non solo chi svolge l'attività materiale ma colui al quale è riferibile l'attività giuridica e quindi qualsiasi intervento che determina in concreto la produzione di rifiuti e da cui deriva la posizione di garanzia dell'adempimento di determinati obblighi in materia di smaltimento.
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RIFIUTI - Responsabilità per la gestione dei rifiuti - Posizione di garanzia apicale - Obblighi di legge - Soggetti coinvolti nella produzione o nella detenzione - Omessa classificazione - Protezione della salute umana - Omessa imprudente vigilanza sulle operazioni di bonifica - Art. 183 e ss. 208 e ss. D.Lgs. n. 152/2006 - Fattispecie: Vittime dovuti dalla pulitura di cisterne dai rifiuti interni rimasti dopo lo scarico di zolfo liquido - ADR - Tank container - Violazione di cui agli artt. 5 e 25-septies D.L.vo n. 231/2011 - Norme antinfortunistiche violate e all'art. 2087 cod. civ. - DVR non aggiornato - Rischi derivanti dal lavaggio di autocisterne utilizzate per il trasporto di prodotti chimici - Caso Eni di Taranto e Scarlino.
Dalla posizione di garanzia apicale discendono gli obblighi di legge riferiti al produttore di rifiuti ex art. 183 d.lgs n. 152/2006 che, alla lett. f), che definisce tale il soggetto la cui attività produce rifiuti, senza alcun riferimento, alla lettera h), che qualifica il detentore come il produttore di rifiuto o la persona giuridica o fisica che ne è in possesso.
È dunque pacifico che la responsabilità per la gestione dei rifiuti in relazione alle disposizioni nazionali e comunitarie gravi su tutti i soggetti coinvolti nella produzione o nella detenzione di beni dai quali originano i rifiuti pericolosi e che la normativa di riferimento è posta a protezione della salute umana per tutti coloro, quindi anche i lavoratori, che vengono in contatto con i rifiuti nelle attività di gestione degli stessi. Nella specie, il comportamento degli imputati non ha avuto un ruolo meramente occasionale, ma si è posto come condizione necessaria ed antecedente rispetto all'evento in concreto verificatosi.
È quindi, applicabile al caso la regola inserita nell'art. 41 c.p., comma 1, perché gli imputati con la loro condotta colposa (mancato controllo sulla affidabilità delle persone delegate allo smaltimento dei rifiuti) hanno posto in essere una condizione della catena causale senza la quale l'evento, prevedibile e non dovuto a fattori imponderabili, non si sarebbe verificato. Pertanto, sotto il profilo della colpa generica e specifica, le omissioni di informazioni attribuibili agli altri imputati committenti dell'operazione di bonifica rappresentano concause nella produzione dell'evento e non già cause sopravvenute idonee a elidere il nesso di causalità materiale ai sensi dell'art. 41 comma 2 cod.pen.
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 25.03.2019 n. 12876 - link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVORO: APPALTI - Responsabilità dei committenti e rischio interferenziale - Obblighi di coordinamento e cooperazione - Dovere informativo su eventuali pericoli - SICUREZZA SUL LAVORO - Contratto di appalto e accordo per una mera prestazione d'opera - Posizione di garanzia propria dell'imprenditore - Infortuni sul lavoro - Responsabilità del committente per "culpa in eligendo" - Verifica dell'idoneità tecnico professionale - Fattispecie: pericolosità derivante dai rifiuti gestiti.
In tema di appalti, i committenti in relazione agli obblighi di coordinamento e cooperazione connessi al rischio interferenziale, dettati dall'art. 7 D.Lgs. n. 626/1994 (ora art. 26 D.Lgs. 81/2008), sono tutti senz'altro tenuti a informare gli affidatari del rischio rappresentato dalla presenza di eventuali pericoli (in specie acido solfidrico nella cisterna).
Tale dovere informativo prescinde dalla contingenza e fa riferimento ai rischi strutturalmente insiti nell'operazione relativa allo svolgimento di un'attività da considerarsi pericolosa in ragione della pericolosità dei rifiuti gestiti (art. 2087 e 2050 cod. civ.).
Mentre, in materia di infortuni sul lavoro, ai fini della configurabilità di una responsabilità del committente per "culpa in eligendo" nella verifica dell'idoneità tecnico professionale dell'impresa affidataria di lavori, non ritiene neppure necessario il perfezionamento di un contratto di appalto, essendo sufficiente un accordo per una mera prestazione d'opera
(Sez. 3, n. 10014 del 01/03/2017).
Inoltre, la culpa in eligendo, cioè la verifica dell'idoneità tecnico professionale della ditta appaltatrice, in relazione all'entità e alla tipologia della prestazione richiesta, inerisce alla posizione di garanzia propria dell'imprenditore e agli obblighi di valutazione del rischio specifico che scaturiscono dall'art. 2087, 2050 cod. civ. e trova il proprio fondamento anche nell'art. 26 D.Lgs. n. 81/2008.

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APPALTI - SICUREZZA SUL LAVORO - Subappaltato dei lavori - Responsabilità dell'imprenditore che frazioni il ciclo produttivo - Norme antinfortunistiche - Casi di lesioni e di omicidi colposi - Nesso di causalità - Evento dannoso un legame causale - Giurisprudenza.
In tema di sicurezza sul lavoro, quand'anche l'imprenditore frazioni il ciclo produttivo avvalendosi di strumenti contrattuali finalizzati ad alleggerire sul piano burocratico-organizzativo la struttura aziendale, non perde la sua posizione di garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità di tutti coloro che contribuiscono alla realizzazione del suo programma lavorativo e produttivo (Cass. Sez. 4, n. 37588 del 12/10/2007) che in applicazione di tale principio ha ritenuto la responsabilità dell'imprenditore che aveva subappaltato i lavori in luoghi esterni all'impresa).
Inoltre, è da rilevare che le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono in luoghi di lavoro che, non muniti dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi (Cass., Sezione 4, 06/11/2009, Morelli).
Le disposizioni prevenzionali sono quindi da considerare emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa. Con la conseguenza che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 cod. pen..
In tale evenienza deve ravvisarsi l'aggravante di cui all'art. 589 c.p., comma 2, e art. 590 c.p., comma 3, nonché il requisito della perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 c.p., u.c., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi.

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SICUREZZA SUL LAVORO - Prevenzione degli infortuni sul lavoro - Individuazione del garante nelle strutture complesse - Relazioni intersoggettive - Datore di lavoro - Persona giuridica - Responsabilità del legale rappresentante dell'ente.
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai fini dell'individuazione del garante nelle strutture complesse occorre far riferimento al soggetto deputato alla gestione del rischio essendo comunque riconosciuto come riconducibile alla sfera del preposto, il rischio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente, il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa, al datore di lavoro l'incidente derivante da scelte gestionali di fondo (Sez. 4 n. 22606 del 04.04.2017).
Pertanto, se il datore di lavoro è una persona giuridica, destinatario delle norme è il legale rappresentante dell'ente imprenditore, quale persona fisica attraverso la quale il soggetto collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive, cos? che la sua responsabilità penale, in assenza di valida delega, è indipendente dallo svolgimento o meno di mansioni tecniche, attesa la sua qualità di preposto alla gestione societaria (Sez. 3, n. 28358 del 08/08/2006; nell'occasione la Corte ha ulteriormente affermato che il legale rappresentante non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica, in quanto tale condizione lo obbliga al conferimento a terzi dei compiti in materia antinfortunistica).

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SICUREZZA SUL LAVORO - Successione di norme e corrispondenza contenutistica - Datore di lavoro dell'impresa appaltatrice - Valutazioni di rischio - Omessa redazione del DVR - Prevenzione dei rischi generici e processo causale che ha dato origine all'infortunio.
In materia di sicurezza sul lavoro, le valutazioni di rischio contenuti nel Dlgs n. 626/1994 (artt. 4 e 7), hanno una corrispondenza contenutistica con le disposizioni succedutesi con il D.Lgs. n. 81/2008 (Sez. 4, 42018 del 12.10.2011).
Pertanto, fermo restando l'obbligo della valutazione dei rischi di cui all'art. 4 d.Lgs n. 626/1994 e fermi restando gli obblighi di cooperazione e di coordinamento previsti dall'art. 7 d.lgs. 626/1994, confermati dalla nuova disciplina -art. 26, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008- il datore di lavoro dell'impresa appaltatrice non può più essere ritenuto responsabile -in applicazione dell'art. 2, quarto comma, cod. pen.- dell'omessa redazione del documento di valutazione dei rischi di cui all'art. 7, comma 1, d.Lgs. 626/1994, gravando tale obbligo sul datore di lavoro committente, e cioè su colui che ha la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo (Sez. 4 n. 14167 del 12.03.2015 Marzano).
Grava specularmente sugli stessi datori di lavoro, ai quali sono stati appaltati segmenti dell'opera complessa, l'obbligo di collaborare all'attuazione del sistema prevenzionistico globalmente inteso, sia mediante la programmazione del rischio specifico della singola attività in ordine alla quale la posizione di garanzia rimane a carico del singolo datore di lavoro, sia mediante la cooperazione nella prevenzione dei rischi generici derivanti dall'interferenza tra le diverse attività rispetto a cui la posizione di garanzia si estende a tutti i datori di lavoro ai quali siano riferibili le plurime attività coinvolte nel processo causale che ha dato origine all'infortunio (Sez. 4 n. 30557 del 07.06.2016).

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SICUREZZA SUL LAVORO - Sistema di sicurezza aziendale - Procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi - Responsabilità del datore di lavoro committente - Documento di valutazione dei rischi - Obblighi di cooperazione e coordinamento.
Il sistema di sicurezza aziendale, si configura come procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi e tale logica riguarda anche la gestione dei rischi in caso di affidamento dei lavori a singole imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno dell'azienda o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell'ambito del ciclo produttivo dell'azienda medesima.
Grava, pertanto, sul datore di lavoro committente, l'obbligo di predisporre il documento di valutazione dei rischi derivanti dalle possibili interferenze tra le diverse attività che si svolgono in successione o contestualmente all'interno di un'area.
Pertanto, gli obblighi di cooperazione e coordinamento gravanti, dall'esigenza antinfortunistica, sui datori di lavoro rappresentano la "cifra" della loro posizione di garanzia e sono rilevanti anche per delimitare l'ambito della loro responsabilità.

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SICUREZZA SUL LAVORO - Sistema di sicurezza aziendale con più i titolari della posizione di garanzia - Responsabilità di ogni singola posizione di garanzia - Nesso di causalità e rischio interferenziale - Coinvolgimento funzionale - Fattispecie: bonifica della cisterna recante rifiuti pericolosi.
Nel sistema di sicurezza aziendale, se sono più i titolari della posizione di garanzia come nel caso di specie, ciascun garante risulta per intero destinatario dell'obbligo di impedire l'evento fino a che non si esaurisca il rapporto che ha originato la singola posizione di garanzia. Sicché, quando l'obbligo di impedire un evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in momenti diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, configurandosi un concorso di cause ex art. 41, comma primo, cod. pen. (Sez. 4 n. 244455 del 22.04.2015; sez. 4 n. 37992 del 11.07.2012; sez. 4 n. 1194 del 15.11.2013).
Inoltre, si è precisato che, ai fini della attività di valutazione di coordinamento e cooperazione connessa al rischio interferenziale, secondo quanto previsto dall'art. 7 D.Lgs. 626/1994 (ora art. 26 D.lgs. 81/2008), occorre avere riguardo non alla qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro -contratto di appalto, d'opera o di somministrazione-, ma all'effetto che da tale rapporto origina, vale a dire alla concreta interferenza e coesistenza -nella specie, la bonifica della cisterna recante rifiuti pericolosi- di più organizzazioni, che genera la posizione di garanzia dei datori di lavoro ai quali fanno capo le distinte organizzazioni (sez. 4 n. 44792 del 17.06.2015).
Tale coinvolgimento, funzionale nella procedura di lavoro di diversi plessi organizzativi, non esclude poi la necessità di adottare le misure previste per i diversi rischi specifici, a meno che non risultino inefficaci o dannose ai fini della sicurezza dell'ambiente di lavoro (Sez. 4 n. 18200 del 07.01.2016).

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SICUREZZA SUL LAVORO - Violazione di norme antinfortunistiche - Aggravante speciale - Procedibilità di ufficio in caso di lesioni gravi e gravissime - Addebito di colpa specifica - Posizione di garanzia - Assenza di diligenza, prudenza e accortezza.
In materia di reati colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità dell'aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche (rilevante per la procedibilità di ufficio in caso di lesioni gravi e gravissime e per il raddoppio della prescrizione ai sensi dell'art. 157 cod. pen.) non occorre che sia integrata la violazione di norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, giacché per l'addebito di colpa specifica, è sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione del citato art. 2087, che fa carico all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Infatti, il datore di lavoro e gli altri soggetti investiti della posizione di garanzia devono in proposito ispirare la loro condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza, per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza.
In sintesi, sussiste una posizione di garanzia a condizione che: un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; una fonte giuridica -anche negoziale- abbia la finalità di tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate sulla base di un'investitura formale o l'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante; queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato
(Sez. 4, n. 9855 del 27/01/2015, Chiappa; Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015; Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini).
In questa prospettiva, merita di essere ricordato che l'obbligo posto a carico dei titolari delle posizione di garanzia individuate, da ultimo, nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. b), d) ed e), di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità colposa dei medesimi allorquando non abbiano assicurato tali condizioni, in quanto, al di là dell'obbligo di rispettare le prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l'accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi, in quanto l'obbligo di garantire la sicurezza sul luogo di lavoro si estende anche nei confronti di terzi non dipendenti dall'impresa.

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SICUREZZA SUL LAVORO - Impresa strutturata come persona giuridica - Legale rappresentante e responsabilità penale - Destinatario delle normativa antinfortunistica.
In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, destinatario delle normativa antinfortunistica in una impresa strutturata come persona giuridica è il suo legale rappresentante, persona fisica attraverso cui l'ente ha agito e agisce nel campo delle relazioni intersoggettive; ne consegue che la responsabilità penale del predetto, ad eccezione delle ipotesi di valida delega, deriva proprio dalla sua qualità di preposto alla gestione societaria ed è indipendente dallo svolgimento, o meno, di mansioni tecniche (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 25.03.2019 n. 12876 - link a www.ambientediritto.it).

CONDOMINIO: Convocazioni, sufficiente l’invio. Spetta al condomino la prova di mancata ricezione. Il principio ribadito dalla Cassazione sugli avvisi dell’assemblea, che sono atti privati.
Convocazione dell'assemblea con maggiori garanzie. Per la regolarità dello svolgimento della riunione è infatti sufficiente che l'amministratore attesti di avere inviato la relativa convocazione al condomino, senza preoccuparsi dell'esito di tale spedizione, spettando a quest'ultimo la prova di non averla ricevuta per motivi estranei alla propria volontà.

Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 25.03.2019 n. 8275, nella quale si è presa posizione su un pronunciamento di legittimità di segno contrario.
Il caso concreto. Nella specie la Corte di appello di Roma, nel riformare la sentenza di primo grado, aveva accolto l'appello proposto dall'amministratore condominiale avverso la decisione con la quale era stata giudicata positivamente l'impugnazione ex art. 1337 c.c. proposta da una condomina contro le delibere approvate nel corso di un'assemblea. Le stesse erano state annullate per difetto di convocazione della predetta condomina alla riunione.
Dagli atti di causa risultava che l'amministratore avesse inviato ai condomini mediante raccomandata le relative convocazioni assembleari dieci giorni prima dell'assemblea chiamata in prima convocazione. Nel caso specifico della condomina che aveva impugnato le conseguenti delibere risultava poi che tale avviso fosse stato spedito al suo indirizzo di residenza.
I giudici di appello, nel riformare la predetta sentenza, avevano ritenuto di fare applicazione del principio di presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. e, tenuto conto dell'affidabilità del mezzo postale utilizzato e della circostanza pacifica che il luogo in cui tale atto era stato spedito coincideva con l'indirizzo di residenza della condomina, avevano ritenuto che il procedimento di convocazione assembleare si fosse svolto correttamente.
Di qui il ricorso della condomina presso la Suprema corte, alla quale la stessa si era rivolta per ottenere l'annullamento della sentenza di secondo grado che aveva dato ragione all'amministratore condominiale.
L'invio dell'avviso di convocazione assembleare. L'avviso di convocazione, che deve essere predisposto dall'amministratore e inviato a tutti i condomini presso la propria residenza o il proprio domicilio, come risultante dall'anagrafe condominiale (che è specifico obbligo dell'amministratore provvedere a mantenere aggiornata), è finalizzato a consentire la partecipazione dei condomini all'assemblea, fornendo loro indicazione dell'ordine del giorno, del luogo e dell'ora della riunione, oltre che degli argomenti da discutere.
Esso deve essere comunicato ai condomini almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima convocazione. Il nuovo art. 66 disp. att. c.c. prevede quindi in modo specifico le modalità per il suo inoltro, richiedendo alternativamente l'utilizzo della posta raccomandata, della posta elettronica certificata, del fax oppure la consegna a mani (con consigliabile ricevuta cartacea del ritiro dell'atto da parte del condomino).
Il predetto art. 66 disp. att. c.c. ha inoltre chiarito che qualsivoglia vizio relativo all'omissione, alla tardività o all'incompletezza della convocazione legittima il condomino alla richiesta di annullamento delle conseguenti delibere adottate dall'assemblea.
La decisione della Suprema corte. Nella recente sentenza della seconda sezione civile della Cassazione sono stati preliminarmente confermati i predetti chiarimenti forniti dal legislatore con il menzionato restyling dell'art. 66 disp. att. c.c. di cui alla riforma del 2012.
I giudici di legittimità hanno richiamato il consolidato orientamento che qualifica l'avviso di convocazione come atto privato, del tutto svincolato, in assenza di espressa disposizione di legge, dall'applicazione del regime giuridico delle notificazioni degli atti giudiziari, che soggiace, quale atto unilaterale di natura recettizia, al principio di cui all'art. 1135 c.c..
Anche all'avviso di convocazione si applica quindi la presunzione di conoscenza, superabile dalla prova contraria fornita dal condomino convocato, in base alla quale la conoscenza dell'atto è parificata alla conoscibilità, in quanto riconducibile anche solo al fatto che la comunicazione sia pervenuta all'indirizzo del destinatario, a prescindere dalla sua materiale apprensione o effettiva conoscenza.
In questo caso l'onere della prova a carico del mittente riguarda solo l'avvenuto recapito del plico all'indirizzo del destinatario, salva la prova da parte del destinatario dell'impossibilità di acquisire in concreto l'anzidetta conoscenza per un evento estraneo alla propria volontà.
Nel caso di invio dell'avviso di convocazione mediante posta raccomandata, il momento in cui può ritenersi che la stessa sia arrivata nella sfera di conoscibilità del condomino, qualora quest'ultimo non fosse presente al momento della consegna del plico da parte dell'incaricato del servizio postale, coincide con il rilascio da parte di quest'ultimo del relativo avviso di giacenza, idoneo a consentire il ritiro della spedizione (e non già con altri momenti successivi, quali il giorno in cui il plico sia stato effettivamente ritirato o in cui si sia compiuta la relativa giacenza).
A fronte di questo consolidato orientamento giurisprudenziale la seconda sezione civile ha però dovuto fare i conti con una recente decisione di legittimità di contenuto (apparentemente) contrario di cui alla sentenza n. 25791 del 14/12/2016. In questo caso la Cassazione aveva ritenuto che l'avviso di tentata consegna da parte dell'incaricato del servizio postale, non contenendo l'atto cui si riferisce, non equivalesse alla sua comunicazione, non potendo dunque farsi applicazione dell'art. 1335 c.c. Al contrario, in casi del genere si era ritenuto di dover fare riferimento all'effettiva conoscenza.
Tuttavia, come correttamente rilevato, in detta decisione la Suprema corte si era occupata del diverso caso dell'invio da parte dell'amministratore del verbale assembleare al condomino assente. Trattasi, all'evidenza, di una ipotesi diversa da quella dell'invio dell'avviso di convocazione, perché dalla spedizione del verbale ai condomini assenti decorre un termine (giudiziale) di decadenza dall'impugnazione delle deliberazioni in esso contenute, ovvero il termine di 30 giorni di cui all'art. 1337 c.c. (salvo il caso in cui il vizio denunciato comporti addirittura la nullità della deliberazione).
Per questo motivo, trattandosi di tutelare il diritto costituzionalmente garantito della difesa in sede giudiziaria, nella menzionata sentenza si era ritenuto di dover fare applicazione analogica di quanto previsto dalle disposizioni del regolamento postale di cui all'art. 8 della legge n. 890/2002, tenendo comunque conto del fatto che, non trattandosi della notifica di un atto giudiziario, non si poteva pretendere dall'incaricato del servizio postale la spedizione al destinatario di una raccomandata con la comunicazione dell'avvenuto deposito, ma soltanto il rilascio dell'avviso di giacenza.
L'importanza del registro di anagrafe condominiale. Emerge ancora una volta tutta l'importanza di tenere correttamente e in maniera aggiornata il registro dell'anagrafe condominiale. L'amministratore deve infatti conoscere esattamente chi sono i proprietari delle singole unità immobiliari.
La gestione di un aggiornato registro di anagrafe rileva inoltre non solo ai fini della convocazione e della gestione dell'assemblea (l'amministratore è tenuto a sapere chi siano i condomini, ovvero i soli soggetti legittimati a partecipare alle riunioni di tale organo condominiale), ma anche per la ripartizione delle spese tra usufruttuario e nudo proprietario, così come per la richiesta di decreto ingiuntivo nei confronti dei condomini morosi e per il conseguente pignoramento immobiliare, oppure per la comunicazione ai terzi creditori del condominio del nominativo dei condomini non in regola con il versamento degli oneri condominiali.
Il nuovo art. 1130, comma 1, n. 6, del codice civile, obbliga quindi l'amministratore ad annotare nel predetto registro le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali (per esempio l'usufrutto, l'uso e l'abitazione) e di diritti personali di godimento (per esempio la locazione), comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio dei medesimi, nonché dei dati catastali di ciascuna unità immobiliare
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2019).

TRIBUTIEsenzione ICI sui fabbricati rurali, è retroattiva la presentazione del Docfa in catasto
La presentazione del Docfa in catasto ha effetto retroattivo per il riconoscimento dell'esenzione Ici per i fabbricati rurali.

In tal senso si è pronunciata la Commissione tributaria regionale di Sassari con sentenza 25.03.2019 n. 183/8/2019, riconoscendo il diritto del contribuente all'esenzione prevista dall'articolo 9 del Dl 557/1993 convertito dalla legge 133/1994.
La questione ha riguardato il ricorso da parte di una Cooperativa di allevatori alla Commissione tributaria provinciale di Sassari avverso il diniego di rimborso da parte di un Comune dell'Ici pagata dal 2002 al 2006 per un fabbricato ritenuto dalla contribuente rurale e quindi esente. Invero il fabbricato in oggetto al 1° gennaio degli stessi anni d'imposizione era classificato in categoria D/8, la cooperativa ha però sostenuto di aver presentato in catasto un Docfa nel corso del 2008 con il quale ha riclassificato in D/10 l'immobile; quindi spettando retroattivamente, a suo dire, l'esenzione da tributo anche per gli anni in oggetto.
Il giudice di appello, nel confermare la sentenza di primo grado, ha accolto la tesi della contribuente, sulla base dello «jus superveniens» costituito, tra l'altro e soprattutto, dal combinato disposto della norma di interpretazione autentica contenuta nell'articolo 2, comma 5, del Dl 102/2013 e dell'articolo 7, comma 2-bis, del Dl 70/2011. A dire del giudice di secondo grado da tale jus superveniens si ricaverebbe il principio generale di retroattività del classamento in D/10 proposto con Docfa dal contribuente in linea con l'insegnamento contenuto nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 18565/2009.
Le argomentazione che non convincono
Le argomentazioni del pronunciamento lasciano perplessi sotto diversi aspetti. In primo luogo, il giudice sassarese ricava un principio ordinamentale di retroattività, in ultima analisi, da una norma di interpretazione autentica, di per se eccezionale, di una norma catastale condonistica (articolo 7, comma 2-bis, Dl 70/2011), e perciò stesso anch'essa speciale (Cassazione civile, sezione tributaria, sentenza n. 1779606/2018; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 3862/2017).
Dunque, seguendo il ragionamento del giudice sassarese si dovrebbe arrivare all'irragionevole conclusione che nel nostro ordinamento i principi generali si possono ricavare da normative di natura emergenziale. Sotto altro aspetto, proprio perché eccezionali, le norme condonistiche, come quella di specie, non possono che essere applicate nei limiti stretti dei previsti specifici adempimenti formali di natura volitiva a carico dei soggetti interessati da porre in essere dopo la loro entrata in vigore.
Dunque, non è dato comprendere come possa essere estesa la disciplina condonistica del 2011, che prevede l'adempimento di specifiche formalità autocertificate di natura volitiva, alla presentazione di una dichiarazione di scienza qual è il Docfa presentata nel 2008 in base alla normativa ordinari catastale.
Il giudice di seconde cure attribuisce efficacia retroattiva fino al 2002 a uno jus superveniens del 2011, i cui effetti fiscali potevano al limite retroagire al 2006 in ragione della presentazione in pari anno della domanda di condono catastale; la retroattività pretesa dal giudice sassarese si pone in evidente contrasto con l'articolo 11 delle Preleggi (Cassazione civile, sezione I, 3308/1992).
Sotto altro aspetto, il giudice di seconde cure non sembra aver fatto tesoro dell'insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità in materia di Ici. Infatti, la Corte di cassazione è ferma da anni nel ritenere che in base all'articolo 5, comma 2, del Dlgs n. 504/1992 le variazioni catastali producono effetti fiscali solo dall'anno successivo a quello della loro messa in atti indipendentemente che ciò sia dovuto a presentazione di Docfa (di recente Cass. civile, sez. VI, 07/09/2018, n. 21760), tanto più se in ragione di tale applicazione retroattiva possa derivarne l'irragionevole riconoscimento di una esenzione fiscale (Cassazione civile, sezione VI, sentenza n. 7746/2019), ponendosi tale retroattività in evidente contrasto con il principio di certezza e stabilità dei rapporti fiscali.
L'impugnazione del classamento
La pronuncia in commento, a tacer d'altro, finisce per non far buon uso nemmeno dei principi contenuti nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 18565/2009, ove proprio a tutela della certezza e della stabilità dei rapporti giuridici fiscali, è posto a carico del contribuente e dell'ente impositore l'onere di impugnare entro il termine di decadenza il classamento catastale non ritenuto corretto.
Ragion per cui, se fosse possibile per il contribuente modificare retroattivamente con un Docfa un classamento catastale consolidato in atti verrebbe irragionevolmente consentito allo stesso di aggirare il principio generale della decadenza dell'azione giudiziaria tipico dei processi di natura impugnatoria, come quello tributario, a presidio del quale è posto l'articolo 21 del Dlgs 546/1992.
Limite quello decadenziale che si pare possa essere superato solo se dal riconoscimento dell'esenzione fiscale, in ragione del consolidato classamento in D/10, possa derivarne la violazione della normativa europea in materia di divieto di aiuti di stato, imponendosi al giudice nazionale l'obbligo di disapplicare le norme e gli atti di diritto interno cagionanti o impeditivi del recupero dell'aiuto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Opera abusiva e conseguenza dannosa dell'illecito edilizio - Persistente offensività dell'opera nei confronti dell'interesse tutelato dalla norma - Demolizione e sospensione condizionale della pena - Funzione ripristinatoria del bene offeso - Amministrazione inerte e poteri del giudice di merito - Giurisprudenza - Art. 31, c. 9. T.U. Edilizia.
In materia urbanistica, la presenza di un'opera abusiva costituisce una conseguenza dannosa dell'illecito edilizio alla cui eliminazione è sotteso l'ordine di demolizione pronunciato dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, 9° comma T.U. Edilizia contestualmente alla sentenza di condanna, ove non altrimenti eseguita.
La facoltà rimessa al giudice di merito di subordinare, in presenza di illeciti edilizi, la concessione della sospensione condizionale della pena all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante demolizione dell'opera abusiva, non esige alcuna specifica motivazione se non sulla scelta del rafforzamento così operato, essendo questa implicita nell'emanazione dell'ordine di demolizione che, in quanto accessorio alla condanna del responsabile, è emesso sulla base dell'accertamento della persistente offensività dell'opera stessa nei confronti dell'interesse protetto
(Sez. 3, n. 23189 del 29/03/2018 - dep. 23/05/2018, Ferrante).
Infine, non sortisce alcun effetto l'eccepita riserva di legge in favore dell'autorità amministrativa, la quale non preclude al giudice di merito il potere di ordinare la demolizione delle opere abusive anche in presenza di un parallelo e concorrente ordine della P.A., di cui nella specie peraltro non vi è traccia, e comunque fino a quando l'Amministrazione rimanga inerte omettendo sia di ingiungere la demolizione, sia di procedere all'acquisizione dell'opera
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.03.2019 n. 12735 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Nullità del trasferimento dell'immobile abusivo attinente al profilo civilistico - C.d. nullità «testuale» - Presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile - Artt. 17 e 40 L n. 47/1985 - Artt. 31, 46, 136 del TUE del 2001 - Art 1418 c.c..
In materia urbanistica, la nullità comminata dall'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L n. 47 del 1985 va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità «testuale», con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un'unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell'immobile.
In presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.
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Nullità del contratto di comprovendita per mancata inclusione degli estremi del titolo abilitativo - Dichiarazione reale riferibile all'immobile - Effetti e limiti - Art. 31 Legge Urbanistica - Nullità delle compravendite di terreni abusivamente lottizzati.
La nullità del contratto comminata per il solo caso della mancata inclusione degli estremi del titolo abilitativo, ha il pregio di render chiaro il confine normativo dell'area della non negoziabilità degli immobili, a tutela dell'interesse alla certezza ed alla sicurezza della loro circolazione, appare, quindi, quello che meglio rappresenta la sintesi tra le esigenze di tutela dell'acquirente e quelle di contrasto all'abusivismo.
Pertanto, l'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 dichiara, invalidi quegli atti da cui non constino (ove da essi non risultino) gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria, ovvero gli estremi della segnalazione certificata di inizio attività, con la precisazione che tali elementi devono risultare per dichiarazione dell'alienante.
Nell'ipotesi di compravendita di edifici o parte di essi (ed a parte le allegazioni di cui all'art. 40 L. n. 47/1985 ), le norme pongono, dunque, un medesimo, specifico, precetto: che nell'atto si dia conto della dichiarazione dell'alienante contenente gli elementi identificativi dei menzionati titoli, mentre la sanzione di nullità e l'impossibilità della stipula sono direttamente connesse all'assenza di siffatta dichiarazione (o allegazione, per le ipotesi di cui all'art. 40 L. n. 47 del 1985).
Sicché, gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione sono nulli ove da essi non risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione, disposizione che era stata preceduta dalla L. n. 765 del 1967, art. 10, che, nel modificare l'art. 31 della Legge Urbanistica, aveva disposto la nullità delle compravendite di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale nel medesimo caso in cui "da essi non risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza" di una lottizzazione autorizzata
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 22.03.2019 n. 8230 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanzione della demolizione - Ordine di demolizione - Responsabilità del dirigente o del funzionario per omissione o ritardo - Illecito permanente - Giurisprudenza amministrativa.
La sanzione della demolizione di cui all'art. 31, co. 2 e 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 è prevista, nei confronti sia del costruttore che del proprietario in caso d'interventi edilizi eseguiti non solo in assenza di permesso, ma anche in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32.
Tale sanzione, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa
(Ad Plenaria Cons. Stato n. 9 del 2017), ha, infatti, carattere reale e non incontra limiti per il decorso del tempo e ciò in quanto l'abuso costituisce un illecito permanente, e l'eventuale inerzia dell'Amministrazione non è idonea né a sanarlo o ad ingenerare aspettative giuridicamente qualificate, né a privarla del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurandosi, anzi, la responsabilità (art. 31 cit., co. 4-bis) in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di siffatto atto, che resta, appunto, doveroso, nonostante il decorso del tempo
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 22.03.2019 n. 8230 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusivismo edilizio - Disvalore espresso dall'ordinamento - APPALTI - Contratti d'appalto nulli per illiceità dell'oggetto - Importanza della veridicità delle dichiarazioni dell'alienante - Contratto preliminare - Giurisprudenza.
Il disvalore espresso dall'ordinamento rispetto al diffuso fenomeno dell'abusivismo edilizio, si coglie non solo in riferimento alle sanzioni penali ed amministrative variamente graduate che reprimono direttamente la commissione di abusi edilizi, ma, in generale, in relazione alla percezione negativa di ciò che circonda il bene abusivo.
Tanto si desume dalla giurisprudenza che ritiene nulli per illiceità dell'oggetto i contratti d'appalto aventi ad oggetto la costruzione di un immobile senza titolo abilitativo
(Cass. n. 7961/2016; n. 13969/2011 e cfr., pure, n. 3913/2009; n. 2187/2011; n. 30703/2018), o non suscettibili di indennizzo espropriativo gli edifici costruiti abusivamente (a meno che, alla data dell'esproprio, sia stata avanzata domanda di sanatoria, pur non ancora scrutinata dalla P.A., ma con favorevole valutazione prognostica, art. 38, co. 2-bis, del d.P.R. n. 327 del 2001, Cass. n. 18694/2016; n. 10458/2017; n. 645/2018), ed, in assoluto, in relazione al valore conformativo della proprietà riconosciuto alla disciplina urbanistica (Cass. SU n. 183/2001 e successive conformi).
Inoltre, l'importanza della veridicità delle dichiarazioni dell'alienante, affermata dalla menzionata sentenza n. 20258/2009, ha trovato seguito nella successiva giurisprudenza in tema di contratto preliminare (Cass. n. 52/2010; n. 8081/2014)
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 22.03.2019 n. 8230 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTILe centrali di committenza possono aspettare: per l'obbligo serve l'elenco delle stazioni appaltanti.
La violazione del principio di centralizzazione delle committenze non è sanzionabile con l'annullamento della procedura di gara fintanto che non sarà costituito l'apposito elenco delle stazioni appaltanti qualificate con l'approvazione del decreto previsto dall'articolo 38, comma 2, del Codice dei contratti, che dovrà definire i requisiti tecnico-organizzativi per l'iscrizione e le modalità attuative del sistema delle attestazioni di qualificazione.

Lo afferma la Sez. I di Brescia del TAR Lombardia con la sentenza 21.03.2019 n. 266.
Il tema
Un operatore aveva fatto ricorso per l'annullamento dell'aggiudicazione della concessione di un servizio effettuata all'esito di un avviso esplorativo per sollecitare manifestazioni di interesse alla partecipazione a una procedura negoziata.
Tra i motivi di ricorso spicca il mancato utilizzo di una centrale di committenza o di un'aggregazione secondo l'articolo 37, comma 3, del Codice dei contratti, sul presupposto che, in relazione al valore della gara, il Comune dovrebbe essere considerato una stazione appaltante priva dei requisiti di qualificazione stabiliti dall'articolo 38 del Codice stesso.
Il ricorrente ha inoltre chiesto l'accesso alla documentazione amministrativa e all'offerta tecnica ed economica dell'operatore aggiudicatario, a cui è stato dato in parte esito negativo a causa dell'opposizione manifestata da quest'ultimo circa l'offerta tecnica.
La qualificazione
Sulla prima questione, posto che l'acquisizione centralizzata è obbligatoria per le stazioni appaltanti che non siano in possesso della necessaria qualificazione stabilita dall'articolo 38 del Codice, i giudici hanno detto che finché non sarà approvata la disciplina attuativa non vi sono i presupposti per formulare un giudizio di inadeguatezza della stazione appaltante.
Di conseguenza, nel periodo transitorio ogni ente locale, previa iscrizione nell'anagrafe unica dell'Anac, può bandire e gestire come autonoma stazione appaltante tutte le procedure di gara a cui sia interessato, senza che questo possa mettere a rischio l'aggiudicazione. Ma anche nei casi in cui l'aggregazione e la centralizzazione delle committenze è obbligatoria, ossia qualora la stazione appaltante sia un Comune non capoluogo di Provincia, secondo il Tar di Brescia la violazione «non è sanzionabile con l'annullamento dell'intera procedura di gara in mancanza di parametri precostituiti che consentano di misurare la sproporzione tra la complessità della procedura e le competenze tecniche della stazione appaltante».
Parametri che potranno essere forniti solo dal decreto che individuerà i requisiti tecnico-organizzativi per l'iscrizione nell'elenco delle stazioni appaltanti qualificate.
L'accesso
Circa la domanda di accesso alla documentazione tecnica, il Tar ricorda che l'inserimento di elementi originali o creativi all'interno del progetto di gestione non basta a qualificare l'offerta tecnica come atto contenente segreti tecnici o commerciali (articolo 53, comma 5, lettera a), del Codice).
Né è sufficiente la menzione di particolari rapporti commerciali in grado di assicurare condizioni di gestione favorevoli e neppure l'elaborazione di innovative strategie di mercato. A maggior ragione non può essere invocata la segretezza quando, come nel caso in esame, la maggior parte dei criteri di assegnazione del punteggio riguarda la presenza di servizi aggiuntivi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019).

TRIBUTILe macchinette per la fototessera pagano l'Imposta di pubblicità.
La Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 20.03.2019 n. 7785, ha confermato l'assoggettabilità all'imposta di pubblicità delle cabine automatiche per la riproduzione fotografica (fototessera, biglietti da visita), non potendosi considerare i cartelli e le scritte apposte sulla macchinetta come insegna di esercizio.
Si tratta di conferma di principi di diritto già enunciati dalla Corte con riferimento ai distributori automatici di bevande e cibo che si trovano nelle stazioni (da ultimo, Cassazione n. 29086/2018).
Il caso
Secondo la tesi della società contribuente i messaggi pubblicitari apposti sulle cabine fotografiche sono da considerarsi esenti in quanto hanno la medesima funzione di un'insegna di esercizio ed sono inferiori alla misura di 5 mq prevista per l'esenzione delle insegne. L'esenzione, invece, era stata negata dal giudice d'appello perché l'insegna ha lo scopo di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività economica, mentre le insegne ubicate in luoghi diversi dalla sede sono soggetti all'imposta.
La Corte per risolvere la controversia ha quindi dovuto verificare se la cabina fotografica potesse essere, o meno, considerata come sede della società. La risposta è stata negativa.
La decisione
La normativa sull'imposta di pubblicità fa genericamente riferimento alla "sede" dell'attività, sicché occorre rifarsi alla nozione civilistica, che distingue tra sede legale, risultante dall'atto costitutivo e dallo statuto della società, e sede effettiva intendendosi per tale «il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti».
Alla luce di queste precisazioni, per la Corte è «di intuitiva evidenza che le cabine per fototessera e/o le postazione automatiche di distribuzione di cibi o bevande non possono essere ricondotte né al concetto di sede legale né a quello di sede effettiva di esercizio dell'attività sociale come sopra richiamati, e neppure può ipotizzarsi un rapporto pertinenziale con la sede della società, in ragione dell'ampia diffusione territoriale che impedisce a monte la stessa configurabilità di un rapporto durevole di servizio del singolo distributore alla sede sociale».
In conclusione, i mezzi esposti sulle cabine fotografiche, che riproducono le modalità di utilizzo e i servizi resi, costituiscono dei veri è propri mezzi pubblicitari autonomamente assoggettabili a imposta di pubblicità in quanto idonei a far conoscere a un numero indiscriminato di possibili clienti i prodotti ottenibili (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.04.2019).
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MASSIMA
1.2. Nel merito, il motivo è infondato.
La CTR, sul punto, ha confermato la sentenza di primo grado, ritenendo che i pannelli apposti sulle cabine in questione non hanno la caratteristica di insegna di esercizio, definita dall'art. 47 del d.P.R. n. 495/1992 come "scritta con caratteri alfanumerici installata nella sede della società" e, pertanto, "prescindono dal soggetto commerciale o imprenditoriale che operi in quella sede, da individuare nell'installatore dell'apparecchio automatico, con diversa sede dell'azienda, ed indicano soltanto il luogo di fornitura del servizio e la qualità del prodotto, assumendo esclusiva valenza pubblicitaria".
La ricorrente assume, invece, che il giudice tributario avrebbe dovuto riconoscere l'esenzione dal tributo, come prevista dall'art. 17 comma 1-bis, del d.lgs. n. 507 del 1994, in ragione del fatto che le strutture in questione riportavano la descrizione del servizio offerto, come emergerebbe dallo stesso avviso di accertamento di cui è causa, e, pertanto, erano destinate alla comunicazione al pubblico dello specifico servizio offerto da ogni postazione, dovendo conseguentemente qualificarsi insegne di esercizio, e non pubblicità, potendo quest'ultima ravvisarsi solo in presenza di cartelli svincolati dal luogo di esercizio dell'attività.
Giova ricordare che,
in linea generale, i presupposti applicativi dell'imposta di cui si discorre sono disciplinati dall'art. 5 del d.lgs. n. 507 del 1993, a mente del quale "la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile è soggetta all'imposta sulla pubblicità prevista nel presente decreto. Ai fini dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o serviti, ovvero finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicato".
A sua volta,
l'art. 17 del medesimo d.lgs. n. 507/1993 stabilisce i casi di esenzione dall'imposta, prevedendo al comma 1-bis, per quanto qui rileva, che "l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a cinque metri quadrati".
L'art. 2-bis, comma 6, del d.l. 22/2/2002, n. 13, convertito in 1. 14/04/2002 n. 75, ha poi chiarito che "
si definisce insegna di esercizio la scritta di cui all'articolo 47, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 16.12.1992, n. 495, che abbia la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività economica. In caso di pluralità di insegne l'esenzione e' riconosciuta nei limiti di superficie di cui al comma 1".
Di analogo tenore è il richiamato art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992, che
definisce "insegna" "la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da un simbolo o da un marchio realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa. Può essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta".
Ne deriva che le insegne ubicate in luoghi diversi dalla sede sono soggetti all'imposta
(Cass., sez. 5, 11/05/2012, n. 7348, Rv. 622894 - 01).
Ciò posto, nella fattispecie in esame, in cui pacificamente si discorre di pannelli apposti su distributori automatici (cabine per foto, foto per documenti, fototessera, ecc.), ai fini della applicazione dell'esenzione ai sensi della norma invocata dalla ricorrente, correttamente la sentenza impugnata ha in primo luogo valutato se le postazioni di distribuzione automatica possano essere configurate quali "sedi" di svolgimento dell'attività commerciale, giungendo correttamente ad escludere tale possibilità.
Invero, la sentenza impugnata impropriamente afferma che l'art. 47 del d.P.R. n. 495/1992 indichi la "sede della società", posto che l'espressione effettivamente inserita nella norma citata è "sede dell'attività", ma ciò non incide sulla necessità di individuare il concetto di "sede" in senso giuridico e non, come sostenuto dalla ricorrente, in senso atecnico, ossia quale "luogo" genericamente inteso.
In proposito,
va richiamato il precedente di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, che, in un analogo caso, ha escluso la riconducibilità dei distributori automatici al concetto di "sede" (cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, Rv. 634248 - 01).
A tale conclusione la citata sentenza è pervenuta osservando che non è rinvenibile altra nozione normativa, ai fini civilistici, di sede delle persone giuridiche (qual è l'odierna ricorrente, in quanto società di capitali avente, quindi, personalità giuridica), se non quella formale (c.d. sede legale) risultante dall'atto costitutivo e dallo statuto (cfr. artt. 46 e 16 c.c.), alla quale si aggiunge correntemente, per l'equiparazione a determinati effetti nei confronti dei terzi, la nozione di sede effettiva, tale intendendosi il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti (cfr. Cass., sez. L, 12.03.2009, n. 6021, Rv. 607263 - 01; Cass., sez. L, 13.04.2004, n. 7037, Rv. 572032 - 01).
Tanto premesso,
risulta di intuitiva evidenza che le cabine per fototessera e/o le postazione automatiche di distribuzione di cibi o bevande non possono essere ricondotte né al concetto di sede legale né a quello di sede effettiva di esercizio dell'attività sociale come sopra richiamati, e neppure può ipotizzarsi un rapporto pertinenziale con la sede della società, in ragione dell'ampia diffusione territoriale che impedisce a monte la stessa configurabilità di un rapporto durevole di servizio del singolo distributore alla sede sociale.
A tali considerazioni deve aggiungersi l'ulteriore rilievo, decisivo al fine di escludere che al punto automatico di esercizio dell'attività possa attribuirsi la qualificazione di "sede", che tale concetto viene a costituire nella fattispecie in esame il presupposto per l'applicazione di una norma, quale il menzionato art. 17, comma 1-bis, del d.lgs. n. 507/1993, che prevede un'esenzione fiscale, come tale da ritenersi di stretta interpretazione (cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, in motivazione).
La sentenza impugnata, pertanto, ha correttamente affermato che le cabine automatiche non possono considerarsi "sede" della società, ed è conseguentemente pervenuta ad una corretta decisione di esclusione del diritto all'esenzione, atteso che tale circostanza osta all'applicabilità dell'art. 17, comma 1 bis del d.lgs. n. 507/1993, invocato dalla ricorrente.
Resta assorbito l'ulteriore argomento dedotto dalla società ricorrente in riferimento alla asserita irrilevanza, ai fini dell'applicabilità della esenzione, dell'eventuale concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria della insegna stessa, siccome desumibile dal precedente di questa Corte n. 23021 del 2009 e dall'art. 2, capo 3, del D.M. 07.01.2003: tale questione, infatti, attiene al contenuto dell'insegna e presuppone che si tratti di "insegna" installata nella "sede" dell'attività cui si riferisce, requisito che, per quanto sopra evidenziato, non può ritenersi sussistente nel caso in esame.
Esclusa l'applicabilità dell'esenzione, la sentenza impugnata ha quindi correttamente confermato il rigetto del ricorso proposto in primo grado dalla DE.AU., ritenendo, con accertamento in fatto non censurato né censurabile in questa sede, che i mezzi esposti sulle cabine, riproducenti le modalità di utilizzazione ed i servizi resi, costituissero mezzi pubblicitari, in quanto "obiettivamente idonei a far conoscere indiscriminatamente ad una massa di possibili acquirenti ed utenti l'attività ed il prodotto".
Quest'ultima affermazione è infatti coerente con il principio, già affermato da questa Corte e condiviso dal Collegio, secondo il quale,
ai fini dell'imposta sulla pubblicità, costituisce fatto imponibile qualsiasi mezzo di comunicazione con il pubblico che risulti -indipendentemente dalla ragione e finalità della sua adozione- obbiettivamente idoneo a far conoscere indiscriminatamente alla massa indeterminata di possibili acquirenti ed utenti cui si rivolge il nome, l'attività ed il prodotto di una azienda, non implicando la funzione pubblicitaria una vera e propria operazione reclamistica o propagandistica e non essendo, quindi, la stessa incompatibile con altre finalità (V. Cass., sez. 5, 30/06/2010, n. 15449, Rv. 613891 - 01).
Né la ricorrente ha mai prospettato nei gradi di merito (e tanto meno in questa sede) che la comunicazione così realizzata possa essere ricondotta ad altre ipotesi di esenzione, e specificamente a quelle previste dall'art. 17, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs n. 507/1993 con riferimento alle insegne non riconducibili nella nozione di "insegna di esercizio", contemplata dalla sola ipotesi di cui all'art. 17, comma 1-bis, del medesimo decreto legislativo.

EDILIZIA PRIVATAL’art. 11 dpr 380/2001 legittima alla richiesta dei titoli edilizi il proprietario o, comunque, il soggetto che abbia diritto di realizzare le opere oggetto di istanza.
Fornita la prova sull’esistenza del titolo, l’Amministrazione non è tenuta ad effettuare approfondite ricerche sull’esistenza di limiti al diritto di proprietà, ove essi non siano stati evidenziati nel corso dell’istruttoria procedimentale, non essendo l’Amministrazione chiamata a dirimere conflitti tra titolari di diritti confliggenti.
Invero, “In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, una volta verificata la legittimazione attiva all'ottenimento del predetto titolo, sussiste l'obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici soltanto alla condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell'ente locale si traduca in una semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un'accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici.
In base all'art. 11, d.P.R. n. 380/2001, il Comune nel verificare l'esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l'Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione, senza che l'esame del titolo di godimento operato dalla P.A. costituisca un'illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Pertanto, al fine di non aggravare il procedimento, l'Amministrazione non è tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, ma deve prendere in considerazione solo gli impedimenti già accertati in seguito all'espletamento di un'adeguata istruttoria”.
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9. Con il VI motivo è dedotta la violazione art. 11 dpr 380/2001 con specifico riguardo all’installazione della fascia di protezione del muro romano poiché –afferma il ricorrente– “parte delle opere sono su proprietà privata di terzi”.
A fronte delle difese di controinteressato e Comune, i quali affermano che la fascia di protezione sarà realizzata sul suolo di proprietà Comunale concesso in uso alla controinteressata, i ricorrenti hanno precisato che il vizio sussisterebbe in ogni caso, poiché la protezione è destinata ad essere installata sulle griglie di aerazione di proprietà dei ricorrenti.
Il motivo non è fondato.
L’art. 11 legittima alla richiesta dei titoli edilizi il proprietario o comunque il soggetto che abbia diritto di realizzare le opere oggetto di istanza.
Fornita la prova sull’esistenza del titolo, l’Amministrazione non è tenuta ad effettuare approfondite ricerche sull’esistenza di limiti al diritto di proprietà, ove essi non siano stati evidenziati nel corso dell’istruttoria procedimentale, non essendo l’Amministrazione chiamata a dirimere conflitti tra titolari di diritti confliggenti (cfr. ex multis TAR Milano, (Lombardia) sez. II, 01/06/2018, n. 1398: “In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, una volta verificata la legittimazione attiva all'ottenimento del predetto titolo, sussiste l'obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici soltanto alla condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell'ente locale si traduca in una semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un'accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici.
In base all'art. 11, d.P.R. n. 380/2001, il Comune nel verificare l'esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l'Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione, senza che l'esame del titolo di godimento operato dalla P.A. costituisca un'illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Pertanto, al fine di non aggravare il procedimento, l'Amministrazione non è tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, ma deve prendere in considerazione solo gli impedimenti già accertati in seguito all'espletamento di un'adeguata istruttoria
”) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.03.2019 n. 342 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGOAssoluzione e niente sanzioni disciplinari: al dipendente gli arretrati per tutta la sospensione.
La sospensione facoltativa del dipendente pubblico sottoposto a procedimento penale è priva di titolo qualora, all'esito del processo, l'ente datore di lavoro non attivi il procedimento disciplinare. Il dipendente assolto, poi, non ha alcun onere di attivarsi per la tempestiva ripresa del procedimento disciplinare comunicando all'amministrazione l'esito del processo a suo carico.

È quanto precisato nella sentenza 19.03.2019 n. 7657 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione in cui altresì si afferma che nel caso in cui il procedimento disciplinare non sia riattivato, o nel caso in cui non sia irrogata alcuna sanzione, il dipendente ha diritto a ottenere le retribuzioni non percepite per tutto il periodo di sospensione.
Il caso
Protagonista della vicenda è un dipendente pubblico della Regione Campania il quale, a metà degli anni '90, veniva indagato e processato per diversi reati, alcuni dei quali venivano dichiarati estinti per prescrizione nel 1999 dal Tribunale di Napoli, mentre per altro titolo di reato nel 2003 giungeva una sentenza di assoluzione dalla Corte di cassazione. Nelle more del procedimento penale, la giunta regionale decideva di sospendere il dipendente dal servizio, in attesa di conoscere l'esito della vicenda, senza però mai aprire il procedimento disciplinare a suo carico.
Così dopo la sentenza di assoluzione per l'ultimo reato contestatogli, il lavoratore chiedeva la riammissione in servizio e la restitutio in integrum, ovvero la differenza tra la retribuzione di norma spettante e l'assegno alimentare a lui corrisposto dall'ente durante il periodo di sospensione cautelare. L'Amministrazione negava però la richiesta economica, in quanto il dipendente non aveva informato tempestivamente il suo datore di lavoro del proscioglimento per prescrizione che avrebbe di per sé fatto cessare la sospensione dal servizio.
La decisione
Dopo i primi due gradi di giudizio che negavano la richiesta economica a causa della «inerzia del lavoratore», la questione è arrivato in Cassazione dove il dipendente sottolineava che se inerzia vi è stata, è sicuramente quella della stessa amministrazione, che dimenticava di attivarsi nel riavviare il procedimento disciplinare, essendo d'altra parte già informata dell'esito del procedimento penale dall'autorità giudiziaria.
La difesa ha colto nel segno e portato la Suprema corte ad annullare il verdetto di merito precisando che non sussiste alcun obbligo di collaborazione o dovere di comunicazione a carico del dipendente sottoposto a processo penale e sospeso dal servizio.
I giudici di legittimità sul punto evidenziano poi il «carattere della provvisorietà e della rivedibilità» della sospensione cautelare, quale misura cautelare e interinale, la quale può sfociare in sanzione disciplinare o al contrario venire caducata negli effetti all'esito del procedimento disciplinare. La sanzione cautelare, inoltre quando è adottata, discrezionalmente, in pendenza di procedimento penale, mira ad evitare che «la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa pregiudicare l'immagine e il prestigio dell'amministrazione».
Se poi il procedimento disciplinare non si riattivi dopo l'assoluzione o si concluda favorevolmente al dipendente, prosegue il Collegio, a costui spetta il diritto la restitutio in integrum. La sospensione cautelare irrogata dall'ente al dipendente non fa venir meno l'obbligazione retributiva, ma semplicemente la sospende e solo quando il procedimento si concluda in senso sfavorevole al lavoratore con la sanzione del licenziamento «il diritto alla retribuzione viene definitivamente meno, in quanto gli effetti della sanzione retroagiscono al momento dell'adozione della misura cautelare».
In caso di esito favorevole, invece, «il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzione arretrate» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019).
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MASSIMA
3. E' invece fondata la censura con la quale si assume che il diritto alla restitutio in integrum, in relazione al periodo di sospensione facoltativa, non poteva essere negato a fronte della pacifica mancata riattivazione del procedimento disciplinare, dopo la definizione di quello penale.
Questa Corte è stata più volte chiamata a pronunciare sulla natura della sospensione cautelare (fra le più recenti Cass. nn. 5147/2013, 15941/2013, 26287/2013, 13160/2015, 9304/2017, 18849/2017, 10137/2018, 20708/2018) e, in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, ha evidenziato che
la sospensione, in quanto misura cautelare e interinale, «ha il carattere della provvisorietà e della rivedibilità, nel senso che solo al termine e secondo l'esito del procedimento disciplinare si potrà stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata e debba sfociare nella destituzione o nella retrocessione, ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti» (Corte Cost. 06.02.1973 n. 168).
Si è sottolineato in relazione alla sospensione facoltativa che la stessa è solo finalizzata a impedire che, in pendenza di procedimento penale, la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa pregiudicare l'immagine e il prestigio dell'amministrazione di appartenenza, la quale, quindi, è tenuta a valutare se nel caso concreto la gravità delle condotte per le quali si procede giustifichi l'immediato allontanamento dell'impiegato.
Ove l'amministrazione, valutati i contrapposti interessi in gioco, opti per la sospensione, in difetto di una diversa espressa previsione di legge o di contratto, opera il principio generale secondo cui «quando la mancata prestazione dipenda dall'iniziativa del datore di lavoro grava su quest'ultimo soggetto l'alea conseguente all'accertamento della ragione che ha giustificato la sospensione»
(Corte Cost. n. 168/1973).
La verifica dell'effettiva sussistenza di ragioni idonee a giustificare l'immediato allontanamento è indissolubilmente legata all'esito del procedimento disciplinare, perché solo qualora quest'ultimo si concluda validamente con una sanzione di carattere espulsivo potrà dirsi giustificata la scelta del datore di lavoro di sospendere il rapporto, in attesa dell'accertamento della responsabilità penale e disciplinare.
Sulla base di detti principi il diritto alla restitutio in integrum è stato riconosciuto nell'ipotesi di annullamento della sanzione inflitta (Cass. n. 26287/2013), di mancata conclusione del procedimento disciplinare a causa del decesso del dipendente (Cass. n. 13160/2015), di irrogazione di una sanzione meno afflittiva rispetto alla sospensione cautelare sofferta (Cass. nn. 5147/2013 e 9304/2017), di omessa riattivazione del procedimento in conseguenza delle dimissioni (Cass. n. 20708/2018) o del pensionamento (Cass. n. 18849/2017) e ciò a prescindere dalla espressa previsione della legge o della contrattazione collettiva.
3.1. Alle medesime conclusioni è pervenuta la giurisprudenza amministrativa nel suo massimo consesso (Cons. Stato Ad. Plen. 28.02.2002 n. 2) che, evidenziata la necessità di interpretare gli artt. 96 e 97 del d.P.R. n. 3/1957 alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale sulla natura della sospensione, ha ritenuto che in caso di omissione del procedimento disciplinare, anche l'eventuale condanna penale, intervenuta nei confronti dell'impiegato, non è suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio, disposta in corso di procedimento penale e stabilita dall'amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto.
Si è aggiunto che essendo la sospensione cautelare dal servizio adottata in base ad una valutazione discrezionale dell'Amministrazione (con eccezione della ipotesi della emissione del mandato o ordine di cattura nei confronti del dipendente) non è corretto ritenere la non imputabilità dell'interruzione del rapporto sinallagmatico all'Amministrazione medesima, posto che è la stessa Amministrazione che valuta i presupposti per l'adozione della misura e ne determina i contenuti. Quando poi nella sede propria degli accertamenti definitivi emerga che la sospensione non era giustificata, in tutto o in parte, non può essere addebitabile al dipendente l'interruzione del rapporto di servizio ed il mancato adempimento della prestazione (Cons. Stato Ad. plen. 02.05.2002 n. 4).
3.2. Ai richiamati principi, qui ribaditi perché condivisi dal Collegio, si deve aggiungere che il diritto alla restitutio in integrum ha natura retributiva e non risarcitoria.
Il potere del datore di lavoro di estromettere temporaneamente dall'azienda o dall'ufficio il dipendente sottoposto a procedimento penale è espressione del generale potere organizzativo e direttivo e trova fondamento costituzionale, quanto all'impiego privato, nell'art. 41 Cost. e in relazione all'impiego pubblico nell'art. 97 Cost., perché finalizzato a garantire, in pendenza del procedimento penale, la corretta gestione dell'impresa o l'efficienza e l'imparzialità della Pubblica Amministrazione.
La misura cautelare, per il suo carattere unilaterale, non fa venir meno l'obbligazione retributiva che, nei casi in cui la stessa sia oggetto di disciplina da parte della legge o della contrattazione collettiva, è solo in tutto o in parte sospesa ed è sottoposta alla condizione dell'accertamento della responsabilità disciplinare del dipendente.
Solo qualora il procedimento si concluda sfavorevolmente per il dipendente con la sanzione del licenziamento, il diritto alla retribuzione viene definitivamente meno, in quanto gli effetti della sanzione retroagiscono al momento dell'adozione della misura cautelare; viceversa qualora la sanzione non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura tale da non giustificare la sospensione sofferta, il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni arretrate, dalle quali dovranno essere detratte solo quelle relative al periodo di privazione della libertà personale perché in tal caso, anche in assenza dell'atto datoriale, il dipendente non sarebbe stato in grado di rendere la prestazione.
3.3. Occorre ancora aggiungere che il legislatore, prima, e le parti collettive, poi, nel prevedere la tempestiva riattivazione del procedimento disciplinare, all'esito della definizione di quello penale che ha dato causa alla misura cautelare, ha posto un preciso onere a carico delle amministrazioni, che, una volta fatto ricorso alla misura cautelare, non possono rimanere inerti e devono sollecitamente adottare tutte le iniziative necessarie a consentire una tempestiva ripresa del procedimento.
I rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare nell'impiego pubblico contrattualizzato nel tempo sono stati disciplinati dall'art. 97 del d.P.R. n. 3/1957, dalla contrattazione collettiva, dalla legge n. 97/2001, dall'art. 55-ter del d.lgs. n. 165/2001, inserito dal d.lgs. n. 150/2009 e recentemente modificato dal d.lgs. n. 75/2017. Il legislatore, al fine di consentire alle Pubbliche Amministrazioni di avere tempestiva notizia dei processi penali avviati a carico di dipendenti pubblici e del loro esito, ha imposto precisi oneri di comunicazione a carico del Pubblico Ministero (art. 129 disp. att. cod. proc. pen.) e della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento (art. 154-ter disp. att. cod. proc. pen.) e con l'art. 97 aveva anche attribuito all'impiegato pubblico il potere di far decorrere termini sensibilmente ridotti per la riattivazione, provvedendo egli alla notifica della sentenza stessa all'amministrazione.
Né il legislatore nei diversi interventi normativi né, tanto meno, le parti collettive hanno mai previsto a carico del dipendente sottoposto a processo penale e sospeso dal servizio, un obbligo di collaborazione e un dovere di comunicazione delle sentenze penali, a prescindere dalla natura e dal contenuto di dette decisioni.
Ha osservato al riguardo la Corte Costituzionale che
la facoltà concessa all'impiegato di attivarsi per far cessare lo stato di sospensione non può essere trasformata in un obbligo o in un onere, «peraltro a rischio di colui a carico del quale tale onere verrebbe imposto, di sollecitare l'apertura o la prosecuzione del procedimento stesso che potrebbe risolversi in senso a lui sfavorevole. Non sarebbe difatti ragionevole che, per far cessare una situazione di incertezza che il legislatore ha ancorato al trascorrere di un termine congruo, si debba accollare, a colui che ha un interesse addirittura contrapposto all'esercizio del potere disciplinare, l'onere di sollecitarlo, tenuto conto che l'ordinamento, per esigenze di certezza del tutto analoghe, già conosce ipotesi, come quelle attinenti alla prescrizione di reati, nelle quali l'estinzione del potere punitivo in relazione al mero trascorrere del tempo non è subordinata ad alcun onere da parte del soggetto che ne beneficia, né, tanto meno, alla conoscibilità del fatto illecito» (Corte Cost. n. 264/1990).
3.5. Ai principi di diritto sopra richiamati non si è attenuta la Corte territoriale che, come evidenziato nello storico di lite, ha ritenuto di dover respingere la domanda per il solo fatto che il De. non avesse tempestivamente notiziato l'amministrazione dell'avvenuto passaggio in giudicato della sentenza n. 3103/1999, con la quale il Tribunale di Napoli aveva dichiarato estinto per prescrizione uno dei reati in relazione ai quali la sospensione dal servizio era stata disposta.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo, che procederà ad un nuovo esame, limitatamente alla pretesa retributiva fatta valere per il periodo successivo al 30.06.1998, attenendosi ai principi di diritto richiamati nei punti che precedono e che di seguito si sintetizzano: «
nell'impiego pubblico contrattualizzato la sospensione facoltativa del dipendente sottoposto a procedimento penale, in quanto misura cautelare e interinale, diviene priva di titolo qualora all'esito del procedimento penale quello disciplinare non venga attivato. Il diritto del dipendente alla restitutio in integrum, che ha natura retributiva e non risarcitoria, sorge ogniqualvolta la sanzione non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura ed entità tali da non giustificare la sospensione sofferta. L'onere di attivarsi per consentire la tempestiva ripresa del procedimento disciplinare, una volta definito quello penale, grava sull'amministrazione e non sul dipendente pubblico, sicché non rileva, né può fare escludere il diritto al pagamento delle retribuzioni non corrisposte durante il periodo di sospensione facoltativa, la circostanza che l'incolpato non abbia tempestivamente comunicato al datore di lavoro la sentenza passato in giudicato di definizione del processo penale pregiudicante».

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La polizia municipale non può essere subordinata a un'altra struttura comunale.
Il Comune non può inserire il corpo/servizio di polizia locale quale struttura intermedia in una più ampia articolazione burocratica.

Lo ha ribadito il TAR Campania-Napoli, Sez. V, con la sentenza 18.03.2019 n. 1470.
La vicenda
Un dirigente della polizia municipale ha impugnato gli atti relativi alla macro organizzazione di un Comune che aveva inserito la polizia Municipale all'interno del settore amministrativo ritenendo che l'Ente non poteva collocare la polizia locale quale struttura intermedia in una più ampia articolazione burocratica.
La decisione
Il Tar ha rilevato che non vi è omogeneità tra la polizia municipale e il settore amministrativo e che una tale organizzazione inficia l'autonomia delle funzioni dello stesso servizio di polizia locale. L'istituzione del corpo/servizio di polizia municipale dà vita a una entità organizzativa unitaria completamente autonoma da altre strutture organizzative del comune (un corpo, appunto, che assomiglia ai corpi militari dai quali mutua anche i gradi gerarchici), costituita dall'aggregazione di tutti i dipendenti comunali che esplicano, a vari
Livelli, i servizi di polizia locale
Al vertice di questa aggregazione unitaria è posto un comandante (anch'egli vigile urbano) che ha la responsabilità del corpo e ne risponde direttamente al sindaco. Ciò è tanto vero che la legge 65/1986, contempla uno status giuridico ed economico differenziato rispetto a quello degli altri dipendenti comunali, sia pure nel rispetto dei principi generali contenuti nella legge quadro sul pubblico impiego. Invero, a tutti gli addetti della polizia municipale sono attribuite le funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica sicurezza con riconoscimento della relativa qualità.
L'autonomia del corpo di polizia municipale è connaturale alla specificità delle funzioni del personale che vi appartiene, stante l'attribuzione in via ordinaria a tutti gli addetti della polizia municipale delle funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica sicurezza con riconoscimento della relativa qualità.
Le competenze attribuite dall'ordinamento (articoli 3 e 5 della legge 65/1986) al corpo di polizia municipale consistono, in misura assolutamente prevalente, in compiti di prevenzione e vigilanza sull'osservanza di norme e di regolamenti nei settori di competenza comunale; di accertamento e di contestazione delle eventuali infrazioni; di adozione di provvedimenti sanzionatori. A queste attività si aggiunge l'espletamento di funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e, in determinate circostanze, di pubblica sicurezza.
Nell'ambito dell'organizzazione comunale, quindi, deve essere sempre garantita la totale autonomia del corpo di polizia municipale specie per quanto concerne le competenze previste dall'articolo 9 della legge 65/1986. Per queste ragioni la polizia municipale, specie se costituita in corpo, non può essere considerata una struttura intermedia (nella specie una sezione) di un compendio burocratico più ampio, né può essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo responsabile della struttura burocratica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.05.2019).
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MASSIMA
I. Parte ricorrente, vincitrice del concorso pubblico per titoli ed esami indetto dall’Amministrazione resistente con bando del 16.04.2013, assunta dal Comune di Giugliano in Campania con contratto di lavoro a tempo indeterminato quale “Dirigente del Settore Polizia Municipale e servizi al Cittadino con funzioni di Comandante della P.M.”, impugna, unitamente agli atti conseguenti, le deliberazioni di G.C., n. 188 del 29.12.2017 e n. 12 del 08.02.2018, aventi ad oggetto le modifiche dell'assetto organizzativo dell'Ente, nella parte in cui dispongono e confermano l'accorpamento del “Settore Polizia Municipale al Settore Servizi Sociali ed Educativi” del Comune di Giugliano in Campania, ponendo tale macro-settore alle dipendenze di un dirigente amministrativo, figura intermedia, nominata, poi, nel caso specifico, anche Comandante del Corpo (decreto n. 119/2018), con supposta lesione della autonomia ed indipendenza del Servizio di pertinenza.
I.1. Con tali atti, in particolare, l’Amministrazione comunale ha strutturato il Servizio di Polizia locale in quattro posizioni organizzative (Affari Generali del Comando, Polizia Giudiziaria, Polizia stradale, Protezione civile), sottoposte al potere direttivo del responsabile del predetto neo istituto Settore, individuato in un dirigente amministrativo non necessariamente provvisto della qualifica di Comandante della Polizia municipale né, tanto meno, appartenente al Corpo.
I.2. In conseguenza di tali atti di macro-organizzazione, il Sindaco con propri decreti, parimenti gravati, ha, poi, nominato i dirigenti responsabili dei vari settori comunali: ...
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V. Il ricorso è, in parte, fondato, in parte, inammissibile.
VI. E’ preliminarmente da accogliere l’eccezione in rito quanto all’impugnativa avverso il conferimento degli incarichi vertendosi in materia di meri atti di gestione del rapporto di lavoro.
VI.1. Invero, “
in tema di impiego pubblico privatizzato, ai sensi dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse quelle concernenti l’assunzione al lavoro ed il conferimento di incarichi dirigenziali, mentre la riserva in via residuale alla giurisdizione amministrativa, contenuta nel comma 4 del citato art. 63, concerne esclusivamente le procedure concorsuali, strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A.” (Cassazione civile, sez. un., 05.04.2017, n. 8799).
Deve pertanto essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione il gravame proposto contro gli specifici provvedimenti di incarico di posizioni organizzative con funzioni dirigenziali.
Non possono conseguentemente essere scrutinate tutte le eccezioni sollevate dal controinteressato costituito, dr. Pe., vice Comandante della P.M., con riferimento, in primo luogo, alla sopravvenuta improcedibilità del gravame quanto al decreto n. 24 del 09.01.2018, del quale è risultato destinatario, per essere medio tempore stato collocato a riposo d’ufficio per il raggiungimento dei requisiti di anzianità di servizio con decorrenza dal 01.12.2018.
Parimenti è a dirsi, in secondo luogo, quanto all’eccepita inammissibilità dell’impugnativa avverso l’incarico di affidamento della dirigenza del Settore Polizia municipale e Servizi sociali all’altro controinteressato, dr. Pe. (decreto sindacale n. 284 del 29.12.2017) per omessa notifica nei suoi confronti del ricorso introduttivo benché parte necessaria ai sensi dell’art. 41 c.p.a..
L’inoppugnabilità del decreto di affidamento di tale incarico dirigenziale eliderebbe, a parere del predetto controinteressato, l’interesse anche all’impugnazione della delibera di riorganizzazione dei settori comunali. Analogamente deve argomentarsi quanto all’eccezione di improcedibilità avanzata dall’Amministrazione resistente, relativamente all’impugnativa proposta, sempre con il ricorso principale, avverso i primi decreti sindacali per essere gli stessi a termine, con scadenza alla data del 31.03.2018.
La carenza di giurisdizione impedisce a questo Collegio di sindacare le eccezioni proposte.
VI.2. Infondata è, invece, l’eccezione relativa alla tardività dei motivi aggiunti, posto che il giudizio verte sulla illegittimità dell’accorpamento dei Settori Polizia Locale – Servizi Sociali del Comune così come originariamente disposto con la deliberazione giuntale n. 188/2017 e solo confermato con la successiva deliberazione di G.C. n. 12/2018, in assenza di qualsivoglia istruttoria e/o rinnovata valutazione sul punto. Nella specie, tale ultimo atto ha disposto modifiche all’assetto organizzativo dell’Ente già fissato con la precedente delibera n. 188/2017 solo nella parte relativa ai settori “Idrico Fognario e Manutentivo” e “Ambiente e Lavori Pubblici”, restando completamente inalterata la precedente organizzazione del Settore Polizia Municipale e Servizi Sociali, oggetto del presente giudizio.
In definitiva, la delibera di G.C. n. 12/2018, si configura, sul punto (ovvero sulla struttura del Settore Polizia Locale e Servizi Sociali), quale atto meramente confermativo della precedente delibera n. 188/2017, con la conseguenza che lo stesso, non essendo autonomamente impugnabile, non può mai determinare la improcedibilità del ricorso originariamente proposto avverso l’atto confermato (cfr. Cons. di St., sez. IV, 28.06.2016, n. 2914).
VI.3. E’, altresì, priva di pregio l’eccezione relativa al supposto difetto di interesse alla impugnativa avverso gli atti di macro-organizzazione in ragione della dedotta carenza di diretta lesività della condizione professionale della ricorrente che, di contro, avrebbe, invece, prestato acquiescenza al successivo decreto sindacale, n. 283 del 29.12.2017, notificato in data 02.01.2018, confermato con successivo decreto n. 118 del 03.05.2018, con cui, in asserita esecuzione agli atti organizzativi, la stessa sarebbe stata nominata e confermata dirigente del Settore Servizi Demografici ed elettorale, in luogo del Comando della Polizia Municipale.
Una volta consolidatosi l’attribuzione del nuovo e diverso incarico di dirigente del Settore Servizi Demografici, la medesima non potrebbe più trarre alcuna utilità dall’accoglimento delle censure avverso la riorganizzazione della Polizia Municipale, avendo implicitamente rinunciato all’incarico.
VI.3.1. L’eccezione è priva di pregio.
La ricorrente, vincitrice del concorso pubblico per titoli ed esami indetto dall’Amministrazione resistente con bando del 16/04/2013 - è stata assunta dal Comune di Giugliano in Campania, con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, quale Dirigente “da assegnare al Settore Polizia Municipale e servizi al Cittadino con funzioni di comandante della P.M.” e legittimamente aspira a svolgere l’incarico per il quale è stata selezionata all’esito di una procedura di evidenza pubblica e cui è correlato, in relazione alle funzioni, un determinato trattamento economico.
In disparte gli anzidetti profili di giurisdizione, a fronte della censurata riorganizzazione amministrativa, oggetto di tempestiva impugnativa, parte ricorrente non avrebbe tratto alcun vantaggio dall’impugnativa di un provvedimento comunque attributivo di un incarico di natura dirigenziale nelle more della definizione del presente giudizio, in attesa, cioè, di svolgere le funzioni di Comandante della P.M. per la cui attribuzione è stata selezionata in quanto riconosciuta in possesso dei necessari requisiti (specifici, per l’assunzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza e con anzianità di servizio nella P.M., nelle FF.OO., presso enti o organismi internazionali ovvero con rapporto di lavoro in regime di diritto pubblico) risultando, poi, vincitrice nella comparazione effettuata, per titoli e merito, rispetto agli altri partecipanti.
VII. Ciò posto, il ricorso è fondato quanto all’impugnativa avverso gli atti di macro-organizzazione.
VII.1. Con il primo motivo di gravame, parte ricorrente censura la violazione e falsa applicazione della l. n. 65/1986 e della l.r. della Campania n. 12/2003.
VII.2. Con il secondo motivo di ricorso, parte ricorrente deduce la violazione del Regolamento sull’ordinamento organizzativo del Corpo di polizia locale del Comune di Giugliano approvato con deliberazione di G.C. n. 175 del 18.05.2010 come modificato con deliberazione del Commissario straordinario n. 104 del 05.12.2013.
Rileva, in particolare, una contraddittorietà estrinseca dell’agere amministrativo nella misura in cui mentre detto regolamento salvaguarda la “specificità e l’autonomia del Corpo della Polizia municipale”, tali finalità sarebbero totalmente disattese nel provvedimento in contestazione.
VII.2.1. Le censure che, per connessione logico-giuridica, possono essere trattate congiuntamente sono fondate.
VII.3. Con gli atti deliberativi gravati, il Comune ha strutturato il Corpo/Servizio di Polizia Locale in quattro posizioni organizzative, sottoposte al potere direttivo del responsabile della neo-istituita macro area individuato in un dirigente amministrativo non necessariamente provvisto della qualifica di Comandante della Polizia Municipale, e comunque, pur se nominato tale, non espressamente appartenente al Corpo ovvero alla medesima categoria di dipendenti, beneficiari di un peculiare status.
VII.3.1. Orbene, tale modus operandi si pone in aperto contrasto con la normativa nazionale e regionale di settore e, in particolare:
   1) con la legge n. 65 del 07.03.1986, legge-quadro sull’ordinamento della Polizia Municipale, che, pur statuendo che i Comuni definiscono con proprio regolamento l’ordinamento e l’organizzazione del Corpo di polizia municipale, dispone:
      a) all’art. 7, comma 5, che: “l’ordinamento si articola in: a) responsabile del Corpo (Comandante); b) addetti al coordinamento e al controllo; c) operatori (vigili)”,
      b) all’art. 9 comma 1, che: “Il comandante del Corpo di Polizia municipale è responsabile verso il sindaco dell’addestramento, della disciplina e dell’impiego tecnico-operativo degli appartenenti al Corpo”;
      c) all’art. 5, che: “1. Il personale che svolge servizio di polizia municipale, nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, esercita anche: a) funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine la qualità di agente di polizia giudiziaria, riferita agli operatori, o di ufficiale di polizia giudiziaria, riferita ai responsabili del servizio o del Corpo e agli addetti al coordinamento e al controllo, ai sensi dell'articolo 221, terzo comma, del codice di procedura penale; b) servizio di polizia stradale, ai sensi dell'articolo 137 del testo unico delle norme sulla circolazione stradale approvato con decreto del Presidente della Repubblica 15.06.1959, numero 393; c) funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza ai sensi dell'articolo 3 della presente legge.
2. A tal fine il prefetto conferisce al suddetto personale, previa comunicazione del sindaco, la qualità di agente di pubblica sicurezza ... 4. Nell'esercizio delle funzioni di agente e di ufficiale di polizia giudiziaria e di agente di pubblica sicurezza, il personale di cui sopra, messo a disposizione dal sindaco, dipende operativamente dalla competente autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza nel rispetto di eventuali intese fra le dette autorità e il sindaco. 5. Gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale, portare, senza licenza, le armi, di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio, purché nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e nei casi di cui all'articolo 4...
”;
   2) con la legge regionale n. 12/2003, che, all’art. 11, ultimo comma, stabilisce, ribadendo i principi di cui alla normativa nazionale, che “nel rispetto del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni attinenti la gestione operativa dei servizi di sicurezza urbana, i comandanti di polizia locale dipendono unicamente dal sindaco o dal Presidente della Provincia”;
   3) con la stessa normativa regolamentare invocata che statuisce:
      - all’art. 2 comma 2, che “il Corpo di Polizia Locale è diretto e coordinato dal Comandante, Dirigente del Settore a cui sono affidate le relative funzioni, che è responsabile dell’addestramento, della disciplina e della gestione del servizio”;
      - al successivo comma 3 del medesimo articolo che “il Settore cui sono affidate le funzione del Corpo di Polizia Locale, articolazione dirigenziale di primo livello, esercita le sue funzioni avvalendosi della propria struttura organizzativa articolata in servizi e unità organizzative semplici e complesse”.
   4) con l'art. 6 del vigente Regolamento degli Uffici e dei servizi che stabilisce, poi, quanto segue:
      - “la struttura organizzativa del Comune è articolata in Settori, Servizi ed Unità operative complesse e semplici;
      - … i Settori sono articolazioni dirigenziali di primo livello e costituiscono le strutture organizzative di massima dimensione dell'Ente, alle quali sono affidate funzioni ed attività fra loro omogenee, che esercitano con autonomia operativa e gestionale, nell'ambito degli indirizzi e degli obiettivi fissati dalla Giunta Comunale;
      - … i Servizi sono articolazioni di secondo livello e costituiscono strutture organizzative nelle quali è suddiviso il Settore ed esso rappresenta, di norma, l'unità organizzativa complessa a cui il Dirigente responsabile di Settore affida, con proprio provvedimento, l'istruttoria dei singoli procedimenti compresi nell'ambito di competenza, con responsabilità interna
” (delibere n. 188 del 29.12.2017 e n. 12 dell’08.02.2018).
VII.3.2. Ora, con l’istituzione del Corpo/Servizio di Polizia municipale si dà, pertanto, vita ad una entità organizzativa unitaria completamente autonoma da altre strutture organizzative del comune (un Corpo, appunto, a somiglianza del corpi militari dai quali mutuano anche i gradi gerarchici), costituita dall’aggregazione di tutti i dipendenti comunali che esplicano, a vari livelli, i servizi di polizia locale.
VII.3.2.1. Al vertice di questa aggregazione unitaria è posto un Comandante (anch’egli vigile urbano) che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco (cfr. Cons. di St., sez. V, 04.09.2000 n. 4663).
Ciò è tanto vero che la legge statale da ultimo richiamata –L. 65/1986– contempla altresì uno status giuridico ed economico differenziato rispetto a quello degli altri dipendenti comunali (art. 7, primo e terzo comma, della legge n. 65 del 1986), sia pure nel rispetto dei principi generali contenuti nella legge quadro sul pubblico impiego. Invero, a tutti gli addetti della polizia municipale sono attribuite le funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica sicurezza con riconoscimento della relativa qualità (art. 5 della legge n. 65 del 1986).
L'autonomia del Corpo di Polizia Municipale è connaturale alla specificità delle funzioni del personale che vi appartiene, stante l'attribuzione in via ordinaria a tutti gli addetti della polizia municipale delle funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica sicurezza con riconoscimento della relativa qualità, per l'art. 5 della legge n. 65 del 1986” (Cons. di St., sez. V, 16.01.2015, n. 75).
Ed invero, “
Le competenze attribuite dall'ordinamento (artt. 3 e 5 della legge 07.03.1986, n. 65) al corpo di polizia municipale consistono, in misura assolutamente prevalente, in compiti di prevenzione e vigilanza sull'osservanza di norme e di regolamento nei settori di competenza comunale; di accertamento e di contestazione delle eventuali infrazioni; di adozione di provvedimenti sanzionatori. A queste attività di aggiunge l'espletamento di funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e, in determinate circostanze, di pubblica sicurezza” (Cons. di Stato, sez. III 10.07.2013, n. 3711).
VII.3.3. Lo stesso ordinamento regionale configura parimenti il Corpo/Servizio di Polizia municipale come entità organizzativa distinta ed autonoma dalle altre strutture dell’apparato comunale in ragione della specifica caratterizzazione delle funzioni demandate al personale che vi appartiene, in via ordinaria.
VII.3.4. Le richiamate disposizioni regolamentari confermano l’impossibilità di determinare l’inserimento del Corpo/Servizio di Polizia Locale quale struttura intermedia in una più ampia articolazione burocratica, vale a dire, nella specie, in un Settore amministrativo, rispetto al quale non presenta caratteristiche di omogeneità, inficiando nella specie l’autonomia delle funzioni dello stesso servizio di Polizia municipale. Irrilevante è la circostanza che tale modulo organizzativo sia stato già utilizzato in passato.
VII.4. Dalla richiamata normativa discende allora che
nell'ambito dell'organizzazione comunale deve essere sempre garantita la totale autonomia del Corpo di Polizia municipale specie per quanto concerne le competenze di cui all'art. 9 della l. n. 65 del 1986, ed è anche per tali ragioni che, la Polizia municipale, specie ove eretta in Corpo, non può essere considerata in termini di struttura intermedia (nella specie come Sezione) di un compendio burocratico più ampio (Settore amministrativo) né, per tale incardinamento, essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo cui è affidata la responsabilità di tale più ampia struttura (TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 22.03.2011, n. 191, Cons. di St., sez. V, 27.08.2012, n. 4605; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 30.10.2017, n. 309).
VII.4.1. Quanto alla attribuzione delle funzioni di Comandante del Corpo:
   1) posto che, come detto, “
il servizio di Polizia municipale costituisce funzionalmente un'entità organizzativa unitaria e autonoma dalle altre strutture organizzative del Comune, derivante dall'aggregazione di tutti dipendenti comunali che esplicano a vari livelli servizi di polizia locale, con al vertice il Comandante che ha la responsabilità e ne risponde direttamente al Sindaco”;
   2)
l'attribuzione di funzioni gestionali e direzionali del Corpo/Servizio di Polizia municipale ad altre figure professionali dell'Ente appare violare l'intero assetto dei rapporti Comandante/Sindaco desumibile dall'impianto della normativa di cui alle leggi n. 65/1986 e L.R. n. 17 del 1990, e si pone in contrasto con l'autonomia del servizio di Polizia municipale rispetto gli altri servizi dell'amministrazione comunale (cfr. in tal senso, TAR Sicilia-Catania, sez. II, 08.11.2013, n. 2709)” (TAR Sicilia, Catania, sez. II, 21.07.2017, n. 1836);
   3) “
l'art. 7, 3° comma, l. 07.03.1986 n. 65 dispone che il Corpo di Polizia municipale si articola nel responsabile del Corpo (Comandante), negli addetti al coordinamento e al controllo ed infine negli operatori (vigili)” (Cons. di St., sez. V, 17.09.1992, n. 813).
VII.5. Da quanto esposto, deriva, allora, l’illegittimità delle deliberazioni giuntali impugnate poiché attraverso di esse il Corpo di Polizia Locale del Comune di Giugliano in Campania è stato, di fatto, scisso in quattro posizioni organizzative, assoggettate alla direzione di un dirigente, privo della qualifica di Comandante di Polizia Municipale e comunque, se pur nominato tale, non necessariamente appartenente alla Polizia municipale.
VII.6. In definitiva, “
secondo quanto dispone l'art. 9 L. n. 65/1986, il Comandante della Polizia municipale è responsabile verso il Sindaco, il quale a sua volta è l'organo titolare delle funzioni di Polizia locale che competono al Comune (artt. 1 e 2); conseguentemente porre il Comandante della Polizia municipale alle dipendenze di un funzionario del Comune equivale a trasferire a quest'ultimo funzioni di governo che per legge competono al Sindaco” (Cons. di Stato, sez. V, 17.02.2006, n. 616).
In riferimento alle competenze previste dall'art. 9, L. n. 65 del 1986, al Corpo di Polizia municipale deve essere sempre garantita, nel contesto dell'organizzazione comunale, la piena autonomia; ciò considerato, per quanto concerne le succitate competenze, non è ammissibile che l'organo di vertice del Corpo di Polizia municipale -Comandante- debba dipendere direttamente da un dirigente e non, invece, dal Sindaco, o da un suo delegato politico, come tassativamente previsto dalla L. n. 65 del 1996, non interamente derogata dalla successiva privatizzazione del rapporto di impiego pubblico” (TAR Puglia, Bari, sez. II, 12.03.2004, n. 1288).
Infatti, “
il responsabile della Polizia municipale deve rispondere direttamente al Sindaco dell'operato del Corpo e dei singoli addetti, evidentemente in diretta connessione con il ruolo e le funzioni di ufficiale di governo che l'ordinamento riconosce al Sindaco, oltre alle funzioni di rappresentante e organo di vertice del comune quale ente pubblico. Pertanto ogni interposizione di altro funzionario fra il Comandante di Polizia municipale ed il Sindaco è da ritenersi illegittima, siccome in contrasto con l'art. 9 l. 07.03.1986 n. 65 (Legge quadro sull'ordinamento della polizia municipale)” (TAR Veneto, sez. II, 30.05.1997, n. 915).
VII.7. E’ irrilevante, a tali fini, che la Polizia Municipale del Comune di Giugliano abbia sempre operato quale Servizio, collocato in Settori (autonomi o accorpati), non essendo mai stato costituito formalmente il Corpo che l’art. 7 della legge n. 65/1986 prevede come mera facoltà, dovendo essere comunque assicurata la predetta autonomia funzionale e la diretta dipendenza del Comandante, appartenente, quale organo di vertice, alla stessa P.M., dal Sindaco, senza alcuna altra intermediazione.
VII.8. L’esigenza della rotazione degli incarichi dirigenziali amministrativi, così come previsto dal Piano triennale per la prevenzione della Corruzione 2017-2019, non comprende, pertanto, anche la figura di vertice della Polizia municipale nel senso che tale posizione organizzativa deve essere sempre attribuita a dipendenti che, in possesso dei richiesti sopra citati requisiti, per lo status rivestito, siano comunque appartenenti alla categoria di riferimento.
VII.9. Conclusivamente,
gli atti deliberativi impugnati, dunque, nella parte in cui hanno operato l’accorpamento del Settore Polizia Municipale in altra entità organizzativa di dimensioni più ampie sottoposta, di norma, alla direzione di un dirigente amministrativo, senza altra specificazione, si pongono in aperto contrasto, oltre che con la legge quadro nazionale e regionale, con lo specifico regolamento adottato dal Consiglio Comunale in subjecta materia, quale organo titolare -in via esclusiva- delle competenze in materia di organizzazione del Corpo di Polizia Municipale (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 30.10.2017, n. 309).
VII.10.
Non appare, altresì, ultroneo osservare, al solo mero fine del riconoscimento di un interesse a ricorrere attuale e concreto avverso gli atti di macro organizzazione di parte ricorrente, che “la violazione, da parte delle Amministrazioni datrici di lavoro, dell'obbligo di adibire il prestatore di lavoro alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti (art. 52, comma primo, d.lgs. n. 165 del 2001), va accertata, in concreto, con riferimento alle modificazioni dei contenuti professionali delle attribuzioni della qualifica, non essendo sufficiente il riscontro dell'alterazione dei precedenti assetti organizzativi, ancorché non conformi a legge (Cass. civ. Sez. lavoro, 09/05/2006, n. 10628 (rv. 589013).
VII.10.1. Nella specie, appare evidente la dequalificazione professionale subita dalla ricorrente, assunta in qualità di Comandante della Polizia municipale, una volta approfondita l'indagine sulle mansioni effettivamente svolte e avuto riguardo alla sottrazione delle specifiche competenze di cui all'art. 9, rubricato Comandante del Corpo di polizia municipale, della legge 07.03.1986, n. 65 nell’ambito della nuova organizzazione.
VII.10.2. L’illegittimità dei moduli organizzativi adottati dal Comune ha, pertanto, rilevanza in quanto si traduce in assegnazioni di mansioni diverse da quelle proprie della qualifica rivestita e non equivalenti.
VIII. Ciò posto, il ricorso è, quindi, in parte qua, meritevole di accoglimento, atteso che, assorbite le ulteriori censure dedotte, gli atti di macro-organizzazione impugnati, nella parte in cui l’Amministrazione resistente ha operato l’accorpamento del Settore Polizia Municipale in altra entità organizzativa di dimensioni più ampie, macroarea, sottoposta alla direzione di un Dirigente Amministrativo, non appartenente al Corpo, si pongono in contrasto sia con le disposizioni legislative di cui alla legge-quadro sull’ordinamento della Polizia Municipale (l. 07.03.1986, n. 65, artt. 5, 7 e 8) e alla legge regionale n. 12/2003 (art. 11) che con le specifiche norme regolamentari adottate dal Consiglio Comunale (art. 2).
IX. In considerazione di tali rilievi, il gravame proposto, va conclusivamente, in parte, assorbite le ulteriori censure dedotte, accolto, con conseguente annullamento del provvedimenti di macro-organizzazione e, in parte, dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione quanto ai decreti di conferimento degli incarichi.
IX.1.
Declinata, in parte qua, la giurisdizione di questo giudice amministrativo, è consentito alla parte, ai sensi dell'art. 11, comma 2, c.p.a., proseguire il giudizio avanti giudice ordinario, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza, con salvezza degli effetti già prodottisi all'atto della proposizione dell'azione avanti a questo giudice, secondo quanto stabilito dalla norma citata (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 18.03.2019 n. 1470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIÈ legittimo che gli alberghi paghino più Tari delle abitazioni.
È legittima la delibera comunale che fissa per gli esercizi alberghieri una tariffa per la tassa rifiuti notevolmente superiore a quella applicabile alle civili abitazioni. La maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto a una abitazione costituisce un dato di comune esperienza.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 15.03.2019 n. 7446.
Per i giudici di piazza Cavour, deve essere applicata una tariffa «per la categoria degli esercizi alberghieri notevolmente superiore a quella applicata alle civili abitazioni». Alla tesi sostenuta dalla Suprema corte, però, i giudici di merito non si sono quasi mai uniformati. Un'eccezione è rappresentata dalla Commissione tributaria regionale di Palermo (sentenza 2351/2017), la quale ha affermato che è legittima la delibera comunale che fissa per gli esercizi alberghieri una tariffa superiore a quella delle abitazioni.
Con la sentenza 16972/2015 la Cassazione ha chiarito, inoltre, che va differenziata anche la tariffa per l'attività di B&B svolta in una civile abitazione, rispetto alla tariffa abitativa ordinaria. I giudici di legittimità hanno sempre sostenuto che i comuni hanno il potere-dovere di deliberare tariffe più elevate per gli alberghi rispetto a quelle delle abitazioni (sentenza 302/2010).
Peraltro, l'art. 68 del decreto legislativo 507/1993 non imponeva ai comuni di inserire gli immobili adibiti ad attività alberghiere nella stessa categoria di quelli utilizzati come abitazioni, poiché non manifestano la stessa potenzialità di produzione di rifiuti.
Così come non sono inseriti nella stessa categoria per la Tari. L'amministrazione comunale può differenziare le tariffe in relazione alla maggiore o minore produttività dei rifiuti delle varie attività soggette al prelievo. In senso contrario si è espressa, per esempio, la commissione tributaria provinciale di Taranto (sentenza 1791/2016), poiché non c'è nulla che giustifichi un diverso trattamento fiscale tra le due categorie di immobili.
Per la commissione provinciale, che richiama una pronuncia della commissione regionale della Puglia, «il dato di comune esperienza supposto dalla Cassazione è, in realtà, opinabile», in quanto il legislatore ha voluto assimilare gli alberghi alle abitazioni (articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).

TRIBUTISeparazioni irrilevanti.
Non ha rilievo, ai fini dell'agevolazione Ici sull'abitazione principale, la circostanza della separazione di fatto tra i coniugi, formalizzatasi in separazione legale soltanto successivamente.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 15.03.2019 n. 7436.
Nel caso di specie il contribuente impugnava due avvisi di accertamento Ici, relativi agli anni 2008 e 2009. La Commissione tributaria provinciale rigettava i ricorsi, rilevando che dell'agevolazione prevista per l'abitazione principale si era già avvalsa la moglie del ricorrente, residente in altro comune e che, nei periodi di imposta oggetto di accertamento, non vi era separazione legale tra i coniugi, intervenuta solo nel 2012. Pertanto, il nucleo familiare, al momento ancora sussistente, non poteva godere della duplice esenzione.
Avverso tale sentenza il contribuente proponeva appello, accolto dalla Commissione tributaria regionale. Il Comune ricorreva infine per cassazione. Secondo la Suprema corte il ricorso era fondato. In tema di Ici, infatti, ai fini della spettanza della detrazione e dell' applicazione dell'aliquota ridotta prevista per le abitazioni principali, un'unità immobiliare può essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisce la dimora abituale non soltanto del ricorrente, ma anche dei suoi familiari.
E nella specie era pacifico che la residenza della famiglia era nell'immobile sito nell' altro comune, presso cui i coniugi, ex art. 144 c.c., erano tenuti alla coabitazione (fino alla separazione legale), tanto che del relativo beneficio fiscale la moglie del ricorrente aveva incontestabilmente usufruito.
In sostanza, la Ctr aveva erroneamente attribuito all'addotta circostanza della separazione di fatto tra i coniugi la stessa valenza della separazione legale, erroneamente attribuendo il vantaggio fiscale, di natura eccezionale, dell'esenzione per l'abitazione principale (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2019).

APPALTIImpugnazione valida dopo la verifica del possesso dei requisiti di gara.
La necessità di accelerare al massimo la definizione dei contenziosi in materia di appalti ha comportato che l'articolo 32 del Dlgs 50/2016 abbia del tutto eliminato la tradizionale categoria della «aggiudicazione provvisoria», ma distingua solo tra la «proposta di aggiudicazione», adottata dal seggio di gara, e la aggiudicazione tout court, che è il provvedimento conclusivo e che diventa efficace dopo la verifica del possesso dei requisiti.

Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 15.03.2019 n. 1710.
Il caso
Il giudizio verte sulla sentenza con cui il Tar Lazio ha dichiarato l'irricevibilità di un ricorso proposto avverso una comunicazione di avvenuta aggiudicazione dell'appalto del servizio di trasporto scolastico, appellata perché il ricorrente avrebbe dovuto proporre ricorso non contro il provvedimento di «aggiudicazione definitiva» ma contro il precedente provvedimento di «aggiudicazione senza efficacia».
I giudici avrebbero così forzato l'articolo 76, comma 5, del Codice degli appalti che, secondo la sentenza impugnata, avrebbe eliminato il duplice passaggio dell'aggiudicazione provvisoria e di quella definitiva, attribuendo valore determinante alla prima, obbligando quindi il ricorrente a impugnare la prima con la conseguenza di considerare fuori termine l'avvenuta impugnazione della seconda.
Le categorie
Tesi che la quinta sezione del Consiglio di Stato non ha avallato, sull'onda dell'evidenza che la necessità di accelerare al massimo la definizione dei contenziosi in materia di appalti e di certezza, ha comportato che l'articolo 32 del Codice abbia del tutto eliminato la tradizionale categoria della «aggiudicazione provvisoria» e distingua solo tra:
   • «proposta di aggiudicazione», adottata dal seggio di gara secondo l'articolo 32, comma 5 che non costituisce provvedimento impugnabile;
   • «aggiudicazione» tout court che è il provvedimento conclusivo di aggiudicazione che diventa efficace dopo la verifica del possesso dei requisiti previsti dall'articolo 33, comma 1, del Codice e che, da un lato, fa sorgere in capo all'aggiudicatario un'aspettativa alla stipulazione del contratto di appalto subordinata all'esito positivo della verifica del possesso dei requisiti, dall'altro priva gli altri partecipanti del «bene della vita» rappresentato dall'aggiudicazione della gara.
I termini per l'impugnativa
In questo contesto, il termine per l'impugnazione dell'aggiudicazione da parte dei concorrenti non aggiudicatari inizia a decorrere dal momento in cui essi hanno ricevuto la comunicazione prevista d all'articolo 76, comma 5, lettera a), del Codice e non dal momento in cui la stazione appaltante abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di gara in capo all'aggiudicatario.
Ricordano, infine, i giudici di Palazzo Spada che l'articolo 120, comma 2-bis, del Cpa espressamente collega il decorso del termine per impugnare i provvedimenti di ammissione e di esclusione alle procedure di gara alla pubblicazione dei relativi verbali sul profilo del committente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.03.2019).
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MASSIMA
In linea generale con riferimento al primo profilo si deve ricordare che,
come è noto, sulla concorde spinta delle stazioni appaltanti e della associazioni delle imprese e delle maestranze, la necessità di accelerare al massimo la definizione dei contenziosi in materia di appalti e di certezza, ha comportato che l'art. 32 del d.lgs. n. 50 del 2016 –al fine di assicurare con la massima celerità la certezza delle situazioni giuridiche ed imprenditoriali– ha del tutto eliminato la tradizionale categoria della “aggiudicazione provvisoria”, ma distingue solo tra:
   - la “proposta di aggiudicazione”, che è quella adottata dal seggio di gara, ai sensi dell'art. 32, co. 5, e che ai sensi dell’art. 120, co. 2-bis, ultimo periodo, del codice del processo amministrativo non costituisce provvedimento impugnabile;
   - la “aggiudicazionetout court che è il provvedimento conclusivo di aggiudicazione e che diventa efficace dopo la verifica del possesso dei requisiti di cui all’art. 33, co. 1, del cit. d.lgs. n. 50 della predetta proposta da parte della Stazione Appaltante.

In tale sistematica,
la verifica dei requisiti di partecipazione è dunque una mera condizione di efficacia dell'aggiudicazione e non di validità in quanto attiene sotto il profilo procedimentale alla “fase integrativa dell’efficacia” di un provvedimento esistente ed immediatamente lesivo, la cui efficacia è sottoposta alla condizione della verifica della proposta di aggiudicazione di cui al cit. art. 33 circa il corretto espletamento delle operazioni di gara e la congruità tecnica ed economica della relativa offerta.
Anche alla luce dei precedenti della Sezione (cfr. infra multis: Cons. Stato sez. V, 01.08.2018, n. 4765), quindi, del tutto esattamente il TAR ha eccepito l’inammissibilità dell’appello perché il termine per impugnare l’aggiudicazione ex art. 32, co. 5, del d.lgs. n. 50 ed ex art. 120, co. 2-bis, c.p.a. decorre dalla comunicazione della stessa.
Il termine per l'impugnazione dell'aggiudicazione da parte dei concorrenti non aggiudicatari inizia a decorrere dal momento in cui essi hanno ricevuto la comunicazione di cui all'art. 76, co. 5, lett. a), d.lgs. n. 50/2016, e non dal momento, eventualmente successivo, in cui la Stazione Appaltante abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di gara in capo all'aggiudicatario.
L'aggiudicazione come sopra definita, dato che da un lato fa sorgere in capo all'aggiudicatario un'aspettativa alla stipulazione del contratto di appalto ex lege subordinata all'esito positivo della verifica del possesso dei requisiti, dall’altro produce nei confronti degli altri partecipanti alla gara un effetto immediato, consistente nella privazione definitiva, salvo interventi in autotutela della Stazione Appaltante o altre vicende comunque non prevedibili né controllabili, del “bene della vita” rappresentato dall'aggiudicazione della gara.
Nel caso particolare, dunque, come risulta espressamente dal suo contenuto letterale, l’Amministrazione con la determina n. 154 del 15.09.2017:
   - aveva provveduto all’approvazione delle operazioni di gara;
   - aveva aggiudicato alla Soc. Ci.To. spa con un punteggio totale di 86.01 (punteggio offerta tecnica 49.48 + punteggio offerta economica 36.53) e offerto un prezzo di € 125.941,93;
   -aveva precisato che l'aggiudicazione definitiva sarebbe divenuta efficace dopo la verifica dei requisiti e che il contratto non poteva essere sottoscritto prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima comunicazione del provvedimento di aggiudicazione.
Nella fattispecie in esame la “aggiudicazione” della gara era stata trasmessa con PEC del 21.09.2017 a tutte le ditte che avevano partecipato alla gara con espresso rinvio alla relativa determina pubblicata, come prescritto, nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito web dell’Amministrazione Comunale cui erano allegati tutti i verbali.
A tale riguardo si ricorda che
l’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. espressamente collega il decorso del termine per impugnare i provvedimenti di ammissione e di esclusione alle procedure di gara alla pubblicazione dei relativi verbali sul profilo del committente, ai sensi dell’art. 29, co. 1, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (cfr. Cons. Stato, sez. III, 20.03.2018, n. 1765).
In definitiva dunque in base alla normativa vigente, il termine decadenziale doveva essere computato a partire dalla comunicazione PEC del 21.09.2017.
In tale situazione appare dunque inesatto che la prima comunicazione fosse stata comunque inidonea ad integrare l’effettiva conoscenza dell’appellante dei punteggi assegnati dalla Commissione di gara in ordine ai vari elementi di comparazione tra le due offerte, in quanto sia la determina che i relativi verbali erano stati ritualmente pubblicati sul sito del Comune in data 17.09.2017 dove erano (e sono tutt’ora) liberamente consultabili.
In relazioni alle considerazioni che precedono, è infine comunque del tutto inconferente l’inserzione nella seconda comunicazione, della ricorribilità “avverso il provvedimento di aggiudicazione avanti al TAR di Latina”.
In linea di principio si osserva che
la seconda comunicazione non è astrattamente inutile, ma è diretta ad assicurare la possibilità che, successivamente alla verifica dell’aggiudicazione, il ricorrente che abbia già impugnato l’aggiudicazione faccia luogo all’impugnazione della mancata esclusione dell’aggiudicatario, necessaria a pena di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse ai sensi dell’art. 35, co. 1, lett. c), c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.02.2019, n. 815; Cons. Stato, sez. V, 03.04. 2018, n. 2039; id., 28.03.2018, n. 1935; id., 23.12.2016, n. 5445; id., 25.02.2016, n. 754; id., 01.04.2015, n. 1714; id., 23.04.2014, n. 2063; id., 19.07.2013, n. 3940).
Nel caso particolare, poi, si deve rilevare che le eventuali erronee indicazioni contenute nel provvedimento non possono consentire di porre nel nulla l’intervenuto superamento dei termini decadenziali per l’introduzione del ricorso anche solo ai fini dell’errore scusabile, per la fondamentale considerazione della condizione di soggetto professionale degli operatori economici che concorrono alle gare.
In conclusione, il motivo è complessivamente infondato e deve essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Individuazione della data di ultimazione dei lavori - Onere di allegare gli elementi probatori - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Riqualificazione del delitto paesaggistico in contravvenzione Art. 181, d.Lgs. n. 42/2004.
Vale anche in materia edilizia il principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, pertanto, grava sull'imputato che voglia giovarsi della causa estintiva della prescrizione, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione ed in particolare, trattandosi di reato edilizio, la data di esecuzione dell'opera incriminata.
Tale onere probatorio, peraltro, non può ritenersi assolto attraverso fonti dichiarative -peraltro, come nel caso di specie, non completamente affidabili, tenuto conto della "confusione" dimostrata dal teste nella stessa retrodatazione dell'epoca di realizzazione delle opere- ma presuppone la dimostrazione attraverso elementi di prova documentali (fatture di acquisto di materiali edili; rilievi fotografici attestanti lo stato dei luoghi alla data della asserita retrodatazione; etc.) che consentano di supportare la prospettazione difensiva in ordine all'epoca di consumazione del reato in data antecedente a quella risultante dalla contestazione mossa dal PM.

...
Costruzione abusiva - Violazioni in materia edilizia ed antisismica - Sequestro - Prosecuzione dei lavori oltre tale data - Procedimento logico - deduttivo.
In tema di costruzione abusiva, qualora l'imputato adduca che l'opera sia stata eseguita in una specifica data ed il giudice non sia in grado -in base ad elementi specifici- di stabilire la prosecuzione dei lavori oltre tale data, l'affermazione, in virtù del principio del "favor rei", non può essere disattesa. Ne deriva che il reato deve essere dichiarato prescritto, quando sia trascorso il tempo massimo all'uopo necessario.
Nella specie, diversamente, i giudici territoriali hanno individuato una serie di elementi che consentivano, attraverso un procedimento logico-deduttivo corretto e non di valutazioni congetturali, di ritenere che l'epoca di consumazione coincidesse con quella del sequestro, considerato che i lavori si presentavano di recente fattura
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.03.2019 n. 11463 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTINella multiservizi incarico fiduciario all’amministratore.
L'incarico di amministratore di un'azienda speciale costituita per la gestione di servizi pubblici locali è di natura fiduciaria e, per essere revocato, non richiede una particolare motivazione.

Il TAR Campania-Napoli, sezione I - con la sentenza 11.03.2019 n. 1379 ha analizzato le condizioni che possono portare un sindaco a revocare l'incarico di presidente di un'azienda speciale, istituita in base all'articolo 114 del Dlgs n. 267/2000, a fronte dell'inosservanza delle direttive conferite a tale soggetto dall'amministrazione.
Nel caso preso in esame, uno dei punti più critici era la mancata predisposizione del piano economico-finanziario del principale servizio affidato all'azienda da parte dell'organo amministrativo della stessa, con rilevazione di un comportamento omissivo che impediva allo stesso Comune di quantificare le somme da trasferire all'organismo partecipato.
La revoca
A seguito di questo e di altri comportamenti valutati come ostruzionistici, il Sindaco ha revocato l'incarico al presidente dell'azienda speciale: rispetto a tale provvedimento il Tar campano ha chiarito come la questione inerisca la revoca di un incarico di natura fiduciaria, pertanto rimessa all'ampia valutazione discrezionale dell'amministrazione comunale, per il quale l'unico criterio di riferimento è costituito da quello politico-amministrativo riferibile all'organo di vertice.
La sentenza evidenzia, di conseguenza, come non sia richiesta per la revoca -così come per l'affidamento dell'incarico- alcuna particolare motivazione, venendo in rilievo valutazioni attinenti alla rilevanza di fattori non normativamente predeterminati.
La fonte regolamentare del potere di revoca si rinviene, peraltro, nelle disposizioni dello statuto dell'azienda speciale (che, nel caso specifico, disciplinava dettagliatamente il percorso) e il venir meno del particolare rapporto giustifica l'adozione del provvedimento di revoca, senza che la stessa assuma connotazione sanzionatoria (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2019).
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SENTENZA
1. Preliminarmente, va affermata la giurisdizione di questo TAR alla luce dell’indirizzo espresso dal Consiglio di Stato (Sez. V, n. 4435/2017) secondo cui il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 24591/2016 circa la devoluzione alla giurisdizione ordinaria delle controversie concernenti la nomina e la revoca di amministratori di società partecipate da enti pubblici non trova applicazione nel caso di aziende speciali ex art. 114 del D.Lgs. n. 267/2000 (Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali - Tuel).
Al riguardo, si è infatti rilevato che l’azienda speciale costituisce uno strumento di gestione di servizi pubblici locali ex art. 112 del Tuel -ed in particolare di quelli a rilevanza economica, a differenza delle istituzioni, deputate allo svolgimento di “servizi sociali” ai sensi del comma 2 dell’art. 114- avente natura pubblicistica e costituente, quindi, articolazione dell’amministrazione.
L’azienda speciale è infatti strettamente compenetrata all’ente locale. La personalità giuridica e l’autonomia imprenditoriale per essa previste dall’ordinamento giuridico sono funzionali ad un organizzazione di mezzi deputata allo svolgimento di attività economiche e non già di funzioni amministrative, tipiche degli enti pubblici. Ma essa è pur sempre un’amministrazione parallela, e cioè una struttura inquadrata organicamente nella più ampia organizzazione pubblicistica dell’ente pubblico. Infatti, oltre a deliberarne l’istituzione e a provvedere alla relativa dotazione di mezzi, quest’ultimo esercita sull’azienda speciale poteri di direzione e di controllo (analogo a quello sulle strutture di stampo “burocratico”, per usare una terminologia affermatasi con riguardo alle società in house) attraverso strumenti tipici del diritto amministrativo, ed in particolare nelle forme previste dalle disposizione sopra esaminate dell’art. 114 t.u.e.l. Si tratta dunque di un modello alternativo all’azionariato pubblico, benché finalizzato anch’esso alla gestione di servizi pubblici di rilevanza economica. In particolare, rispetto all’azienda speciale la partecipazione al capitale di società per azioni si contraddistingue infatti per l’utilizzo di uno strumento proprio del diritto civile. Ed è proprio sulla base della natura di tale strumento –benché esso venga poi “piegato” a finalità di pubblico interesse- che la Cassazione riconduce alla giurisdizione ordinaria le controversie ad esso relative. Per le stesse ragioni affermate dalla Suprema Corte nell’ambito dell’indirizzo richiamato dal giudice di primo grado, nel caso di specie deve pertanto essere affermata la giurisdizione amministrativa” (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 4435/2017).
...
5. I profili di illegittimità sono complessivamente infondati per le ragioni di seguito illustrate.
Si controverte della revoca di un incarico di natura fiduciaria rimessa all’ampia valutazione discrezionale dell’amministrazione comunale, per il quale l’unico criterio di riferimento è costituito da quello politico-amministrativo riferibile all’organo di vertice; di conseguenza, non è richiesta per la revoca -così come per l'affidamento dell'incarico- alcuna particolare motivazione, venendo in rilievo valutazioni attinenti alla rilevanza di fattori non normativamente predeterminati.
A conferma di ciò depone la previsione contenuta nell’art. 7 dello Statuto dell’Azienda ABC secondo cui “I membri del Consiglio di Amministrazione sono nominati in considerazione del rapporto fiduciario esistente tra l’amministrazione comunale e gli amministratori dell’azienda, che si articola in funzione degli obiettivi per i quali ABC è stata istituita. Il venire meno di tale rapporto fiduciario integra gli estremi della giusta causa di cui all’art. 2383, terzo comma, del codice civile, in quanto applicabile”.
Al riguardo, non vi è spazio per l'applicazione dell'istituto partecipativo di cui all'art. 7 della L. n. 241/1990, il cui scopo è quello di consentire l'apporto procedimentale da parte del destinatario dell'atto finale al fine di condizionarne il relativo contenuto. Ed invero, le prerogative della partecipazione possono essere invocate quando l'ordinamento prende in qualche modo in considerazione gli interessi privati, in quanto ritenuti idonei ad incidere sull'esito finale per il migliore perseguimento dell'interesse pubblico, mentre tale partecipazione diventa indifferente in un contesto normativo nel quale -come nel caso in trattazione- la valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo agli organi deliberativi dell'amministrazione, ai quali compete in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3818/2013, n. 280/2009, n. 209/2007; TAR Campania, Napoli, Sez. I, n. 3714/2018).
Quanto alla fonte regolamentare del potere di revoca, esso trova il proprio fondamento nell’art. 8, comma 4, dello Statuto di ABC secondo cui “Il Presidente e i membri del Consiglio di Amministrazione possono essere revocati dal Sindaco, anche disgiuntamente, quando ricorrano le circostanze previste dalle leggi vigenti, per l’insorgere di cause di incompatibilità o per il venir meno del rapporto fiduciario, in conseguenza dei comportamenti assunti, senza che tale revoca rientri nelle fattispecie per le quali sussiste il diritto dei componenti revocati al risarcimento di cui al citato art. 2383, terzo comma, del codice civile e senza che dalla stessa revoca discenda per tali componenti ogni e qualsivoglia ulteriore diritto connesso, conseguente o collegato alla stessa”.
Trattandosi di incarico di natura fiduciaria, il venir meno di tale rapporto, giustifica l’adozione del provvedimento di revoca, senza che la stessa assuma quindi connotazione sanzionatoria.

ENTI LOCALI - VARIIl cane può scendere in spiaggia. Il TAR Lazio annulla un'ordinanza sindacale restrittiva.
Il cane può scendere in spiaggia: annullata l'ordinanza del sindaco di una cittadina di mare che vietava ai possessori di cani di portarli con sé.
A giudizio del TAR Lazio-Latina (sentenza 11.03.2019 n. 176) l'amministrazione comunale avrebbe dovuto vagliare regole alternative al divieto generalizzato poiché il principio di proporzionalità impone alla stessa di optare, tra più possibili scelte volte al raggiungimento del pubblico interesse, per quella meno gravosa per i cittadini coinvolti: bisogna insomma evitare «inutili sacrifici». A ben vedere dunque la sentenza coniuga il principio costituzionale di uguaglianza in una prospettiva nuova non più solo «umana».
Secondo il Tar il provvedimento impugnato da una associazione per la tutela giuridica dei diritti della natura e degli animali è frutto della immotivata scelta di vietare l'ingresso agli animali sulle spiagge, risultando al contempo irragionevole e illogico, oltre che irrazionale e sproporzionato, per di più alla luce del potere dei comuni di individuare tratti di arenile da destinare alla specifica accoglienza di animali da compagnia.
In altre parole l'amministrazione comunale avrebbe dovuto valutare la possibilità di perseguire le finalità pubbliche di decoro, igiene e sicurezza mediante regole alternative al divieto di frequentazione delle spiagge, ad esempio valutando se limitare l'accesso dei cani in determinati orari, con l'individuazione delle aree viceversa interdette. L'assenza di motivazione nel provvedimento non consente invece di stimare se il divieto sia riferibile a ragioni riconducibili all'igiene dei luoghi, ovvero alla sicurezza di chi frequenta le spiagge.
La motivazione del provvedimento avrebbe dovuto inoltre contenere la giustificazione delle misure adottate, idonea a verificare anche il rispetto del principio di ragionevolezza, poiché l'autorità comunale avrebbe potuto individuare le misure comportamentali ritenute più adatte, piuttosto che porre un divieto assoluto di accesso agli arenili, in tal modo generando una arbitraria sperequazione tra i cittadini, possessori e non di cani
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
La associazione ricorrente deduce che l’ordinanza gravata –in parte qua– irragionevolmente impone ai conduttori di animali il generalizzato divieto di accesso alle spiagge libere, in assenza di una motivazione che giustifichi tale scelta e senza specificare quali cautele comportamentali siano necessarie per la tutela dell’igiene delle spiagge, ovvero della incolumità dei bagnanti.
Deduce altresì la manifesta irragionevolezza e la violazione del principio di proporzionalità, circa il rapporto tra le esigenze pubbliche da soddisfare e l’incidenza sulle sfere giuridiche dei privati.
La totale assenza di motivazione, infatti, non consentirebbe di apprezzare se il divieto sia riferibile a ragioni riconducibili all’igiene dei luoghi ovvero alla sicurezza di chi frequenta le spiagge.
La motivazione del provvedimento avrebbe dovuto inoltre contenere una specifica giustificazione delle misure adottate, idonea a verificare anche il rispetto del principio di proporzionalità, poiché l’Autorità comunale avrebbe dovuto individuare le misure comportamentali ritenute più adeguate, piuttosto che porre un divieto assoluto di accesso alle spiagge.
La ricorrente evidenzia, altresì, come l’ordinanza sarebbe in contrasto con i principi espressi in sede regionale ed in particolare dell’art. 16, co. 8, del Reg. regionale.
Tali censure meritano accoglimento.
Il provvedimento impugnato è illegittimo per difetto di motivazione, oltre che per violazione del principio di proporzionalità.
Sotto tale ultimo profilo va evidenziato che il principio di proporzionalità impone alla pubblica amministrazione di optare, tra più possibili scelte ugualmente idonee al raggiungimento del pubblico interesse, per quella meno gravosa per i destinatari incisi dal provvedimento, onde evitare agli stessi ‘inutili’ sacrifici.
La scelta di vietare l’ingresso agli animali sulle spiagge destinate alla libera balneazione, risulta irragionevole ed illogica, oltre che irrazionale e sproporzionata, anche alla luce delle viste indicazioni regionali che attribuiscono ai comuni il potere di individuare, in sede di predisposizione del PUA, tratti di arenile da destinare all’accoglienza degli animali da compagnia.

In particolare come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza in vicende del tutto similari,
l’amministrazione avrebbe dovuto valutare la possibilità di perseguire le finalità pubbliche del decoro, dell’igiene e della sicurezza mediante regole alternative al divieto assoluto di frequentazione delle spiagge, ad esempio valutando se limitare l’accesso in determinati orari, o individuare aree adibite anche all’accesso degli animali, con l’individuazione delle aree viceversa interdette al loro accesso (cfr. Tar Calabria, sez. Reggio Calabria, sent. n. 225/2014).
Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche
deve quindi ritenersi che il divieto -che non vale in assoluto per i gestori degli stabilimenti balneari a pagamento, che a loro discrezione …abbiano creato delle apposite zone di accesso per gli animali- non sia sufficientemente controbilanciato da tale eventualità, non solo per la circostanza di creare una ingiustificata sperequazione tra cittadini ma anche in quanto affidato, come detto, alla mera facoltà del singolo concessionario.
Per le ragioni si qui esposte, il ricorso è fondato e va accolto, sicché il provvedimento in esame va annullato, nei limiti oggetto della impugnazione.

TRIBUTIL’inquilino può pagare l’Imu. Sì agli accordi. Contestazione al titolare dell’immobile. Ai raggi X la sentenza n. 6882/2019 delle Sezioni unite della Cassazione sugli obblighi tributari.
Il titolare di un immobile può sottoscrivere un accordo con l'inquilino, con il quale quest'ultimo si impegna a pagare Ici e Imu. La clausola contrattuale non è illegittima e serve a integrare le somme dovute per il canone di locazione.
Questo principio innovativo è stato affermato dalle Sezioni unite civili con la sentenza 08.03.2019 n. 6882 (si veda ItaliaOggi del 14 marzo).
I giudici di piazza Cavour, per la prima volta hanno preso posizione in maniera così netta, escludendo che gli accordi che pongono il carico tributario su un soggetto diverso dal proprietario, o titolare di altro diritto reale, possano essere ritenuti contra legem. Le imposte locali sugli immobili possono essere pagate anche dal conduttore, se questo obbligo è previsto nel contratto di locazione.
L'accordo contrattuale che impone all'affittuario di pagare i tributi locali, secondo le Sezioni unite, non si pone in contrasto con il principio di capacità contributiva e non viola la regola sul divieto di traslazione del carico fiscale a un soggetto diverso dal titolare. Non si ritiene violato, dunque, l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio di capacità contributiva e l'intrasferibilità del carico tributario su un soggetto diverso rispetto a quello individuato dalla norma di legge.
Per la Cassazione, le somme che il conduttore si impegna a pagare costituiscono integrazione del canone locativo, poiché concorrono a determinarne l'ammontare complessivo dovuto. Viene posto in rilievo nella motivazione della sentenza che con «due distinte clausole contrattuali» di un «unico atto», le parti hanno nella specie inteso «determinare il canone in due diverse componenti».
La traslazione dell'obbligo tributario. Nel contesto della controversia, la parte interessata a eccepire la nullità del contratto ha richiamato un precedente della Cassazione. Per le Sezioni unite, però, il principio invocato contenuto nella sentenza 6445/1985, viene giudicato del tutto fondato e viene ulteriormente confermato, laddove è stabilito che il patto traslativo d'imposta è nullo per illiceità della causa. Viene infatti ribadito che la traslazione d'imposta è contraria all'ordine pubblico nel caso in cui l'imposta non venga corrisposta al fisco dal «percettore del reddito».
Ma questo vale solo per la rivalsa facoltativa, cioè qualora il sostituto perde la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al fisco. Se l'imposta, invece, viene regolarmente versata e il conduttore si accolla il pagamento, non viene violato il divieto di traslazione del carico fiscale, in quanto la somma serve a integrare esclusivamente il prezzo «della prestazione negoziale». Nonostante l'articolo 89 della legge 392/1978, che disciplina le locazioni, non preveda tra gli oneri a carico del conduttore anche le imposte locali.
Si pone, però, un problema se il contratto di locazione, laddove dispone espressamente che il conduttore si debba far carico dei tributi sui beni locati, non viene onorato dal conduttore. Il contratto è opponibile a terzi? L'amministrazione comunale a chi deve contestare la violazione?
Non c'è alcun dubbio che soggetto obbligato nei confronti del fisco rimane sempre il titolare dell'immobile. Quindi, in caso di mancato pagamento dell'inquilino, la violazione di omesso pagamento di Ici, Imu, Tasi deve essere contestata al proprietario, con irrogazione della relativa sanzione.
La Cassazione, nella sentenza 6882/2019, fa riferimento a Ici e Imu, ma il principio è estensibile anche alla Tasi, che ex lege rimane a carico del proprietario nella misura minima del 70%.
L'accollo del debito d'imposta da parte dell'inquilino non libera dall'obbligo di pagamento il contribuente originario. Naturalmente, il locatore ha la facoltà di esperire azione giudiziale nei confronti del conduttore per recuperare le somme che lo stesso si era impegnato contrattualmente a versare all'amministrazione comunale.
I soggetti obbligati. L'Imu, e prima ancora l'Ici, non è dovuta dal possessore di fatto dell'immobile, ma solo dal possessore di diritto.
Quindi, il conduttore non è obbligato al pagamento del tributo, semplicemente perché la legge non lo individua come soggetto passivo.
Oltre al proprietario e all'usufruttuario, sono soggetti passivi anche il superficiario, l'enfiteuta, il locatario finanziario, i titolari dei diritti di uso e abitazione, nonché il concessionario di aree demaniali. Rientra tra i diritti reali, poi, il diritto di abitazione che spetta al coniuge superstite, in base all'articolo 540 del codice civile.
Non è soggetto al prelievo fiscale, invece, il nudo proprietario dell'immobile. Allo stesso modo, non sono obbligati al pagamento dell'imposta il locatario, l'affittuario e il comodatario, in quanto non sono titolari di un diritto reale di godimento sull'immobile, ma lo utilizzano sulla base di uno specifico contratto.
Che il semplice possesso non obblighi al pagamento lo ha chiarito la Cassazione (sentenza 18476/2005), per l'Ici, a proposito del coniuge assegnatario dell'immobile, in caso di separazione.
Secondo la Cassazione, se il giudice assegnava in passato a un coniuge l'abitazione dell'ex casa coniugale, il soggetto assegnatario non era tenuto al pagamento dell'Ici. Il giudice non ha, infatti, il potere di costituire diritti reali di godimento sull'immobile, quali quelli di uso e abitazione, ma può decidere solo in ordine all'attribuzione di un diritto personale sulla casa familiare a favore di un coniuge.
In base alla vecchia normativa Ici, l'assegnatario aveva solo un diritto di godimento del bene di natura personale e non reale. Per l'Imu, con norma di legge, è stato posto a carico dell'assegnatario dell'immobile l'obbligo di pagare il tributo. Bisogna inoltre ricordare che l'utilizzo di un immobile o il possesso di fatto non possono essere inquadrati giuridicamente come diritto d'uso. In base all'articolo 1021 del codice civile, chi è titolare di questo diritto può servirsi della cosa che ne forma oggetto e, se è fruttifera, può raccogliere i frutti per quello che è necessario ai bisogni personali. L'uso, dunque, è un diritto reale di godimento che attribuisce al titolare la facoltà di usare e godere della cosa, in modo diretto, per il soddisfacimento di un bisogno attuale e personale. Questo diritto viene costituito per contratto, testamento o usucapione.
Infine, va precisato che l'Imu è dovuta dai contribuenti per anni solari, proporzionalmente alla quota di possesso dell'immobile e in relazione ai mesi dell'anno per i quali il bene è stato posseduto. Se il possesso si è protratto per almeno 15 giorni, il mese deve essere computato per intero. La prova della proprietà o della titolarità dell'immobile non è data dalle iscrizioni catastali, ma dalle risultanze dei registri immobiliari. In caso di difformità è tenuto al pagamento dell'imposta il soggetto che risulta titolare da questi registri. Per l'assoggettamento agli obblighi tributari non è probante quello che risulti iscritto in catasto
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’atto adottato dal Comune può qualificarsi in modo più corretto, invece di convalida come in esso indicato, come un atto di rinnovazione procedimentale conseguente al precedente annullamento giurisdizionale dell’ordine di demolizione per incompetenza e della convalida per difetto di partecipazione al procedimento.
Trattandosi infatti di annullamento giurisdizionale per vizi procedimentali la pubblica amministrazione ha mantenuto il potere di rinnovare l’atto emendandolo dai vizi suddetti.
Né d’altro canto si può ritenere che la qualificazione giuridica dell’atto vincoli l’interprete in quanto la qualificazione del provvedimento va operata in base all’esclusiva considerazione del potere effettivamente esercitato, e non in base alla qualificazione ad esso attribuita dalle parti o alle norme in esso citate.
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Come chiarito precedentemente, l’atto impugnato è stato erroneamente qualificato atto di convalida ma in realtà è un atto di rinnovazione procedimentale conseguente all’annullamento con effetti di giudicato delle precedenti determinazioni.
Ne consegue che esso si sottrae all’applicazione degli oneri motivazionali ed ai limiti temporali stabiliti per l’autotutela d’ufficio dall'art. 21-nonies, 2° comma, della L. 07.08.1990 n. 241.

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MASSIMA
2. Venendo al merito il primo motivo di ricorso è infondato.
Infatti l’atto adottato dal Comune può qualificarsi in modo più corretto, invece di convalida come in esso indicato, come un atto di rinnovazione procedimentale conseguente al precedente annullamento giurisdizionale dell’ordine di demolizione per incompetenza e della convalida per difetto di partecipazione al procedimento.
Trattandosi infatti di annullamento giurisdizionale per vizi procedimentali la pubblica amministrazione ha mantenuto il potere di rinnovare l’atto emendandolo dai vizi suddetti.
Né d’altro canto si può ritenere che la qualificazione giuridica dell’atto vincoli l’interprete in quanto la qualificazione del provvedimento va operata in base all’esclusiva considerazione del potere effettivamente esercitato, e non in base alla qualificazione ad esso attribuita dalle parti o alle norme in esso citate (ex plurimis Cons. St., sez. V, 25.11.1933, n. 706; Cons. St., sez. VI, 07.11.1949, n. 202; Cons. St., sez. V, 04.12.1954, n. 1187; Cons. St., sez. V, 06.04.1956, n. 224; Cons. St., sez. V, 28.01.1956, n. 55; Cons. St., sez. V, 09.12.1957, n. 927; Cons. St., sez. V, 18.04.1959, n. 228; Cons. St., sez. V, 10.05.1959, n. 288; Cons. St., sez. V, 13.06.1959, n. 344; Cons. St., sez. IV, 11.12.1959, n. 1195 1959, I, c. 1598; Cons. St., V, n. 1160/1962; Cons. St., V, n. 282/1965; Cons. St., sez. V, 30.04.1968, n. 497; Cons. St., sez. V, 10.11.1978, n. 1120; Cons. St., sez. V, 12.03.1996, n. 260; Cons. St., sez. IV, 31.10.1996, n. 1183; TAR Sicilia Catania, sez. IV, 02/04/2008, n. 563; TAR Campania, Napoli, sez. III, 14/03/2018 n. 1602).
Nel caso di specie, al di là della formale qualificazione quale convalida di un atto ormai irrimediabilmente annullato, è chiaro che l’amministrazione ha inteso reiterare il potere di porre a carico della ricorrente le spese di demolizione (in solido con l’autore dell’abuso), dopo il passaggio in giudicato della sentenza del TAR Lombardia, Milano, sez. II 30.04.2015 n. 1071, ripetendo il procedimento in forma partecipata.
Il motivo va quindi respinto.
...
4. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
Come chiarito al primo motivo l’atto impugnato è stato erroneamente qualificato atto di convalida ma in realtà è un atto di rinnovazione procedimentale conseguente all’annullamento con effetti di giudicato delle precedenti determinazioni.
Ne consegue che esso si sottrae all’applicazione degli oneri motivazionali ed ai limiti temporali stabiliti per l’autotutela d’ufficio dall'art. 21-nonies, 2° comma, della L. 07.08.1990 n. 241 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.03.2019 n. 506 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: Destinatario dell’ordine demolizione e accollo delle spese per l’esecuzione dell’ordine.
Le sanzioni ripristinatorie (o reali), qual è l’ordine di demolizione di un edificio abusivo, colpendo l’oggetto dell’illecito, riportano la situazione allo stato quo ante e sono quindi correttamente disposte nei confronti di chi ha la disponibilità dell’immobile e ciò nonostante si sia astenuto dal rimuovere l’abuso, oltre che nei confronti dell’autore stesso dell’abuso.
Ne consegue che le spese per l’esecuzione materiale della demolizione sono poste correttamente anche in capo a chi, pur avendone la possibilità, non ha provveduto alla demolizione spontaneamente
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MASSIMA
5. Anche il quarto motivo di ricorso, diretto contro l’affermazione della responsabilità della ricorrente –in qualità di proprietaria– circa le spese della demolizione d’ufficio, è infondato.
In merito alla posizione del proprietario la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3366/2017) ha affermato che “24. Nella disciplina statale, infatti, non par dubbio che il proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio. La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost.). E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere “personale” ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 15.04.2015 n. 1927)”.
La giurisprudenza (TAR Campania, Napoli, sez. II sent. 11/06/2018 n. 3895) richiede quindi una condotta specifica del proprietario di fronte all’abuso altrui.
Infatti “
il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa. Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali (cfr. Cons. Stato sent. n. 2211 del 04.05.2015, Cons. Stato sent. n. 3897 del 07.08.2015)”.
Ugualmente la giurisprudenza (Tar Lazio–Roma, sez. II-quater, n. 4134/2018) ha affermato che “
il proprietario si debba ritenere responsabile solo quando, avendo la disponibilità ed il possesso del bene o avendoli successivamente acquisiti, non abbia provveduto alla demolizione” (Consiglio di Stato 10.07.2017, n. 3391).
Alle stesse conclusioni la giurisprudenza è giunta per le sanzioni pecuniarie. Infatti ha osservato che “
in relazione alle sanzioni pecuniarie previste in materia edilizia, sussiste una presunzione di corresponsabilità a carico del “proprietario”, desumibile dal disposto dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, ma ha, comunque, ragionevolmente riconosciuto che il proprietario debba essere lasciato indenne ove risultino accertate sia l’estraneità dello stesso all’esecuzione delle opere prive di titolo abilitativo, sia la sua pronta attivazione con i mezzi previsti dall’ordinamento per agevolarne la rimozione, nel rispetto dei doveri di diligenza, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari, di cui ha la titolarità" (cfr., ex multis, Tar Sicilia–Palermo, sez. II, n. 1381/2018; C.d.S., sez. VI, 10/07/2017, n. 3391; Sez. VI, 30.03.2015, n. 1650; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 10/01/2017, n. 378; 30/01/2017, n. 1440).
In modo analogo la giurisprudenza (TAR Lazio, Sez. I-quater, 28.12.2011 n. 10254; TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 64) afferma che “
l’acquisizione gratuita, quale sanzione autonoma conseguente all’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, non affranca da responsabilità il proprietario dell’area, qualora risulti che egli abbia acquistato o riacquistato la disponibilità del bene e non si sia attivato per dare esecuzione all’ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo in grado di dare esecuzione all’ingiunzione, non vi abbia comunque provveduto”.
In sostanza
le sanzioni ripristinatorie (o reali), qual è l’ordine di demolizione di un edificio abusivo, colpendo l’oggetto dell’illecito, la res illicita, riportano la situazione allo stato quo ante e sono quindi correttamente disposte nei confronti di chi ha la disponibilità dell’immobile e ciò nonostante si sia astenuto dal rimuovere l’abuso, oltre che nei confronti dell’autore stesso dell’abuso. Ne consegue che le spese per l’esecuzione materiale della demolizione sono poste correttamente anche in capo a chi, pur avendone la possibilità, non ha provveduto alla demolizione spontaneamente.
Nel caso di specie deve escludersi che la ricorrente abbia dato prova di aver fatto quanto era nelle sue possibilità giuridiche e materiali per provvedere alla demolizione degli abusi realizzati da Gi.Ri., e perciò la stessa sopporta le spese conseguenti alla rimozione d’ufficio di quegli abusi.
In definitiva quindi il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.03.2019 n. 506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Destinazione di un’area al solo esercizio della funzione sportiva esistente.
La previsione di un PGT che limita l’utilizzo di un’area alla funzione sportiva esistente (nella fattispecie il golf) costituisce una forma di limitazione dell’attività economica del tutto sproporzionata e ingiustificata da un punto di vista urbanistico che finisce per impedire l’esercizio dell’attività economica privata superando i limiti stabiliti dall’art. 41, co. 3, della Costituzione che preserva la libertà economica privata nel suo nucleo essenziale, impedendo che il necessario coordinamento con gli interessi pubblici finisca per svuotarne il contenuto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.03.2019 n. 504 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Il terzo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente contesta l’art. 24 delle NTA nella parte in cui dispone che "l'area a golf individuata come Impianto Sportivo a Gestione Privata dovrà essere mantenuta nelle attuali condizioni di prevalente naturalità", e che "è ammessa esclusivamente la funzione sportiva esistente" è fondato.
In merito occorre rilevare che –secondo quanto correttamente obiettato dalla ricorrente– quest'ultimo vincolo, cioè quello di mantenere la sola funzione sportiva esistente, non è giustificato dall'esigenza di preservare la "prevalente" naturalità dei luoghi, perché sono perfettamente compatibili con la stessa varie discipline sportive (quali il percorso vita, il tiro con l'arco, o il canottaggio nei laghetti interni), indice di illogicità di una simile previsione.
In secondo luogo occorre rilevare che l'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale (vedi Cass., Sez. 3^, 07.03.2008, Desumine e 12.07.2002, Cinquegrani).
Lo strumento urbanistico rappresenta l'atto di destinazione generica ed esso trova attuazione nelle prescrizioni imposte dal titolo che abilita a costruire, quale atto di destinazione specifica che vincola il titolare ed i suoi aventi causa. Possono conseguentemente distinguersi:
   - una destinazione d'uso urbanistico, riferita alle categorie specificate dalla legge e dal D.M. n. 1444 del 1968;
   - una destinazione d'uso edilizio, che attiene al singolo edificio ed alle sue capacità funzionali.
Duplice è, dunque, l'esigenza correlata al controllo della destinazione d'uso degli immobili: da un lato quella di assicurare tutela alla zonizzazione funzionale, dall'altro quella di consentire l'applicazione della normativa sugli standards, regolatrice della differenziazione infrastrutturale del territorio.
Nel caso di specie è evidente che la previsione del PGT comunale, che limita l’utilizzo dell'area a golf alla funzione sportiva esistente, costituisce una forma di limitazione dell’attività economica del tutto sproporzionata e ingiustificata da un punto di vista urbanistico, che finisce per impedire l’esercizio dell’attività economica privata superando i limiti stabiliti dall’art. 41, co. 3, della Costituzione, che preserva la libertà economica privata nel suo nucleo essenziale, impedendo che il necessario coordinamento con gli interessi pubblici finisca per svuotarne il contenuto.
Il motivo va quindi accolto con riferimento alla limitazione della funzione d’uso all’attività sportiva esistente.
3.1 Il motivo è invece infondato nella parte in cui contesta l'art. 24 delle NTA, laddove vieta altresì che siano eseguiti interventi di ristrutturazione edilizia sull'esistente, mentre consente di ampliare le attrezzature a servizio del Golf nel limite di 500 mq di s.l.p., da utilizzare una tantum. Infatti il divieto di ristrutturazione della c.d. cloubhouse rientra tra i poteri di limitazione degli interventi ammessi sui fabbricati esistenti (e, più in generale, sul territorio), tanto più in un ambito di grande delicatezza paesaggistico-ambientale qual quello in questione, per il quale il Comune ha preferito una scelta limitatamente ampliativa rispetto ad un totale stravolgimento della funzione dell’immobile.
3.2 Invece è fondato il motivo nella parte in cui censura l'art. 24 laddove impone che la volumetria concessa una tantum possa "essere utilizzata per la creazione di nuovi spazi funzionali esclusivamente all'attività sportiva in oggetto", per poi specificare che la stessa possa essere destinata "soltanto a reception, spogliatoi, locali impianti e/o depositi".
Infatti l’ammissibilità di funzioni assimilabili a quella sportiva esistente, che rientrino nella stessa categoria funzionale ed abbiamo il medesimo carico urbanistico, comporta che sia illegittimo il vincolo all’utilizzo della cloubhouse per attività strettamente legate a quella sportiva esistente e non a quelle ammissibili nell’area.

URBANISTICADeve confermarsi l’adesione all’orientamento già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge, debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero procedimento sino ad allora svolto.
In particolare, si è affermato che una soluzione che sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...) ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa.”.
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale –come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
Ciò –secondo l’orientamento richiamato– “consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente, “l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati”.
Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore letterale della previsione normativa, è altresì in linea con il principio generale per il quale i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure complesse, con la partecipazione di una pluralità di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli interessi, pubblici o privati, coinvolti”.

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5. Il quinto motivo di ricorso, con il quale è stata contestata la tardività della conclusione del procedimento di approvazione del PGT, è infondato.
In materia la giurisprudenza di questa Sezione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2015 n. 1032) ha chiarito che “Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge, debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata. Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero procedimento sino ad allora svolto. In particolare, si è affermato che una soluzione che sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...) ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa.”.
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale –come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
Ciò –secondo l’orientamento richiamato– “consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente, “l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati”.
Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore letterale della previsione normativa, è altresì in linea con il principio generale per il quale i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure complesse, con la partecipazione di una pluralità di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli interessi, pubblici o privati, coinvolti
”.
Poiché nel caso in questione le osservazioni sono state controdedotte il motivo va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.03.2019 n. 504 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIL’agevolazione Imu è familiare. L’abitazione principale è quella in cui dimora il nucleo. Cassazione: è onere del contribuente dimostrare che coniuge e figli vivono nella casa.
Ai fini dell'agevolazione Imu l'abitazione principale non è quella acquistata nel luogo dove si lavora ma è la dimora abituale di tutta la famiglia. È onere del contribuente dimostrare che anche coniuge e figli vivono nella casa.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione -Sez. V civile- che, con l'ordinanza 07.03.2019 n. 6634, ha respinto il ricorso del proprietario.
All'uomo era stato notificato un accertamento della maggiore imposta. Lui si era difeso sostenendo che l'immobile era situato nel Comune presso il quale era collocata la sua sede di lavoro. Ma per l'ente locale la circostanza era del tutto irrilevante dal momento che dai documenti era risultato che la moglie e i figli vivessero altrove. La tesi dell'amministrazione è risultata vincente in sede di merito e in sede di legittimità.
I Supremi giudici hanno motivato la decisione ricordando che in tema di Imu «ai fini della spettanza della detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), dall'art. 8 del dlgs n. 504 del 1992 (come modificato dall'art. 1, comma 173, lett. b), della legge n. 296 del 2006, con decorrenza dall'01.01.2007), occorre che il contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo».
In altre parole, l'invocata detrazione di cui all'art. 8, comma 2, dlgs 504 del 1992, il quale, come noto, dispone che «per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente», non è indissolubilmente legata alla residenza anagrafica, e ciò non è affatto contraddetto ma semmai reso più evidente dalla modifica normativa apportata dall'art. 1 comma 173, legge n. 296 del 2006 (Finanziaria 2007).
Secondo la nuova disposizione, infatti, per abitazione principale si intende, salvo prova contraria, quella residenza anagrafica che si limita a introdurre una presunzione relativa e non supera il concetto di abitazione principale fondato sul criterio della dimora abituale
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).

TRIBUTIIl Comune può pretendere l'IMU sulla prima casa non abitata da tutta la famiglia.
Con l'ordinanza 07.03.2019 n. 6634, la Corte di Cassazione -Sez. V civile- ha rigettato il ricorso di un contribuente che sosteneva il proprio diritto di beneficiare dell'agevolazione Ici/Imu sulla prima casa; seguendo un percorso giurisprudenziale consolidato la Cassazione ha ribadito che per ottenere le agevolazione sull'abitazione principale occorre fare riferimento alla dimora abituale di tutta la famiglia ed è onere del contribuente dimostrare che anche coniuge e figli vivano nella casa.
Il contenzioso tributario
Un contribuente è ricorso in Cassazione avverso la sentenza sfavorevole della Ctr secondo la quale il ricorrente non aveva dimostrato, per gli anni di imposta 2005 e 2006, che l'immobile oggetto del contenzioso (si trovava a Roma) era adibito ad abitazione principale sua e dei suoi familiari. In sostanza il Comune aveva recuperato l'Ici non versata sull'abitazione principale sostenendo che il contribuente non aveva diritto a beneficiare dell'agevolazione.
Nel ricorso in Cassazione il contribuente si è lamentato, in particolare, della violazione dell'articolo 8 del Dlgs 504/1992 nonché dell'articolo 4 del Dlgs 437/1996, in relazione all'articolo 1, comma 2, del Dlgs 546/1992, per avere i giudici territoriali erroneamente valutato le prove offerte a dimostrazione che l'immobile oggetto dell'atto impositivo era effettivamente destinato alla residenza abitativa del contribuente.
La sentenza della Cassazione
La Cassazione sulla base del fatto che il presupposto per l'agevolazione è la residenza anagrafica ovvero che il contribuente che possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale l'abitazione vi dimori abitualmente con i suoi familiari, ritiene che il motivo di ricorso sia inammissibile.
I giudici hanno osservato che la detrazione stabilita dall'articolo 8, comma 2, del Dlgs 504/1992 non è indissolubilmente legata alla residenza anagrafica, e ciò non è affatto contraddetto ma semmai reso più evidente dalla modifica normativa apportata dall'articolo 1, comma 173, della legge 296/2006 (Finanziaria 2007), a tenore della quale «... al comma 2, dell'articolo 8, dopo le parole: adibita ad abitazione principale del soggetto passivo" sono inserite le seguenti:», intendendosi per tale, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica, che si limita ad introdurre una presunzione relativa e non supera il concetto di abitazione principale fondato sul criterio della dimora abituale.
La modifica introdotta dal legislatore deve essere letta nel senso che si considera abitazione principale quella di residenza anagrafica , salvo prova contraria che consente al contribuente, nei casi appunto di mancata coincidenza, anche solo per un periodo, tra dimora abituale e residenza anagrafica, di riservare alla prima il trattamento fiscale meno gravoso previsto per «l'abitazione principale», prova che deve comunque riguardare l'effettivo utilizzo dell'unità immobiliare quale dimora abituale del nucleo famigliare del contribuente (Cassazione n. 13062/2017 e n. 14398/2010) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.03.2019).
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MASSIMA
8. Il primo motivo è inammissibile.
Con esso, il ricorrente censura la non corretta valutazione delle prove offerte nel giudizio di merito per dimostrare che l'immobile in Roma costituiva residenza effettiva del contribuente, in quanto acquistato nel luogo di lavoro.
La doglianza tuttavia non attinge la ratio decidendi posta a fondamento della decisione impugnata, che ha escluso l'agevolazione sul presupposto che il beneficio spetta solo se nell'abitazione dimorano abitualmente sia il contribuente che i suoi familiari, non essendo sufficiente all'insorgere del diritto alla detrazione che il contribuente dimori abitualmente nell'unità immobiliare se i suoi familiari vivono altrove.
La sentenza della CTR si è conformata al principio di diritto affermato da questa Corte e ribadito con la sentenza n. 26947/2017: «
In tema d'imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), dall'art. 8 del d.lgs. n. 504 del 1992 (come modificato dall'arti, comma 173, lett. b), della l. n. 296 del 2006, con decorrenza dall'i gennaio 2007), occorre che il contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo».
In applicazione di questo principio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la detrazione sulla base dell'accertamento che l'immobile "de quo" costituisse dimora abituale del solo ricorrente e non della di lui moglie (v. anche Cassazione, ordinanze nn. 15444/2017, 12299/2017, 13062/17, 12050/2010).
L'invocata detrazione di cui all'art. 8, comma 2, D.Lgs. n. 504 del 1992, il quale, come noto, dispone che "per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente", non è indissolubilmente legata alla residenza anagrafica, e ciò non è affatto contraddetto ma semmai reso più evidente dalla modifica normativa apportata dall'art. 1, comma 173, L. n. 296 del 2006 (Finanziaria 2007), a tenore della quale "... al comma 2 dell'articolo 8, dopo le parole: "adibita ad abitazione principale del soggetto passivo" sono inserite le seguenti: ", intendendosi per tale, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica, che si limita ad introdurre una presunzione relativa e non supera il concetto di abitazione principale fondato sul criterio della dimora abituale di cui si è prima detto.
La modifica legislativa del 2006 deve essere letta nel senso che -con effetto dall'annualità d'imposta 2007- si considera abitazione principale quella di residenza anagrafica, salvo la prova contraria che consente al contribuente, nei casi appunto di mancata coincidenza, anche solo per un periodo di tempo, tra dimora abituale e residenza anagrafica, di riservare alla prima il trattamento fiscale meno gravoso previsto per "l'abitazione principale", prova che deve comunque riguardare l'effettivo utilizzo dell'unità immobiliare quale dimora abituale del nucleo famigliare del contribuente (Cass. n. 13062/2017; Cass. n. 14398/2010).
In mancanza di detta prova, il ricorso deve essere respinto con aggravio di spese.

TRIBUTIIci, non pesa il vincolo a tempo. L’area risulta edificabile per il Prg e quindi assoggettabile. Per la Suprema corte i provvedimenti non fermano la trasformazione dell’area.
Un'area è edificabile e soggetta al pagamento dell'Ici, dell'Imu, della Tasi e dell'imposta di registro, anche se sussiste un vincolo d'inedificabilità che ha interrotto il procedimento di trasformazione urbanistica e nonostante sia previsto un vincolo paesaggistico, che subordina l'edificabilità concreta dell'area al parere della Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali. Un vincolo temporaneo, infatti, non può avere alcuna incidenza sull'assoggettamento a imposizione del terreno.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 06.03.2019 n. 6431.
Per i giudici di piazza Cavour, «nel caso di specie, hanno errato i giudici d'appello a ritenere sussistente un vincolo d'inedificabilità che aveva interrotto il procedimento di trasformazione urbanistica, poiché il terreno oggetto di controversia, era inserito in zona edificabile, e né il vincolo paesaggistico, che subordinava l'edificabilità concreta dell'area al parere della Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali, né la proroga del vincolo d'immodificabilità temporaneo, poteva incidere sull'assoggettabilità a imposizione Ici, in quanto, tali vincoli non avevano eliminato il procedimento oramai avviato di trasformazione dell'area (v. decreto assessorile - all. 2 -), in quanto avevano solo natura conformativa della destinazione urbanistica dell'area».
Le aree che risultano edificabili in base al piano regolatore, dunque, sono soggette al pagamento delle imposte locali ed erariali se i vincoli di destinazione non comportano l'inedificabilità assoluta.
La Cassazione, con l'ordinanza 7849 del 29.03.2018, aveva però precisato che in presenza di vincoli che gravano sull'area il contribuente è tenuto a pagare le imposte locali su un valore dell'immobile notevolmente ridotto, poiché «i vincoli d'inedificabilità assoluta, stabiliti in via generale e preventiva nel piano regolatore generale, vanno tenuti distinti dai vincoli di destinazione che non fanno venire meno l'originaria natura edificabile».
Nozione di area edificabile e piano regolatore. Per il pagamento delle imposte sull'area edificabile conta il suo inserimento nel piano regolatore adottato dal comune in un dato momento e non hanno alcuna rilevanza la mancata approvazione dello strumento urbanistico, da parte della regione, o le modifiche che sono intervenute successivamente. Quindi, sono dovuti i tributi sia erariali sia locali fino al momento in cui l'area risulta edificabile dal piano regolatore, anche se non approvato in via definitiva o modificato (Cassazione, ordinanza 20817/2017).
Ciò che assume rilievo ai fini del prelievo fiscale è lo stato di fatto del terreno secondo lo strumento urbanistico che lo conforma. L'edificabilità dei suoli, ai fini fiscali, non è condizionata neppure dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo proprio perché il valore del terreno nelle contrattazioni aumenta per effetto della sola adozione di un piano regolatore.
In effetti, l'articolo 36, comma 2 del decreto-legge legge 223/2006 (manovra Bersani) ha chiarito per l'Ici che un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale deliberato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi. La Cassazione (sentenza 20097/2009) ha sostenuto che rientra nella competenza degli stati membri della Comunità europea la qualificazione delle aree edificabili. Ma l'ordinamento italiano non contiene una definizione generale di terreno edificabile.
C'è piuttosto nel sistema fiscale una tendenza a ricomprendere in questa categoria, per determinare la base imponibile di alcuni tributi (Iva, imposta di registro, Ici, Imu, Tasi), tutte le aree la cui destinazione edificatoria sia prevista dallo strumento urbanistico generale deliberato dal comune, anche in mancanza dei previsti atti di controllo (approvazione regionale) e degli strumenti attuativi. In realtà, non interessa che il suolo sia immediatamente edificabile: quello che conta è che sia stata conclusa una fase rilevante del procedimento per attribuire all'area la natura edificatoria o per modificare le precedenti previsioni che escludevano questa destinazione.
I vincoli urbanistici. I giudici di legittimità hanno cambiato spesso idea sulla tassazione delle aree edificabili destinate dal Prg a verde pubblico o comunque soggette a vincoli pubblici. Con l'ordinanza 10231/2018 hanno stabilito che le aree destinate a spazi pubblici per parchi, giochi e sport, hanno un vincolo di destinazione che impedisce ai privati di potere edificare e, pertanto, non possono essere assoggettate al pagamento di Ici, Imu e Tasi.
Nello specifico hanno sostenuto che deve «negarsi la natura edificabile delle aree, come quella del caso di specie, comprese in zona destinata dal Prg ad «Aree per spazi pubblici a parco, gioco e lo sport a livello comunale» in quanto tale destinazione preclude ai privati forme di trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione». Mentre con la sentenza 19131/2007 avevano ritenuto che l'Ici fosse dovuta su un'area edificabile sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore di mercato dell'immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione.
Nello stesso modo si è pronunciata la Cassazione con l'ordinanza 15729/2014, laddove ha precisato che i vincoli urbanistici o paesaggistici non escludono che un'area possa essere qualificata edificabile e che sia soggetta al pagamento delle imposte locali. Ma l'amministrazione comunale deve verificare se i vincoli posti dal piano regionale impediscono l'edificabilità dell'area o se le limitazioni ne riducono il valore di mercato. I piani paesaggistici regionali prevalgono sugli strumenti urbanistici comunali.
Anche i limiti amministrativi posti nei piani regolatori comunali non fanno venir meno il regime fiscale dei suoli edificabili. Per esempio, i vincoli ambientali che gravano sull'area non escludono che sia assoggettata a imposizione. La presenza di vincoli ha sicuramente un'incidenza sul valore venale in comune commercio dell'area e sulla base imponibile. L'imposta va versata in misura ridotta, in quanto per quantificare il valore dell'area occorre fare riferimento anche alla zona territoriale di ubicazione, all'indice di edificabilità e alla destinazione d'uso consentita. L'area deve essere considerata edificabile anche se qualificata «standard» e vincolata a esproprio.
L'orientamento, però, non è uniforme neppure nella giurisprudenza di merito. Per esempio, secondo la commissione tributaria regionale di Milano (sentenza 71/2013) un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici. Il vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione del bene. Per il giudice d'appello lo strumento urbanistico che destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport, rende palese il vincolo di utilizzo meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità.
Le dimensioni del terreno. Sono soggette a imposizione anche le aree che non hanno le superfici minime per essere edificate. L'estensione del terreno non incide sulla natura dell'area, poiché è possibile accorpare il lotto con un fondo vicino della zona o asservirlo a un fondo attiguo che ha la stessa destinazione urbanistica.
In effetti, il proprietario dell'area potrebbe cedere il diritto a edificare sul lotto o acquisire la titolarità di altro terreno limitrofo, al fine di raggiungere le dimensioni minime. Sempre la Cassazione (sentenza 16485/2016) ha precisato che la natura edificabile non viene meno neppure per la particolare conformazione del lotto
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).

TRIBUTIL'assoggettabilità all'ICI prescinde dall'approvazione del piano regolatore generale.
Né il vincolo paesaggistico, che subordina l'edificabilità concreta di un'area al parere della Sovraintendenza ai beni culturali e ambientali, né la proroga del vincolo d'immodificabilità temporaneo possono incidere sull'assoggettabilità all'Ici.
Entrambi i vincoli, infatti, non eliminano il procedimento ormai avviato di trasformazione dell'area, avendo natura solo conformativa della destinazione urbanistica.

Così scrive la VI Sez. civile della Corte di Cassazione nella ordinanza 06.03.2019 n. 6431.
Annullata la sentenza della Ctr Sicilia
La Cassazione rimanda alla Commissione tributaria di Palermo, sezione di Messina, il giudizio sull'assoggettabilità all'Ici, nel 2004, di un terreno che in quell'anno non era «concretamente edificabile» per l'assenza dello strumento urbanistico necessario e sul quale, inoltre, gravava il vincolo paesaggistico.
L'edificabilità di un'area, infatti, così come il suo valore, secondo un orientamento consolidato della Cassazione relativo all'imposta di registro, prescinde dalla mancata approvazione o dalle modifiche del piano regolatore generale adottato dal Comune.
È sufficiente che si trovi in zona edificabile, non avendo importanza se sia giù urbanizzata oppure non, o ancora se sia in attesa dei piani particolareggiati o di quelli di lottizzazione. Il procedimento che porterà alla possibilità di costruire sull'area è ormai iniziato.
L'indice di edificabilità, anche ai soli fini Ici -spiega inoltre la Cassazione- è desumibile «dall'articolo 9 del Dpr 380/2001, che disciplina i casi di attività edificatoria in aree che, come quella della controversia, sono poste al di fuori del centro abitato dei Comuni sprovvisti di strumento urbanistico» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.03.2019).
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MASSIMA
Il primo motivo è fondato, con assorbimento del secondo.
Infatti, secondo il consolidato orientamento di questa Corte "
In tema di imposta di registro, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 36, comma 2, del d.l. 04.07.2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.08.2006, n. 248, di interpretazione autentica del d.P.R. 26.04.1986, n. 131, l'edificabilità di un'area, ai fini dell'inapplicabilità del sistema di valutazione automatica previsto dall'art. 52, quarto comma, del d.P.R. n. 131 cit., è desumibile dalla qualificazione attribuita nel piano regolatore generale adottato dal Comune, anche se non ancora approvato dalla Regione ovvero in mancanza degli strumenti urbanistici attuativi, dovendosi ritenere che l'avvio del procedimento di trasformazione urbanistica sia sufficiente a far lievitare il valore venale dell'immobile, senza che assumano alcun rilievo eventuali vicende successive incidenti sulla sua edificabilità, quali la mancata approvazione o la modificazione dello strumento urbanistico, in quanto la valutazione del bene deve essere compiuta in riferimento al momento del suo trasferimento, che costituisce il fatto imponibile, avente carattere istantaneo.
L'impossibilità di distinguere, ai fini dell'inibizione del potere di accertamento, tra zone già urbanizzate e zone in cui l'edificabilità è condizionata all'adozione dei piani particolareggiati o dei piani di lottizzazione non impedisce, peraltro, di tener conto, nella determinazione del valore venale dell'immobile, della maggiore o minore attualità delle sue potenzialità edificatorie, nonché della possibile incidenza degli ulteriori oneri di urbanizzazione
" (Cass. n. 11182/2014, Cass. sez. un. n. 25506/2006).
Nel caso di specie, hanno errato i giudici d'appello a ritenere sussistente un vincolo d'inedificabilità che aveva interrotto il procedimento di trasformazione urbanistica, poiché il terreno oggetto di controversia, era inserito in zona edificabile, e né il vincolo paesaggistico -che subordinava l'edificabilità concreta dell'area, al parere della Sovraintendenza ai beni culturali e ambientali- né la proroga del vincolo d'immodificabilità temporaneo, poteva incidere sull'assoggettabilità a imposizione ICI, in quanto, tali vincoli non avevano eliminato il procedimento oramai avviato di trasformazione dell'area (v. decreto assessorile — all. 2 in quanto avevano solo natura conformativa della destinazione urbanistica dell'area.

EDILIZIA PRIVATALa qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici "et similia", ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
Ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera come, ad esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma
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6. Il ricorso è infondato.
6.1. Il locale a “forma esagonale” realizzato in aderenza alla unità immobiliare ha dimensioni significative (“misure medie interne mt. 4,30 x 5,05, altezza 2,70”) ed è suscettibile di utilizzo autonomo, essendo destinato a “magazzino-ripostiglio di attrezzi vari”, di talché è escluso che il manufatto in questione possa essere qualificato alla stregua di una pertinenza urbanistica: “Nemmeno può poi trovare accoglimento la deduzione secondo la quale, nel caso in esame, circa il deposito attrezzi, la legnaia e la tettoia, verrebbero in considerazione opere di natura pertinenziale. Vengono invece in rilievo manufatti che, per consistenza e tipologia, hanno comportato una trasformazione del territorio e del suolo non irrilevante e che in modo corretto sono stati fatti ricadere nella categoria degli interventi che richiedono il permesso di costruire ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001. … omissis … La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici "et similia", ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica (cfr. Cons. St., Sez. VI, 02.01.2018, n. 24, 02.02.2017, n. 694, 04.01.2016, n. 19, 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012). La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.) … omissis … ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera come, ad esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma” (Cons. Stato, Sez. VI, 06.02.2019 n. 902) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.03.2019 n. 500 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un porticato terrazzato chiuso lateralmente su due lati e destinato ad ospitare arredi fissi configura un organismo edilizio avente natura e consistenza tali da ampliare in superficie o volume l'edificio preesistente e, pertanto, per la sua realizzazione è necessario ottenere un permesso di costruire”.
Un porticato, per il suo carattere trasformativo ed innovativo rispetto a quello manutentivo e conservativo, comporta un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, idoneo con riguardo al tipo di copertura ed alla presenza del parapetto a svolgervi varie attività della vita quotidiana, in quanto tale comportante nuova volumetria, nuova superficie utile e quindi, per la sua realizzazione, il previo rilascio del permesso di costruire in mancanza del quale costituisce abuso edilizio.
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6.2. A sua volta, il porticato ha dimensioni rilevanti (“mt. 10,20 x 6,20”), risulta completamente chiuso su due lati (“con muri ed infissi”), ed aperto soltanto in parte sugli altri due lati, sicché anche il detto intervento, essendo idoneo ad un utilizzo autonomo, e stante il correlato incremento della volumetria dell’immobile, deve essere qualificato in termini di nuova costruzione, e come tale resta assoggettato alla sanzione della demolizione: “Un porticato terrazzato chiuso lateralmente su due lati e destinato ad ospitare arredi fissi configura un organismo edilizio avente natura e consistenza tali da ampliare in superficie o volume l'edificio preesistente e, pertanto, per la sua realizzazione è necessario ottenere un permesso di costruire” (TAR Salerno, Sez. II, 13.03.2018 n. 386); in senso conforme TAR Catanzaro, Sez. I, 10.11.2012 n. 1087); “Un porticato, per il suo carattere trasformativo ed innovativo rispetto a quello manutentivo e conservativo, comporta un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, idoneo con riguardo al tipo di copertura ed alla presenza del parapetto a svolgervi varie attività della vita quotidiana, in quanto tale comportante nuova volumetria, nuova superficie utile e quindi, per la sua realizzazione, il previo rilascio del permesso di costruire in mancanza del quale costituisce abuso edilizio” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.10.2010 n. 7481) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.03.2019 n. 500 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La valutazione dell’eventuale pregiudizio che la demolizione potrebbe arrecare ad altra parte dell’edificio è questione da rinviare alla fase esecutiva e non, genetica, dell'ordinanza di demolizione.
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L'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario dell'opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.
La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità dell'attuale proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il suo dante causa.
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6.3. Né possono trovare accoglimento le doglianze che si appuntano sui presunti rischi alla statica dell’immobile, atteso che negli atti impugnati non vi è alcun riferimento alla impossibilità tecnica di addivenire alla demolizione delle opere abusive senza pregiudizio per il fabbricato, né la prova di tale circostanza è offerta dal ricorrente.
In ogni caso, la valutazione dell’eventuale pregiudizio che la demolizione potrebbe arrecare ad altra parte dell’edificio è questione da rinviare alla fase esecutiva e non, genetica, della ordinanza impugnata (cfr. TAR Catanzaro, Sez. II, 18.10.2018 n. 1767; 07.02.2018 n. 370).
6.4. Quanto poi alle censure concernenti la mancata notifica della ingiunzione al presunto responsabile dell’abuso e l’omesso accertamento dell’epoca in cui sono stati realizzati gli interventi, si osserva che l'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario dell'opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.
La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità dell'attuale proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il suo dante causa (cfr. TAR Napoli, Sez. III, 08.01.2016 n. 14) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.03.2019 n. 500 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’autorizzazione edilizia non copre i reati. Attività di costruzione.
Il rilascio dell'autorizzazione edilizia non impedisce la realizzazione dei reati commessi nel corso dell'attività di costruzione.

La Corte di Cassazione - Sez. III penale, con sentenza 05.03.2019 n. 9705, pone il principio per il quale il costruttore sia ugualmente responsabile anche nel caso in cui la sua attività sia stata autorizzata da parte dell'amministrazione con apposito provvedimento.
Il procuratore generale sosteneva in Cassazione che nonostante la presenza di un'autorizzazione da parte dell'amministrazione è possibile la configurabilità dei reati edilizi, nel caso in cui il provvedimento concesso contrasti con gli strumenti urbanistici generali. La tesi veniva ritenuta fondata.
I giudici della Corte escludono che la presenza di un autorizzazione edilizia sia di per sé sola idonea ad evitare la configurabilità della responsabilità penale. Nella motivazione, infatti, osservano gli ermellini come sia un potere dovere del giudice penale in sede di valutazione dell'esistenza di eventuali reati edilizi, compiere un accurata verifica circa l'atto autorizzativo all'attività di costruzione.
Esso perderà ogni efficacia, non solo nel caso in cui sia stato posto in essere in maniera illecita, ma altresì nel caso in cui contrasti ad ogni modo agli strumenti urbanistici generali, anche in tale secondo caso infatti esso non assumerà alcuna efficacia, al fine di escludere il carattere illecito dell'attività realizzata dal reo che resterà parimenti responsabile per i reati commessi nel corso nell'esecuzione delle opere (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019).
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MASSIMA
1. Il Ricorso è inammissibile.
Si premette che le Sezioni Unite -con la sentenza 12/11/1993, ric. Borgia- hanno affermato che «
al giudice penale non è affidato alcun sindacato sull'atto amministrativo, ma questi, nell'esercizio della potestà penale, è tenuto ad accertare la conformità tra ipotesi di fatto (opera eseguenda o eseguita) e fattispecie legale». Tale fattispecie è delineata dalle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia, dalle previsioni degli strumenti urbanistici e dalle prescrizioni del regolamento edilizio.
Consegue che in tema di reati edilizi il giudice penale ha il potere-dovere di verificare l'illegittimità del titolo abilitativo, in quanto contrastante con le previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, senza che ciò comporti l'eventuale "disapplicazione" dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E.

Attraverso tale esame, infatti, viene svolta una verifica in concreto della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela apprestata dalla L. n. 47 del 1985, art. 20, oggi D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, da identificarsi non più -come nella L. n. 1150 del 1942- nel bene strumentale del controllo e della disciplina degli usi del territorio, bensì nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (cfr. Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017 Rv. 273218, Menga).
Quanto poi alla rilevanza, ai fini della configurazione di reati edilizi o urbanistici, della non-conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici, essa ricorre non soltanto se l'atto abilitativo sia illecito, cioè frutto di attività criminosa (ed a prescindere da eventuali collusioni dolose del soggetto privato interessato con organi dell'amministrazione), ma anche, più semplicemente, nelle ipotesi in cui l'emanazione dell'atto sia vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge così come in quelle di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere (cfr. Sez. 3, n. 40425 del 28/09/2006 Cc. Rv. 237038, Consiglio; Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013 Rv. 256971 Sonni).
Con specifico riferimento al reato di lottizzazione abusiva, questa Corte, con decisione che il Collegio condivide, ha precisato che il rilascio della concessione edilizia non esclude l'affermazione della responsabilità penale ove si riscontri la difformità dell'intervento realizzato o realizzando rispetto agli strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale; in tali casi il giudice lungi dal procedere ad una "disapplicazione" dell'atto amministrativo, provvede piuttosto ad accertare la conformità del fatto concreto rispetto alla fattispecie astratta descrittiva del reato.
Infatti,
è stato osservato che una volta che il giudice constati il contrasto tra la lottizzazione e la normativa urbanistica, giunge all'accertamento dell'abusiva realizzazione di opere edilizie prescindendo da qualunque giudizio sull'atto amministrativo.
La Suprema Corte ha altresì aggiunto che
la contravvenzione di lottizzazione abusiva si configura come reato a consumazione alternativa, essendo suscettibile di realizzazione sia quando manchi un provvedimento di autorizzazione, sia quando quest'ultimo sussista ma contrasti con le prescrizioni degli strumenti urbanistici; ciò perché grava sui soggetti che predispongono un piano di lottizzazione, sui titolari di concessione, sui committenti e costruttori l'obbligo di controllare la conformità dell'intera lottizzazione e delle singole opere alla normativa urbanistica ed alle previsioni di pianificazione (cfr. sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017 Rv. 270644 Puglisi).
Gli indirizzi di legittimità su esposti peraltro, a fronte di talune pronunce che hanno invece valorizzato, ai fini della configurabilità dei reati sopra citati ed in caso di interventi abusivi eseguiti sul presupposto dell'avvenuto rilascio di un permesso di costruire, il carattere illecito o macroscopicamente illegittimo dell'atto abilitativo (cfr. tra le altre Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014 Rv. 263916 Cervino; Sez. 4, n. 38610 del 20/07/2017 Rv. 27093 Comune Di Sperlonga e altro), sono stati di recente confermati con sentenza di questa sezione (n. 49687 del 30.10.2018, Bruno non massimata) con argomentazioni ampie ed articolate, che, in questa sede, è sufficiente sintetizzare.
Va quindi ribadito ed evidenziato il principio per cui «nell'ipotesi in cui si edifichi con permesso di costruire illegittimo la questione riguarda piuttosto il potere di accertamento del giudice penale dinanzi ad un provvedimento che costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato. In tale ambito [...] l'individuazione dell'interesse tutelato dalle norme penali urbanistiche [...] svolge [...] la funzione di attribuire l'esatto significato all'elemento normativo delineato nella fattispecie incriminatrice di riferimento [...] dovendo ritenersi compreso nel tipo e, dunque, nel controllo, tutto ciò che, al di là della lettera della legge, sia imposto dalla immancabile funzione interpretativa, anche estensiva, della disposizione penale [...], sicché il giudice penale deve verificare, al fine di ritenere sussistente o meno il reato, tutto ciò che nella descrizione delle varie fattispecie penali sia stato indicato, esplicitamente o implicitamente, come rilevante [...]. Ne consegue che -quando la mancanza o l'illegittimità di un atto amministrativo [...] costituisce un elemento normativo della fattispecie incriminatrice- non viene in rilievo il potere dell'autorità giudiziaria di disapplicare un atto amministrativo illegittimo, ma il potere di accertamento giurisdizionale, inteso quale diretta espressione del principio di legalità [...] e dunque detto potere deve essere esercitato anche in ordine ad un provvedimento (amministrativo) quando l'atto costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato o, comunque, incide su di esso (Sez. 3, n. 38856 del 04/12/2017, dep. 2018, Schneider, non mass.)».
E' stato in altri termini sottolineato, con la predetta sentenza, che l'esame del giudice penale riguarda l'integrazione o meno della fattispecie penale in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo una valenza descrittiva.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità volontaria, interdetti il passaggio di categoria o le mansioni superiori della PA di appartenenza.
Impossibile fornire un'interpretazione estensiva alla norma sulla mobilità volontaria (articolo 30 del Dlgs 165/2001) che possa attrarre eventuali mansioni superiori svolte in precedenza dal dipendente, e autorizzare anche il passaggio di categoria avvenuto in attesa del trasferimento verso la nuova amministrazione.
Queste conclusioni sono state confermate dalla Corte di Cassazione - Sez. lavoro (ordinanza 05.03.2019 n. 6337).
Il caso
Un dipendente transitato per mobilità volontaria verso un'altra amministrazione pubblica ha reclamato l'inquadramento superiore, dovuto alle mansioni superiori svolte nell'amministrazione di appartenenza prima del trasferimento e successivamente acquisite a seguito di passaggio alla categoria superiore ottenuto mediante superamento del corso-concorso di riqualificazione. Avendo negato l'amministrazione di destinazione un possibile inquadramento superiore, diverso da quello posto in disponibilità in sede di avviso di mobilità, il dipendente ha chiesto tutela al giudice del lavoro. Mentre il Tribunale di primo grado ha accolto le motivazioni del dipendente, la Corte di appello le ha negate.
A sostegno della correttezza delle ragioni dell'ente, i giudici di appello hanno evidenziato che nella mobilità volontaria il trasferimento avviene con inquadramento nell'area funzionale e in posizione economica corrispondente a quella posseduta presso l'amministrazione di provenienza, escludendo che ci possa essere una preventiva valutazione tra le mansioni svolte presso l'ente di provenienza e che possano, a tal fine, essere di aiuto un'eventuale comparazione tra profilo professionale della prima amministrazione e quello presso l'amministrazione di arrivo.
Pertanto, rispetto alle conclusioni del primo grado, va esclusa un'interpretazione estensiva della normativa sulla mobilità volontaria. Va anche escluso che il dipendente possa reclamare presso l'amministrazioni di arrivo eventuali mansioni superiori svolte precedentemente, e che il superamento successivo della categoria superiore acquisita dal dipendente, dopo il passaggio per mobilità, possa avere ripercussioni sull'amministrazione di arrivo se l'esito del concorso è avvenuto successivamente alla data della mobilità volontaria.
Il dipendente ha impugnato la sentenza della Corte territoriale in quanto, a suo dire, non avrebbe correttamente valorizzato sia il profilo professionale di provenienza sia le mansioni svolte di fatto e di diritto ottenute con il passaggio nella categoria superiore.
La conferma della Cassazione
Secondo la Cassazione le motivazioni del dipendente sono contrarie a un consolidato orientamento del giudice di legittimità, il quale ha avuto modo di precisare che nella mobilità volontaria del pubblico impiego si realizza una modificazione meramente soggettiva del rapporto, soggetta a precisi vincoli quanto alla conservazione dell'anzianità, della qualifica e del trattamento economico. Si tratta, in altri termini, della cessione del contratto, dove al dipendente trasferito si applica il trattamento economico, compreso quello accessorio, e normativo previsto presso l'ente di destinazione.
In questo caso l'ente di arrivo non ha alcun obbligo di verificare una possibile comparazione tra le mansioni in concreto svolte e tra i profili professionali assegnati prima e dopo il trasferimento. Di conseguenza, ha ben operato l'ente di arrivo che ha proceduto solo a trovare una corrispondenza tra l'area funzionale e la posizione economica possedute nell'amministrazione di provenienza e quelle attribuite dall'amministrazione d destinazione.
Infine, non può trovare accoglimento l'avanzamento di carriera del dipendente, perché la pubblicazione della graduatoria è avvenuta solo dopo al decreto di trasferimento. Su questo punto la Cassazione ha a suo tempo confermato che non sussiste alcun diritto del dipendente di ottenere la qualifica superiore acquisita, in attesa del passaggio, nell'amministrazione di provenienza non essendo coerente con le esigenze di imparzialità e buon andamento che un ente terzo incida sul rapporto di lavoro di un'altra Pa (tra le tante Cass. n. 19925/2016) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.03.2019).
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MASSIMA
   - il motivo è infondato, in quanto la Corte territoriale ha spiegato in maniera chiara, lineare ed esaustiva le ragioni che la hanno indotta a ritenere corretto l'operato del Ministero odierno controricorrente;
   - l'accertamento di fatto si struttura su alcune circostanze rimaste incontestate o che non hanno trovato smentita negli atti di causa:
      a) il Fanti era transitato volontariamente dal Ministero della Difesa al Ministero della Giustizia (decreto n. 7585 dell'11.03.2002) e al momento del passaggio possedeva la posizione economica B2 appartenente all'Area funzionale B del contratto collettivo per il personale del comparto dei Ministeri del 2002;
      b) la mobilità era stata attuata per il profilo di ausiliario per il quale vi era la carenza di organico che giustificava il passaggio diretto ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. n. 165;
     c) presso l'amministrazione penitenziaria non esiste il profilo di programmatore addetto ai terminali evoluti, e l'area B contempla i soli profili di ausiliario, collaboratore, contabile, educatore, operatore di vigilanza e tecnico, così che al Fa. è a stato assegnato il profilo di ausiliario;
   - la soluzione della fattispecie è correttamente inquadrata
nel consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità che, con l'espressione "passaggio diretto" contenuta nell'art. 30 del d.lgs. n. 165, qualifica non già un particolare tipo contrattuale civilistico ma un peculiare strumento, in campo pubblicistico, idoneo ad attuare il trasferimento del personale da un'amministrazione a un'altra, attribuendovi il significato di una modificazione meramente soggettiva del rapporto, soggetta a precisi vincoli quanto alla conservazione dell'anzianità, della qualifica e del trattamento economico;
   - in tale contesto,
il passaggio volontario del dipendente da un'amministrazione pubblica a un'altra viene inquadrato nell'ambito dell'istituto della cessione del contratto disciplinato dagli artt. 1406 ss. cod. civ., con la conseguenza che il complesso unitario di diritti ed obblighi derivanti dal contratto subisce una modificazione soggettiva, mentre rimangono immutati gli elementi oggettivi essenziali che lo connotano (Sez. Un. n. 6420 del 2006 e n. 19250 del 2010; Cass. n. 2 del 2017; n. 24724 del 2014; n. 5949 del 2012);
   -
il passaggio da un ente pubblico a un altro comporta l'inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con la conseguenza che al dipendente trasferito si applica il trattamento economico, compreso quello accessorio, e normativo previsto presso l'ente di destinazione (salvi eventuali assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito), non giustificandosi diversità di trattamento tra dipendenti dello stesso Ente a seconda della provenienza (Cass n. 18299 del 2017; n. 169 del 2017; n. 22782 del 2016; n. 20557 del 2016; n. 13850 del 2016; n. 24949 del 2014; n. 2181 del 2013; n. 5959 del 2012);
   -
alla stregua dell'art. 30 del d.lgs. n. 165, in capo all'amministrazione di destinazione non sussiste pertanto alcun obbligo di operare una comparazione tra le mansioni in concreto svolte e tra i profili professionali assegnati prima e dopo il trasferimento, atteso che la norma non prevede detto tipo di valutazione ma si limita a disporre che nel novero delle vacanze di organico "...il trasferimento è disposto con inquadramento nell'area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso l'amministrazione di provenienza";
   - deve concludersi che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità sopra richiamato, accertando che in base al tenore letterale dell'art. 30 del d.lgs. n. 165, il Ministero odierno controricorrente aveva inquadrato il Fanti sulla base dell'unico parametro indicato dalla norma: la corrispondenza tra l'area funzionale e la posizione economica possedute nell'amministrazione di provenienza e quelle attribuite dall'amministrazione d destinazione;
   - quanto alla pretesa di far derivare, dal superamento del corso-concorso per il riconoscimento del profilo di programmatore nell'ente di provenienza la legittimità del dipendente all'inquadramento nel profilo B3 dell'ente di arrivo per aver svolto, di fatto superiori, la Corte territoriale ha considerato ininfluente l'esito della selezione, avendo accertato che la pubblicazione della graduatoria era avvenuta successivamente al decreto di trasferimento per mobilità volontaria;
   - al riguardo è sufficiente richiamare tra le tante Cass. n. 19925 del 2016, secondo cui "
In tema di pubblico impiego privatizzato, in caso di passaggio ad altra amministrazione per la qualifica corrispondente a quella indicata dal lavoratore nella domanda, non sussiste il diritto per il dipendente di ottenere, in ordine al rapporto costituito su tale base, la qualifica superiore acquisita, nelle more del passaggio stesso, nell'amministrazione di provenienza, atteso che il trasferimento è chiesto ed avviene in ragione di una disponibilità creatasi nell'organico dell'Amministrazione di destinazione e nella qualifica prevista, e non è coerente con le esigenze di imparzialità e buon andamento che un ente terzo incida sul rapporto di lavoro di un'altra P.A.";

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Tra due condomini il passo carrabile ci va a nozze.
Il comune può autorizzare un passo carrabile posizionato tra due condomini senza occuparsi nel dettaglio della effettiva proprietà delle porzioni di terreno a cui si accederà attraverso il nuovo accesso veicolare.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 05.03.2019 n. 1530.
Un condominio ha proposto doglianze contro l'autorizzazione comunale che ha consentito al vicino di posizionare un passo carrabile sul proprio accesso laterale. Ma senza successo.
A parere del collegio tutte le questioni civilistiche relative alla proprietà dell'area a cui si accede mediante un passo carrabile sono irrilevanti per giudicare la regolarità di una concessione comunale di passo carraio. L'art. 3 del codice stradale definisce infatti il passo carrabile come un accesso ad un'area laterale idonea allo stazionamento dei veicoli.
Nel caso sottoposto all'esame del collegio è evidente che il passo carrabile si affaccia su un'area ad uso pubblico molto traffica del centro di Roma.
Per questo motivo, fatti sempre salvi i diritti dei terzi, è legittima l'autorizzazione comunale rilasciata per l'apertura di un passo carrabile su una strada ad uso pubblico (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPaletti anti-sosta, basta la Scia. Non serve il permesso di costruire. Stop alle demolizioni. Lo indica una sentenza del Tar Campania sui dissuasori per auto e rifiuti in condominio.
Tornano a sperare i condomini assediati dalle auto e dal deposito incontrollato di rifiuti. Non vanno abbattuti i paletti anti-sosta e immondizia selvaggi perché la demolizione è la sanzione che colpisce le opere realizzate senza permesso di costruire, mentre per i dissuasori basta la segnalazione certificata d'inizio attività.

È quanto emerge dalla sentenza 05.03.2019 n. 1255, pubblicata dalla III Sez. del TAR Campania-Napoli, che spezza una lancia per gli edifici dei centri storici ostaggio di auto, moto e immondizia.
Secondo la giurisprudenza amministrativa il comune non può ignorare le richieste del condominio che vuole mettere un divieto di sosta con dissuasori, tutelare con paletti il passo carrabile o allargare il marciapiede all'ingresso del comprensorio. Ma se l'immobile è di pregio niente paletti in ferro. Senza dimenticare che l'amministrazione può far rimuovere le opere abusive dal parcheggio condominiale anche se la strada è chiusa da un lato.
Restano dove sono i paletti piantati dal condominio: sbaglia l'ente locale a ordinarne la rimozione. Per i dissuasori basta la semplice Scia perché contano soltanto natura e dimensioni delle opere e dopo la posa dei manufatti l'area resta accessibile a tutti, in primis ai pedoni, tranne che alle macchine.
Il ricorso dell'ente di gestione contro il comune del Napoletano è accolto perché l'installazione dei paletti rientra nell'inserimento degli elementi accessori ex articolo 3, lettera c), del Testo unico dell'edilizia: l'unica sanzione che può scattare è quella pecuniaria di cui all'articolo 37, comma primo, dello stesso dpr 308/2001. I paletti «incriminati» dalla polizia municipale, in effetti, sono alti soltanto un metro e hanno un diametro di dieci centimetri per dieci: non si tratta di manufatti in grado di incidere in modo permanente sull'assetto del territorio perché possono essere facilmente rimossi.
D'altronde neppure l'amministrazione locale contesta che facciano da dissuasori al parcheggio non autorizzato e all'abbandono dei rifiuti. Né conta che l'area sia soggetta a vincolo paesaggistico: l'ente locale non indica in modo esplicito quale sarebbe l'incidenza negativa delle opere.
I precedenti.
Nuovo contraddittorio. È illegittimo il silenzio-inadempimento serbato dal comune sulla segnalazione dei condomini che chiedono sia allargato il marciapiede oppure installato un divieto di sosta con dissuasori: così neppure riescono a entrare nel palazzo. Il parcheggio selvaggio si trasforma in barriera architettonica e l'amministrazione locale ha l'obbligo almeno di pronunciarsi sull'istanza del condominio sulla base dei poteri che gli derivano dal codice della strada sulla gestione della circolazione stradale dei veicoli e dei pedoni in città.
È quanto emerge dalla sentenza 423/2018, pubblicata dalla I Sez. del Tar Toscana.
Accolto il ricorso dell'ente di gestione e dei singoli condomini: non giova al comune obiettare che nell'edificio non risultano residenti che abbiano difficoltà motorie. Il punto è che il condominio è certificato contro le barriere architettoniche interne, ma risulta difficilmente accessibile da fuori: a impedire il passaggio sul marciapiede poco profondo sono le auto parcheggiate l'una a ridosso dell'altra e i bauletti che sporgono dagli scooter.
Ed è dalle stesse relazioni depositate dall'amministrazione che emerge come siano fondate le istanze del condominio. In effetti gli uffici dell'ente stanno valutando l'allargamento del marciapiede e l'installazione del divieto di sosta, ma senza dissuasori. Su questo il giudice non può intervenire, ma la scelta discrezionale che sarà adottata dall'ente dovrà di nuovo essere vagliata nel contraddittorio.
Obbligo di manutenzione. Il comune non può far finta di niente anche quando è il passo carrabile dello stabile nella strada stretta a essere schiavo del parcheggio selvaggio: deve rispondere entro un mese all'istanza dei condomini che chiedono l'installazione di paletti o di un divieto di sosta all'altezza del numero civico in modo da poter entrare e uscire dal palazzo usando anche loro l'auto. E se l'amministrazione non provvede in tempo arriva il commissario indicato dal prefetto.
Lo stabilisce la sentenza 4280/2015, pubblicata dalla I Sez. del Tar Campania.
La grana scoppia perché uno dei condomini in preda a una colica non può uscire dal cancello con la macchina per essere accompagnato al pronto soccorso. La polizia municipale conferma: lo spazio di manovra davanti al passo carrabile è troppo angusto anche a causa dei veicoli parcheggiati sul marciapiede. E in caso di emergenza un'ambulanza avrebbe difficoltà a intervenire in zona. L'ente locale, dunque, non può rimanere inerte: ha un preciso obbligo di vigilanza sulle strade e sulle relative pertinenza in quanto proprietaria delle infrastrutture, ne deve garantire «la destinazione pubblica e il pacifico utilizzo da parte degli utenti».
Ed è lo stesso codice della strada a imporre al comune di installare la segnaletica stradale a partire dal divieto di sosta (articolo 37) e i paletti dissuasori autorizzati dal ministero dei Trasporti da «utilizzare come impedimento materiale alla sosta abusiva» dei veicoli (art. 42). Se l'amministrazione locale non provvede, a rispondere all'istanza dei cittadini sarà un funzionario dell'ufficio territoriale del governo indicato dal prefetto.
Utilizzo legittimo. Bisogna fare i conti anche con le Soprintendenze, però. Il comune non può vietare al condominio di utilizzare il cortile come parcheggio dei veicoli di proprietari e inquilini anche se l'edificio in pieno centro storico risulta sottoposto a vincolo dai Beni culturali. E ciò perché lo stabile si trova in un'area che è «residenziale» secondo il piano regolatore generale: la destinazione indicata dalle norme di attuazione prg risulta estesa agli spazi di pertinenza. L'ente di gestione, tuttavia, non può delimitare l'area di sosta con paletti di ferro perché rovinano l'acciottolato di pregio, come ha stabilito la Soprintendenza.
È quanto emerge dalla sentenza 98/2019, pubblicata dalla II Sez. del Tar Piemonte.
Il condominio fa annullare l'ordinanza del dirigente del servizio edilizia che vieta di parcheggiare in cortile. Pesa l'esposto di uno dei proprietari esclusivi che denuncia il posteggio selvaggio sotto il suo balcone. L'amministrazione minaccia di applicare sanzioni all'ente di gestione in caso d'inottemperanza ex articolo 7-bis primo comma Tuel. In realtà sono più di quarant'anni che le macchine vengono parcheggiate in cortile con il permesso dell'assemblea: l'impiego dell'area risulta legittimo in quanto costituisce una delle possibili forme ordinarie utilizzazione dell'area di pertinenza all'edificio residenziale.
Il condominio, comunque, deve provvedere a delimitare gli spazi della sosta con elementi a terra come stalli o strisce dipinte perché i paletti stop-auto sono incompatibili con il decoro architettonico dell'edificio.
Apertura sufficiente. Attenzione, infine, ai paletti in ferro nel parcheggio condominiale. La rimozione ordinata dal comune scatta anche se l'area su cui i dissuasori sono installati risulta proprietà dell'edificio: ciò che conta è l'uso pubblico della strada su cui affaccia il caseggiato, mentre il fatto che la via sia chiusa da un lato non basta a renderla privata.
È quanto emerge dalla sentenza 1224/2015, pubblicata dalla II Sez. del Tar Sicilia.
Niente da fare, stavolta, per il condominio: deve rassegnarsi a far sparire catene e lucchetti che blindano le auto parcheggiate sotto il palazzo come ha ordinato il servizio edilizia pubblica e privata del comune. All'amministrazione non può disconoscersi il potere di far abbattere le opere abusive. E i dissuasori messi a bordo strada ostacolano il passaggio di eventuali mezzi di soccorso.
È poi escluso che la strada dove sorge il fabbricato possa davvero essere ritenuta privata: inutile eccepire il fatto che la via sia chiusa da un lato e non metta in comunicazione due pubbliche vie, risulta infatti sufficiente che l'apertura da un lato consenta l'accesso da e per una strada pubblica.
Affinché una strada possa rientrare nella categoria vicinale pubblica è prevista una serie di requisiti, fra i quali il passaggio esercitato a titolo di servitù da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale. E il diritto di uso pubblico può ben essere affermato solo perché l'utilizzo si protrae da tempo (articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato alla stregua delle seguenti considerazioni.
In primo luogo, diversamente da quanto sostiene parte ricorrente
l’intervento effettuato non ricade tra le attività libere (indicate tra l’altro in modo tassativo all’art. 6 del t.u. n. 380 del 2001, in deroga al generale obbligo di munirsi di un titolo abilitativo per eseguire interventi edilizi, ciò di cui occorre tenere conto per una corretta lettura e interpretazione dello stesso art. 6), avendo riguardo da un lato alle tipologie delle fattispecie liberalizzate e, dall’altro, all’entità dell’opera posta in essere, che non corrisponde alla descrizione delle attività di cui alle lettere c) e d) del citato art. 6.
Tuttavia coglie nel segno il profilo di censura con cui parte ricorrente ritiene che nel caso qui in esame non venga in discussione un’ipotesi di trasformazione edilizio–urbanistica, o di alterazione permanente dell’assetto del territorio, o di nuova costruzione, tale da esigere il previo rilascio del permesso di costruire ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Deve invece ritenersi, sulla falsariga di quanto affermato dal Giudice di appello in una fattispecie del tutto simile a quella oggetto di causa, che l’intervento ricada nel campo di applicazione dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, in tema di SCIA (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3554).
Sulla questione, intuitivamente affine, dell’assoggettamento, o meno, delle recinzioni, a permesso di costruire, la giurisprudenza amministrativa di primo grado, afferma che
la valutazione sulla necessità, o meno, del permesso di costruire, va compiuta in base ai parametri della natura e delle dimensioni delle opere, e della loro destinazione e funzione (si vedano, tra le altre, TAR Campania, n. 3328/2013 e n. 1542/2012, TAR Lombardia, n. 6266/2009, TAR Lazio, n. 8644/2009, TAR Veneto, n. 1215/2011, TAR Calabria, n. 1299/2014, TAR Lombardia–Brescia, n. 118/2013 e altre), sicché quando, ad esempio, vengono eseguite opere in muratura e la recinzione non è facilmente rimuovibile, l’intervento, essendo idoneo a incidere in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio, esige il previo rilascio del permesso di costruire, ma a tal fine occorre avere riguardo a tutte le opere realizzate nel loro complesso.
Invero questa Sezione di recente ha ritenuto che: <<
la posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli paesaggistici (cfr. TAR Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907; TAR Roma, sez. II, 04/09/2017, n. 9529; Cons. St., sez. IV, 15/12/2017, n. 5908)>> (cfr. TAR Campania, Sez. III, 24.12.2018, n. 7333).
Ciò posto,
l’intervento in argomento, alla luce delle caratteristiche e delle dimensioni dello stesso (10 paletti dell’altezza di mt. 1 ciascuno e diametro 10x10, si vedano le foto prodotte in giudizio), ricade nel campo di applicazione dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, cioè, tra quelli realizzabili con il regime semplificato della d.i.a., la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la demolizione, previste dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, o in totale difformità del medesimo ovvero con variazioni essenziali, ma con l'applicazione della mera sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta denuncia di inizio di attività.
In primo luogo, non è stata eseguita nessuna opera muraria significativa. I paletti apposti, uniti al suolo mediante un basamento di calcestruzzo assai sottile, risultano distanziati tra loro in modo tale da consentire un facile accesso pedonale all’area ed effettivamente sembrano svolgere una funzione, non contestata dal Comune, di dissuasori della sosta e dell’abbandono dei rifiuti. Viene in rilievo, nel complesso, un’opera finalizzata a delimitare la proprietà del condominio ricorrente (non si tratta neppure di una recinzione, essendo l’area “tuttora liberamente accessibile a tutti, salvo che alle autovetture”), rimovibile in maniera tutt’altro che disagevole e, come tale, inidonea a incidere sull’assetto edilizio del territorio.
Non vi è poi alcun concreto elemento, a parte la generica e immotivata asserzione del Comune resistente, di incidenza negativa sul paesaggio nei termini di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, come invece addotto nel gravato provvedimento, laddove la limitata evidenza dell’intervento avrebbe richiesto una più esplicita indicazione in tal senso.
Poiché dunque la realizzazione dei paletti per cui è causa doveva farsi rientrare nella fattispecie dell’inserimento di elementi accessori di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), del t.u. n. 380 del 2001, ne consegue che l’intervento eseguito in assenza di titolo ex art. 22 d.P.R. n. 380/2001 porterebbe alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 37, co. 1 d.P.R. n. 380/2001.
In definitiva il ricorso deve essere accolto e l’ordinanza impugnata conseguentemente deve essere annullata.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAccordo in salita sul riassetto organizzativo dei piccoli comuni.
Accordo in salita sul riassetto organizzativo dei mini enti.
Dopo la pubblicazione della sentenza 04.03.2019 n. 33 della Corte Costituzionale (che ha censurato parzialmente la disciplina del dl 78/2010 con cui da quasi un decennio il legislatore nazionale cerca, invano, di imporre ai mini enti di gestire il proprio core business attraverso unioni e convenzioni) si sono registrati solo commenti positivi. Peccato che, però, ciascuno la legga a modo suo attestandosi su posizioni fra di loro spesso diametralmente opposte.
Secondo l'Anpci, la pronuncia «mette la parola fine a un'epoca che ha visto i piccoli comuni perseguitati da una logica burocratica ed economica perversa». «Da oggi», ha scritto la presidente, Franca Biglio, «si apre un'altra era politico-istituzionale che sancisce l'indispensabile ruolo che i comuni fino a 5.000 abitanti svolgono sul territorio nazionale e riafferma l'autonomia degli stessi, quali istituzioni sane e virtuose, che presidiano il territorio, contro ogni maldestro tentativo di cancellare il loro patrimonio culturale e sociale dalla storia millenaria dell'Italia. La sentenza della Corte costituzionale segna una tappa fondamentale, un punto fermo per la nuova riforma degli enti locali».
Più articolato il commento dell'Uncem, che invita a leggere per intero quanto scritto dal relatore, Luca Antonini, «per evitare fraintendimenti sul tema dell'associazionismo comunale e sulla gestione in forma associata delle funzioni».
Come annota il rappresentante degli enti montani, Marco Bussone, delle varie censure mosse dai ricorrenti a più commi dell'art. 14 del dl 78 che prevedono e disciplinano l'obbligo di esercizio associato delle funzioni fondamentali per i piccoli comuni, la Corte costituzionale ritiene illegittimo il solo comma 28, peraltro solo nella parte in cui non prevede la possibilità (in un contesto di comuni obbligati e non) di ottenere l'esonero (dall'obbligo) dimostrando che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell'erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento.
Secondo Uncem, i giudici delle leggi avrebbero invece promosso il ruolo delle unioni, da sempre invise all'Anpci che punta tutto sulle convenzioni in quanto più rispettose dell'autonomia comunale.
Anche dall'Anci è partita la difesa delle unioni: il vice-presidente della sezione del Piemonte, Michele Pianetta, ha confermato che «non sono le unioni di comuni ad essere state dichiarate incostituzionali, bensì l'obbligo dell'esercizio associato delle funzioni fondamentali» ed ha invitato a diffidare dalla «propaganda di chi considera gli accordi tra comuni come una minaccia. Le unioni rappresentano un'opportunità, soprattutto quando si parla di servizi» (articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).

APPALTIRicorsi sui concorrenti, solo quando ammessi. GARE: I TERMINI PER LE IMPUGNAZIONI.
In una gara di appalto il termine per impugnare l'ammissione di un concorrente decorre dalla pubblicazione dell'attestazione dell'avvenuta ammissione e dalla disponibilità degli elementi minimi che consentano di confutare la sussistenza del requisito di partecipazione.
Lo ha affermato il TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la sentenza 28.02.2019 n. 1132 rispetto all'interpretazione dell'articolo 29 del codice dei contratti che richiama come decorso del termine il «momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione», cioè, «le ammissioni all'esito della verifica della documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali».
I giudici campani hanno precisato che in base alla norma, il termine non decorre dalla messa a disposizione di tutti i documenti attestanti il possesso dei requisiti tecnico-professionali e economico-finanziari e che non può ritenersi necessaria l'esternazione di valutazioni da parte dell'amministrazione, atteso che il riferimento alla motivazione contenuto nella disposizione deve necessariamente ricollegarsi alle esclusioni e non anche alle ammissioni. In questi casi, infatti, «la motivazione non può che riconnettersi all'avvenuto riscontro positivo dei requisiti prescritti dalla lex specialis di gara».
Se si ragionasse diversamente, hanno detto i giudici, nel caso della contestazione delle ammissioni, il termine di cui all'art. 120, comma 2-bis, codice di procedura amministrativa. comincerebbe a decorrere dal momento in cui la parte ricorrente ha acquisito conoscenza di tutta la documentazione relativa ai requisiti di partecipazione; questo porterebbe come conseguenza che si dovrebbe posticipare sistematicamente il decorso del termine in questione a quello dei controlli sulla veridicità delle dichiarazioni rese in sede di partecipazione ovvero a quello in cui l'accesso a tali documenti viene effettivamente consentito dalle varie amministrazioni interessate, vanificando la previsione decadenziale e l'intento acceleratorio della norma
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).
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MASSIMA
Il rilievo è fondato.
L’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. prevede che: <<Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici adottato in attuazione della legge 28.01.2016, n. 11. L'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale. E' altresì inammissibile l'impugnazione della proposta di aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività>>.
La disposizione introduce, come noto, un rito comunemente definito super accelerato, in quanto volto a stabilire una decadenza generalizzata per tutte le contestazioni giurisdizionali aventi ad oggetto le ammissioni o esclusioni stabilite nel corso del procedimento di gara, alla dichiarata finalità di limitare impugnazioni dell’aggiudicazione per invalidità derivata e deflazionare così il contenzioso.
La gravità della decadenza connessa alla mancata tempestiva impugnazione dei provvedimenti incidenti sulla partecipazione (ammissioni/esclusioni) ha condotto all’introduzione di un correlativo obbligo di pubblicità gravante sulla stazione appaltante all’art. 29 del codice dei contratti, che nella parte che qui rileva così dispone: <<Tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e forniture, nonché alle procedure per l'affidamento di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere…devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33. Al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell' articolo 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo, sono altresì pubblicati, nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito della verifica della documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali…Il termine per l'impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis, decorre dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione>>.
La giurisprudenza amministrativa si è orientata nel senso che <<
l’onere di impugnazione immediata, nel termine di trenta giorni, del “provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali” risulta esigibile solo a fronte della contestuale operatività delle disposizioni del decreto legislativo che ne consentono l’immediata conoscenza da parte delle imprese partecipanti alla gara e, segnatamente, degli artt. 29, comma 1, e 76, comma 3. In difetto del (contestuale) funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata impugnazione –che devono, perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale inscindibile– la relativa prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi stabilito…>> (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 25.11.2016, n. 4994; TAR Lazio, sez. III, 14.02.2019, n. 1947).
In estrema sintesi la disciplina del rito c.d. super accelerato può così riassumersi per quanto di odierno interesse: le ammissioni (e le esclusioni) devono essere impugnate entro trenta giorni dal momento in cui sono pubblicate telematicamente sul profilo committente della stazione appaltante, complete di tutte le informazioni previste dall’art. 29 stesso. Non vale quindi la regola dell’effettiva conoscenza, essendo stato introdotto un regime che, per un verso, è più trasparente in quanto tende a fornire immediatamente ai potenziali interessati tutte le informazioni necessarie a decidere se proporre ricorso e, per altro verso, più formale perché la pubblicazione con le modalità prescritte dall’art. 29 produce la decorrenza del termine indipendentemente dall’effettiva conoscenza da parte degli altri partecipanti (cfr. cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 4/2018; TAR Lazio, Sez. III-quater, 22.08.2017, n. 9379; Cons. Stato, Sez. III, 11.07.2016, n. 3026).
Ne consegue che,
quand’anche i rappresentanti di una concorrente abbiano partecipato alla seduta della commissione che abbia deciso sulle esclusioni e ammissioni, il termine di impugnazione non comincia a decorrere fino a che non sia eseguita la predetta pubblicazione ai sensi dell’art. 29 codice contratti.
Nel caso di specie parte ricorrente sostiene che il ricorso sarebbe stato tempestivamente proposto, in quanto il termine di cui all’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. non poteva nemmeno cominciare a decorrere, in quanto la piena conoscenza da parte della ricorrente sarebbe stata raggiunta solo a seguito dell’accesso agli atti della gara e in particolare alle attestazioni del Comune di Battipaglia relative ai requisiti esperenziali dichiarati dall’aggiudicataria.
In altri termini solo dopo che la stazione appaltante ha finalmente osteso e depositato siffatti documenti, la ricorrente avrebbe potuto accertare la pretesa incongruenza della dichiarazione resa in sede di partecipazione e, in questo modo, ha potuto censurare l’aggiudicazione.
Ritiene il Collegio che tale impostazione non possa essere condivisa sia sul piano dei principi che in fatto.
Occorre ribadire che l’art. 29 codice dei contratti subordina il decorso del termine per l'impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis “dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione”; ora, gli atti a cui al secondo periodo sono: <<il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito della verifica della documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali>>.
Ritiene il Collegio che, per il caso delle ammissioni, il termine decorra dalla pubblicazione dell’attestazione dell’avvenuta ammissione e dalla disponibilità degli elementi minimi che consentano di confutare la sussistenza del requisito di partecipazione, non anche dalla messa a disposizione di tutti i documenti attestanti il possesso dei requisiti tecnico/professionali e economico/finanziari né può ritenersi necessaria l’esternazione di valutazioni da parte dell’Amministrazione, atteso che il riferimento alla “motivazione” contenuto nella disposizione deve necessariamente ricollegarsi alle esclusioni e non anche alle ammissioni per le quali la motivazione non può che riconnettersi all’avvenuto riscontro positivo dei requisiti prescritti dalla lex specialis di gara.
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che nel caso della contestazione delle ammissioni, il termine di cui all’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. cominci a decorrere dal momento in cui parte ricorrente ha acquisito conoscenza di tutta la documentazione relativa ai requisiti di partecipazione significherebbe posticipare sistematicamente il decorso del termine in questione a quello dei controlli sulla veridicità delle dichiarazioni rese in sede di partecipazione ovvero a quello in cui l’accesso a tali documenti viene effettivamente consentito dalle varie Amministrazioni interessate, vanificando la previsione decadenziale e l’intento acceleratorio evidentemente sotteso alla previsione in parola.
Ciò non implica che la ricorrente non possa contestare la sussistenza dei requisiti di ammissione, ma se non è in possesso ancora di tutta la documentazione può proporre comunque ricorso tempestivamente nel termine di cui all’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. sulla base degli elementi in proprio possesso, salvo poi notificare motivi aggiunti nel caso in cui dovessero emergere (anche a seguito di accesso) ulteriori manifestazioni di illegittimità.
Questo è del resto quanto accaduto nel caso di specie, in cui parte ricorrente aveva precedentemente acquisito conoscenza della determina del Comune di Battipaglia pubblicata nell’albo pretorio dell’ente, secondo quanto confermato dalla stessa Tr.Co. s.r.l. nel ricorso introduttivo (pag. 3).
Ma se la ricorrente aveva già contezza dell’ammissione dell’aggiudicataria e, peraltro, le informazioni relative al contestato possesso del requisito di partecipazione erano già disponibili da tempo, non si vede perché non fosse applicabile il termine di trenta giorni di cui all’art. 120, co. 2-bis, c.p.a.; una diversa interpretazione che richiedesse, come detto, la piena conoscenza di tutti gli atti collegati alla comprova della sussistenza dei requisiti esperenziali, oltre a non essere imposta dal richiamato dall’art. 29 del codice dei contratti, comporterebbe la sostanziale disapplicazione della disposizione appena citata.
Disapplicazione che non è imposta dall’ordinamento comunitario, come di recente chiarito dalla CGE che, proprio con riferimento al rito super accelerato di cui all’art. 120, co. 2-bis, c.p.a., ha statuito che: <<
la direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 2014/23, e in particolare i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede che, in mancanza di ricorso contro i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione degli offerenti alla partecipazione alle procedure di appalto pubblico entro un termine di decadenza di 30 giorni dalla loro comunicazione, agli interessati sia preclusa la facoltà di eccepire l’illegittimità di tali provvedimenti nell’ambito di ricorsi diretti contro gli atti successivi, in particolare avverso le decisioni di aggiudicazione, purché tale decadenza sia opponibile ai suddetti interessati solo a condizione che essi siano venuti o potessero venire a conoscenza, tramite detta comunicazione, dell’illegittimità dagli stessi lamentata…>> (cfr. CGE, sez. IV, 14.02.2019, causa C-54/18).
Ne consegue che il termine di impugnazione comincia a decorrere quando l’impresa che intenda contestare la partecipazione di altro concorrente disponga del minimo degli elementi di fatto necessari a tal fine, ma non anche di tutto il corredo documentale relativo alla contestata ammissione.
Nel caso di specie, si ripete, parte ricorrente già dalla pubblicazione del verbale del 05.06.2017, avvenuta in data 17.07.2018, disponeva degli elementi poi addotti in sede di ricorso introduttivo, con la conseguenza che il ricorso notificato in data 28.09.2017 deve ritenersi tardivamente proposto.
Né può invocarsi l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il termine di impugnazione dell’ammissione decorrerebbe dall’avvenuta aggiudicazione nel caso in cui le ammissioni e la valutazione delle offerte avvengano contestualmente.
Secondo la giurisprudenza, infatti,
allorquando le cause di esclusione o di mancate esclusioni si innestano direttamente nella procedura valutativa che segue l’apertura delle offerte, si verte nella fattispecie del comma 6 dell'art. 80 del d. l.vo 50/2016, secondo cui "Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5". Ed in tal caso, come rilevato dal Consiglio di Stato, le cause di esclusione non hanno rilievo processuale in sé, ma confluiscono all'interno del giudizio (ordinario) sull'aggiudicazione e pertanto possono e devono essere impugnate unitamente a tale provvedimento nel termine decorrente, appunto, dall’aggiudicazione (cfr. da ultimo TAR Campania, sez. VI, 01.08.2018, n. 5148).
Invero nel caso di specie, secondo quanto risultante dal verbale relativo alle operazioni della commissione di gara del 05.06.2017, nel corso della prima seduta di gara non si è proceduto solamente al riscontro dei requisiti di ammissione, ma si sono anche aperte le buste contenenti le offerte tecniche ("La Commissione, procede, poi, ad aprire le buste B “Offerta Tecnica” degli operatori economici ammessi, vistando tutti i documenti tecnici in esse contenute").
Sennonché, rileva il Collegio, che la Commissione di gara non ha eseguito alcun vaglio, pur provvisorio, dell'offerta tecnica e dell'offerta economica delle concorrenti, ma si è svolta la sola apertura delle buste recanti l’offerta tecnica, sicché, non essendoci stata alcuna “valutazione” delle offerte stesse, non vi sarebbe la concorrenza dei due riti quello relativo all’impugnazione delle ammissioni (super accelerato) e quello (“semplicemente”) accelerato previsto per l’annullamento delle aggiudicazioni che giustifica, secondo l’orientamento giurisprudenziale sopra riferito, l’applicazione del termine di impugnazione “ordinario” quale rito prevalente.
In definitiva, il ricorso è tardivo e deve dichiararsi irricevibile ai sensi dell’art. 35, co. 1, lett. a) c.p.a..

TRIBUTIIndirizzo Pec non valido e casella di posta satura, le possibili conseguenze.
Ancora un alert per i soggetti obbligati alla tenuta di un indirizzo di posta elettronica certificata proviene dalla commissione provinciale di Messina, che con la recente sentenza 27.02.2019 n. 1336/1/2019 e resa dalla Sez. I, in linea con precedenti pronunce del medesimo tenore, ha sostanzialmente ribadito il rischio per tali contribuenti, di veder consolidata, a loro insaputa, la pretesa impositiva con successivo pignoramento dei conti correnti.
E infatti, anche per i giudici messinesi non c'è dubbio che sia regolare la notifica effettuata con deposito telematico presso la Camera di Commercio e invio di raccomandata informativa, nei casi in cui la notifica a mezzo pec, effettuata nei confronti di un'impresa individuale o costituita in forma associata o di liberi professionisti iscritti in specifici albi o elenchi (o nel caso di mancanza di pec per i soggetti a essa obbligati), sia rifiutata dal sistema per la saturazione della casella o per l'indirizzo non valido.
In tali ipotesi, dunque, la notifica si perfeziona per il notificante al momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione e per il destinatario al momento di ricezione della raccomandata informativa o decorsi 10 giorni dal deposito della stessa nella casa comunale in caso di mancata consegna.
La norma
L'articolo 26 del Dpr 602/1973 (modificato prima dall'articolo 14 del Dlgs 159/2015 e, poi, dall'articolo 7-quater, comma 9, del Dl 193/2016, convertito dalla legge n. 225/2016), contempla la facoltà (nella prima modifica l'articolo 14 del Dlgs 159/2015 parlava di obbligatorietà) per l'Agente della Riscossione (dal 01.07.2017) di effettuare la notifica della cartella di pagamento all'imprese individuali o costituite in forma societaria e per i professionisti iscritti in appositi albi o elenchi a mezzo Pec all'indirizzo risultante dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC).
Tuttavia, se l'indirizzo di posta elettronica del destinatario non risulta valido e attivo o la casella di posta elettronica è satura, la notificazione deve eseguirsi, mediante deposito dell'atto presso gli uffici della Camera di Commercio competente per territorio e pubblicazione del relativo avviso sul sito informatico della medesima, dandone notizia allo stesso destinatario per raccomandata con avviso di ricevimento, senza ulteriori adempimenti a carico dell'agente della riscossione, nel caso di casella satura si dovrà procedere ad un secondo tentativo di notifica, da effettuarsi decorsi almeno sette giorni dal primo invio (articolo 60 del Dpr 600/1973).
La sentenza
Nel dettaglio, la Ctp di Messina ha respinto il ricorso presentato da un imprenditore avverso una cartella di pagamento con la quale si chiedeva il pagamento di imposte Irap e Iva anno 2012 modello Unico/2013. A sostegno del gravame era stata dedotta, tra l'altro, la decadenza dell'azione di recupero, essendo stata notificata la cartella tramite Pec in data 21.01.2017, oltre il termine triennale previsto dalla norma.
Si costituiva, oltre all'Agenzia delle Entrate, l'Ente Riscossione Sicilia spa che insisteva sulla regolarità e tempestività della notifica, così come previsto dal Dpr 11.02.2005 n. 68 («Disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata»), dal momento che il messaggio Pec inviato il 26.12.2016 risultava «rifiutato dal sistema per indirizzo non valido e conseguentemente, come previsto dall'articolo 26 della Dpr 602/1973, la notifica si è perfezionata con il deposito telematico presso gli uffici della Camera di Commercio competente e la contestuale pubblicazione del relativo avviso sul sito Internet della stessa Camera di Commercio e con l'invio di una raccomandata informativa al destinatario del 31.01.2017. Pertanto, la notifica si è perfezionata per il notificante al momento in cui è stata generata la ricevuta di accettazione (26.12.2016) e per il destinatario al momento di ricezione della raccomandata informativa».
Le difese della società di Riscossione sul punto specifico sono state interamente recepite dalla Ctp adita. Si impone, dunque, per la citata tipologia di contribuenti, la massima attenzione nel verificare regolarmente la corretta funzionalità della propria casella di posta elettronica onde evitare sgradite sorprese! (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.04.2019).

URBANISTICA: Individuazione degli ambiti di trasformazione .
L’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio, in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità e zone, ben può essere soddisfatto anche includendo in un ambito di trasformazione –in funzione della successiva pianificazione attuativa– aree non contigue tra loro, se specifiche esigenze locali, ad esempio per la riqualificazione di aree degradate, inducano l’Amministrazione comunale ad operare scelte urbanistiche che privilegino una disciplina di unitaria definizione del loro assetto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2019 n. 425 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4.2 Il secondo motivo verte sulla destinazione impressa all’area de qua dal PGT. In particolare i ricorrenti contestano l’inclusione di aree disomogenee nello stesso ambito, la modalità con cui è stata applicata la perequazione, la previsione di standard, la monetizzazione e la destinazione impressa alla zona.
4.2.1 Partendo dal primo profilo, cioè l’inclusione nell’ambito di trasformazione di aree tra loro distanti e non omogenee, secondo la tesi dei ricorrenti la perimetrazione dell’ambito territoriale assoggettata ad unitario studio di piano esecutivo include illegittimamente aree non adiacenti e di differenti caratteristiche. Infatti nell’ambito AT2-C (che comprende le aree dei ricorrenti, costituite da superfici libere idonee a recepire nuovi insediamenti) sono inserite anche aree esterne, distanti circa 1 km, occupate da un campo nomadi, su cui vi sarebbero anche opere abusive.
Il motivo non è fondato.
L’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio, in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità e zone, ben può essere soddisfatto anche accorpando –in funzione della successiva pianificazione attuativa– aree non contigue tra loro, se specifiche esigenze locali, ad es. per la riqualificazione di aree degradate, inducano l’Amministrazione comunale ad operare scelte urbanistiche che privilegino una disciplina di unitaria definizione del loro assetto.

URBANISTICA: La presenza di opere abusive su un’area inclusa in un comparto non impedisce di assegnare all’area una nuova volumetria, sempre in funzione della riqualificazione della zona.
Ciò non implica una sorta di implicita sanatoria degli abusi esistenti, essendo due procedimenti ben distinti: l’uno, quello di vigilanza edilizia; l’altro, quello del PGT, con cui si disciplina l’uso del territorio.
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Sostengono i ricorrenti che nello stesso comparto vengono incluse non solo aree distanti, differenti morfologicamente, ma anche sottoposte ad un diverso regime giuridico: infatti l’area occupata dal campo nomadi non è commerciabile, in quanto interessata da opere abusive. Per detta area verrebbe illegittimamente prevista una volumetria, nuova, che sostituisce quella abusiva: in tal modo la perequazione viene utilizzata per “sanare abusi edilizi”.
La tesi dei ricorrenti non può essere condivisa.
La presenza di opere abusive su un’area inclusa in un comparto non impedisce di assegnare all’area una nuova volumetria, sempre in funzione della riqualificazione della zona. Ciò non implica una sorta di implicita sanatoria degli abusi esistenti, essendo due procedimenti ben distinti: l’uno, quello di vigilanza edilizia; l’altro, quello del PGT, con cui si disciplina l’uso del territorio.
Rispetto al primo procedimento, emerge dagli atti come l’Amministrazione sia consapevole della situazione di abusivismo edilizio e non abbia in alcun modo, né esplicitamente né implicitamente, rinunciato ad esercitare i poteri di controllo e di repressione degli abusi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2019 n. 425 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza ha chiarito che i Comuni hanno titolo ad operare scelte di pianificazione funzionali al corretto insediamento delle strutture di vendita con riferimento anche agli aspetti connessi all’ambiente urbano, sicché le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, ben possono porre limiti agli insediamenti degli esercizi commerciali e dunque alla libertà di iniziativa economica.
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4.2.4 Con l’ultimo profilo di doglianza i ricorrenti lamentano la scelta di limitare la destinazione commerciale della zona: mentre in base alla pregressa disciplina era consentito lo sviluppo di un plesso commerciale per mq 2.966, attualmente la superficie insediabile sarebbe di soli mq. 1.231, con destinazioni commerciali per medie strutture di vendita nella superficie massima di mq. 600.
Si tratterebbe di una limitazione che non trova giustificazione in oggettivi impedimenti di ordine urbanistico o territoriale, in contrasto con i principi di libertà di stabilimento e libera prestazione, di cui alla direttiva comunitaria Bolkestein.
Sempre secondo parte ricorrente non si ricavano dagli atti del P.G.T. ragioni per introdurre detta limitazione, soprattutto perché la progettata attività commerciale ricadrebbe in zona nella quale si prevede di realizzare un ampio parcheggio pubblico di oltre 3.200 mq. (cui si aggiungerebbe quello proprio e pertinenziale al punto di vendita) e inoltre sarebbe servita dalla viabilità locale e dalla ferro-tranvia che si prevede di ristrutturare e rendere maggiormente funzionale al trasporto locale.
Anche sotto questo profilo gli atti impugnati non presentano profili di illegittimità.
Si tratta di scelte pianificatorie discrezionali, non censurabili sotto il profilo di erroneità o manifesta irrazionalità; né la previsione precedente più favorevole ha conferito una posizione di aspettativa qualificata, tale da imporre una motivazione pregnante.
La nuova disciplina introduce una prescrizione che non pone un divieto assoluto di insediamento di nuove strutture di vendita, ma una limitazione per un preciso ambito di trasformazione, introdotta in base a valutazioni urbanistiche, connesse in particolare alle criticità in tema di viabilità (v. 2° Fascicolo obiettivi strategici del P.G.T., pag. 32).
La giurisprudenza ha chiarito che i Comuni hanno titolo ad operare scelte di pianificazione funzionali al corretto insediamento delle strutture di vendita con riferimento anche agli aspetti connessi all’ambiente urbano, sicché le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, ben possono porre limiti agli insediamenti degli esercizi commerciali e dunque alla libertà di iniziativa economica (v. Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2017 n. 2699)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2019 n. 425 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONon c'è legame con le spese di giudizio.
È illegittima la norma del regolamento di organizzazione dell'avvocatura provinciale, secondo la quale il pagamento degli onorari degli avvocati, relativi alle controversie definite con esito favorevole per l'Ente, è limitato ai soli casi in cui la controparte sia condannata al pagamento delle spese di giudizio e ne sia stato ottenuto il relativo recupero.

Così il TAR Campania-Salerno, Sez. I con sentenza 25.02.2019 n. 332.
Alcuni avvocati, pubblici dipendenti della provincia di Avellino, con ricorso avevano impugnato il regolamento di organizzazione della Avvocatura provinciale.
Più precisamente avevano ritenuto illegittimo l'art. 16, comma 7, nella parte in cui aveva previsto che «i compensi professionali, nel caso di pronuncia che lo ponga in tutto o in parte a carico della controparte soccombente, confluiscono nell'apposito competente capitolo di bilancio denominato «compensi professionali» ex art. 37 e 27 Ccnl e saranno corrisposti, laddove effettivamente recuperate. Gli stessi avvocati cureranno il recupero delle somme poste a carico della controparte soccombente e, nel caso in cui tale recupero risulti impossibile, non potranno pretenderne il pagamento a carico dell'amministrazione provinciale».
Tale norma, secondo i ricorrenti, contrasterebbe con l'art. 27 Ccnl 14/09/2000, in virtù del quale, a differenza dalla previgente disciplina, le spettanze professionali non sono più subordinate agli importi «recuperati» a seguito di condanna della parte avversa. Il Tar accoglie il ricorso.
I giudici amministrativi rilevano, infatti, come in tema di propine dovute agli avvocati degli Enti pubblici, per ragioni di parità di trattamento di cui all'art. 45, comma 2, dlgs 165/2001, attualmente è previsto un sistema retributivo analogo a quello in vigore per l'Avvocatura dello Stato. Tale sistema prevede la debenza di tali compensi semplicemente alla ricorrenza di sentenze favorevoli.
In tal modo, come hanno sostenuto correttamente i ricorrenti, si è superata la previgente disciplina specifica di settore, propria del Comparto enti locali, che ne subordinava la spettanza agli importi «recuperati» (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Al compenso basta la sentenza. Non rileva che la controparte debba pagare le spese. AVVOCATI/ Tar Campania su un caso riguardante due legali dipendenti pubblici.
L'ente locale non può subordinare il compenso dovuto al legale della propria avvocatura alla duplice condizione che la controparte in giudizio sia condannata al pagamento delle spese e risultino pure recuperati gli importi. E ciò perché anche nel comparto del pubblico impiego che riunisce Comuni e Province si applica il miglioramento introdotto dai nuovi contratti collettivi secondo cui a far scattare le propine bastano semplicemente le sentenze favorevoli all'amministrazione.

È quanto emerge dalla sentenza 25.02.2019 n. 332, della I Sez. del TAR Campania-Salerno.
Equiparazione decisiva. Il regolamento adottato dal commissario dell'ente è annullato in più punti grazie al ricorso proposto da due avvocati dipendenti. Si applicava in passato la regola secondo cui ai componenti le avvocature degli enti locali i compensi spettavano unicamente sugli importi recuperati dopo la condanna alle spese della parte avversa soccombente in giudizio. La contrattazione collettiva, infatti, le ha equiparate agli avvocati dello Stato sul piano retributivo.
Decurtazione illegittima. I legali delle amministrazioni, d'altronde, hanno uno status particolare: da un lato sono dipendenti pubblici come gli altri, dall'altro sono professionisti iscritti all'albo e accanto allo stipendio tabellare hanno diritto a una quota di retribuzione a titolo di onorario per le prestazioni quantificata in base ai parametri forensi.
Non c'è dubbio, poi, che le propine facciano parte della retribuzione dell'avvocato-dipendente invece di costituire compenso incentivante. E dunque la determinazione della retribuzione risulta rimessa alla contrattazione collettiva. Il regolamento dell'ente, allora, non può stabilire in modo unilaterale un taglio del 20% rispetto agli standard forensi che non è stato frutto dell'accordo fra le parti sociali.
Senza condizionamenti. Di più. È illegittimo inquadrare nell'ente l'avvocatura come unità organizzativa di staff nell'ambito della direzione generale: si tratta di un assetto organizzativo che può inficiare il libero e sereno esercizio delle attività difensive demandate all'avvocatura, in quanto delicati compiti di natura professionale che non tollerano condizionamenti. Spese di giudizio compensate per la complessità delle questioni (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).

TRIBUTISoggettività passiva ICI-IMU: fanno fede le risultanze catastali salvo prova contraria.
L'intestazione catastale di un immobile a un determinato soggetto fa sorgere solo una presunzione de facto sulla veridicità di queste risultanze, ponendo a carico del contribuente l'onere di fornire la prova contraria.

Così la Sez. V civile della Corte di Cassazione con l'ordinanza 22.02.2019 n. 5316, molto interessante non solo per la qualificazione di rilevanza come mera presunzione delle risultanze catastali in tema di intestatario di ditta, ma per la disciplina del riparto dell'onere probatorio allorquando si controverte sulla soggettività passiva, nella specie per l'Ici ma valevole anche per l'Imu e la Tasi.
Il riparto dell'onere probatorio tra i soggetti d'imposta
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, in base all'articolo 2697 del codice civile, mentre chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
Per cui, in linea generale per i giudizi che concernono una maggiore o una pretesa tributaria, compete al soggetto attivo del rapporto di imposta allegare i fatti costitutivi della sua pretesa espressa nell'atto impositivo e ciò attraverso un'adeguata motivazione che indichi le fonti in fatto e in diritto della sua richiesta (in quanto l'allegazione dei fatti costitutivi va ricercata nell'atto impositivo) e la successiva produzione in giudizio delle prove descritte, essendo oramai tramontata la presunzione di legittimità dell'atto amministrativo e assumendo nel processo tributario l'ente impositore la posizione sostanziale di attore.
Di contro, il contribuente, benché ricorrente e quindi formalmente attore, ma nella sostanza convenuto in giudizio, (salvo che nei giudizi di rimborso nei quali il contribuente è attore sia in senso formale che sostanziale) deve allegare e comprovare quei fatti modificativi, impeditivi o estintivi della pretesa fiscale a esso rivoltagli, pur essendo egli la parte che attraverso il ricorso adisce l'organo giurisdizionale. Spetterà poi al giudice adito la valutazione dello spessore dei fatti giuridici e elementi probatori offerti dalle parti per la individuazione del soggetto onerato dell'obbligazione tributaria.
Tra gli elementi costitutivi l'obbligazione tributaria, l'individuazione della soggettività passiva è quindi un onere che grava sul soggetto attivo del rapporto di imposta.
La questione
La controversia concernente l'impugnazione di avvisi di accertamento Ici per are edificabili, il cui possessore veniva indentificato dall'ente impositore nel soggetto che nelle visure catastali risultava esserne il proprietario. Secondo la Ctr gli immobili risultavano di proprietà della società ricorrente come da intestazioni catastali e che le volture dell'atto di vendita risultavano predisposte successivamente alla notifica degli atti impositivi.
Si lagna, la supposta società proprietaria della decisione dei giudici regionali che avrebbero disatteso la documentazione notarile prodotta nel giudizio di merito dalla quale si evinceva l'identità dell'effettivo titolare delle aree, nonché per aver il decidente attribuito prevalenza probatoria alle visure catastali piuttosto che agli atti di vendita allegati, omettendo di valutare la documentazione proveniente dai pubblici uffici, (nella specie il contratto di compravendita) e attribuendo valenza di piena prova, invece, alle visure catastali in ordine alla titolarità del diritto reale in contrasto con le prove acquisite al processo, dalle quali emergeva che la proprietà dei suoli oggetto di accertamento era stata trasferita in epoca antecedente alle annualità oggetto di accertamento.
Le premesse ermeneutiche della Cassazione
Il giudice di legittimità, dopo aver riaffermato che pur se il catasto è preordinato a fini essenzialmente fiscali, il diritto di proprietà, al pari degli altri diritti reali, non può -in assenza di altri e più qualificanti elementi e in considerazione del rigore formale prescritto per tali diritti- essere provato in base alla mera annotazione di dati nei registri catastali, che hanno in concrete circostanze soltanto il valore di semplici indizi.
Pertanto, l'intestazione di un immobile a un determinato soggetto fa sorgere solo una presunzione de facto sulla veridicità di tali risultanze (Cass. n. 14420/2010), ponendo a carico del contribuente l'onere di fornire la prova contraria.
Il giudicato, quindi, ritiene che per individuare la soggettività passiva, l'ente impositore può adoperare le risultanze catastali e che quindi grava sul contribuente l'onere della prova diretta all'esenzione dal pagamento dell'imposta e cioè la carenza del possesso che ne costituisce la condizione di fatto.
Chiarisce la Corte, però, che se per un verso le risultanze catastali sono considerate (finché non modificate in seguito a contenzioso con l'Agenzia del Territorio) vincolanti per quanto attiene alla natura e alla rendita catastale del bene immobile (sentenze Cassazione n. 15321/2008 e n. 8845/2010; Sezioni Unite n. 18565/2009), relativamente, invece, agli aspetti che ineriscono alla titolarità e alla natura del diritto, hanno, però, una valenza meramente indiziaria, destinata a cedere in presenza di un titolo, giuridicamente valido, di segno contrario (sentenze Cassazione n. 16094/2003, n. 14420/2010; n. 13061/2017).
In buona sostanza, una volta rilevata dalle risultanze catastali la titolarità dell'immobile in capo a un soggetto, il Comune può legittimamente chiedere a esso il pagamento dell'imposta, ove il contribuente non vinca il valore indiziario dei dati contenuti nei registri catastali, dando adeguata dimostrazione di quanto diversamente sostenuto al riguardo.
La decisione
Nella sentenza impugnata, rileva la Corte di cassazione, i giudici regionali hanno attribuito rilevanza esclusiva alle risultanze catastali e quindi all'epoca della trascrizione degli atti, avvenuta successivamente all'anno di imposizione (le «volture»), a fronte di una normativa specifica e di atti ufficiali (come i rogiti notarili), che avrebbero dovuto essere esaminati al fine accertare il superamento della presunzione di veridicità delle visure catastali, da qui il rinvio alla Commissione tributaria regionale, che dovrà valutare la titolarità dei beni immobili indicati negli avvisi impugnati attraverso gli atti di trasferimento immobiliari prodotti dal ricorrente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.03.2019).

TRIBUTIEsenzioni Imu, conta la dimora. Coniugi non separati non possono abitare in case diverse. La Cassazione fissa i requisiti per usufruire del beneficio fiscale: non basta la residenza.
Esenzione Imu, la dimora è un requisito essenziale.
Moglie e marito non separati legalmente non hanno diritto a fruire dell'esenzione dalle imposte locali sull'abitazione principale. Non basta avere la residenza nella prima casa per avere diritto all'esenzione. La dimora è un requisito essenziale. Pertanto, se i coniugi non dimorano nello stesso immobile viene meno il presupposto per fruire del beneficio fiscale.

È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 22.02.2019 n. 5314.
Per i giudici di piazza Cavour, «un'unità immobiliare può essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisca la dimora abituale non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari». Il trattamento agevolato non può essere riconosciuto qualora questo «requisito sia riscontrabile solo nel ricorrente e invece difetti nei familiari». Marito e moglie non possono dimorare abitualmente in due immobili diversi, se non sono separati legalmente.
Con l'ordinanza 12050/2018 aveva già chiarito che nessuno dei coniugi ha diritto a fruire dell'esenzione Ici, in assenza della destinazione dell'immobile a dimora abituale della famiglia. Sulla questione, però, si sono espressi in maniera diversa giudici di legittimità e di merito.
Per esempio, la commissione tributaria regionale dell'Abruzzo, quarta sezione, con la sentenza 692/2017, ha stabilito che se uno dei coniugi risiede per motivi di lavoro in un comune diverso da quello in cui dimorano i propri familiari, non perde il diritto all'esenzione Ici per l'immobile adibito ad abitazione principale. Gli impegni di lavoro, infatti, giustificano una frattura della convivenza abituale all'interno della stessa casa, ma non fanno venir meno la destinazione ad abitazione principale della famiglia dell'unità immobiliare.
L'esenzione Ici e Imu. L'articolo 8 decreto legislativo 504/1992, che disciplinava l'esenzione Ici, riconosceva l'esenzione per l'immobile adibito a dimora del contribuente e dei suoi familiari. Anche per l'Imu il legislatore richiede il doppio requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale ancorché, con una formulazione letterale infelice, sembra riconoscere il beneficio a entrambi i coniugi nel caso in cui i due immobili siano ubicati in comuni diversi.
Interpretazione alquanto discutibile, atteso che anche per l'Imu è richiesto che l'immobile costituisca la dimora abituale del nucleo familiare. In base a quanto disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.
Tuttavia, nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano fissato la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile. Ecco perché si ritiene che se gli immobili sono ubicati in comuni diversi, non sussiste alcun impedimento a fruire dell'esenzione per entrambi i coniugi.
In presenza delle condizioni di legge gli immobili adibiti ad abitazione principale sono esenti, tranne quelli iscritti nella categorie catastali A1, A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione. Sono esenti anche le pertinenze dell'abitazione principale, classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di una per ciascuna categoria, anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad abitazione.
L'utilizzo di diversi immobili come prima casa. Dibattuta è anche la questione dell'utilizzo di più immobili come abitazione principale. La Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza 2830/2018) ha stabilito che i contribuenti che intendono fruire dell'esenzione per l'abitazione principale devono presentare al comune un'apposita dichiarazione se utilizzano due o più immobili come unica unità immobiliare destinata a prima casa, per consentire all'ente di poter controllare la sussistenza dei requisiti.
Per il giudice d'appello, «è da accogliere l'eccezione del comune secondo cui il ricorrente, al fine di beneficiare di tale esenzione per i due appartamenti, che avrebbero dovuto costituire un'unica un'unità immobiliare, doveva fame apposita richiesta con variazione della dichiarazione, al fine di consentire i controlli per la verifica dei requisiti previsti».
In ordine alla spettanza dei benefici fiscali c'è stata una differente presa di posizione tra Cassazione e Ministero dell'economia e delle finanze sull'utilizzo di due o più immobili come unica unità immobiliare destinata ad abitazione principale. Il problema si è posto per l'Ici e si pone per l'Imu. Il Ministero ha sostenuto che l'esenzione può essere riconosciuta solo per un immobile. Secondo la Cassazione (sentenze 25902/2008; 3339 e 12269/2010), invece, quello che conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali.
Non importa, peraltro, che gli immobili distintamente iscritti in catasto siano di proprietà non di un solo coniuge ma di ciascuno dei due in regime di separazione dei beni. A patto che «il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono». Per i giudici di legittimità, un'interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il carico Ici sugli immobili adibiti a «prima casa», confermata dalla previsione dell'esenzione totale dal 2008. Non c'è alcun motivo per ritenere che la stessa regola non sia applicabile all'Imu.
La tesi della Cassazione, però, contrasta con quanto sostenuto dal Ministero dell'economia (risoluzione 6/2002), il quale ha precisato che due o più unità immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a imposizione, «ciascuna per la propria rendita». Dunque, solo una può essere considerata ai fini Ici come abitazione principale.
L'interessato dovrebbe richiedere l'accatastamento unitario degli immobili, presentando all'ente una denuncia di variazione. Allo stesso modo si è espresso con la circolare 3/2012 per limitare l'esenzione Imu. Dalla formulazione letterale della norma di legge (articolo 13 dl 201/2011) emergerebbe che l'abitazione principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto, a prescindere dalla circostanza che, di fatto, venga utilizzato più di un fabbricato distintamente iscritto in catasto.
In questo caso le singole unità immobiliari dovrebbero essere assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita. L'interessato può scegliere quale destinare ad abitazione principale. Secondo il Ministero, le altre unità immobiliari «vanno considerate come abitazioni diverse da quella principale con l'applicazione dell'aliquota deliberata dal comune per tali tipologie di fabbricati».
La tesi ministeriale non può essere condivisa, poiché anche per l'Imu il contribuente dovrebbe avere diritto al trattamento agevolato qualora utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come prima casa, considerato che l'articolo 13 richiede che si tratti di un'unica unità immobiliare iscritta o «iscrivibile» come tale in catasto. E' sufficiente che sussistano due requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo. Nello specifico, le diverse unità immobiliari devono essere possedute da un unico titolare e devono essere contigue.
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Decisivi i consumi elettrici.
Se i consumi elettrici sono bassi, l'amministrazione comunale può disconoscere l'agevolazione Ici per l'abitazione principale. La presunzione di residenza effettiva in un comune, certificata dai dati anagrafici, può essere superata dai consumi elettrici se ritenuti modesti. Lo ha precisato la Corte di cassazione con l'ordinanza 14793/2018.
I giudici hanno sostenuto che per l'immobile adibito ad abitazione principale, le risultanze anagrafiche hanno un valore presuntivo riguardo al luogo di residenza effettiva «e possono essere superate da prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento e suscettibile di apprezzamento riservato alla valutazione del giudice di merito». E i bassi consumi elettrici nel corso di un triennio sono da ritenere una prova sufficiente per superare la presunzione di residenza effettiva nel comune, «fondata sulle risultanze anagrafiche, in quanto elemento sintomatico di una presenza nell'abitazione oggetto d'imposizione non abituale».
Lo stesso criterio è applicabile anche alle imposte locali attualmente vigenti (Imu e Tasi), per contestare la presenza abituale del contribuente nell'immobile adibito a prima casa (articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019).

TRIBUTILa residenza non sempre dà diritto. ESENZIONE IMU.
La residenza nell'abitazione non sempre dà diritto all'esenzione dell'Imu. La perde infatti la moglie se il marito usufruisce del bonus per un'altra casa. Solo uno dei due beni può infatti essere deputato a dimora reale della famiglia.

Con l'ordinanza 22.02.2019 n. 5314 destinata a far discutere, la Corte di Cassazione -Sez. V civile- ha accolto il ricorso di un Comune toscano presentato contro una coppia che usufruiva dell'agevolazione, ciascuno nel suo appartamento di residenza.
La difesa dell'ente aveva lamentato che, dato il carattere eccezionale della deroga, la stessa dovesse essere limitata al nucleo familiare nel suo complesso. La tesi ha vinto.
Per gli Ermellini, in sostanza, la casa principale e della famiglia che è l'unica a usufruire del bonus. La residenza è un parametro che passa in secondo piano. Ad avviso del Collegio di legittimità, «in tema di Ici (oggi Imu), ai fini della spettanza della detrazione e dell'applicazione dell'aliquota ridotta prevista per le abitazioni principali dall'art. 8 del dlgs n. 504/1992, un'unità immobiliare può essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisca la dimora abituale non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione nell'ipotesi in cui tale requisito sia riscontrabile solo nel ricorrente e invece difetti nei familiari».
Nel caso sottoposto all'esame della Corte, è stato accertato che solo la ricorrente aveva la propria residenza anagrafica nel Comune di Castiglione della Pescaia mentre il proprio coniuge, non legalmente separato, non solo aveva residenza e dimora abituale in Firenze ma aveva usufruito in tale Comune dell'agevolazione in materia di Ici. La Ctr, ritenendo possibile che ogni coniuge, anche non separato, potesse avere una propria «abitazione principale» non si è uniformato al principio di diritto ricordato in motivazione.
Il sipario sulla vicenda si è concluso definitivamente di fronte ai Supremi giudici. Infatti la Cassazione ha accolto nel merito il ricorso del Comune e, non ritenendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ha condannato la contribuente a versare la differenza d'imposta (articolo ItaliaOggi del 23.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Il comandante della polizia locale non ha diritto alla riconferma del posto.
Il dirigente che svolge le funzioni di comandante della Polizia locale non ha nessun diritto soggettivo a essere riconfermato nella stessa posizione. Esiste, infatti, una scissione tra instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e conferimento dell'incarico, tale da giustificare anche l'inapplicabilità dell'articolo 2103 del codice civile al passaggio dall'uno all'altro incarico dirigenziale.
Queste le ragioni per le quali la Corte di Cassazione - Sez. lavoro (ordinanza 21.02.2019 n. 5191) non ha accolto il ricorso di un dirigente comandante della Polizia locale che, alla scadenza del suo incarico, è stato assegnato alla conduzione di un altro settore dell'amministrazione.
La vicenda
Il caso riguarda il ricorso di un dirigente della Polizia locale che, alla scadenza del suo incarico, è stato assegnato dall'ente alla conduzione di un altro settore. La Corte d'appello ha ritenuto l'operato del Comune corretto e non oggetto di censure, dal momento che, nella contrattualizzazione del pubblico impiego, l'ente nel conferire gli incarichi dirigenziali li adotta con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro, sottraendoli a tutte le disposizioni che la legge 241/1990 prevede per i provvedimenti amministrativi.
Il comandante ha, allora, adito la Cassazione evidenziando come la Corte d'appello non avesse tenuto conto del regolamento della polizia locale -disapplicandolo in quanto adottato in violazione delle disposizioni previste dal Dlgs 165/2001- quale parte del regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, dove è precisato che il Comandante della Polizia municipale, stante il ruolo e il rapporto con l'autorità giudiziaria, risulta essere figura dirigenziale specialistica, che non rientra nei sistemi di rotazione del personale dirigente.
L'ex comandante ha stigmatizza, inoltre, che la Corte d'appello non avrebbe valorizzato la differenza tra il settore di provenienza della Polizia locale con il nuovo assegnato, anche in considerazione della differenza tra numero dei dipendenti diretti, in qualità di comandante, e quello degli impiegati coordinati dopo l'assegnazione al nuovo servizio. Infine, nel ricorso in Cassazione, l'ex comandante ha sottolineato il mancato adeguamento da parte dell'ente ai principi del testo unico dei pubblici impiegati con la conseguente inapplicabilità dell'articolo 2103 del codice civile.
La conferma della Cassazione
I giudici di legittimità non hanno accolto le indicazioni del ricorrente. La riforma della dirigenza pubblica, infatti, ha da tempo evidenziato che la stessa non esprime una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente a svolgerle concretamente, per effetto del suo conferimento a termine.
In altri termini, si è in presenza di una scissione tra instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e conferimento dell'incarico, scissione che giustifica anche la ritenuta inapplicabilità dell'articolo 2103 del codice civile al passaggio dall'uno all'altro incarico.
Quindi, il dirigente non matura alcun diritto soggettivo al conferimento dell'incarico dirigenziale, per cui va escluso che si sia in presenza di un illegittimo demansionamento avvenuto con l'assegnazione del ricorrente, sempre con funzioni dirigenziali, al settore gestione dei cimiteri cittadini, canile municipale e randagismo, servizi generali, spettando all'ente il potere di mutare l'incarico, una volta venuto a scadenza l'incarico originario (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.02.2019).
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MASSIMA
8. sono infondati il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logico-giuridica;
8.1. occorre premettere che la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata nell'affermare che «
nel lavoro pubblico alle dipendenze di un ente locale, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente, perciò, -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 c.c., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico» (Cass. n. 4621/2017; negli stessi termini Cass. n. 19442/2018; Cass. n. 3451/2010; Cass. n. 23760/2004);
8.2. a detto orientamento il Collegio intende dare continuità, non essendo condivisibile il diverso principio, invocato dal ricorrente ed affermato solo da Cass. n. 17095/2004, secondo cui l'inapplicabilità dell'art. 2103 cod. civ. sarebbe condizionata dalla prova dell'avvenuto adeguamento dell'organizzazione dell'ente ai principi dettati in tema di dirigenza pubblica dal d.lgs. n. 29/1993, come modificato dal d.lgs. n. 80/1998, e poi trasfusi nel d.lgs. n. 165/2001;
8.3. ne discende l'infondatezza di tutte le censure che muovono dalla ritenuta sussistenza di un diritto soggettivo del dirigente a conservare l'incarico o, quantomeno, ad essere assegnato a mansioni di natura dirigenziale che siano equivalenti a quelle in precedenza svolte;
8.4. nel ribadire i principi recentemente affermati da Cass. n. 8674/2018,
rileva il Collegio che la riforma della dirigenza pubblica è stata caratterizzata dal passaggio da una concezione della dirigenza intesa come status, quale momento di sviluppo della carriera dei funzionari pubblici, ad una concezione della stessa dirigenza di tipo funzionale;
8.5.
in ragione di tale inquadramento giuridico è stato da tempo evidenziato (Cass. n. 27888/2009 e Cass. n. 29817/2008) che la qualifica dirigenziale non esprime una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente (che tale qualifica ha acquisito mediante contratto di lavoro stipulato all'esito della procedura concorsuale) a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale;
8.6.
l'insussistenza di un diritto soggettivo del dirigente pubblico al conferimento di un incarico dirigenziale è stata desunta da tale scissione tra instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e conferimento dell'incarico, scissione che giustifica anche la ritenuta inapplicabilità dell'art. 2103 cod. civ. al passaggio dall'uno all'altro incarico;
8.7. a detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale nell'escludere che costituisse illegittimo demansionamento l'assegnazione del ricorrente, sempre con funzioni dirigenziali, al settore "gestione dei cimiteri cittadini; canile municipale e randagismo; servizi generali", assegnazione disposta una volta venuto a scadenza l'incarico originario;

VARIAccount col trucco. Reato utilizzare generalità altrui. La Corte di cassazione: è sostituzione di persona.
Costituisce reato di sostituzione di persona la condotta di colui che crei e utilizzi un account internet utilizzando le generalità di un'altra persona, inducendo in errore altri utenti nei confronti dei quali le false generalità siano utilizzate.

Questo il principio applicato dalla Corte di Cassazione, Sez. V penale, nella sentenza 20.02.2019 n. 7808 con cui ha legittimato la condanna di un imputato sostituitosi a mezzo account ad altra persona di cui aveva inoltre utilizzato la carta pay-pal.
Già nel 2007 la Cassazione aveva ritenuto legittima la condanna di un imputato, per aver inserito su un sito di incontri il numero di telefono di un'altra persona che si era ritrovata a ricevere telefonate a scopo sessuale.
Nel 2011 la Cassazione aveva ritenuto integrante reato di sostituzione di persona la condotta di un imputato che aveva utilizzato una casella e-mail con i dati anagrafici di un'altra persona, inconsapevole, al fine di far ricadere sulla stessa gli adempimenti di aste di rete.
Nel 2014 la Corte aveva ravvisato gli estremi del reato di sostituzione di persona nella condotta di un calciatore che, al fine di prendere parte ad una partita nonostante la squalifica, si era attribuito l'identità di altro giocatore.
Come nei precedenti, nel caso in esame la Cassazione ha dedotto che ai fini della configurabilità del reato di sostituzione di persona è sufficiente la mera induzione in errore. Non è scriminante il fatto che l'apertura del nuovo account sia avvenuta col consenso iniziale dell'intestatario, avendo l'imputato proseguito nell'utilizzo all'insaputa dell'intestatario e soprattutto per fini (gioco d'azzardo) completamente diversi da quelli originariamente pattuiti.
L'eventuale consenso mai potrebbe evitare il reato. Non rilevano né l'eventuale intesa iniziale né i motivi sottostanti, perché ciò che conta è la creazione di un'apparenza nei rapporti tra le persone, idonea a trarre in inganno terzi e realizzata con la finalità di trarre un vantaggio o un danno. Piuttosto il consenso può rilevare sotto il profilo del concorso dell'intestatario formale nel reato di sostituzione di persona (articolo ItaliaOggi del 06.03.2019).

PUBBLICO IMPIEGOAssistenza disabili, sì agli 007. Abusare dei permessi ex lege 104 può costare il lavoro. Lecito per la Corte di cassazione incaricare un investigatore per spiare i dipendenti.
I lavoratori dipendenti che prestano assistenza al familiare disabile (c.d. «caregivers»), sfruttando la possibilità riconosciuta dalla Legge 104, possono essere spiati durante la fruizione dei permessi riconosciuti dall'art. 33 della predetta legge. Infatti, sono assolutamente leciti i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, laddove non riguardino l'adempimento della prestazione lavorativa, ma siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo. Pertanto, in caso di indebito utilizzo delle giornate di assenza destinate alla cura della persona con disabilità, il datore di lavoro può adottare l'extrema ratio del licenziamento.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 18.02.2019 n. 4670, che individua i confini entro i quali è possibile controllare il lavoratore al di fuori dei locali aziendali, senza interferire con la sfera privato dello stesso.
Il caso. La vicenda trae origine da un licenziamento intimato a un lavoratore che aveva utilizzato in maniera indebita i permessi ex legge 104/1992, in sei giorni durante i mesi di dicembre 2014 (coincidenti con le festività natalizie), gennaio e febbraio 2015. Il comportamento illecito del lavoratore era emerso a seguito di quanto appreso dalla società datrice per il tramite di un'agenzia di investigazione privata.
Dall'attività di spionaggio è stato rilevato che, durante i giorni di permesso goduti per Legge 104, il lavoratore, anziché prestare assistenza al proprio familiare per il quale usufruiva delle giornate di assenza, aveva svolto attività varie di tipo personale (presso esercizi commerciali ed altri luoghi comunque diversi da quello deputato all'assistenza).
Ciò ha spinto la società ad adottare nei confronti del lavoratore, l'estremo provvedimento del licenziamento.
Il lavoratore decide di ricorrere per vie legali, ma vede soccombere la pretesa di ottenere la declaratoria d'illegittimità del licenziamento, sia in primo che in secondo grado di giudizio.
Infatti, la Corte d'appello di Napoli confermava in pieno la pronuncia del Tribunale partenopeo, che riteneva pienamente legittimo il controllo finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio dei permessi. Infatti, pur scorporando dalla contestazione i tre giorni fruiti nel mese di dicembre durante le festività natalizie, nei quali l'azienda aveva deciso di sospendere l'attività lavorativa, la Corte territoriale riteneva, comunque, che i fatti accaduti durante la fruizione dei permessi nei mesi seguenti (gennaio e febbraio), erano così gravi da giustificare la massima sanzione espulsiva.
L'attività investigativa, tra l'altro, non avveniva durante l'adempimento della prestazione, essendo la stessa effettuata al di fuori dell'orario di lavoro e in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere tale prestazione. In conseguenza di ciò, la Corte Territoriale riteneva utilizzabili gli esiti di tale investigazione e così anche delle dichiarazioni testimoniali rese dagli investigatori.
Il lavoratore ha così impugnato nuovamente la sentenza ricorrendo in Cassazione.
La sentenza. La Suprema Corte ritiene i motivi del ricorso proposto infondati e conferma il licenziamento del lavoratore. Secondo gli Ermellini, infatti, a nulla rileva la fattispecie sollevata dal ricorrente secondo il quale si sarebbe dovuta produrre la nullità delle indagini investigative, poiché svolte da soggetti privi delle licenze prefettizie. Inoltre è stato affermato che non viene violato né il principio di buona fede né il divieto di cui all'art. 4 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro.
I limiti. Dalla sentenza emergono, dunque, i limiti entro i quali i datori di lavoro possono lecitamente controllare i lavoratori, anche con agenzie investigative, per assicurarsi la corretta fruizione dei permessi per Legge 104, senza sconfinare nella violazione della privacy.
In particolare, i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, riguardanti l'attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono leciti laddove:
   • non riguardino l'adempimento della prestazione lavorativa;
   • siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente (cfr. Cass. 12.09.2018, n. 22196; Cass. 11.06.2018, n. 15094; Cass. 22.05.2017, n. 12810).
Quindi, affinché le agenzie investigative operino lecitamente, le loro indagini non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria. Tale attività infatti, è riservata, dall'art. 3 dello Statuto dei Lavoratori, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14.02.2011, n. 3590; Cass. 20.01.2015, n. 848).
Giurisprudenza di merito. Sul tema dei controlli durante i periodi di sospensione del rapporto, la giurisprudenza di merito si è più volte espressa, giudicando possibile per il datore di lavoro, anche, ad esempio, durante i periodi di malattia, acquisire conoscenza di comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa, siano rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro medesimo (cfr. Cass. 26.11.2014, n. 25162 e Cass. 22.05.2017, n. 12810) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).
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MASSIMA
2.1. con il secondo motivo il ricorrente deduce l'illegittimità delle indagini investigative compiute dalla parte avversa, la violazione del principio di libertà e della riservatezza del lavoratore (art. 360, co. 1, n. 3 cod. proc. civ.);
2.2. il motivo è infondato;
   - come da questa Corte già affermato,
i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, riguardanti l'attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, non sono preclusi ai sensi degli artt. 2 e 3 st. lav., laddove non riguardino l'adempimento della prestazione lavorativa, ma siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo (v. Cass. 12.09.2018, n. 22196; Cass. 11.06.2018, n. 15094; Cass. 22.05.2017, n. 12810);
   - è stato precisato che
le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14.02.2011, n. 3590; Cass. 20.01.2015, n. 848);
   -
né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. 10.07.2009, n. 16196);
   -
è stato in particolare ritenuto legittimo tale controllo durante i periodi di sospensione del rapporto al fine di consentire al datore di lavoro di prendere conoscenza di comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa, siano rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, che permane nonostante la sospensione (si vedano con riferimento ai controlli disposti nel corso di una malattia Cass. 26.11.2014, n. 25162 e Cass. 22.05.2017, n. 12810 e con riferimento alla fruizione dei permessi ex legge n. 104 del 1992, Cass. 06.05.2016, n. 9217 e Cass. 04.03.2014, n. 4984; quest'ultima ha in particolare evidenziato che il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 l. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale);

TRIBUTIAccertamento Imu con perizia allegata.
È nullo per difetto di motivazione l'avviso di accertamento per imposta Imu se manca l'allegazione a esso della perizia alla quale l'atto fa espresso richiamo nelle valutazioni e nei calcoli volti alla determinazione di maggiori importi del tributo in parola.

È quanto osservato dalla Ctp di Latina (presidente Costantino Ferrara, relatore Portaro Antonino) con la sentenza 18.02.2019 n. 156/6/2019.
Oggetto della vertenza era un avviso di accertamento con cui il comune di Pontinia recuperava maggiori importi a titolo di Imu rifacendosi a nuovi valori attraverso i quali aveva determinato l'imposta in misura maggiore e che la contribuente contestava ritenendoli non applicabili retroattivamente. D'altro canto, inoltre, la stessa rilevava che l'accertamento notificatole fosse viziato dal punto di vista motivazionale: l'eccepito difetto di motivazione derivava infatti dalla mancata allegazione di una perizia alla quale, come si evinceva dall'atto, l'amministrazione comunale si era rifatta per i calcoli del tributo.
Tale rilievo, appurato dai giudici di Latina, risultava decisivo nel giudizio, durante il quale la commissione, come chiarito nella sentenza in commento, ricordava che non sono ammesse integrazioni motivazionali da parte dell'ufficio rispetto all'atto che si dimostri carente e quindi irrispettoso dei canoni prescritti dall'art. 42 del dpr n. 600/1973. La mancanza non è dunque suscettibile di sanatoria o integrazione in giudizio poiché, costituendo la motivazione, anche se per relationem, un requisito essenziale dell'atto già ab origine, il suo difetto comporterà automaticamente nullità dell'atto stesso.
Nel caso di specie, il provvedimento con cui il comune richiedeva un'Imu maggiore si legava, ai fini del calcolo, a una perizia acquisita agli atti dell'ente, che, tuttavia, non veniva allegata all'accertamento. Nemmeno poteva essere invocato l'atteggiarsi della motivazione come fornita per relationem dal momento che quel documento, richiamato ma non allegato, non era stato mai comunicato né era conosciuto alla contribuente.
Per questi motivi, in assenza della suddetta relazione alla quale comunque l'ufficio dell'ente comunale si era rifatto per la determinazione del valore delle aree, mancando ogni indicazione dell'iter tecnico e giuridico che aveva portato il comune a quella nuova determinazione ai fini della maggior pretesa Imu, il ricorso veniva accolto.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La Signora B.T., come in atti generalizzata, proponeva ricorso RGR n. (…) depositato alla Ctp di Latina il 15/03/2018, avverso avviso di accertamento (…) notificato il 22/12/2017 per imposta Imu relativa all'anno 2012, in cui il comune ha rettificato d'ufficio, la dichiarazione Imu richiedendo ulteriore importo di euro 6.114,00 oltre sanzioni per un totale di euro 8.261,00.
La ricorrente eccepisce: (…) 1) Difetto/carenza di motivazione. L'Ente resistente pur facendo riferimento a una perizia acquisita agli atti comunali non ha provveduto ad allegarla. (…) Il comune di Pontinia nelle controdeduzioni presentate il 21.05.2018 rileva: 1) La ricorrente era ed è a perfetta conoscenza che l'area di proprietà ha la destinazione edificatoria. Il piano regolatore generale del comune di Pontinia è stato adottato con deliberazione del Consiglio comunale n. (…) e formalmente pubblicata nell'Albo Pretorio. 2) La ricorrente non offre alcuna prova a supporto del preteso valore agricolo usato nel procedere alla tassazione di un'area fabbricabile.
Il ricorso è meritevole di accoglimento.
La Commissione esaminati gli atti osserva: Il provvedimento oggetto della presente impugnazione, pur facendo espresso richiamo ai fini della quantificazione della imposta Ici alla su indicata perizia tuttavia la documentazione afferente alla stessa non è stata allegata all'accertamento. Sul punto va rilevato che l'avviso di accertamento non è atto avente natura processuale, ma sostanziale, in quanto esplicativo della potestà impositiva dell'Amministrazione finanziaria, che deve indicare ex art. 42, dpr 600/1973 i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo giustificano.
La motivazione, pertanto, non può essere integrata in corso di giudizio, in quanto costituisce un requisito di legittimità dell'avviso di accertamento, richiesto a pena di nullità. La motivazione può assolvere la funzione informativa, che le è propria facendo riferimento a elementi di fatto offerti da documenti diversi, solo tali documenti sono allegati o sono comunicati al contribuente, ovvero per altro verso da lui conosciuti.
Nel caso di specie tale perizia non è stata allegata all'accertamento, pertanto, il ricorso deve essere accolto mentre restano assorbiti gli ulteriori profili di censura non espressamente esaminati. A ciò consegue l'accoglimento del ricorso. La natura controversa della causa ed il suo andamento processuale costituiscono giusto motivo per la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).

SEGRETARI COMUNALIIl pensionamento non salva il segretario dal recupero del «galleggiamento» illegittimo.
Il contratto dei segretari comunali prevede due possibilità di maggiorazione della retribuzione di posizione: quella per incarichi aggiuntivi attribuiti dall'ente e quella del «galleggiamento», il meccanismo che riallinea la retribuzione di posizione a quella del dirigente apicale. È invece illegittima l'attribuzione del riallineamento se, con l'applicazione delle maggiorazioni, la retribuzione di posizione già supera quella del dirigente apicale. Nel caso in cui ciò sia accaduto, le differenze di retribuzione attribuite sono soggette al recupero, anche a valere sulla pensione del segretario cessato dal servizio, senza che possa rilevare l'atto deliberativo o la buona fede dell'interessato.
Questo l'indirizzo fissato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 15.02.2019 n. 4619.
Il caso
Un'amministrazione ha corrisposto al segretario comunale la maggiorazione della retribuzione di posizione (articolo 41, comma 4, del contratto nazionale del 16.05.2001), prevista quale facoltà di maggiorare i compensi per le funzioni aggiuntive, e successivamente ha disposto anche il riallineamento alla retribuzione del dirigente apicale con più alta retribuzione di posizione (comma 5). Accortosi dell'errore, l'ente ha recuperato le differenze pagate in eccesso, con una parte residua da recuperare sulle retribuzioni corrisposte dall'Inps dopo la cessazione dal servizio per pensionamento del segretario.
Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d'appello hanno giudicato legittimo il recupero delle somme disposte dal Comune, evidenziando che alla comparazione tra la retribuzione goduta dal segretario comunale e quella percepita dal dirigente con retribuzione più elevata si doveva procedere solo dopo aver inserito, nella retribuzione del segretario comunale, anche i compensi aggiuntivi; il galleggiamento sarebbe potuto intervenire solo se la retribuzione del segretario fosse stata inferiore a quella prevista per la funzione dirigenziale più elevata.
Secondo la difesa del segretario, se le maggiorazioni stipendiali previste dall'articolo 41, comma 4, del contratto fossero assorbite dal riallineamento previsto dal quinto comma, verrebbero penalizzati i funzionari più gravati di compiti. Inoltre è lo stesso regime previdenziale a fare la differenza sui due aumenti retributivi, perché le maggiorazioni sono in quota B (regime contributivo) mentre il riallineamento, avendo natura perequativa, rientrerebbe nella quota A (regime retributivo).
L'ultima parola della Cassazione
I giudici di Piazza Cavour hanno confermato il proprio precedente orientamento (si veda il Quotidiano degli enti enti locali e della Pa 09.03.2018) rigettando il ricorso. In particolare, le norme contrattuali convergono verso una particolare valorizzazione del ruolo del segretario che, oltre a svolgere compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa, sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività; compiti che per le responsabilità che ne discendono giustificano il riconoscimento di un' indennità di posizione almeno pari a quella del dirigente sottoposto al potere di coordinamento e controllo.
Ma se al segretario è stata disposta una maggiorazione della retribuzione di posizione, tale da superare quella del dirigente apicale, allora non potrà essere applicato alcun ulteriore riallineamento stipendiale, anche se ciò comporta una peggioramento del suo regime previdenziale.
Il recupero delle somme attivate dall'ente locale è quindi legittimo, a nulla rilevando la buona fede del ricorrente. Né è possibile dare risalto all'atto deliberativo che ne avesse disposto un compenso diverso da quello stabilito dal contratto nazionale, stante la nullità di questo atto, con conseguente obbligo da parte della Pa al ripristino della legalità violata, mediante il recupero delle somme disposte in assenza del titolo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: No al voto di laurea minimo. CONCORSI/ TAR DEL LAZIO SUI REQUISITI DI PARTECIPAZIONE.
Annullato. Scatta lo stop al concorso pubblico per ottava qualifica funzionale se il bando prevede un voto minimo di laurea per poter partecipare. E ciò perché l'amministrazione che apre la tornata di reclutamento introduce un «indice selettivo» non previsto dalla legge senza motivare le peculiari funzioni che saranno svolte dagli «ingegneri professionisti» dopo l'assunzione. Si tratta peraltro di un criterio «non attendibile»: la valutazione dei docenti all'esito del percorso universitario dipende da vari fattori, in primis il tipo di diploma conseguito e qual è l'Ateneo che lo rilascia.
È quanto emerge dalla sentenza 15.02.2019 n. 2112, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso dei due ingegneri interessati al posto nell'ente: fanno annullare il bando che prevede un minimo di 105/110 per poter prendere parte alle selezioni. L'amministrazione non contesta che il profilo professionale messo a concorso sia assimilabile all'ottava qualifica funzionale, per la quale è richiesto il solo diploma di laurea in base all'articolo 2, comma sesto, del dpr 487/1994 che regola la materia.
Fissare un punteggio minimo equivale a introdurre un requisito ulteriore, mentre il secondo comma della disposizione stabilisce che altri paletti possono essere messi soltanto quando si ricercano particolari profili. Insomma: per giustificare lo sbarramento preselettivo del voto minimo l'ente deve fornire un'adeguata motivazione per derogare alla regola generale. Nel nostro caso viene meno all'obbligo perché si limita a sottolineare «l'importanza e la delicatezza del ruolo che i professionisti esplicano attraverso la prestazione degli apporti specialistici».
Non basta che l'amministrazione a caccia di ingegneri svolga attività di particolare rilievo per la comunità. Cade allora lo sbarramento fissato a quota 105 perché la deroga non può essere fondata sulla mera volontà dell'ente di ridurre il numero dei partecipanti al concorso. L'obiettivo predeterminato di preparazione culturale dei concorrenti, che esclude coloro che hanno avuto una carriera universitaria meno brillante, viene bocciato in quanto parametrato a un indice come il voto che può dipendere da un alto numero di variabili. L'ente paga le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 06.03.2019).
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Il ricorso è fondato e deve, pertanto, essere accolto.
Il d.P.R. n. 487/1994, avente ad oggetto il “Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi”, all’articolo 2 (rubricato “Requisiti generali”), dispone testualmente al comma 6, che “per l'accesso a profili professionali di ottava qualifica funzionale è richiesto il solo diploma di laurea” e al precedente comma 2 che “per l'ammissione a particolari profili professionali di qualifica o categoria gli ordinamenti delle singole amministrazioni possono prescrivere ulteriori requisiti”.
Premessa la riferibilità del citato comma 6 al profilo professionale in questione (“Ingegnere Professionista”) in ragione della sua assimilabilità alla qualifica funzionale ivi indicata (l’ottava) -circostanza in alcun modo contestata in punto di fatto dall’ente resistente- il Collegio è, quindi, chiamato a verificare, in via preliminare, se da quanto stabilito al comma 6 possa effettivamente trarsi il principio, invocato dalla ricorrente, di inammissibilità, in linea generale, della previsione di un voto minimo di laurea ai fini dell’accesso alla partecipazione ad un concorso pubblico nonché, in caso affermativo, la riconducibilità alla deroga di cui al comma 2 della contestata disposizione del bando di concorso impugnato.
Quanto alla prima questione, ritiene il Collegio che, indubbiamente, il disposto di cui al comma 6 dell'articolo 2, nella parte in cui prevede che “è richiesto il solo diploma di laurea”, non possa che essere interpretato se non nel senso che il possesso del titolo della laurea sia di per sé requisito sufficiente ai fini della partecipazione al concorso ivi disciplinato indipendentemente dal voto finale riportato e, che, pertanto, il comma 6 esprima effettivamente un principio di ordine generale in subiecta materia.
Ciò posto,
il Collegio è, inoltre, dell’avviso, anche in ragione del tenore testuale delle disposizioni richiamate, che -in generale- la previsione di un voto minimo di laurea ai fini dell’accesso alla procedura concorsuale effettivamente finisca per interferire con detto principio, conformemente a quanto già affermato dalla giurisprudenza di questo TAR secondo cui “il possesso del titolo della laurea con un punteggio minimo è evidentemente diverso dal mero possesso del titolo della laurea e, proprio in quanto il voto minimo di laurea si aggiunge al requisito generale, questo finisce per acquisire la valenza di requisito ulteriore (Sezione II, sentenze n. 1491/2015 e n. 1493/2015).
Passando, quindi, a verificare se, in concreto, un siffatto requisito possa legittimamente essere previsto nel concorso per cui è causa in ragione della sua riconducibilità al citato comma 2, occorre premettere come la deroga ivi prevista, operando in relazione ad un principio di valenza generale, trovi -dunque- applicazione solo nei ristretti e circoscritti limiti nei quali è prevista, con la conseguenza che la “particolarità” del profilo professionale di qualifica o di categoria debba essere necessariamente intesa ed interpretata in senso non ampliativo.
Orbene, l’ENAC sostiene al riguardo che nella fattispecie sussisterebbe effettivamente ed in pieno la predetta particolarità, alla luce delle peculiari funzioni svolte dagli ingegnere professionisti.
L’assunto non è condivisibile.
Assume, innanzi tutto, rilievo in tal senso come manchi in seno al bando impugnato e negli atti ad esso presupposti ogni, seppur minimo, riferimento puntuale alla specificità delle funzioni che i vincitori della procedura saranno chiamati a svolgere a seguito della loro assunzione nel profilo professionale in questione.
Ritiene, infatti, il Collegio che la discrezionalità dell’amministrazione di richiedere il conseguimento di un determinato punteggio di laurea ai fini dell’accesso ad una procedura concorsuale per l’assunzione in un profilo professionale quale quello di cui si discorre, pari o assimilabile all’ottava qualifica funzionale, incontri un limite nella necessità di giustificare la razionalità di uno sbarramento preselettivo di tale fatta, attraverso un’adeguata motivazione a supporto della disposta deroga al principio generale di cui al richiamato art. 2, comma 6, del d.P.R. n. 487/1994, vigente in materia (in tal senso, sempre questo Tribunale, Sezione I, n. 13180/2015).

APPALTI FORNITUREIl bando di gara è rigido. La caratteristica del prodotto è vincolante. Sentenza del Consiglio di stato sul caso di esclusione dell’azienda.
Se la caratteristica di un prodotto viene indicata nel bando di gara, la sua mancanza costituisce valida ragione per escludere l'azienda che l'ha proposta dall'aggiudicazione del bando. Ciò in quanto essendo tale caratteristica inserita nei c.d. requisiti minimi, non costituisce una mera indicazione bensì un elemento fondamentale ai fini della partecipazione (ed auspicata aggiudicazione) alla gara di appalto.
È questo il principio stabilito dal Consiglio di Stato, III Sez. (sentenza 15.02.2019 n. 1071), che ha confermato quanto definito in primo grado dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria.
Secondo il Consiglio di stato, infatti, la sentenza di primo grado aveva correttamente interpretato sia la lex specialis, sia le previsioni dell'art. 1362 e seguenti c.c. sulla interpretazione dei negozi giuridici, statuendo circa la necessità di sanzionare con l'esclusione la mancata offerta, da parte dell'appellante, della «cintura pluriuso» espressamente prevista dalla stazione appaltante quale requisito minimo della fornitura richiesta.
Secondo i supremi giudici amministrativi, infatti, i requisiti di minima non sono «mere indicazioni» ma rappresentano gli elementi fondamentali ai fini della partecipazione la cui mancanza, quindi, non può che comportare l'esclusione dalla procedura di gara. Secondo il Cds l'art. 83, comma 8°, rappresenta la norma del Codice appalti che impone la vincolatività delle specifiche tecniche di gara in forza della quale «Le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità», definendo il livello della prestazione richiesto in gara, e non riferendosi dunque alla capacità dell'offerente ma a quello della sua offerta che, qualora manchi di dette condizioni minime, non può di conseguenza essere legittimamente ammessa. Viene così a cadere la c.d tassatività delle cause di esclusione da una procedura di gara in quanto «la richiesta di determinate specifiche tecniche per la partecipazione risulta espressamente prevista da detto art. 83, comma 8°, ragion per cui la loro mancata presenza configura direttamente una violazione di legge, che ne giustifica pienamente l'esclusione».
La valenza della sentenza citata ridiede quindi nel fatto che in tema di appalti la definizione dell'oggetto di gara, tramite specifiche tecniche definite obbligatorie (o di minima), non comporta sempre l'esclusione del concorrente la cui offerta sia priva di dette caratteristiche.
Questo in ragione del fatto che è possibile si verifichi da un lato che, nell'ipotesi di mancata espressa comminatoria in lex specialis per tale carenza, la suddetta mancanza non consenta l'automatica estromissione dalla gara, mentre dall'altra, anche ammesso che la mancata presenza di requisiti di minima sia sanzionata con l'esclusione, venga comunque invocata la «tassatività delle cause d'esclusione», principio che esclude la facoltà d'introdurre nuovi motivi d'esclusione non espressamente previsti dal Codice appalti o da altre disposizioni di legge vigenti.
In conclusione, per partecipare ad una pubblica gara, o si possiedono i requisiti tecnici obbligatoriamente richiesti oppure si deve impugnare la definizione stessa dell'oggetto nella lex specialis, a nulla valendo l'ipotesi di presentare un'offerta equivalente ed, ancora meno, pretendere poi di non essere esclusi in assenza di una chiara prescrizione d'espulsione in caso di offerte non soddisfacenti i requisiti di minima
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2019).

ENTI LOCALIL'annullamento del Dup per violazione del regolamento di contabilità travolge anche il bilancio di previsione.
Il regolamento di contabilità scandisce le fasi per l'approvazione del documento unico di programmazione cui gli enti locali sono obbligati a conformarsi. La violazione di quelle regole determina una lesione alle prerogative dei consiglieri comunali tale da rendere l'approvazione del bilancio di previsione annullabile, in modo non diverso dalla mancata approvazione del bilancio di previsione nei termini di legge.
Sono questi gli effetti dell'annullamento del Dup stabiliti dal TAR Puglia-Bari, Sez. I, nella sentenza 15.02.2019 n. 241.
La vicenda
Alcuni consiglieri comunali di opposizione avevano lamentato davanti al Tar la violazione delle loro peculiari funzioni nel procedimento di approvazione del bilancio di previsione, per aver l'ente bypassato il procedimento di approvazione del documento unico di programmazione che, secondo il regolamento di contabilità, avrebbe previsto la presentazione in consiglio del Dup con convocazione di una ulteriore seduta consiliare, non oltre i 45 giorni successivi alla presentazione, per consentire ai consiglieri la proposizione di integrazioni e modifiche e sottoporle all'approvazione dello stesso organo consiliare.
Nel caso di specie, invece, la giunta comunale avrebbe fatto direttamente approvare dal consiglio comunale sia il Dup sia lo schema di bilancio, senza alcuna fase intermedia di sottoposizione di questi atti ai consiglieri comunali, a questi ultimi così precludendo, in radice, ogni possibile contributo partecipativo e controllo.
In propria difesa il Comune ha precisato che, in materia di bilancio comunale, non sarebbero previsti termini perentori per gli adempimenti di carattere preliminare, salvo quello connesso all'approvazione del bilancio di previsione e, in ogni caso, i consiglieri ricorrenti non avrebbero formulato alcuna proposta di modifica, integrazione o emendamento.
La decisione del tribunale amministrativo
Il collegio amministrativo ha precisato che il legislatore ha previsto una cadenza di presentazione del Dup ben precisa, stabilendo che entro il 31 luglio di ciascun anno la giunta presenti al consiglio il documento, a seguito variazioni del quadro normativo di riferimento. Successivamente l'organo esecutivo presenta all'organo consiliare emendamenti allo schema di bilancio e alla nota di aggiornamento al documento unico di programmazione in corso di approvazione.
Il regolamento di contabilità del Comune prevede che la presentazione del Dup può essere effettuata in una seduta apposita oppure tramite deposito presso l'ente con avviso dato mediante comunicazione affissa all'albo pretorio dell'ente, pubblicata sul sito internet dell'ente e notificata ai capigruppo consiliari, ovvero mediante una successiva seduta da tenersi non oltre i 45 giorni successivi a quella di presentazione, al fine di approvare integrazioni e modifiche al Dup, che costituiscono un atto di indirizzo politico nei confronti della giunta, per la successiva nota di aggiornamento.
Nel caso di specie, invece, nel medesimo giorno la giunta comunale ha approvato, con due deliberazioni separate, sia il Dup sia lo schema di bilancio, con fissazione nella medesima seduta di consiglio comunale per la loro approvazione, violando la sfera d'interesse e di esercizio della funzione di tutti i consiglieri comunali, a nulla rilevando la mancata formulazione di emendamenti. In altri termini, è stata esclusa la possibilità ai consiglieri ricorrenti di presentare integrazioni e modifiche al Dup, documento che «costituisce atto presupposto indispensabile per l'approvazione del bilancio di previsione» (articolo 170, comma 5).
Le conseguenze
L'annullamento del Dup quale atto principiale trascina, a cascata, anche gli atti derivati dell'approvazione del bilancio e dei documenti successivi (assestamento generale e successive variazioni di bilancio). L'annullamento, incidendo in via retroattiva sull'efficacia degli atti impugnati, determina conseguenze analoghe all'ipotesi di mancata approvazione del bilancio di previsione nei termini di legge, con l'obbligo da parte dell'ente a rinnovare il procedimento di approvazione del bilancio comunale in modo conforme al regolamento di contabilità (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.03.2019).
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MASSIMA
Preliminarmente, è infondata l’eccezione di difetto di legittimazione a ricorrere, opposta dal Comune resistente nella memoria del 14.06.2018 (cfr. pag. 5).
A tal riguardo,
la giurisprudenza maturata sulla legittimazione attiva dei consiglieri comunali ha evidenziato che, di norma, difetterebbe la legittimazione ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza, a meno che vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere.
Ciò esclude, per un verso, che qualsiasi violazione di forma o di sostanza nell’adozione di un provvedimento illegittimo (che in ipotesi potrebbe essere impugnato dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo) debba tradursi in un’automatica lesione dello ius ad officium; ma, per altro verso, la legittimazione attiva dev’essere riconosciuta laddove sia precluso in tutto o in parte l’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 07.07.2014, n. 3446; TAR Campania–Napoli, I, 05.06.2018, n. 3710; TAR Lombardia–Milano, 25.01.2019, n. 153).
La violazione delle prerogative dei consiglieri ricorrenti è, indubbiamente, da annoverare nell’ambito dei provvedimenti incidenti sul loro munus publicum.
Essi hanno, infatti, censurato la violazione delle disposizioni che disciplinano il procedimento di approvazione del bilancio di previsione nella prospettiva della lesione del loro diritto a partecipare attivamente alla discussione sul merito di tale provvedimento: un pregiudizio sostanziato, nella specie, dal mancato rispetto della disciplina contenuta nel regolamento comunale di contabilità (art. 37), cui fa rinvio la disciplina nazionale trasfusa nel d.lgs. 267/2000 (testo unico degli enti locali).
Nel merito, il ricorso va accolto in ragione della fondatezza dei tre motivi proposti, i quali sono tematicamente connessi e possono essere, pertanto, esaminati congiuntamente.
La disciplina sull’approvazione del bilancio di previsione è incentrata su alcune, chiare, disposizioni:
   a) ai sensi dell’art. 170, comma 1, del d.lgs. 267/2000, “entro il 31 luglio di ciascun anno la Giunta presenta al Consiglio il Documento unico di programmazione per le conseguenti deliberazioni”;
   b) ai sensi del successivo art. 174 “lo schema di bilancio di previsione finanziario e il Documento unico di programmazione sono predisposti dall’organo esecutivo e da questo presentati all'organo consiliare unitamente agli allegati entro il 15 novembre di ogni anno secondo quanto stabilito dal regolamento di contabilità” (comma 1); e, inoltre, “il regolamento di contabilità dell’ente prevede per tali adempimenti un congruo termine, nonché i termini entro i quali possono essere presentati da parte dei membri dell'organo consiliare e dalla Giunta emendamenti agli schemi di bilancio. A seguito di variazioni del quadro normativo di riferimento sopravvenute, l'organo esecutivo presenta all'organo consiliare emendamenti allo schema di bilancio e alla nota di aggiornamento al Documento unico di programmazione in corso di approvazione” (comma 2).
Nella specie, l’art. 37 del regolamento comunale di contabilità prevede: che “la Giunta presenta il DUP al Consiglio entro e non oltre il 31 luglio. La presentazione può essere effettuata in apposita seduta oppure tramite deposito presso l'ente con avviso dato mediante comunicazione affissa all'albo pretorio dell'ente, pubblicata sul sito internet dell'ente e notificata ai capigruppo consiliari” (comma 2); che in esito a tale –alternativa– modalità di presentazione “il Consiglio, in una successiva seduta da tenersi non oltre i 45 giorni successivi a quella di presentazione, approva integrazioni e modifiche al DUP, che costituiscono un atto di indirizzo politico nei confronti della Giunta, ai fini della predisposizione della successiva nota di aggiornamento” (comma 3).
Ciò premesso, risulta pacifico che lo stesso giorno, con deliberazioni di Giunta comunale nn. 21 e 22 del 07.02.2018, sono stati approvati il DUP e lo schema di bilancio, disponendosi, nel primo caso, di “presentare il DUP al Consiglio comunale per le conseguenti deliberazioni” e, nel secondo, di “presentare all’organo consiliare per la loro approvazione gli schemi di bilancio, unitamente agli allegati, secondo i tempi e le modalità previste dal vigente regolamento comunale di contabilità”.
Nella specie la stessa Amministrazione resistente ha ammesso che “dell’avvenuto deposito delle predette deliberazioni e dei relativi allegati è stata data comunicazione ai ricorrenti mediante mail del 12.02.2018”, sostenendosi la legittimità di tale procedura sull’assunto che “all’esito della predetta comunicazione i ricorrenti non hanno proposto integrazioni, modifiche e/o emendamenti né al DUP né allo schema di bilancio” (cfr. pag. 4 della memoria di costituzione).
La presentazione del DUP per l’approvazione del Consiglio comunale è stata, invece, fissata –con convocazione ai ricorrenti del 07.03.2018– per la seduta del 20.03.2018, la medesima nella quale il bilancio è stato approvato.
È, altresì, dimostrato, dall’esame del preambolo delle impugnate deliberazioni consiliari, che il Collegio dei revisori ha reso il proprio parere in data 06.03.2018 (cfr. verbale n. 9).
È, inoltre, provato in atti che nell’intertempo tra la mail inviata ai ricorrenti (a prescindere dai profili di illegittimità specificamente dedotti con il secondo motivo) e la sopra citata seduta del 20.03.2018, in esito alla quale il DUP è stato approvato, non è stata indetta né svolta alcuna seduta del Consiglio comunale.
Alla luce delle illustrate circostanze, è manifesta la violazione dell’art. 37, commi 2 e 3, del regolamento comunale di contabilità, di cui più sopra si è riportata la disciplina.
Indipendentemente dalla modalità eletta per la presentazione del DUP al Consiglio comunale, è dirimente rilevare che si sarebbe dovuta svolgere un’altra e diversa seduta, riservata alla discussione degli emendamenti (“integrazioni e modifiche al DUP”, suscettibili di comportare un’eventuale nota di aggiornamento a cura della Giunta) che investono la sfera d’interesse e di esercizio della funzione di tutti i consiglieri comunali (sia di maggioranza che di opposizione); non è, pertanto, fondatamente contestabile ai ricorrenti di non aver formulato i propri emendamenti all’indomani della conoscenza (che sarebbe stata acquisita via mail) delle deliberazioni assunte dalla Giunta in data 07.02.2018, dovendosi ritenere che l’assise consiliare è stata eletta dalla legge quale sede naturale del confronto e della decisione sul contenuto del DUP.
Peraltro, il documento depositato dall’Amministrazione a comprova della mail trasmessa in data 12.02.2018 evidenzia un carattere generico (se non proprio indeterminato e comunque sviato rispetto alla peculiare finalità dettata dal regolamento comunale di contabilità), essendo consistito nell’invio, privo di un testo di accompagnamento, di un elenco di varie deliberazioni concernenti materie tra loro eterogenee (oltre alle due deliberazioni nn. 21 e 22 del 2018, è stata trasmessa una deliberazione riguardante un piano operativo nazionale – PON ed una deliberazione sulla regolazione della propaganda elettorale); una comunicazione inidonea a sollecitare –fosse anche in modo irrituale– la trasmissione di emendamenti al DUP da parte dei consiglieri comunali.
Di contro, occorre rilevare che gli incombenti previsti dal citato art. 37 –i quali altro non riflettono che il contenuto delle disposizioni di cui agli artt. 170 e 174 del d.lgs. 267/2000– individuano dei subprocedimenti del più generale procedimento di approvazione del bilancio e costituiscono espressione di una disciplina che il legislatore ha intenzionalmente articolato in maniera puntigliosa per consentire un esercizio effettivo della funzione del Consiglio comunale come “organo di indirizzo e di controllo politico–amministrativo” (art. 42, comma 1, del d.lgs. 267/2000).
Nella specie è stata, perciò, pretermessa la possibilità dei consiglieri ricorrenti –facenti parte dell’opposizione, ma l’argomento sarebbe estensibile in via analogica anche ai consiglieri di maggioranza– di presentare integrazioni e modifiche al DUP, che “ha carattere generale e costituisce la guida strategica ed operativa dell'ente” (art. 170, comma 2) e “costituisce atto presupposto indispensabile per l'approvazione del bilancio di previsione” (art. 170, comma 5).
La fondatezza dei motivi proposti determina l’annullamento degli atti impugnati con il ricorso principale e, per illegittimità derivata, di quelli impugnati con i motivi aggiunti depositati in data 13.11.2018 e 16.01.2019, con cui sono stati impugnati gli atti adottati in via sopravvenuta, ossia, per quanto più interessa, l’assestamento generale e le successive variazioni di bilancio.
Per l’effetto,
l’Amministrazione resistente dovrà provvedere a rinnovare il procedimento di approvazione del bilancio comunale, garantendo –sul piano procedurale e sostanziale– le prerogative dei consiglieri comunali, e ciò alla luce delle statuizioni contenute nella presente sentenza, la quale, incidendo in via retroattiva sull’efficacia degli atti impugnati, determina conseguenze analoghe all’ipotesi di una mancata approvazione del bilancio di previsione nei termini di legge.
In conclusione, il ricorso ed i motivi aggiunti vanno accolti.

APPALTINessun obbligo di impugnare subito la nomina della commissione.
L'appaltatore non ha alcun onere di impugnare immediatamente l'atto di nomina della commissione di gara in quanto non automaticamente lesivo delle proprie prerogative.
In questo senso si è espresso il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 15.02.2019 n. 207.
Le censure
Il ricorrente (tredicesimo classificato nella graduatoria di aggiudicazione) si lamentava dell'illegittima composizione della commissione di gara pretendendo l'annullamento dell'aggiudicazione. La stazione appaltante ha evidenziato che l'impugnazione dell'atto di nomina della commissione avrebbe dovuto avvenire immediatamente e non a conclusione della procedura. La tesi difensiva viene respinta dal collegio veneto sul presupposto che, in base al pacifico orientamento giurisprudenziale (e anche all'intervento dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2018), non è configurabile un onere di immediata impugnazione della nomina dei componenti della commissione.
Al riguardo, in particolare, si è evidenziato che «nelle gare pubbliche l'atto di nomina della Commissione giudicatrice, al pari degli atti da questa compiuti nel corso del procedimento, non produce di per sé un effetto lesivo immediato, e comunque tale da implicare l'onere dell'immediata impugnazione nel prescritto termine decadenziale».
Pertanto, la nomina del collegio valutatore può essere posposta al «momento in cui, con l'approvazione delle operazioni concorsuali, si esaurisce il relativo procedimento amministrativo e diviene compiutamente riscontrabile la lesione della sfera giuridica dell'interessato (cfr. C.d.S., Sez. III, 11.05.2018, n. 2835; v. altresì C.d.S., Sez. V, 18.10.2018, n. 5958 e TAR Campania, Salerno, Sez. I, 07.05.2018, n. 706)».
Alla luce di questo orientamento, i bandi, i disciplinari, gli atti costitutivi della lex specialis di gara «sono immediatamente impugnabili solo se contengano clausole chiaramente impeditive dell'ammissione dell'interessato alla selezione» altrimenti «sono impugnabili solo con gli atti che degli stessi fanno applicazione».
La prova di resistenza
Altro particolare di rilievo, e in questo caso il giudice ha ritenuto persuasive le argomentazioni della stazione appaltante, riveste la riflessione sui rapporti tra le pretese del ricorrente e la posizione in graduatoria finale.
Il ricorrente risultava collocato solamente al tredicesimo posto della graduatoria, circostanza che ha sostanziato un «mediocre piazzamento» e le censure proposte (la pretesa illegittimità della composizione della commissione di gara), quindi, esigevano la cosiddetta prova di resistenza ovvero la dimostrazione di qualche utile elemento tale da far almeno ipotizzare una ragionevole possibilità di ottenere l'utilità richiesta. Ovvero aspirare all'aggiudicazione.
Nel caso di specie, l'indirizzo giurisprudenziale da preferire è quello per cui «anche ove siano dedotti vizi di legittimità della nomina della Commissione, l'interesse strumentale alla riedizione della gara rimane subordinato al presupposto che vi siano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l'utilità richiesta (TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 02.03.2018, n. 2399), dovendosi evitare la soddisfazione di aspettative meramente ipotetiche o del tutto eventuali».
Nel caso trattato, evidentemente, queste ipotesi erano men che remote per la posizione "mediocre" del ricorrente, pertanto le istanze non hanno potuto essere accolte (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.02.2019).
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MASSIMA
Ritenuto, in via pregiudiziale, di dover respingere l’eccezione di tardività del ricorso, sollevata sia dal Comune di Venezia, sia dalla CO.L.SER., per le seguenti ragioni:
   - tanto il Comune quanto la controinteressata sostengono che, poiché Pa. censura l’illegittimità della nomina dei componenti della Commissione di gara, detta pretesa illegittimità avrebbe dovuto essere rilevata e fatta valere sin dalla conoscenza dei provvedimenti di nomina, essendone percepibile immediatamente la lesività: quindi, o dalla seduta della Commissione dell’08.05.2018 (a cui era presente un delegato della Papalini), o al più tardi dalla pubblicazione dei provvedimenti di nomina nel “sito web” della stazione appaltante, avvenuta il 10.05.2018, sarebbe decorso il termine di impugnativa per far valere dette censure, con conseguente tardività del ricorso, in quanto notificato oltre tale termine;
   - in contrario, tuttavia, va richiamato l’insegnamento della giurisprudenza più recente, la quale, sulla scorta della recente decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 26.04.2018 (che ha circoscritto l’alveo degli atti di gara da impugnare immediatamente), ha escluso l’esistenza di un onere di immediata impugnazione della nomina dei componenti della commissione;
   - è stato, in particolare, evidenziato che “
nelle gare pubbliche l’atto di nomina della Commissione giudicatrice, al pari degli atti da questa compiuti nel corso del procedimento, non produce di per sé un effetto lesivo immediato, e comunque tale da implicare l’onere dell’immediata impugnazione nel prescritto termine decadenziale; la nomina dei componenti della Commissione può essere impugnata dal partecipante alla selezione, che la ritenga illegittima, solo nel momento in cui, con l’approvazione delle operazioni concorsuali, si esaurisce il relativo procedimento amministrativo e diviene compiutamente riscontrabile la lesione della sfera giuridica dell’interessato” (cfr. C.d.S., Sez. III, 11.05.2018, n. 2835; v. altresì C.d.S., Sez. V, 18.10.2018, n. 5958 e TAR Campania, Salerno, Sez. I, 07.05.2018, n. 706);
   - una recentissima decisione, richiamata dalla ricorrente nella memoria conclusiva (v. C.d.S., Sez. V, 09.01.2019, n. 193), nel confermare la soluzione della non impugnabilità immediata della nomina dei commissari, ha disatteso l’opposta argomentazione fondata sulle esigenze di concentrazione del processo (inferibili dal rito “super-speciale” ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a.) e sul rispetto dei principi di buona fede e leale collaborazione che devono presiedere ai rapporti tra il concorrente e la stazione appaltante, osservando che: “
l’appellante richiama le esigenze di concentrazione del processo che presidiano il rito superspeciale di cui all’art. 120, comma 2-bis, Cod. proc. amm., ma è evidente che, a fronte di una disciplina speciale, non applicabile analogicamente, occorre anche tenere conto delle regole processuali di un sistema di giurisdizione soggettiva, ed anzitutto di quella per cui il presupposto processuale dell’interesse al ricorso richiede i requisiti dell’immediatezza, concretezza ed attualità. Per tale ragione i bandi, i disciplinari, gli atti costitutivi della lex specialis di gara sono immediatamente impugnabili solo se contengano clausole chiaramente impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione, laddove, sotto ogni altro aspetto, sono impugnabili solo con gli atti che degli stessi fanno applicazione; pertanto è escluso che debbano essere immediatamente impugnate le clausole del bando o della lettera di invito che non incidono direttamente ed immediatamente sull’interesse del soggetto a partecipare alla selezione comparativa e che dunque non determinano un immediato arresto procedimentale, come pure, per la stessa ragione, quelle riguardanti la composizione della Commissione giudicatrice”;
   - di qui, in definitiva, l’infondatezza della suesposta eccezione di tardività;
Ritenuto, sempre in via pregiudiziale, di dover invece accogliere l’eccezione –sollevata dal Comune e dalla controinteressata– di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse alla sua proposizione, sulla base delle medesime ragioni già esposte in sede cautelare, da cui, pur al più approfondito esame proprio della fase di merito del giudizio, non si ravvisano elementi per discostarsi;
Considerato, in particolare, che:
   - nella gara per cui è causa, Pa. si è classificata al 13° posto della graduatoria (su n. 19 offerenti) con punti 71,34, mentre l’aggiudicataria CO.LSER. ha ottenuto il punteggio di 93,43, cosicché tra le rispettive offerte vi è stato un distacco complessivo di 22,09 punti. A fronte di simili dati, di per sé molto eloquenti, la ricorrente si è nondimeno limitata a censurare la nomina dei commissari, senza muovere alcuna critica all’operato degli stessi;
   - il Comune di Venezia e CO.L.SER. hanno, quindi, eccepito l’inammissibilità del ricorso, in difetto della prova, da parte della ricorrente, di ottenere l’utilità richiesta, o almeno della fornitura di elementi da cui si potesse ricavare una concreta possibilità di ottenere una qualche utilità dall’accoglimento del ricorso;
   - il Comune intimato e la controinteressata hanno eccepito, inoltre, l’inammissibilità della domanda di riedizione della gara, atteso che l’eventuale accoglimento del gravame non potrebbe comportare l’annullamento degli atti di gara anteriori agli impugnati atti di nomina dei commissari e, quindi, non potrebbe determinare l’integrale travolgimento della procedura;
   - nella memoria conclusiva Pa. replica all’eccezione di inammissibilità insistendo sull’interesse strumentale da essa fatto valere alla riedizione della gara, alla luce del vizio radicale della procedura di gara che viene denunciato. In particolare, la tipologia del vizio lamentato –per cui la gara sarebbe stata condotta in spregio alle regole di trasparenza nella nomina della Commissione ed al principio di imparzialità di giudizio, ontologicamente caratterizzante una Commissione di gara– porterebbe ad escludere che dalla ricorrente possa pretendersi la cd. prova di resistenza. Ciò, tenuto altresì conto del fatto che la propria posizione deteriore in graduatoria ben potrebbe essere il riflesso della valutazione delle offerte in gara compiuta da una Commissione (pretesamente) incompetente e illegittimamente nominata;
   - viene invocata, sul punto, la giurisprudenza secondo cui, ove i vizi dedotti portino all’annullamento dell’intera procedura e non al conseguimento di un’immediata collocazione utile in graduatoria, non sussiste in capo al deducente l’onere di fornire alcuna prova di resistenza;
   - quanto, poi, all’impossibilità di ottenere la riedizione dell’intera gara, Pa. obietta che la regola per cui la caducazione di un atto inserito in una serie procedimentale comporta la rinnovazione dei soli atti successivi, va armonizzata, nella materia degli appalti pubblici, con il principio di segretezza delle offerte: principio, in base al quale le offerte economiche devono restare segrete fino al termine della fase di valutazione di quelle tecniche e che, però, sarebbe vulnerato qualora –come nel caso qui in esame– la Commissione, della cui nomina si contesta la legittimità, proceda non solo a conoscere, ma altresì a valutare le offerte tecniche ed economiche;
   - in ogni caso –conclude Pa.– anche ove si ritenesse che l’accoglimento del ricorso non possa implicare il travolgimento dell’intera gara, resterebbe fermo il suo interesse a vedere la propria offerta valutata da una Commissione legittimamente nominata e competente: il travolgimento, oltre agli atti di nomina dei commissari, delle operazioni da questi svolte, sarebbe, perciò, pienamente satisfattivo dell’interesse azionato;
   - le su esposte repliche della ricorrente, tuttavia, non sono convincenti e non bastano –come da essa richiesto– a far rimeditare l’orientamento espresso in sede cautelare;
   - ad avviso del Collegio, di fronte al mediocre piazzamento ottenuto in gara (13° posto su 19) ed al forte distacco dalla prima in graduatoria (22,09 punti), Papalini non può trincerarsi dietro la tipologia delle censure proposte, che la esonererebbero dal dover fornire la cd. prova di resistenza, ma avrebbe dovuto fornire qualche elemento tale da far almeno ipotizzare una ragionevole possibilità di ottenere l’utilità richiesta.
In particolare, Pa. non si sarebbe dovuta limitare a formulare censure avverso la nomina dei commissari, ma avrebbe dovuto avanzare critiche sulla legittimità del loro operato e, inoltre, avrebbe dovuto evidenziare profili di pregio della sua offerta ingiustamente obnubilati dalla Commissione, in modo da far presumere che l’eventuale ripetizione della gara porterebbe ad un esito completamente diverso di questa, favorevole alla stessa ricorrente;
   - nulla di tutto ciò è stato fatto, invece, dalla società, la quale si è limitata a lamentare l’illegittimità degli atti di nomina dei commissari, dal punto di vista procedimentale e della (presunta) mancanza di competenza in capo agli stessi, ma senza addurre alcun vizio concreto in cui si sarebbe tradotta l’ora vista mancanza di competenza. La stessa affermazione contenuta nella memoria finale di Papalini, secondo cui la propria posizione deteriore in graduatoria potrebbe dipendere dalle valutazioni di una Commissione incompetente e illegittimamente nominata, non è suffragata da nessun indizio concreto circa eventuali illegittimità/errori da cui sarebbero affette dette valutazioni;
   - alla luce di quanto esposto, non pare perciò applicabile –almeno nel caso qui in esame– l’indirizzo giurisprudenziale per il quale la deduzione di un vizio relativo alla composizione della Commissione rende impossibile la dimostrazione di ragionevoli probabilità di conseguire l’aggiudicazione; invece, va preferito l’orientamento secondo cui,
anche ove siano dedotti vizi di legittimità della nomina della Commissione, l’interesse strumentale alla riedizione della gara rimane subordinato al presupposto che vi siano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l’utilità richiesta (TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 02.03.2018, n. 2399), dovendosi evitare la soddisfazione di aspettative meramente ipotetiche o del tutto eventuali;
   - invero, il rischio di dare soddisfazione ad aspettative di questo tipo –in tal modo non rispettando la ratio della regola di cui all’art. 100 c.p.c.– appare assai elevato in una situazione qual è quella ora in esame, caratterizzata, si ripete, dalla mediocrità del piazzamento in graduatoria della ricorrente e dal suo significativo distacco dalle altre imprese classificate in graduatoria, e non solo dalla prima: basti pensare che, a fronte dei punti 71,34 riportati da Papalini, la settima in graduatoria (PFE S.p.A.) ha ottenuto un punteggio (80,55) di più di nove punti superiore (cfr. l’allegato 2 al verbale di gara n. 8 del 13.06.2018, all. 15 al ricorso);
   - almeno nella fattispecie ora analizzata, quindi, appare condivisibile l’affermazione del Comune di Venezia, secondo cui la contestazione della nomina e della composizione della Commissione di gara non è di per sé sufficiente a fondare la sussistenza dell’interesse ad agire, perché non accompagnata da specifiche contestazioni dello svolgimento delle operazioni di gara. Ne discende, in ultima analisi, la fondatezza della suesposta eccezione di inammissibilità del ricorso;
Ritenuto, in conclusione, alla stregua di tutto quanto esposto, che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse;

PUBBLICO IMPIEGOPolizia locale, l'agente stressato perde il porto della pistola.
L'operatore di polizia locale che richiede la verifica dello stress lavoro-correlato non può lagnarsi se a seguito della certificazione medica di non idoneità temporanea alla mansione scatta anche la revoca della qualifica di pubblica sicurezza. E il ritiro temporaneo dell'arma fino alla completa guarigione.

Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 15.02.2019 n. 197.
Un agente di polizia municipale ha richiesto una visita ottenendo una certificazione di temporanea inidoneità alla mansione. All'esito di questa verifica sanitaria il comandante ha ritirato l'arma all'agente e ha informato la prefettura. Che ha adottato un provvedimento di revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Contro questo provvedimento l'interessato ha proposto censure al collegio ma senza successo. Anche se l'art. 5 della legge n. 65/1986 elenca tassativamente i requisiti richiesti per il rilascio e il mantenimento della qualifica di ps a parere del collegio l'autorità prefettizia conserva ampia discrezionalità in materia.
E se un operatore non risulta idoneo al maneggio delle armi deve intervenire prontamente a tutela della sicurezza e dell'incolumità pubblica (articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019).
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MASSIMA
3. I motivi di ricorso –che possono essere trattati unitariamente– sono infondati.
3.1. Giova premettere che l’art. 3 della legge 07.03.1986, n. 65 (Legge-quadro sull'ordinamento della polizia municipale), prevede che “Gli addetti al servizio di polizia municipale esercitano nel territorio di competenza le funzioni istituzionali previste dalla presente legge e collaborano, nell'ambito delle proprie attribuzioni, con le Forze di polizia dello Stato, previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità”.
Il successivo art. 5 della medesima legge dispone che <<[…] 2. A tal fine il prefetto conferisce al suddetto personale, previa comunicazione del sindaco, la qualità di agente di pubblica sicurezza, dopo aver accertato il possesso dei seguenti requisiti: a) godimento dei diritti civili e politici; b) non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione; c) non essere stato espulso dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici. 3. Il prefetto, sentito il sindaco, dichiara la perdita della qualità di agente di pubblica sicurezza qualora accerti il venir meno di alcuno dei suddetti requisiti […]>>.
Ciò premesso, ben conosce il Collegio l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale ai sensi del su indicato art. 5 della legge n. 65/1986 l'attribuzione delle funzioni di pubblica sicurezza al personale addetto alla polizia municipale è subordinato al mero accertamento dei predetti requisiti tassativamente indicati, con la conseguenza che il conferimento da parte dell'Autorità prefettizia della relativa qualità di agente di pubblica sicurezza, così come la perdita di detta qualità, costituiscono atti di natura vincolata privi di qualsiasi margine di discrezionalità.
E tuttavia il Collegio ritiene che
le ipotesi previste dal comma 3 del cit. art. 5 della legge n. 65/1986 (in relazione ai requisiti fissati dal precedente comma 2, id est: godimento dei diritti civili e politici; non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione; non essere stato espulso dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici) non esauriscono i casi in cui si può verificare la perdita della qualifica di agente di pubblica sicurezza a carico dell’appartenente al Corpo di polizia municipale poiché, in virtù dei principi generali cui deve attenersi l’attività amministrativa, il Prefetto conserva il potere di verificare la persistenza in capo al dipendente dell’indefettibile presupposto per l'attribuzione della qualifica in questione e cioè per lo svolgimento di funzioni di pubblica sicurezza, consistente nel possesso dei necessari requisiti psico-fisici per l'esercizio di tale attività, come pure quello inerente all'idoneità tecnica all'uso delle armi, la cui mancanza può far venir meno la qualifica, incidendo sulla possibilità stessa del soggetto di essere adibito allo svolgimento di attività di pubblica sicurezza (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 15.01.2015, n. 86).
In altri termini detto,
al di fuori delle ipotesi di cui al cit. art. 5 della legge n. 65/1986, la revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza può essere disposta allorché siano venuti meno i requisiti di idoneità psicofisica del soggetto ovvero costui non dia più affidamento del buon uso del titolo di polizia, secondo la valutazione latamente discrezionale dell’Autorità prefettizia (TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 03.01.2018, n. 5; cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 02.08.2010, n. 2603; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 23.03.2010, n. 1560).
Anche più di recente è stato evidenziato come, ai fini di interesse, non possa non assumere rilievo l’aspetto del possesso dei necessari requisiti psico-fisici per l'esercizio dell'attività di pubblica sicurezza (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 31.01.2019, n. 468).
Nel caso di specie risulta che l’esponente in data 17.03.2017 è stato giudicato dallo specialista in medicina del lavoro -con validità del giudizio di 12 mesi- temporaneamente non idoneo alla mansione specifica (Agente di Polizia Municipale).
Detto presupposto risulta chiaramente sia dall’impugnato provvedimento prefettizio, sia dalla nota prot. n. 6577 del 04.04.2017 del -OMISSIS-, sia, naturaliter, dallo stesso giudizio medico.
In tale contesto, quindi, l’avversata revoca prefettizia esula dalle ipotesi previste dal cit. art. 5 della n. 65/1986; nel caso di specie, infatti, la revoca è stata posta in essere per una ragione differente, ovverosia la temporanea non idoneità alla mansione specifica del ricorrente, ed è stata adottata dal Prefetto in base al principio del contrarius actus (spettando al medesimo Prefetto l’attribuzione della qualifica de qua) e sulla scorta dell’accertamento medico in questione (che peraltro non risulta criticato dall’esponente).
Del tutto inconferente è, pertanto, il richiamo alle previsioni costituzionali di cui agli artt. 3 e 32 Cost., non risultando vulnerato in alcun modo né il diritto alla salute né il principio di eguaglianza (neppure potendosi ravvisare una discriminazione consumata ai danni del ricorrente).
Parimenti inconferente è la lagnanza con la quale il ricorrente evidenzia che anche senza la dotazione di un’arma ben può essere svolta la mansione relativa alla qualifica di agente di pubblica sicurezza; ed invero, dalla piana lettura del provvedimento avversato si ricava che l’Autorità prefettizia ha sì richiamato la circostanza dell’avvenuta riconsegna dell’arma assegnata all’esponente, ma ha posto alla base dell’avversata revoca il solo giudizio di temporanea non idoneità (RITENUTO che il giudizio di inidoneità sopra menzionato non consenta il mantenimento della qualifica in argomento a favore del Signor -OMISSIS-, non potendo lo stesso svolgere le mansioni assegnategli).
Ed inoltre, la motivazione del provvedimento avversato consente la piena ricostruzione dell'iter logico-giuridico attraverso cui l'Amministrazione si è determinata ad adottare l’atto, palesando le ragioni giustificatrici della decisione, sì da consentire il controllo del corretto esercizio del potere.
Non è dirimente neppure la circostanza dell’aver consigliato lo stesso specialista la “valutazione sanitaria da parte della commissione medica”, da un lato perché si trattava di un mero suggerimento (<<Consiglio valutazione sanitaria da parte della commissione medica di verifica ex art 5>>) e dall’altro perché detto consiglio non rimuove affatto il giudizio di temporanea non idoneità alla mansione specifica reso dallo stesso specialista.
Il provvedimento impugnato, dunque, si sottrae alle censure articolate dalla parte ricorrente.

PUBBLICO IMPIEGOLa prescrizione evita il recupero sul dipendente delle spese legali anticipate.
La prescrizione del reato non abilita l'ente locale ad attivare un decreto ingiuntivo nei confronti del dipendente per il recupero delle somme, a suo tempo corrisposte, per sollevarlo dalle spese legali sostenute per la sua difesa in giudizio. Il contratto degli enti locali, infatti, non prevede che la restituzione degli importi anticipati debba avvenire in mancanza dell'assoluzione piena, come previsto dalla legge e nel contratto delle amministrazioni statali, ma solo nel caso in cui l'ente dimostri e provi la presenza sin dall'inizio di un conflitto di interessi.
È la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- nell'ordinanza 14.02.2019 n. 4500.
La vicenda
Il Comune ha emesso un decreto ingiuntivo, nei confronti di un proprio dipendente, per la ripetizione delle somme a lui anticipate per la difesa legale in un procedimento penale. A supporto del credito, ritenuto certo, liquido ed esigibile, l'ente ha motivato la ripetizione degli importi corrisposti a causa della mancanza di una sentenza di assoluzione piena, essendo il reato estinto per prescrizione.
Pertanto, nessuna spesa poteva essere posta in capo al Comune con obbligo di ripetizione di quanto ricevuto dal dipendente. Questa motivazione è stata ritenuta sufficiente dal Tribunale di primo grado, ma la Corte d'appello, successivamente adita dal dipendente, ha riformato la sentenza.
Secondo i giudici di secondo grado, non c'erano i presupposti del credito recuperatorio, mancando nel caso di specie una sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave, ovvero la dimostrazione di un conflitto di interessi, elementi questi richiesti dalla normativa contrattuale degli enti locali (articolo 28 del contratto 14.09.2000).
Contro la sentenza della corte territoriale l'ente ha proposto ricorso in Cassazione evidenziando che la normativa contrattuale deve essere integrata con le altre disposizioni previste per i dipendenti pubblici in generale, con la conseguente errata conclusione cui sono pervenuti i giudici di appello secondo cui ai dipendenti spetterebbe il rimborso delle spese legali anche in assenza di una sentenza assolutoria come quella che accerti l'esistenza di una causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Le motivazioni della Cassazione
Secondo i giudici di Piazza Cavour è manifestamente infondata la posizione dell'ente locale rispetto alla chiara lettura delle disposizioni contrattuali, le quali non postulano in modo assoluto la presenza di una assoluzione piena per poter procedere al rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente per la sua difesa in giudizio, ma solo che non vi sia una sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi dal dipendente con dolo e colpa grave.
Resta inteso, in ogni caso, il «no» al rimborso delle spese legali qualora l'ente accerti (secondo una valutazione ex ante) l'insussistenza di un genetico e originario conflitto di interessi, che permane anche in caso di successiva assoluzione del dipendente (esempio in caso di costituzione di parte civile). Non è, inoltre, possibile rinviare per analogia alle disposizioni contrattuali o legislative valide per le sole amministrazioni statali, mancando uno specifico riferimento al rinvio nelle disposizioni contrattuali previste per gli enti locali.
In conclusione, non avendo l'ente fornito prova dello specifico conflitto di interessi, anzi avendo consentito il rimborso anticipato delle spese sostenute dimostrando per questi versi la mancanza ex ante del conflitto, il ricorso dell'ente deve essere rigettato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.02.2019).
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MASSIMA
Considerato che:
   a) con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 28 del CCNL Regioni e Autonomie locali del 14.09.2000 e dell'art. 129, comma 2, c.p.p.; parte ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui sostiene che, ai sensi dell'art. 28 CCNL, la ripetizione degli oneri sostenuti dall'Ente per spese legali relativi a procedimenti di responsabilità civile o penale nei confronti dei propri dipendenti per fatti o atti direttamente commessi nell'esercizio delle loro funzioni possa essere attuata soltanto in presenza di una sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave.
Diversamente, alla luce della normativa vigente, gli enti pubblici sarebbero legittimati a chiedere la ripetizione di tali somme non solo in presenza di una sentenza di condanna per fatti commessi con dolo o colpa grave, ma anche quando siano state emesse sentenze che non escludono l'assenza di responsabilità dell'imputato (quali la pronuncia che accerti l'esistenza di una causa di estinzione del reato, come l'intervenuta prescrizione), pur avendo riscontrato elementi dai quali desumere la natura gravemente colposa della condotta del dipendente, come nel caso di specie;
   a1) il motivo è in parte manifestamente infondato e in parte inammissibile.
E' manifestamente infondato là dove si duole dell'esegesi del
l'art. 28 CCNL, pacificamente applicabile alla fattispecie, operata dal giudice di appello (cfr. punto 3 innanzi riportato), che, invece, risulta coerente con la portata complessiva della citata disposizione contrattuale, che consente la ripetizione delle spese legali anticipate dall'ente territoriale in presenza di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi dal dipendente con dolo e colpa grave (non postulando la necessità di una assoluzione con formula piena), dovendo, però, accertarsi in ogni caso (secondo una valutazione ex ante) l'insussistenza di un genetico ed originario conflitto di interessi, che permane anche in caso di successiva assoluzione del dipendente (Cass. n. 18256/2018).
Non è, quindi, pertinente il richiamo di parte ricorrente ad altra normativa e, segnatamente, all'art. 18 del d.l. n. 67/1997 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135/1997), che riguarda i dipendenti delle amministrazioni statali e non quelli del comparto autonomie locali, cui si riferisce specificamente la disposizione dell'art. 28 CCNL rilevante nella fattispecie.
E' inammissibile là dove manca di censurare, in modo specifico e congruente, la ratio decidendi che evidenzia l'assenza di prova in ordine al conflitto di interessi tra il Comune ingiungente e il Fo..

ENTI LOCALIOmesso esercizio dei poteri di socio, decide la Corte dei Conti anche se la società non è in house.
In tema di giurisdizione contabile, l'azione di responsabilità per danno erariale si configura nei confronti di colui che, nella veste di rappresentante dell'ente pubblico o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia trascurato colpevolmente l'esercizio dei poteri di socio pregiudicando il valore della partecipazione, a prescindere dalla natura (in house o meno) della società partecipata.
Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, a Sezz. unite civili, con la sentenza 12.02.2019 n. 4132, per ribadire la giurisdizione della Corte dei conti in ordine al danno derivante da 2 operazioni illecite di finanziamento per l'importo complessivo di 700mila euro, operazioni effettuate, in entrambi i casi, da una società interamente partecipata da un Comune nei confronti di una controllata di secondo grado, a titolo di aumento in conto futuro di capitale sociale.
Le decisioni dei giudici contabili
Ad avviso del procuratore contabile che ha citato in giudizio il Sindaco, alcuni consiglieri comunali e il dirigente al bilancio del Comune, il primo finanziamento erogato risultava in contrasto con i principi di buona amministrazione, mentre il secondo veniva disposto dall'ente in violazione dell'articolo 6, comma 19, del Dl 78/2010 convertito dalla legge 122/2010 (divieto di erogare risorse a società con perdite reiterate di bilancio).
In primo grado, la sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti ha rigettato la domanda di condanna per danno erariale sulla base della considerazione che la società in mano all'ente locale non aveva i requisiti della società in house, dichiarando competente per il giudizio il giudice ordinario.
Di contro, la prima Sezione giurisdizionale centrale d'Appello della Corte dei conti ha affermato la giurisdizione del giudice contabile, rinviando gli atti a questo per la pronuncia sul merito.
La decisione della Cassazione
I supremi Giudici hanno confermato quest'ultima decisione affermando che la distinzione tra società in house e società non in house ha rilievo sotto il profilo della qualificazione del danno, che si configura come danno erariale solo in caso di pregiudizio cagionato al patrimonio della società in house, dacché altrimenti il danno, anche se in presenza di una partecipazione pubblica totalitaria, esula dalla nozione di Pa e resta confinato nel patrimonio sociale, per l'assenza di un rapporto di delegazione interorganica tra l'ente e l'organismo partecipato.
In questa logica, il danno arrecato dagli organi della società al patrimonio sociale non è idoneo, di regola, a radicare l'azione di responsabilità presso la Corte dei conti, fatta salva l'ipotesi della società in house, che non si pone in rapporto di alterità con la Pubblica amministrazione ma opera come longa manus di quest'ultima, per cui il danno sofferto dalla società è direttamente riferibile all'ente pubblico.
Va pur detto che l'azione di responsabilità è stata esercitata dalla procura contabile non già contro gli organi di una partecipata, bensì nei confronti del Sindaco, dei consiglieri e del dirigente comunale per i danni arrecati al patrimonio dell'ente in termini di minori dividendi maturati dalla società e da questa distribuiti al socio unico.
Le sezioni unite hanno affermato che la competenza giurisdizionale della Corte dei conti prescinde dalla natura in house o meno della partecipata, in quanto –secondo la ratio legis cui si ispira l'articolo 12 del Dlgs 175/2016– il raggio d'azione del giudice contabile si estende a qualsiasi condotta che, con colpa grave, abbia intaccato l'integrità delle risorse amministrate dalla Pa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.02.2019).

SEGRETARI COMUNALICompensi come da regolamento al segretario nominato presidente del nucleo di valutazione.
Per lo svolgimento delle attività di presidente del nucleo di valutazione, al segretario comunale spetta il compenso previsto dal regolamento dell'ente.
La conferma di questo indirizzo arriva dalla Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza 06.02.2019 n. 3484).
La vicenda
Il segretario di un Comune di piccole dimensioni ha chiesto invano al proprio ente la liquidazione dei compensi per aver svolto l'incarico di presidente del nucleo di valutazione, conferitogli dalla giunta comunale quale incarico aggiuntivo alle sue funzioni. La pretesa economica era direttamente legata ai contenuti del regolamento dell'ordinamento degli uffici e servizi, secondo il quale tra i compiti del direttore generale, rientrava anche quello di presiedere il nucleo di valutazione, precisando che spetta alla giunta, su proposta del sindaco, fissare i compensi aggiuntivi da corrispondere al direttore generale, ovvero al segretario comunale.
Il tribunale di primo grado ha confermato la posizione dell'ente sulla non remuneratività dell'incarico, mentre la Corte d'appello, in riforma della sentenza, ha condannato l'ente a corrispondere la retribuzione dovuta al segretario. Secondo i giudici di appello, infatti, le disposizioni del regolamento non lasciano spazio a interpretazioni diverse, in quanto una volta conferito l'incarico al segretario comunale, il compito della giunta era solo quello di stabilire l'entità dei compensi.
In particolare, il segretario non avrebbe potuto reclamare alcune retribuzione in presenza di nomina da parte del sindaco delle funzioni di direttore generale, mentre nel caso di assegnazione solo di alcune delle funzioni proprie direttore generale, come quella di presidente del nucleo di valutazione, il compito (residuale) della giunta era solo quello di fissare la misura del compenso aggiuntivo.
Il Comune si è difeso in Cassazione, ritenendo non corrette le motivazioni dei giudici di secondo grado, per aver omesso di considerare le disposizioni inserite nel testo unico del pubblico impiego, secondo il quale dal segretario comunale sono in ogni caso esigibili le funzioni di direttore generale, in mancanza di nomina di quest'ultimo.
La conferma della sentenza
Secondo i giudici di legittimità l'interpretazione fornita dal Comune, di non conformità a legge del regolamento comunale, per violazione dell'articolo 97 del Tuel, non è condivisibile. Nel caso di specie, il Comune non contesta le disposizioni del regolamento dell'ordinamento degli uffici e dei servizi, ma aggiunge elementi di recessività del regolamento rispetto alle disposizioni di legge, fornendo anche una interpretazione difforme e non accettata dalla Corte d'appello.
I giudici di secondo grado hanno avuto modo di precisare che le disposizioni regolamentari conducevano a ritenere corretta la remunerazione aggiuntiva, senza alcuna influenza alle contestazioni dell'ente sulla ritenuta incongruità della flessibilità del suo orario lavoro che ben avrebbe potuto assorbire anche quelle scolte in qualità di presidente del nucleo di valutazione. La Cassazione, pertanto, conferma anche la corretta determinazione dell'importo dovuto, basato in via equitativa, sui compensi successivamente corrisposti al presidente del nucleo di valutazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.02.2019).

APPALTI SERVIZIRequisiti dell'in house, per la verifica occorre un approccio sostanziale.
La pronuncia della Corte di Cassazione, Sezz. riunite civili, con la sentenza 05.02.2019 n. 3330 (sul Quotidiano degli enti locali del 20 febbraio), impone oggi una riflessione su quello che debba essere la sostanza e la forma nel caso particolare dell'in house providing ma merita una riflessione forse ancora più generale.
Anzitutto ricordiamo la questione. La Corte dei conti aveva ritenuto che Trambus (oggi Atac) fosse una società in house providing, in quanto interamente del Comune di Roma, aveva in affidamento diretto il servizio di trasporto pubblico locale del Comune e aveva sì previsto nello statuto la possibilità di apertura ai privati, ma questa eventualità non si era mai realizzata.
Per la Cassazione, invece, di per sé «la partecipazione pubblica, anche totalitaria, di una società di capitali non radica la giurisdizione della Corte dei conti e la precisazione che vi sia giurisdizione della Corte dei conti per la responsabilità degli organi sociali per danno solo nelle società in house providing, nelle quali, in ragione delle loro particolari caratteristiche, la distinzione tra socio pubblico e società non si realizza in termini di alterità soggettiva (Cass., Sez. U., n. 26283 del 2013, cit.)».
Secondo la Cassazione dunque, la verifica della ricorrenza dei requisiti propri dell'in house, deve compiersi con riguardo alle norme e alle previsioni statutarie vigenti alla data del fatto illecito.
Nel caso di specie, pertanto, «la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha modificato sensibilmente i suddetti requisiti, non può essere applicata, al fine di affermare la giurisdizione contabile, nei casi in cui i fatti generatori del presunto danno erariale si siano svolti, non solo prima della sua pubblicazione nella G.U. dell'Unione europea (24.03.2014), ma anche prima del suo recepimento in Italia, trattandosi di direttiva non immediatamente esecutiva, ma da attuarsi entro il termine di recepimento dalla stessa previsto (18.04.2016), rispettato dallo Stato italiano con l'adozione del d.lgs. n. 50 del 2016 (Cass., Sez. U., 28/06/2018, n. 17188)».
Su queste considerazioni generali è difficile non essere d'accordo.
Il dissenso che ci sentiamo di esprimere, però, riguarda l'approccio con cui si va a verificare l'esistenza o meno dei requisiti dell'in house providing, viste le conseguenze che questo può avere in concreto.
Avrebbe senso, ribaltando la situazione, parlare di in house, a fronte di uno statuto formalmente perfetto, anche nel caso di una società che abbia soci privati (perché magari una società partecipante un tempo pubblica è stata dismessa e ha mantenuto la partecipazione), non venga in alcun modo esercitato il controllo analogo dovuto e che abbia un fatturato sensibilmente influenzato da attività commerciali neppure statutariamente previste?
Senza un vaglio dei contenuti sostanziali e non solo formali dell'inquadramento delle società diventa, in sostanza, fin troppo facile far rientrare od escludere, per comodità magari contingenti, una azienda dalla giurisdizione della Corte dei Conti o da altri effetti normativi.
Con un approccio formale, invece, il rischio, è di fare prevalere i comportamenti opportunistici. In certi casi, ad esempio, può essere ritenuto vantaggiosa presenza di della giurisdizione contabile, perché di fatto concentra la sua azione su amministratori e dipendenti della azienda, e non sui soci; in altri quella civilistica, perché al contrario rende più difficile l'azione risarcitoria sugli amministratori societari.
Dalle future elaborazioni giurisprudenziali e, se del caso, dai prossimi interventi legislativi, ci aspettiamo invece un insieme di regole che responsabilizzi, in concreto, tutti a svolgere con correttezza il proprio ruolo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.03.2019).
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MASSIMA
2.1. La giurisprudenza di queste sezioni unite è ormai consolidata nell'affermazione dei seguenti principi.
In primo luogo,
la partecipazione pubblica, anche totalitaria, di una società di capitali non radica la giurisdizione della Corte dei conti, la quale sussiste nei soli casi in cui sia prospettato un danno arrecato dal rappresentante della società partecipata al socio pubblico in via diretta (non, cioè, quale mero riflesso della perdita di valore della partecipazione sociale), o sia contestato al rappresentante del socio pubblico di aver colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, così pregiudicando il valore della partecipazione (cfr., per tutte, Cass., Sez. U., 19/12/2009, n. 26806 e 25/11/2013, n. 26283), o, infine, sia configurabile la speciale natura dello statuto legale di alcune società partecipate (cfr. Cass., Sez. U., 09/07/2014, n. 15594; 13/11/2015, n. 23306).
Vi è, invece, la giurisdizione della Corte dei conti per la responsabilità degli organi sociali per danni cagionati al patrimonio delle società cosiddette in house providing, nelle quali, in ragione delle loro particolari caratteristiche, la distinzione tra socio pubblico e società non si realizza più in termini di alterità soggettiva (Cass., Sez. U., n. 26283 del 2013, cit.).
I requisiti per la configurabilità di una società in house e le modalità del loro accertamento sono i seguenti:
   a) il capitale sociale deve essere integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e lo statuto deve vietare la cessione delle partecipazioni a soci privati;
   b) la società deve esplicare statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l'eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale;
   c) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici -al punto che gli organi amministrativi della società vengano a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica- e quindi con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà normalmente spettanti al socio in base alle regole del codice civile;
   d) i detti requisiti devono sussistere tutti contemporaneamente e risultare da precise disposizioni statutarie, e la loro verifica deve essere svolta avendo riguardo al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita
(tra altre, oltre a Cass., Sez. U., n. 26283/13, cit., Cass., Sez. U., 10/03/2014, n. 5491; 26/03/2014, n. 7177; 24/03/2015, n. 5848; 13/04/2016, n. 7293; 08/07/2016, n. 14040; 22/12/2016, n. 26643 e n. 26644; 17/01/2017, n. 962; 18/01/2017, n. 1091; 27/12/2017, n. 30978; 13/09/2018, n. 22409).
Si è poi ulteriormente precisato che
la verifica della ricorrenza dei requisiti propri della società in house, dovendo compiersi con riguardo alle norme ed alle previsioni statutarie vigenti alla data del fatto illecito, comporta che la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha modificato sensibilmente i suddetti requisiti, non può essere applicata, al fine di affermare la giurisdizione contabile, nei casi in cui i fatti generatori del presunto danno erariale si siano svolti, non solo prima della sua pubblicazione nella G.U. dell'Unione europea (24.03.2014), ma anche prima del suo recepimento in Italia, trattandosi di direttiva non immediatamente esecutiva, ma da attuarsi entro il termine di recepimento dalla stessa previsto (18.04.2016), rispettato dallo Stato italiano con l'adozione del d.lgs. n. 50 del 2016 (Cass., Sez. U., 28/06/2018, n. 17188).

PUBBLICO IMPIEGOBastone in ufficio, l'agente finisce nei guai.
Esibire un bastone estensibile con i propri colleghi può fare scattare la sospensione dal servizio. A prescindere dall'uso effettivo dello strumento in attività esterne di istituto.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 05.02.2019 n. 3316.
Un operatore di polizia municipale è stato sospeso dal servizio per aver detenuto un bastone estensibile non previsto dal regolamento comunale. Contro questa severa misura punitiva l'interessato ha percorso tutti i gradi di giudizio ma senza successo.
A parere degli ermellini è sintomatico di una grave violazione del regolamento avere a disposizione strumenti pericolosi come un bastone estensibile. Nell'ambito della capacità di adempiere correttamente agli obblighi di servizio a parere del collegio va ricompreso il rispetto delle dotazioni di ordinanza trattandosi di regole delicate connesse allo svolgimento delle funzioni di polizia locale.
In buona sostanza se un operatore di polizia non rispetta il regolamento sulle armi commette una grave violazione che può determinare effetti anche sulla sicurezza. Per questo motivo non importa se l'agente ha sfoderato il bastone in servizio o solo in comando (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019).

ENTI LOCALI - VARILa scuola di danza richiede la Scia al comune.
La compagnia di danza che vuole attivare corsi in una palestra deve presentare preventivamente una segnalazione certificata di inizio attività in comune. Per evitare guai con i controlli della polizia locale e gli uffici municipali.

Lo ha evidenziato il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, con la sentenza 04.02.2019 n. 312.
Una palestra ha attivato anche una scuola di danza senza comunicare nulla al comune. Al controllo dei vigili sono scattate le sanzioni cui ha fatto seguito anche un provvedimento di sospensione dell'attività fisico-motoria per 90 giorni.
Contro queste misure punitive l'interessato ha proposto ricorso al collegio ma senza successo. Mentre le attività sportive in senso lato possono essere esercitate liberamente dalle società affiliate alle federazioni sportive nazionali le attività da svolgere all'interno delle palestre sono regolamentate diversamente, dalla legge 29.12.2014, n. 29.
Quindi per attivare una scuola di danza all'interno di una palestra servirà sempre presentare al comune una Scia con tutte le ulteriori certificazione necessarie di corredo. Non basta attivare il corso, recuperare iscritti e reclamizzare l'attività sportiva (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, l’onere va ai liquidatori. Prevale la prevenzione di rischi per salute ed eco-sistema. Il Tar Toscana interviene in materia di messa in sicurezza di residui di impresa inattiva.
Il curatore dell'azienda sottoposta a liquidazione e non più attiva può essere obbligato dalla p.a. alla messa in sicurezza dei rifiuti precedentemente prodotti dall'imprenditore ove emerga l'esigenza di prevenire danni a salute ed ambiente.
A evidenziare la preminenza del principio di precauzione sotteso al diritto ambientale nell'ambito delle procedure concorsuali è la sentenza 04.02.2019 n. 166 del TAR Toscana, Sez. II; e questo secondo una argomentazione logica che appare valida non solo sotto l'uscente disciplina fallimentare ex storico Rd 267/1942 ma (considerata la continuità normativa che accompagna alcune fattispecie) anche alla luce del neo dlgs 14/2019 sulla «liquidazione giudiziale» delle imprese (in vigore dal 16.03.2019).
La pronuncia del tribunale toscano consente di effettuare anche una ricognizione delle differenti ipotesi nelle quali al curatore dell'azienda congelata non può invece (in base al diverso principio del «chi inquina paga») essere imposto alcun onere gestorio per i rifiuti riconducibili alla precedente attività imprenditoriale.
La responsabilità per i rifiuti altrui. Per consolidata giurisprudenza il curatore non è rappresentante né successore del soggetto sottoposto a procedura concorsuale, ma terzo subentrante esclusivamente nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge.
Ciò comporta che in relazione a rifiuti già presenti sulle aree di pertinenza dell'azienda all'apertura della procedura concorsuale il curatore che non li acquisisce all'attivo è, in assenza di pericolo di danni per salute e ambiente, libero da oneri gestori poiché non rientra tra i soggetti obbligati ad agire ai sensi del Codice ambientale (dlgs 152/2006).
Infatti: in primo luogo il curatore non può essere considerato un «detentore» di rifiuti ai sensi dell'articolo 188 del dlgs 152/2006 e quindi destinatario degli obblighi di smaltimento o recupero ex Codice ambientale (come recentemente confermato dal Tribunale di Milano, sezione fallimentare, con decreto 08/06/2017); il secondo luogo il curatore non può neppure essere considerato ex articolo 192 del dlgs 152/2006 un «subentrante» della persona giuridica responsabile dell'eventuale abbandono o deposito incontrollato dei rifiuti, e di conseguenza sfugge alla responsabilità solidale con quest'ultimo e quindi alla connessa ordinanza del sindaco per loro rimozione e avvio a smaltimento/recupero (Cassazione, sentenza 3274/2014).
L'obbligo delle misure di prevenzione. Diversa, come accennato, è però l'ipotesi in cui la presenza dei rifiuti genera rischi per salute ed eco-sistema. In questo caso l'obbligo di adottare le misure di prevenzione ambientale previste dall'articolo 240 del dlgs 152/2006 (quali iniziative finalizzate a impedire o minimizzare il realizzarsi di eventi minacciosi per persone e ambiente) può infatti essere imposto dal comune al curatore in virtù del generale potere di ordinanza conferitogli dall'articolo 50 del dlgs 267/2000 (T.u. Enti locali) al fine di eliminare gravi pericoli.
Il Tar Toscana con la sentenza 166/2019 ha così confermato la bontà dell'agire di un ente territoriale che con ordinanza contingibile e urgente aveva imposto alla curatela della liquidazione di una industria del settore edile la rimozione dell'amianto presente e la messa in sicurezza di rifiuti abbandonati in vista del loro successivo allontanamento dall'area di deposito, poco tempo prima interessata anche da un incendio.
Infatti, sebbene la curatela non sia chiamata a succedere in obblighi e responsabilità del fallito (e alla stessa non sia dunque imponibile la più onerosa e complessa bonifica del sito) essa è comunque tenuta all'adempimento degli obblighi di custodia, manutenzione e messa in sicurezza correlati alla sua situazione di attuale possessore o detentore del bene.
Il caso dell'autorizzazione integrata ambientale... La responsabilità della curatela in relazione alle misure preventive emerge ancor più chiaramente qualora i rifiuti abbandonati dalla pregressa attività industriale siano stati generati da un'impresa sottoposta alla stringente autorizzazione integrata ambientale prevista dal Codice ambientale.
In tal caso infatti, come da ultimo stabilito dal Consiglio di stato con sentenza 3672/2017, le prescrizioni a tutela dell'ambiente contenute nell'Aia devono, in virtù di quanto disposto dall'articolo 29-bis e seguenti del dlgs 152/2006, essere rispettate anche nella fase successiva alla cessazione dell'attività d'impresa.
Ragion per cui, emerge dalla pronuncia, la p.a. ben può (al fine di evitare pericoli per salute ed eco-sistema) imporre l'osservanza delle condizioni contenute nell'Aia anche ai gestori post chiusura dei siti interessati. Legittima è dunque l'ordinanza sindacale che sulla base della disciplina Aia impone al curatore la messa in sicurezza dei rifiuti presenti.
...e di bonifica. La legittimità dell'ordine di messa in sicurezza dei rifiuti non giustifica invece l'ulteriore pretesa della p.a. di procedere a bonifica del sito inquinato (Consiglio di stato, sentenza 5668/2017).
Con tale pronuncia il giudice amministrativo ha sottolineato come la messa in sicurezza costituisca (anche alla luce dei principi comunitari) misura di prevenzione dei danni rientrante nel genus delle precauzioni che gravano anche sul detentore del sito da cui possano scaturire danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone l'accertamento di dolo o colpa.
E questo a differenza delle misure con finalità sanzionatoria o ripristinatoria (recupero o risanamento, come la bonifica), che essendo fondate sul diverso principio «chi inquina paga» possono invece essere imposte solo a coloro che abbiano responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORecupero cani randagi e trasporto pubblico fai-da-te.
L'amministrazione comunale può decidere di trasferire il servizio di recupero dei cani randagi e il trasporto pubblico locale in capo alla polizia municipale. Che deve solo prendere atto di questa scelta riorganizzativa e non può lamentarsi della decisione assunta.

Lo ha evidenziato il TAR Basilicata, Sez. I, con la sentenza 04.02.2019 n. 148.
Un piccolo comune ha deciso di modificare il suo assetto organizzativo trasferendo alla polizia locale la gestione del contratto di trasporto pubblico e il ricovero dei cani randagi.
Contro questa determinazione il comandante della municipale ha proposto doglianze al collegio ma senza successo. Nessuna disposizione normativa a parere del Tar impedisce di ampliare i compiti della polizia locale. E non è evidente alcuna antinomia tra la gestione dei contratti di trasporto pubblico e quelli di ricovero dei cani randagi.
In buona sostanza a parere del collegio la polizia municipale può gestire tranquillamente anche il canile comunale e il servizio di trasporto pubblico locale. Anche se in precedenza i funzionari della municipale avevano indagato penalmente sulla gestione di questi servizi notiziando in tal senso la procura (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2019).

APPALTI SERVIZIAccordi tra PA, servizi senza gara se c’è l'interesse pubblico.
Le amministrazioni pubbliche possono sviluppare servizi a favore di altre amministrazioni al di fuori delle regole del codice dei contratti pubblici solo in base ad accordi che rispondano a esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la sentenza 01.02.2019 n. 548 ha chiarito i profili applicativi dell'articolo 5, comma 6, del Dlgs 50/2016 e le condizioni perché sia possibile definire il particolare tipo di rapporto.
Le condizioni
La disposizione stabilisce che un accordo concluso esclusivamente tra due o più amministrazioni aggiudicatrici non rientra nell'ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici quando sono soddisfatte (contestualmente) tre condizioni.
Il primo presupposto è che l'accordo stabilisca o realizzi una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono tenuti a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che essi hanno in comune.
Il secondo elemento necessario è che l'attuazione della cooperazione sia retta esclusivamente da considerazioni inerenti all'interesse pubblico.
In terzo luogo, le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti all'accordo devono svolgere sul mercato aperto meno del 20 per cento delle attività interessate dalla cooperazione.
Le regole europee
I giudici amministrativi hanno fatto rilevare che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 19.12.2012 - causa n. C159/11), l'affidamento di un contratto senza gara da parte di un'amministrazione aggiudicatrice a un'altra pubblica amministrazione contrasta con le norme e i principi sull'evidenza pubblica comunitaria quando ha a oggetto servizi i quali, pur riconducibili ad attività di ricerca scientifica, ricadono, secondo la loro natura effettiva, nell'ambito dei servizi di ricerca e sviluppo.
L'obbligo di gara
L'obbligo della gara può escludersi solo in caso di contratti che istituiscono una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune. La situazione è configurabile quando queste forme di cooperazione siano rette unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico.
Si tratta dell'istituto del cosiddetto partenariato pubblico-pubblico a carattere orizzontale, realizzato tramite accordi tra diverse amministrazioni, codificato dalle direttive Ue del 2014 e riportato nell'articolo 5, comma 6, del Dlgs 50/2016. Il sistema ammette che le amministrazioni pubbliche possano, in base al diritto europeo, agire sul mercato e competere con altri operatori economici pubblici o privati, ma devono farlo su di un piano di parità senza cioè godere di alcun vantaggio competitivo, per questo motivo la deroga all'applicazione delle norme sull'evidenza pubblica, anche nei rapporti negoziali tra amministrazioni, soggiace alle condizioni restrittive.
Nell'ordinamento nazionale è riconosciuta alle amministrazioni pubbliche la possibilità di concludere fra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune che dunque deve essere letta alla luce del quadro normativo europeo: si ha quindi una sovrapposizione tra l'articolo 15 della legge 241/1990 e l'articolo 5, comma 6, del Dlgs 50/2016. La disposizione, peraltro, individua le condizioni in base alle quali l'accordo può essere sottratto all'applicazione del codice dei contratti, configurandole come molto restrittive.
Al di fuori di questi casi, ogni accordo con contenuto patrimoniale e astrattamente contendibile soggiace alle regole dell'evidenza pubblica dovendosi anche le amministrazioni pubbliche includere nel novero degli operatori economici sottoposti alle regole della concorrenza (articolo 3, lettera p) del Dlgs 50/2016. Pertanto, se un'amministrazione stipula una convenzione con un'altra amministrazione aggiudicatrice con finalità apparentemente cooperativa, ma solo nel proprio interesse e non anche in quello della controparte, il servizio oggetto dell'intesa deve essere posto a gara, in quanto non sussiste l'interesse comune.
Se non ricorrono quindi i presupposti normativi dettati dal comma 6 dell'articolo 5 del Dlgs 50/2016 per la conclusione degli accordi tra amministrazioni si determina la stipula di un vero e proprio contratto remunerativo di un servizio contendibile e astrattamente suscettibile di essere reperito sul mercato, con la conseguenza che questi servizi devono essere affidati mediante una procedura comparativa e trasparente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019).

APPALTIIl frazionamento in lotti dipende dai casi.
Il principio della suddivisione in lotti può essere derogato, seppur attraverso una decisione adeguatamente motivata dal momento che essa è espressione di scelta discrezionale, sindacabile soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità, oltre che dell'adeguatezza dell'istruttoria, in ordine alla decisione di frazionare o meno un appalto «di grosse dimensioni» in lotti.
L'adozione dell'opzione del lotto unico risulta ragionevole qualora la commessa riveste carattere unitario, in quanto sia il servizio di gestione e controllo sia il servizio complementare hanno ad oggetto le medesime aree di parcheggio e i medesimi impianti di risalita.
La scelta di non frazionare l'appalto in lotti, nel caso in cui l'unitarietà sia imposta dall'oggetto dell'appalto e dalle modalità esecutive scaturenti dalla situazione materiale e giuridica dei luoghi entro cui operare può ritenersi ragionevole e non illogica o arbitraria: non può sottacersi infatti, sotto altro concorrente profilo, che le attività prestazionali oggetto dei suddetti servizi non esigono specializzazioni, né qualifiche particolari che impongano, giustificano o rendano anche solo opportuna una suddivisione in lotti.

È questo il passaggio centrale della sentenza 31.01.2019 n. 2044 del Consiglio di Stato, Sez. VI, con la quale è stata fatta chiarezza sul delicato tema della suddivisione in lotti da parte delle stazioni appaltanti.
Secondo l'art. 51 del Codice appalti, il comma 1 stabilisce che, sia nei settori ordinari che in quelli speciali, le Stazioni appaltanti debbano suddividere, allo scopo di favorire l'accesso delle microimprese, piccole e medie imprese, tutti gli appalti in «lotti funzionali» o «prestazionali», in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi e forniture. La norma detta altresì che le p.a. appaltanti debbano, in caso di mancata suddivisione in lotti, dare una congrua motivazione nel bando di gara, nella lettera di invito o nella relazione unica di cui agli artt. 99 e 139.
Secondo il Consiglio di stato, «la scelta di non frazionare l'appalto in lotti nel caso in cui l'unitarietà sia imposta dall'oggetto dell'appalto e dalle modalità esecutive scaturenti dalla situazione materiale e giuridica dei luoghi entro cui operare, può ritenersi ragionevole e non illogica o arbitraria: non può sottacersi infatti, sotto altro concorrente profilo, che le attività prestazionali oggetto di certi servizi non esigono specializzazioni, né qualifiche particolari che impongano, giustifichino o rendano, anche solo opportuna, una suddivisione in lotti».
L'equilibrio che il frazionamento in lotti di un appalto crea tra la promozione della concorrenza nella misura più ampia possibile e il coesistente interesse pubblico al migliore utilizzo possibile delle risorse finanziarie della collettività è quindi estremamente labile e può facilmente essere travolto, nel peggiore dei casi, da un illecito frazionamento da parte della p.a. che perfeziona il reato di abuso d'ufficio.
Il principio della suddivisione in lotti può, dunque, essere derogato, secondo una scelta discrezionale dell'Amministrazione, ma la decisione di frazionare o meno un appalto di «grosse dimensioni» in lotti deve risultare adeguatamente motivata (articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2019).

PUBBLICO IMPIEGORisarcibile il danno da mancata assunzione se il bando di concorso è illegittimo.
L'annullamento del bando di concorso per selezionare personale destinato alla Provincia di Campobasso, ritenuto illegittimo, può determinare la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento per perdita di chance soprattutto nel caso in cui risulti fondata la possibilità di accedere (anche per i curricula dei partecipanti) all'assunzione.

Questo, in sintesi, l'importante approdo al quale giunge il TAR Molise con la sentenza 31.01.2019 n. 46.
La richiesta di risarcimento
Il giudice molisano ha affronta la questione della legittimità della richiesta di risarcimento danni per mancata assunzione. Nel caso specifico, i ricorrenti hanno impugnato innanzi al Capo dello Stato un bando di assunzione a tempo determinato (indetto dalla Provincia di Campobasso) annullato per la presenza di una clausola (illegittima) che impone il requisito della residenza in un Comune della Regione.
Successivamente, su ricorso della Provincia, il decreto presidenziale è stato annullato in primo grado, mentre il Consiglio di Stato (appello promosso dai ricorrenti) ha ribadito l'illegittimità del bando. Il lungo decorso dei tempi, però, ha impedito ai ricorrenti di partecipare alle selezioni e per effetto di quanto, gli stessi, si sono determinati a chiedere il risarcimento dei danni per mancata assunzione.
La Provincia, chiamata in causa, nelle proprie memorie ha chiesto al giudice di respingere l'istanza stante il «mancato assolvimento dell’onere della prova sulla condotta illegittima e sul danno ingiusto» nonché per «mancanza di una perdita di chance risarcibile, stante la non elevata possibilità dei ricorrenti di risultare vincitori nella selezione, trattandosi, (…), di una mera aspettativa di fatto».
La decisione
Il giudice accoglie invece le istanze risarcitorie fondando il proprio ragionamento sulla circostanza per cui «l’imposizione quale requisito» di partecipazione alla selezione della «residenza dei concorrenti (…), censurata perché contraria alla legge e ai principi costituzionali, è rilevante ai fini dell’invocata tutela e spiega il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica (colposa o dolosa) e il procurato pregiudizio patito dagli aspiranti che hanno subito l’esclusione dal bando per via della mancanza del requisito di residenza».
«Tale pregiudizio, si legge in sentenza, deve ritenersi sicuramente risarcibile ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile norma che impone il dovere primario di non cagionare danni ingiusti».
L'elemento soggettivo della responsabilità civile, prosegue il giudice, deve ritenersi «insito nel comportamento colpevole, derivato dalla scelta inopinata di violare, nella procedura, i fondamentali parametri della Costituzione e della legge (art. 1 legge n. 241/1990), vale a dire i principi di uguaglianza, imparzialità, trasparenza, pari opportunità, proporzionalità, ragionevolezza, adeguatezza, non discriminazione, nonché il principio di legalità di cui all’articolo 51, comma primo, della Costituzione, a tenore del quale tutti i cittadini italiani possono accedere agli uffici pubblici, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
L'utilizzo del requisito della residenza –pur consentito in limitatissime ipotesi dal decreto legislativo 165/2001– nel caso di specie è stato utilizzato in maniera fuorviante e non appropriata in quanto non necessario «all’assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato».
Il risarcimento
L'accertata illegittimità dell'azione amministrativa, integra pertanto «ex se l’illiceità della condotta» (Cassazione civile, sezioni unite n. 500/1999, n. 13164/2005; n. 20358/2005; Cons. Stato n. 3169/2001, n. 1261/2004, n. 5500/2004, n. 478/2005) aprendo al risarcimento per danno ingiusto.
In questo senso, il danno da perdita di chance «si verifica tutte le volte in cui il venir meno di un’occasione favorevole, cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato dell’adozione di un atto illegittimo da parte della Pa determinando un mancato guadagno». Nel caso di specie, in base ai curricula risultava «provata» l'elevata possibilità di risultare vincitori della selezione.
Il giudice, infine, non condivide però il calcolo del quantum del risarcimento fondato sulla mancata percezione delle retribuzioni dovendo questa, caso mai, essere ricalibrata tenendo conto del numero degli aspiranti che –senza il criterio della residenza– avrebbero potuto essere più numerosi. Pertanto, conclude il giudice, la determinazione del risarcimento deve avvenire «secondo una valutazione equitativa, ex articolo 1226 del codice civile, commisurandola ove possibile al grado di probabilità che quel risultato favorevole avrebbe potuto essere conseguito» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGORisarcimento per perdita di chance all'escluso dal concorso per il requisito della residenza in Regione.
Va risarcito a titolo di perdita di chance il concorrente escluso da una selezione per mancanza del requisito della residenza in un Comune della Regione, requisito dichiarato illegittimo a seguito della decisione di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Lo ha stabilito il TAR Molise con la sentenza 31.01.2019 n. 46.
Si trattava di bando della Provincia di Campobasso per l'istaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato per il profilo professionale di istruttore direttivo - categoria D1.
La prova del danno
Secondo il Tar non vi è necessità di una ulteriore prova della condotta che ha causato il danno ingiusto (articolo 2043 del codice civile) né sussiste margine per la scusabilità dell'errore della Pa dal momento che non poteva giustificabilmente sfuggire all'Amministrazione (e ai suoi funzionari) il dato palese e inequivocabile dell'illegittimità radicale della clausola di preclusione territoriale contenuta nel bando.
È evidente e non necessita di prova il fatto che dal comportamento illegittimo della Provincia sia derivato un danno patrimoniale, qualificabile in termini di pregiudizio per la perdita di chance, da parte dei ricorrenti. È palese la sussistenza del rapporto causale tra il fatto ostativo (l'esclusione dalla selezione) e il pregiudizio della perdita di una ragionevole probabilità di conseguimento del risultato atteso dai ricorrenti, di collocarsi, previo superamento della prova, in una posizione non solo idonea ma utile nello scorrimento di una delle sei graduatorie di concorso definitivamente approvate.
La perdita di chance
I giudici molisani hanno poi ricordato che il danno da perdita di chance si verifica tutte le volte in cui il venir meno di un'occasione favorevole, cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato dell'adozione di un atto illegittimo da parte della Pa, determinando un mancato guadagno. La chance è un bene giuridico autonomo, integrante il patrimonio del soggetto.
Va così risarcita la perdita di chance, ove sussista la lesione di un interesse giuridicamente tutelato, avendo la pretesa di risarcimento a oggetto non un danno futuro e incerto ma un danno attuale, quale è appunto la perdita dell'occasione favorevole. La lesione della chance, quindi, comporta un danno valutabile in relazione alla probabilità perduta, piuttosto che al vantaggio sperato.
No al danno esistenziale
Il Tar ha poi considerato che non può essere, nella fattispecie, riconosciuta la sussistenza di un danno esistenziale, poiché non vi è prova alcuna che dall'evento dannoso (l'esclusione dal concorso) sia derivata una compromissione dell'integrità psico-fisica dei ricorrenti e, non essendo stato provato alcun danno emergente (quale potrebbe essere stata, ad esempio, un'eventuale spesa sostenuta da ciascun ricorrente per acquisire la possibilità di partecipare alla selezione), il Tar ha quindi verificato la misura del mancato guadagno (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGOL'assoluzione piena del dipendente pubblico non basta da sola per il rimborso delle spese legali.
La costituzione dell'ente come parte civile e la tipologia di reato contestato contrario ai doveri d’ufficio possono essere rilevanti per escludere il rimborso delle spese legali sostenute per la difesa del dipendente pubblico, perché da sola sufficiente l'assoluzione piena non è sufficiente.
Queste in sintesi le conclusioni della Corte di Cassazione - Sez. I civile (ordinanza 29.01.2019 n. 2475).
I fatti
La vicenda riguarda l'assoluzione piena, disposta dal giudice penale, per il reato di corruzione e con costituzione di parte civile da parte dell'ente. Pur riguardando un amministratore regionale, la disciplina applicabile, per espressa previsione delle legge regionale, è quella dei dipendenti delle amministrazioni statali (articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997). La richiesta di rimborso delle spese legali sostenute da parte dell'amministratore ha fatto seguito alla piena assoluzione del dipendente ma con rifiuto da parte dell'ente.
Il Tribunale di primo grado ha confermato la non rimborsabilità delle spese legali, in considerazione del conflitto di interessi reso evidente dalla costituzione di parte civile dell'ente. Sulla stessa linea la sentenza della Corte d’appello che, nonostante la piena formula assolutoria dai reati ascritti, ha ritenuto che il reato di corruzione non potesse avere alcun riferimento diretto a un espletamento di un servizio o all'assolvimento di obblighi istituzionali. Infatti, il reato di corruzione è di per sé sufficiente a ritenere che si versasse in una condotta contraria ai doveri d'ufficio, di qui il conflitto di interessi con l'ente di appartenenza che esclude la rimborsabilità delle spese.
Il ricorso in Cassazione è stato motivato per una non corretta interpretazione, a dire dell'amministratore regionale, della normativa sul conflitto di interessi, dove l'assoluzione piena nel giudizio penale ne cancella sin dall'origine gli effetti, a nulla rilevando la costituzione di parte civile dell'ente. Se ciò non fosse vero le funzioni del dipendente verrebbero incise sin dall'inizio a prescindere dall'esito del procedimento penale.
Le precisazioni della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità il rimborso delle spese legali, reclamate dal dipendente all'ente di appartenenza, devono obbligatoriamente trovare la loro causa in un interesse della pubblica amministrazione. Questo interesse si realizza solo qualora sussista un legame inscindibile con l'attività espletata dal dipendente pubblico e un fine pubblico della funzione svolta. Questo principio implica, pertanto, che ci sia un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto i suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell'atto.
In conclusione, se l'accusa è quella di aver commesso un reato che contempli l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva situazione di conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge affatto, escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il dipendente sia stato, in ipotesi, assolto dall'accusa.
Anche a voler escludere la costituzione di parte civile dell'ente, il rimborso delle spese è stato negato in quanto l'imputazione penale ha riguardato fatti di grave violazione dei doveri d'ufficio -delitto di corruzione- che avrebbero potuto, qualora accertati positivamente, legittimare l'ente a chiedere il risarcimento dei danni al dipendente.
L'assoluzione piena ha, invece, impedito che l'ente potesse reclamare un risarcimento, non potendo in questo caso il dipendente chiedere anche il rimborso delle spese sopportate in presenza di questi interessi contrapposti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.02.2019).
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MASSIMA
I primi due motivi, da esaminare congiuntamente poiché connessi, sono infondati.
La Corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi in materia a tenore dei quali (v. Cass. n. 2366/2016)
l'Amministrazione è legittimata a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento penale sempre che sussista un interesse specifico al riguardo e tale interesse è ravvisabile qualora sussista l'imputabilità dell'attività all'Amministrazione stessa e dunque una diretta connessione di tale attività con il fine pubblico (così anche Cass. n. 5718/2011; n. 24480/2013; Cass. n. 27871/2008; Cass., n. 20561/2018).
La connessione dei fatti con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti devono essere riconducibili all'attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all'esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell'atto (Consiglio di Stato, 26.02.2013, n. 1190, e 22.12.1993, n. 1392).
Quanto all'ulteriore requisito costituito dall'assenza di un conflitto di interessi con l'Amministrazione di appartenenza, preme rilevare che questa Corte ha affermato che
il conflitto d'interessi è rilevante indipendentemente dall'esito del giudizio penale e dalla relativa formula di assoluzione; ne consegue che al dipendente comunale, assolto dall'imputazione, non compete il rimborso delle spese legali qualora il giudice penale abbia evidenziato che i fatti ascrittigli esulavano dalla funzione svolta e costituivano grave violazione dei doveri d'ufficio (Cass. n. 2297/2014).
Pertanto, i motivi in esame non hanno fondamento in quanto vertono esclusivamente sulla censura della decisione impugnata che non avrebbe tenuto conto dell'assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste", formula ritenuta erroneamente, di per sé, legittimante il rimborso delle spese legali della difesa nel processo penale; invece, il presupposto cui è subordinato tale rimborso consiste nel fatto che la condotta di reato, come ascritta all'imputato, si ponga in violazione dei doveri d'ufficio, con conseguente dissoluzione del rapporto d'immedesimazione organica del dipendente con l'Ente di appartenenza.
In altri termini, ai fini del rimborso richiesto è necessario che il fatto di reato oggetto dell'imputazione penale non configuri una fattispecie ontologicamente in conflitto con i doveri d'ufficio che determini ipso facto la legittimazione dello stesso Ente di costituirsi parte civile.
Da tale argomentazione discende che
l'assoluzione, ancorché con la formula "piena", non legittima il richiesto rimborso; il principio è stato ribadito da questa Corte, secondo il cui orientamento se l'accusa è quella di aver commesso un reato che contempli l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva situazione di conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge affatto, escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il dipendente sia stato, in ipotesi, assolto dall'accusa (Cass., ord. n. 18256/2018; in termini anche Cass. S.U., 04.06.2007 n. 13048).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di demolizione va notificata all’autore dell’abuso e al proprietario del terreno.
L’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, in base all’articolo 31 del Dpr 380/2001 (testo unico in materia di edilizia), dev’essere notificata all’autore dell’abuso e al proprietario del terreno se non sono la stessa persona. In difetto di notifica è illegittimo il successivo provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale del manufatto e dell’area di sedime, in caso di inottemperanza all'ordinanza di demolizione.

Così ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, con la sentenza 28.01.2019 n. 1053.
Il caso
Ai ricorrenti è stata notificata la determinazione dirigenziale che dispone l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera abusiva e dell'area di sedime per non essere stata eseguita l’ordinanza di demolizione.
Nell’impugnare il provvedimento al Tar, i ricorrenti precisano, tra l'altro, di essere divenuti proprietari del terreno sul quale è costruito il manufatto illegale, in quanto eredi di chi era proprietario e autore dell'abuso. Il Comune, però, ha notificato l'ordinanza di demolizione, atto presupposto rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, soltanto al precedente proprietario che realizzò l'abuso (e che non effettuò la demolizione) e non anche agli attuali proprietari: da qui, a giudizio dei ricorrenti, l'illegittimità del successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale.
La decisione
Il Tar accoglie la tesi dei ricorrenti e annulla il provvedimento impugnato. Secondo i giudici, infatti, la notifica dell'ordine di demolizione al soggetto che risulti proprietario al momento dell'adozione del provvedimento ripristinatorio, oltre che all'autore dell'abuso edilizio, è il presupposto necessario per il successivo atto di acquisizione gratuita dell'opera e del sedime al patrimonio comunale.
In assenza di notifica, gli attuali proprietari non sono stati messi in condizione di dare esecuzione all'ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi entro il termine previsto dall'articolo 31 del Dpr 380/2001 (novanta giorni dall'ingiunzione) e dunque agli stessi non può essere comminata la sanzione prevista per l'inottemperanza all'ordine di demolizione, vale a dire l'acquisizione gratuita del manufatto e dell'area di sedime al patrimonio comunale.
La predetta acquisizione gratuita, afferma il Tar, sarebbe dunque effettuata al di fuori delle modalità previste dalla Legge e poste dall'ordinamento a tutela del diritto di proprietà inciso dal provvedimento sanzionatorio. Inevitabile, pertanto, l'accoglimento del ricorso e l'annullamento della determinazione dirigenziale.
La sentenza appare condivisibile e in linea con l’articolo 31, comma 2, del Dpr 380/2001 che esplicitamente afferma: «il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.02.2019).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato e va accolto.
I ricorrenti, in punto di fatto, precisano di essere diventati proprietari del terreno in quanto eredi del precedente proprietario, autore dell’abuso, a cui il Comune aveva notificato l’ordinanza di demolizione dei manufatti eseguiti senza titolo, laddove la medesima ordinanza, atto presupposto rispetto all’atto di acquisizione al patrimonio comunale, non gli è mai stata comunicata né notificata. In ciò si sostanzierebbe l’illegittimità contestata.
Il Collegio ritiene fondata la censura proposta con il secondo motivo di ricorso per la violazione dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, risultando dirimente il profilo, già rilevato in sede di ordinanza cautelare, della mancata notifica ai proprietari dell’ordine di demolizione e della natura punitiva dell’ordinanza di acquisizione.
La notifica dell'ordine di demolizione al proprietario, oltre che all'autore dell'abuso edilizio, è il presupposto necessario per il successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale, in quanto questo secondo atto costituisce una sanzione per l'inottemperanza alla demolizione, che non può essere pronunciata nei confronti di chi non sia stato destinatario dell'ordine di demolizione, per cui la mancata notifica al proprietario dell'ordine di demolizione non inficia la legittimità dello stesso, ma preclude l'emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale ex art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380/2001 (ex multis TAR Basilicata, Sez. I, 21.04.2016, n. 402; TAR Calabria-Reggio Calabria, 26.01.2016, n. 83; TAR Lombardia Milano Sez. II, 14.01.2016, n. 76; TAR Campania Napoli Sez. III, 22.12.2015, n. 5876).
In assenza quindi di contestazioni da parte dell’amministrazione non costituita in giudizio, in merito agli elementi di fatto e di diritto della causa, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale deve avvenire secondo le modalità previste dalla legge, che costituiscono un presidio irrinunciabile di garanzia del diritto di proprietà inciso dal provvedimento sanzionatorio.
Di conseguenza,
pur essendo in ipotesi legittima l’acquisizione nei confronti di proprietari che, seppure non responsabili dell’abuso, siano comunque venuti a conoscenza dell’intervenuta esistenza di un ordine demolitorio, affinché scatti la conseguenza acquisitiva è necessario che l’ordine di demolizione sia stato notificato formalmente al soggetto proprietario al momento dell’adozione del provvedimento ripristinatorio e, conseguentemente, che sia stato concesso, anche formalmente, il termine di novanta giorni per demolire, ai sensi degli art. 31, commi 2 e 3, che prevedono rispettivamente che il provvedimento di riduzione in pristino sia ingiunto “al proprietario e al responsabile dell'abuso” e che sia concesso all’interessato un termine di novanta giorni dall'ingiunzione per procedere alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.
Nel caso di specie tale notifica non risulta essere stata effettuata.
Pertanto, assorbiti per motivi di economia processuale gli ulteriori profili dedotti, il ricorso è da accogliere, con salvezza degli eventuali ulteriori provvedimenti emanati da parte dell’amministrazione, anche nelle more della presente decisione.

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARIIl locale notturno ha licenza di suonare.
Il comune non può ordinare la chiusura di un pubblico esercizio notturno solo perché ritenuto rumoroso. Specialmente se si tratta di un locale posizionato lontano dalle abitazioni in una zona industriale che ha solamente ecceduto con il volume musicale.

Lo ha stabilito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la sentenza 26.01.2019 n. 85.
Il comune di Bergamo ha accertato che un lounge bar posizionato nei pressi dell'aeroporto e conosciuto per l'intrattenimento serale e notturno ha ecceduto con il volume musicale e per questo motivo ha ordinato la chiusura anticipata del locale alle 00,30. Praticamente dichiarando la cessazione dell'attività.
Contro questa severa determinazione l'interessato ha proposto doglianze al collegio evidenziando che nel locale non si sono mai verificati episodi di cronaca o altre irregolarità e che l'unica violazione contestata è stata quella del volume musicale.
Il Tar ha accolto le censure dell'imprenditore evidenziando che la determinazione comunale è eccessiva e sproporzionata. Al massimo si sarebbe potuto ordinare all'esercente di adottare limitazioni alle immissioni sonore. Non certo disporre la chiusura anticipata del bar (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIIl consigliere comunale può impugnare una delibera solo se lede direttamente il suo mandato.
Non sussiste legittimazione dei consiglieri comunali a impugnare atti che non siano direttamente lesivi dell'ufficio ricoperto.
Un consigliere di minoranza di un Comune alle porte di Milano aveva impugnato di fronte al Tar la delibera di adozione del Piano di governo del territorio, chiedendone l'annullamento, in quanto alla seduta del consiglio comunale aveva espresso il proprio voto favorevole anche un consigliere in conflitto di interessi, che, se si fosse astenuto, avrebbe determinato il venir meno del numero legale.
Si era costituito il Comune eccependo l'inammissibilità del ricorso, in quanto il ricorrente, nella qualità di consigliere comunale, non sarebbe stato legittimato a impugnare le deliberazione dell'organo di cui faceva parte.
Con la sentenza 25.01.2019 n. 153, il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ha rigettato il ricorso.
Il collegio ha affermato che i consiglieri comunali non sono legittimati ad agire contro l'Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo, di regola, non è aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente.
Si può ipotizzare il ricorso dei singoli consiglieri comunali solo quando «vengano in rilievo atti incidenti in via diretta su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium».
Infatti il consigliere comunale gode di legittimazione attiva contro l'organo di cui fa parte solo quando eccepisce vizi che attengano:
   1) a erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare
   2) alla violazione dell'ordine del giorno
   3) all'inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter consapevolmente deliberare
   4) in generale, quando gli sia precluso, in tutto o in parte, l'esercizio delle funzioni (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).
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MASSIMA
2. A questo punto devono essere esaminate le eccezioni formulate dalla difesa del Comune e, in particolare, quella che assume l’inammissibilità dell’intero gravame sul presupposto che il ricorrente, agendo nella qualità di consigliere comunale, non risulterebbe legittimato ad impugnare le delibere assunte dall’organo consiliare di cui fa parte.
2.1. L’eccezione è fondata.
Il ricorrente ha agito nella veste di consigliere comunale di minoranza per censurare la legittimità di alcune deliberazioni –relative all’adozione e all’approvazione del P.G.T.– non deducendo tuttavia la lesione del proprio munus, ma evidenziando un asserita violazione della normativa contenuta nel Testo Unico degli Enti Locali (art. 78, comma 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000) sulla prevenzione dei conflitti di interessi tra gli amministratori e gli amministrati.
Tuttavia,
secondo una consolidata giurisprudenza, non sussiste alcuna legittimazione in capo ai consiglieri comunali ad impugnare atti che non risultano direttamente lesivi del proprio munus. Difatti i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive.
Pertanto, l’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium.
Ne deriva che la legittimazione al ricorso può essere riconosciuta al consigliere solo quando i vizi dedotti attengano (a) ad erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare, (b) alla violazione dell’ordine del giorno, (c) alla inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare e (d) più in generale, laddove sia precluso in tutto o in parte l’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito
(ex multis, Consiglio di Stato, V, 07.07.2014, n. 3446; TAR Campania, Napoli, I, 05.06.2018, n. 3710).
Nella fattispecie de qua, non si sono prodotte lesioni rientranti nelle categorie in precedenza indicate e, quindi, sia il ricorso introduttivo che il ricorso per motivi aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per difetto di legittimazione del ricorrente.
2.2. In senso contrario non rileva nemmeno la circostanza –addotta peraltro soltanto in sede di memoria di replica dalla difesa attorea– che la coniuge del ricorrente sarebbe proprietaria di un mappale confinante con quello del sig. Sa., considerato che nessun ulteriore elemento è stato addotto per procedere ad una verifica in ordine alla sussistenza di una qualsivoglia lesione in capo al ricorrente, a prescindere dalla tempestività degli eventuali rilievi e dalla legittimazione ad agire in giudizio di un soggetto in sostituzione del proprio coniuge.
2.3. In conclusione, sia il ricorso introduttivo che il ricorso per motivi aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per difetto di legittimazione del ricorrente.

TRIBUTI: TOSAP, tocca alle Sezioni unite sciogliere il rebus sul soggetto passivo.
Riguardo il contrasto sorto su estensione e attribuzione della soggettività passiva della tassa sull'occupazione di suolo pubblico (Tosap), cioè sull'interpretazione dell'articolo 39 del Dlgs 507/1993, con l'ordinanza interlocutoria 24.01.2019 n. 2008 la Sez. V civile della Corte di Cassazione ha rimesso gli atti al primo presidente della stessa.
La vicenda
La commissione tributaria di prima istanza riteneva corretto l'operato della società di riscossione che per conto del Comune azionava la pretesa impositiva nei confronti del concessionario per la gestione delle reti idriche, applicando l'articolo 39 del Dlgs 507/1993, in forza del contratto di affitto di ramo di azienda della gestione della rete idrica che aveva col proprietario della rete.
Viceversa, il contribuente opponeva alla propria legittimazione passiva tributaria il non essere né il proprietario della rete idrica né il titolare della concessione di occupazione del suolo pubblico, qualità sussistenti in capo alla società proprietaria della rete.
A parere della Cassazione, i giudici tributari hanno indebitamente attribuito qualità soggettiva individuabile in capo alla titolare della concessione di gestione della rete idrica comunale, a seguito di contratto di affitto di ramo di azienda, quando esso, tuttavia, non è idoneo a trasferire anche la diversa concessione o autorizzazione già rilasciata alla proprietaria della rete idrica per l'occupazione del suolo pubblico.
La concessione Tosap è contenuta in un atto amministrativo, emesso da un ente locale a favore di un soggetto ben determinato, il proprietario della rete, il cui trasferimento in capo a un soggetto diverso non presuppone l'espletamento di un'attività negoziale, ma funzione provvedimentale della pubblica amministrazione, esternata previa verifica dei presupposti di legge, individuando altro soggetto titolare della concessione o autorizzazione occupativa.
È da censurare, pertanto, a parere del giudice di legittimità, la conclusione raggiunta dalla commissione tributaria, che identifica proprio nel contratto di fitto di ramo di azienda, la legittimazione passiva al tributo, equiparabile al concessionario dell'occupazione di suolo pubblico di cui all'articolo 39.
Ponendosi, piuttosto, il dubbio se tenuta al pagamento fosse ugualmente la società quale concessionaria della gestione della rete idrica, in qualità di occupante di fatto del suolo pubblico di insistenza della rete idrica. Esistono almeno tre orientamenti, comunque, che non consentono una chiara individuazione del soggetto passivo obbligato al pagamento del tributo.
Primo orientamento...
Deve attribuirsi valore alla sussistenza di concessione o autorizzazione, essendo rilevante l'occupazione di fatto soltanto quando sia constatato che l'occupazione del suolo sia avvenuta in assenza di titolo abilitativo in via di mero fatto e quindi abusivamente.
...secondo...
La Tosap deve essere pagata da chi occupa il suolo pubblico, indipendentemente dell'esistenza della concessione o autorizzazione.
...e terzo
Tenuto al tributo è il soggetto titolare di concessione o autorizzazione occupativa, salvo ammettere l'eventualità di una responsabilità solidale anche in capo all'occupante di fatto. In realtà, la solidarietà passiva non è prevista dall'articolo 39, mentre la regola generale stabilita dall'articolo 1294 del codice civile presuppone una fattispecie co-debitoria originaria.
In conclusione
La risoluzione della questione interpretativa è dirimente anche per le implicazioni di sistema e le interferenze di principio in rapporto alle caratteristiche di necessaria tassatività e determinatezza che la norma impositiva deve necessariamente avere e che non può consentire di colpire soggetti non precisamente ed espressamente individuati.
Per di più, casi come quelli che vedono, da parte di una medesima infrastruttura l'occupazione di suolo o sottosuolo pubblico della società proprietaria della rete, solitamente anche concessionaria, affidata alla simultanea gestione di plurime società erogatrici-occupanti di fatto (come trasporti, telecomunicazioni, energia) non è disciplinata né con riferimento al quantum dovuto da ogni singolo operatore, né in ordine all'imputazione soggettiva della Tosap.
Pertanto, vista la presenza di orientamenti tra loro opposti che coinvolgono la tassatività e determinatezza della norma impositiva, sussistono i presupposti per un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sull'esatta interpretazione dell'articolo 39 Dlgs 507/1993 e, segnatamente, sull'estensione della soggettività passiva Tosap, a seconda che l'occupante di fatto di suolo pubblico possa essere chiamato a rispondere del tributo anche in presenza, ovvero solo in mancanza, di un soggetto titolare di concessione o autorizzazione all'occupazione, chiarendo, poi, se tale responsabilità operi in via esclusiva, assorbente o solidale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019).

APPALTIGare, le omissioni retributive dei precedenti contratti legittimano l'esclusione.
Le accertate omissioni retributive costituiscono ragione sufficiente ai fini dell’apprezzamento di inaffidabilità della concorrente integrando a tal fine l’ipotesi prescritta dal comma 5, lett. a) dell’articolo 80 del Dlgs n. 50 del 2016.
Tanto è stato stabilito dalla Sez. V del Consiglio di Stato con la sentenza 24.01.2019 n. 586.
Per il Supremo consesso amministrativo, infatti, l’elencazione dei gravi illeciti contenuta nella richiamata norma a fini dell’esclusione dalle gare d’appalto non è tassativa, ma esemplificativa, nel senso che la stazione appaltante può ben desumere da altre circostanze, purché puntualmente identificate, il compimento di gravi illeciti preclusivi della partecipazione alle pubbliche gare.
I fatti di causa
In una gara avente ad oggetto il «servizio di gestione degli interventi di accoglienza integrata» un concorrente veniva escluso per il venir meno del requisito dell’affidabilità –in relazione al combinato disposto di cui all’articolo 80, comma 5, lett. a), e comma 6, del Dlgs n. 50/2016– per l’asserito inadempimento agli obblighi relativi ai rapporti di lavoro nell’ambito del precedente rapporto contrattuale intercorso con la medesima Amministrazione.
La legittimità del provvedimento di esclusione veniva confermata dal Giudice amministrativo di prime cure con la sentenza che veniva dunque impugnata innanzi al Consiglio di Stato.
L’iter logico seguito dal Consiglio di Stato
La conclusione cui è giunto il Consiglio di Stato si fonda sul seguente iter logico argomentativo.
Nel caso sottoposto al vaglio del Giudice amministrativo, infatti, l’Amministrazione ha condotto una sostanziale ed effettuale delibazione di rilevanza e gravità dell’inadempimento, avendo puntualmente verificato, prima di procedere alla esclusione, il numero dei dipendenti che non erano stati retribuiti e delle mensilità arretrate, obiettivamente non esigue né irrilevanti.
Detta attività è perfettamente speculare con la prescrizione normativa contenuta nel comma 5, lett. a), dell’articolo 80 del Dlgs n. 50 del 2016 a mente del quale «Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico (…) nel caso in cui (…) la stazione appaltante possa dimostrare con qualunque mezzo adeguato la presenza di gravi infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro nonché agli obblighi di cui all'articolo 30, comma 3, del presente Codice» e legittima pertanto l’esclusione del concorrente dalla gara.
Ma il buon operato della stazione appaltante, sempre ad avviso del Consiglio di Stato, riposa altresì sulla circostanza, in forza della quale, le cause di esclusione indicate nella norma contenuta nel comma 5 dell’articolo 80 non sarebbero tassative ma, al contrario, esemplificative (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.02.2019).
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MASSIMA
5.- Le doglianze, così come articolate, non appaiono persuasive.
Vale, all’uopo, osservare:
   a) che,
per comune e consolidato intendimento, l’elencazione dei gravi illeciti professionali contenuta nell’art. 80, comma 5, lett. c), del Codice dei contratti a fini dell’esclusione dalle gare d’appalto non è tassativa, ma esemplificativa (Cons. Stato, sez. V, 02.03.2018, n. 1299), nel senso che la stazione appaltante può ben desumere da altre circostanze, purché puntualmente identificate, il compimento di gravi illeciti professionali;
   b) che, per tal via,
anche le accertate omissioni retributive (avuto riguardo alla previsione di cui all’art. 30, comma 3 del Codice, che rende doveroso il rispetto della normativa a tutela delle posizioni lavorative) costituiscono (di là dal meccanismo di cui all’art. 30, comma 6, privo di pertinenza, in quanto non riferito alle condizioni di ammissione alla procedura evidenziale, operando in executivis a maggior tutela dei lavoratori a fronte di ritardo nel pagamento delle spettanze contrattualmente dovute) ragione sufficiente ai fini dell’apprezzamento di inaffidabilità della concorrente;
   c) che l’Amministrazione, a dispetto della apparenze, non si è, in realtà, sottratta ad una sostanziale ed effettuale delibazione di rilevanza e gravità dell’inadempimento, avendo puntualmente verificato, prima di procedere alla esclusione, il numero dei dipendenti che non erano stati retribuiti e delle mensilità arretrate, obiettivamente non esigue né irrilevanti (al qual fine, con ogni evidenza, la circostanza che alcuni di essi fossero, all’esito della espletata procedura, transitati alle dipendenze della nuova aggiudicataria non può sortire rilievo, ai fini dello strumentale apprezzamento di serietà, puntualità ed affidabilità dell’impresa concorrente);
   d) che
alla determinazione espulsiva, ancorché assunta successivamente all’aggiudicazione a terzi, non può annettersi la sostanza di una risoluzione rimotiva, in autotutela, dei pregressi atti di gara (per tal via legittimandosi l’auspicata applicazione della norma limitativa del relativo potere ex art. 21-nonies l. n. 241/9909), essendo l’esclusione sempre possibile (e dovuta, in presenza di presupposti) “in qualunque momento della procedura”, id est fino alla stipula del contratto oggetto di affidamento (arg. ex art. 80, comma 6 d.lgs. n. 50/2016).
Quanto, infine, al principio secondo cui l’Amministrazione non può, in conseguenza dei suoi stessi ritardi nel pagamento dei corrispettivi posti a suo carico in relazione a pendenti e pregresse vicende contrattuali, opporre ai propri contraenti, quale ragione espulsiva, il mancato pagamento dei dipendenti, vale osservare che, beninteso, il principio, già affermato da questo Collegio, non merita di essere disatteso: nondimeno, nel caso di specie, i ritardi in questione, ammesso che fossero effettivamente tali e non fossero, in realtà, dovuti alla ordinaria tempistica contrattualmente prefigurata, non risultavano -come che sia- idonei (trattandosi di pochi mesi e, per giunta, difettando di appositi atti di impulso) a giustificare il mancato pagamento delle retribuzioni, se del caso programmando l’uso razionale delle proprie risorse economiche (che si deve pretendere da ogni avveduto operatore economiche) e stante la facoltà di ricorso al credito bancario per le eventuali e proporzionate anticipazioni.
6.- Per le esposte considerazioni, assorbenti di ogni altro rilievo, l’appello va disatteso.

PUBBLICO IMPIEGOAssenteisti, truffa aggravata anche se il danno è lieve.
È configurabile il reato di truffa aggravata per il dipendente che attesti la sua presenza malgrado si sia allontanato dall'ufficio, anche se il danno economico causato all'ente sia di per sé poco rilevante dal punto di vista economico. Difatti, la condotta incide sull'organizzazione dell'ente stesso e lede gravemente il rapporto fiduciario tra il singolo impiegato e il datore di lavoro pubblico. In queste ipotesi può, eventualmente, configurarsi l'attenuante della speciale tenuità del danno.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 23.01.2019 n. 3262.
Il caso
Al centro della vicenda c'è l'ennesimo caso di furbetti del cartellino. Questa volta il protagonista è un solo dipendente pubblico, indagato per truffa aggravata perché quasi quotidianamente, aggirando il sistema di rilevazione dell'orario di presenza, decurtava minuti dalle sue giornate lavorative. Per questo motivo il Gip aveva disposto la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio dei pubblici uffici per la durata di due mesi.
Il dipendente pubblico però ha impugnato la decisione ottenendo dal tribunale del riesame la revoca della misura. Per quest'ultimo, infatti, il raggiro contestato era sì quasi quotidiano, ma di fatto inconsistente perché avrebbe prodotto nel complesso assenze di pochi minuti quantificabili in termini retributivi in poco più di 50 euro, traducendosi perciò in un danno poco apprezzabile per la pubblica amministrazione.
La decisione
La Cassazione, con una sentenza concisa e ben argomentata, boccia totalmente la decisione del riesame. Il Tribunale, infatti, ha escluso la configurabilità della truffa valorizzando elementi che, al più, evidenziano la sua non particolare gravità ma non ne impediscono la configurabilità. La Corte ricorda che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, in qualunque modo essa avvenga, integra il reato di truffa aggravata, sempre che i periodi di assenza siano economicamente apprezzabili.
In quest'ottica, anche una indebita percezione di poche centinaia di euro costituisce un danno economicamente apprezzabile per il datore di lavoro pubblico, potendo l'esiguità della somma integrare l'attenuante della speciale tenuità (articolo 62, comma 4, codice penale) non certo impedire la configurabilità del reato previsto dall'articolo 640, comma 2, n. 1, del codice penale.
Il Collegio rincara poi la dose affermando che per valutare l'entità del danno non basta avere riguardo alla perdita economica ma assume rilievo anche l'incidenza della condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente pubblico, il quale potrebbe aver subito un pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze, non tanto sotto un profilo quantitativo, ma sul piano dell'efficienza degli uffici.
Per i giudici di legittimità, infatti, le singole assenze incidono sull'organizzazione dell'ufficio «alterando la preordinata dislocazione delle risorse umane» e «modificando arbitrariamente le prestabilite modalità di prestazione della propria opera».
In sostanza, chiosa il Collegio, lo svolgimento della quotidiana attività amministrativa è «messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio» e che forniscono una «prestazione diversa da quella doverosa» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019).
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2. Ciò premesso, come osservato dal P.M. ricorrente, il Tribunale ha erroneamente escluso la configurabilità della contestata truffa, valorizzando elementi atti ad evidenziarne la non particolare gravità, ma che non ne impedivano la configurabilità.
2.1. Questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rv. 258987 - 01) ha già osservato che
la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili, osservando che anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica.
2.2.
L'affermazione può essere condivisa, ma con la precisazione che la speciale tenuità del danno arrecato alla PA potrebbe al più legittimare il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p. (tenuto anche conto dell'entità del profitto percepito), non certo impedire la configurabilità del reato.
2.3. Questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 30177 del 04/06/2013, Rv. 256643) ha già chiarito che,
anche ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, rilevano, oltre al valore economico del danno, anche gli ulteriori effetti pregiudizievoli cagionati alla persona offesa dalla condotta delittuosa complessivamente valutata (fattispecie relativa ad una truffa commessa in danno di Poste Italiane S.p.A. attraverso l'utilizzo abusivo dei cartellini di ingresso e la conseguente alterazione dei dati sulle presenze in ufficio, in cui è stata esclusa l'attenuante, richiamando la grave lesione del rapporto fiduciario determinata dalla condotta delittuosa).
2.4. Osserva, in proposito, il collegio che
assume all'uopo rilievo anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus, poiché esse (ed il danno che ne consegue a carico della PA interessata) vanno valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor, ma anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole assenze incidono, infatti, sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici è, infatti, predisposta dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e razionale impiego delle risorse disponibili, al fine di assicurare la proficuità (anche in favore dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana attività amministrativa, certamente messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio (con il rischio di creare nocive scoperture ed inutili accavallamenti, e comunque fornendo una prestazione diversa da quella doverosa, non soltanto per durata, ma anche quanto all'orario di inizio e di fine).
3. Il provvedimento impugnato va, pertanto, annullato, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Reggio Calabria (Sezione per il riesame delle misure coercitive), che valuterà nuovamente gli elementi acquisiti, uniformandosi al seguente principio di diritto: «
la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, che rilevano di per sé -anche a prescindere dal danno economico cagionato all'ente truffato fornendo una prestazione nel complesso inferiore a quella dovuta- in quanto incidono sull'organizzazione dell'ente stesso, modificando arbitrariamente gli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e ledono gravemente il rapporto fiduciario che deve legare il singolo impiegato all'ente; di tali ultimi elementi è necessario tenere conto anche ai fini della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4 c.p.».

APPALTIRotazione obbligatoria anche nelle gare riservate alle coop sociali.
Il principio di rotazione si applica anche alle procedure di gara riservate alle cooperative sociali in quanto deve ritenersi implicitamente richiamato nell'articolo 30, comma 1, del codice dei contratti nel punto in cui fa riferimento al principio di libera concorrenza di cui costituisce espressione.
Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 17.01.2019 n. 435.
Il caso
Una cooperativa sociale ha impugnato gli atti di una gara telematica sotto soglia riservata alle cooperative sociali per l'affidamento del servizio di pulizia degli immobili comunali, alla quale si era classificata seconda, lamentando l'illegittimità dell'ammissione della prima classificata ritenendola violativa del principio di rotazione. Ricorso accolto dal Tar, essendosi la stazione appaltante autovincolata alla conduzione della procedura secondo le regole ordinarie di cui all'articolo 36, comma 2, del Codice dei contratti, che richiama il rispetto del principio di rotazione.
Il Comune ha proposto appello deducendo la violazione dei principi comunitari e costituzionali di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, libera iniziativa economica e il contrasto con l'articolo 5 della legge 381/1991 che consente la deroga alle regole ordinarie per le cooperative sociali e non menziona il principio di rotazione. Principio che, non essendo incluso tra quelli generali di cui all'articolo 30 del codice né contemplato dal diritto comunitario, non potrebbe essere applicato se non espressamente richiamato.
Il principio di rotazione
Per la quinta sezione del Consiglio di Stato l'appello è infondato alla luce dell'articolo 36 del codice, che espressamente esige, per i contratti sotto soglia, il rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti, in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese. Il principio di rotazione trova infatti fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente, la cui posizione di vantaggio deriva dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento, soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Pertanto, la rotazione comporta che l'invito all'affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento. Questo comporta per il concorrente la possibilità di impugnare il provvedimento di ammissione del gestore uscente, «che concreta a suo danno –affermano i giudici– in via immediata e diretta, la paralisi di quell'ampliamento delle possibilità concrete di aggiudicazione che il principio di rotazione mira ad assicurare».
La deroga per le cooperative sociali
Relativamente all'articolo 5 della legge 381/1991 che rende possibile per gli enti pubblici la stipula, previa procedura selettiva, di convenzioni con le cooperative per la fornitura di alcuni beni e servizi finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato che la norma facoltizza ma non impone la stipula delle convenzioni in deroga alla disciplina in materia di contratti pubblici.
In più, nel caso di specie l'amministrazione, nel regolare la procedura, non si è avvalsa della deroga prevista dall’articolo 5 nel momento in cui ha rinviato all'articolo 36, comma 2, del codice che appunto prevede l'applicazione del principio di rotazione. Né nell'articolo 5 è rinvenibile una qualche facoltà di deroga al principio medesimo, perché costituisce uno dei capisaldi del principio di non discriminazione.
La prova del vantaggio
C'è un ulteriore aspetto interessante nella sentenza che è quello relativo al fatto che, essendo il principio di rotazione finalizzato a evitare che la gara possa essere falsata dalla partecipazione di un soggetto che vanta conoscenze acquisite durante il precedente affidamento, l'esclusione di quest'ultimo «non richiede alcuna prova della posizione di vantaggio da questi goduta, che è presupposta direttamente dalla legge».
A meno che l'amministrazione motivi in ordine alla ricorrenza di specifiche ragioni a sostegno della determinazione di invitarlo comunque a partecipare alla gara. Regola a cui non può opporsi l'ampiezza della platea dei candidati invitati, in quanto in tema di deroga al principio di rotazione rileva solo il numero eventualmente ridotto di operatori presenti sul mercato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019).

APPALTIMancata rotazione: si può contestare già impugnando il provvedimento di ammissione dei concorrenti.
La violazione del principio di rotazione può essere fatta valere già contro il provvedimento di ammissione dei concorrenti alla gara –che non può essere considerato un mero atto endoprocedimentale- senza che sia necessario attendere il provvedimento definitivo di aggiudicazione.

È la conclusione del Consiglio di Stato, Sez. V, espressa con la sentenza 17.01.2019 n. 435.
La querelle sulla rotazione
Nel caso trattato dal giudice di Palazzo Spada, un Comune è insorto contro la sentenza di primo grado (Tar Lombardia, sezione II, n. 354/2018) di annullamento dei propri atti di gara (per il servizio di pulizia di immobili comunali) per violazione del criterio della rotazione (articolo 36 del codice dei contratti).
L'appalto risultava aggiudicato a una cooperativa di tipo B (interamente riservato secondo l'articolo 1, lettera b), della legge 08.11.1991 n. 381). La stazione appaltante ha cercato di rilevare una pretesa incompatibilità del criterio della rotazione rispetto ai «principi del trattato dell'Unione europea, dell'art. 41 Costituzione, dell'art. 5 della l. 08.11.1991, n. 381 e per inosservanza delle Linee guida Anac nn. 4/2016 e 32/2016».
Il preteso contrasto veniva fondato, in particolare, sul fatto che la finalità specifica e particolare dell'appalto «consistente nel reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati» avrebbe consentito la deroga alle regole ordinarie dettate dal codice dei contratti per gli appalti sotto soglia. Il principio, sempre secondo il ricorrente, «non essendo incluso tra quelli generali di cui all'art. 30 del d.lgs. 50/2016 né contemplato dal diritto comunitario, non potrebbe essere applicato se non espressamente richiamato».
Ulteriore aspetto, di particolare rilievo, è la richiesta di ritenere inammissibile il ricorso dell'appaltatore considerato che lo stesso ha riguardato non l'aggiudicazione dell'appalto ma l'atto –ritenuto endoprocedimentale- di ammissione dei concorrenti in gara.
La sentenza
Il giudice ha ritenuto non fondato il ricorso sia per l'errata considerazione sulla intensità della rotazione sia in relazione alla configurazione del provvedimento di ammissione dei concorrenti come mero atto endoprocedimentale (non impugnabile).
In relazione alla rotazione, il giudice ha rammentato che il criterio dell'alternanza, negli appalti sotto soglia comunitaria, deve essere applicato dal responsabile unico del procedimento fin dalla fase degli inviti. Pertanto, laddove si lamenti la mancata applicazione del principio di rotazione, «il concorrente può ricorrere già avverso il provvedimento di ammissione del gestore uscente, che concreta a suo danno, in via immediata e diretta, la paralisi di quell'ampliamento delle possibilità concrete di aggiudicazione che il principio di rotazione mira ad assicurare».
Se si opinasse diversamente, prosegue la sentenza «ovvero se non vi fosse la possibilità di ricorrere avverso il provvedimento di ammissione del gestore uscente», la previsione contenuta nell'articolo 36, comma 1, del codice dei contratti per cui il principio di rotazione opera già nella fase degli inviti sarebbe priva di ratio.
La tutela connessa al principio di rotazione negli affidamenti sotto soglia, infatti, è quella di evitare «che la gara possa essere falsata, a danno degli altri partecipanti», dalla partecipazione di un soggetto che vanta conoscenze acquisite durante il precedente affidamento. Pertanto, la decisione eventuale del reinvito del precedente gestore avrebbe dovuto essere supportata da idonea motivazione non esigendo, il ricorso, alcuna dimostrazione della posizione di vantaggio del precedente appaltatore «che è presupposta direttamente dalla legge».
Né si può ritenere che il vincolo della rotazione nasca solo nel caso in cui la legge di gara lo richiami espressamente considerato che in tema già dispone il codice dei contratti così come non è apparsa condivisibile la pretesa affermazione secondo cui l'affidamento riservato a cooperative sociali di tipo b, secondo l'articolo 5 della legge 381/1991, introdurrebbe una deroga alla applicazione il principio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.01.2019).
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MASSIMA
1. L’atto di appello in esame è infondato.
2. Con il primo motivo di appello sostiene il Comune di Viadana che la sentenza appellata avrebbe errato ritenendo l’ammissibilità del ricorso di primo grado sulla base dell’art. 120, comma 2-bis, del Codice del processo amministrativo, non vertendosi nelle fattispecie per le quali la disposizione prevede l’immediata impugnazione (“esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali”): ogni questione relativa all’ammissione alla gara per cui è causa della Cooperativa Sociale L’In. Onlus avrebbe indi dovuto essere proposta, secondo le regole ordinarie, in sede di impugnazione dell’aggiudicazione, mentre il ricorso è stato rivolto avverso l’atto meramente endoprocedimentale costituito dalla comunicazione relativa agli esiti dei lavori e delle valutazioni della commissione giudicatrice, avverso cui non vi è interesse a ricorrere, vieppiù considerato che l’atto rappresentava che l’offerta della controinteressata sarebbe stata sottoposta a verifica di congruità.
2.1. Il motivo va respinto.
L’odierna appellante ha impugnato il provvedimento n. 749 del 28.11.2017 di ammissione della controinteressata alla procedura di affidamento c.d. “sotto soglia” di cui in fatto, contenuto in un provvedimento titolato “ammissione concorrenti”, sostenendo che la medesima avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara in forza dell’applicazione del principio di rotazione.
L’art. 36 del d.lgs. 18.04.2018 n. 50, “Contratti sotto soglia”, stabilisce al comma 1 che “L’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese”.
Negli affidamenti “sotto soglia” il principio, per espressa disposizione di legge, opera quindi già in occasione degli inviti.
In tema, questo Consiglio di Stato ha affermato che “
Il principio di rotazione -che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte- trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato. Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese, e di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio di rotazione comporta in linea generale che l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento”, con la conseguenza che “La regola della rotazione degli inviti e degli affidamenti -il cui fondamento, come si è visto, è quello di evitare la cristallizzazione di relazioni esclusive tra la stazione appaltante ed il precedente gestore- amplia le possibilità concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti, anche (e a maggior ragione) quelli già invitati alla gara, i quali sono lesi in via immediata e diretta dalla sua violazione” (Cons. Stato, VI, 31.08.2017, n. 4125).
Laddove si lamenti la mancata applicazione del principio di rotazione, il concorrente può indi ricorrere già avverso il provvedimento di ammissione del gestore uscente, che concreta a suo danno, in via immediata e diretta, la paralisi di quell’ampliamento delle possibilità concrete di aggiudicazione che il principio di rotazione mira ad assicurare.
Diversamente opinando, ovvero se non vi fosse la possibilità di ricorrere avverso il provvedimento di ammissione del gestore uscente, la specificazione operata dall’art. 36, comma 1, del Codice dei contratti pubblici che il principio di rotazione opera già nella fase degli inviti sarebbe priva di ratio.
In tal senso, pertanto, non può essere posto in dubbio il collegamento con l’impugnazione immediata delle ammissioni disciplinata dall’art. 120, comma 2-bis, del Codice del processo amministrativo, rinvenuto dalla sentenza appellata.
Questa Sezione ha già messo in luce tale collegamento, rammentando che,
per la giurisprudenza amministrativa, il principio di rotazione determina l’obbligo per le stazioni appaltanti, al fine di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente, di non invitarlo nelle gare di lavori, servizi e forniture degli appalti “sotto soglia”, ovvero, in alternativa, di invitarlo previa puntuale motivazione in ordine alle relative ragioni (Cons. Stato, V, 13.12.2017, n. 5854; VI, n. 4125 del 2017, cit.), e riconoscendo, per l’effetto, la ritualità dell’immediata impugnazione dell’ammissione del concorrente per violazione del principio di rotazione, verificandosi “la condizione prevista dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., il quale individua nella data di pubblicazione dell’atto di ammissione, ex art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, il dies a quo di proposizione del ricorso, o comunque nel giorno in cui l’atto stesso è reso in concreto disponibile, secondo la nuova formulazione dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, introdotta dall’art. 19 d.lgs. n. 56/2017 (Cons. Stato, V, sentenza breve 03.04.2018 n. 2079).
3. Con altro motivo l’appellante sostiene che la sentenza appellata non avrebbe fatto buon governo dei principi comunitari e costituzionali di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, libera iniziativa economica, né della previsione di cui all’art. 5 della l. 08.11.1991 n. 381, ai sensi del quale è stata espletata la procedura per cui è causa, che, tenuto conto della particolare finalità di carattere sociale dell’affidamento, consente la deroga alle regole ordinarie dettate dal Codice dei contratti per gli appalti c.d. “sotto soglia” e non menziona il principio di rotazione.
A sostegno dell’assunto, l’appellante evidenzia che il principio di rotazione non è incluso tra quelli generali richiamati dall’art. 30 del d.lgs. 50/2016 né contemplato dal diritto comunitario, con la conseguenza che esso non potrebbe essere applicato laddove non espressamente richiamato. Infine, afferma che la procedura negoziata in parola, improntata al pieno rispetto dei principi di cui al predetto art. 5, nell’invitare alla procedura tutti gli operatori che hanno chiesto di parteciparvi, tra cui il gestore uscente, si sarebbe attenuta a principi di non discriminazione e di garanzia di uguaglianza di informazioni e di opportunità di aggiudicazione.
3.1. Le predette argomentazioni, tutte volte a concludere che nell’affidamento in esame, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 381 del 1991, non trova applicazione il principio di rotazione, non possono essere condivise.
Per quanto qui di interesse, la l. 381 del 1981, recante “Disciplina delle cooperative sociali”, all’art. 5 stabilisce che “Gli enti pubblici, compresi quelli economici, e le società di capitali a partecipazione pubblica, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono le attività di cui all'articolo 1, comma 1, lettera b), ovvero con analoghi organismi aventi sede negli altri Stati membri della Comunità europea, per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate di cui all'articolo 4, comma 1. Le convenzioni di cui al presente comma sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei princìpi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza”.
Dunque la norma facoltizza, e non impone, per la stipula delle convenzioni in parola, la deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione,
Sulla base di questo presupposto, fatto palese dalla lettera della legge, la sentenza appellata ha concluso per l’applicabilità alla procedura in esame del principio di rotazione in forza di due elementi.
Il primo, di carattere dirimente, è fondato sull’accertamento della circostanza che l’Amministrazione, nel regolare la procedura di affidamento in esame, non si è avvalsa, come pure avrebbe potuto fare, della possibilità di deroga prevista dal citato art. 5, come testimoniato dall’espresso richiamo da parte della lex specialis dell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, prevedente, appunto, l’applicazione del principio di rotazione.
Il secondo, che assume nell’andamento argomentativo della sentenza un carattere incidentale, è la non rinvenibilità nell’art. 5 della l. n. 381 del 1991 della facoltà di deroga al principio di rotazione, perché costituente uno dei precipitati del principio di non discriminazione richiamato all’ultimo periodo del comma 1.
Il primo elemento è oggetto del successivo motivo di appello, il quale, per le ragioni di seguito espresse, non merita accoglimento. Il secondo elemento costituisce invece oggetto di critica nel motivo in esame.
Ne deriva che, poiché quest’ultimo assume, come detto, carattere incidentale, anche l’eventuale accoglimento del motivo in parola non sarebbe idoneo a determinare la riforma della sentenza appellata. In altre parole, anche laddove dovesse convenirsi con la conclusione, cui tende l’intero motivo, che il principio di rotazione non potrebbe essere applicato se non espressamente richiamato dalle disposizioni cui la procedura di affidamento si riferisce, dovrebbe pur sempre riconoscersi che di un siffatto approdo non può giovarsi il Comune appellante, che ha improntato la procedura per cui è causa alla previsione di cui all’art. 36, comma 2, del Codice dei contratti, che richiama il principio di rotazione.
Basti pertanto rilevare, per respingere il motivo, che l’affermazione della sentenza appellata secondo cui il principio di rotazione costituisce uno dei precipitati del principio di non discriminazione richiamato all’ultimo periodo del citato comma 1 della l. n. 281 del 1991 trova eco nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato.
E’ stato infatti affermato che “
anche nell’art. 30, 1 comma, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il principio della rotazione deve ritenersi implicitamente richiamato, attraverso il riferimento più generale al principio di libera concorrenza di cui il criterio in esame costituisce espressione” (Cons. Stato, VI, n. 4125 del 2017, cit.; nello stesso senso, V, n. 2079/2018, cit.), principio nell’ambito del quale si pone decisivamente il canone della non discriminazione richiamato dal ridetto art. 5 della l. 381/1991.
4. Con altro motivo il Comune di Viadana sostiene l’erroneità della sentenza appellata in quanto la gara sarebbe stata svolta ai sensi dell’art. 5 della l. 381/1991, in deroga alla disciplina generale in tema di contratti pubblici, mentre l’art. 36, comma 1, del d.lgs. 50/2016, che sancisce il principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti, non sarebbe mai stato richiamato nei relativi atti e vieppiù introdotto successivamente alla pubblicazione dell’avviso di manifestazione di interesse. Sostiene ancora l’appellante la valenza non decisiva del richiamo da parte dell’atto di indizione della gara dell’art. 36, comma 2, lett. b), in quanto volto esclusivamente all’indicazione della tipologia della procedura prescelta (negoziata e non ordinaria) e pertanto non implicante l’applicazione del criterio di rotazione.
Il motivo deve essere respinto, in forza degli elementi di seguito esposti.
La gara è stata indetta con determinazione dirigenziale n. 680 del 06.11.2017.
Tale determinazione ha richiamato, tra altro, sia nel preambolo che nella conseguente determina l’art. 5 della l. 381 del 1991 e l’art. 36, comma 2, del Codice dei contratti pubblici.
Tale secondo richiamo non è stato corredato dall’indicazione di una delle lettere di cui si compone il comma 2. L’indicazione della lett. b) del comma 2 si rinviene invece all’interno dell’avviso di procedura negoziata.
Nell’atto di indizione della gara e nell’allegata lettera invito-disciplinare non vi è alcuna rappresentazione dell’intendimento dell’Amministrazione di derogare alle norme del Codice dei contratti pubblici ai sensi dell’art. 5 della l. n. 381 del 1991. E’ detto esclusivamente, con intento chiaramente descrittivo della disposizione, che l’art. 5 della l. 381 del 1991 consente la deroga al Codice.
Nel descritto contesto, deve escludersi che il mero richiamo al predetto art. 5 possa avere la valenza derogatoria invocata dal Comune di Viadana, ciò che avrebbe necessitato la chiara esplicitazione della relativa determinazione e delle sottostanti motivazioni.
Ne consegue che lo stesso richiamo ha unicamente l’effetto di precisare la peculiare tipologia di selezione cui è preordinata la procedura, con esclusione della possibilità che tale precisazione possa influire sull’individuazione del meccanismo selettivo, che è stato inequivocamente ricondotto al comma 2 dell’art. 36 del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre, il soddisfacimento della necessità di indicare il carattere negoziato della procedura risulta compiutamente realizzato dal riferimento, pure recato dal bando, alla “procedura telematica negoziata ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. uuu) … del d.lgs. 50/2016”.
Alla luce di tutto quanto sopra, ben ha fatto la sentenza appellata a escludere che l’Amministrazione abbia manifestato l’intendimento di voler derogare alle previsioni di cui all’art. 36 del Codice e a incentrare la decisione del ricorso sulla disposizione del comma 2 dell’art. 36, restando indifferente che nella motivazione del punto sia stata riportata per esteso la relativa lettera c) anziché la lettera b), atteso che ambedue le previsioni richiamano il principio di rotazione: va ribadito, pertanto, in uno alla sentenza gravata, che il Comune si è autovincolato all’applicazione nella gara in esame del principio in parola, richiamato per il tramite di una delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici che espressamente lo contempla.
Né l’insorgenza di tale autovincolo richiedeva, come sembra ritenere l’Amministrazione appellante, il richiamo specifico del comma 1 dell’art. 36, che sancisce in via generale che gli affidamenti “sotto soglia” sono retti anche dal principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti, atteso che, come visto, lo stesso principio di rotazione è richiamato anche nel comma 2 indicato dal bando.
Inoltre, per la giurisprudenza,
per le gare di lavori, servizi e forniture negli appalti “sotto soglia” è indubbia l’obbligatorietà del principio di rotazione (Cons. Stato, VI, n. 4125 del 2017, cit.; V, n. 5854 del 2017, cit.).
La chiara impostazione impressa, nei sensi appena esposti, alla disciplina della procedura, quale diretta conseguenza dell’applicazione della ivi richiamata normativa legale di riferimento, rende poi irrilevante ogni questione, pure introdotta dall’appellante, in ordine all’individuazione di quale sia la precipua funzione del criterio di rotazione e del suo ambito applicativo come delineato dall’ ANAC.
5. Va respinto anche l’ultimo motivo di appello.
La precipua tutela connessa al principio di rotazione negli affidamenti “sotto soglia” è quella, anticipata, mirante all’obiettivo di evitare che la gara possa essere falsata, a danno degli altri partecipanti, dalla partecipazione di un soggetto che vanta conoscenze acquisite durante il pregresso affidamento. Ne deriva che, contrariamente a quanto ritenuto nel motivo, l’esclusione del gestore uscente, ove l’Amministrazione, come nel caso di specie, non abbia motivato in ordine alla ricorrenza di specifiche ragioni a sostegno della determinazione di invitarlo comunque a partecipare alla gara, non richiede alcuna prova della posizione di vantaggio da questi goduta, che è presupposta direttamente dalla legge.
Né vale opporre, come fa il Comune, l’ampiezza della platea dei candidati cui è stato trasmesso l’invito a seguito della manifestazione di interesse espressa in esito all’avviso pubblicato dall’Amministrazione, o il documento con cui il RUP ha espressamente richiesto alla Centrale di committenza di ammettere tutti i candidati, ivi compreso il gestore uscente, che avessero chiesto di partecipare alla gara, e, più in generale, la circostanza che l’Amministrazione non si sia avvalsa della potestà di operare limitazioni al numero di operatori tra cui effettuare la selezione.
Difatti,
anche in disparte l’evidente rilievo che la motivazione richiesta per derogare al principio di rotazione si incentra non su tutti i concorrenti, ma solo sul gestore uscente, e gli elementi di cui sopra non attengono a tale ambito, la sola considerazione dell’ampiezza della platea dei concorrenti non comporta la mancata applicazione del principio di rotazione, essendo, piuttosto e di contro, il numero eventualmente ridotto di operatori presenti sul mercato a rilevare in tema di deroga al principio (Cons. Stato, V, 13.12.2017, n. 5854).
Deve ancora aggiungersi che la posizione del gestore uscente non può essere equiparata, quanto all’applicazione del principio di rotazione a esso specificamente rivolto, a quella di una impresa, quale l’appellata, che abbia, nel tempo, svolto lo stesso servizio, come evocato dal Comune.
6. Per tutto quanto precede l’appello in esame va respinto.

PUBBLICO IMPIEGODirigenti, niente compenso extra per gli incarichi in più.
Gli incarichi aggiuntivi che comportano la reggenza ad interim di altre unità organizzative diverse da quella di cui il dirigente è titolare non implicano la duplicazione della retribuzione, trattandosi di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 15.01.2019 n. 836 .
Il caso
Il caso riguarda il dirigente di una Asl il quale aveva chiesto in sede giudiziale il riconoscimento, in aggiunta al trattamento retributivo percepito, dell'indennità di posizione e di risultato per il periodo in cui aveva ricoperto altri incarichi dirigenziali in aggiunta a quello di cui era titolare. Richiesta accolta dal Tribunale, secondo cui l’attività non rientra nei compiti e nelle funzioni proprie del dirigente.
L'appello proposto dall'Asl, che ha invocato l'applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti, è stato rigettato dalla Corte d'appello, la quale ha a sua volta ritenuto che l'attività svolta dal dirigente non rientrava tra i compiti istituzionali strettamente connessi all'incarico conferito, per cui non avrebbe potuto trovare applicazione il principio di onnicomprensività.
L'onnicomprensività
Di tutt'altro avviso la Corte di cassazione, chiamata in causa dalla Asl secondo cui il contratto ha definito la struttura della retribuzione prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la retribuzione di posizione e di risultato, per cui anche in relazione al conferimento di incarichi ad interim deve valere il principio di onnicomprensività.
La Suprema Corte ha richiamato il principio ormai consolidato secondo cui nel pubblico impiego privatizzato vige il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento economico remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico conferito dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della stessa.
Nel caso specifico, anche se la reggenza ad interim comportasse contemporaneamente l'assunzione di responsabilità di due distinte unità operative, secondo i giudici della Cassazione non può spettare la duplicazione della retribuzione, trattandosi sempre di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
La posizione dell'Aran
Più aperta la posizione dall'Aran, espressa più volte in sede di orientamenti applicativi dei contratti della dirigenza. L'Agenzia sostiene che è da escludere radicalmente che a un dirigente possano essere erogate due o più retribuzioni di posizione. Tuttavia, sfruttando le clausole contrattuali che impongono di utilizzare integralmente le risorse destinate al finanziamento della retribuzione di posizione e destinare quelle eventualmente residue per la retribuzione di risultato, l'Agenzia ritiene che sia possibile utilizzare tali risorse per valorizzare il risultato dei dirigenti incaricati ad interim in modo da tenere conto anche delle responsabilità connesse alla gravosità della situazione determinatasi per effetto dell'affidamento di più incarichi contemporaneamente.
La valorizzazione deve essere realizzata tenendo conto dei criteri di determinazione del valore della retribuzione di risultato adottati dai singoli enti che tengano conto anche del “peso” dell'incarico ad interim e del maggiore impegno che complessivamente grava sul dirigente per effetto del doppio incarico.
La retribuzione di risultato erogata al dirigente dovrà dunque tenere conto della valutazione complessiva dei risultati conseguiti dallo stesso nell'espletamento degli incarichi conferiti, secondo le modalità stabilite dal sistema di valutazione adottato, escludendo che si possa operare un semplice riproporzionamento del maggiore importo della retribuzione di risultato stabilito in relazione alla durata temporale dell'incarico ad interim (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.02.2019).
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MASSIMA
1. Con unico motivo di ricorso la Asl denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, terzo comma, e 24, terzo comma, e dell'art. 58 d.lgs. 165/2001 in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. per erronea applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici.
Sostiene che la pronuncia impugnata si pone in contrasto con l'indirizzo consolidato sia della giurisprudenza ordinaria che di quella contabile, che proprio nella specifica materia si è più volte pronunciata in relazione al profilo del danno erariale conseguente all'illegittima duplicazione della retribuzione di posizione in favore del dirigente.
In particolare, la contrattazione collettiva dirigenziale del comparto sanità ha definito la struttura della retribuzione prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la retribuzione di posizione e di risultato, per cui anche in relazione al conferimento di incarichi ad interim vige il principio di onnicomprensività. In ogni caso, poi, gli incarichi di dirigenza ad interim affidati al dott. Sa. mai potrebbero ritenersi incarichi extraistituzionali, ai sensi e per gli effetti dell'art. 58 d.lgs. 165 del 2001.
2. Il ricorso merita accoglimento.
3. In via generale, va osservato che la giurisprudenza di legittimità formatasi negli ultimi anni ha affermato il principio -da ritenere ormai consolidato- secondo cui
nel pubblico impiego privatizzato vige il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento economico dei dirigenti remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico conferito dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della stessa. Così è stato ritenuto che il dirigente ministeriale, cui sia stato conferito un incarico aggiuntivo di reggenza presso un altro ufficio pubblico, non ha diritto ad una maggiore remunerazione, né, in caso di conferimento illegittimo di tale incarico, può trovare applicazione l'art. 2126 cod. civ., riferibile alle ipotesi in cui la prestazione lavorativa sia eseguita in assenza di titolo per la nullità del rapporto di lavoro e non a quelle in cui i compiti attribuiti, sia pure sulla base di determinazioni amministrative illegittime, siano comunque riconducibili alla qualifica posseduta (Cass. n. 3094 del 2018).
3.1. Specificamente, quanto alla dirigenza medica, è stato chiarito che il principio dì onnicomprensività della retribuzione, affermato dagli artt. 24, comma 3, e 27, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché dall'art. 60, comma 3, del c.c.n.l. comparto dirigenza sanitaria dell'08.06.2000, opera inderogabilmente in tutti i casi in cui l'attività svolta sia riconducibile a funzioni e poteri connessi all'ufficio ricoperto, ed a mansioni cui il dirigente è obbligato rientrando nei normali compiti di servizio, salvi i soli incarichi retribuiti a titolo professionale dall'Amministrazione sulla base di una norma espressa che gliene attribuisca il potere, sempre che ciò non costituisca comunque espletamento di compiti di istituto (Cass. n. 8261 del 2017).
4. Poiché nel caso in esame è pacifico che gli incarichi aggiuntivi concernevano la reggenza ad interim di altre unità operative diverse da quella di cui il Santoro era titolare, ancorché ciò comportasse contemporaneamente l'assunzione di (responsabilità di due distinte unità operative, non può 'spettare la duplicazione della retribuzione, trattandosi sempre di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
5. Il ricorso va dunque accolto e la sentenza va cassata.

APPALTISolidarietà, onere alleggerito. Lavoratore esonerato dal provare l'entità di singoli crediti. La Cassazione in tema di omessa retribuzione dalla ditta appaltatrice o subappaltatrice.
Il lavoratore è esonerato dall'onere di provare l'entità dei debiti gravanti, rispettivamente, su committente, appaltatore e subappaltatore, in base al principio di solidarietà, sancito dal decreto legislativo n. 276 del 2003, che garantisce al lavoratore il pagamento dei trattamenti retributivi in relazione all'appalto nell'ambito del quale ha prestato la propria attività.
A statuire tale principio è stata la sentenza 15.01.2019 n. 834 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro.
I fatti. La vicenda processuale prende le mosse dal ricorso proposto, presso il Tribunale di Alessandria, da un lavoratore che ricopriva la qualifica di operaio guardafili e svolgeva le mansioni di addetto al servizio di installazione e manutenzione delle linee di telefonia alle dipendenze di un'azienda che riceveva, quotidianamente, indicazioni relative ai luoghi di lavoro in cui andavano effettuati gli interventi da altre due ditte, appaltatrici di un noto operatore telefonico.
Il ricorrente esponeva che il proprio impegno lavorativo era suddiviso, in parti uguali, tra i due subappalti. Oggetto del contendere è il mancato pagamento di parte della retribuzione e delle relative competenze, nel periodo immediatamente precedente alla cessazione del rapporto di lavoro. Il lavoratore chiamava, quindi, in giudizio le tre società, chiedendone la condanna in solido al pagamento della somma pretesa.
Il giudice, preso atto della rinuncia alla domanda nei confronti della ditta presso cui erano assunto il ricorrente, medio tempore fallita, rigettava il ricorso. Decisione che veniva confermata anche dalla Corte di appello di Torino. La Corte di merito, nello specifico, deduceva che il gravame proposto avverso la decisione del giudice di primo grado presentava profili di inammissibilità in quanto mentre in primo grado era stata chiesta, genericamente, la condanna in solido delle società, in sede di appello era stata, invece, prospettata una differente ripartizione dell'attività lavorativa nell'ambito dei due appalti.
Tale diversa prospettazione, accompagnata dalla richiesta di accertamento circa il distinto svolgimento di attività in favore di ciascuna delle società e, pertanto, di una correlata diversa quantificazione dei crediti vantati nei confronti di ciascuna di esse, era da qualificarsi, secondo il giudice d'appello, come ipotesi di «mutatio libelli», ossia formulazione di una domanda nuova, fondata su fatti costitutivi radicalmente diversi e confliggenti rispetto a quelli oggetto del primo grado di giudizio.
In ogni caso, nel merito, secondo l'opinione della corte territoriale il gravame era da ritenersi infondato, a causa della carenza di prova adeguata, sia sotto il profilo quantitativo, sia in riferimento ai servizi ai quali il ricorrente era stato addetto o alle opere commissionate in favore dei committenti, in conseguenza dei quali era maturato il credito retributivo e contributivo rivendicato.
Nessuna mutatio libelli. Preliminarmente, la sentenza emessa dai giudici di piazza Cavour accoglie il primo motivo su cui si fonda il ricorso. La motivazione del provvedimento sottolinea che risulta incontrastato l'enunciato della giurisprudenza di legittimità secondo cui «si ha «mutatio libelli» quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un «petitum» diverso e più ampio oppure una «causa petendi» fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte e alterare il regolare svolgimento del processo».
Pertanto, gli Ermellini ritengono che l'appellante si sia limitato a proporre una mera rinnovata ripartizione del medesimo quantum debeatur mentre la causa petendi era rimasta immutata, così come il petitum, integrato dalle retribuzioni non percepite, e i fatti costitutivi del diritto azionato, essendo stata suddivisa la somma richiesta fra i due subappaltatori.
La motivazione precisa, quindi, che si ha semplice «emendatio» quando «si incida sulla «causa petendi», in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul «petitum», nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere». Quindi, la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi di essa, non comporta prospettazione di una nuova «causa petendi», in aggiunta a quella dedotta in primo grado, e pertanto non dà luogo a una domanda nuova, come tale inammissibile in appello.
Nel caso di specie, la sentenza rileva che «il lavoratore ha semplicemente enunciato un criterio di interna divisione del credito vantato nei confronti delle società convenute senza apportare alcuna modifica all'originario petitum». Domanda riproposta dal ricorrente in grado di appello il quale, senza immutare i fatti costitutivi del diritto azionato né le situazioni giuridiche prospettate in atto introduttivo, ha indicato lo stesso petitum mediato formulato in prime cure, limitandosi a prospettarne una mera ripartizione interna fra i diversi condebitori solidali.
Responsabilità solidale senza oneri probatori per il lavoratore. La Cassazione interpreta in maniera favorevole al ricorrente anche quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 29 del decreto legislativo numero 276 del 2003. Tale norma prevede la responsabilità solidale del committente e dell'appaltatore, entro il limite di due anni dalla cessazione del rapporto. Ovviamente, l'obiettivo è quello di garantire il lavoratore circa il pagamento dei trattamenti retributivi dovuti in relazione all'appalto cui ha personalmente dedicato le proprie energie lavorative, con particolare riferimento ai lavoratori delle piccole e microimprese subappaltatrici.
La sentenza osserva che «il regime della solidarietà sancito dalla disposizione richiamata, presuppone solo l'accertamento dell'inadempimento dell'obbligazione a carico dei coobbligati solidali, la ripartizione interna dei debiti attenendo solo al rapporto intercorrente fra gli stessi». Pertanto, il Supremo collegio ritiene non condivisibili «gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale, laddove ha posto a carico del creditore, ritenendolo non assolto, l'onere di provare l'entità dei debiti gravanti su ciascuna delle società appaltatrici convenute in giudizio».
In sostanza, l'eventuale incertezza di attribuzione dell'opera in termini quantitativi fra le società appaltatrici non può trasferirsi a carico del lavoratore, considerato il vincolo di solidarietà che avvince il committente, l'appaltatore e il subappaltatore in base al quale ciascuno di essi può essere costretto all'adempimento per la totalità.
Il provvedimento evidenzia, quindi, che «ogni questione inerente alla divisione fra condebitori interessati del peso dell'adempimento, va declinata nel diverso ambito dell'azione di regresso». La Corte ha, quindi, cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d'appello di Torino in diversa composizione
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.01.2019).

ATTI AMMINISTRATIVIDanno di ritardo anche se d’ufficio. Una recente pronuncia del Consiglio di Stato.
Il danno da ritardo di cui all'art. 2-bis, legge 07.08.1990 n. 241, può configurarsi anche nei casi in cui il procedimento debba essere avviato d'ufficio.
Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, Sez. IV, con sentenza 15.01.2019 n. 358.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, alcuni lavoratori impugnavano il silenzio serbato dall'amministrazione sull'istanza volta ad ottenere l'emanazione del decreto interministeriale per il riconoscimento della posizione di comando ai fini della corresponsione della relativa indennità, così come previsto dall'art. 10, legge n. 78/1983 per il personale dell'esercito e della marina, chiedendo la condanna della p.a. al risarcimento del relativo danno.
Chiamato a decidere la controversia, il collegio precisa che perché possa parlarsi di una condotta della p.a. causativa di danno, occorre che esista un obbligo dell'amministrazione di provvedere entro un termine definito dalla legge a fronte di una fondata posizione di interesse legittimo a ottenere il provvedimento tardivamente emanato.
Tale obbligo sussiste, ai sensi dell'art. 2, comma 1, legge n. 241/1990, laddove vi sia un obbligo di procedere entro un termine definito («ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un'istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio»), così legittimando la configurabilità del danno da ritardo, di cui all'art. 2-bis, legge n. 241/1990, anche nei casi in cui il procedimento debba essere avviato di ufficio e, dunque, vi sia l'obbligo di concluderlo.
Ciò si desume, oltre che da ragionevoli argomentazioni di ordine generale, dalla evidente differenza letterale tra i primi due commi dell'art. 2-bis, dove solo il secondo di essi (comma 1-bis), si riferisce espressamente al procedimento ad istanza di parte.
In questo caso, però, occorre sia chiara la previsione normativa di un termine per l'avvio e per la conclusione del procedimento, sia l'esistenza di una posizione di interesse legittimo che, come tale, presuppone la natura provvedimentale dell'atto medesimo. In difetto, le istanze risarcitorie avanzate dai privati non possono trovare accoglimento
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2019).
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MASSIMA
6.1. Come è noto,
l’art. 2-bis l. n. 241/1990 prevede due distinte ipotesi di risarcimento del danno:
   - la prima afferente al “danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine del procedimento” (art. 2-bis, co. 1, l. n. 241/1990);
   - la seconda afferente al danno derivante di per sé dal fatto stesso di non avere l’amministrazione provveduto entro il termine prescritto, nelle ipotesi e alle condizioni previste (art. 2-bis, co. 1-bis).

6.1.1. Orbene,
l’art. 2-bis, co. 1, prevede la possibilità di risarcimento del danno da ritardo/inerzia dell’amministrazione nella conclusione del procedimento amministrativo non già come effetto del ritardo in sé e per sé, bensì per il fatto che la condotta inerte o tardiva dell’amministrazione sia stata causa di un danno altrimenti prodottosi nella sfera giuridica del privato che, con la propria istanza, ha dato avvio al procedimento amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2016 n. 4028).
Il danno prodottosi nella sfera giuridica del privato, e del quale quest’ultimo deve fornire la prova sia sull’an che sul quantum (Cons. Stato, sez. V, 11.07.2016 n. 3059), deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all’adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell’amministrazione. E ciò sempre che, nell’ipotesi ora considerata, la legge non preveda, alla scadenza del termine previsto per la conclusione del procedimento, un’ipotesi di silenzio significativo (Cons. Stato, sez. III, 18.05.2016 n. 2019).
In particolare, come la giurisprudenza ha avuto modo di osservare (cfr. C.g.a., 16.05.2016 n. 139; Cons. Stato, sez. VI, 05.05.2016 n. 1768; sez. V, 09.03.2015 n. 1182; sez. IV, 22.05.2014 n. 2638): “
l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono in linea di principio presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al silenzio nell’adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante)”.
In definitiva,
benché l’art. 2-bis cit., rafforzi la tutela risarcitoria del privato nei confronti della pubblica amministrazione, “la domanda deve essere comunque ricondotta nell’alveo dell’art. 2043 c.c. per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità”.
Tale impostazione ha ricevuto l’avallo indiretto della Corte di Cassazione (cfr. Sezioni unite civili, ordinanza 17.12.2018, n. 32620 che hanno confermato la sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, 22.09.2016, n. 3920); nella fattispecie è stato chiarito, sia pure nella peculiare prospettiva del giudizio su questione di giurisdizione, che:
   a) il riconoscimento del danno da ritardo -relativo ad un interesse legittimo pretensivo- non è avulso da una valutazione di merito della spettanza del bene sostanziale della vita e, dunque, dalla dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento fosse probabilmente destinata ad un esito favorevole, posto che l'ingiustizia e la sussistenza del danno non possono presumersi iuris tantum in relazione al mero fatto temporale del ritardo o del silenzio nell'adozione del provvedimento;
   b) l’ingiustizia del danno non può prescindere dal riferimento alla concreta spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è finalizzato
(nella specie era incontroverso che l'originario progetto non era stato autorizzato e non avrebbe potuto esserlo stante il negativo giudizio su di esso espresso dalla direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Molise).
6.1.2. Tale configurazione del danno da ritardo non muta alla luce della recente sentenza dell’Adunanza Plenaria 04.05.2018 n. 5, secondo la quale,
con l’art. 2-bis cit. “il legislatore –superando per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15.09.2005, n. 7– ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento (ad esempio, il diniego di autorizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento).
Il danno deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale: il ritardo nell’adozione del provvedimento genera, infatti, una situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione.
Anche in questo caso viene, quindi, in rilievo un danno da comportamento, non da provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali.
Non si tratta, a differenza, dell’indennizzo forfettario introdotto in via sperimentale dal comma 1-bis dello stesso articolo 2-bis (inserito dall’art. 28, comma 9, del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 09.08.213, n. 98), di un ristoro automatico (collegato alla mera violazione del termine): è, infatti, onere del privato fornire la prova, oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere……
….l’articolo 2 della legge n. 241 del 1990 ... sottrae il tempo del procedimento alla disponibilità dell’amministrazione e, di conseguenza, riconosce che la pretesa al rispetto del termine assume la consistenza di un diritto soggettivo (un modo di essere della libertà di autodeterminazione negoziale) a fronte della quale l’amministrazione non dispone di un potere ma è gravata da un obbligo
”.

Come è dato osservare,
l’Adunanza plenaria riconosce il danno da ritardo “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento”, ricollegandolo alla “lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale” e subordinandolo, comunque, a rigorosi oneri di allegazione e prova dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità.
Tale ricostruzione presuppone di regola, come è evidente, la natura imprenditoriale del soggetto che assume essere stato leso dal ritardo dell’amministrazione nell’emanazione del provvedimento (ancorché legittimamente di segno negativo), dovendosi invece ritenere che, negli altri casi, sia indispensabile la prova della spettanza del bene della vita cui si ricollega la posizione di interesse legittimo (Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2018 n. 6266; Sez. VI, 02.05.2018, n. 2624, Sez. IV, 17.01.2018, n. 240, 23.06.2017, n. 3068, 02.11.2016, n. 4580, 06.04.2016, n. 1371).
6.1.3.
Perché, dunque, possa parlarsi di una condotta della Pubblica Amministrazione causativa di danno da ritardo, oltre alla concorrenza degli altri elementi costitutivi della responsabilità ex art. 2043 c.c., occorre che esista, innanzi tutto, un obbligo dell’amministrazione di provvedere entro un termine definito dalla legge a fronte di una fondata posizione di interesse legittimo ad ottenere il provvedimento tardivamente emanato.
E tale obbligo di provvedere sussiste, ai sensi del comma 1 dell’art. 2, l. n. 241/1990, laddove vi sia un obbligo di procedere entro un termine definito (“ove il provvedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio ...”).
Al contempo,
deve ritenersi che –sussistendo i suddetti presupposti– il danno da ritardo, di cui all’art. 2-bis l. n. 241/1990, può configurarsi anche nei casi in cui il procedimento debba essere avviato di ufficio (e, dunque, vi sia l’obbligo di concluderlo).
Ciò si desume, oltre che da ragionevoli argomentazioni di ordine generale, dalla evidente differenza letterale tra i primi due commi dell’art. 2-bis, dove solo il secondo di essi (co. 1-bis), si riferisce espressamente al procedimento ad istanza di parte.
Ma, in questo caso, occorre sia la chiara previsione normativa di un termine per l’avvio e per la conclusione del procedimento (supplendo in questo secondo caso, in difetto di previsione, il termine generale di cui all’art. 2, co. 2, l. n. 241/1990), sia l’esistenza di una posizione di interesse legittimo che, come tale, presuppone la natura provvedimentale dell’atto medesimo.

APPALTINo all'accesso civico generalizzato in materia di appalti.
L’accesso civico generalizzato non trova applicazione con riferimento agli «atti di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici».

Tanto è stato stabilito dalla Sezione II del Tar Lazio, Roma, con la sentenza 14.01.2019 n. 425.
Per il Giudice amministrativo romano, infatti, ai sensi dell’articolo 5-bis, comma 3, del Dlgs n. 33 del 2013 l’accesso civico generalizzato è escluso, tra l’altro, nei casi «in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990».
Ad avviso del Tar Lazio, dunque, nel combinato disposto tra l’articolo 53, comma 1, del Codice degli appalti e l’articolo 5-bis, comma 3, del Dlgs n. 33 del 2013, riposa il divieto di accesso generalizzato in questo specifico ambito disciplinare e ciò perché, ai sensi della richiamata norma contenuta del Codice degli appalti, «il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241».
I fatti di causa
Nell’ambito di una gara il secondo classificato, con una specifica istanza di accesso, chiedeva di prendere visione ed estrarre copia degli atti di subaffidamento e/o subappalto richiesti e autorizzati all’aggiudicatario.
La stazione appaltante negava l’accesso alla documentazione richiesta così motivando: «Si fa presente che, con riferimento a quanto richiesto nel punto c) della Vostra istanza di accesso agli atti, non si ravvisano i presupposti previsti dall’articolo 22, comma 1, lett. b), della legge 241/1990 nonché dall’articolo 2 del Dpr n. 184 del 2006. Segnatamente, non si è riscontrata in capo all’istante –in relazione agli atti di subaffidamento e subappalto– la presenza dell’’interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso’, che costituisce presupposto giuridico necessario per l’accesso agli atti».
Avverso il diniego di accesso l’impresa istante proponeva ricorso innanzi al Tar del Lazio che, con la sentenza oggetto del presente commento, lo rigettava.
La posizione del Tar Lazio
Per il Giudice amministrativo romano l’accesso agli atti concernenti le gare d’appalto e l’esecuzione dei contratti pubblici è oggetto di una disciplina ad hoc, costituita dalle apposite disposizioni contenute nel Codice dei contratti pubblici e, ove non derogate, da quelle in tema di accesso ordinario recate dalla legge n. 241 del 1990. In tale ambito non trova perciò applicazione l’istituto dell’accesso civico generalizzato, stante la clausola di esclusione contenuta nell’articolo 5-bis, comma 3, del Dlgs n. 33/2013.
Ad avviso del Tar Lazio, l’esclusione dell’applicazione dell’accesso generalizzato alla materia degli appalti manifesta una propria e ben precisa ratio, tenuto conto della circostanza che la disciplina dell’affidamento e dell’esecuzione dei contratti pubblici costituisce un complesso normativo chiuso, in quanto espressione di precise direttive europee volte alla massima tutela del principio di concorrenza e trasparenza negli affidamenti pubblici, che dunque attrae a sé anche la regolamentazione dell’accesso agli atti connessi alle specifiche procedure espletate.
La scelta del legislatore è, perciò, giustificata dalla considerazione che si tratta pur sempre di documentazione che, da un lato, subisce un forte e penetrante controllo pubblicistico da parte di soggetti istituzionalmente preposti alla specifica vigilanza di settore (Anac), e, dall’altro, coinvolge interessi privati di natura economica e imprenditoriale di per sé sensibili (e quindi astrattamente riconducibili alla causa di esclusione di cui al comma 2, lett. c), dell’articolo 5-bis del Dlgs n. 33 del 2013), specie quando tali interessi, dopo l’aggiudicazione, vanno a porsi su di un piano pari ordinato -assumendo la connotazione di veri e propri diritti soggettivi- rispetto a quelli della stazione committente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.01.2019).
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MASSIMA
11. Nel merito, il ricorso è, tuttavia, infondato.
11.1.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che l’istituto dell’accesso civico generalizzato non trova applicazione con riferimento agli “atti di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici”, secondo la formulazione utilizzata dall’articolo 53, comma 1, del Codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016 (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 18.07.2018, n. 197; nello stesso senso TAR Marche, 18.10.2018, n. 677).
11.2.
Deve, infatti, osservarsi che l’articolo 5-bis, comma 3, del decreto legislativo n. 33 del 2013 stabilisce espressamente che “Il diritto di cui all’articolo 5, comma 2” –ossia, come detto, l’accesso civico generalizzato– è escluso, tra l’altro, nei casi “in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990”.
La suddetta previsione si lega con quella contenuta all’articolo 53 del decreto legislativo n. 50 del 2016, ove –riproducendo, sul punto, la formulazione dell’articolo 13 del previgente decreto legislativo n. 163 del 2006– si stabilisce che “Salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241”.

In altri termini,
l’accesso agli atti concernenti la procedura di affidamento e la fase di esecuzione dei contratti pubblici è oggetto di una disciplina ad hoc, costituita dalle apposite disposizioni contenute nel Codice dei contratti pubblici e, ove non derogate, da quelle in tema di accesso ordinario recate dalla legge n. 241 del 1990. In tale ambito non trova perciò applicazione l’istituto dell’accesso civico generalizzato, stante la clausola di esclusione contenuta nel richiamato articolo 5-bis, comma 3, del decreto legislativo n. 33 del 2013.
11.3. Né potrebbe obiettarsi –come fa la ricorrente– che alla data dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, emanato con il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, l’accesso civico generalizzato non era stato ancora introdotto, trattandosi di istituto previsto per la prima volta dal successivo decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha sostituito l’articolo 5 del decreto legislativo n. 33 del 2013. Come, infatti, condivisibilmente evidenziato nei precedenti sopra richiamati “è lo stesso legislatore del 2016 a considerare e regolamentare l’ipotesi di discipline sottratte per voluntas legis, anche se precedente all’introduzione del nuovo istituto, alla possibilità di accesso generalizzato” (così TAR Parma, n. 197 del 2018, cit.).
11.4. D’altro canto, come pure rimarcato nella pronuncia ora richiamata,
l’esclusione dell’applicazione dell’accesso generalizzato manifesta una propria e ben precisa ratio, tenuto conto della circostanza che la disciplina dell’affidamento e dell’esecuzione dei contratti pubblici costituisce un “complesso normativo chiuso, in quanto espressione di precise direttive europee volte alla massima tutela del principio di concorrenza e trasparenza negli affidamenti pubblici, che dunque attrae a sé anche la regolamentazione dell’accesso agli atti connessi alle specifiche procedure espletate”.
La scelta del legislatore è, perciò, giustificata dalla considerazione che “si tratta pur sempre di documentazione che, da un lato, subisce un forte e penetrante controllo pubblicistico da parte di soggetti istituzionalmente preposti alla specifica vigilanza di settore (ANAC), e, dall’altro, coinvolge interessi privati di natura economica e imprenditoriale di per sé sensibili (e quindi astrattamente riconducibili alla causa di esclusione di cui al comma 2, lett. c), dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013), specie quando tali interessi, dopo l’aggiudicazione, vanno a porsi su di un piano pari ordinato – assumendo la connotazione di veri e propri diritti soggettivi - rispetto a quelli della stazione committente
(così ancora TAR Parma, n. 197 del 2018, cit.).
11.5 Il diniego implicitamente opposto da Consip all’istanza di accesso della ricorrente è, perciò, sorretto dal quadro normativo sopra illustrato.
12. Alla luce di quanto sin qui illustrato, il ricorso deve essere respinto.

APPALTIAppalto valido anche se l’atto di nomina e i curricula della commissione non sono pubblicati.
Per il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 14.01.2019 n. 283, il mancato adempimento degli obblighi di pubblicazione dell'atto di nomina della commissione di gara e dei curricula dei commissari non integra una illegittimità tale da determinare l'annullabilità (o la nullità) degli atti del procedimento di gara.
Questo perché le forme di pubblicità (stabilite dal decreto legislativo 33/2013 e dalla stessa legge anticorruzione 190/2012) non devono essere intese come adempimenti costitutivi dell'efficacia degli atti.
La vicenda
Risulta di grande importanza pratica la decisione della quinta sezione del Consiglio di Stato in tema di obblighi di trasparenza degli atti di gara. Nel caso trattato, il ricorrente pretendeva l'annullamento degli atti relativi a una procedura di appalto per l'affidamento del servizio di raccolta differenziata.
Tra le varie doglianze, l'impresa aveva eccepiva l'illegittimità degli atti adottati (e della stessa aggiudicazione) per il fatto che il responsabile unico del procedimento avesse omesso di ottemperare, in primo luogo, agli obblighi di trasparenza previsti, in particolare dall'articolo 29 del codice dei contratti.
La norma impone la pubblicazione di «Tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici (…) relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e forniture, nonché alle procedure per l'affidamento di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di progettazione, di concorsi di idee e di concessioni».
L'adempimento prevede anche la pubblicazione degli atti relativi alla nomina e composizione della commissione giudicatrice e ai curricula dei suoi componenti, sul profilo del committente e nella sezione «Amministrazione trasparente».
Gli atti in argomento –in particolare quelli relativi alla commissione di gara– risultavano pubblicati solamente all'albo pretorio online della stazione appaltante.
Per l'impianto accusatorio, il vizio dedotto –ovvero l'omessa pubblicazione dei curricula e delle dichiarazioni di assenza di cause di incompatibilità- avrebbe impedito «di verificare le effettive competenze dei commissari chiamati in qualità di esperti a partecipare alla commissione, l'esistenza di cause di incompatibilità (ai sensi dell'art. 77, comma 9, codice dei contratti pubblici), nonché di conflitti di interesse ai sensi dell'art. 42 del codice, o, ancora di cause di inconferibilità di cui all'art. 35-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 77, comma 6, del codice e 51 cod. proc. civ.» determinando l'illegittimità dell'intera procedura di gara. Da ciò, sempre secondo il censurante, gli atti avrebbero dovuto essere considerati «nulli per violazione dell'art. 1, comma 15, della legge n. 190 del 2012 e degli artt. 19 e 23 del d.lgs. n. 33 del 2013, i quali fissano obblighi di pubblicazione che sarebbero “elemento essenziale degli atti della PA, nel caso specifico, del provvedimento di nomina della commissione”».
La decisione
Il ragionamento espresso dal ricorrente non ha persuaso il giudice che si è soffermato sulla ratio (e sugli effetti) delle forme di pubblicità previste in tema di trasparenza e anticorruzione.
Si legge nella sentenza, «nessuna delle forme di pubblicità richieste dalla legge, ai diversi fini perseguiti dalle norme in tema di trasparenza nella p.a. (…), costituisce “elemento essenziale” dell'atto di nomina dei commissari di gara, la cui mancanza –analogamente alla violazione degli obblighi di forma prescritti appunto per gli atti formali- ne causi l'illegittimità o, addirittura, la nullità».
Gli adempimenti, pertanto, non incidono sulla efficacia degli atti adottati ma rappresentano una delle modalità per rendere trasparente, visibile e, soprattutto, conoscibile l'attività della pubblica amministrazione.
Una procedura di gara, in sostanza, può ritenersi realmente viziata «soltanto dall'effettiva esistenza, in concreto, delle situazioni di incompatibilità o di conflitto di interessi che l'adempimento» degli obblighi predetti «di trasparenza e di pubblicità mira soltanto a prevenire, favorendo la conoscenza (o conoscibilità) delle diverse situazioni ivi considerate».
Inoltre, nella situazione concreta, la conoscenza del provvedimento di nomina della commissione di gara risultava assicurata mediante la pubblicazione sull'Albo pretorio on line della stazione appaltante (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019).
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MASSIMA
10. Col quinto motivo è dedotto il vizio di “omessa pubblicazione dei curricula dei commissari”, nonché delle dichiarazioni di assenza di cause di incompatibilità, con asserita violazione dell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016 e del d.lgs. n. 33 del 2013.
Secondo l’appellante, tale omissione -impedendo di verificare le effettive competenze dei commissari chiamati in qualità di esperti a partecipare alla commissione, l’esistenza di cause di incompatibilità (ai sensi dell’art. 77, comma 9, codice dei contratti pubblici e 22 regolamento C.U.C.), nonché di conflitti di interesse ai sensi dell’art. 42 del codice, o, ancora di cause di inconferibilità di cui all’art. 35-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 77, comma 6, del codice e 51 cod. proc. civ.- determinerebbe l’illegittimità dell’intera procedura di gara. Gli atti sarebbero inoltre nulli per violazione dell’art. 1, comma 15, della legge n. 190 del 2012 e degli artt. 19 e 23 del d.lgs. n. 33 del 2013, i quali fissano obblighi di pubblicazione che sarebbero “elemento essenziale degli atti della PA, nel caso specifico, del provvedimento di nomina della commissione”.
10.1. Il motivo è infondato.
Nessuna delle forme di pubblicità richieste dalla legge, ai diversi fini perseguiti dalle norme in tema di trasparenza nella p.a. richiamate dall’appellante, costituisce “elemento essenziale” dell’atto di nomina dei commissari di gara, la cui mancanza –analogamente alla violazione degli obblighi di forma prescritti appunto per gli atti formali- ne causi l’illegittimità o, addirittura, la nullità.
La procedura di gara può essere inficiata soltanto dall’effettiva esistenza, in concreto, delle situazioni di incompatibilità o di conflitto di interessi che l’adempimento dei detti obblighi di trasparenza e di pubblicità mira soltanto a prevenire, favorendo la conoscenza (o conoscibilità) delle diverse situazioni ivi considerate.
Peraltro, nel caso di specie, la conoscenza del provvedimento di nomina della commissione di gara è stata assicurata mediante la pubblicazione sull’Albo pretorio dell’Unione dei Comuni del Tappino.
Il quinto motivo va respinto.

ENTI LOCALI: Circolazione stradale, ultime dalla giurisprudenza.
Circolazione stradale, ultime dalla giurisprudenza. L'autovelox non può servire per fare cassa.
Il mancato rinnovo del decreto prefettizio necessario per il posizionamento degli strumenti elettronici che controllano automaticamente la velocità dei veicoli in transito sulle strade è un provvedimento difficilmente impugnabile dal comune. Anche se è evidente che la diminuzione delle sanzioni e degli accertamenti conseguente allo spegnimento dello strumento deputato al controllo dell'eccesso di velocità comporterà un danno importante alle casse comunali.

Lo ha evidenziato il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con l'ordinanza 14.01.2019 n. 83.
Il comune di Garlasco si è rivolto al collegio evidenziando che la prefettura non ha rinnovato il decreto che autorizzava l'installazione di un misuratore automatico dell'eccesso di velocità.
Il Tar ha negato la sospensiva del provvedimento limitativo adottato dal rappresentante governativo evidenziando che lo spegnimento di un autovelox non determina automaticamente un aumento del pericolo stradale.
E il danno patito dal comune per il mancato introito di sanzioni amministrative non può essere oggetto di valutazioni visto che il controllo della circolazione stradale non può avere finalità di carattere economico (articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).

VARINon perde la licenza il cacciatore che reagisce ai ladri.
Sparare in aria dal terrazzo per scongiurare un tentativo di furto nell'appartamento può mettere in discussione la licenza di caccia. Ma in una zona di campagna senza abitazioni attorno nessun problema.

Lo ha chiarito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la sentenza 14.01.2019 n. 30.
Un cacciatore è stato sorpreso dai rumori di un tentativo di scasso percepiti al piano inferiore in orario serale. Ha quindi chiamato i carabinieri ma contemporaneamente ha esploso dei colpi di fucile in aria. Al ricevimento della segnalazione dell'arma la prefettura ha ritenuto non più idoneo il titolare della licenza di porto di fucile ordinandogli il divieto di detenzione di armi.
Contro questo severo provvedimento l'interessato ha proposto con successo censure al collegio. È evidente che un cacciatore che impugna con facilità un fucile può essere pericoloso. Ma in questo caso si tratta in un episodio particolare, avvenuto in orario serale in una zona di campagna praticamente disabitata.
Quindi non è possibile classificare questo comportamento non adeguato senza articolare bene le motivazioni nel successivo ordine dell'autorità di pubblica sicurezza (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).

APPALTIIl Tar Milano esce dal coro: accesso civico generalizzato sugli atti di gara.
Gli atti di gara possono essere oggetto di accesso civico generalizzato.
Questo scrivono i giudici del Tar Milano -Sez. IV- nella sentenza 11.01.2019 n. 45, che si distingue in un panorama giurisprudenziale non ancora assestato su tale soluzione.
Avendo indetto una procedura negoziata, andata deserta la precedente ristretta, per affidare in concessione mista di beni e servizi alcuni interventi per migliorare l'efficienza energetica sugli edifici di proprietà comunale, la Provincia di Lecco ha respinto l’istanza di accesso agli atti, anche con valenza di accesso civico, di un impresa che non aveva partecipato alla gara. L’esclusa si è opposta rivendicando il diritto di accesso con riguardo alla legge 241/1990, all'articolo 53 del Dlgs 50/2016 e all’articolo 5, comma 2, del DLgs 33/2013.
L’accesso civico generalizzato
L’accesso a dati e documenti della pubblica amministrazione, anche ulteriori rispetto a quelli per i quali sussiste un obbligo giuridico di pubblicazione, è diritto riconosciuto a tutti dall’articolo 5, commi 2 e 3, del Dlgs 33/2013. Non è necessario, quindi, provare una particolare legittimazione e né motivare l’istanza.
Nella sentenza del Tar Milano 45/2019 i giudici hanno ritenuto illegittimo il diniego, motivato in base all'articolo 5-bis, comma 2, lettera c) del Dlgs 33/2013, che esclude tale accesso per evitare un pregiudizio concreto agli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica. La stazione appaltate non aveva menzionato le circostanze fattuali e giuridiche impeditive; non aveva interpellato le due imprese interessate alla domanda di accesso civico, come prescrive il Dpr 184/2006, né ha valutato l'istanza subordinata di accesso parziale, circoscritto alle parti delle offerte non coperte da segreto.
Le eccezioni alla regola generale dell'accesso civico fissata dal Dlgs 33/2013 sono da interpretare in modo restrittivo. Ma l’articolo 53 del Dlgs 50/2016 non è una disciplina speciale che deroga alla legge 241/1990 e tale da escluderlo definitivamente. Può essere vietato a tempo, negli stessi limiti validi per i partecipanti alla gara, fino alla conclusione di questa, e precluso secondo quanto prescritto da altre disposizioni, tra le quali l’articolo 5, comma 2, del Dlgs 33/2013.
La sentenza del Tar Bari 41/2019 ha rimarcato che l'articolo 21 della Direttiva 24/2014 tutela la riservatezza dei partecipanti alle gare, in ordine alla informazioni da loro comunicate e considerate riservate «compresi anche, ma non esclusivamente, segreti tecnici o commerciali, nonché gli aspetti riservati delle offerte». Prevale la trasparenza, insomma, se lo consente la legislazione nazionale cui è soggetta l'amministrazione aggiudicatrice. Invero, il legislatore italiano punta sulla trasparenza, che diventa recessiva solo in caso di segreti tecnici e commerciali. Di qui deriva la peculiare legittimazione prevista dall'articolo 53 del Dlgs 50/2016 e dall'articolo 22, comma, 1 lettera b), della legge 241/1990.
I segreti, invece, sebbene presi in considerazione nella direttiva 24/2014, non esauriscono l'insieme degli atti per i quali va garantito diritto alla riservatezza, che prevale sul principio di trasparenza.
I precedenti
Per il Tar Ancona 677/2018, l’articolo 53 del Dlgs 50/2016 detta una disciplina speciale che rinvia alle regole sul diritto di accesso ordinario (così anche la decisione del Tar Parma 197/2018). Tale articolo integra un caso di esclusione della disciplina dell'accesso civico in base all'articolo 5-bis, comma 3, del Dllgs 33/2013, che stabilisce come il diritto di accesso civico generalizzato sia escluso nei casi in cui è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti.
Con queste motivazioni è stata rigettata l'istanza di accesso civico generalizzato alla documentazione inerente a una gara di appalto, già espletata, perché ricade nell'ambito di applicazione dell'articolo 53, comma 1, del Dlgs 50/2016. Nel caso specifico il richiedente non intendeva controllare il perseguimento di funzioni istituzionali o l'utilizzo di risorse pubbliche, ma acquisire informazioni utili sull'esecuzione dell'appalto, per i quali è riconosciuto il diritto alla visione e all’estrazione di copia (legge 241/1990).
Secondo il Tar Palermo 1905/2018, l’istanza di accesso al contratto pubblico stipulato dalla stazione appaltante e allla documentazione successiva all'aggiudicazione, presentata dal concorrente e fondata sia sull'articolo 22 della legge 241/1990, sia sull'articolo 5 del Dlgs 33/2013, deveessere trattata in base alle norme sull'accesso generalizzato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.01.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Pubblicità ammessa su protezioni pedonali.
Se un impianto pubblicitario non interferisce con la segnaletica stradale può essere installato anche sulle transenne pedonali che vengono normalmente utilizzate dalle amministrazioni comunali nei centri abitati per mettere in sicurezza le persone.
Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere 10.01.2019 n. 144.
Un'azienda ha richiesto al comune di Pescia il rinnovo dell'autorizzazione al posizionamento di 4 impianti pubblicitari su transenne pedonali.
Contro il rigetto della domanda l'interessato ha proposto con successo ricorso straordinario al Presidente della repubblica. I giudici di palazzo Spada hanno evidenziato che non sussiste un generale divieto all'installazione di impianti pubblicitari sulle transenne pedonali del centro urbano. Anche se collocate in centro abitato in prossimità di incroci.
L'importante è che la pubblicità non arrechi interferenza con la segnaletica stradale e non rechi quindi pregiudizio alla sicurezza generale della circolazione.
Nel caso in specie inoltre si tratta di impianti già in precedenza autorizzati posizionati nello stesso punto del centro abitato da tanti anni senza particolari problemi (articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).

PUBBLICO IMPIEGOIncarichi a contratto, niente spoils system nei Comuni.
L'incarico dirigenziale a contratto secondo quanto previsto dall'articolo 110 del Tuel deve avere durata minima triennale e non cessa automaticamente alla scadenza del mandato elettivo del sindaco o del presidente della Provincia.
Lo sostiene il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, con l'ordinanza 09.01.2019 n. 14.
La questione
Il ricorrente ha chiesto l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell'avviso pubblico di selezione indetta dalla Provincia di Taranto per il conferimento di incarico a tempo determinato di un dirigente secondo l’articolo 110, comma 1, del Tuel. Sulla materia esistono due riferimenti normativi:
   • quello generale, applicabile a tutte le Pa, espresso dall'articolo 19 del Dlgs 165/2001, il cui comma 6 dispone che la durata degli incarichi non può eccedere il termine di tre per quelli di livello generale anni, di cinque per gli altri;
   • e quello speciale per gli enti locali, contenuto all'articolo 110 del Tuel, che al comma 3 lega la durata degli incarichi dirigenziali al mandato elettivo del sindaco o del presidente della Provincia in carica.
Il termine
Facendo riferimento a un apparato giurisprudenziale espresso dalla sezione lavoro della Cassazione, il Tar Puglia rammenta che negli enti locali si deve applicare il Dlgs 165/2001 e non già il Tuel. E questo perché la disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta a evitare il conferimento di incarichi troppo brevi e a consentire al dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente a esprimere le sue capacità e a conseguire i risultati per i quali l'incarico gli è stato affidato; la seconda ha la funzione di fornire al sindaco/presidente uno strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell'intuitus personae, anche al di fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche e di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo del mandato, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell'ipotesi di cessazione di tale mandato.
Questo è tanto più vero alla luce delle modifiche introdotte all'articolo 110, comma 1, dall'articolo 11, comma 1, lettera a), del Dl 90/2014, in base al quale gli incarichi a contratto devono essere conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico.
Niente spoils system
Sulla base di questa posizione espressa dalla Suprema Corte, i giudici del Tar Puglia concludono che l'incarico dirigenziale deve avere durata minima triennale e non può interrompersi automaticamente alla scadenza del mandato elettivo del presidente della provincia, come diretta applicazione dell'articolo 19 del Dlgs 165/2001, applicabile agli enti locali anche nel caso degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni in base all’articolo 110.
Rilevano dunque i presupposti per la sospensione dell'efficacia dell'avviso pubblico di selezione per il conferimento dell'incarico e disapplicano, in via incidentale e cautelare, il decreto di nomina. Per la sentenza occorrerà attendere il prossimo 2 ottobre, data fissa dal collegio per la trattazione di merito del ricorso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.01.2019).
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MASSIMA
Ritenuto, ad una sommaria delibazione propria della presente fase cautelare del giudizio:
   - che non sembrano fondate le eccezioni preliminari formulate dalla Provincia di Taranto e che, in particolare, appare sussistere la giurisdizione del Giudice Amministrativo, in quanto, nella fattispecie concreta in esame, la gravata determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018 (di approvazione dell’avviso pubblico per il conferimento di incarico a tempo determinato, ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000) e, quindi, il relativo avviso pubblico sono stati adottati in data successiva e non già antecedente rispetto agli atti impugnati connessi (decreto del Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018 e atto dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018), sicché i provvedimenti macro-organizzativi in questione, in quanto consequenziali, non possono configurarsi quali atti presupposti degli atti gestionali di che trattasi;
   - che il ricorso risulta assistito dal necessario fumus boni iuris, considerato:
   - che “
In tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione si applica il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, nel testo modificato dal D.L. n. 155 del 2005, art. 14-sexies, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, secondo cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque, e non già il D.Lgs. n. 257 del 2000, art. 110, comma 3 (T.U. Enti locali), il quale stabilisce che la incarichi a contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco in carica. La disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta ad evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le sue capacità ed a conseguire i risultati per i quali l’incarico gli è stato affidato; la seconda ha la funzione di fornire al Sindaco uno strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitus personae, anche al di fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche, e di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo del mandato del Sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 13.01.2014, n. 478, tuttora e vieppiù condivisibile alla luce delle modifiche introdotte al testo del citato art. 110 T.U.E.L. dall’art. 11, comma 1, lett. a), del Decreto Legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n. 114 - obbligo di previa selezione pubblica; si veda, anche, per analoghe considerazioni, Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 05.05.2017, n. 11015);
   - che, quindi, appare fondata ed assorbente la prima censura, in quanto l’incarico dirigenziale del ricorrente (dirigente del Settore Pianificazione e Ambiente, incarico non apicale, ma di tipo tecnico-professionale, involgente lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi politici deliberati dagli Organi di governo degli Enti di riferimento, pure attribuito all’esito di selezione pubblica) deve avere durata minima triennale (e, pertanto, con scadenza il 20.11.2020), anziché (automaticamente) alla scadenza del mandato elettivo del Presidente della Provincia, ai sensi dell’art. 19 del Decreto Legislativo n. 165/2001 e successive modifiche ed integrazioni, applicabile agli Enti Locali anche nel caso degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000;
   - sussistono, pertanto, i presupposti per la invocata sospensione dell’efficacia della determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018 della Provincia di Taranto e del relativo avviso pubblico di selezione per il conferimento di incarico a tempo determinato di Dirigente, ex art. 110, comma 1, del Decreto Legislativo n. 267/2000, con disapplicazione, in via incidentale e cautelare, ai sensi dell’art. 8, comma 1 del c.p.a., dell’atto dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018 e del Decreto del Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018, in parte qua e nei limiti dell’interesse del ricorrente (e, peraltro, con ordinanza n. 174/2019, il Tribunale Civile di Taranto - Sezione Lavoro ha accolto il ricorso proposto ex art. 700 c.p.c., ordinando, per l’effetto, in via provvisoria alla Provincia di Taranto di riconoscere al ricorrente il diritto a svolgere, fino al 20.11.2020, l’incarico di Dirigente del Settore Pianificazione e Ambiente, conferitogli ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000);
Rilevata, altresì, la sussistenza del danno grave ed irreparabile;

APPALTI SERVIZIIn house, alla Corte Ue stabilire i limiti tra partecipazione e posizione di controllo congiunto.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e il principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche osti a una normativa nazionale (come quella dell'articolo 192, comma 2, del vigente codice dei contratti pubblici) il quale colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto: consentendo questi affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché imponendo comunque all'amministrazione che intenda operare un affidamento in regime di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a questa forma di affidamento (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 14 gennaio).
Inoltre, deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il diritto dell'Unione europea osti a una disciplina nazionale (come quella dell'articolo 4, comma 1, del testo unico delle società partecipate, approvato con Dlgs n. 175 del 2016) che impedisce a un'amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove l’amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell'organismo pluripartecipate.

Così si è espressa la V Sez. del Consiglio di Stato che con l’ordinanza 07.01.2019 n. 138 ha sollevato questione pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea.
Il fatto
Un'impresa operante nel settore dell'igiene urbana, interessata ad acquisire con gara, la gestione del servizio del Comune di Lanciano, ha chiesto l'annullamento degli atti del 2017 con cui quel Comune, in quanto socio di minoranza della partecipata, aveva approvato l'adeguamento dello statuto e i relativi patti parasociali, in tal modo rendendo possibile l'affidamento diretto del servizio in favore della stessa in quanto società in house pluripartecipata anche dallo stesso Comune e in regime di controllo analogo congiunto.
Il Tar ha respinto il ricorso, ritenendo che il Comune aveva ampiamente ottemperato all'onere di motivazione imposto dall'articolo 192 del Dlgs n. 50 sui benefici della modalità di gestione in house prescelta, in termini di efficienza, economicità e qualità del servizio, nonché di ottimale impegno delle risorse pubbliche a beneficio della collettività.
La decisione
La sentenza di primo grado è stata impugnata e il Consiglio di Stato ha ritenuto necessario coinvolgere la Corte di giustizia dell'Unione europea, in quanto si è posto un duplice ordine di interrogativi. Il collegio dubita che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento, siano autenticamente compatibili con le disposizioni del diritto primario e derivato dell'Unione europea.
In particolare, l'articolo 192, comma 2, del codice degli appalti pubblici impone che l'affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale fra amministrazioni).
La prima condizione consiste nell'obbligo di motivare le condizioni che hanno comportato l'esclusione del ricorso al mercato. Condizione che muove dal carattere secondario e residuale dell'affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche, cui la società in house invece supplirebbe.
La seconda condizione consiste nell'obbligo di indicare, a quegli stessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all'opzione per l'affidamento in house. Anche in questo caso la previsione dell'ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regime di delegazione interorganica e li relega a un ambito subordinato ed eccezionale rispetto all’ipotesi di competizione mediante gara tra imprese.
La materia è di peculiare interesse e chi scrive rammenta che già nel novembre 2018, il Tar Liguria ha interpellato la Corte costituzionale sollevando questione di costituzionalità dell'articolo 192, comma 2 del codice dei contratti, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in house delle ragioni del mancato ricorso al mercato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.01.2019).

ATTI AMMINISTRATIVIDepositi tempestivi riferiti al giorno (e non all'ora).
Con l'entrata a regime del processo amministrativo telematico, gli atti in scadenza possono essere depositati con modalità telematica fino alle ore 24,00 dell'ultimo giorno utile, laddove nel regime del processo cartaceo il termine era stabilito alle ore 12,00.

Così si è pronunciato il TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 04.01.2019 n. 7.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, un ricorrente eccepiva la tardività della produzione documentale della p.a. resistente, poiché eseguita oltre le ore 12 dell'ultimo giorno utile ai sensi dell'art. 73 c.p.a.
Chiamato a pronunciarsi sul punto, il Tar rappresenta come la questione sia oggetto di un contrasto interpretativo, registrandosi pronunce secondo le quali il deposito effettuato oltre le ore 12,00 dell'ultimo giorno utile dovrebbe considerarsi eseguito il giorno successivo; ed altre, invece, secondo le quali la possibilità di eseguire il deposito telematico sarebbe sempre assicurata fino alle ore 24,00 dell'ultimo giorno utile, dovendosi il deposito telematico considerare perfezionato e tempestivo con riguardo al giorno senza rilevanza preclusiva con riguardo all'ora.
L'art. 4, comma 4, delle norme di attuazione del c.p.a., osserva il collegio, dispone che: «È assicurata la possibilità di depositare con modalità telematica gli atti in scadenza fino alle ore 24:00 dell'ultimo giorno consentito», precisando che «agli effetti dei termini a difesa e della fissazione delle udienze camerali e pubbliche il deposito degli atti e dei documenti in scadenza effettuato oltre le ore 12,00 dell'ultimo giorno consentito si considera effettuato il giorno successivo».
Ritiene il collegio che detta ultima precisazione, che fa slittare al giorno successivo i depositi effettuati oltre le ore 12,00, non riguarda la parte che esegue il deposito, ma le controparti, cui –nell'ipotesi di deposito telematico oltre le ore 12,00 in vista dell'udienza pubblica– garantisce il differimento della decorrenza dei termini per le eventuali repliche dal giorno successivo, a garanzia del loro diritto di difesa (articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019).
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MASSIMA
2. In via pregiudiziale, il ricorrente eccepisce la tardività della produzione documentale eseguita dal Comune di Signa oltre le ore 12.00 del 03.10.2018, ultimo giorno utile ai sensi dell’art. 73 c.p.a..
L’eccezione è infondata.
L’art. 4, co. 4, delle norme di attuazione del c.p.a. (allegato 2 del d.lgs. n. 104/2010) così stabilisce: “È assicurata la possibilità di depositare con modalità telematica gli atti in scadenza fino alle ore 24:00 dell'ultimo giorno consentito. Il deposito è tempestivo se entro le ore 24:00 del giorno di scadenza è generata la ricevuta di avvenuta accettazione, ove il deposito risulti, anche successivamente, andato a buon fine. Agli effetti dei termini a difesa e della fissazione delle udienze camerali e pubbliche il deposito degli atti e dei documenti in scadenza effettuato oltre le ore 12:00 dell'ultimo giorno consentito si considera effettuato il giorno successivo”.
La disposizione è oggetto in giurisprudenza di un contrasto interpretativo, registrandosi pronunce secondo le quali il deposito effettuato oltre le ore 12.00 dell’ultimo giorno utile ai fini del rispetto dei termini stabiliti dall’art. 73 c.p.a. dovrebbe considerarsi eseguito il giorno successivo, e sarebbe dunque tardivo (in questo senso, Cons. Stato, sez. III, 24.05.2018, n. 3136; C.G.A.R.S., sez. giurisd., 07.06.2018, n. 344); ed altre, secondo cui la possibilità di eseguire il deposito telematico sarebbe invece sempre assicurata fino alle ore 24.00 dell’ultimo giorno utile, dovendosi dunque il deposito telematico considerare perfezionato e tempestivo con riguardo al giorno senza rilevanza preclusiva con riguardo all'ora, mentre la previsione che fa slittare al giorno successivo i depositi effettuati oltre le ore 12.00 dell’ultimo giorno starebbe solo a significare che, per le controparti, i termini per contestare gli atti depositati oltre le 12.00 decorrono dal giorno successivo, a garanzia del loro diritto di difesa (così Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2018, n. 3309; id., sez. III, 06.08.2018, n. 4833).
Posto che l’esistenza stessa di così marcate –e ravvicinate– oscillazioni interpretative giustificherebbe di per sé la rimessione in termini del Comune resistente, ai sensi dell’art. 37 c.p.a.,
ad avviso del collegio è preferibile ritenere che, con l’entrata a regime del processo amministrativo telematico, gli atti in scadenza possano essere depositati con modalità telematica fino alle ore 24.00 dell’ultimo giorno, ai sensi del primo periodo del citato art. 4, co. 4 ,dell’allegato 2 al d.lgs. n. 104/2010, laddove nel regime del processo “cartaceo” il termine era stabilito alle ore 12.00 (si ricorda che la norma vigente è stata introdotta dal d.l. n. 168/2016, convertito con modificazioni in legge n. 197/2016).
La conferma se ne trae, a contrario, dalla previsione dettata dal precedente comma 2 del medesimo art. 4, che ha mantenuto fermo il termine delle ore 12.00 dell’ultimo giorno utile per i soli casi in cui il codice prevede il deposito di atti o documenti sino al giorno precedente la trattazione di una domanda in camera di consiglio; e che ben si coordina con il terzo periodo del comma 4 in questione, laddove prevede che il deposito telematico effettuato oltre le ore 12.00 si considera effettuato il giorno successivo ai fini della fissazione dell’udienza camerale.
Né la regola che permette il deposito telematico fino alle ore 24.00 dell’ultimo giorno utile è derogata dalla contestuale previsione che “agli effetti dei termini a difesa” sposta al giorno successivo i depositi effettuati oltre le 12.00. Questa non riguarda, infatti, la parte che esegue il deposito, ma le controparti, cui –nell’ipotesi di deposito telematico oltre le ore 12.00 in vista dell’udienza pubblica– garantisce il differimento della decorrenza dei termini per le eventuali repliche.
Nell’assetto attuale del processo telematico manca, in altri termini, la previsione di un obbligo di depositare entro le ore 12.00 in vista dell’udienza pubblica, in analogia a quanto sancito dal citato comma 2 dell’art. 4 per i depositi in vista della trattazione camerale già fissata. E del resto, come detto, l’espressione utilizzata dal legislatore per esplicitare le ragioni del differimento al giorno successivo degli effetti dei depositi effettuati oltre le ore 12.00 non appare riferibile alla parte depositante.

Si aggiunga che, nel caso in esame, il deposito documentale eseguito dal Comune di Signa risponde alla richiesta di chiarimenti formulata dal TAR con l’ordinanza cautelare del 12.12.2017, e risulta perciò necessario ai fini della decisione, senza peraltro che, al di là della formale proposizione dell’eccezione di tardività, il ricorrente abbia dimostrato di avere sofferto un qualche pregiudizio del proprio diritto di difesa (il signor Al. ha ampiamente replicato alle produzioni e alle difese comunali).

EDILIZIA PRIVATA: La sottoposizione di un immobile a sequestro penale non ne impedisce in assoluto la demolizione, sempre che il giudice penale lo consenta, incombendo pertanto sul destinatario dell’ordine di demolizione l’onere di attivarsi diligentemente a riguardo.
Invero, la sottoposizione a sequestro non determina la mancanza materiale e giuridica dell’oggetto del provvedimento, vale a dire dell’immobile da demolire, e neppure si traduce nell’imposizione di una condotta priva di fondamento positivo, che continua a rinvenirsi nel citato art. 31 d.P.R. n. 380/2001 e ad essere unicamente costituita dalla realizzazione di interventi edilizi privi di titolo; mentre le esigenze di tutela di cui intende farsi carico l’innovativo indirizzo giurisprudenziale del 2017 appaiono efficacemente tutelabili sul piano della momentanea inefficacia dell’ordine di demolizione quanto al decorso del termine per l’esecuzione, destinato a riattivarsi in via automatica con il venir meno del sequestro.

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3. Nel merito, con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la nullità dell’ordine di demolizione e ripristino pronunciato nei suoi confronti, trattandosi di opere già sottoposte a sequestro penale.
La censura si sostanzia nell’invocazione di una recente decisione del Consiglio di Stato, che, in consapevole dissenso dal prevalente orientamento della giurisprudenza, ha sostenuto che “l'ingiunzione che impone un obbligo di facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un immobile che è stato sottratto alla disponibilità del destinatario del comando (il quale, se eseguisse l'ordinanza, commetterebbe il reato di cui all'art. 334 c.p.), difetta di una condizione costituiva dell'ordine, e cioè, l'imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S., Sezioni Riunite, parere n. 1175 del 09.07.2013-20.11.2014, sull'affare n. 62/2013). In quest'ordine di idee, l'ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela, quindi, privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di diritto […] L'affermazione dell'eseguibilità dell'ingiunzione di demolizione di un bene sequestrato, per quanto tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza amministrativa, non può, infatti, essere convincentemente sostenuta sulla base dell'assunto della configurabilità di un dovere di collaborazione del responsabile dell'abuso, ai fini dell'ottenimento del dissequestro e della conseguente attuazione dell'ingiunzione” (Cons. Stato, sez. VI, 17.05.2017, n. 2337).
Allo stato, la tesi della nullità del provvedimento demolitorio adottato dall’autorità amministrativa in presenza di un sequestro penale non sembra tuttavia aver trovato stabile seguito, alla luce di successive decisioni che hanno riaffermato il principio in forza del quale la sottoposizione di un immobile a sequestro penale non ne impedisce in assoluto la demolizione, sempre che il giudice penale lo consenta, incombendo pertanto sul destinatario dell’ordine di demolizione l’onere di attivarsi diligentemente a riguardo (così Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2018, n. 2700); ovvero, hanno mostrato di condividere le affermazioni contenute nella pronuncia invocata dall’odierno ricorrente nei soli limiti in cui la pendenza del sequestro penale impedisce che l’ordine di demolizione produca i suoi effetti sino a quando il bene sequestrato non rientri nella disponibilità dell’interessato, con particolare riferimento alla decorrenza del termine di novanta giorni stabilito dall’art. 31, co. 3, del d.P.R. n. 380/2001 per l’esecuzione e, in difetto, per l’acquisto della proprietà del bene stesso da parte dell’amministrazione procedente (si veda Cons. Stato, sez. VI, 20.07.2018, n. 4418).
Come si vede, il rifiuto dell’idea che il proprietario del bene sia obbligato ad attivarsi presso il giudice penale onde eseguire l’ordine di demolizione non implica necessariamente il riconoscimento della nullità di quest’ultimo per mancanza di un elemento essenziale, ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241/1990.
D’altronde, la sottoposizione a sequestro non determina la mancanza materiale e giuridica dell’oggetto del provvedimento, vale a dire dell’immobile da demolire, e neppure si traduce nell’imposizione di una condotta priva di fondamento positivo, che continua a rinvenirsi nel citato art. 31 d.P.R. n. 380/2001 e ad essere unicamente costituita dalla realizzazione di interventi edilizi privi di titolo; mentre le esigenze di tutela di cui intende farsi carico l’innovativo indirizzo giurisprudenziale del 2017 appaiono efficacemente tutelabili sul piano della momentanea inefficacia dell’ordine di demolizione quanto al decorso del termine per l’esecuzione, destinato a riattivarsi in via automatica con il venir meno del sequestro (TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 04.01.2019 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICentrali di committenza, l'autonomia statale va sacrificata in nome della concorrenza.
Questa è la conclusione «forte» alla quale si arriva leggendo l'ordinanza 03.01.2019 n. 68 del Consiglio di Stato di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea nell'ambito della singolare causa che vede contrapposti l'Anac e l'Asmel società consortile a.r.l. di diritto privato.
Singolare è l'oggetto del contendere che ruota intorno al diniego dell'Anac di riconoscere al consorzio la qualifica di centrale di committenza da esercitarsi nel territorio italiano. Nell'occasione, il Consiglio di Stato dubita che sia conforme al diritto europeo la disciplina dell'articolo 33 del Dlgs 163/2006 (ex codice dei contratti pubblici) in materia di centrali di committenza.
Si chiede alla Corte Europea se osta al diritto comunitario ed ai principi di libera circolazione dei servizi e di tutela della concorrenza la norma di specie che limita l'autonomia dei Comuni nella gestione dei servizi di committenza a due soli modelli organizzativi (l'unione e il consorzio pubblico ), escludendo la possibilità di ricorrere ad altri modelli (per esempio consorzio di diritto comune con partecipazione di soggetti privati), nonché la possibilità di operare al di fuori del territorio dei comuni aderenti.
Attacco frontale all'autonomia istituzionale
Dunque, in nome del ritenuto effetto espansivo del principio di tutela della concorrenza, si tratta di un attacco frontale all'autonomia istituzionale e organizzativa garantita a favore degli Stati membri dell'Unione dall'articolo 5 del Trattato dell'Unione Europea (Tue).
Invero, non è nuovo il tema del rapporto conflittuale tra tutela della concorrenza, di competenza dell'Unione europea, e l'autonomia istituzionale riconosciuta ai singoli Stati membri.
La questione è stata affrontata più volte dalla Corte europea con l'arduo obiettivo di individuare un punto di equilibrio tra gli opposti interessi in gioco. Al riguardo, occorre tenere a mente che, nella ratio del Tue, gli Stati membri sottoscrittori, quali soggetti autodeterminati e quindi titolari originari di tutti i poteri, con l'articolo 5 del Trattato, hanno inteso riservare a se una competenza generale a fronte del rilascio all'Unione europea, soggetto da essi derivato, della delega eccezionale di specifiche materie tra le quali quella della tutela della concorrenza.
Perciò, la Corte di giustizia, pur valorizzando la tutela della concorrenza, ha concluso sempre fin dagli anni ‘70 per riconoscere una riserva di autonomia istituzionale a favore degli Stato membri (sent. CGCE, 13/05/1971, C-51/70). Dunque, gli Stati sono liberi di decidere e regolare se e come organizzare e gestire funzioni e servizi pubblici senza dover rendere conto al diritto comunitario fintanto che non sia prevista l'esternalizzazione degli stessi ricorrendo ad operatori economici esterni. Di qui, in ragione del diffusa plurisoggettività che caratterizza l'organizzazione della pubblica amministrazione degli Stati moderni, la questione del contendere si è spostata attorno ai concetti di esternalizzazione e di operatore economico.
Società in house providing
Esempio del primo aspetto è la giurisprudenza e la normativa che si è formata intorno al concetto di società in house providing (sentenza CGE 18/11/1999, C-107/98); nonché intorno al concetto di organismo di diritto pubblico ed ai necessari requisiti di influenza pubblica dominante e del perseguimento di interessi generali extra economici ovvero dell'operatività nell'ambito di un mercato non concorrenziale (sentenza CGCE, 03/10/2000, C-380/98; sentenza CGCE, 15/5/2003, C-214/00).
Esempio del secondo aspetto è la giurisprudenza che si è formata intorno agli accordi di cooperazione diretti tra enti pubblici (paternariato pubblico-pubblico) nell'esercizio di funzioni e servizi pubblici senza dover ricorrere alle regole dell'evidenza pubblica ed al mercato (sentenza CGE, 09/06/2009, C-480/06).
Giurisprudenza, quest'ultima che è stata recepita nelle direttive sui contratti di appalto e concessioni pubblici tanto in senso generale (articolo 18 della Direttiva n. 04/18/CE; art. 17 Dir. n. 2014/23/UE; articoli 10 e 17 Direttiva n. 2014/24/UE) quanto nella specifica materia delle centrali di committenza (artt. 1 e 10 Dir. n. 04/18/CE; articoli 2 e 37 Direttiva n. 2014/24/UE).
Quadro normativo europeo dal quale non sembra essersi discostato il legislatore italiano tanto meno nel disciplinare le centrali di committenza con l'articolo 33 del Dlgs n. 163/2006. Sotto questo profilo, l'ordinanza del Consiglio di Stato del 03.01.2019 n. 68 solleva più di una perplessità. Ma c'è di più. Al di la dell'esito che potrà sortire la richiesta del giudice italiano, si pone il problema della effettiva pregiudizialità della questione sollevata in riferimento al caso specifico.
Dagli atti di causa, infatti, emerge che la centrale di committenza, e quindi il relativo modello organizzativo, non sono stati oggetto di una volontaria iniziativa dei singoli Comuni aderenti (fatta eccezione per il Comune di Caggiano): nessun potere di controllo analogo o di influenza dominante è esercitato da questi ultimi. Inoltre, gli affidamenti del servizio di committenza da parte dei comuni al consorzio Asmel avvengono direttamente previa adesione all'associazione omonima, con una delibera di giunta, senza ricorrere ad alcuna procedura ad evidenza pubblica.
L'aggio dell'1,5%
A favore del consorzio Asmel, infine, è previsto un aggio del 1,5% calcolato sulla base di gara di ogni procedura gestita, imposto unilateralmente all'operatore aggiudicatario.
Aggio che può generare ingenti compensi (stando ai dati sulle gare effettuate risultanti dal provvedimento Anac impugnato) senza che sia dato sapere quale pubblica autorità l'abbia determinato su quali basi di costi del servizio e in ragione di quale disposizione normativa o amministrativa. Dunque, nel caso di specie, al di la della problematica del rispetto della normativa comunitaria e italiana in materia di tutela della concorrenza nell'affidamento dei servizi, si pone la questione della legittimità di prestazioni imposte agli operatori economici in violazione dell'articolo 23 della Costituzione.
Si pone, inoltre, la questione del rispetto della normativa europea in materia di divieto di aiuti di stato nell'ambito della remunerazione del servizio pubblico a rilevanza economica di committenza ovvero si pone il problema del rispetto del «pacchetto SIEG 2011-12» costituito dagli atti della Commissione europea (Comunicazione n. 2012/C 8/02; Decisioni n. 20/12/2011, n. 2012/21/UE e n. 2012/C n. 8/03; Regolamento 25/04/2012 n. 360/2012). Al riguardo, non è dato sapere dagli atti che si è potuto leggere se l'aggio dell'1,5% sia giustificato dalla copertura dei costi inerenti al servizio e di un utile ragionevole ovvero generi sovracompensazioni in violazione del divieto di aiuti di stato.
Questione che il Consiglio di Stato non può non affrontare anche d'ufficio (Consiglio di Stato, adunanza plenaria del 25.06.2018 n. 9; sentenze Corte Costituzionale 10.11.1994, n. 384 e 07.11.1995 n. 482) tanto più essendo giudice di ultima istanza soggetto al giudizio diretto della Corte di giustizia europea (Cge sentenza 13.06.2006 C-173/03) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.03.2019).

APPALTIAffidamento di servizi, «sistema Asmel» all'esame della Corte di giustizia europea.
La normativa italiana limiterebbe l'autonomia dei Comuni nell'affidamento a una centrale di committenza facendo ricorso a due soli modelli organizzativi (unione di Comuni e consorzio tra Comuni), escludendo la possibilità di costituire consorzi con privati e limitando l'operatività territoriale della centrale di committenza.

Sono le questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di giustizia Ue dal Consiglio di Stato con l'ordinanza 03.01.2019 n. 68, nel giudizio d'appello proposto dall'Asmel avverso la sentenza del Tar Lazio n. 2339/2016.
La vicenda
Si tratta dell'ennesima tappa della vicenda che ha coinvolto la società consortile Asmel, nata per aggregare gli appalti dei Comuni, da alcuni anni al centro di una intricata controversia.
La vicenda nasce nel 2013 da numerosi esposti, pervenuti all'Autorità guidata da Cantone, tra cui quello dell'Anacap (associazione nazionale aziende concessionarie entrate locali). Ad aprile 2015 l'Anac, con la delibera 32/2015, chiude un'articolata istruttoria e boccia in pieno il «sistema Asmel», non avendo i requisiti per essere un soggetto aggregatore.
A giugno 2015 il Tar Lazio, con l'ordinanza 2544/2015, conferma il provvedimento dell'Anac ma il Consiglio di Stato inverte la rotta sospendendo l'efficacia della delibera Anac, seppure limitatamente alle gare in corso e non anche a quelle nuove bandite dall'Asmel (ordinanze n. 4016/2015 e 5042/2015).
Tuttavia con sentenza n. 2339 del 2016, il Tar Lazio conferma in pieno la validità della delibera Anac circa la non conformità alla legge del modello Asmel, non riconducibile ad alcuno dei modelli legali di «soggetti aggregatori», stante la presenza nella compagine consortile di un'associazione di diritto privato, che resta tale anche se gli associati sono dei Comuni. Inoltre, non è possibile che una centrale di committenza svolga la propria attività oltre l'ambito provinciale di competenza ovvero sull'intero territorio nazionale.
Sul punto il Tar evidenzia che anche con riferimento al sistema oggi in vigore può affermarsi l'esistenza di limiti territoriali, per alcuni casi già definiti a livello di legislazione primaria (Consip e centrali di acquisto regionali) e altri rimessi a un Dpcm attuativo, anche al fine di evitare sovrapposizioni e interferenze di ruoli. In conclusione il Tar Lazio boccia il «sistema Asmel», in quanto eccentrico e non riconducibile ad alcuno dei modelli ammessi dalla legge.
Il rinvio alla Corte Ue
L'Asmel decide però di difendere in tutte le sedi, compresa la Corte di giustizia Ue, le proprie scelte associative e presenta appello al Consiglio di Stato, chiedendo il rinvio pregiudiziale previsto dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Richiesta che viene accolta dai giudici di Palazzo Spada i quali sottopongono alla Corte Ue tre quesiti circa la conformità con il diritto comunitario della normativa italiana nella parte in cui:
   1) limita l'autonomia dei Comuni nell'affidamento a una centrale di committenza facendo ricorso a due soli modelli organizzativi (unione di Comuni e consorzi tra Comuni);
   2) esclude i consorzi di diritto comune non consentendo la partecipazione anche di soggetti privati;
   3) prevede una limitazione territoriale della centrale di committenza che può operare al massimo nel suo ambito provinciale.
Ora la palla passa alla Corte di Lussemburgo che dovrà rispondere ai quesiti formulati dal Consiglio di Stato. Nel frattempo l'Asmel ha modificato il proprio statuto escludendo l'ipotesi che nella compagine sociale possano entrare anche soggetti privati. Resta comunque il fatto che per il Tar Lazio l'Asmel non è un organismo di diritto pubblico e non è possibile peraltro configurare un controllo dei piccoli Comuni che indirettamente vi partecipano (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.01.2019).

CONSIGLIERI COMUNALILa carica di consigliere comunale non dà diritto di accesso agli atti della magistratura contabile.
Non è sufficiente rivestire la carica di Consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso documentale ad atti, pur rivolti all’Ente rappresentato, delle Procure regionali della Corte dei conti, occorrendo dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare. Invero, la finalizzazione dell’accesso ai documenti in relazione all’espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 02.01.2019 n. 12.
Il caso
La vicenda trae origine dall’impugnazione dinnanzi al Tar, da parte di un Consigliere comunale in carica presso un Comune veneto, di un provvedimento del Comune con cui si negava l’accesso agli atti afferenti ad una richiesta inoltrata al Comune dalla Procura della Corte dei conti regionale, nonché alla successiva risposta dell’Amministrazione alla Procura.
L’istanza di accesso, spiegata nella sua qualità di Consigliere comunale, era giustificata in quanto utile all’espletamento del proprio mandato, poiché attinente a questioni che in ipotesi avrebbero potuto incidere, sotto il profilo finanziario, sulla corretta tenuta del bilancio dell’Ente. L’Amministrazione negava però l’accesso, eccependo tra l’altro l’assoggettamento degli atti richiesti a segreto istruttorio.
Il Tar respingeva il ricorso, sul presupposto –da un lato– che non fosse stato dimostrato l’effettivo interesse all’accesso, ossia un’esigenza collegata all’esame di questioni di bilancio o altre questioni poste all’ordine del giorno di una seduta del Consiglio e che comunque –dall’altro– la sussistenza dell’eccepito segreto istruttorio, atteso che la documentazione della quale era stata chiesta l’ostensione non riguardava un atto prodotto nell’esercizio delle competente proprie dell’Amministrazione comunale, bensì una documentazione proveniente dalla Procura della Corte dei conti afferente ad un’indagine promossa dalla stessa Procura.
Il Consiglio di Stato, adito in seconde cure, rigettava anch’esso il ricorso, ha affermato che non sia sufficiente rivestire la carica di consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, occorrendo dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
In tal guisa, infatti, la finalizzazione dell’accesso ai documenti in relazione all’espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
La decisione
Come visto, il Consiglio di Stato parte dall’assunto per cui la carica di Consigliere comunale non attribuisca al singolo Consigliere un generale diritto di accesso agli atti, anche interni, formati dall’Amministrazione o comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa in ragione del sol fatto di rivestire detta carica istituzionale; bensì, strumentalmente, lo riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di cui fa parte.
Detto in altri termini, non appare sufficiente rivestire la carica di Consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
Il Collegio, infatti, fa notare come la finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
Partendo da questi presupposti, la richiesta, nel caso di specie, non aveva ad oggetto degli atti interni dell’Amministrazione comunale (ovvero da questi utilizzati ai fini dello svolgimento della propria attività istituzionale), bensì una nota della Procura regionale della Corte dei conti con la quale venivano chiesti all’Amministrazione alcuni riscontri nell’ambito di uno specifico procedimento istruttorio. Pertanto, la documentazione richiesta atteneva ad un procedimento aperto dalla magistratura contabile, ancorché tale indagine fosse collegata ad una determinata attività dell’Ente territoriale.
Nella vicenda de qua, dunque, fuoriusciva dal perimetro di applicazione dell’art. 43 Tuel (il cui secondo comma recita testualmente: «I Consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del Comune e della Provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge»). Di guisa che, nel caso di specie, le eccezionali prerogative riconosciute da tale norma ai Consiglieri comunali erano da considerarsi inapplicabili, tanto più a fronte di previsioni di legge che prevedessero invece un regime speciale di segretezza o riservatezza, nell’interesse generale o di terzi.
Conclusioni
Nel rigettare il ricorso, dunque, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, nel caso di specie, il regime speciale di segretezza, fosse rinvenibile nelle disposizioni del Dlgs 26.08.2016, n. 174 (Codice della giustizia contabile) che disciplina –nell’ambito delle attività di indagine della Procura contabile– le ipotesi di accesso al fascicolo istruttorio (articolo 71), la riservatezza della fase istruttoria (articolo 57) e le comunicazioni dell’archiviazione dei procedimenti istruttori (articolo 69).
Nel primo caso, in particolare, solamente il destinatario dell'invito a dedurre ha diritto di visionare e di estrarre copia di tutti documenti inseriti nel fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria della Procura regionale.
Alla luce di tali disposizioni, il Collegio ha concluso che la possibilità dell’accesso alla documentazione istruttoria è riservata ai soli soggetti interessati dall’attività inquirente (in particolare, quelli invitati a dedurre), nel rispetto dei principi del Dlgs 30.06.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e ciò all’evidente fine di evitare che la gestione della documentazione contenuta nel fascicolo istruttorio possa in concreto comportare nocumento alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli accertamenti.
Alla luce di quanto precede il Consiglio di Stato ha ritenuto corretta la conclusione del primo Giudice, secondo cui alla vicenda per cui è causa doveva applicarsi la disciplina generale sull’accesso agli atti di cui alla legge 07.08.1990, n. 241; in particolare, veniva in considerazione l’articolo 24, comma 1, di tale legge, per cui gli atti in esame dovevano rimanere riservati, non avendo l’istante addotto alcuna esigenza di difendere i propri interessi giuridici, in forza del comma 7 dello stesso articolo 24 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.02.2019).
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Ad un complessivo esame degli atti di causa, il Collegio ritiene che il gravame non sia fondato.
Con il primo motivo viene eccepita la contraddizione, da parte della sentenza impugnata, della ratio sottesa al diritto di accesso agli atti di cui sono titolari i consiglieri comunali, ai sensi dell’art. 43 Tuel, ai quali non potrebbe essere negato l’accesso utile all’esercizio del mandato, durante il cui espletamento sarebbero peraltro vincolati al segreto d’ufficio.
Per l’effetto, l’odierno appellante non sarebbe stato gravato da alcun onere motivazionale in occasione della proposizione di istanza di accesso, anche alla luce degli artt. 52 e 54 del Regolamento per la disciplina dei procedimenti amministrativi e per il diritto di accesso ai documenti del Comune di Cassola, vigente all’epoca dei fatti, in applicazione dei quali era legittimamente consentito allo stesso richiedere la documentazione ritenuta “utile” all’espletamento delle proprie funzioni.
L’art. 52, in particolare, prevedeva che “I consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici e dagli enti e aziende dipendenti dal Comune tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, nello stato in cui sono disponibili, utili all'espletamento del mandato”, laddove il primo comma dell’art. 54 (“Accesso agli atti riservati”) stabiliva che “Non può essere inibito ai consiglieri l’esercizio del diritto di accesso agli atti interni di cui all’art. 41, ai documenti dichiarati riservati e agli atti preparatori di cui all’art. 45”.
Per contro, nessuna rilevanza poteva attribuirsi, nel caso di specie, alle norme del nuovo Codice di giustizia contabile richiamate in sentenza (artt. 71, 57 e 69 del d.lgs. n. 174 del 2016), così come all’art. 24 della l. n. 241 del 1990, giacché –richiamando il precedente della Sezione 11 dicembre 2013, n. 5931– con riferimento all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale esigenza sarebbe salvaguardata dall'art. 43 comma 2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
Né sussistevano, nel caso di specie, esigenze di riservatezza istruttoria, dal momento che il fascicolo della Corte dei Conti indicato dall’appellante nella richiesta di accesso era già stato archiviato.
Il motivo non è fondato.
Va in primo luogo considerato, come del resto fatto dal primo giudice, che il richiamato art. 52 del Regolamento per la disciplina dei procedimenti amministrativi e per il diritto di accesso non attribuisce al singolo consigliere comunale un generale diritto di accesso in ragione del sol fatto di rivestire detta carica istituzionale, bensì, strumentalmente, lo riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di cui fa parte.
Detto in altri termini,
non appare sufficiente rivestire la carica di consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
Del resto, la finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del consigliere (Cons. Stato, V, 26.09.2000, n. 5109).
Il diritto di accesso di cui trattasi, comunque, riguarda esclusivamente gli “atti, anche interni, formati dall’amministrazione o comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa” (art. 31, comma 2, del Regolamento cit.), non essendo previste specifiche deroghe per i consiglieri comunali (comma 4).
Ciò premesso, la richiesta a suo tempo inoltrata dall’odierno appellante non aveva ad oggetto degli atti interni dell’amministrazione comunale (ovvero da questi utilizzati ai fini dello svolgimento della propria attività istituzionale), bensì, innanzitutto, una nota della Procura regionale della Corte dei Conti con la quale venivano chiesti all’amministrazione alcuni riscontri nell’ambito di uno specifico procedimento istruttorio. In breve, la documentazione richiesta, come ben sintetizzato in sentenza, atteneva ad un procedimento aperto dalla magistratura contabile, ancorché tale indagine fosse collegata ad una determinata attività dell’Ente territoriale.
La vicenda per cui è causa, dunque, fuoriusciva dal perimetro di applicazione dell’art. 52 del citato Regolamento comunale (e, più in generale, dall’art. 43 Tuel), con l’effetto che le eccezionali prerogative riconosciute da tale norma ai consiglieri comunali dovevano considerarsi inapplicabili, tanto più a fronte di previsioni di legge che prevedessero invece un regime speciale di segretezza o riservatezza, nell’interesse generale o di terzi.
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, un regime di tale natura, avente tra l’altro carattere speciale, sia rinvenibile nelle disposizioni del d.lgs 26.08.2016, n. 174 (Codice della giustizia contabile) che disciplinano –nell’ambito delle attività di indagine della Procura contabile– le ipotesi di accesso al fascicolo istruttorio (art. 71), la riservatezza della fase istruttoria (art. 57) e le comunicazioni dell’archiviazione dei procedimenti istruttori (art. 69).
Nel primo caso, in particolare, solamente il destinatario dell'invito a dedurre ha diritto di visionare e di estrarre copia di tutti documenti inseriti nel fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria della procura regionale, previa presentazione di domanda scritta, salva comunque la tutela della riservatezza di cui all’articolo 52, comma 1 (relativa all’obbligo di segretezza delle generalità del pubblico dipendente denunziante).
Alla luce di tali disposizioni, come ben nota il giudice di prime cure, deve concludersi che la possibilità dell’accesso alla documentazione istruttoria è riservata ai soli soggetti interessati dall’attività inquirente (in particolare, quelli invitati a dedurre), nel rispetto dei principi del d.lgs. 30.06.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e ciò all’evidente fine di evitare che la gestione della documentazione contenuta nel fascicolo istruttorio possa in concreto comportare nocumento alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli accertamenti; del resto, ad ulteriormente ribadire tale esigenza, lo stesso provvedimento di archiviazione viene inoltrato solamente a chi abbia assunto formalmente la veste di “invitato a dedurre” (ex art. 69, comma 4, d.lgs. n. 174 del 2016), dovendo in linea di principio rimanere ignoto ai terzi.
Tale ultimo rilievo vale anche a smentire l’eccezione di parte appellante, secondo cui nessuna esigenza di riservatezza avrebbe più potuto essere opposta, dal momento che il fascicolo della Corte dei Conti indicato nella richiesta di accesso era stato archiviato.
Alla luce di quanto precede appare dunque corretta la conclusione del primo giudice, secondo cui alla vicenda per cui è causa doveva applicarsi la disciplina generale sull’accesso agli atti di cui alla legge 07.08.1990, n. 241; in particolare, veniva in considerazione l’art. 24, comma 1, di tale legge, per cui gli atti in esame dovevano rimanere riservati, non avendo l’istante addotto alcuna esigenza di difendere i propri interessi giuridici, in forza del comma 7 dello stesso art. 24.

APPALTI SERVIZIContratti, ammessi i mini-scostamenti. Lo ha sancito il Tar della Toscana.
Non è ammessa la rinegoziabilità dei contratti della p.a., ma possono al massimo essere ammessi piccoli scostamenti rispetto al prezzo convenuto.
Lo ha sancito il TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 29.12.2018 n. 1696.
Una società di assicurazioni si era aggiudicata la gara indetta dalla Regione Toscana per l'affidamento del servizio di brokeraggio a favore di tutte le amministrazioni presenti sul territorio regionale, comprese le aziende sanitarie e ospedaliere, le quali avevano la facoltà di aderirvi.
La società vincitrice aveva, poi, ripetutamente segnalato la possibilità per tutte le aziende sanitarie di aderire a questa nuova convenzione, usufruendo di condizioni vantaggiose e di un cospicuo risparmio rispetto al contratto in essere con un'altra compagnia assicurativa, che sarebbe scaduto a breve. Tuttavia le sollecitazioni non avevano avuto alcun seguito ma, anzi, veniva comunicata la scelta di procedere al rinnovo del precedente contratto. La società aggiudicataria aveva così impugnato tale decisione, dal momento che il rinnovo era illegittimo perché disposto all'esito di una vera e propria rinegoziazione delle condizioni contrattuali in modo da renderle di fatto sovrapponibili a quelle, molto più convenienti, previste dalla convenzione regionale.
Il Tar ha accolto il ricorso. Dalla documentazione prodotta dalle parti è pacifico che al rinnovo contrattuale, contestato dalla società ricorrente, le aziende sanitarie sono giunte solo dopo aver rinegoziato le originarie condizioni economiche dell'affidamento, ottenendo il duplice impegno del broker a garantire una diminuzione dei premi assicurativi sulle polizze in corso e sui relativi rinnovi e, per il futuro, a praticare sulle nuove polizze provvigioni equivalenti a quelle previste dalla convenzione regionale.
Non vi è dubbio che si sia trattato, come correttamente sostenuto dalla società ricorrente, di un affidamento diretto, scelta illegittima e non consentita: le aziende ospedaliere avrebbero potuto, semmai, rinnovare il contratto alle stesse condizioni originariamente pattuite.
I giudici amministrativi rilevano come, in linea generale, deve ritenersi non ammessa la rinegoziabilità di contratti aggiudicati all'esito di procedure aperte, perché in violazione del principio concorrenziale. L'unica ipotesi ammessa è quella di contratti nei quali vengono concordati con l'aggiudicatario degli scostamenti rispetto al prezzo offerto in gara, tali da non dare luogo a un affidamento nuovo e diverso
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.01.2019).

APPALTIOmissioni e bugie pari sono. La dichiarazione veritiera è a tutela della trasparenza. APPALTI/ Il Consiglio di stato accoglie le tesi dell’Authorià nazionale anticorruzione.
L'omissione di un obbligo dichiarativo palese nella sostanza integra una dichiarazione mendace, tanto più ove si consideri, come rilevato dall'Anac, l'Authority anticorruzione, che la stessa inscindibilmente si accompagna a una dichiarazione consapevolmente incompleta circa il possesso dei requisiti di cui all'art. 38, comma 1, del dlgs n. 163/2006, resa dal procuratore speciale della società in sede di dichiarazione sostitutiva ai fini della partecipazione alla gara. Inoltre, la completezza e veridicità della dichiarazione sostitutiva di notorietà sui requisiti per la partecipazione all'evidenza pubblica sono a tutela dell'interesse pubblico alla trasparenza e, al tempo stesso, alla semplificazione della procedura di gara, rappresentando due aspetti complementari ed inscindibili della stessa.
È questo il passaggio fondamentale della motivazione con la quale il Consiglio di Stato - Sez. V (sentenza 27.12.2018 n. 7271) ha accolto il ricorso presentato da Anac nei confronti di una sentenza del Tar Lazio con la quale era stata bloccata la delibera Anac sul presupposto che la norma che fonda il potere sanzionatorio di cui al provvedimento impugnato facesse espresso riferimento al caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione e non anche a quello di mera omissione di dichiarazione o documentazione.
Secondo il Consiglio di stato, sono diverse le conseguenze sanzionatorie se l'operatore economico presenti false dichiarazioni o falsa documentazione nel corso della procedura. Tra le ipotesi più dibattute di falsità vi è certamente quella che investe la dichiarazione di assenza di condanne penali per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale. Il Consiglio ha affrontato il tema se le parole previste dalla norma (presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione) siano riferibili unicamente ad un ipotetico comportamento attivo dell'operatore oppure ascrivibili anche nel caso di un comportamento omissivo.
L'espressione «presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione» di cui all'art. 38, comma 1-ter, del dlgs n. 163/2006 ricomprende non solamente l'ipotesi del falso commissivo tradizionalmente inteso, ma pure quella del falso c.d. omissivo, laddove la mancata dichiarazione, in virtù della consapevolezza dell'omissione da parte del soggetto tenuto a renderla, sia idonea ad indurre in errore la stazione appaltante circa il possesso, da parte del dichiarante medesimo, dei requisiti di ordine generale di cui all'art. 38, comma 1, del medesimo decreto o, comunque, a precluderle una rappresentazione genuina e completa della realtà.
Tale omissione comporta la non corrispondenza al vero della dichiarazione resa dalla concorrente e, pertanto, un'ipotesi di dichiarazione/documentazione non veritiera sulle condizioni rilevanti per la partecipazione alla gara
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2019).
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MASSIMA
Il motivo è fondato, nei termini che di seguito si precisano.
La fattispecie omissiva attualmente in esame è analoga a quella già scrutinata dalla IV Sezione di questo Consiglio con sentenza 26.05.2014, n. 4305, laddove veniva chiaramente evidenziata “la natura imperativa dell’obbligo dichiarativo in capo anche ai procuratori speciali muniti di tali poteri rappresentativi da potersi considerare veri e propri amministratori della società, ai sensi e per gli effetti dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, la cui efficacia cogente si estende anche a tali figure, per quanto non espressamente contemplate dalla disposizione, per le ragioni ben chiarite dall’Adunanza Plenaria nelle sentenze n. 23 del 2013 e n. 9 del 2014, con conseguente esclusione, per i rilevanti interessi in gioco, dei concorrenti che abbiano omesso di presentare le dichiarazioni di cui all’art. 38 relative alla moralità professionale di tali soggetti”.
Ritiene il Collegio che l’omissione di un obbligo dichiarativo così palese nella sostanza integri, con ogni evidenza, una dichiarazione mendace, tanto più ove si consideri –come rilevato dall’Anac– che la stessa inscindibilmente si accompagnava ad una dichiarazione consapevolmente incompleta circa il possesso dei requisiti di cui all’art. 38, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, resa dal procuratore speciale della società in sede di dichiarazione sostitutiva ai fini della partecipazione alla gara.
Come ricordato da pacifico insegnamento giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, V, 29.04.2016, n. 1641; VI, 02.07.2014, n. 3336),
completezza e veridicità della dichiarazione sostitutiva di notorietà sui requisiti per la partecipazione all’evidenza pubblica sono posti a tutela dell’interesse pubblico alla trasparenza e, al tempo stesso, alla semplificazione della procedura di gara, rappresentando due aspetti complementari ed inscindibili della stessa.
Per l’effetto, deve concludersi che in materia di partecipazione alle gare pubbliche d’appalto, una tale consapevole “omissione” non può essere distinta, quanto agli effetti distorsivi nei confronti della stazione appaltante che la disposizione in esame (l’art. 38, comma 1-ter del d.lgs. n. 163 del 2006) mira a prevenire e reprimere, dalla tradizionale forma di mendacio commissivo.

Invero (ex multis, Cons. Stato, IV, 08.06.2017, n. 2771),
nelle procedure di evidenza pubblica l’incompletezza delle dichiarazioni lede di per sé il principio di buon andamento dell'amministrazione, inficiando ex ante la possibilità di una non solo celere ma soprattutto affidabile decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara; una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o incompleta, è già di per sé stessa lesiva degli interessi tutelati, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti o no di partecipare alla procedura competitiva; peraltro l'omessa dichiarazione ha il grave effetto di non consentire proprio all'Amministrazione una valutazione ex ante.
Alla luce di quanto precede,
ritiene quindi il Collegio che l’espressione “presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione” di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 ricomprenda non solamente l’ipotesi del falso “commissivo” tradizionalmente inteso, ma pure quella del falso cd. “omissivo”, laddove la mancata dichiarazione, in virtù della consapevolezza dell’omissione da parte del soggetto tenuto a renderla, sia idonea ad indurre in errore la stazione appaltante circa il possesso, da parte del dichiarante medesimo, dei requisiti di ordine generale di cui all’art. 38, comma 1, del medesimo decreto o, comunque, a precluderle una rappresentazione genuina e completa della realtà.
Una tale omissione, infatti, comporta la non corrispondenza al vero della dichiarazione resa dalla concorrente e, pertanto, un’ipotesi di dichiarazione/documentazione non veritiera sulle condizioni rilevanti per la partecipazione alla gara.

In questi termini, non è decisiva –ai fini dell’integrazione o meno dei presupposti di cui all’art. 38, comma 1-ter cit.– la circostanza che a carico della procuratrice coinvolta in concreto non risultasse poi alcun precedente penale (e che quindi non risultassero eventuali condizioni ostative rispetto ai requisiti richiesti dall’art. 38): la condotta sanzionata, infatti, nulla aveva a che fare con l’esistenza o meno di precedenti penali in capo ai soggetti tenuti a rendere la dichiarazione di cui trattasi, attenendo al (diverso) fatto storico della mancata dichiarazione sul possesso dei requisiti di cui all’art. 38, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 da parte di uno dei soggetti a ciò tenuti secondo la lett. c) del medesimo articolo.
Neppure può configurarsi, nel caso di specie, un’ipotesi di “falso innocuo” –in conformità, tra l’altro, a quanto già accertato dal precedente di Cons. Stato, III, 27.10.2017, n. 4514, relativo proprio alla vicenda di gara di cui si tratta e dal quale non vi è ragione di discostarsi– dal momento che “
nell’ipotesi di mancata dichiarazione di precedenti penali non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione (Cons. St., sez. V, 27.12.2013, n. 6271; Cons. St., sez. III, 05.10.2016, n. 4118), come nel caso di specie per tutte le ragioni vedute, esulando del resto la vicenda qui esaminata dall’ipotesi in cui la dichiarazione sia resa dal concorrente sulla base di modelli predisposti dalla stazione appaltante e questi sia indotto in errore dalla formulazione ambigua o equivoca del bando (Cons. St., sez, III, 04.02.2014, n. 507) […]”.

PUBBLICO IMPIEGOL'ispettore che fuma spinelli dice addio al posto di lavoro.
L'utilizzo prolungato e documentato di sostanze stupefacenti da parte di un ispettore della polizia di stato determina la sanzione disciplinare di non idoneità permanente ai servizi di istituto.

Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 05.12.2018 n. 6892.
Un ispettore di polizia è stato valutato dalla commissione medica interforze come un consumatore abituale di cannabis e per questo sanzionato con l'allontanamento forzato dai ruoli operativi. Contro questa decisione l'interessato ha proposto censure ma senza successo. In sede d'appello infatti il collegio ha evidenziato la legittimità delle determinazioni assunte in sede disciplinare.
Ai fini dell'applicazione della sanzione, specifica la sentenza, risulta importante aver individuato un uso non terapeutico di sostanze stupefacenti per un periodo prolungato. Non importa la quantità di valori accertati.
Quello che rileva è che i residui di sostanze sono tali da escludere il semplice fumo passivo e pertanto le decisioni della commissione medica non possono essere smentite da una consulenza tecnica. Anche perché la commissione ha ampio potere tecnico discrezionale in materia (articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019).

EDILIZIA PRIVATAModifica ai luoghi autorizzata. Basta l’inerzia colposa del soggetto a configurare reato. Una rassegna di alcune decisioni della Corte di cassazione in materia ambientale.
Le modifiche alla situazione dei luoghi debbono essere oggetto di apposita autorizzazione e comunque effettuate conformemente alle prescrizioni di legge o regolamentari pena l'applicazione di sanzioni penali apposite.
Questo è il principio posto attraverso numerosi provvedimenti legislativi dal cui esame si evince che, al fine di potere ritenere che legittima l'esecuzione di un'opera essa deve essere effettuata secondo certe modalità e sotto le verifiche dell'amministrazione. La prassi dei tribunali si concentra assai spesso sulle figure di reato collegate a questa particolare tutela.
La Corte di Cassazione enuncia una serie di principi sul punto dell'applicabilità delle sanzioni penali e delle loro modalità di esecuzione.
Si segnala, ad esempio una recente sentenza della corte (07.11.2018 n. 50138) la quale considera l'aspetto dell'oggetto della condotta del reato di cui all'art. 44 del dpr 380/2001, il quale viene delineato in modo piuttosto esteso dato che esso può consistere non solo nella realizzazione della condotta ma anche in una semplice modifica di altre già esistenti.
La normativa prevede che a seguito dell'accertamento di reati urbanistici, debba essere emesso un ordine che impone la demolizione del manufatto abusivo: di tale aspetto, si sono occupati i giudici della Cassazione, valutandolo come un provvedimento la cui efficacia permanga nell'ordinamento senza potere essere oggetto di prescrizione (sentenza 29.11.2018 n. 53661) e che dalla sua esecuzione, da parte del reo, dipenda l'effettiva applicazione della sospensione condizionale della pena, la quale, nel caso di mancata ottemperanza perde la propria efficacia (sentenza n. 25930/2018).
Per quel che riguarda invece l'elemento psicologico, che deve caratterizzare la condotta del reo, la Cassazione ritiene sufficiente la sola colpa, che si configura nel caso di specie, nell'inerzia del reo, il quale prima di intraprendere l'esecuzione dell'opera non abbia assunto le necessarie informazioni dall'amministrazione circa lo stato del luogo ove doveva essere svolta l'opera. Non viene considerato necessario il dolo, ovvero la consapevolezza da parte dell'agente della presenza del divieto (sentenza n. 41225/2018)
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2018).

APPALTI: Gara non aggiudicata, motivare convenienza. In relazione al futuro contratto.
La facoltà di non aggiudicare un appalto va esercitata in relazione a un giudizio di convenienza, motivato, sul futuro contratto.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 27.11.2018 n. 6725 in merito alla non aggiudicazione di una gara. I giudici hanno richiamato innanzitutto l'articolo 95, comma 12, del codice del 2016 (decreto n. 50) che attribuisce alla stazione appaltante, e non alla commissione giudicatrice, nota la sentenza, la facoltà di non aggiudicare la gara quando nessuna offerta sia ritenuta, a giudizio discrezionale dell'amministrazione «conveniente o idonea».
L'unica condizione che pone la norma è che questa facoltà sia indicata espressamente nel bando di gara o nella lettera d'invito. Il codice, dicono i giudici, non ha previsto quanto già era stabilito nel decreto 163/2006 e cioè (art. 55, comma 4) l'automatismo della non aggiudicazione in caso di una sola offerta valida.
La sentenza affronta quindi l'argomento principale del ricorso affermando «ciò nondimeno non appaiono sussistere ostacoli all'applicazione dell'art. 95, comma 12, anche in caso di unica offerta, purché ricorrano i presupposti ivi previsti, che consentono il rispetto dei parametri comunitari come richiesto dalla Corte di giustizia in caso di decisione di non aggiudicazione all'unico concorrente rimasto in gara: cfr. Corte giust. Ue, 11.12.2014, n. 440-13».
Quindi, se la facoltà di non aggiudicazione rientra nei poteri discrezionali della stazione appaltante e la decisione è conseguenza di un apprezzamento di merito riservato a quest'ultima, di conseguenza la decisione non può che essere sindacabile in sede giurisdizionale nei limiti in cui sia manifestamente illogico o viziato da travisamento dei fatti.
La valutazione, dicono i giudici, deve essere compiuta nei termini di un giudizio di convenienza (adeguatamente motivato, ndr) sul futuro contratto, che «consegue, tra l'altro, ad apprezzamenti sull'inopportunità economica del rapporto negoziale per specifiche e obiettive ragioni di interesse pubblico ed anche alla luce, se del caso, di una generale riconsiderazione dell'appalto, nell'esercizio ampi di poteri in funzione di controllo, non condizionati, quindi, dalle valutazioni tecniche del seggio di gara»
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2018).

APPALTIGare, consorziata senza requisiti è sostituibile. Cooperative di produzione e lavoro.
È illegittimo escludere da una gara un consorzio di produzione e lavoro se una consorziata perde i requisiti; è sufficiente la sua sostituzione con altra impresa consorziata e la perdita dei requisiti è irrilevante per il consorzio.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.11.2018 n. 6632 che ha analizzato la fattispecie in cui una società consorziata appartenente ad un consorzio di cooperative di produzione e lavoro era stata posta in liquidazione coatta amministrativa. La stazione appaltante aveva disposto l'esclusione dalla gara del consorzio e degli altri soggetti raggruppati, ma il consorzio aveva promosso ricorso.
Respinto in primo grado, in appello i giudici hanno dato ragione al consorzio premettendo che i consorzi di cui alla legge 422 del 1909 «sono soggetti giuridici a se stanti distinti, dal punto di vista organizzativo e giuridico, dalle cooperative consorziate che ne fanno parte. Infatti partecipano alla procedura di gara utilizzando requisiti loro propri, e, nell'ambito di questi, facendo valere i mezzi nella disponibilità delle cooperative che costituiscono articolazioni organiche del soggetto collettivo».
Pertanto, in virtù di questo rapporto, l'attività compiuta dalle consorziate è imputata unicamente al consorzio, così come il concorrente è solo il consorzio, mentre non assumono tale veste le sue consorziate, nemmeno quella designata per l'esecuzione della commessa. Da ciò consegue che l'impresa che esegue la commessa all'occorrenza può sempre essere estromessa o sostituita senza che ciò si rifletta sul rapporto esterno tra consorzio concorrente e stazione appaltante.
Inoltre, dicono i giudici, la circostanza che anche la consorziata indicata quale esecutrice debba dichiarare il possesso dei requisiti di partecipazione di ordine generale (oltre che speciale), non è idonea a giustificare una diversa conclusione, atteso che il detto possesso è richiesto al solo fine di evitare che soggetti non titolati possono eseguire la prestazione. Quindi la perdita dei requisiti da parte della consorziata esecutrice (sottoposta nel caso di specie a liquidazione) comporta semplicemente l'onere di estrometterla o sostituirla con altra consorziata, ma non incide sul possesso dei requisiti di partecipazione del consorzio concorrente
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2018).

TRIBUTIAvvisi di accertamento con firma a stampa.
Gli avvisi di accertamento emanati dagli enti locali possono essere sottoscritti con la firma a stampa del funzionario responsabile e hanno la stessa validità di quelli sottoscritti con firma autografa. Per la validità degli atti di accertamento è richiesto che gli stessi siano emessi da sistemi automatizzati. La firma a stampa deve essere autorizzata con provvedimento di livello dirigenziale, i cui estremi devono essere riportati negli atti impositivi. Non c'è alcun motivo per escludere che la firma a stampa possa essere apposta anche sugli atti emanati dai concessionari, autorizzata con un apposito atto adottato dalla società affidataria. Non serve alcun provvedimento se gli atti vengono sottoscritti dal legale rappresentante, perché non c'è una delega di funzioni.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, con la sentenza 21.11.2018 n. 30050.
La questione della firma degli atti impositivi viene spesso sollevata dai contribuenti e ha creato tanto contenzioso. Per i giudici di piazza Cavour, la firma autografa prevista dalle norme che disciplinano i tributi regionali e locali sugli atti di liquidazione e accertamento può essere sostituita dall'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, nel caso in cui siano prodotti da sistemi informativi automatizzati.
Hanno chiarito che la disposizione che consente la firma a stampa, vale a dire l'articolo 1, comma 87, della legge 549/1995, è una «norma speciale, non abrogata, la quale, pertanto, conserva la sua efficacia», purché il nominativo del funzionario responsabile venga individuato con un provvedimento di livello dirigenziale. Questa regola si applica «non solo nel caso di gestione diretta, ma anche nel caso di gestione in concessione della potestà impositiva».
Infatti, nonostante ex lege il richiesto provvedimento di livello dirigenziale si riferisca a un atto della pubblica amministrazione, secondo la Cassazione, lo stesso principio vale nel caso in cui l'imposta sia gestita da un concessionario. In questo caso sugli atti la firma autografa può essere sostituita dall'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, «purché tale nominativo, nonché la fonte dei dati, risultino indicati in un apposito atto sottoscritto dal concessionario (o da altro soggetto che da questi abbia ricevuto il relativo potere)».
All'atto del concessionario deve essere riconosciuta la stessa funzione assolta nelle ipotesi di gestione diretta dell'imposta da parte dell'ente pubblico. Non è richiesta una nomina ad hoc, però, qualora il legale rappresentante della società concessionaria abbia «mantenuto la responsabilità direttamente su di sé» della relativa procedura automatizzata (articolo ItaliaOggi del 07.12.2018).

APPALTIAppalti, nei subentri serve un piano di compatibilità. Parere Cds contrario alle linee guida Anac sulle clausole sociali.
Quando un'impresa subentra a un'altra in un contratto di appalto, l'appaltatore uscente deve mettere a disposizione, in modo completo e trasparente, le informazioni sul costo del personale; è sempre necessario predisporre un «piano di compatibilità» o un «progetto di assorbimento».
Sono queste alcune delle indicazioni che fornisce all'Anac il Consiglio di Stato, parere 21.11.2018 n. 2703, rispetto alle linee guida (non vincolanti) in materia di clausole sociali, previste dall'art. 50 del codice dei contratti pubblici, messe in consultazione prima dell'estate scorsa.
Si tratta delle linee guida sugli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera (più del 50% dell'importo del contratto), per promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato; per questi casi si prevede l'applicazione da parte dell'aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all'articolo 51 del decreto legislativo 15.06.2015, n. 81.
Con il parere, di carattere «semplicemente interpretativo», i magistrati della sezione consultiva premettono di non condividere la scelta compiuta dall'Anac di trattare nelle linee guida le «clausole sociali» e le «clausole sociali diverse» perché «solleverebbero problematiche a sé stanti, il cui rilievo richiederebbe, se mai, di predisporre linee guida ad esse specificamente dedicate». Da qui la richiesta di espungere dalla bozza l'intero capitolo 6 intitolato «le clausole sociali diverse dal riassorbimento del personale» e di mantenere soltanto il rinvio generale alla loro liceità e possibilità.
Nel merito, il parere ha precisato innanzitutto che occorre eliminare «l'asimmetria informativa fra i potenziali imprenditori entranti, l'imprenditore entrante e l'imprenditore uscente, che è titolare, nell'ambito che interessa, di una posizione dominante, o comunque di vantaggio informativo». L'obiettivo è mettere in condizione il concorrente di essere nella stessa condizione dell'appaltatore uscente cosicché il primo possa formulare una «offerta sostenibile».
Se poi l'impresa uscente non mettesse a disposizione (anche tramite la stazione appaltante) tutte le informazioni questo comportamento potrebbe costituire anche «grave errore professionale». Ottenute le informazioni il Consiglio di stato ha prescritto che i concorrenti predispongano un «piano di compatibilità o progetto di assorbimento» dal quale si evinca come «concretamente l'offerente intenda rispettare la clausola sociale, o, detto altrimenti, spiegare come e in che limiti la clausola sia compatibile con l'organizzazione aziendale da lui prescelta».
Nel parere si suggerisce alle stazioni appaltanti anche di valutare questi piani «assegnando tendenzialmente un punteggio maggiore, per tale profilo, all'offerta che maggiormente realizzi i fini cui la clausola tende». Rispetto al rapporto fra clausola sociale e contratti collettivi il parere ha precisato che se una impresa non ha firmato il Ccnl deve applicare la clausola sociale, ma se lo ha firmato dovrà invece applicare la clausola sociale prevista nel contratto
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2018).

TRIBUTILa Cassazione conferma la linea sulla prescrizione dei crediti comunali in cinque anni.
La Corte di Cassazione -Sez. VI civile- continua a ritenere che le cartelle di pagamento riguardanti i tributi comunali, come l'Ici e la Tarsu, si prescrivono in 5 anni, principio questo ribadito di recente con l'ordinanza 05.11.2018 n. 28173 e l'ordinanza 20.11.2018 n. 29996.
Si tratta di un principio che desta qualche perplessità, fondato più su una pigra conferma di sentenze che richiamano a loro volta altre sentenze, nelle quali però si è omesso di verificare in modo approfondito il regime di prescrizione dei tributi comunali e, anzi, da ultimo, si è arrivati a sostenere, senza spiegarne le ragioni, che al contrario di quelli comunali i tributi erariali sono soggetti a prescrizione decennale.
Nella sentenza n. 29996/2018 la Corte sentenzia che «nel caso di specie, trattandosi di tributo locale secondo la giurisprudenza di questa Corte tali tributi (a differenza di quelli erariali) - sono “prestazioni periodiche” e, come tali, rientrano nell'ambito di applicazione dell'articolo 2948, comma 4 cod. civ., che stabilisce appunto la prescrizione quinquennale (Cass. sent n. 4283 del 23.02.2010, 10344/2015, 4322/2015, 22543/2017)».
Pagamento periodico
Tuttavia, in nessuna sentenza la Corte di cassazione si è fermata ad argomentare le ragioni che inducono a qualificare il pagamento di un accertamento Ici o Tarsu come «pagamento periodico» soggetto a prescrizione quinquennale. E, in effetti, l'interrogativo se la «pretesa isolata» avanzata con un atto di accertamento a un contribuente che ha omesso di versare l'imposta Ici per un anno possa essere qualificata come prestazione periodica meritava forse una risposta più argomentata e non un mero rinvio seriale. Anche in considerazione del fatto che l'articolo 2946 del codice civile prevede la prescrizione ordinaria nei casi in cui la legge non disponga diversamente.
L'articolo 2948 del codice civile prevede la prescrizione quinquennale per tutto ciò che «deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi». Ora, è pur vero che in costanza di base imponibile l'Imu, l'Ici o la Tarsu/Tari si pagano annualmente, ma a ogni anno corrisponde un autonomo anno d'imposta. Peraltro, ben può accadere che un determinato soggetto passivo sia tale per un Comune solo per un anno o per una frazione di anno, perché magari ha acquistato e venduto l'immobile nel corso dello stesso anno o perché ha condotto in locazione un appartamento per solo 10 mesi.
Il termine prescrizionale
Ma l'errore di fondo, sembra essere quello di agganciare il termine prescrizionale alle date di versamento ordinario, che in costanza di base imponibile, si ripetono di anno in anno, senza considerare l'intero processo di accertamento. In realtà, per recuperare quel credito derivante dall'omesso versamento l'attività del Comune è regolata da termini decadenziali, visto che deve notificare un atto di accertamento entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui doveva essere pagato il tributo.
La riscossione coattiva è anch'essa regolata da termini decadenziali, visto che occorre notificare la cartella entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di definitività dell'atto di accertamento. Notificata la cartella o l'ingiunzione di pagamento si abbandona il campo della decadenza per entrare in quello della prescrizione. Ma qui le norme tacciono, perché disciplinano solo i termini decadenziali.
E allora, seguendo quanto affermato dalle sezioni unite nella sentenza n. 23397/2016, e dato per assodato che la mancata impugnazione della cartella non produce l'effetto della conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale, così come previsto, ad esempio, per le sentenze, occorre chiedersi se esiste per i tributi comunali una norma che preveda espressamente per i propri «atti di accertamento» un termine di prescrizione più breve di quello decennale, perché in assenza di tale norma, le stesse sezioni unite hanno affermato, nella sentenza citata, che il termine di prescrizione decennale «è quello che si applica ordinariamente all'esercizio del potere di riscossione fiscale».
In conclusione, l'errore di fondo sui cui si basano le sentenze ancora le sue radici alle modalità di versamento ordinario dei tributi comunali, quando in realtà oggetto di verifica è il termine di pagamento dell'accertamento, che ovviamente non può considerarsi termine periodico, forse fatta eccezione per gli evasori seriali.
E allora, non essendo previsto per legge un termine di prescrizione, e non potendosi considerare un credito da accertamento come prestazione periodica, non rimane da concludere che la riscossione coattiva degli atti di accertamento comunali è soggetta a prescrizione decennale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di indici di edificabilità, il Consiglio di Stato ha enucleato nel tempo una serie di principi, tutti ispirati alla logica (di sistema) del contrasto dei tentativi di elusione posti in essere dai privati per cercare di aggirare le sempre più stringenti normative conformative del diritto di proprietà in senso restrittivo sotto il profilo edilizio.
Queste le principali coordinate esegetiche:
   1) Il d.m. 02.04.1968, che fissa gli standards di edificabilità delle aree, distingue la densità edilizia in densità territoriale e densità fondiaria. La densità territoriale è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sull'intera zona e, pertanto, il relativo indice è rapportato all'intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità e simili. La densità fondiaria è invece riferita alla singola area e definisce il volume massimo consentito su di essa, ed il relativo indice (cd. indice di fabbricabilità) va applicato all'effettiva superficie suscettibile di edificazione, con esclusione delle aree destinate ad uso pubblico;
   2) In relazione ad immobili edificati prima dell'emanazione del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e, comunque, nei casi in cui difetti legittimamente un provvedimento edilizio abilitativo, è in facoltà delle amministrazioni comunali dettare una disciplina urbanistico-edilizia che attribuisca rilievo, ai fini della identificazione dell'asservimento pertinenziale e, quindi, ai fini della determinazione della volumetria assentibile, a elementi, anche provenienti dai privati richiedenti, in grado di consentire una ricognizione della reale situazione dei luoghi e del concreto carico edificatorio esistente;
   3) L'istituto dell'asservimento si è configurato per effetto dell'entrata in vigore del d.m. 02.04.1968 n. 1444, con il quale sono stati introdotti nell'ordinamento, in attuazione dei precetti recati dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, limiti inderogabili di densità edilizia;
   4) In sede di determinazione della volumetria assentibile su una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata prima della l. 17.08.1942 n. 1150, quando cioè lo "ius aedificandi" era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa, il che comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante. Qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorre al computo complessivo della densità territoriale;
   5) Nel caso in cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo;
   6) Nel caso in cui l'originario lotto urbanistico abbia acquisito una maggiore potenzialità edificatoria in dipendenza di modifiche alla disciplina urbanistica e, quindi, la parte rimasta inedificata sia suscettibile di edificazione, per verificare la sua effettiva potenzialità edificatoria occorre sempre partire dalla considerazione che, in virtù del carattere «unitario» dell'originario lotto interamente asservito alla precedente costruzione, non possono non computarsi le volumetrie realizzate sul lotto urbanistico originario (considerato complessivamente), il quale è l'unico ad aver acquisito e mantenuto una "propria" potenzialità edificatoria; conseguentemente la verifica dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla predetta potenzialità (computata alla luce della densità edilizia consentita dalla normativa urbanistica vigente al momento del rilascio delle concessioni di cui si controverte), diminuita della volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica, complessiva area.
L’operatività dei suddetti, consolidati principi dipende, dunque, dall’accertamento delle seguenti concorrenti circostanze:
   a) che il lotto o l’area siano unitari e unitariamente utilizzati, restando irrilevante l’assetto della situazione proprietaria (atti di trasferimento) e catastale (frazionamenti, piani particellari, accatastamenti);
   b) che esista una norma di piano o venga altrimenti individuato un vincolo di asservimento pertinenziale di un’area rispetto alla costruzione a suo tempo realizzata.
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10. In disparte tale assorbente rilievo, il ricorso è comunque infondato nel merito.
10.1. In materia di indici di edificabilità, il Consiglio di Stato ha enucleato nel tempo una serie di principi, tutti ispirati alla logica (di sistema) del contrasto dei tentativi di elusione posti in essere dai privati per cercare di aggirare le sempre più stringenti normative conformative del diritto di proprietà in senso restrittivo sotto il profilo edilizio.
Queste le principali coordinate esegetiche:
   1) Il d.m. 02.04.1968, che fissa gli standards di edificabilità delle aree, distingue la densità edilizia in densità territoriale e densità fondiaria. La densità territoriale è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sull'intera zona e, pertanto, il relativo indice è rapportato all'intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità e simili. La densità fondiaria è invece riferita alla singola area e definisce il volume massimo consentito su di essa, ed il relativo indice (cd. indice di fabbricabilità) va applicato all'effettiva superficie suscettibile di edificazione, con esclusione delle aree destinate ad uso pubblico (Consiglio di Stato sez. IV 22.02.1993 n. 182);
   2) In relazione ad immobili edificati prima dell'emanazione del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e, comunque, nei casi in cui difetti legittimamente un provvedimento edilizio abilitativo, è in facoltà delle amministrazioni comunali dettare una disciplina urbanistico-edilizia che attribuisca rilievo, ai fini della identificazione dell'asservimento pertinenziale e, quindi, ai fini della determinazione della volumetria assentibile, a elementi, anche provenienti dai privati richiedenti, in grado di consentire una ricognizione della reale situazione dei luoghi e del concreto carico edificatorio esistente (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria 23.04.2009 n. 3);
   3) L'istituto dell'asservimento si è configurato per effetto dell'entrata in vigore del d.m. 02.04.1968 n. 1444, con il quale sono stati introdotti nell'ordinamento, in attuazione dei precetti recati dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, limiti inderogabili di densità edilizia (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria 23.04.2009 n. 3);
   4) In sede di determinazione della volumetria assentibile su una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata prima della l. 17.08.1942 n. 1150, quando cioè lo "ius aedificandi" era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa, il che comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante. Qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorre al computo complessivo della densità territoriale (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria 23.04.2009 n. 3);
   5) Nel caso in cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n. 2941);
   6) Nel caso in cui l'originario lotto urbanistico abbia acquisito una maggiore potenzialità edificatoria in dipendenza di modifiche alla disciplina urbanistica e, quindi, la parte rimasta inedificata sia suscettibile di edificazione, per verificare la sua effettiva potenzialità edificatoria occorre sempre partire dalla considerazione che, in virtù del carattere «unitario» dell'originario lotto interamente asservito alla precedente costruzione, non possono non computarsi le volumetrie realizzate sul lotto urbanistico originario (considerato complessivamente), il quale è l'unico ad aver acquisito e mantenuto una "propria" potenzialità edificatoria; conseguentemente la verifica dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla predetta potenzialità (computata alla luce della densità edilizia consentita dalla normativa urbanistica vigente al momento del rilascio delle concessioni di cui si controverte), diminuita della volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica, complessiva area (Consiglio di Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3766).
10.2. L’operatività dei suddetti, consolidati principi dipende, dunque, dall’accertamento delle seguenti concorrenti circostanze:
   a) che il lotto o l’area siano unitari e unitariamente utilizzati, restando irrilevante l’assetto della situazione proprietaria (atti di trasferimento) e catastale (frazionamenti, piani particellari, accatastamenti);
   b) che esista una norma di piano o venga altrimenti individuato un vincolo di asservimento pertinenziale di un’area rispetto alla costruzione a suo tempo realizzata.
10.3. Nel caso di specie, quanto all’aspetto sub a), è rimasto accertato che il lotto non apparteneva più all’unico originario proprietario a far data dal 1951 e dal 1958 è stato oggetto di frazionamento; l’edificio esistente nel quale abitano gli appellati è stato edificato con le licenze del 1951, 1954, 1955 e del 1956; il piano regolatore comunale adottato nel 1959 ha regolato l’edificazione senza stabilire alcun indice di fabbricabilità (i soli indici costruttivi afferivano al numero dei piani, all’altezza massima, alla lunghezza minima e massima dei fronti, alle distanze dai confini e dalle strade); detto indice è stato introdotto per la prima volta nel comune di Matera col piano del 1975; le concessioni impugnate sono state rilasciate nel 1998 e nel 1999.
10.4. In relazione, invece, all’aspetto sub b), seguendo le fondamentali coordinate esegetiche di cui alla richiamata Adunanza plenaria n. 3/2009, l’amministrazione comunale avrebbe potuto, al momento dell’adozione del piano regolatore, procedere all’individuazione delle aree in fatto asservite, valutando l’area circostante e qualificandola come entità immobiliare unitaria.
Nel calcolo della volumetria assentibile, infatti, quel che conta è il fatto oggettivo della utilizzazione edificatoria dell’area.
Nel fare ciò, avrebbe potuto conferire specifico rilievo (rispetto al momento dell’entrata in vigore del D.M. 02.04.1968, n. 1444 o dell’adozione del piano) ai rapporti pertinenziali determinati da atti e negozi privati, anche non necessariamente preordinati all’asservimento in senso tecnico dell’area o di una parte di essa (per esempio, la destinazione a pertinenza ex art. 817 c.c., la costituzione di servitù prediali ex art. 1027 c.c. e ss. del c.c.).
Detti atti, infatti, sono astrattamente idonei a produrre effetti sulla concreta edificabilità dell’area, determinando la perdita o la riduzione della capacità edificatoria di un fondo a vantaggio di un altro fondo.
Tanto si afferma –ha precisato la Plenaria n. 3/2009- in ragione del principio di immediata evidenza logica secondo il quale la determinazione della volumetria consentita in un'area deve pur sempre tener conto del dato reale, di come, cioè, gli immobili si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante in virtù del complesso di effetti riconducibili ad atti di soggetti pubblici e privati nonché a fatti della più varia natura, ma idonei, in ogni caso, ad incidere sull'edificabilità.
10.4. Nel caso di specie, tuttavia, diversamente rispetto a quello esaminato dalla Plenaria, tale individuazione non è avvenuta per il tramite della pianificazione generale.
10.5. Per effetto della carenza di regolazione, il problema della valutazione della situazione di fatto e di diritto creatasi nel fondo sul quale è previsto l'intervento edilizio è stato “spostato” al momento del rilascio del singolo permesso di costruire.
10.6. Non si ravvisa, nel caso in questione, alcuna illogicità o irrazionalità nel comportamento tenuto dall’amministrazione comunale, tenuto conto delle previsioni del vigente (ratione temporis) p.r.g. e delle allegate N.T.A. nonché del concreto stato dei luoghi, interessato da una edificazione certamente risalente e anteriore cronologicamente rispetto all’introduzione dell’indice stesso di edificabilità.
10.7. Alla luce delle suesposte considerazioni, resta dunque assorbita l’eccezione sollevata dagli appellati in ordine alla pretesa formazione del giudicato interno sul calcolo delle superfici realizzate e di quelle (non più, a loro dire) assentibili: in assenza di una norma di piano ad hoc o di un atto equipollente di asservimento, la volumetria realizzabile è quella prevista dallo strumento urbanistico al tempo del rilascio del titolo edilizio.
10.8. Resta, invece, precluso a questo giudice, lo scrutinio del contenuto degli atti privati posti in essere dalle parti.
Col secondo motivo di ricorso, infatti, i ricorrenti avevano sostenuto che dall’art. 3 del regolamento di condominio approvato l’08.10.1958 potesse evincersi che la particella 617 (così come anche quelle nn. 510, 511, e 616) avevano una destinazione pertinenziale “a cortile” rispetto al manufatto costruito sulla particella 509, ove risiedono gli odierni appellati.
Il motivo, tuttavia, è stato espressamente respinto dal primo giudice e il relativo capo di sentenza non è stato fatto oggetto di impugnazione, sicché lo stesso deve considerarsi passato in cosa giudicata.
11. In definitiva, l’appello va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, va respinto il ricorso introduttivo del giudizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.11.2018 n. 6397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa voce del portiere non basta. Il messo deve verificare la sede del destinatario dell’atto. La Cassazione distingue, nell’ordinanza 27035/2018, tra irreperibilità relativa e assoluta.
Il messo notificatore non può fidarsi solo della parola del portiere. Deve, infatti, svolgere accurate ricerche per verificare l'irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che quest'ultima non abbia più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune sede del proprio domicilio fiscale, non potendosi ritenere sufficiente, a tal fine, la generica dichiarazione rilasciata dal portiere dello stabile.
A statuire il principio è stata la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 24.10.2018 n. 27035.
Provvedimento risulta utile per delineare contorni giuridici e disciplina delle due possibili ipotesi di irreperibilità: quella relativa e quella assoluta.
Il caso. La controversia sottoposta al giudizio del supremo collegio ha a oggetto l'impugnazione proposta dal contribuente avverso un avviso di intimazione di pagamento notificato dall'agente della riscossione alla società per omessa notifica della prodromica cartella di pagamento, recante l'iscrizione a ruolo dell'Iva dovuta a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione per l'anno di imposta 2003.
La società, in particolare, ha richiesto il giudizio degli ermellini, sulla scorta di un unico motivo, per cassare la sentenza della Commissione tributaria regionale con cui era stato rigettato l'appello, dalla medesima proposto, nei confronti della sfavorevole sentenza di primo grado.
La Ctr aveva, infatti, ritenuto regolare la notifica della cartella di pagamento in base a quanto sancisce l'art. 60 del dpr n. 600 del 1973 che non prevede l'invio della raccomandata informativa di cui all'articolo 140 del codice di procedura civile, nell'ipotesi, come quella presuntivamente verificatasi nella fattispecie, di irreperibilità assoluta del destinatario.
Irreperibilità relativa e assoluta. La Cassazione, nel rigettare, preliminarmente, l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dall'Agenzia delle entrate, considerato che la stessa è stata parte nei giudizi di merito in cui la società contribuente aveva contestato anche la fondatezza della pretesa erariale, ha effettuato una nitida e netta distinzione tra le due ipotesi di irreperibilità.
Infatti, nel caso di specie, non si è verificato, a differenza di quanto sostiene l'ufficio notificante, un caso di irreperibilità assoluta, in cui, legittimamente, non è previsto l'invio della raccomandata informativa, ma un'ipotesi di irreperibilità relativa: come sostenuto dal ricorrente, il messo notificatore non ha svolto tutte le ricerche dirette a verificare l'irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che quest'ultima non avesse più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune già sede del proprio domicilio fiscale, limitandosi ad attenersi, ritenendola sufficiente ai fini della corretta notifica, alla generica dichiarazione acquisita direttamente dal portiere dello stabile.
La decisione. La Ctr aveva ritenuto idonee a giustificare il ricorso alla notifica a soggetto assolutamente irreperibile, di cui alla lett. e), primo comma, dell'art. 60, dpr n. 600 del 1973, la dichiarazione del portiere dello stabile ove era ubicato il domicilio fiscale della società contribuente. Il custode aveva, infatti, dichiarato di non conoscere la società oggetto della controversia.
Dichiarazione riconosciuta dai giudici di legittimità non idonea allo scopo, circostanza, anzi, che avrebbe dovuto spingere, a maggior ragione, l'ufficiale notificante a compiere ulteriori e specifiche verifiche per accertare se l'indicazione del domicilio della società destinataria dell'atto fosse corretto o se lo stesso non fosse mutato. Verifiche che nella fattispecie concreta, risultanze processuali alla mano, erano state del tutto omesse.
Sulla base di tali considerazioni, il ricorso è stato accolto, senza rinvio, non ricorrendo l'esigenza del compimento di ulteriori accertamenti di fatto né quella di procedere all'esame di altre questioni che la nullità della notifica della cartella di pagamento, prodromica all'avviso di intimazione di pagamento, anch'esso impugnato, ha reso del tutto superflue.
L'agente della riscossione controricorrente, peraltro, è stato condannato al pagamento in favore della ricorrente delle spese del giudizio di legittimità, mentre sono state compensate le spese processuali con l'Agenzia delle entrate e quelle dei giudizi di merito.
Notifica da codice di procedura civile nell'ipotesi di irreperibilità relativa. La notifica degli atti impositivi va effettuata in base all'articolo 140 del codice di procedura civile nelle ipotesi di irreperibilità relativa. Ossia, nei casi in cui non sia possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto, l'ufficiale giudiziario è tenuto a depositare la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affiggere avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del destinatario, deve, infine, dare notizia di tali adempimenti tramite raccomandata con avviso di ricevimento.
La Corte di cassazione aveva già in passato giudicato sul tema, sancendo tale principio.
In particolare, la suprema corte, con sentenza n. 16696 del 03/07/2013, confermata anche dalla sentenza n. 5374 del 18/03/2015, aveva chiarito che «la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, nel sistema delineato dall'art. 60 del dpr 29.09.1973, n. 600, va effettuata secondo il rito previsto dall'art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l'indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all'art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo sconosciuto, accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato ricerche nel comune dov'è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso comune».
Tale sentenza ricorda anche che «rispetto a tali principi, nulla ha innovato la sentenza della Corte costituzionale del 22.11.2012, n. 258 la quale nel dichiarare «in parte qua», con pronuncia di natura «sostitutiva», l'illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente all'attualmente vigente quarto comma) dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, ovvero la disposizione concernente il procedimento di notifica delle cartelle di pagamento, ha soltanto uniformato le modalità di svolgimento di detto procedimento a quelle già previste per la notificazione degli atti di accertamento, eliminando una diversità di disciplina che non appariva assistita da alcuna valida «ratio» giustificativa e non risultava in linea con il fondamentale principio posto dall'art. 3 della Costituzione».
Altro provvedimento da ricordare in materia è l'ordinanza della Cassazione n. 24260 del 13/11/2014 secondo cui «è illegittima la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi (nella specie, cartella di pagamento) effettuata ai sensi dell'art. 60, primo comma, lett. e), del dpr 29.09.1973, n. 600, laddove il messo notificatore abbia attestato la sola irreperibilità del destinatario nel comune ove è situato il domicilio fiscale del contribuente, senza ulteriore indicazione delle ricerche compiute per verificare che il trasferimento non sia un mero mutamento di indirizzo all'interno dello stesso comune, dovendosi procedere secondo le modalità di cui all'art. 140 cod. proc. civ. quando non risulti un'irreperibilità assoluta del notificato all'indirizzo conosciuto, la cui attestazione non può essere fornita dalla parte nel corso del giudizio».
Tali principi sono stati ribaditi dalla recente ordinanza della Cassazione n. 2877 del 07/02/2018 che ha affermato che «in tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dall'art. 60, comma 1, lett. e), del dpr n. 600 del 1973 in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l'ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l'irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest'ultimo non abbia più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune già sede del proprio domicilio fiscale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

TRIBUTITasse immobiliari, paga l'intestatario catastale.
Tasse immobiliari, paga l'intestatario catastale È tenuto a pagare l'Ici e le altre imposte locali il soggetto che risulta titolare dell'immobile dai registri catastali. L'iscrizione in catasto, però, rappresenta una mera presunzione, che può essere superata da chi è apparentemente titolare dell'immobile, purché fornisca una prova contraria per ottenere l'esonero dal pagamento dei tributi.

Lo ha stabilito la Ctr di Roma, sezione XVI, con la sentenza 23.10.2018 n. 7330/16/2018.
Per i giudici d'appello, nonostante il catasto abbia prettamente finalità fiscali, sia il diritto di proprietà sia gli altri diritti reali possono essere provati «in base alla mera annotazione di dati nei registri catastali, che hanno in concrete circostanze soltanto il valore di semplici indizi». Come sostenuto anche in passato dalla Cassazione (sentenza 14420/2010), l'intestazione in catasto di un immobile a un soggetto «fa sorgere comunque una presunzione de facto sulla veridicità di tali risultanze».
È posto a carico del contribuente l'onere di fornire la prova contraria. Della stessa idea è la commissione regionale, secondo cui grava sui titolari degli immobili il compito di dimostrare la carenza del possesso di diritto. Qualora ciò avvenga, la «situazione di fatto prevale sulla presunzione iuris tantum collegata al dettato catastale».
Va ricordato che l'Imu, così come l'Ici, è dovuta dai contribuenti per anni solari, proporzionalmente alla quota di possesso dell'immobile e in relazione ai mesi dell'anno per i quali il bene è stato posseduto. Se il possesso si è protratto per almeno 15 giorni, il mese deve essere computato per intero. La prova della proprietà o della titolarità dell'immobile non dovrebbe essere data dalle iscrizioni catastali, ma dalle risultanze dei registri immobiliari. In caso di difformità è tenuto al pagamento dell'Imu il soggetto che risulti titolare da questi registri (Ctr Roma, prima sezione, sentenza 90/2006).
Quindi, per l'assoggettamento agli obblighi tributari non è probante l'iscrizione catastale. All'iscrizione in catasto non può che essere riconosciuto il valore di mero indizio o semplice presunzione (articolo ItaliaOggi del 30.11.2018).

PUBBLICO IMPIEGOInidoneità alle mansioni e possibilità ricollocamento interno.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 22.10.2018 n. 26675 ha accolto il ricorso di una lavoratrice contro il licenziamento intimatogli dal datore di lavoro, per sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni ascritte. Alla lavoratrice non era stata offerta nessuna alternativa di posti di lavoro, neanche in termini di demansionamento o trasferimento presso altra sede, così ritenendo integrata la violazione dell'obbligo di repechage.
La Corte, quindi, sintetizza che in caso di sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore, prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l'obbligo di verificare la possibilità di repechage e, cioè, la possibilità di ricollocare all'interno dell'assetto organizzativo aziendale il lavoratore in mansioni compatibili con il suo stato di salute, anche se inferiori rispetto a quelle in precedenza ascritte (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.11.2018).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il difensore punta al rialzo. Possibile chiedere più di quanto fissato in sentenza. COMPENSI AVVOCATI/ Una ordinanza della Cassazione ricorda il principio.
In materia di compenso per prestazioni professionali, l'avvocato può sempre richiedere al cliente onorari maggiori rispetto a quelli liquidati in sentenza: lo hanno chiarito i giudici della VI-2 Sez. civile della Corte di Cassazione nell'ordinanza 17.10.2018 n. 25992.
Intervenuti sul ricorso di un legale, il quale lamentava il fatto che la liquidazione operata in sede di merito non poteva dirsi vincolante né tale da impedire la richiesta di un compenso maggiore rispetto a quello indicato in sentenza, «dovendosi ritenere che la liquidazione operata dal giudice attiene ai rapporti tra le parti, ma non vincola la determinazione del compenso professionale nei rapporti tra l'avvocato e il cliente», i giudici hanno ricordato l'«incontrastato» principio secondo il quale «la misura degli onorari dovuti dal cliente al proprio avvocato prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese ed agli onorari di causa e deve essere determinata in base a criteri diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese tra le parti».
Se è vero, infatti, che nella liquidazione degli onorari a carico del cliente può aversi riguardo anche al risultato del giudizio; ai vantaggi, di natura patrimoniale e non, conseguiti; al valore effettivo della controversia nelle ipotesi nelle quali risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile; è, tuttavia, altrettanto vero che la misura di tali onorari può anche prescindere da quanto stabilito nella sentenza che condanna l'altra parte al pagamento delle spese e degli onorari di causa, in ragione del fatto che il legale «non è parte del giudizio».
Questo significa che solo la sua «inequivoca rinuncia» al maggiore compenso può impedirgli di pretendere onorari maggiori e diversi da quelli liquidati in sentenza. Tali principi –continuano– vanno confermati anche dopo l'entrata in vigore della nuova legge professionale che ha determinato il passaggio dal sistema tariffario a quello dei parametri: hanno, quindi, accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata rinviando la decisione al tribunale competente in diversa composizione per un nuovo esame (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti abbandonati, è stretta. Il proprietario del sito rischia per la condotta di terzi. La Cassazione si sofferma su deposito illecito e inosservanza dell’ordine di rimozione.
Proprietari e titolari di diritti di godimento su beni immobili non rispondono dell'illecito abbandono di rifiuti effettuato sul proprio sito da terzi, ma se intimati da un'ordinanza sindacale alla loro rimozione hanno l'onere di ottenerne la disapplicazione al fine di non integrare il diverso reato di inosservanza dell'atto impositivo.

A effettuare una ricognizione sulla complessa disciplina prevista dal Codice ambientale (decreto legislativo n. 152/2006) sulla posizione dei soggetti che vantano diritti reali o personali su aree interessate da depositi illeciti di rifiuti effettuate da altri è la Corte di cassazione, che con due sentenze del settembre 2018 ne ha delineato il rapporto con i diversi reati di abbandono di rifiuti da un lato e di inosservanza dell'ordinanza di rimozione dall'altro.
Il contesto normativo. A livello generale, il Codice ambientale prevede il divieto di abbandono rifiuti nonché il conseguente obbligo di rimozione a carico dei soggetti cui la condotta illecita sia imputabile, prevedendo sanzioni per l'inosservanza dei due diversi precetti.
In particolare, è l'articolo 192 del dlgs 152/2006 a stabilire il divieto di abbandono, prevedendo parallelamente:
   - l'obbligo di procedere a rimozione, avvio a recupero/smaltimento e ripristino dello stato dei luoghi a carico sia di chi abbia violato tale divieto che (a titolo solidale) del proprietario e dei titolari di diritti reali/personali sull'area cui tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo;
   - il potere/dovere del sindaco di disporre con ordinanza le operazioni di rimozione/trattamento/ripristino e, in caso di inosservanza dei termini fissati, procedere in esecuzione della stessa in danno dei soggetti intimati.
Gli articoli 255 e 256 del dlgs 152/2006 prevedono invece: le sanzioni per l'abbandono dei rifiuti (amministrative, che diventano penali nel caso di condotta riconducibile a ente o impresa); le sanzioni (sempre penali) per l'omessa ottemperanza dell'ordinanza del sindaco.
Le nuove pronunce della Cassazione. In tale contesto normativo interviene la recente sentenza della Suprema corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi in relazione a una fattispecie vertente proprio sulla inosservanza entro i termini previsti della citata ordinanza sindacale ex articolo 192 del dlgs 152/2006.
Con la sentenza 03.09.2018 n. 39430 il giudice di legittimità ha sottolineato come l'obbligo di rimozione dei rifiuti sorga in capo al responsabile dell'abbandono in conseguenza della sua condotta e nei confronti degli obbligati in solido quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o almeno della colpa, mentre i soggetti destinatari dell'ordinanza sindacale sono obbligati in quanto tali.
In caso di inosservanza del provvedimento sindacale, si sottolinea nella sentenza, i destinatari ne subiscono perciò solo le conseguenze se non hanno provveduto a impugnarlo per ottenerne l'annullamento oppure non forniscono al giudice penale dati significativi valutabili ai fini di una eventuale disapplicazione dell'atto impositivo dell'obbligo.
Sul diverso reato di abbandono di rifiuti lo stesso giudice di legittimità si è invece espresso con la successiva sentenza 26.09.2018 n. 41676.
Mediante il provvedimento, la Suprema corte ha ricordato come il citato reato non sia configurabile in forma omissiva nei confronti dei meri titolari di diritti reali o personali sul fondo interessato dall'abbandono, divenendo questi obbligati a impedire la realizzazione dell'evento lesivo o il mantenimento dello stesso solo ove compiano atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
La giurisprudenza sulla responsabilità solidale del proprietario. Sulla responsabilità del proprietario e dei titolari di diritti di godimento sull'area interessata di rifiuti depositati da terzi si sono copiosamente pronunciate sia la magistratura ordinaria che quella amministrativa.
Sul necessario elemento soggettivo del dolo o della colpa ex citato articolo 192, comma 3, dlgs 152/2006 si sono in particolare espresse con sentenza 4472/2009 le sezioni unite della Cassazione, le quali hanno stabilito che il requisito della colpa postulato dalla norma può ben consistere nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per un'efficace custodia e protezione dell'area così impedendo l'indebito deposito di rifiuti.
Sul fronte amministrativo il Consiglio di stato con sentenza n. 705/2016 ha ricordato come non sia configurabile una responsabilità oggettiva fondata sulla mera disponibilità delle aree e stabilito altresì come il dovere di diligenza debba essere interpretato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che vada esclusa la responsabilità per colpa quando l'abbandono sarebbe stato evitato solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
Su tale scia, il Tar Puglia con la recente sentenza n. 888/2018 ha evidenziato come non sia sufficiente una mera e semplice «culpa in vigilando» non accompagnata da comportamenti omissivi/negligenti da verificare caso per caso tenendo conto delle obiettive circostanze, occorrendo considerare anche l'oggettiva ubicazione del fondo (come l'eventuale particolare esposizione a comportamenti di abbandono rifiuti), considerando che la mancanza di recinzione dello stesso non costituisce di per sé prova di colpevolezza del proprietario.
Sulla necessità, sempre ex articolo 192 del dlgs 152/2006, del preventivo contraddittorio tra soggetti imputabili e soggetti preposti al controllo si è invece recentemente pronunciato il Consiglio di stato con sentenza 1301/2016, in base alla quale costituisce adempimento indispensabile al fine dell'instaurazione del suddetto contraddittorio la formale comunicazione (al proprietario e/o titolari di diritti di godimento sul sito) dell'avvio del procedimento ex articolo 7 della legge 241/1990.
Sulla indefettibilità dell'ordinanza sindacale che dispone invece rimozione, gestione dei rifiuti e ripristino dei luoghi si ricorda invece la sentenza 23911/2014 della Corte di cassazione.
Dalla pronuncia del giudice di legittimità emerge come l'obbligo giuridico di eliminare i rifiuti in capo al proprietario del terreno che non abbia concorso con gli autori materiali può sorgere solo a seguito della suddetta ordinanza impositiva in parola, nell'ambito della quale ciò che rileva non è tanto la disponibilità dell'area ma una concreta responsabilità che deve essere motivata. E come ha sottolineato il citato Tar Puglia con sentenza 888/2018, è attraverso detta motivazione che l'amministrazione preposta al controllo deve esaurientemente dare conto di aver svolto una completa e adeguata istruttoria di accertamento del comportamento doloso o colposo dei soggetti in questione.
E sul reato di abbandono di rifiuti. Al di fuori del reato di inosservanza dell'ordinanza sindacale di rimozione, con la stessa sentenza 23911/2014 la Corte di cassazione aveva invece ricordato come il diverso reato di abbandono di rifiuti ex citato articolo 256, comma 2 (e 255, comma 1, per soggetti diversi dalle imprese) del Codice ambientale non è contestabile al proprietario o titolare di diritti di godimento sull'area sulla base della mera consapevolezza che terzi abbiano effettuato tale deposito illecito, non sussistendo in sostanza a suo carico alcuna posizione di garanzia che lo obblighi a impedire l'evento.
Orientamento, questo, confermato da ultimo proprio dalla recente e citata sentenza 41676/2018 (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.10.2018).

TRIBUTI: Terreni ex agricoli, per l'Ici conta il Prg.
Ai fini dell'assoggettamento a Ici di un terreno destinato ad attività estrattiva, prevalgono, sui dati catastali, le situazioni di fatto e di destinazione che possono evincersi dal Piano regolatore generale a partire dalla concreta capacità edificatoria dello stesso, che comportano quindi l'escludersi della sua esenzione.
A fornire indicazioni sul tipo di imposizione in parola annessa ai terreni adibiti a cave, è stata la Ctr del Lazio con la sentenza 19.09.2018 n. 6206/16/2018.
Era stato impugnato un avviso di accertamento emesso dall'ente comunale di Guidonia a fronte di omessa dichiarazione Ici per l'anno 2008 per aree ritenute fabbricabili e adibite ad attività estrattive, rispetto al quale la ricorrente deduceva l'errata qualificazione delle stesse e l'assenza del presupposto impositivo.
Accolto il ricorso in primo grado, l'ufficio proponeva appello insistendo sulla imponibilità ai fini Ici sussistente anche per le aree utilizzate per le attività di cava. La Commissione regionale laziale, ripercorsa la normativa in materia a partire dal dlgs n. 504/1992, accoglieva l'appello dal momento che l'attività estrattiva non poteva essere ricompresa nelle attività agricole proprie di cui all'art. 2135 c.c. pertanto l'area doveva essere considerata nella sua potenzialità funzionale e reddituale.
In questo senso, i giudici riprendevano il filone seguito sul punto dalla Corte di cassazione (sent. n. 27065/2008) la quale, proprio considerando i cosiddetti terreni ex agricoli, quelli destinati a cave appunto, reputava che gli stessi, dotati di autonomia funzionale e redditualità propria, come sottoponibili a un criterio di valutazione che prescindesse dall'accatastamento e desse maggior rilievo alla situazione di fatto.
Da tali considerazioni la Corte (ex multis sent. n. 5485/2008) ribadisce che ai fini Ici deve rilevare il tipo di attività cui l'immobile è adibito e lo stesso non può dirsi esente laddove quella su di esso esercitata, come nel caso di specie quella estrattiva, sia un'attività commerciale: il terreno adibito a cava, pertanto, non può essere esente da Ici.
L'operato dell'Ufficio era infatti ritenuto legittimo anche in considerazione del fatto che lo stesso si era rifatto alle risultanze del Piano regolatore generale dal quale emergeva che il terreno era classificato come area fabbricabile, dato che superava le mere risultanze catastali valorizzando anche solo potenzialmente l'immobile. Sempre la Cassazione (sent. 21764/2009) ha evidenziato l'importanza di quanto desumibile dal Prg anche a prescindere dall'adozione di strumenti dello stesso attuativi.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(…) L'appello dell'Ufficio va accolto in considerazione della fondatezza delle argomentazioni esposte. Orbene prima di entrare nel merito della questione è bene evidenziare che in riferimento all'Ici sulle attività estrattive il dlgs 504/1992 afferma che il presupposto dell'imposta è il possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli e l'attività estrattiva in terreni agricoli non è ricompresa nelle attività di cui all'art. 2135 c.c., che appunto descrive e individua le attività che devono considerarsi agricole.
Per tale motivo il terreno destinato ad attività estrattiva, che non è appunto qualificabile come agricola, perde conseguentemente qualifica di terreno agricolo e, quindi, in base all'art. 2 del decreto del ministero delle finanze n. 28/1998 diventa unità immobiliare ovvero da un'area che, allo stato in cui si trova presenta potenzialità di autonomia funzionale e reddituale. (…)
L'ordinanza n. 285/2000 della Corte costituzionale, avente a oggetto la determinazione del valore su cui applicare l'imposta di registro a seguito della vendita di un terreno agricolo utilizzato a «cava» per l'estrazione e per la commercializzazione ha confermato il principio legislativo sopra richiamato, ovvero che l'attività estrattiva è attività industriale, concludendo che l'imposta di registro va liquidata non sul valore catastale, cioè in base alla rendita dominicale attribuita, ma con il criterio del valore reale, cioè come si fa con i terreni agricoli destinati ad area fabbricabile. (…)
La sentenza della Corte di cassazione n. 27065/2008 conferma che i fabbricati e le aree munite di autonomia funzionale e atte a produrre reddito come i terreni ex agricoli (destinati a cave), ai fini dell'applicazione dell'Ici, si distinguono secondo il criterio differenziale dell'attribuzione o non attribuzione della rendita catastale e non dalla iscrizione o non iscrizione del fabbricato al catasto. (…)
E ancora le sentenze della Corte di cassazione n. 20776 del 26/10/2005, n. 23703 del 15/11/2007, n. 5485 del 29/08/2008 che ribadiscono il principio che, ai fini Ici, per la sua esenzione rileva il tipo di attività cui l'immobile è destinato e cioè che detta attività non sia svolta in concreto con le modalità di una attività commerciale quale quella estrattiva. Stante tali affermazioni di principi l'unità immobiliare (il terreno) adibito a cava non può essere esente da Ici.
Nel caso che ci riguarda (…) questo collegio non intende discostarsi dal deciso dei primi giudici i quali per ritenere fondato l'accertamento operato dal comune hanno fatto riferimento al piano Regolatore Generale (…) e quindi ha ritenuto il terreno edificabile soggetto all'imposta Ici. (…) (articolo ItaliaOggi Sette del 14.01.2019).

TRIBUTIUnità collabenti non tassabili come terreni.
Il fabbricato censito nella categoria F/2, unità collabenti, non è soggetto al pagamento dell'imposta comunale sugli immobili, poiché privo di rendita e, di conseguenza, di base imponibile. Neppure può essere consentito tassare l'area di sedime, ancorché in zona edificabile, fino a quando il fabbricato non venga demolito.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 17.09.2018 n. 980/6/2018 della Ctp di Latina (presidente estensore Costantino Ferrara).
La vertenza aveva a oggetto una richiesta di Ici relativa a un'area sulla quale insistevano dei fabbricati fatiscenti, iscritti in categoria catastale F/2 (collabenti): in particolare, il comune aveva inteso tassare l'area di insistenza di detti fabbricati, secondo il criterio di determinazione della base imponibile proprio delle aree edificabili, attesto che, sulla base del Prg, tale area aveva destinazione urbanistica produttiva.
Il collegio pontino ha accolto il ricorso, condannando la parte resistente alle spese di giudizio. L'esistenza del fabbricato, seppur irrimediabilmente fatiscente, non altera la natura del bene, che resta, concordemente a quanto individuato in catasto, pur sempre un fabbricato. Dunque, la pretesa impositiva non può trovare ragion d'essere proprio perché tale fabbricato è privo di rendita, con effetto di azzeramento della base imponibile su cui calcolare l'imposta. Né, tanto meno, si può stravolgere il presupposto impositivo, considerando l'area sottostante al fabbricato, poiché si tratterebbe di introdurre, arbitrariamente, un nuovo elemento da assumersi come presupposto per l'imposta, ossia l'area «fabbricata».
Pertanto, spiega la Ctp di Latina, l'area può diventare suscettibile di tassazione soltanto dopo una eventuale demolizione del fabbricato fatiscente, mentre anticipare tale momento rappresenterebbe un mero escamotage che non trova fondamento giuridico.
Analoghi principi venivano affermati dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 17815/2017, con cui il Collegio di Piazza Cavour cassava una sentenza della Ctr di Palermo e, decidendo nel merito, accoglieva il ricorso introduttivo proposto da una società di capitali siciliana, condannando la controparte (un comune della provincia di Palermo) al pagamento di ingenti spese di giudizio. Anche in quel caso era stata sottoposta a tassazione l'area di insistenza su cui era situato il collabente.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La R.B. srl, rappresentata e difesa come in atti, impugna l'avviso di accertamento n. 2166 del 25/10/2016 emesso dal comune di Latina, in relazione all'imposta Ici per l'annualità 2011. Le ragioni della pretesa riguardano un immobile accatastato come «unità collabente», sul quale il comune richiede l'Ici considerando le potenzialità edificatorie dell'area su cui lo stesso insiste.
In sostanza, atteso che il fabbricato compreso nella categoria unità collabente è privo di rendita, il comune applica la tassazione considerando il terreno edificabile su cui esso insiste. La ricorrente sostiene che le aree accatastate come unità collabenti non siano imponibili ai fini Ici e aggiunge che, comunque, da anni sta corrispondendo l'imposta su tale immobile, in misura ridotta rispetto a quanto preteso con l'avviso di accertamento oggetto dell'impugnazione, di cui chiede l'annullamento con vittoria di spese.
Si costituisce in giudizio il comune di Latina, sostenendo la piena legittimità del proprio operato, poiché il fabbricato collabente non può essere considerato un «fabbricato» secondo la normativa dell'Imu, essendo privo di rendita. Pertanto, il valore dei fabbricati stessi viene a coincidere con la capacità di sfruttamento edilizio dell'area sottostante, modalità in cui il bene deve essere consequenzialmente tassato.
Conclude perciò per la conferma dell'accertamento.(…) La tesi giuridica su cui è fondata la posizione del comune di Latina e in cui trova causa la pretesa fiscale oggetto dell'odierna vertenza è infondata. Deve richiamarsi in tal senso il principio espresso a più riprese dalla giurisprudenza tributaria di legittimità secondo cui il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al subentro della imposta sul fabbricato ricostruito (art. 5, comma 6, dlgs n. 504 del 1992: Cass. 19.07.2017, n. 23801).
La sottrazione a imposizione del fabbricato collabente, iscritto nella conforme categoria catastale F/2, in ragione dell'azzeramento della base imponibile, non può essere recuperata prendendo a riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree edificabili, costituita dal valore venale del terreno sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede l'imposizione Ici per le aree edificabili, e non per quelle già edificate (Cass. 19.07.2017, n. 17815).
L'applicazione dei suddetti principi al caso di specie rende illegittima la pretesa fiscale, allorché il comune di Latina intende tassare un'unità collabente quale terreno edificabile.(…) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.10.2018).

EDILIZIA PRIVATAValida la voltura con semplice Scia. IMPIANTI EOLICI/ Atto p.a. non necessario.
Valida la voltura di un'autorizzazione unica per un impianto eolico effettuata mediante una semplice Scia senza quindi la necessità di un atto di voltura emesso dall'amministrazione. Ciò in quanto il trasferimento, costituendo una novazione soggettiva del titolo abilitativo, non richiede un'ulteriore valutazione circa il possesso dei requisiti né tanto meno un provvedimento espresso e/o una presa d'atto da parte dell'ente.

Il principio già affermato dal TAR del Lazio, sez. III (sentenza n. 7276/2014) è stato confermato anche dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 14.09.2018 n. 5412, secondo cui «al fine di favorire il principio generale della circolazione giuridica dei beni e dei titoli, sono utilizzabili istituti di semplificazione amministrativa per le successive modificazioni dal lato soggettivo dei medesimi».
Il tema della voltura degli atti amministrativi per la costruzione e la gestione di impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile è divenuto di grande attualità. In molti casi infatti il Gestore dei servizi energetici Spa ha revocato gli incentivi pubblici, di cui godono tale tipologia di impianti, proprio sul presupposto della mancanza della voltura dell'autorizzazione unica, del permesso di costruire o della Dia, con conseguente recupero di tutte le somme già erogate secondo quanto previsto dall'art. 42, dlgs n. 28/2011.
Secondo la prospettiva dei giudici di Palazzo Spada, l'istituto della Scia è quello volto alla maggiore semplificazione possibile. La pronuncia si distanzia dall'orientamento maggioritario secondo cui la voltura espressa è un requisito sostanziale per il mantenimento degli incentivi e non una mera formalità (cfr. Tar Lazio, sez. III, n. 212/2015; Cons. Stato Sez. IV, n. 5106/2018).
Infine si segnala che, sempre nell'ottica della semplificazione, la Regione Lombardia, con la d.d.u.o. 02.10.2018 n. 13953, ha previsto un modulo standard di istanze di voltura su tutto il territorio lombardo e ha imposto che la procedura avvenga telematicamente. Tuttavia la Regione Lombardia non ha semplificato fino al punto di ammettere un silenzio-assenso (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2018).
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8.3. Migliore favore non incontra nemmeno il secondo motivo di appello, con il quale si assume l’inutilizzabilità della scia per la voltura dell’autorizzazione unica.
L’art. 19 della legge n. 241/1990 è chiaro nello stabilire, al suo primo comma, che l’istituto della segnalazione certificata di inizio di attività (salve le esclusioni ivi riportate) sostituisce “Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi”.
La norma non pone distinzione alcuna tra primo rilascio del titolo e sua successiva eventuale voltura (cd. novazione soggettiva), sicché nel silenzio della norma (chiaramente ispirata alla maggiore semplificazione possibile dei procedimenti amministrativi) ogni tentativo di creare in via interpretativa limiti o condizioni alla libera presentazione della scia, anche per le successive volture del titoli acquisiti, appare anzi tradire lo spirito e la ratio legis dell’introduzione dell’istituto nella legge generale sul procedimento amministrativo.
Detta soluzione esegetica trova peraltro un’importante conferma nel successivo comma 2 del medesimo art. 19 cit., il quale fa riferimento esplicito all’attività oggetto della segnalazione (quindi, l’attività nel suo complesso, anche quella svolta dal cessionario cui è stato eventualmente volturato il titolo), senza distinzioni di sorta tra primo rilascio e successivi trasferimenti.
In tal senso, del resto, si era già orientato il Consiglio di Stato (ordinanza n. 3524/2013, poi confermata dall’ordinanza n. 4376/2013 in sede di esecuzione), sebbene con sommaria delibazione, nell’ambito dell’appello cautelare proposto avverso l’ordinanza cautelare del Tar adottata nel medesimo giudizio, di iniziale reiezione dell’incidente cautelare proposto dalla società ricorrente: il Consiglio di Stato, infatti, aveva ritenuto che “il ricorso all’istituto della scia sembrerebbe esperibile nel procedimento di cui è causa, concernente la voltura della titolarità di un impianto alimentato da fonti rinnovabili”.

TRIBUTIEsonero Tari a oneri invertiti. Spetta al contribuente provare il diritto alla esenzione. Lo ha chiarito la Cassazione: va dimostrato che l’immobile non è idoneo a produrre rifiuti.
Onere della prova a carico del contribuente per dimostrare che un immobile non sia soggetto al pagamento della tassa rifiuti o che abbia diritto a un'esenzione o a un trattamento agevolato.

La Corte di Cassazione (Sez. V civile - ordinanza 07.09.2018 n. 21780) di recente ha chiarito che non deve essere l'amministrazione comunale a provare che un garage, un'autorimessa o altro immobile siano produttivi di rifiuti. Ex lege, il comune si avvale di una presunzione legale di produzione di rifiuti per tutti gli immobili occupati, salvo prova contraria.
In deroga alle regole generali spetta all'interessato dimostrare, anche in sede processuale, le cause di esclusione o di esonero dipendenti dall'inidoneità degli immobili occupati alla produzione di rifiuti per la loro natura o per il loro particolare uso. Dunque, secondo la Cassazione, compete al contribuente e non all'ente fornire la prova della fonte dell'obbligazione tributaria.
Peraltro non si può escludere il pagamento della tassa per la «mera destinazione dell'immobile ad autorimessa, in assenza del concreto accertamento dell'improduttività di rifiuti». Va invece dimostrato che locali e aree sono inidonei alla produzione di rifiuti «per loro natura o per il particolare uso». Prova che può essere fornita anche in sede giudiziale.
La Cassazione (ordinanza 22124/2017) ha addirittura sostenuto che non sono esclusi dal prelievo neppure i parcheggi sotterranei. Anche questi immobili sono soggetti al pagamento della tassa rifiuti. L'area del sottosuolo adibita a posto auto non è esente. La possibilità di produrre rifiuti, infatti, non può essere esclusa dall'inesistenza di muri perimetrali che delimitano la singola area adibita a parcheggio.
In particolare ha posto in rilievo che «l'area del sottosuolo, adibita a posto auto, non è esente da tassazione, posto che non sono ravvisabili ragioni che possano escludere la possibilità di produrre rifiuti, laddove, nella specie, l'inesistenza di muri perimetrali, che delimitano la singola area adibita a parcheggio, appare irrilevante, in quanto le aree a ciò utilizzate sono aree, esattamente individuabili ed esclusivamente a disposizione dell'utilizzatore, e quindi frequentate da persone e, come tali, produttive di rifiuti in via presuntiva».
Nell'ordinanza vengono richiamate altre pronunce emanate su garage, autorimesse e box, perché ritengono i giudici che non vi sia alcuna differenza di trattamento fiscale rispetto ai parcheggi sotterranei.
Il presupposto per la tassazione. L'articolo 1, comma 641, della legge 147/2013 prevede che il presupposto della Tari sia il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Sono però esonerate dal pagamento della tassa le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili, non operative, e le aree comuni condominiali di cui all'articolo 1117 del codice civile che non siano detenute o occupate in via esclusiva. La stesa regola valeva per la Tarsu.
Non sono soggetti a imposizione i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, sempre che queste circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o a idonea documentazione.
Tra i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la natura delle loro superfici rientrano quelli situati in luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono. Pertanto, la legge prevede una presunzione relativa di produzione dei rifiuti che ammette la prova contraria. La sussistenza delle condizioni che fanno venir meno la presunzione di legge della potenziale produzione di rifiuti devono essere provate dal contribuente e riscontrabili da parte dell'amministrazione.
Sono sottratti all'imposizione solo i locali e le aree che sono oggettivamente inutilizzabili o insuscettibili di produrre rifiuti, e non quelli lasciati in concreto inutilizzati. Anche la scelta soggettiva del titolare di non usare l'immobile non assume alcuna rilevanza. La Cassazione ha ripetutamente ribadito che anche gli immobili vuoti, vale a dire privi di allacci alle reti idriche, elettriche, o di mobili, sono soggetti al prelievo.
Del resto, il principio che tutti gli immobili devono essere tassati non subisce alcuna deroga neanche nei casi in cui il servizio di raccolta dei rifiuti non venga svolto dall'amministrazione comunale o venga svolto in modo inefficiente. Anche quando vengono meno le condizioni che consentono di poter fruire del servizio, i contribuenti sono tenuti al pagamento del tributo, seppure in misura ridotta. In questi casi la tassa è dovuta in misura non superiore al 40%. Per affermare questo diritto alla riduzione non è richiesto che gli interessati debbano dimostrare una precisa responsabilità dell'amministrazione.
L'agevolazione spetta per il semplice fatto che il servizio non viene svolto secondo i criteri previsti dalla legge e dal regolamento comunale. Al riguardo la Cassazione, con l'ordinanza 22531/2017, ha giudicato infondata la decisione della commissione regionale, laddove non aveva riconosciuto il diritto del contribuente alla riduzione tariffaria poiché aveva escluso la responsabilità del comune di Napoli per il disservizio. E ha precisato che non ha alcuna rilevanza la responsabilità dell'amministrazione.
In base alla disciplina Tarsu, ma la stessa regola vale oggi per la Tari, il diritto alla riduzione sorge «per il solo fatto che il servizio di raccolta, debitamente istituito ed attivato, non venga poi concretamente svolto, ovvero venga svolto in grave difformità rispetto alle modalità regolamentari relative alle distanze e capacità dei contenitori, e alla frequenza della raccolta; così da far venir meno le condizioni di ordinaria ed agevole fruizione del servizio da parte dell'utente».
Il trattamento agevolato non è un risarcimento del danno per la mancata raccolta dei rifiuti, né costituisce una sanzione per l'amministrazione inadempiente.
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Anche l'inagibilità va documentata.
Un immobile destinato ad attività commerciale su una parte del quale vengono eseguiti lavori di ristrutturazione è soggetto integralmente al pagamento della tassa rifiuti, se il titolare non dimostri con apposita documentazione l'inagibilità dell'immobile che lo rende inutilizzabile, nonché la durata e le modalità di esecuzione dei lavori. In questo senso si è espressa la Cassazione (sentenza 8910/2018), secondo la quale è importante dimostrare «se la ristrutturazione ha interessato l'intera unità immobiliare, impedendone quindi l'utilizzazione, o solo una parte».
L'obiettiva inutilizzabilità «ricorre non già quando i locali sono stati lasciati, per una qualsiasi ragione, inutilizzati, ma quando sono in condizioni che ne impediscono l'utilizzabilità, solo in tal caso le superfici possono essere sottratte alla tassazione». Tra l'altro, poi, l'inutilizzabilità «deve essere univocamente accertabile». La contribuente, invece, «non ha prodotto documentazione comprovante l'avvenuta ristrutturazione e attestante durata e modalità di esecuzione dei lavori» (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018).

TRIBUTIAlloggi contigui, solo uno non paga l'Imu.
Con l'ordinanza 31.07.2018 n. 20368 la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, interviene sulla possibilità o meno di estendere la nozione di abitazione principale, nell'Imu, agli alloggi contigui per i quali la Corte aveva espresso parere favorevole in diverse occasioni in ambito Ici.
Ricordiamo, infatti, che con le pronunce dal 2008 al 2017, la Corte aveva ritenuto ammissibile la qualificazione di abitazione principale Ici a tutte le unità abitative contigue utilizzate dal medesimo nucleo familiare giudicando del tutto irrilevante il fatto che esse fossero censite separatamente, ovvero intestate a soggetti diversi (n. 12269/2010).
Con l'avvento dell'Imu la Corte rileva, nella pronuncia in commento, che lo scenario normativo è profondamente cambiato e, dovendo applicare il principio inderogabile di stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte in tema di Ici: Cassazione nn. 23833/2017, 3011/2017), non si può non rilevare la diversa definizione di abitazione principale dettata dall'articolo 13, comma 2, decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, e successive modifiche ed integrazioni.
In particolare la Corte si sofferma sull'inciso normativo dell'Imu, del tutto assente nell'Ici, che qualifica come abitazione principale «l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore ed il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente».
Tale nuova formulazione della definizione impedisce, di fatto, l'applicabilità all'Imu della giurisprudenza formatasi nell'Ici in riguardo alle unità immobiliari contigue che, pur diversamente accatastate, siano destinate ad essere di concreto utilizzate come abitazione principale dall'intero nucleo.
Questa prima pronuncia dei giudici ha il pregio di confermare in toto la tesi degli enti locali i quali, in presenza di unità contigue occupate dal medesimo nucleo, attribuiscono la qualifica di abitazione principale a una sola delle unità occupate, pretendendo il versamento dell'Imu ordinaria dalle altre. Resterà da verificare se siffatta tesi potrà essere assunta e ribadita dalla Corte anche nel caso in cui i contribuenti abbiano provveduto alla fusione catastale ai fini fiscali delle due o più unità contigue (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2019).
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MASSIMA
4. Il secondo motivo è invece manifestamente fondato.
Giova premettere in fatto che la presente controversia trae origine da istanza di rimborso formulata dai contribuenti sul presupposto che dovessero entrambi beneficiare dell'agevolazione prevista dall'art. 13, comma 2, del d.l. 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella l. 24.12.2011, n. 214, in relazione al fatto che essi, padre e figlia, possedessero come abitazione principale, ivi dimorandovi stabilmente ed avendo lì la propria residenza anagrafica, l'unità immobiliare di proprietà l'una dell'altro.
4.1. Osserva la Corte che il tenore letterale della norma in esame è chiaro, diversificandosi in modo evidente dalla previsione in tema di ICI in tema di agevolazione relativa al possesso di abitazione principale, oggetto di diversi interventi normativi.
L'art. 13, comma 2, del citato d.l. n. 201/2011, per quanto qui rileva, statuisce che «L'imposta municipale propria non si applica al possesso dell'abitazione principale e delle pertinenze della stessa, ad eccezione di quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 [... J. Per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore ed il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente».
Ciò comporta, per un verso, la non applicabilità della giurisprudenza della Corte formatasi in tema di ICI, riferita, peraltro, ad unità immobiliari contigue che, pur diversamente accatastate, fossero destinate ad essere in concreto utilizzate come abitazione principale del compendio nel suo complesso (cfr. Cass. sez. 5, 29.10.2008, n. 25902; Cass. sez. 5, 09.12.2009, n. 25279; Cass. sez. 5, 12.02.2010, n. 3393; Cass. sez. 6-5, ord. 03.02.2017, 3011), per altro la necessità che in riferimento alla stessa unità immobiliare tanto il possessore quanto il suo nucleo familiare dimorino ivi stabilmente e vi risiedano anagraficamente.
4.2. Ciò, d'altronde, è conforme all'orientamento costante espresso da questa Corte, in ordine alla natura di stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte, in tema di ICI, più di recente, cfr. Cass. sez. 5, 11.10.2017, n. 23833; Cass. sez. 6-5, ord. 03.02.2017, n. 3011), condiviso anche dalla Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 20.11.2017, n. 242).
4.3. D'altronde, come indiretta conferma di quanto sopra osservato, rileva anche la modifica introdotta, nel contesto del citato 13 del d.l. n. 201/2011, con l'aggiunta, ad opera dell'art. 1, comma 10, della 1. n. 208/2015, della previsione, al comma 3, del comma Oa), secondo cui, solo con decorrenza dal 01.01.2016, la base imponibile dell'imposta municipale propria è ridotta del 50% «per le unità immobiliari, fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, concesse in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado che le utilizzano come abitazione principale, a condizione che il contratto sia registrato e che il comodante possieda un solo immobile in Italia e risieda anagraficamente nonché dimori stabilmente nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in comodato [...]».

TRIBUTICabine per fototessere senza imposta.
La cabina per fare le fototessere automatiche costituisce una sorta di succursale dell'azienda; così che le affissioni sulle stesse automatiche, rappresentano l'insegna dell'azienda e hanno lo scopo di indicare il luogo dove si svolge l'attività e si può usufruire dei servizi offerti. A ciò consegue che se le affissioni rispettano il limite dimensionale di 5 mq, pur riportando dei messaggi astrattamente configurabili come «pubblicitari», non è comunque dovuto il pagamento dell'imposta comunale sulla pubblicità.

Ad affermarlo è la Ctr della Lombardia-Milano nella sentenza 26.06.2018 n. 2928/7/2018.
Il concessionario per la riscossione delle imposte per il comune Olgiate Olona (in provincia di Varese) avanzava una richiesta relativa all'imposta sulla pubblicità, diretta a una società operante nel campo della fotografia. In particolare, l'imposta veniva richiesta per i manifesti, ritenuti a scopo pubblicitario, affissi sulle cabine per le fototessere, solitamente ubicate in luoghi di transito (tipo stazioni ferroviarie o uffici pubblici).
La contribuente invocava l'esenzione di cui all'articolo 17, comma 1-bis, dl n. 507/1993, secondo cui l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali che contraddistinguono la sede in cui viene svolta l'attività, a condizione che l'affissione rispetti il limite di 5 mq.
Il collegio di primo grado aveva annullato l'atto accertativo, con decisione confermata dalla Ctr della Lombardia nella sentenza in commento: la cabina fotografica, benché renda un servizio automaticamente attivato dall'utente, costituisce una sorta di sede succursale dell'azienda e, comunque, un luogo dove è possibile fruire dei servizi resi da questa. Così che, le affissioni, a prescindere dal messaggio pubblicitario, hanno lo scopo di indicare il luogo di svolgimento dell'attività e, nei limiti dimensionali predetti, debbono considerarsi insegna esente dall'imposta sulla pubblicità.
A sostegno, si può citare l'orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui la norma invocata «non consente di introdurre distinzioni in relazione al concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell'insegna, purché la stessa, oltre a essere installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie, e ad avere la funzione di indicare il luogo di svolgimento dell'attività, si mantenga nel predetto limite dimensionale» (Cass. n. 5337/2013).
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(…) Con avviso di accertamento n. 21, anno 2015, la I. srl richiedeva alla D.A. srl il pagamento di complessivi 157,12 per impianti pubblicitari di superficie complessiva inferiore a 5 mq. posti nel territorio del comune di Olgiate Olona.
Avverso il predetto atto impositivo D. proponeva ricorso avanti la competente Commissione tributaria provinciale di Varese deducendo che tale avviso risultava errato e contrario alla normativa vigente per essere insegna di esercizio di superficie inferiore a 5 mq e come tale esclusa dall'obbligo impositivo. I giudici provinciali accoglievano il ricorso. (…)
Le affissioni sulle cabine fotografiche, all'interno delle quali è possibile fare le fototessere automatiche, rappresentano l'insegna dell'azienda e hanno lo scopo di indicare il luogo (o i luoghi succursali) ove viene in concreto svolta l'attività.
Di conseguenza se dette affissioni rispettano il limite dimensionale di 5 mq per le stesse non è dovuta alcuna imposta comunale sulla pubblicità. Vale infatti l'esenzione di cui all'articolo 17, comma 1-bis, dlgs. n. 507/1993 secondo cui l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali che contraddistinguono la sede in cui viene svolta L'attività a condizione che l'affissione rispetti il limite di 5 mq come nella fattispecie.
La cabina fotografica benché renda un servizio automaticamente attivato dall'utente costituisce una sorta di sede succursale dell'azienda e comunque un luogo dove è possibile fruire dei servizi resi da onesta. Così che le affissioni a prescindere dal messaggio pubblicitario hanno lo scopo di indicare il luogo di svolgimento dell'attività e nei limiti dimensionali predetti debbono considerarsi insegna esente dall'imposta sulla pubblicità. Tuttavia la novità delle questioni trattate l'incertezza giurisprudenziale e motivi di equità sono gravi ed eccezionali ragioni di compensazione integrale delle spese di entrambi i gradi del giudizio.
P.Q.M.
La Commissione respinge l'appello. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIRettifica catastale, motivazione specifica.
Quando l'ufficio notifica al contribuente un avviso di accertamento in rettifica dei dati sul classamento e sulla rendita catastale inizialmente presentati dallo stesso all'esito della procedura di Do.c.fa., dovrà specificatamente esporre le ragioni per cui abbia ritenuto doveroso non attenersi a quei dati, rideterminandoli. In mancanza, si imporrà l'annullamento dell'atto per carenza di motivazione.

Sono questi i chiarimenti che si leggono nella sentenza 21.06.2018 n. 375/02/2018 della Ctp di Brescia.
Nel caso di specie aveva proposto ricorso contro un avviso di classamento e rettifica della rendita catastale su un immobile sito nel comune di Lonato del Garda, una associazione impegnata nel campo delle attività religiose e di assistenza disabili. Questa, in precedenza, aveva già rappresentato al competente ufficio delle Entrate un classamento e una rendita proprie, a seguito di presentazione della dichiarazione attraverso l'ordinaria procedura Do.c.fa.
Su tali dati, quindi, interveniva l'accertamento dell'ufficio bresciano, il quale li rideterminava, attribuendo diversa categoria e diversa rendita. Tra i motivi di ricorso esaminati dalla Commissione, merita particolare attenzione quello sollevato in ordine al difetto di motivazione dell'atto impugnato, ritenendo la ricorrente che, dallo stesso, non si evinceva alcuna ragione a fronte della quale l'ufficio avesse ritenuto non attendibili i dati riportati con la denuncia originariamente presentata.
Sul punto, i giudici di Brescia osservavano che l'accertamento catastale in esame, al pari di ogni altro atto emesso dall'amministrazione finanziaria, deve rispettare i canoni motivazionali prescritti dall'art. 7 della legge n. 212/2000, rendendosi pertanto necessario che con lo stesso l'ufficio, nell'illustrare presupposti di fatto e ragioni di diritto della pretesa, prenda posizione anche su quei motivi a fronte dei quali abbia deciso di disattendere le risultanze di rendita e classamento offerte in prima battuta dalla contribuente.
Nel caso di specie, tale ulteriore aspetto motivazionale non era ravvisabile nell'atto, motivato superficialmente e dal quale, quindi, la Commissione non riteneva possibile rilevare le ragioni della diversa qualificazione operata dall'ufficio, il quale, certamente, non poteva a quel punto più addurre le stesse in fase contenziosa (in tal senso anche Cass. n. 5580/2015). La Ctp, quindi, constatato l'effettivo difetto motivazionale e tenuto conto dell'impossibilità di integrazione dello stesso in sede di giudizio, decideva di annullare l'accertamento impugnato dall'associazione.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Con il richiamato avviso l'Ufficio, a fronte della prodotta rendita proposta, dall'Associazione a mezzo di procedura Do.c.fa. all'esito di una ristrutturazione con la quale indicava il classamento in categoria B/l, classe 1 con R.C. di 2.244,00, accertava in luogo di questi, una diversa categoria con associata altrettanta diversa rendita ( ) Avverso il descritto atto, l'Associazione i R. in persona del suo presidente C. E. ( ) proponeva tempestivo ricorso ( ).
L'accertamento catastale, come ogni atto emesso dalla Pubblica amministrazione deve avere i requisiti previsti dall'art. 7 della legge n. 212/2000 in virtù del quale devono essere indicati i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la emissione del provvedimento.
In particolare sull'accertamento, a natura e contenuto catastale, derivato dalla procedura Do.c.fa., la Suprema corte di cassazione, con ordinanza 20.06.2013, n. 15495 che richiama altre pronunce quanto al principio in diritto ivi contenuto, ha evidenziato come la specificità della procedura, che ha un avvio eminentemente officioso, è connotata da peculiari profili che richiedono, nel momento terminale della procedura (l'accertamento), un dettagliato e motivato provvedimento da parte dell'Ufficio in termini concreti e non meramente enunciativi se si vuole disattendere l'anteriore formulata proposta. ( )
Dalla lettura della motivazione dell'avviso di accertamento impugnato emerge che l'Ufficio ha attribuito all'immobile di proprietà dell'Ente la categoria catastale D/8 con questa motivazione: «Considerate le caratteristiche dell'immobile, proprie delle categorie speciali ( ), si attribuisce la cat. D8. Il classamento è avvenuto a seguito di stima diretta». Soggiunge, la motivazione, che il costo del fabbricato è stato conteggiato con riferimento a richiami di prassi reperibili sul sito dell'Agenzia oltre alla determinazione del costo secondo diversa configurazione.
Tuttavia, dalla telegrafica motivazione non si ricavano le ragioni in virtù delle quali l'ufficio disattende la proposta (Do.c.fa.) formulata dalla ricorrente e per tale motivo non ha messo in condizioni la difesa, e questa Commissione, di comprendere la ragioni di una diversa qualificazione che non può essere esplicitata nel corso del giudizio.
In tale senso la Suprema Corte di cassazione, oltre agli arresti richiamati, con sentenza Sez. VI - 5, 19.03.2015, n. 5580 ha ribadito che la motivazione deve mettere «in chiaro» le ragioni che hanno indotto l'Amministrazione a respingere il contenuto della Do.c.fa. e non è possibile la sua integrazione successiva. Per questo motivo l'accertamento deve essere annullato.( ) (articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2018).

TRIBUTIRettifica catastale, obbligo di motivazione.
Gli avvisi di accertamento in rettifica della rendita catastale non si sottraggono al rispetto dell'obbligo di motivazione sancito dall'art. 7 della legge n. 212 del 27.07.2000. Tale norma dello Statuto dei diritti del contribuente impone, pertanto, la necessaria indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione anche con riguardo alle attribuzioni di una nuova rendita.

È il principio che si ricava dalla sentenza 18.06.2018 n. 341/1/2018 emessa dalla I Sez. della Ctp di Bergamo.
Nel caso di specie il ricorso si prestava all'accoglimento in quanto era facilmente rilevabile dai giudici la carenza motivazionale che traspariva dall'accertamento impugnato. La Ctp bergamasca osservava infatti che l'atto in esame non poteva dirsi validamente motivato esclusivamente attraverso un generico richiamo al decreto ministeriale senza che si offrisse al contribuente la descrizione esatta, applicata al caso concreto, dei metodi di accertamento utilizzati per le rettifiche. La mera indicazione della categoria, della classe e della rendita non è sufficiente all'idonea motivazione dell'atto, nemmeno rispetto al metodo comparativo utilizzato avente a oggetto fabbricati similari.
Anche la Cassazione (ex multis Cass. ord. n. 2357 del 03/02/2014) si è dimostrata contraria agli accertamenti catastali «indiscriminati» affermando che quando procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classamento, l'Agenzia deve specificare se esso sia dovuto a trasformazioni specifiche subite dalla unità immobiliare in questione oppure a una risistemazione dei parametri relativi alla microzona, in cui si colloca l'unità immobiliare, occorrendo indicare le trasformazioni edilizie intervenute nonché l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano; rendendo così possibile la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del contribuente.
Dalla motivazione dell'atto devono emergere le modalità di rilevazione dei valori medi, gli atti di trasferimento monitorati e rilevati, la metodologia e la bontà dei sistemi di rilevazione, la specifica menzione dei rapporti e del relativo scostamento, in mancanza siamo in presenza di una totale carenza di motivazione e quindi nullità dell'atto per violazione dell'art. 7, legge n. 212/2000. In definitiva, un accertamento catastale non poteva che essere annullato per difetto di motivazione, non idonea a garantire al contribuente la possibilità di spiegare un'adeguata difesa.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Il ricorso merita accoglimento. Deve, invero, essere solo evidenziato che l'Ufficio resistente non ha neppure formalmente rispettato il disposto di cui ali' art. 7 della legge 27.07.2000, n. 212, nella parte in cui impone alla Amministrazione Finanziaria la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell'amministrazione.
Nulla di tutto ciò, infatti, risulta dall'avviso di accertamento impugnato, in cui il semplice richiamo astratto al decreto ministeriale che detta i criteri applicativi dell'accertamento, ha la pretesa di sostituire la concreta metodologia operativa, che avrebbe dovuto essere offerta alla ricorrente.
Per modo che, in definitiva, lungi dal rendere edotta quest'ultima sul metodo di stima, sui fabbricati in comparazione aventi natura analoga e sulla loro ubicazione, l'Ufficio ha semplicemente indicato (seconda pagina dell'avviso) una categoria, una classe e una rendita che ha la pretesa di ritenere sufficienti per esporre i motivi dell'azione accertatrice. Ha, in definitiva, così emesso un avviso nullo in quanto, all'evidenza, lo stesso non ha messo in condizione la ricorrente di difendersi sul punto. Ex art. 15 dlgs 546/1992, alla soccombenza segue la condanna alle spese in favore della ricorrente, nella misura indicata nel dispositivo.
P.Q.M.
visti gli artt. 15 e 35, dlgs 546/1992 dichiara la nullità dell'avviso di accertamento e, per l'effetto, condanna l'Amministrazione Finanziaria a rifondere alla ricorrente le spese di giudizio, che si liquidano in euro duemilacinquecento (2.500), oltre agli accessori di legge (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018).

TRIBUTI: La bolletta giustifica l'agevolazione Ici.
In tema di agevolazioni Ici per l'abitazione principale, la mancanza del requisito formale della residenza può essere superato mediante una convincente prova fattuale, volta a dimostrare che l'immobile viene effettivamente utilizzato come dimora abituale; in tal senso, le utenze e i consumi di energia elettrica e gas, incompatibili con una prospettiva di utilizzo secondario dell'abitazione, possono risultare utili per la conferma del beneficio fiscale.

È quanto accaduto nella vertenza portata in decisione dalla Ctp di Viterbo, con la sentenza 12.06.2018 n. 302/02/2018.
Un contribuente della provincia laziale aveva impugnato l'avviso di accertamento con cui gli venivano revocate le agevolazioni per l'abitazione principale, con recupero ai fini Ici. Motivo della rettifica, il mancato trasferimento della residenza nell'immobile indicato come prima casa.
Nel corso del giudizio, il contribuente sosteneva di abitare effettivamente in quell'immobile, confermando la circostanza mediante l'allegazione di copiosa documentazione.
Il collegio di Viterbo ha dapprima ricordato come, in materia di Ici, la residenza anagrafica rivesta un valore presuntivo circa il luogo di residenza effettivo e che la stessa possa essere superata da una prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, il cui apprezzamento è riservato alla valutazione del giudice di merito. Il principio è stato affermato diverse volte dalla giurisprudenza di legittimità, con pronunce citate nella motivazione della sentenza in commento.
A tal proposito la Ctp ha analizzato le bollette per la fornitura di energia elettrica, apprezzandole sotto un profilo quantitativo da cui si può reputare incompatibile il consumo con l'ipotesi che l'abitazione non sia una dimora abituale, bensì soltanto secondaria. Analogo ragionamento è stato fatto in ordine alla fornitura di gas relativa alla medesima abitazione.
Queste ragioni fattuali hanno indotto il giudice tributario ad accogliere il ricorso del contribuente, pur in mancanza della residenza anagrafica, che il contribuente aveva provveduto comunque a trasferire, sebbene in anni successivi rispetto a quello oggetto del recupero fiscale.
All'annullamento dell'atto impositivo, tuttavia, non è seguita la condanna alle spese, che il collegio ha ritenuto di poter compensare tra le parti.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(…) In particolare, il comune di Viterbo emetteva l'avviso di accertamento oggetto della impugnazione poiché, a seguito di verifiche eseguite dall'Ufficio tributario, era emerso che la parte ricorrente non aveva provveduto al versamento dell'imposta con riferimento all'immobile identificato (…) per i mesi precedenti alla data in cui il soggetto vi aveva stabilito la residenza anagrafica. Deduce il ricorrente la illegittimità dell'atto impugnato per violazione di legge sotto il profilo del mancato riconoscimento del beneficio della utilizzazione dell'immobile quale abitazione principale. (…)
Il ricorso è fondato. Osserva il Collegio come la disciplina normativa in materia, art. 8, 1 comma 2, dlgs 30.12.1992, n. 504, dispone che: «Dalla imposta dovuta per l'unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo intendendosi per tale salvo prova contraria quella di residenza anagrafica si detraggono fino a concorrenza del suo ammontare L. 200.000 rapportate al periodo dell'anno durante il quale si protrae tale destinazione; (...). Per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente che la possiede a titolo di proprietà usufrutto o altro diritto reale e i suoi familiari dimorano abitualmente».
(…) La Suprema corte, tuttavia, è orientata verso una impostazione sostanziale, ritenendo che: «In tema di Ici l'agevolazione prevista dall'art. 8 del dlgs n. 504 del 1992 per l'immobile adibito ad abitazione principale non può essere negata a causa dell'omessa indicazione dell'abitazione principale nella dichiarazione effettuata ai sensi dell'art. 11 del dlgs n. 504 del 1992, né per la divergenza tra il luogo indicato e la residenza anagrafica del contribuente, in quanto la dichiarazione, quale manifestazione di scienza, può essere liberamente modifìcata dal contribuente in qualunque momento, anche in sede processuale, mentre le risultanze anagrafiche rivestono un valore presuntivo e possono essere superate da prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento e suscettibile di apprezzamento riservato alla valutazione del giudice di merito» (Cass. civ., sez. V, 28.05.2010, n. 13151). (…)
Rileva il Collegio che dalla documentazione depositata in atti e, in particolare, dalle bollette per la fornitura di energia elettrica (…) e dal contratto di fornitura del gas presso l'immobile in oggetto a dar fata dal dicembre 2010 si evince in maniera chiara che l'odierno ricorrente aveva provveduto a stabilire la propria dimora abituale nell'immobile in oggetto ben prima della modifica formale della propria residenza, avvenuta in data 27.06.2011. Sotto tale profilo, dunque, il ricorso deve trovare accoglimento e, per l'effetto, deve essere annullato l'avviso di accertamento impugnato. (…) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2018).

SICUREZZA LAVORODocumento di valutazione dei rischi non delegabile.
La redazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr) è compito specifico del datore di lavoro e in quanto tale insuscettibile di formare oggetto di delega.

Così si è espressa la Corte di Cassazione - Sez. IV penale (sentenza 14.06.2017 n. 29731).
La vicenda riguardava una società ritenuta responsabile, prima dal Tribunale e successivamente dalla Corte d'appello, del reato di lesioni colpose (art. 590 cod. pen.) in danno di un lavoratore vittima di un infortunio mentre era intento alle operazioni di sostituzione del tappeto della macchina rotativa. La condotta del lavoratore consentiva alla società una riduzione dei costi lavorazione e, conseguentemente, maggiori utili rispetto a quelli realizzabili attraverso il rispetto della normativa antinfortunistica.
Da ciò ne era discesa la colpa d'organizzazione della società consistita nella mancata adozione, in relazione alla specifica ipotesi delittuosa in esame, di un modello organizzativo e gestionale nonché nella mancata assicurazione di un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici previsti dalla normativa in materia di salute e sicurezza.
Al riguardo i giudici di legittimità, rigettando il ricorso presentato dalla società, avevano confermato quanto statuito in primo e secondo grado rilevando che, nel caso di specie, il documento di valutazione rischi, la cui redazione è compito specifico del datore di lavoro e in quanto tale insuscettibile di formare oggetto di delega, era stato stilato in maniera incompleta.
Gli ermellini avevano ritenuto che proprio dalla suddetta lacuna era susseguito l'infortunio del lavoratore rispetto al quale la società era responsabile ai sensi dell'art. 590 c.p.
In particolare, la società aveva omesso di valutare adeguatamente i rischi specifici per l'incolumità dei lavoratori insiti nelle attrezzature per il sollevamento presenti in azienda e di predisporre misure di prevenzione e protezione idonee a evitarne la concretizzazione, nonché procedure per l'attuazione delle stesse ed adeguata formazione, informazione ed addestramento del personale addetto. Inoltre aveva omesso di valutare il rischio derivante dalle operazioni di manutenzione in generale, così trascurando completamente quelle di sostituzione del tappeto della macchina rotativa.
Ma non solo: il mancato rispetto della normativa antinfortunistica, dalla quale ne è conseguito un vantaggio per la società derivante dal risparmio di tempo, fonda la responsabilità amministrativa da reato di cui all'art. 5 del dlgs 231/2001.
Si ricorda che il predetto articolo ritiene l'ente responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
   • da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
   • da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti appena menzionati (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2019).

TRIBUTI: A fini fiscali è decisivo l'accatastamento.
Le imposte locali sui fabbricati sono dovute dal momento in cui vengono accatastati. È decisivo l'accatastamento dei fabbricati ai fini fiscali. Sono soggetti al pagamento di Ici, Imu e Tasi dal momento in cui risultano iscritti in catasto, nonostante la legge fissi come criteri alternativi per l'assoggettamento a imposizione o l'ultimazione dei lavori o l'utilizzazione dei fabbricati.

Questi ultimi criteri, secondo la Corte di Cassazione - Sez. V civile (sentenza 16.12.2016 n. 26054), assumono rilievo solo nel caso in cui il fabbricato di nuova costruzione non sia ancora iscritto in catasto. Per i giudici di legittimità, ai fini dell'assoggettabilità a imposta di fabbricati di nuova costruzione, il criterio alternativo previsto dalla normativa Ici, che si applica anche a Imu e Tasi, «della data di ultimazione dei lavori ovvero di quella anteriore di utilizzazione, acquista rilievo solo quando il fabbricato medesimo non sia ancora iscritto al catasto, realizzando tale iscrizione, di per sé, il presupposto principale per assoggettare il bene all'imposta».
Va ricordato che per i fabbricati iscritti in catasto il valore dell'immobile si ottiene facendo riferimento all'ammontare delle rendite vigenti al 1° gennaio dell'anno di imposizione. Tuttavia, la rendita è solo il parametro per la determinazione della base imponibile. Quindi, è opinabile l'interpretazione della Suprema corte che identifica nell'iscrizione in catasto il presupposto impositivo.
L'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992, infatti, fissa letteralmente il presupposto per il pagamento delle imposte locali nella ultimazione dei lavori del fabbricato o nel suo utilizzo, qualora preceda l'ultimazione. E non è affatto previsto che questi criteri valgano solo per gli immobili di nuova costruzione (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019).
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MASSIMA
Il motivo di ricorso principale è fondato.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello secondo cui "
In tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini dell'assoggettabilità ad imposta di fabbricati di nuova costruzione, il criterio alternativo, previsto dall'art. 2 del d.lgs. 30.12.1992, n. 504, della data di ultimazione dei lavori ovvero di quella anteriore di utilizzazione, acquista rilievo solo quando il fabbricato medesimo non sia ancora iscritto al catasto, realizzando tale iscrizione, di per sé, il presupposto principale per assoggettare il bene all'imposta" (Cass. n. 15177/2010, 8781/2015, ord. n. 5372/2009, 24924/2008).
Nella vicenda, l'immobile risulta pacificamente accatastato dal 1999 e, pertanto, da tale data risulta assoggettabile all'imposta ICI mentre, il certificato di abitabilità non attesta alcuna agibilità dello stesso, ma la sola idoneità-igienico sanitaria del manufatto atta a consentirne l'uso, che non incide, però, sulla sua esistenza (in particolare, ai fini fiscali).
Pertanto,
da una parte, l'iscrizione nel catasto edilizio dell'unità immobiliare costituisce di per sé, presupposto sufficiente perché l'unità sia considerata fabbricato e, di conseguenza, assoggettabile all'imposta prevista, laddove per i fabbricati di nuova costruzione i criteri alternativi dell'ultimazione dei lavori o di utilizzazione del fabbricato assumono rilievo solo per l'ipotesi in cui il fabbricato di  nuova costruzione non sia ancora iscritto in catasto (Cass. n. 24924/2008), mentre, d'altra parte, l'inagibilità (che consente la riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità di utilizzo dell'immobile, intesa come situazione intrinseca di degrado dello stesso, superabile con interventi di manutenzione straordinaria, e non come qualità giuridica superabile con il rilascio del  certificato di abitabilità (secondo Cass. ord. n. 5372/2009 "...il rilascio del certificato di abitabilità non costituisce presupposto per l'applicazione dell'imposta, non potendosi desumere il contrario dal tenore dell'art. 8, comma 1, del citato decreto, che si riferisce esclusivamente all'ipotesi di fabbricati dichiarati inagibili e inabitabili a seguito di perizia dell'ufficio tecnico comunale, e di fatto non utilizzati").

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